Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
IL GOVERNO
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL GOVERNO
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia d’Italia.
LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Per Nome e Cognome.
L’Unione Europea.
Il Piano Marshall.
Fondi Europei: il tafazzismo italiano.
Gli Arraffoni.
Educazione civica e disservizi.
Quello che siamo per gli stranieri.
SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Italioti antifascisti.
Italioti vacanzieri.
Italioti esploratori.
Italioti misteriosi.
Italioti giocatori d’azzardo.
Italioti truffatori.
Italiani Cafoni.
Italioti corrotti e corruttori.
Italioti ladrosi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Democrazia: La Dittatura delle minoranze.
Un popolo di Spie.
Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.
Il Capitalismo.
I Liberali.
Il Realismo.
Il Sovranismo - Nazionalismo.
I Conservatori. Cos’è la Destra? Cos’è la Sinistra?
Il Riformismo progressista.
Il Populismo.
Il solito assistenzialismo.
La Globalizzazione.
L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.
Le Politiche Economiche.
Il Finanziamento ai partiti.
Ignoranti.
I voltagabbana.
La chimera della semplificazione nel paese statalista.
Il Voto.
Mafiosi: il voto di scambio.
Il Voto dei Giovani.
Il Voto Ignorante.
Il Tecnicismo.
L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…
La Rabbia.
I Brogli.
I Referendum.
Il Draghicidio.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.
La Campagna Elettorale.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.
Le Votazioni ed il Governo.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una Costituzione fascio-catto-comunista.
Quelli che…La Prima Repubblica.
Le Presidenziali.
Storia delle presidenziali.
La Legge.
Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
I Top Manager.
I Politologi.
SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La malapianta della Spazzacorrotti.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Impuniti.
Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.
Concorso truccato nella sanità.
Concorso scuola truccato.
Concorsi ed esami truccati all’università.
Ignoranti e Magistrati.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ignoranti ed avvocati.
SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.
I Commissari…
Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.
Spreco a 5 Stelle.
Le ali italiane.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
Bancopoli.
La Nascita dell’Euro.
Il Costo del Denaro.
Il Debito. Pagherò.
ConTanti Saluti.
Il Leasing.
I Bitcoin.
I Bonus.
Evasori fiscali!
L'Ingiunzione di Pagamento.
Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.
La Telefonia.
Le furbate delle Assicurazioni.
I Ricconi alle nostre spalle.
IL GOVERNO
QUARTA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Una Costituzione fascio-catto-comunista.
Quante contraddizioni: la storia ipocrita scritta dai faziosi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 25 agosto 2022
È significativo che nel Paese in cui il giuramento antifascista costituisce un inevitabile lasciapassare di presentabilità democratica, e molto spesso per nobili consulenze e posti assicurati alla tramoggia repubblicana, nessuno dei dodici professori che rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime fascista sia considerato un padre della Patria Bella Ciao. Non uno di quelli (dodici su oltre mille) che rifiutarono di impegnarsi in quella dichiarazione di fedeltà, e dunque di apprestarsi a "formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista", figura mai negli elenchi della retorica resistenziale dell'Italia incorrotta che si opponeva alla dittatura: e anzi a illustrarne i meriti e le gesta sono tanti che il giuramento invece prestarono, o altri fervorosi del 26 Aprile già fieramente impegnati nei cimenti a difesa della razza.
Questa non casuale contraddizione denuncia meglio di tante altre, che pure contrassegnano l’improbabilità di tanto antifascismo di regime, il carattere sostanzialmente contraffattorio e ipocrita della storia scritta in piega partigiana. E la Repubblica fondata sull’antifascismo prevede la messa in dannazione di quei pochi, la cui sparuta testimonianza è meglio non sia rammentata (figurarsi onorata) perché bestemmia sulla verità falsa di un regime piovuto non si sa come né perché sulla testa di una nazione portata a manganellate a riempire le piazze cui si annunciava l’ora delle decisioni irrevocabili. Domandatea un candidato progressista con mostrina “antifa”, a un libero docente dell’Italia imbarbarita e fascisticizzata per la mancata approvazione del Ddl Zan, a un cronista democratico specializzato nel reportage da Predappio, domandategli i nomi di quei dodici. E buon divertimento.
Niccolò Zancan per “la Stampa” il 24 Agosto 2022
Adesso è chiaro: non è una mostra che può lasciare indifferenti. «Mi dispiace molto per quello che sta emergendo sull'esposizione dal titolo O Roma o morte. Un secolo dalla marcia», dice il sindaco di Predappio Roberto Canali, eletto 3 anni fa con una lista di centrodestra.
«Fin dall'inizio, l'impatto della mostra non mi convinceva. Trovo molto brutto quel manifesto e non so valutare nel merito l'allestimento. Mi dispiace per le minacce e mi dispiace anche perché non bisogna venire a Predappio con le intenzioni sbagliate.
Il fatto è che non ho margini di intervento. Quello è un luogo privato, un bar riadattato. Gli organizzatori hanno chiesto al Comune solo un cambio di destinazione d'uso. Così la mostra è qualcosa che sfugge a qualsiasi tipo di giurisdizione».
Forse è per questo che attira vecchi e nuovi fascisti, e che le pagine del registro delle presenze sono piene di parole che inneggiano al Duce. Prende le distanze il sindaco di Predappio. Prende le distanze uno dei nomi più importanti che stanno nel manifesto pubblicitario. «Il simbolo di San Patrignano non doveva essere su quel cartellone, avevamo diffidato gli organizzatori dall'usarlo» spiega Giorgia Gianni, responsabile delle relazioni esterne. Invece il nome è rimasto. All'ingresso della mostra e su tutti i volantini. «Non lo sapevamo. Informeremo il nostro ufficio legale».
E se gli organizzatori della mostra sul fascismo, il professor Franco D'Emilio e l'avvocato Francesco Minutillo, già fascista dichiarato a sua volta, sostengono di aver ricevuto diversi inviti in giro per l'Italia, ecco una pioggia di smentite. «L'Università la Sapienza di Roma non ha in programma di ospitare la mostra, iniziativa di cui l'Ateneo non è a conoscenza». Così come non ne vuole sapere lo storico direttamente chiamato in causa dagli organizzatori, il professor Giuseppe Parlato: «Smentisco nettamente qualsiasi mio coinvolgimento».
A questo punto resta da domandare ai due organizzatori il perché di questa "appropriazione indebita". Risponde D'Emilio: «Mi stupisce la presa di posizione di San Patrignano, perché ero presente durante i colloqui per il patrocinio. E il fatto che finora non abbiamo mai adito a vie legali è significativo». Ma come avete potuto chiamare in causa addirittura La Sapienza e un professore di Storia? «La proposta ci è stata sottoposta da un commercialista romano di nome Marchetti, in stretto contatto con la fondazione Ugo Spirito, il cui presidente è». Non sarà facile portare in giro per l'Italia la mostra della vergogna.
Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2022.
Con il taglio dei parlamentari il 25 settembre cambierà la storia della politica italiana. Ma quella che rappresenta a tutti gli effetti una svolta epocale non sarebbe che una «riforma per caso». Almeno, stando al racconto di un autorevole ministro, presente anche ai tempi del Conte due e testimone di un episodio che cambia radicalmente la narrazione sull'epopea giallorossa e sul provvedimento bandiera del grillismo.
Il ministro ricorda come a metà di ottobre del 2019, dopo che il Parlamento aveva definitivamente approvato la riforma, al termine di una riunione di governo si fermò a parlare con l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Fraccaro: «Che errore avete fatto», gli disse riferendosi alla riduzione dei parlamentari. E il grillino rispose a bruciapelo: «Ma chi poteva immaginare che il Pd l'avrebbe fatto passare così».
È vero, in estate il «taglio» era stato il cuore dell'intesa tra il Movimento e i Democratici per formare un governo e sbarrare la strada delle urne a Salvini. Ma tutto lasciava supporre che - prima dell'ultimo passaggio della riforma in Parlamento - i dem avrebbero chiesto il varo dei correttivi necessari a garantire la tenuta del sistema: dalla modifica dei regolamenti per Camera e Senato fino alla legge elettorale proporzionale.
Insomma, si sarebbe andati per le lunghe. E se non si fosse arrivati alla fine del percorso, i dirigenti di M5S - come riconosce oggi uno di loro - già ipotizzavano di sventolare quella bandiera nella successiva campagna elettorale, «un po' come la sinistra aveva fatto per vent' anni con il conflitto d'interessi contro Berlusconi».
Invece no. Il Pd, che per tre volte aveva votato contro la riforma, alla quarta cambiò posizione. Non senza mal di pancia interni. In pochi in Parlamento si opposero a quella «mutilazione della Costituzione», come disse al Senato Bonino, allora anche a nome di Azione. Sarà stato per il fatto che all'epoca Conte era considerato il «punto di riferimento» del progressismo, ma nel Pd fu il solo Guerini - durante un dibattito politico in una riunione di governo - ad esprimere il suo dissenso.
Certo in quella sede non si segnalò in suo sostegno il ministro del Sud Provenzano, compagno di partito, che l'altro giorno in un'intervista al Corriere ha di fatto sottolineato gli effetti negativi della riforma. Il titolare della Difesa invece rese pubblica la sua posizione nell'estate del 2020, quando si avvicinava il referendum ma dei «correttivi costituzionali» e della proporzionale non c'era traccia: «Non c'è una nuova legge elettorale, non c'è un nuovo sistema bicamerale. Così com' è questa è solo una concessione alla demagogia».
Il 21 settembre però la «demagogia» stravinse con il 70% di «sì»: all'epoca i tardivi ripensamenti di Berlusconi e Renzi, che condannarono la «riduzione della democrazia in Parlamento», furono sommersi dal coro (quasi) unanime a favore di una riforma che - per dirla con Di Maio - avrebbe fatto «risparmiare soldi» e garantito «leggi scritte meglio».
Da allora sono passati due anni e due governi, ma le modifiche sono rimaste come le opere pubbliche: incompiute. La riforma dei regolamenti parlamentari è stata varata solo a Palazzo Madama, con rischi elevatissimi nella prossima legislatura per l'iter dei provvedimenti e per la stessa vita del futuro governo.
Non è stata ridotta la quota dei delegati regionali per l'elezione del presidente della Repubblica, indispensabile per compensare il taglio di deputati e senatori. Non è stato modificato il conteggio su base regionale dei voti per l'elezione alla Camera Alta. E non è stata cambiata la legge elettorale, perché quando Letta sostituì Zingaretti al Nazareno accettò l'invito della «orbániana» Meloni ad Atreju e lì affossò il proporzionale per rilanciare il Mattarellum.
Così la riforma nata per «caso» affida ora al caso la tenuta del sistema, tra il silenzio di chi avrebbe potuto far sentire la propria voce e l'ammissione di colpa di alcuni dirigenti democrat, consapevoli che il «taglio» era stata solo una folgorazione sulla via di Palazzo Chigi: «Siamo un partito di atei praticanti». Ai quali verrà più complicato intestarsi la battaglia per difendere la «Costituzione più bella del mondo» dagli attacchi della destra. «Perché finora è stata la sinistra a cambiare la Carta. E lo ha fatto sempre in peggio», ha detto il costituzionalista Celotto presentando il suo romanzo Fondata sul lavoro: «Prima modificò il Titolo V per inseguire i leghisti.
Ora lo ha fatto con il taglio dei parlamentari per inseguire i grillini». «Lo avete fatto voi», ha detto Letta ai compagni di partito dopo lo scontro sulle liste. Vuol dire che il segretario del Pd è contrario alla riforma?
Com'è cambiato il ruolo del Quirinale. Da Pertini a Mattarella, il presidenzialismo di fatto del Quirinale. David Romoli su Il Riformista il 16 Novembre 2022
Forse non era possibile ricorrere a nessun altro espediente per evitare che la crisi tra Italia e Francia si avvitasse sino a raggiungere il punto di non ritorno ma la formula adottata dai presidenti Mattarella e Macron non è affatto insignificante o effimera. Il capo del governo italiano è stato bypassato dal presidente della Repubblica che ha svolto un vero e proprio ruolo di supplenza arrogando a sé, almeno sul piano della diplomazia, prerogative proprie del governo, del premier e del ministro degli Esteri. È un passo ulteriore su un sentiero imboccato molti decenni fa, prima con passi piccolissimi poi sempre più decisamente, sino a creare una sorta di presidenzialismo non dichiarato ma effettivo.
Quando sono cambiate le cose? Quando è iniziato a mutare strutturalmente pur se mai formalmente il ruolo del Colle? Forse con Sandro Pertini, capo dello Stato dal luglio 1978 al giugno 1985, il presidente socialista ed ex partigiano che non la mandava a dire, esprimeva critiche corrosive nei confronti della politica dei governi, come nel caso del terremoto in Irpinia del 1980. Prima di lui gli inquilini del Quirinale non erano stati, come da leggenda, privi di ogni potere. In compenso avevano fatto il possibile per sembrarlo, mantenendo il profilo basso, sforzandosi di apparire anonimi. Pertini rovesciò quella logica. Fu presenzialista e mattatore sino a incarnare agli occhi degli italiani un “contropotere” che fustigava il malcostume del potere politico. Pertini, il primo presidente protagonista, fu eletto pochi mesi dopo quell’uccisione di Moro che segnò l’inizio della fine per la prima Repubblica ed è difficile pensare che tra l’avvio del declino dei partiti e l’ascesa del Quirinale negli equilibri istituzionali non ci sia una correlazione diretta.
Dopo Pertini, Francesco Cossiga per cinque anni sembrò tornare all’abituale invisibilità propria dei presidenti del passato: grigio e anonimo, quasi burocratico. Poi qualcosa cambiò e Cossiga impugnò il piccone. Se Pertini il socialista aveva sferzato, Cossiga il democristiano demolì e smantellò a colpi di denunce fragorose e gesti spettacolari. Sfruttò da maestro la visibilità che l’alto ruolo gli garantiva per delegittimare dalle fondamenta un sistema che riteneva ormai appassito. I fatti dimostrarono che non era lontano dal vero. Oscar Luigi Scalfaro, democristiano di prima ma non primissima fila, arrivò fortunosamente al Colle nel maggio 1992, imposto quasi dal trauma nazionale della strage di Capaci. Fu eletto in fretta e furia dopo un lungo stallo anche perché la sua intera biografia sembrava garantire che avrebbe rimesso le cose a posto, riportando alla “normalità” il ruolo del capo dello Stato. Probabilmente era quel che davvero intendeva fare. Le circostanze e la forza delle cose decisero diversamente. Tangentopoli, il referendum del ‘93 sulla legge elettorale che diede alla prima Repubblica l’estrema unzione, l’improvvisa e travolgente entrata in scena di Silvio Berlusconi gli assegnarono un protagonismo diretto del quale nessun presidente prima di lui aveva goduto. Pertini e Cossiga avevano rivoluzionato l’immagine del primo cittadino: Scalfaro trasformò la sostanza.
La finanziaria del 1992, forse la più importante nella storia della Repubblica, fu letteralmente scritta da lui e dal premier Giuliano Amato senza neppure consultare gli ormai agonizzanti partiti. La manovra che rovesciò il governo Berlusconi dopo appena 9 mesi dalla folgorante vittoria nelle elezioni del marzo 1994 non sarebbe stata possibile senza l’attiva complicità del presidente che si impegnò con Bossi a non sciogliere le Camere se la Lega avesse tolto la fiducia al governo, lo incontrò, dietro sua richiesta, nelle stesse stanze del Quirinale, convinse e quasi costrinse Berlusconi ad accettare un nuovo premier, Lamberto Dini, dopo la caduta del suo governo in dicembre. Dopo Scalfaro il ruolo del Quirinale non sarebbe comunque potuto tornare quello di prima, salvo che in presenza di un sistema dei partiti forte, solido, basato sulla legittimazione reciproca dei diversi schieramenti. La realtà era opposta e dopo la parentesi Ciampi, l’unico presidente vecchio stile degli ultimi decenni, Giorgio Napolitano portò il processo iniziato da Scalfaro alle estreme conseguenze. Il primo presidente ex comunista aveva già di suo una concezione estremamente interventista del ruolo istituzionale che iniziò a ricoprire nel maggio 2006. Il quadro nazionale e internazionale, la delegittimazione del governo Berlusconi dopo la nuova vittoria del 2008, la grande recessione iniziata nello stesso anno, la crisi del debito del 2011, rafforzarono le sue tendenze. Rispetto a Scalfaro, Napolitano poteva poi contare su un controllo di fatto assoluto sul partito da cui proveniva, i Ds diventati nel 2008 Pd.
Napolitano è stato un monarca costituzionale più che un presidente repubblicano. Ha imposto una guerra, quella contro la Libia, ha cambiato un governo, quello di Berlusconi sostituito con il tecnico Monti nel 2011, ha fatto muro contro ogni ipotesi di scioglimento anticipato delle camere, convincendo nel 2010 Fini a posticipare di un mese il voto sulla sua mozione di sfiducia contro Berlusconi e dando così allo stesso Cavaliere il tempo di acquisire i voti necessari per resistere, ha condizionato a fondo le alleanze del Pd, è stato il primo presidente rieletto nella storia italiana e in cambio della sua disponibilità a non lasciare il Colle al termine del mandato, nel 2013, ha imposto la nascita di un governo sostenuto sia dal Pd che da Forza Italia. Re Giorgio.
Sergio Mattarella, animato da un’idea da un’idea opposta del ruolo istituzionale del Quirinale, avrebbe probabilmente voluto tornare a uno stile più sobrio, molto meno interventista. Non c’è riuscito e non poteva riuscirsi in una democrazia parlamentare che è ormai tale solo di nome, con un sistema dei partiti devastato e in ginocchio, nel cuore di una conclamata crisi di sistema. Napolitano era stato re e presidente volendolo essere, Mattarella lo è senza volerlo ma anche senza poterlo evitare. La rielezione di Napolitano, comunque rimasto in carica solo per due anni nel secondo mandato, poteva ancora essere un’eccezione. Quella di Mattarella nel 2022 ha il sapore di una nuova norma. In un quadro simile non ha molto senso chiedersi se la supplenza esercitata da Mattarella per risolvere una crisi minacciosa con la Francia è stata o no una forzatura. Converrebbe prendere atto di una trasformazione che si è operata nel tempo persino contro le intenzioni di quelli che la hanno veicolata, come nei casi di Scalfaro o dello stesso Mattarella, e decidersi a farne un assetto istituzionale ordinato, invece di restare in quella che è oggi una terra di nessuno. David Romoli
Il confuso dibattito sulle riforme. Presidenzialismo, come funziona il modello francese: la flessibilità e il governo di minoranza. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 26 Agosto 2022
Dopo la generica proposta presente nella bozza di programma del centro destra di “Elezione diretta del Presidente della Repubblica”, il che implica una modifica importante della forma di governo parlamentare in vigore in Italia dal 1948, si è aperto sui giornali un utile dibattito a questo proposito. Con il termine presidenzialismo s’intendono in realtà regimi politici molto diversi fra di loro. Non basta, tanto per cominciare, l’elezione diretta del presidente della Repubblica da parte dei cittadini per qualificare una forma di governo come presidenziale e la confusione introdotta nel linguaggio costituzionale dal termine semipresidenzialismo non aiuta a capire con chiarezza di cosa si sta parlando.
Uno sguardo all’esperienza francese può aiutare probabilmente ad arricchire la discussione che si è aperta, accanto alle utili osservazioni che sono state già presentate sul tema in generale da Gustavo Zagrebelsky, Sabino Cassese e Luciano Violante. Le note che seguono non sono di per sé una difesa della importazione di un modello che si è affermato in un paese con una storia politica molto diversa dalla nostra. I trasferimenti di istituzioni non sono facili, ma nemmeno impossibili, per essi vale la precauzione, handle with care! Come conseguenza delle elezioni legislative dello scorso giugno, il sistema politico-costituzionale francese si è trovato in una situazione inabituale. Ensemble, cioè l’insieme delle forze politiche vicine a Emmanuel Macron, rieletto per la seconda volta in aprile alla presidenza della Repubblica, non ha ottenuto, come sperava, la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale, ma solo quella relativa, una condizione che rende difficile l’attività legislativa, in un paese che per la sua struttura per certi versi presidenziale e per la sua legge elettorale non è abituato ai governi di coalizione e ai compromessi fra partiti dopo le elezioni.
Si tratta di un caso con un solo precedente, ovvero il governo del socialista Michel Rocard che nel 1988 non poté appoggiarsi su una maggioranza assoluta, alla quale mancavano 14 voti. Spesso, però, il presidente francese ha potuto godere di una maggioranza piena a suo favore in seno all’Assemblée nationale, il fondamentale organo legislativo, nei confronti del quale il Senato non può esercitare un diritto di veto. In caso di coabitazione, che si è prodotta in tre occasioni in passato (fra il 1986 e il 2002), quando il presidente ed il primo ministro erano espressione di opposte maggioranze, quella dell’Assemblea era diretta dal primo ministro, il che riconduceva fino ad un certo punto la forma di governo a quella di tipo parlamentare. Le tre diverse versioni dell’ordinamento politico e della forma di governo francese appena considerate si spiegano con la natura e la storia della costituzione della 5a Repubblica.
Il testo originario del 1958– nonostante l’ostilità di Charles De Gaulle su questo punto – presentava una struttura parlamentare, razionalizzata rispetto al parlamentarismo debole e instabile della 4a repubblica. Si potrebbe dire che Michel Debré diede realizzazione alle attese dell’ordine del giorno di Perassi del 4 settembre 1946, da noi mai soddisfatte. Struttura parlamentare, dicevamo, poiché il presidente della costituzione francese del 1958 non era eletto dai cittadini, ma, indirettamente, da 82000 grandi elettori (cioè i parlamentari, i consiglieri regionali e quelli municipali: basti pensare del resto che la Francia conta su 36mila comuni). È solo con il referendum popolare, di dubbia legalità costituzionale, voluto da De Gaulle nel 1962 che è nata quella forma di governo nota con l’espressione ambigua di semi-presidenzialismo.
In realtà si trattava di un ordinamento che poteva e ha assunto in diverse occasioni per lo più due forme: quella in cui il capo dello Stato eletto direttamente era di fatto il capo dell’esecutivo, nonostante la presenza di un primo ministro da lui scelto e da lui sostituibile, o, alternativamente, quella – che va, come ricordato, sotto il nome di coabitazione – in cui il primo ministro, espressione di una maggioranza diversa da quella che aveva eletto il presidente della Repubblica, era in realtà il capo del governo, responsabile solo dinanzi alla sua maggioranza, mentre il presidente – in base ad una convenzione costituzionale – aveva una specie di quasi monopolio della politica estera. La cosiddetta coabitazione era resa possibile dalla circostanza che mentre il mandato presidenziale era di sette anni quello dei membri dell’Assemblea era di cinque.
Esisteva, dunque, la possibilità che la maggioranza del corpo elettorale cambiasse opinione nel lasso di tempo che separava le elezioni presidenziali da quelle legislative o dopo uno scioglimento della Assemblea da parte del presidente. Fu proprio per evitare il ripetersi di coabitazioni, che limitavano di fatto decisamente i poteri del presidente, che Chirac promosse nel 2000 la riforma costituzionale che ha ridotto a cinque anni il mandato presidenziale e poi, nel 2002, accorpato le elezioni presidenziali e le legislative, che hanno ormai luogo subito dopo quelle del presidente della Repubblica. Si poteva contare, grazie al nuovo calendario elettorale, su un effetto di trascinamento che doveva garantire alla maggioranza del presidente eletto il controllo dell’assemblea e la nomina di un primo ministro politicamente vicino e in certa misura subordinato al presidente. Così è accaduto infatti in tutte le elezioni dopo il 2002.
Fino al giugno scorso, quando i risultati elettorali hanno prodotto una assemblea divisa per l’essenziale in tre parti: la destra nazionalista di Marine Le Pen, che era stata sconfitta alle presidenziali, ma il cui partito, il Rassemblement national ha conquistato ben 89 seggi, la coalizione delle sinistre radicali (Nupes) fondata da Jean-Luc Mélenchon, 151 seggi e la coalizione macronista 250, lontana dai 289 necessari per ottenere una maggioranza assoluta. Ma la costituzione della 5a repubblica permette oltre alla coabitazione (il governo di una assemblea di un colore diverso da quello del presidente), e al super-presidenzialismo (quando il presidente controlla l’assemblea grazie alla sua maggioranza) anche una terza versione: il governo di minoranza, nella misura in cui il primo ministro è in grado di trovare dei compromessi con i parlamentari al di là della propria maggioranza relativa.
Questa è la situazione in cui si trova ad operare il primo ministro Elisabeth Borne e il suo esecutivo, mostrando per ora una certa capacità di mediazione ed efficacia legislativa. Grazie alla presenza nell’assemblea di 62 deputati del partito post-gollista (Les Républicains), che a differenza delle ali estreme sembrano disposti a fare dei compromessi e contribuire all’attività legislativa. Il ruolo della destra repubblicana è reso più rilevante dal fatto che essa controlla tradizionalmente il Senato, che pur non eletto direttamente dai cittadini e privo di un potere di veto assoluto, ha una influenza nel processo legislativo, in particolare attraverso la proposta di emendamenti. L’assenza di una maggioranza presidenziale assoluta, e dunque un governo di minoranza con l’appoggio esterno della destra non radicale sui singoli provvedimenti di legge, sembra permettere di evitare la paralisi legislativa e il rischioso ricorso a nuove elezioni, che il presidente francese ha sempre la possibilità di indire.
Nei prossimi mesi sarà possibile valutare i progressi del governo di Elisabeth Borne che ha già ottenuto l’approvazione di un pacchetto di misure relative all’aumento del costo della vita provocato dall’inflazione. Questo sembra testimoniare la flessibilità della costituzione francese, che pure era poco abituata in passato ai compromessi fra forze politiche. Flessibilità qui nel senso di capacità di adattarsi senza rompersi a forme diverse che assume l’ordine politico in base ai risultati delle elezioni. In realtà riemerge la versione parlamentare della costituzione del 1958. In conclusione, se, come qualcuno ha proposto, si vuole imitare il modello francese, bisogna prima ben capire il prodotto di importazione.
Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino
Elezione diretta del premier? Un pasticcio che fa saltare la Costituzione. "Scegli il sindaco d’Italia": una riforma siffatta manderebbe in malora almeno tre capitoli essenziali dell’attuale modello costituzionale. Giuliano Cazzola su Il Dubbio il 26 agosto 2022.
A me la Costituzione repubblicana va bene come è, anzi come era prima delle modifiche che ha dovuto subire nel corso dei decenni, dalla sciagurata riforma del Titolo V fino alla potatura delle Camere. Sono inoltre convinto che le Carte Costituzionali vivano di vita propria – come tutte le norme – ed evolvano insieme alla storia di un paese. A questo proposito si potrebbero scrivere dei trattati su come le istituzioni del 1948 contenevano in sé ampi margini di interpretazione adeguata al trascorrere dei tempi e dei processi politici, senza per questo venir meno ai dispositivi delle norme. Infine, trovo stupido affidare ad una complessa procedura parlamentare quella maggiore efficienza del sistema che potrebbe essere risolto attraverso i regolamenti delle Camere. En passant, ritengo che la parte maggiormente datata non sia la seconda, ma la prima, in cui si avverte – specie nella Sezione dei Rapporti economici – il peso delle ideologie dei partiti di allora, tanto che nessuno degli attuali, riscriverebbe adesso quelle stesse norme come allora. La questione della riforma costituzionale è entrata nel dibattito elettorale e pertanto merita qualche commento, anche da parte di chi non la ritiene necessaria, se non per correggere, tutt’al più, i vulnus che la Carta ha dovuto subire.
Preliminarmente occorre mettere qualche puntino sulle ‘’ i’’. Innanzi tutto va chiarito che il centrodestra non propone il ‘’presidenzialismo’’, ma l’elezione diretta a suffragio universale del Capo dello Stato. Si tratta di modelli istituzionali radicalmente diversi, almeno sul piano teorico. In un regime presidenzialista, il presidente è eletto ed è contemporaneamente capo dello Stato e dell’ Amministrazione, in una logica accentuata di divisione dei poteri. Nel caso classico degli Usa, si accompagna con il federalismo, come diretta ispirazione dei grandi costituzionalisti del Secolo dei Lumi. Invece, l’elezione diretta del Capo dello Stato è assolutamente compatibile nel contesto di un regime parlamentare. L’elezione popolare diretta del Capo dello Stato è` presente nella grande maggioranza dei Paesi europei: Austria, Irlanda, Islanda, Portogallo, Finlandia, Francia (sia pure con la caratteristica del semi- presidenzialismo), senza contare i nuovi Stati dell’Europa centro- orientale come Polonia, Romania, Bulgaria ed altri. Laddove questo tipo di elezione non è contemplata di solito vige un regime monarchico. Ma c’è di più. Se si aprissero gli armadi di tanti partiti si troverebbero gli scheletri dell’elezione diretta del capo dello Stato, ivi rinchiusi in diverse stagioni politiche. E’ appena il caso di ricordare che nel testo di legge costituzionale presentato il 4 novembre 1997 dalla Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema – il punto più alto a cui arrivò l’intesa tra i partiti – era prevista l’elezione popolare diretta a suffragio universale – eventualmente su due turni – del Capo dello Stato. Relatore sul punto fu Cesare Salvi, il quale scrisse: “Si può dunque, affermare che l’elezione diretta del Capo dello Stato è il sistema più diffuso in Europa, e che non ha dato luogo a degenerazioni plebiscitarie o a pericoli per la tenuta democratica del sistema istituzionale. Non si comprende dunque perché solo l’Italia, e con essa il popolo italiano, dovrebbe fuoriuscire dal quadro europeo dominante; né credo si possa dire che l’elettorato italiano, in cinquant’anni di elezioni politiche e di referendum, abbia mai dato prova di comportamenti irrazionali o si sia mostrato facile preda di suggestioni demagogiche”.
Non parliamo poi dell’altro punto che fa parte del compromesso raggiunto all’interno della coalizione di centrodestra: l’autonomia delle Regioni. Il dibattito sul federalismo ha attraversato intere legislature (l’unica riforma in tal senso è attribuibile all’iniziativa solitaria del centrosinistra) con tutti i maggiori partiti tentati da un’operazione che intendeva spartirsi i consensi raccolti dalle Lega nel Nord del Paese. La richiesta dell’autonomia differenziata fu sostenuta anche dall’Emilia Romagna. Trovo invece inaccettabile – nonostante le mie simpatie per il Terzo Polo – la proposta della elezione diretta del premier. E’ il recupero di una vecchia idea di Mario Segni – uno dei più grandi sopravvalutati della storia contemporanea – che si riassumeva nella seguente formula. “Scegli il sindaco d’Italia’”. Una riforma siffatta manderebbe in malora almeno tre capitoli essenziali dell’attuale modello costituzionale: il Parlamento, il governo e il presidente della Repubblica. Infatti nessuno può pensare che l’operazione potrebbe limitarsi ad eleggere un “pinco pallino” che poi deve andare a cercarsi una maggioranza. Il modello del premierato, su cui si basa l’elezione del sindaco e dei presidenti delle Regioni, pone in ruolo secondario l’assemblea elettiva la cui composizione è condizionata dall’esigenza di assicurare una maggioranza all’eletto la cui vitalità è alla mercé (nel senso del classico simul stabunt, simul cadent’) del capo dell’esecutivo il quale peraltro dispone a sua discrezione della nomina dei titolari delle cariche di governo. Non esiste – che io sappia – in nessun angolo del pianeta una Repubblica delle banane che organizzi in questo modo le sue istituzioni, subordinando il potere legislativo al governo. Se questa fosse la soluzione, tanto varrebbe abolire la carica del Capo dello Stato e ripristinare una dinastia regnante.
Reazioni viscerali all'idea del presidenzialismo. Il presidenzialismo e i prigionieri di una Costituzione fatta con le regole del poker. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 21 Agosto 2022
Perché il presidenzialismo in Italia e soltanto in Italia provoca delle reazioni profonde e con un alito da guerra civile? La ragione è semplice: la nostra Costituzione è stata concepita fondamentalmente per impedire che un nuovo Mussolini, o anche semplicemente un uomo dalla soverchiante personalità e capacità, potesse far ripetere all’Italia qualcosa di simile a ciò che era accaduto fra il 1922, quando Mussolini ricevette l’incarico di formare un governo di coalizione e il gennaio del 1926 con la disfatta dei deputati e senatori che per due amni si erano ritirati per protesta dell’Aventino.
La dittatura fascista in Italia fu una curiosa dittatura costituzionale, dal momento che il re come capo dello Stato fu coautore e complice di tutti gli atti del suo “capo del governo” (questa era la dizione usata) comprese le leggi razziali del 1938 e la partecipazione alla guerra tedesca. Anche l’epilogo della dittatura fu un unico nella storia. Il fascismo cadde formalmente e realmente in seguito ad un voto di sfiducia di un organismo costituzionale quale era il Gran Consiglio del Fascismo già incorporato nello Statuto Albertino. La guerra era stra-persa all’inizio dell’estate del 1943 e Mussolini era andato a incontrare Hitler per dirgli che non aveva più armi né mezzi, e chiedergli pezzi della contraerea perché era imminente il già annunciato (con la lanci di volantini) bombardamento su Roma. Hitler rispose che non poteva certo privare il suo esercito delle armi per difendere Roma e che se l’Italia si fosse arresa lui ne avrebbe compreso le ragioni ma avrebbe proceduto all’occupazione.
Il bombardamento avvenne il 19 luglio con aerei corazzati come navi e ben armati, dunque senza scorta di caccia, ed emerse la totale inabilità dell’aeronautica italiana di avvicinarsi ai bombardieri americani. Quello fu il momento atteso da Vittorio Emanuele e dai gerarchi dissidenti per presentare un ordine del giorno da discutere e votare con cui si sarebbe restituito al re il comando militare delle forze armate, esautorando Mussolini, il quale si presentò al Gran Consiglio depresso, con l’uniforme spiegazzata, con momentanei scatti d’ira, ma rassegnato. L’ordine del giorno passò, a tarda notte il duce tornò a Villa Torlonia rimproverato dalla moglie Rachele che gli dette dell’imbecille per non essersi comportato come avrebbe fatto Hitler, e al risveglio si vestì in abiti civili per andare a Villa Savoia dal re cui intendeva spiegare che non era successo nulla di grave, soltanto un malinteso.
Quando fu al cospetto del re e prima che potesse dire qualsiasi cosa il sovrano gli annunciò di averlo sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio. Mussolini cadde di nuovo in una profonda depressione accasciato su un divano di vimini coperto di cuscini estivi. Chiese che ne sarà dei miei cari e il piccolo re gli disse di star tranquille, era già stata salvaguardata l’incolumità di tutti compresa la sua, di Mussolini, per il quale era pronta un’ambulanza piena di carabinieri per portarlo in un luogo sicuro, tacendo sul piccolo dettaglio che Mussolini era agli arresti. Il resto della storia non riguarda il tema del presidenzialismo ma quello che era accaduto all’inizio, durante la fine della dittatura costituzionale (ci fu poi il supplemento di dittatura repubblicana a Salò in cui Mussolini fui una marionetta di Hitler nell’Italia occupata) che era stata reale: nessun colpo di Stato all’inizio – la marcia su Roma del 1922 fu una fragorosa manifestazione di piazza concordata con la Corona – e nessun vero colpo di Stato alla fine – benché si trattasse evidentemente di un complotto – perché il fascismo italiano cadde su un voto di fiducia.
Quando si scrisse la nuova Costituzione l’Italia era sottomessa al potere politico e civile del principe Eugenio Pacelli col nome di Pio XII e poi al potere politico di chi aveva vinto la guerra: gli Stati Uniti rappresentati dalla Democrazia Cristiana e l’Unione Sovietica rappresentata dal Partito Comunista e anche dal Partito Socialista. Il risultato fu una Costituzione costruita in modo tale da scoraggiare o impedire l’avvento di qualsiasi leader dotato di un proprio potere personale. Si potrebbe dire che la nostra Costituzione è costruita con la mentalità delle regole del poker. Un gioco in cui teoricamente non puoi mai essere sicuro di avere in mano il punteggio più alto perché esiste sempre la possibilità di un punteggio maggiore del tuo. La dizione italiana “presidente del Consiglio dei ministri” non esiste in alcun’altra democrazia del mondo. Essa significa che il capo del governo è una specie di presidente dell’assemblea condominio che ha avuto l’incarico di trovare una maggioranza con cui formare un governo.
Un “presidente del Consiglio” (che non è un “capo del governo”, non è un “premier” o primo ministro non ha alcun potere di nominare o revocare ministri. Può proporli: va dal capo dello Stato e gli dice: Signor Presidente, avrei compilato, alla buona una lista di persone che mi sembrerebbero adatte. “Vedere?”, chiede il capo dello Stato non eletto dal popolo ma da un Parlamento che nel frattempo, è forse anche andato a casa. Riflette e poi dice: questo va bene, anche questo ma quest’altro non mi pare all’altezza e lo sostituirei con questo nome fidatissimo. E poi, andando più giù…. Questo accade in modi e tonalità diversi secondo l’umore e la personalità dei capi dello Stato. Nella preistoria della Repubblica erano tutti democristiani, sia il capo dello stato che del governo. I democristiani avevano bisogno di piattezza assoluta perché il loro patto interno prevedeva la rotazione degli scialbi e degli indifferenti.
Gli italiani una mattina accendevano la radio per il radiogiornale e apprendevano che questa mattina l’onorevole Mariano Rumor si è recato al Quirinale per rassegnare le dimissioni da Presidente del Consiglio dei ministri. Era tutto in famiglia. Sotto un altro. All’estero ridevano di noi, sbagliando: era sempre lo stesso governo di un unico organismo multicefalo in cui si praticava il rito voodoo dell’alternanza: un giorno a te, un giorno a me. I guai cominciarono quando politici non democristiani come Giovanni Spadolini o Bettino Craxi imposero che la Dc cambiasse gioco e cedesse occasionalmente la poltrona di Palazzo Chigi.
Ricordiamo benissimo che cosa accadde in Italia quando fu chiamato in servizio il generale Charles de Gaulle che quasi da solo aveva fatto la resistenza ai tedeschi piazzandosi a Londra dove non era simpatico a nessuno. Successe il finimondo in casa democristiana dove capirono che un sistema del genere avrebbe fatto a pezzi il potere della Dc. Una carovana di politici si mise in viaggio verso Colombay-Les-Deux-Eglises per chiedere al generale se avesse potuto scrivere una nuova Costituzione. Fu allora creata la storiella del collaboratore di De Gaulle che disse “Bisognerebbe fucilare tutti gli imbecilli” e De Gaulle sovrappensiero che rispose “Vasto programma”. Cominciò così la Quinta Repubblica che funziona – rispetto alla nostra – in maniera splendida e non troverete un solo francese, non importa quanto di destra o di sinistra, che abbia il minimo rimpianto per la vecchia Repubblica che era più o meno come la nostra attuale.
All’Eliseo si alternano conservatori come Giscard e progressisti come Mitterrand e in più, oltre al Presidente che governa, c’è anche, come ai tempi del re, un suo primo ministro che nessuno si ricorda mai come si chiama. In Italia una tale discussione è scoraggiata a priori. Si considera chi parla bene del presidenzialismo, di una delle tante forme possibili, come di un poco di buono, un mascalzone con probabili ambizioni cesaree, un nuovo duce, o Führer, o conducator, o Volodia (Stalin) o Grande Timoniere (Mao), in ogni caso, uno che evoca la metafora di colui che guida: nei tram tedeschi resiste la scritta “Non parlare al Fuhrer”.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Sabino Cassese: "Presidenzialismo? La Carta costituzionale si cambia solo con cautela". Raffaella De Santis su La Repubblica il 7 luglio 2022.
Siamo di fronte a un passaggio epocale? Sabino Cassese, grande giurista, ex giudice della Corte costituzionale e professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, il cui nome era stato fatto anche come possibile presidente della Repubblica, non chiude preventivamente le porte alla possibilità di una riforma della Carta costituzionale in senso presidenzialista, ma naturalmente ricorda ciò che fa di una democrazia una democrazia: "Lo spirito è sempre quello ispirato da Montesquieu nell'Esprit des Lois: poteri che bilanciano altri poteri".
I costituzionalisti sono già divisi "Serve una norma" "No, il presidente può lasciare subito". Le polemiche della sinistra non aiutano il dibattito su questioni così cruciali. Il passaggio di consegne tra sistemi potrebbe avvenire in più modi. Francesco Boezi il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.
Il presidenzialismo, per alcune forze politiche, resta un tabù, ma tra i giuristi italiani sembra tirare un'altra aria. In relazione alla polemica costruita ad arte da sinistra sulle parole che il presidente Silvio Berlusconi ha pronunciato sul futuro istituzionale del Belpaese, Michele Ainis si è espresso così, parlandone con l'Agi: «Nei giorni scorsi ho scritto un articolo I partiti e il presidente nel quale credo di essere stato il primo e l'unico a fare presente ciò che, con tutt'altro effetto politico, ha spiegato Berlusconi, ma è una ovvietà: se si passa a un sistema presidenziale il presidente deve andare via, o perché la legge stabilisce l'immediata decadenza, oppure - come dicevamo ed è l'ipotesi più auspicabile - la riforma dovrebbe entrare in vigore nella prossima legislatura, ma anche in quel caso Mattarella non so se accetterebbe di continuare un interregno, tanto più se questo dovesse passare per un referendum». Insomma, la bufera sollevata da sinistra ha poco senso d'esistere.
Per il professor Giovanni Guzzetta, sentito dal Giornale, dipende tutto dal quadro normativo: «Credo che questa campagna elettorale stia purtroppo affrontando temi delicati quali le riforme istituzionali e costituzionali in maniera polemica. Invece bisognerebbe porre queste questioni in modo serio - premette - . Per quanto riguarda il presidenzialismo, il legislatore che dovesse approvare una riforma così delicata, dovrebbe porsi il problema delle norme che accompagnerebbero la riforma». Poi la spiegazione sull'eventuale passaggio da questo sistema a quello presidenziale: «Tra queste, potrebbe essere prevista una disciplina transitoria. Una riforma così può essere fatta in molti modi. Chiaro che sarà la norma a determinare tempi e modi. Poi ovviamente, se così prevederà la legge, quando la riforma entrasse in vigore e venisse eletto un diverso presidente, il precedente, qualora ancora in carica, cesserebbe dal mandato». Ovvio ma a quanto pare non per tutti. Per il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale che si è più volte soffermato sul presidenzialismo, bisognerebbe guardare al pregresso: «Abbiamo due precedenti di modifiche costituzionali - ha dichiarato al Giornale - che toccavano l'una la durata in carica di titolari di funzioni pubbliche, l'altra il numero dei titolari. Mi riferisco alle leggi costituzionali numero 2 del 1963 e numero 1 del 2020. La prima ha ridotto la durata dei membri del Senato da 6 a 5 anni. La seconda ha ridotto il numero dei parlamentari da 945 a 600. L'una e l'altra norma costituzionale hanno disposto espressamente l'applicazione della modifica alla legislatura successiva». Il giudice emerito ha proseguito: «In materia costituzionale i precedenti hanno un'importanza fondamentale. Quindi si può concludere che una norma che modifichi in qualche modo la disciplina della scelta o dei poteri del presidente della Repubblica debba contenere anche una norma che pospone l'applicazione concreta al termine del mandato del titolare in carica». Alfonso Celotto, altro costituzionalista, ha riconosciuto la natura dicotomica del momento: «La riforma migliorerebbe il nostro sistema - ha annotato - , consegnandoci una forma di governo più stabile. Il punto è capire come procedere, perché il legislatore di riforma costituzionale può operare in più modi. Facciamo il caso della riforma del taglio dei parlamentari: abbiamo concluso la legislatura con il vecchio assetto, pur sapendo che a breve sarebbe cambiato molto. Ripeto: dipende dal legislatore. Ma è campagna elettorale, è normale e non vedo problemi: il presidenzialismo è un argomento che divide». L'approvazione del presidenzialismo modificherebbe nel profondo l'assetto istituzionale che conosciamo. La discussione del legislatore potrebbe anche vertere su tempi e modalità, ma non c'è dubbio sulla portata storica di una riforma che accompagna il centrodestra sin dalla sua nascita.
Da corriere.it il 12 agosto 2022.
«Elezione diretta del presidente della Repubblica». Recita così il primo punto del terzo capitolo di proposte del centrodestra in vista delle Politiche del 25 settembre. I tre leader della coalizione Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi puntano su una riforma della Costituzione che superi la Repubblica parlamentare — «La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Carta, che esprime la sua volontà eleggendo il Parlamento — e preveda invece una Repubblica presidenziale. Una proposta che — complici le parole del leader di Forza Italia (per Berlusconi «con il presidenzialismo Sergio Mattarella dovrebbe dimettersi») — ha già scatenato la polemica politica. Ma che cos’è nello specifico il presidenzialismo e cosa significherebbe per l’Italia?
La forma di governo
La Repubblica presidenziale, o il presidenzialismo, è una forma di governo in cui il potere esecutivo si concentra nella figura del presidente che è sia il capo dello Stato sia il capo del governo: una figura eletta direttamente dai cittadini che ha il compito di formare il governo.
Essendo capo di Stato, il presidente non ha bisogno di un voto di fiducia parlamentare perché, avendo già ottenuto il voto della maggioranza dei cittadini non necessita della legittimazione dei loro rappresentanti.
Tra i Paesi che hanno una Repubblica presidenziale ci sono gli Stati Uniti, l’Argentina, il Cile, il Brasile, il Messico, l’Uruguay, il Costa Rica e la Corea del Sud. La Repubblica italiana, invece, è parlamentare (come ad esempio la Germania, la Grecia, l’Irlanda o la Finlandia): prevede quindi la centralità delle due Camere elette dai cittadini.
A loro volta, i deputati e i senatori eleggono il presidente della Repubblica che poi attribuisce il compito di formare il governo a un presidente del Consiglio incaricato. Se il premier riesce a formare il governo, deve poi necessariamente ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento. Nella Repubblica parlamentare, a differenza di quella presidenziale, il presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, è una figura di garanzia.
Il ruolo del presidente
Nella Repubblica presidenziale il presidente è quindi la massima autorità, perché è contemporaneamente capo di stato e di governo ed è anche legittimato dal voto popolare. A differenza del parlamentarismo, nella Repubblica presidenziale il presidente ha grandi poteri e può agire liberamente: può porre il veto alle decisioni delle Camere e svolgere alcuni compiti legislativi, dirige la politica estera dello Stato, nomina gli alti funzionari. La sua rimozione può essere ottenuta solo con un impeachment attraverso il quale il presidente viene rimosso in caso di reato: alla messa in stato d’accusa deve seguire un processo. Il Parlamento non ha la capacità di rimuovere il presidente ma il presidente non può sciogliere il Parlamento a suo piacimento.
L’esempio francese
Per quanto riguarda l’elezione delle cariche, nella Repubblica presidenziale si tengono due elezioni distinte e a suffragio universale: un voto per eleggere il presidente e un voto per eleggere il Parlamento. Di conseguenza, possono verificarsi casi in cui la maggioranza delle Camere non coincide con il partito del presidente, creando così una maggiore separazione dei poteri. Il presidente sceglie liberamente i ministri, i segretari e la denominazione che hanno i membri del suo gabinetto.
La Francia, ad esempio, è una Repubblica semi-presidenziale: il potere esecutivo è condiviso dal presidente della Repubblica e dal primo ministro. Il primo viene eletto a doppio turno direttamente dal popolo e nomina il secondo sulla base del risultato delle urne. In Francia, appunto, si tengono elezioni separate per eleggere le due cariche ed è possibile, quindi, una coabitazione tra un presidente di un partito e una maggioranza opposta (l’ultimo caso è avvenuto tra il presidente neogollista Jacques Chirac e il primo ministro socialista Lionel Jospin dal 1997 al 2002).
Vantaggi e svantaggi del sistema presidenziale
Tra i punti di forza della Repubblica presidenziale elencati dai costituzionalisti c’è proprio la «massima legittimità» riconosciuta al presidente grazie all’elezione popolare. Altri vantaggi sono il rafforzamento della separazione dei poteri e l’indipendenza del Parlamento: il presidente e le Camere sono scelti in elezioni diverse e nessuno dei due può interferire con l’altro; il Parlamento, inoltre, non dipende dal partito di maggioranza nella Camera legislativa.
Tra gli svantaggi elencati spesso dai costituzionalisti, invece, al primo posto è segnalata sempre l’instabilità politica, citando come esempio le situazioni di tensione e i colpi di Stato che si sono verificati nei Paesi dell’America Latina. Altro svantaggio segnalato, la mancanza di pluralismo: nelle Repubbliche presidenziali è molto accentuata la tendenza al bipartitismo.
Da liberoquotidiano.it il 12 agosto 2022.
Le parole di Berlusconi sul presidenzialismo e sulla possibilità che Mattarella si dimetta hanno scatenato una polemica senza fine, soprattutto a sinistra. Adesso prende la parola il costituzionalista Michele Ainis, che all'Agi ha detto: "L’ipotesi più desiderabile sarebbe quella di stabilire per l’eventuale riforma costituzionale sul presidenzialismo l’entrata in vigore nella prossima legislatura, ma non in quella che si formerà dopo il 25 settembre. In quel caso Mattarella sarebbe a fine mandato e quindi sarebbe il prossimo presidente della Repubblica a essere scelto in maniera diversa".
Ainis, poi, ha spiegato di avere detto le stesse cose di Berlusconi in un articolo di qualche giorno fa, senza però suscitare lo stesso effetto: "Se si passa a un sistema presidenziale il presidente deve andare via, o perché la legge stabilisce l’immediata decadenza, oppure - come dicevamo ed è l’ipotesi più auspicabile - la riforma dovrebbe entrare in vigore nella prossima legislatura, ma anche in quel caso Mattarella non so se accetterebbe di continuare un interregno, tanto più se questo dovesse passare per un referendum".
Un altro costituzionalista intervenuto sul tema è Alfonso Celotto, che sempre all'Agi ha detto: "Mattarella non rischia assolutamente nulla: non è referendum su Monarchia o Repubblica, ma un procedimento complesso: serve un’articolata riforma costituzionale per passare a un presidenzialismo all’americana o a un semipresidenzialismo alla francese. Dunque, eventualmente, ci vorrebbe qualche anno".
Un chiarimento sulla questione, poi, è arrivato anche da Berlusconi in persona: "Ho solo detto una cosa ovvia e scontata, e cioè che, una volta approvata la riforma costituzionale sul Presidenzialismo, prima di procedere all’elezione diretta del nuovo Capo Dello Stato, sarebbero necessarie le dimissioni di Mattarella che potrebbe peraltro essere eletto di nuovo. Tutto qui: una semplice spiegazione di come potrebbe funzionare la riforma sul Presidenzialismo proposta nel programma del centro-destra. Come si possa scambiare tutto questo per un attacco a Mattarella rimane un mistero. O forse si può spiegare con la malafede di chi mi attribuisce un’intenzione che non è mai stata la mia".
La sinistra e l’ossessione per l’inviolabilità della nostra Costituzione.
IL COMMENTO | “La Costituzione è tornata ad essere la più bella del mondo, quindi intoccabile, anche nel titolo quinto”.
Francesco Damato su Il Dubbio l'11 luglio 2022.
Anche se non lo ha detto, o non ancora in modo esplicito, limitandosi a lamentare “la scelta riformista” abbandonata o tradita da Enrico Letta per accordarsi anche con i rossoverdi nella partita elettorale contro il centrodestra, deve avere contribuito alla rottura, “strappo” e quant’altro di Carlo Calenda la blindatura della Costituzione uscita proprio dall’intesa fra il segretario del Pd, i rossi di Nicola Fratoianni e i verdi di Angelo Bonelli. Una Costituzione – hanno avvertito costoro- minacciata dal progetto del presidenzialismo riproposto da Giorgia Meloni ormai lanciata verso Palazzo Chigi. Alla quale Silvio Berlusconi, una volta tanto deludendo forse quel Matteo Salvini cui aveva concesso troppo secondo i “traditori” appena usciti da Forza Italia, ha riconosciuto – in una intervista alla di avere un “coraggio” pari al suo.
Il presidenzialismo, del resto, è sempre stato nelle corde di Berlusconi, come lo fu in quelle dell’amico Bettino Craxi. Che si procurò per questo negli anni Settanta su Repubblica le vignette in posa mussoliniana di un Giorgio Forattini pur non generoso con i comunisti. Ai quali il leader socialista era tanto indigesto da meritarsi nei menù alle feste dell’Unità l’intestazione della trippa.
All’improvviso, con questa storia del presidenzialismo in salsa meloniana, che un centrodestra vittorioso nelle urne del 25 settembre potrebbe introdurre con una maggioranza tanto larga da non correre neppure il rischio di un referendum confermativo, la Costituzione è tornata ad essere a sinistra la più bella del mondo, come ai tempi di Pier Luigi Bersani e della scuola del Pd affidata all’alta autorità, diciamo così, del presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Che era tornato alla politica militante, dopo i sette anni trascorsi al Quirinale, per condurre e vincere il referendum costituzionale targato Berlusconi e Bossi.
La Costituzione, dicevo, è tornata ad essere la più bella del mondo, quindi intoccabile, anche nel titolo quinto – sui rapporti fra Stato e regioni modificato a stretta maggioranza in tempi d’Ulivo per inseguire inutilmente i leghisti e alla fine riconosciuto dalla stessa sinistra come un maledetto incidente. Al quale non fu possibile rimediare neppure con la riforma costituzionale voluta dall’allora segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio Matteo Renzi nel 2016: bocciata, come si ricorderà, a prescindere dal suo contenuto, giusto per colpire e poi affondare la nave renziana. Dalla quale era sceso anche Silvio Berlusconi per la corsa al Quirinale del 2015, fatta vincere a Sergio Mattarella da Renzi, sempre nella doppia veste di capo del suo partito e del governo.
Proprio a proposito di quell’infortunio del titolo quinto, riconosciuto ben prima che l’emergenza pandemica ne rendesse ancora più evidenti i danni, Massimo D’Alema si distinse nell’opposizione alla riforma costituzionale di Renzi dicendo che “in pochi mesi” se ne sarebbe potuta approvare un’altra. Sono passati sei anni e siamo ad un’altra campagna di intangibilità costituzionale per nuovi, sopraggiunti pericoli di una destra ritenuta sostanzialmente eversiva. Che vorrebbe introdurre sistemi istituzionali ai quali l’Italia non sarebbe adatta, matura e quant’altro.
E’ appena intervenuto l’emerito professore e presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky per spiegarci in una intervista alla Repubblica di carta come e perché non ci meritiamo un presidente della Repubblica eletto direttamente dagli “italiani”, peraltro indicati nella riforma Meloni come sostantivo e non aggettivo, senza la qualifica di «cittadini, come sta scritto nella Costituzione del 1948». «E’ una sfumatura, ma significativa», ha avvertito il professore aggiungendo misteriosamente che «anche la scelta delle parole restituisce una diversa idea della democrazia e dell’inclusione». Già, perché fra gli inconvenienti dell’elezione diretta del presidente della Repubblica ci sarebbe quello di avere ogni volta un vincitore e uno o più sconfitti, ossia esclusi, come i «sudditi» – anziché «cittadini» negli «altri regimi».
Noi italiani, anche quelli nati e cresciuti dopo il fascismo, abbiamo secondo Zagrebelsky una specie di gobba, ancora più accentuata del compianto Giulio Andreotti, che non ci permette d’indossare l’abito del presidenzialismo. Scomodando addirittura il Tacito degli Annali Zagrebelsky ci ha accusati di “rudere in servitium”, cioè di “propensione di accorrere al servizio” dell’imperatore di turno. «Esiste – ha insistito il professore- una nostra attitudine a servire il potente che è ampiamente dimostrata dal consenso plebiscitario a Mussolini sotto il fascismo. Un affrettarsi sul carro del vincitore che può rovesciarsi anche nel suo contrario, ossia nell’abbandonarlo precipitosamente ai primi segni di debolezza». Con questi argomenti non politici, non filosofici ma addirittura antropologici, e un po’ anche razzisti, diciamo la verità, dovremmo quindi difendere tutti l’intangibilità della Costituzione, a dispetto dell’articolo 138 che ne disciplina la “revisione”, testuale, fatta eccezione per la “forma repubblicana», precisa l’articolo successivo.
Perché oggi si festeggia la Giornata dell’Unità nazionale. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.
Il 17 marzo di 161 anni fa a Torino nasceva il Regno d’Italia, mentre l’inno di Mameli è stato riconosciuto ufficialmente solo nel 2017.
Era il 17 marzo 1861 quando a Torino veniva proclamato il Regno d'Italia con l'incoronazione di Vittorio Emanuele II. Oggi sono passati 161 anni e dal 2013 si festeggia la Giornata dell'Unità nazionale, della Costituzione e della bandiera con l'obiettivo di consolidare la consapevolezza della cittadinanza sui valori civici che fondano la nostra Repubblica.
L’inno di Mameli
Il poeta genovese Goffredo Mameli aveva appena vent'anni quando compose l'inno che ancora oggi tutti intoniamo durante le occasioni ufficiali. Si narra che addirittura Giuseppe Garibaldi ne fosse rimasto rapito, tanto da canticchiarlo durante la difesa di Roma. Il Canto degli italiani debuttò nel lontano 1847 a Genova per opera della Filarmonica Sestrese alla cui esibizione accorsero oltre 30.000 patrioti da tutta la penisola. In un primo momento, l'inno era composto da cinque strofe. La sesta venne aggiunta solo in un secondo momento per esprimere la gioia per l'Italia finalmente unita. Anche se mise quasi tutti d'accordo sin dall'inizio, nel corso della storia non sono mancati i detrattori. Uno su tutti fu Giuseppe Mazzini, che riteneva il testo troppo semplice. Piacque invece al musicista Michele Novaro: è merito suo la celebre musica legata all'inno. Dopo essere stato censurato sia dopo l'unità - a favore della Marcia reale - e poi durante gli anni del fascismo, nel 1946 il Consiglio dei ministri lo indicò come inno nazionale "provvisorio". Si è dovuto attendere il 2017 affinché fosse riconosciuto ufficialmente.
La Costituzione italiana
La Costituzione è più recente dell'inno di Mameli. È infatti entrata in vigore nel 1948 grazie al lavoro dell'Assemblea costituente. Al suo interno si trovano i diritti e i doveri dei cittadini, oltre ai principi e alle libertà fondamentali. Si tratta di una costituzione rigida, questo significa che è necessario un procedimento aggravato per la sua modifica. A vigilare sulla conformità delle leggi rispetto a quanto previsto dalla Costituzione è la Corte costituzionale che, nonostante fosse prevista sin dall'inizio, vide regolato il suo funzionamento con legge solo nel 1953.
Costituzione italiana oltre il politically correct, ecco come vorrebbero riscriverla i compagni. Iuri Maria Prado Libero Quotidiano il 17 marzo 2022.
La Costituzione va aggiornata, perché il modello italiano si è sviluppato e bisogna che la Carta vi si uniformi. È un lavoraccio, e va affrontato in diverse puntate. Bisogna cominciare, ovviamente, dall'art. 1, che va emendato così: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro dell'italiano su sei che mantiene tutti gli altri. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita votando a sinistra». L'art. 6, così: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. È fatta deroga per la minoranza di lingua italiana, troppo divisiva».
Poi ovviamente l'art. 11, che va riformato così: «L'Italia ripudia la guerra capitalista come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Salva quella del 25 aprile, ripudia inoltre ogni forma di resistenza». La riforma dell'art. 12 sarà: «La bandiera della Repubblica è l'arcobaleno della pace. È facoltativa, ma raccomandata, l'apposizione della dicitura 'Hasta Siempre Ddl Zan'». L'art. 21 va emendato come segue: «Tutti, a patto che esso sia democratico, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. In caso di dubbio, decide la magistratura democratica».
Il 24 è da correggere così: «La difesa è diritto subordinato al capriccio del magistrato, che fa ciò che gli pare. La legge non determina i modi per la riparazione degli errori giudiziari, perché il giudice non fa errori e se anche ne fa saranno affaracci di chi li subisce». Idem il 25, da modificare così: «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, salvo che si tratti del leader del centrodestra». Il 27 va sostituito da questo: «L'imputato è un colpevole che tenta di farla franca, salvo il caso che sia un magistrato». Vedremo poi le modifiche su famiglia e rapporti economici.
Cosa è stato. Calvosa raccoglie in un romanzo gli intrighi del Novecento italiano. Gianluca Calvosa su L'Inkiesta il 5 Febbraio 2022.
Papi e comunisti, affari illeciti e poco noti. “Il tesoriere” (Mondadori) racconta i passaggi più delicati e oscuri dell’ultimo secolo e collega storie del passato al loro riaffiorare meno visibile
L’udienza privata dal papa era prevista per le undici e sarebbe stata l’ultima del 1972. Un’ora prima, Paolo si fece riconoscere dalla guardia svizzera che piantonava Porta Sant’Anna e andò a parcheggiare come da indicazioni nello spiazzo di fianco a piazza Pio XI. Andrea e Sandra furono accompagnati all’ingresso della Sala Clementina, lo splendido salone al secondo piano del Palazzo Apostolico accessibile unicamente in circostanze particolari come quella. Lì furono accolti da una delle suore deputate ad assistere il Santo Padre, che li invitò ad accomodarsi visto che ci sarebbe stato da attendere qualche minuto.
Sandra, costretta a indossare uno scomodo tailleur accollato acquistato per l’occasione, rimase senza fiato di fronte alla bellezza del salone, un trionfo abbagliante di affreschi e mosaici geometrici. Andrea, che per l’occasione aveva cercato di dare tono a uno dei due abiti del suo risicato guardaroba arricchendolo con una cravatta troppo costosa per i suoi standard, si era ritrovato inconsapevolmente a stringere la mano della moglie, stupita dal suo inusuale nervosismo.
«In fondo è la prima volta che veniamo ricevuti da un capo di Stato» si ritrovò a giustificarlo lei. Ma quello che la colpì maggiormente fu lo scatto con cui si alzò in piedi mentre si apriva la grande porta decorata. Sulla cui soglia apparve Ottavio, seguito da uno stuolo di suorine dietro le quali spiccava la sagoma bianca del pontefice. Intorno a lui tre cardinali in tunica porpora e un uomo in abiti civili con una grande macchina fotografica a tracolla.
Andrea si ricordò in extremis del protocollo e lasciò che fosse Sandra a salutare per prima il papa, il quale le prese entrambe le mani nelle sue mentre lei si esibiva controvoglia in un accenno di inchino. Il pontefice le rivolse un sorriso benevolo e le sfiorò il viso con una carezza, poi si voltò verso il tesoriere e gli tese la mano con il palmo rivolto verso il basso. Le spalle leggermente incurvate su cui poggiava la mantella bianca e il viso tondo dall’espressione gioviale e dalla carnagione rosea più accesa sulle guance componevano un ritratto perfetto di pace e accoglienza. Andrea pensò che Dio non avrebbe potuto scegliere candidato più giusto a interpretare il ruolo di suo rappresentante tra gli uomini.
«Andrea, abbiamo sentito belle cose su di te».
Inaspettatamente, sentire il papa pronunciare il suo nome gli fece un certo effetto. Il colloquio durò pochi minuti, il tempo sufficiente a ribadire la posizione antisovietica del Vaticano. «A cosa serve lottare per la libertà degli oppressi se il giorno dopo ci trasformiamo in oppressori?» fu la retorica, quanto attesa, domanda del papa.
Al termine del cerimoniale che si concluse con un paio di fotografie e una benedizione non richiesta, Ottavio e il cardinale Bonidy proposero agli ospiti una visita ai Giardini Vaticani. Il cardinale prese sottobraccio Andrea mentre Ottavio chiacchierava con Sandra, accelerando il passo per lasciare suo fratello solo con il suo superiore. L’udienza con il pontefice aveva avuto come unico scopo quello di mettere in soggezione Andrea. Il vero colloquio si sarebbe tenuto con Bonidy.
«Siete molto diversi, lei e suo fratello». Quelle parole suonarono strane in bocca a un cieco.
«Lui è la parte sana della famiglia». replicò ironicamente Andrea.
«E lei quale parte è?»
«Quando deciderò di confessarmi, glielo farò sapere». «Perché, cos’ha contro la confessione?»
«È una debolezza. Noi comunisti non ci liberiamo mai del peso dei nostri errori confessandoci. Preferiamo il dibattito pubblico. Per questo stampiamo tanti giornali».
«Per stampare tanti giornali occorre un’organizzazione costosa».
«Quello è lo scopo principale del mio incarico».
«Trovare soldi?»
«Organizzare la macchina della propaganda».
«Quindi secondo lei è solo questione di propaganda. Non pensa di sottovalutare la capacità di giudizio delle persone?»
«Vostra Eminenza» il tono di Andrea suonava come un invito alla franchezza «le persone credono a qualunque cosa se ripetuta un numero sufficiente di volte. È per questo che vi siete inventati la messa».
«Facciamo così, sarò io a confessarmi con lei. L’ultima volta che ho incontrato Fragale ho usato parole di cui mi sono pentito. In fondo era una persona perbene».
«In fondo?» Ad Andrea scappò un sorriso. «Mi dica, cardinale, cosa possono mai avere da discutere il presidente dello Ior e il tesoriere del Pci?»
«Di molte cose. Della necessità di essere artefici del proprio destino, ad esempio. Di decidere, quando le circostanze lo richiedono».
«Quelli come me e Fragale sono al servizio di un disegno, si attengono alle regole. Le decisioni le prendono altri».
«Al servizio di un disegno!» A Bonidy scappò una risatina.
«Lei parla proprio come un prete. A noi queste cose insegnano a dirle al seminario». L’alto prelato fece una pausa e tornò serio.
«Io l’ho fatto a New York. Una città bella ma difficile, soprattutto per un cieco, e specialmente se solo.
La capisco, sa, ho imparato presto cosa significa non avere qualcuno con cui condividere il fardello dei propri pensieri».
Quelle parole evocarono nella mente di Andrea gli incubi che riguardavano suo padre. Restò in silenzio lasciando che il cardinale continuasse il suo ragionamento mentre camminavano a passo lento.
«Ritrovarsi soli ci obbliga a prendere delle decisioni. Mi ricordo bene quando non trovai mia madre ad aspettarmi come tutti i pomeriggi all’uscita dal seminario. Avevo sedici anni, mio padre era appena passato a miglior vita e sapevo che lei da quel giorno non sarebbe più venuta a prendermi. Avrei dovuto attraversare da solo tutta Manhattan. Aspettai quasi dieci minuti sulla gradinata della chiesa prima di mettermi in cammino. Poi finalmente mi decisi. Anche se conoscevo bene la strada mi persi quasi subito e restai bloccato a un incrocio affollatissimo. Ero confuso, spaventato dal rumore dei clacson, dalle urla dei venditori di hot dog, dal rombo delle auto. Per la prima volta in vita mia mi sentii veramente solo. Aspettai qualche minuto, in attesa che qualcuno mi notasse e mi aiutasse ad attraversare. Ma niente. Fu proprio quando mi convinsi a chiedere aiuto che sentii toccarmi il braccio con gentilezza. Il sollievo durò pochi secondi. Si trattava di un altro cieco. Un signore anziano che tremava e stava a malapena in piedi».
Il cardinale si fermò. Sembrò rivivere fisicamente quel momento. «Gli dissi di tenersi a me, senza pensarci un instante. Gli presi la mano e attraversammo insieme. Fu il momento più emozionante della mia vita. E anche quello più rivelatore».
da “Il tesoriere”, di Gianluca Calvosa, Mondadori, 2021, pagine 396, euro 19
La Costituzione come non l'avete mai letta. Michele Ainis su La Repubblica il 20 febbraio 2022.
Il presidente della Repubblica Enrico De Nicola firma la Costituzione (1 gennaio 1948)
Due ricercatori hanno scoperto che il testo della Carta promulgato dal presidente De Nicola non coincide in 26 articoli con quello approvato dai padri costituenti. Ma il senso è inalterato.
Sorpresa: la Costituzione che tutti conosciamo (o almeno dovremmo), quella che si studia già sui banchi di scuola, che campeggia sulla scrivania del presidente Mattarella e in mille biblioteche, insomma il documento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e promulgato da Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947 - ecco, quel testo non coincide con il testo approvato cinque giorni prima dall'Assemblea costituente.
La nostra democrazia un lungo cammino scritto nella Costituzione. Sergio Mattarella su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
Il capo dello Stato nella prefazione al saggio di Ruffini: «Queste pagine parlano delle parole da ricordare. Delle parole che costruiscono. Parole che uniscono»
Pubblichiamo la prefazione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al libro di Ernesto Maria Ruffini «Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1848 ad oggi»
Questo libro racconta la nostra storia, le nostre radici e ci invita a fidarci del futuro. Leggerlo fa riflettere sulla radice della parola «Parlamento»: il luogo dove le parole costituiscono, fondano, la nostra identità senza congelarla in un simulacro. Fa pensare allo spreco che spesso si fa delle parole. E al peso che le parole hanno. Fa pensare alle parole che costruiscono e a quelle che possono distruggere. Alle parole vuote, insignificanti, che non impegnano; e a quelle piene, dense di significati.
Parole da ricordare o da dimenticare. Queste pagine parlano delle parole da ricordare. Delle parole che costruiscono. Parole che uniscono.
È il racconto di come noi italiani siamo stati capaci di riempire di contenuto e spessore una parola speciale, impegnativa: uguaglianza. L’uguaglianza scolpita dai Costituenti nell’articolo 3 della Costituzione. Per quanto oggi la stagione costituente possa sembrare lontana — tanto abituati siamo a vivere solo del presente — è proprio in quei giorni che possiamo ritrovare le fondamenta di ciò che siamo, del nostro essere comunità. È su quella straordinaria esperienza che abbiamo costruito la nostra casa comune, la nostra democrazia, il nostro Paese. Consapevoli, come disse Piero Calamandrei, che esse erano solo l’inizio, non la fine della storia: il preludio, l’introduzione, l’annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da compiere.
La spinta che quella stagione seppe imprimere alla nostra storia democratica e repubblicana fu talmente forte che ancora oggi è chiaramente visibile. I segni e i semi lasciati nella nostra storia dai principi fondamentali della Carta costituzionale rappresentano tuttora il nostro patrimonio più prezioso. Il saggio di Ernesto Maria Ruffini ci accompagna con pazienza lungo il cammino percorso fino ad oggi. Passo dopo passo, ci riporta al momento in cui l’Italia usciva dalla tragedia della dittatura e della guerra e, nella libertà, cominciava a costruire la sua nuova democrazia. Ritroviamo, come in un racconto suggestivo, le immagini di momenti tra i più significativi della nostra storia repubblicana e delle conquiste che abbiamo raggiunto nel campo dell’uguaglianza, anche grazie a dure battaglie.
Non sempre è stato un cammino facile. Semmai, a volte, faticoso. Di certo inarrestabile, anche se per molti aspetti ancora incompleto. Capace di porsi nuovi traguardi, da raggiungere insieme. Questa storia, il racconto di come un’idea diventa concreta nella vita delle persone, ci consente di apprezzare quanta strada abbiamo fatto insieme. Abbiamo raccolto da quella straordinaria stagione un’eredità che dobbiamo a nostra volta consegnare alle nuove generazioni. Ognuno di noi come singolo cittadino e tutti insieme come comunità dobbiamo sentire la responsabilità di continuare a tessere la tela dell’uguaglianza con il filo che ci è stato consegnato dalle generazioni che ci hanno preceduto.
Nel rileggere le parole che hanno segnato i più importanti dibattiti parlamentari, che hanno accompagnato l’approvazione delle leggi con le quali si è cercato di dare attuazione all’uguaglianza, ci rendiamo conto di quanti risultati siano legati all’impegno, al coraggio, alla caparbietà, e molte volte anche al sacrificio, di donne e uomini che hanno tracciato la strada per tutti noi. Vediamo lo straordinario viaggio della nostra democrazia e cogliamo lo sguardo attento dei cittadini che chiedono al Parlamento di dare vita ai principi costituzionali. Comprendiamo il ruolo della Corte costituzionale chiamata a garantire la piena osservanza della nostra Costituzione. E intuiamo anche come sia responsabilità di ognuno proseguire il cammino. Perché le leggi da sole non bastano. Le parole scritte nelle raccolte legislative rischiano di rimanere fissate solo sulla carta se non sono anche accompagnate dalla capacità di ognuno di fare il proprio dovere, di sentirsi parte di una comunità. È un libro che può servire soprattutto ai più giovani perché parla alla loro speranza e, raccontando la fatica, il dolore, l’impegno civile di tanti italiani che hanno scritto con le loro vite la storia della Repubblica, ci dice come sia inestimabile il valore della nostra libertà.
Da Craxi a Renzi, guai a chi prova a toccare la Costituzione più bella…
Oggi una revisione della Costituzione imporrebbe di ridisegnare i confini delle competenze tra i poteri dello Stato restituendo al Parlamento un ruolo che oggi sfiora l'inesistenza. Paolo Delgado Il Dubbio il 07 febbraio 2022.
È “la Costituzione più bella del mondo”. Ne consegue che ogni tentativo di modificarla equivale a uno sfregio. Qualcosa si può aggiungere, qualche particolare si può ritoccare ma mettere mano all’impianto di fondo significherebbe aggiungere i baffoni a Monna Lisa. Non solo un errore ma una bestemmia: delitto politico sufficiente a stroncare carriere e circondare i proponenti di un’aura losca o peggio. In parte almeno, ma in parte rilevante, l’eterna anomalia italiana, il guado a metà del quale la Repubblica stagna da decenni, senza annegare ma in compenso marcendo progressivamente, è qui.
Questa sacralità era solo in parte voluta e prevista dai famosi “padri costituenti”. Scelsero una Costituzione rigida e difficilmente riformabile, anche perché bruciava ancora come fiamma non del tutto spenta il ricordo del fascismo. Però indicarono anche la strada, stretta ma tutt’altro che impraticabile, per rimettere mano a una Carta la cui “bellezza” non andava scambiata, come è poi invece di fatto avvenuto, per eterna perfezione.
Il primo a bestemmiare, ad affermare cioè che la seconda parte della Costituzione, quella sul funzionamento dello Stato, necessitava di una revisione fu Bettino Craxi, in un editoriale uscito sul quotidiano del Psi Avanti! il 25 settembre 1979. S’intitolava “Ottava legislatura”, denunciava il “logorio del tempo” subìto dalla Carta, proponeva una “Grande Riforma” che avrebbe dovuto toccare “l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale” e garantire così “l’efficacia dell’esecutivo”. Tra le battaglie ingaggiate da Bettino Craxi nel decennio del suo fulgore fu una delle più perdenti. Si risolse in un inutile “abbaiare alla luna”, come sentenziò alla fine lo stesso Craxi. La commissione bicamerale per la riforma fu effettivamente istituita nel 1983, guidata dal liberale Bozzi, ma non concluse niente. Craxi, nel frattempo, era diventato agli occhi di una parte vasta della pubblica opinione, in particolare a sinistra, una specie di aspirante dittatore, figura pericolosa, sospetta, in odor di stretta autoritaria.
All’inizio del decennio successivo della necessità di svecchiare il capolavoro del dopoguerra parlò però il guardiano della Costituzione in persona, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in un lungo e dettagliato messaggio alle Camere del 1991. Era una bomba a potenziale esplosivo talmente alto che il premier Andreotti rifiutò di controfirmarlo e passò la palla avvelenata al Guardasigilli Martelli. Il capo dello Stato aveva in mente una legge elettorale maggioritaria, il potenziamento dell’esecutivo, la fine del bicameralismo perfetto, un intervento drastico sulla magistratura. Nessuno accusò Cossiga di tentazioni golpiste. In compenso lo fecero passare per matto.
Nel 1992, in piena tempesta tangentopoli, il Parlamento ci riprovò, con una commissione bicamerale presieduta prima da De Mita e poi, dopo le sue dimissioni, da Nilde Iotti. Stavolta una proposta arrivò, modellata di fatto sul sistema tedesco. Ma quando fu presentata, l’11 gennaio 1994, il referendum del 1993 aveva già abbattuto la legge elettorale proporzionalista che aveva sino a quel momento retto la Repubblica e tangentopoli aveva falcidiato un’intera classe politica seppellendo la prima Repubblica. La proposta rimase lettera morta.
Il tentativo più serio di riformare la Costituzione è stata la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, istituita nel gennaio 1997 pochi mesi dopo la vittoria elettorale dell’Ulivo di Romano Prodi: la grande occasione perduta dalla politica italiana è stata quella. Nella situazione di terremoto permanente di quella fase una riforma profonda della Carta sarebbe stata accettabile, anche se su D’Alema si abbatterono gli strali delle tante vestali dell’intoccabilità della Carta. Non furono quelle proteste però ad affossare la riforma ma la richiesta di Berlusconi di modificare anche i capitoli sulla magistratura. Richiesta non solo lecita ma doverosa: il PdS però non se la sentì.
Si potevano mettere le mani nella forma di governo, nella struttura del Parlamento ma non toccare le toghe. Il peso di quel fallimento ha pesato su tutta la politica italiana determinando quella condizione di stagnazione in mezzo al guado dalla quale la politica e le istituzioni non sono più riuscite a trarsi fuori. La maledizione non risparmiò D’Alema: diventò seduta stante l’emblema della “intelligenza col nemico”, delle trame segrete, dei “patti della crostata” stretti in segreto a casa Letta. I panni di ‘uomo dell’inciucio’ non è più riuscito davvero a strapparseli di dosso.
Una riforma costituzionale però fu varata davvero nel corso di quella legislatura: l’ultimo giorno prima dello scioglimento con una strettissima maggioranza. Era la riforma “federalista” decisa dal centrosinistra per rispondere alla spinta federalista della Lega e da allora ha fatto solo danni, al punto che a tutt’oggi non si trova un leader disposto ad assumersi la responsabilità della sua approvazione.
Berlusconi ci provò di nuovo con una revisione totale della seconda parte della Costituzione, stilata da tre “saggi” riuniti in conclave a Lorenzago. Approvata a maggioranza dagli elettori e poi bocciata dagli elettori nel referendum confermativo del 2006. E’ significativo che, all’opposto di 10 anni, del testo e del suo merito quasi non si discusse affatto. Il Paese era ormai diviso in berlusconiani e antiberlusconiani, e il voto si orientò solo su quella scelta.
La riforma di Matteo Renzi, approvata nell’aprile 2016 e poi bocciata nel dicembre dello stesso anno dal referendum popolare, aveva obiettivi meno ambiziosi della bicamerale di vent’anni prima o della riforma di Lorenzago del decennio precedente. Mirava soprattutto a eliminare il bicameralismo perfetto, trasformando la camera alta in Senato delle Regioni e degli enti locali. Non andava dunque in direzione diversa da quella indicata nel 1994 dalla commissione De Mita-Iotti. Tuttavia anche in quel caso Renzi finì nel mirino perché accusato di tentazioni autoritarie e sostanzialmente antidemocratiche.
L’aspetto per molti versi più inquietante di questa visione, per cui solo un rispetto integrale e spesso integralista della seconda parte della Carta è garanzia di rispetto della democrazia, e del conseguente tiro al bersaglio che falcidia chiunque osi proporne una revisione, è il puntuale conseguimento di risultati opposti a quelli sbandierati. Il rifiuto di affrontare, normandolo, il problema di un esecutivo troppo debole ha portato a una brutale “riforma di fatto” che ha finito per consegnare all’esecutivo quasi tutte le prerogative che i costituenti avevano affidato al Parlamento. Al punto che oggi il problema delle istituzioni si presenta rovesciato rispetto a quando Craxi lanciò la sua ipotesi di “Grande Riforma”. E’ infatti il potere legislativo quello che è stato via via svuotato di significato, in un processo coronato dalla demagogica riforma costituzionale voluta dal M5S e approvata in via definitiva dal referendum popolare del 2020.
Oggi una revisione della Costituzione imporrebbe di ridisegnare i confini delle competenze tra i poteri dello Stato restituendo al Parlamento un ruolo che oggi sfiora l’inesistenza, come si verificherebbe persino con una oculata riforma in senso presidenzialista. Certo, per farlo bisognerebbe smettere di considerare una bestemmia qualsiasi ipotesi di profonda riforma costituzionale per lasciare invece campo libero alle torsioni istituzionali realizzate praticando l’obiettivo, senza norma né regola né soprattutto razionalità.
Le radici nascoste della Costituzione. Luigi Iannone il 22 dicembre 2021 su Il Giornale. Da qualche giorno è in libreria il volume di Francesco Carlesi e Gianluca Passera, Le radici nascoste della Costituzione. La terza via, il corporativismo e la carta del 1948 (Eclettica edizioni, p.237, euro 16) con prefazione di Daniele Trabucco, introduzione di Gherardo Marenghi e mia postfazione. Riporto, di seguito, un brano tratto dal primo capitolo.
La Costituzione italiana è stata spesso al centro di aspri dibattiti, ancor più oggi nell’epoca dell’emergenza pandemica. Molti l’hanno costantemente dipinta come la «più bella del mondo», per l’ampio spazio dato ai diritti politici e civili, altri l’hanno messa sul banco degli imputati considerandola obsoleta e incapace di garantire continuità politica e poteri adeguati ai governi. Eppure la parte più significativa risiede negli articoli che trattano di materie economiche: programmazione, ruolo economico dello Stato, riconoscimento giuridico dei sindacati, collaborazione dei lavoratori alle imprese, disciplina pubblica del credito, il Cnel sono tutti elementi ricchi di spunti chi volesse superare i dogmi del neoliberismo e dell’individualismo. Il libro «Le Radici Nascoste della Costituzione», sesta opera promossa dall’Istituto «Stato e Partecipazione», vuole andare alle radici di quelle impostazioni, che si collegano direttamente alle idee di «terza via» e socializzazione espresse dal fascismo, ripercorrendo minuziosamente tutto il dibattito costituente, la storia e il bagaglio culturale di tanti protagonisti dell’epoca.
Gianluca Passera ha effettuato una lunga e profonda ricerca su tutte le posizioni dei democristiani, dei socialisti, dei comunisti e di tutti gli altri politici, professori e intellettuali che animarono il primissimo dopoguerra, quando cominciava a prendere forma la democrazia italiana dopo il crollo del fascismo. Un viaggio affascinante che apre mille spunti di discussione a proposito della storia italiana, allontanando qualsiasi semplificazione su quella complessa stagione. Tra spaccature evidenti e punti di contatto, proprio nella parte economica del testo costituzionale (artt. 35-47) riaffiorarono tanti spunti sociali emersi nel dibattito economico tra le due guerre. Uomini come Fanfani, Moro, Pergolesi e Mortati, d’altronde, dovevano gran parte della loro formazione al corporativismo, teoria che tra le due guerre ambì a superare il liberismo, recitando un ruolo importante nella discussione globale seguente alla crisi del ’29 e divenendo un modello internazionale per molti paesi.
Proprio queste considerazioni portarono Gaetano Rasi a scrivere: «Non ha alcun fondamento la tesi che all’egemonia della sinistra nella sfera pubblica abbiano contribuito i contenuti della Carta costituzionale entrata in vigore nel 1948 in quanto i suoi principi solidaristici e di tutela collettiva, soprattutto dei più deboli, rientrerebbero nella tradizione marxisteggiante e del cattolicesimo democratico. La realtà evolutiva è storicamente diversa. Quei principi erano già ben presenti prima del periodo di elaborazione dell’attuale Costituzione e riguardavano una maturazione dottrinale e politica risalente ai primi del Novecento e definiti istituzionalmente negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. La continuità, a prescindere dalle fratture storiche, del pensiero politico che contribuì alla messa a punto della Costituzione, è ampiamente rintracciabile nella produzione scientifica precedente. Già nel 1940 Costantino Mortati aveva avanzato idee rivolte ad una nuova Costituzione che sostituisse lo Statuto Albertino e trasformasse in precettiva e formale la Costituzione materiale che si era andata formando in Italia. Il prof. Mortati fu poi uno dei più attivi costituenti nel corso del 1947.
Ed anche altri costituenti di parte cattolica, come Amintore Fanfani, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani – tutti usciti dai Littoriali della cultura (il primo come giudice, gli altri due come concorrenti) – portarono nel dibattito costituente una sensibilità ancora permeata dalla concezione corporativa. Tale pure un esponente della Dc, come il prof. Alberto Canaletti–Gaudenti (che fu segretario della Dc romana), scriveva allora un libro di prospettive dal titolo “Verso un corporativismo democratico”. Nello stesso periodo anche da sinistra il giovane costituzionalista prof. Vezio Crisafulli – passato ai comunisti dopo essere stato redattore capo della rivista “Lo Stato” di Carlo Costamagna – esercitava la sua influenza nelle elaborazioni impregnate di concetti partecipazionisti (tanto che poi egli rifluì, in un percorso per certi versi simile a quello di Ugo Spirito, su posizioni vicine a quelle missine). E pure non possono essere trascurati i giuristi allievi di Gaspare Ambrosini (che fu poi Presidente della Corte Costituzionale e che era fratello di quel Vittorio Ambrosini famoso per essere stato, prima, capo degli Arditi del Popolo e poi tra i sostenitori del corporativismo); del prof. di Diritto Civile Emilio Betti; del romanista Piero De Francisci; del prof. di Diritto Amministrativo Menotti De Francesco (che fu rettore dell’Università di Milano), del maggiore costituzionalista del secolo, il prof. Santi Romano, che formò intere generazioni sulla base della sua teoria delle istituzioni. E ancora non è possibile trascurare la partecipazione degli economisti alla Costituente. A questo proposito, lo storico dell’economia Piero Barucci ha osservato che: “è chiaro che le nuove generazioni, quelle che si erano formate nella palestra del dibattito del corporativismo, non fecero un grande sforzo ad adattarsi a quel tipo di discussione che si andava formando”. Ed è qui che fu evidente il ruolo di produzione giuridico costituzionale degli economisti i quali, come Amintore Fanfani e subito dopo Francesco Vito e la scuola dell’Università Cattolica con Padre Agostino Gemelli, avevano espresso chiaramente la sua adesione ad una corrente di pensiero politico che aveva superato le grette concezioni di destra e sinistra».
In più, anche istituti come l’Iri e le strutture dello Stato sociale furono usati proficuamente nel dopoguerra dopo il ritorno del pluralismo partitico e sindacale in Italia. Infine, ampi settori dell’Msi e della Cisnal cercarono di elaborare riforme radicali della Costituzione, ma di fronte alla parte economica si affermò l’idea di promuoverne l’attuazione concreta, sulle linee di partecipazione e centralità del «lavoro» che già erano stati i capisaldi delle frange rivoluzionarie e sociali del regime. Su questo si concentra in particolare Francesco Carlesi, che, dopo un inquadramento storiografico del periodo ’45-’48, analizza tanto le posizioni della “destra sociale” quanto di uomini come Mattei (che raccolse e potenziò la struttura dell’Agip nata nel 1926) i quali portarono avanti progetti alternativi di affermazione italiana sulla scena globale. Il tentativo fu quello di andare “oltre” i due blocchi, nel disperato sforzo volto a dare all’Italia un ruolo internazionale e una dignità, ad oggi sempre più lontana.
· Quelli che…La Prima Repubblica.
Prima Repubblica, atto finale. L’esperienza del governo Amato e il tentativo di far invertire la rotta al Paese nel 1992. Giuliano Cazzola su L’Inkiesta il 22 Novembre 2022.
Dopo i drammatici mesi di inizio anni Novanta l’esecutivo sperava di avviare una stagione conti pubblici in ordine, privatizzazioni e altre riforme. Lo ha raccontato Giuliano Cazzola nel suo ultimo libro “L’altro 1992. Quando l’Italia scoprì le riforme”, di cui pubblichiamo un estratto
IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni, ha di recente pubblicato il nuovo libro di Giuliano Cazzola, “L’altro 1992. Quando l’Italia scoprì le riforme”. Il libro racconta l’esperienza del primo Governo Amato, che nei drammatici mesi che videro gli attentati a Falcone e Borsellino e l’avvio di “Mani Pulite”, avviava un percorso di riforme destinato ad aprire una nuova fase nella storia politica dell’Italia.
Pubblichiamo di seguito un brano tratto dall’introduzione del libro, che verrà presentato giovedì 24 novembre a Milano presso la sede dell’Istituto Bruno Leoni. Insieme all’autore interverranno Franco Debenedetti, Alessandra Del Boca e Mario Monti. A Roma, invece, il libro verrà presentato il prossimo 12 dicembre. Con l’autore, parteciperanno Giuliano Amato e Tiziano Treu.
La slavina ebbe inizio il 17 febbraio del 1992 con l’arresto del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, mentre intascava una “mazzetta”. La più recente saggistica è tornata agli avvenimenti di quel periodo riconoscendo i limiti e gli arbitri dei metodi di “fare giustizia” da parte delle procure a cominciare da quella di Milano, che divenne la procura “più uguale” delle altre, ammettendo – da parte degli stessi protagonisti – la costituzione di un circolo mediatico-giudiziario che concertava le linea di condotta; in questo modo sono emerse le contraddizioni di indagini che si concentrarono con particolare accanimento su alcuni partiti e i loro leader, magari trascurando o sottovalutando altre piste. Si è trattato di un lavoro di ricerca tardivo, ma di revisione importante, non solo perché condotto con maggiore obbiettività e con un minimo di pietas che allora fu negato a quanti furono coinvolti in quell’operazione, ma anche perché in quei mesi la stessa classe politica che veniva messa alla gogna iniziava un percorso di riforme che apriva una nuova fase nella storia politica del Paese.
Protagonisti di tale svolta furono il governo presieduto da Giuliano Amato e il parlamento degli “inquisiti”, che non si sottrassero dall’assumersi pesanti responsabilità nell’interesse del Paese in un momento di gravissima crisi, benché, ogni giorno, calasse su alcuni di loro la scure dell’avviso di garanzia sempre “strillato” sulle prime pagine dei quotidiani e in apertura dei Tg, mentre erano soliti stazionare davanti al Palazzo di Giustizia milanese dei veri e propri presidi permanenti. Da allora iniziò la trasformazione di un atto di garanzia per l’indagato in una condanna già definitiva. Tangentopoli offuscò il lato virtuoso di quegli anni difficili, che fu espunto dalle cronache perché niente doveva essere salvato di una classe politica destinata all’infamia, in quanto corrotta, privilegiata e intrallazzona. Non si poteva riconoscere a essa l’aver fatto anche “cose buone”, tanto più che l’opinione pubblica non era pronta a misure rigorose come quelle che furono adottate in quei mesi.
Per anni, l’Amato del 1992 non ha potuto prender posto nella galleria degli statisti gloriosi. Sulla sua compagine pesavano la condanna che il nuovo regime aveva decretato per il vecchio, la maledizione di Mani pulite, la colpa di un risanamento finanziario condotto con l’accetta e senza guardare in faccia a nessuno. Così si era arrivati a falsificare non solo le pagine, ma persino la cronologia della storia patria. La nuova era (quella del latte e del miele, delle virtù repubblicane, dell’intelligenza applicata alle riforme) prendeva l’avvio, nelle cronache ufficiali, col governo Ciampi, la personalità che era succeduta al Dottor Sottile a Palazzo Chigi e che, per la prima volta, avrebbe avuto fior di ministri ex comunisti se non fosse capitato quel maledetto 29 aprile 1993, un incidente di percorso imprevisto, ovvero il voto della Camera che aveva respinto l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi e che aveva indotto Achille Occhetto a chiedere le dimissioni di Vincenzo Visco e Augusto Barbera. Ma questa è tutta un’altra storia. Forse di un’occasione sprecata.
La rimozione del ruolo svolto dal governo Amato è arrivata ai nostri giorni. A gennaio di quest’anno, quando si parlava dei possibili candidati al Quirinale, tra i quali anche il Dottor Sottile, dell’azione dell’esecutivo da lui presieduto si ricordava solo la sorpresa del taglio del “6 per mille” sui conti correnti, come se si trattasse di un impeachment preventivo e permanente. Ma segnali di oblio, molto più raffinati e profondi, si sono riscontrati in un’altra circostanza. Chi scrive lo ha notato in una occasione particolare: la formazione della maggioranza di unità nazionale e del recente governo presieduto da Mario Draghi. In quei giorni di giustificata euforia (poi rientrata nel giro di alcuni mesi), le cronache si accanirono nella ricostruzione di una sorta di albero genealogico dei casi di buongoverno. La ricerca non poteva che partire da Palazzo Koch (l’edificio con le palme di via Nazionale) sede della Banca d’Italia. Si sarebbe potuto risalire a Luigi Einaudi, uno dei “padri” della ricostruzione e del boom economico, che divenne il primo presidente della Repubblica, inaugurando un cursus honorum che sembra essere lo sbocco naturale degli ex governatori, chiamati, nelle ore più buie, a salvare il Paese.
Nel passare in rassegna i governi di alto profilo del recente passato, i commentatori hanno avuto una grave e ingiusta dimenticanza. Nessuno ha ricordato l’azione del primo governo di Giuliano Amato. Fu l’ultimo rantolo della Prima Repubblica (ora oggetto di una rivalutazione postuma persino eccessiva) ormai sottoposta allo smantellamento per via giudiziaria. Eppure, quell’esecutivo, operò con coraggio per consegnare ai posteri un’Italia meno sofferente di quella che gli era stata affidata. Chi scrive è convinto che il coraggio prima o poi paghi sempre. E che all’uomo di Stato sia chiesto di avere una visione di prospettiva, di saper guardare più lontano degli altri. Anche per conto di chi insiste a non allontanare gli occhi dalla punta dei piedi. Certo, a volte diventa un’imperdonabile colpa aver compreso prima degli altri la via da seguire. Purtroppo – come Eschilo fa dire al suo Prometeo incatenato – parlare è dolore. Ma anche tacere è dolore.
Le elezioni del 1948, le prime e le più importanti: la campagna infuocata e la sorpresa dei risultati.
Storia delle elezioni in Italia - Il voto del 1948. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera- CorriereTv il 19 Settembre 2022.
Le elezioni del 1948, le prime e le più importanti: gli aiuti degli Usa e della Chiesa alla DC, gli aiuti della Russia al PCI. La campagna elettorale infuocata negli animi, i risultati sorprendenti, il 20% di scarto. Ecco cosa successe. L’analisi di Paolo Mieli.
Storia delle Elezioni italiane: il voto del 1953. La grande tensione DC/PCI. Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022.
Il voto del 1953 fu in qualche modo la rivincita del voto del 1948. La legge ad hoc, detta «legge truffa» dai comunisti, e la frenata inaspettata della Democrazia Cristiana che segnò il declino del suo capo Alcide De Gasperi. La seconda puntata della storia delle elezioni italiane in 100 secondi.
Il voto del 1968 e il centrosinistra che non si riprese mai più
Storia delle Elezioni italiane: il voto del 1968 e le ripercussioni sui governi del centrosinistra. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2022.
Le elezioni del maggio 1968 si svolsero in un clima di sommovimento politico giovanile che aveva sconvolto tutto il mondo. Per l’Italia ebbero un carattere particolare: eravamo nel pieno dell’alleanza tra DC e i partiti di sinistra, escluso il Partito Comunista. I socialisti e i socialdemocratici che si erano scissi nel ‘47, andarono a queste elezioni unificati: ma insieme raccolsero meno voti di quanto non avrebbero fatto da separati. Un fatto che ebbe ripercussione sui governi del centrosinistra che da allora non si riebbero mai più.
Storia delle Elezioni italiane: il voto del 1976 e il sorpasso a sorpresa della Dc sul Pc. Paolo Mieli CorriereTv su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.
Nelle elezioni del 1976 il Partito Comunista si giocò la carta del sorpasso forte del successo mel 1974 del referendum sul divorzio e dei risultati alle elezioni amministrative del 1975. Ma la Democrazia Cristiana era forte di appoggi esterni, tra tutti quello di Indro Montanelli che in un celebre articolo scrisse: «Turiamoci il naso ma votiamo Dc». E la Democrazia Cristiana, un po’ a sorpresa, prevalse di 4, 5 punti sul PCI senza la maggioranza assoluta: nacque così un governo di unità nazionale per la prima volta dove i comunisti si astenevano. Il governo era presieduto da Giulio Andreotti.
Storia delle elezioni italiane: Il Pci sorpassa la Dc e diventa il primo partito in Italia. di Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.
Le elezioni europee del 1984 furono particolarmente importanti per l’Italia perché il Partito Comunista riuscì, per la prima e unica volta, a scavalcare la Democrazia Cristiana. Un evento che venne ricordato non soltanto per la vittoria del Pci, ma anche per la scomparsa prematura del segretario del partito, Enrico Berlinguer. Colpito da un ictus durante un comizio elettorale a pochi giorni dal voto, Berlinguer morì «sul campo di battaglia» e commosse tutti gli italiani, anche chi non avrebbe mai votato per il Pci.
La quinta puntata della storia delle elezioni italiane in 100 secondi. La rubrica di Paolo Mieli in vista delle elezioni politiche del 25 settembre.
La storia delle Elezioni in Italia: il voto del 1994. Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 24 settembre 2022.
Il voto del 1994: arriva Silvio Berlusconi con un’alleanza stravagante con la Lega al Nord e Alleanza Nazionale al Sud e il tentativo contro le sinistre con poche speranze. Il confronto televisivo da Enrico Mentana con Achille Occhetto e la vittoria incredibile. L’anno benedetto di Silvio Berlusconi.
La storia delle Elezioni in Italia: il voto del 1996. di Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2022.
Il voto del 1996: dopo solo due anni il governo formato da Silvio Berlusconi cade. La sinistra si riorganizza e sotto la guida di Romano Prodi l’Ulivo vince nettamente. Per l’unica volta nella storia della Seconda Repubblica la Lega si presenta divisa dal centrodestra, dopo un litigio tra Umberto Bossi e Berlusconi tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995.
"Una vita al vertice delle istituzioni”. La carriera di Andrea Manzella. Da Aldo Moro a Ciriaco De Mita, Spadolini e Ciampi, quella di Manzella è una vita vissuta al vertice delle istituzioni italiane. Federico Bini il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.
Andrea Manzella, all’età di quasi 90 anni, splendidamente portati, ricorda con straordinaria lucidità e simpatia gli anni di una carriera che lo ha visto protagonista nel ruolo di “grand commis” di Stato. Dagli esordi come consigliere di prefettura a Benevento a consigliere parlamentare della Camera dei deputati dal 1961 al 1980. Poi consigliere di Stato, segretario della presidenza del Consiglio con Spadolini, De Mita e Ciampi. Dall’83 all’87 è stato consigliere giuridico del ministro del ministro della Difesa, ancora con Spadolini. È stato anche parlamentare dell’Ulivo a Bruxelles e al Senato. Nel suo studio di professore nel centro di Roma, immersi tra libri, giornali e documenti, si possono notare le foto di Spadolini, Cossiga, Napolitano, Ciampi, Pertini e Mattarella con personali dediche. Attualmente è presidente del Centro di studi sul Parlamento della Luiss.
Professor Manzella, la sua vita è stata profondamente legata alle istituzioni di questo paese, di cui è stato costante servitore.
“Sì, ho vissuto le istituzioni in molte articolazioni. Sono stato prima consigliere di prefettura a Benevento (ricordo ancora i bravi sindaci della Val Fortore). Poi superai il concorso in magistratura e sono stato pretore a Pordenone: un’esperienza che mi fece capire l’Italia del miracolo economico. Pordenone era allora una capitale del successo italiano: giorno per giorno nascevano e crescevano imprese. E poi c’era l’ammirevole genio produttivo e creativo dei friulani. Dovevo però trasferirmi a Roma, per ragioni mie, e vinsi un concorso come consigliere alla Camera dei deputati. La lasciai, dopo quasi vent’anni, come direttore del servizio studi. Nominato consigliere di Stato, su proposta di Nino Andreatta, cominciò la mia esperienza a diretto contatto con la politica di vertice”.
Nel suo percorso di studio ha avuto la possibilità di incontrare Aldo Moro.
“Ho fatto il primo anno di università a Bari, dove Moro insegnava Filosofia del diritto, per poi completare il percorso di studi a Napoli. Moro nelle sue lezioni in classe aveva l’abitudine di fare una specie di appello mnemonico, quasi a stabilire un contatto fisico con gli alunni. Poi quando stavo per andarmene da Bari a Napoli, ci incontrammo casualmente e lui mi disse: 'Ho saputo che lei si trasferisce, faccia attenzione a non perdersi in quella bolgia di Napoli'. Aveva ragione: ebbi un periodo di molte difficoltà…”.
Moro diceva sull’Italia: “È un paese dalla passionalità intensa ma dalle strutture fragili”. Condivide questa frase?
“Assolutamente. Lui aveva l’idea precisa di una Italia repubblicana in cui la passionalità politica si è potuta incanalare per molto tempo nella struttura forte delle ideologie politiche: popolar-cattolica, comunista. Queste si traducevano in partiti-apparato con sezioni diffuse in tutto il territorio: erano il sostegno “materiale” della nostra democrazia. Ma ci fu sempre la criticità di una fragile struttura istituzionale, una dannosa eredità che ci portiamo dietro storicamente: forse anche per il modo straordinario con cui si era arrivati allo Stato unitario. Per molto tempo si governò con il meccanismo dei prefetti, senza che si realizzasse l’idea di una dorsale statale solida, comune, condivisa. L’avventura della grande guerra fu determinata anche da questo. Il tentativo di cementare quelle strutture precarie con l’iniezione di una unificante idea nazionale di integrazione territoriale (Trento e Trieste) che accomunava milioni di italiani-soldati, dal sud al nord del paese. Senonché proprio dai reparti di “arditi” che non vedevano realizzata in quel dopoguerra italiano la forte idea di Nazione per cui avevano combattuto, vennero i primi germi della lunga vicenda fascista”.
Dal centro-sinistra al compromesso storico. Aldo Moro è la figura centrale di queste due grandi svolte politiche italiane. Come furono vissute all’interno del palazzo?
“Il compromesso storico fu un nuovo tentativo di realizzare quell’unità nazionale: ed ebbe un luogo privilegiato nelle aule parlamentari. Ma non nell’aula dell’assemblea, bensì in quelle delle commissioni dove si intrecciavano e compensavano le proposte legislative dei grandi partiti. Un momento centrale di questa fase fu nel varo di nuovi regolamenti parlamentari, nel 1971. Ne fu protagonista Sandro Pertini alla Camera (seguì una rincorsa di Amintore Fanfani al Senato). L’indice più chiaro fu l’introduzione del criterio della programmazione parlamentare che poteva attuarsi solo nella necessaria intesa fra i gruppi maggiori. Prima del 1971 ogni sera si decideva l’ordine del giorno della seduta successiva… Lo capirono subito i “gruppuscoli”: prima la frazione del Manifesto che denunciò l’accordo “gruppocratico a scapito della vera opposizione”, poi i radicali di Pannella. Ecco: al centro del compromesso storico non ci furono accordi tra i partiti, ma accordi parlamentari sulla sostanza delle cose”.
Ugo La Malfa, a cui Lei è stato vicino, negli anni ‘70 mancò l’elezione a presidente della Repubblica e a presidente del Consiglio. Nel primo caso venne eletto Pertini e nel secondo Andreotti. Cosa successe?
“L’elezione del presidente della Repubblica italiana è stata sempre 'un mistero avvolto in un enigma' avrebbe detto Churchill. In quella delicatissima vicenda c’è sempre qualcosa che sfugge. Qualcosa che è sempre diverso da elezione ad elezione. Più chiara fu invece la vicenda che vide La Malfa protagonista del famoso “tentativo” di formare un governo. Determinante in quell’insuccesso una certa mancanza di visione dei comunisti. La Malfa aveva proposto un direttorio dei segretari di partito, in cui ci sarebbe stato anche Berlinguer, da affiancare al governo: che però non avrebbe avuto ministri comunisti. In fondo, sarebbe stata l’istituzionalizzazione - però con una estensione, davvero storica, al Pci - della corrente prassi dei “vertici” dei segretari dei partiti della coalizione di governo. Enrico Berlinguer non accettò questa soluzione, fermo sulla pregiudiziale di una effettiva presenza comunista nel governo. La Malfa era già consapevole che i democristiani non l’avrebbero mai accettato, in quel momento. Rinunciò, perciò, per questi veti incrociati. Nacque così il governo Andreotti”.
Roberto Gervaso diceva su Ugo La Malfa: “È perentorio, dogmatico, esclusivo. Le ragioni dell’avversario non sono mai buone… Questa Italia non gli piace e si vede”.
“Sì, lui era molto critico dell’Italia ma anche severo con se stesso. Però era pure quello che aveva il miglior “telefono abilitato”. Poteva parlare, autorevolmente, con tutti: dal prefetto di Forlì, al governatore della Banca d’Italia, ai segretari di tutti i partiti. Alzava il telefono e parlava con l’Italia. Da questo punto di vista, sarà stato critico, però era anche attentissimo ad avere un circuito relazionale completo con tutti, senza nessuna esclusione, per capire le ragioni di tutti. Era insomma un “antiitaliano” inclusivo, cioè sapeva cos’era l’Italia, le profonde connessioni reali e aveva grande capacità nel giudicare l’autenticità del valore degli uomini”.
Spadolini invece com’era?
“Spadolini era molto “spadoliniano”: nel senso che era davvero come la vulgata giornalistica lo raccontava (primo fra tutti il suo grande amico Montanelli). Dal punto di vista umano, accanto alla famosa – e giustificata - consapevolezza di se stesso - aveva il culto delle grandi, perduranti amicizie e una acutissima capacità di introspezione delle persone. Severissimo nella ricerca della perfezione, era spesso irascibile con gli intimi, con scatti di cui si pentiva rapidamente: in contrasto con la sua aria bonaria, da saggio tranquillo… Da grande storico, era straordinario nell’arte di arrivare subito al vero fondo delle cose e di rendere le cose complesse in maniera semplice”.
In che modo la nomina di Spadolini a presidente del Consiglio cambiò la politica dei primi anni ’80?
“Si verificheranno tre fatti di rilievo costituzionale. In primo luogo, con la nomina di un leader di estrema minoranza, venne capovolta la gerarchia dei partiti, fino allora intoccabile. Ci fu, poi, l’istituzionalizzazione, per allora solo in via amministrativa, dell’apparato della presidenza del Consiglio, come primo strumento operativo del premier. E infine cominciò una comunicazione politica diretta fra il “presidente del governo” e i cittadini. Lui fu il primo dei grandi comunicatori da Palazzo Chigi (e ricordo ancora le accuse di “cancellierato”…). Non gli fu dato però il tempo di affrontare radicalmente l’eterna “questione istituzionale”: di cui aveva però individuato alcuni più urgenti elementi in un Decalogo alla base del suo secondo, breve governo”.
I rapporti tra Spadolini e La Malfa?
“Molto buoni nel reciproco riserbo, come li ricordo. Era stato Ugo La Malfa, del resto, che aveva avuto la geniale intuizione di fare entrare Spadolini nella grande politica: offrendogli la candidatura nel prestigioso collegio senatoriale di Milano dopo la brusca estromissione dalla direzione del Corriere della Sera”.
Con l’ascesa di Craxi a Palazzo Chigi, Spadolini venne nominato ministro della Difesa. Tra le varie vicende ci fu il caso di Sigonella. Lei a quel tempo era consigliere giuridico del ministro repubblicano.
“La crisi di Sigonella si articola in due fasi. La prima fu la decisa affermazione della sovranità nazionale - con i carabinieri in armi che circondano nella base i militari americani - nella competenza a processare i terroristi (per crimini compiuti su una nave italiana) richiusi nell’aereo egiziano dirottato dai caccia USA. In questa fase, Spadolini è assolutamente concorde con Craxi. La seconda fase vide invece il ministro repubblicano schierarsi contro il presidente del Consiglio quando venne a conoscenza che si era di fatto permessa, sia pure in confuse e affannose circostanze, la fuga del terrorista Abu Abbas dal territorio e quindi dalla giurisdizione nazionale”.
Dall’88 all’89 Lei affiancò invece un altro presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita.
“A De Mita vanno riconosciuti almeno tre meriti di grande importanza. In politica interna, ponendo una specie di “questione di fiducia implicita” - minacciando dunque una crisi di governo di esiti dirompenti, in perfetta sintonia con il segretario socialista - riuscì a ottenere che le due Camere (a scrutinio segreto!) abolissero il voto segreto (salvo i casi personali). La vergogna dei “franchi tiratori” che rendevano ancora più fragile la endemica precarietà dei nostri governi fu per gran parte eliminata. Con la legge n. 400 del 1988, riuscì (dopo 40 anni) ad attuare l’art.95 della Costituzione che prevedeva una organizzazione specifica della presidenza del Consiglio, completando così il percorso amministrativo spadoliniano. In politica estera dette grande fiducia a Gorbaciov con la famosa riunione di ministri a Mosca: comprendendo così che era quello un momento irripetibile per una vocazione europea della Russia. Ma credo che ci sia un dato interessante su De Mita, poco o mai sottolineato. Lui capì che c’era un’Italia che doveva essere assemblata in maniera diversa: andando oltre la Dc, in un partito liberal-democratico di massa. Una intuizione che anni dopo doveva essere corroborata dai grandi successi elettorali realizzati, in modi certo assai diversi, da Silvio Berlusconi”.
Però De Mita non vi riuscì…
“No, in quanto gli vennero “tagliate le gambe”. Anche se lui fece l’errore, forse inevitabile a quel fine, di tenere insieme la segreteria del partito e la presidenza del Consiglio”.
Era un politico cinico come lo descrivono?
“Quando ricordo la sua commozione alla notizia dell’assassinio di Roberto Ruffilli, il “suo” uomo delle istituzioni, i suoi gesti di affettuosa familiarietà con gente “comune” e anche la sua ansia di “vedere” ogni cosa dal lato umano, “esperienziale” - come diceva - non ritrovo alcun segno di cinismo. Il suo servizio come sindaco di Nusco, sino alla fine, spiega anche il risvolto “buono” di certi tratti duri di una certa tradizione di gestione del potere locale”.
Con quali altri presidenti del Consiglio ha avuto modo di collaborare?
“Carlo Azeglio Ciampi fu l’ultimo: e il suo destino finale come Capo dello Stato era in un certo senso chiaro. Mi colpirono molto, quando lo vidi da vicino al lavoro, la sua grinta decisionista e la sua risolutezza nel richiamo costante ad una sua bussola di patriottismo “euro-nazionale”. Nel lavoro aveva l’abitudine di non finire la giornata se non quando la sua scrivania fosse sgombra da ogni dossier. Quando, poi, anni dopo, si ebbe di nuovo bisogno di lui come ministro per il nostro difficile ingresso nell’euro, Ciampi giocò senza remore il suo prestigio e la sua serietà internazionali. Raccontava che capì che si apriva qualche possibilità nel muro dei “no” all’Italia quando, in un suo colloquio confidenziale con il governatore della Bundesbank Tietmeyer, questi, pur escludendo ogni apertura, gli chiese a bruciapelo: 'Ma nel caso che noi decidessimo di accettare l’Italia nell’euro, tu nel direttorio della Banca centrale europea chi manderesti?'. Ciampi rispose pronto: “Tommaso Padoa Schioppa”, un nome che nessuno in Europa poteva rifiutare…”
Nel corso della sua lunga carriera istituzionale con quali politici ha avuto un rapporto particolarmente stretto?
“Nino Andreatta, Spadolini, De Mita, Ciampi e con il grande intellettuale comunista Alfredo Reichlin”.
Giulio Andreotti?
“Assai meno. Quando lo conobbi da vicino, Andreotti mi apparve come lo si è sempre raffigurato: molto “romano” nella sua abitudine a minimizzare, a sdrammatizzare tutto. Una volta gli chiesi come aveva vissuto i giorni fondativi della comunità europea. Rispose: 'Vedevo De Gasperi, Adenauer e Schuman che si mettevano in un angolo e cominciavano a parlare in tedesco. Sai, io non conosco il tedesco, però capivo tutto'. Un’altra volta raccontò di aver riconosciuto il grande filosofo cattolico francese Jacques Maritain in un passeggero vociante con i camerieri nel vagone-ristorante del treno Genova-Roma per una banale questione di priorità nel servizio… Ecco in questa “maniera” c’era tutto il popolarismo di Andreotti che ho conosciuto. Poi, per altri lati, il personaggio è, come si dice, affidato al giudizio storico”.
A Roma si dice che Lei e Gianni Letta siate uomini “influenti”.
“Io davvero non lo sono mai stato. Gianni Letta è un vecchio e caro amico: mi rivolgerei a lui, nel caso… Nelle mie esperienze istituzionali ho sempre e solo cercato di migliorare, per quel che potevo, il meccanismo che mi era affidato, di guardare un po’ più in là della semplice ripetizione burocratica dei “precedenti”, di rimediare, nel mio assai modesto margine d’azione, a qualcuna di quelle istituzionali “fragilità” di cui, una volta per sempre, aveva parlato Moro”.
Pavia, morto a 98 anni ex ministro Virginio Rognoni. Esponente della Dc è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Settembre 2022
È morto questa notte, nella sua casa di Pavia, Virginio Rognoni, uno dei politici italiani più conosciuti della seconda metà del Novecento. Rognoni, che aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto, si è spento nel sonno. Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo (dal 1978 al 1983) e, successivamente, di ministro della Giustizia e della Difesa. Dopo la fine dell’esperienza della DC, aveva aderito prima al Partito Popolare e poi al Pd. E’ stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006.
BIOGRAFIA DI VIRGINIO ROGNONI. Da cinquantamila.it la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti
• Corsico (Milano) 5 agosto 1924. Politico. Deputato dal 1968 al 1994 (Dc), fu ministro dell’Interno nell’Andreotti IV e V, Cossiga I e II, Forlani, Spadolini, Fanfani V (1978-1983), ministro di Grazia e giustizia nel Craxi II e Fanfani VI (1986-1987), della Difesa nell’Andreotti VI e VII (1991-1992). Dal luglio 2002 al luglio 2006 fu vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.
• «Ex allievo del collegio Ghislieri di Pavia, Gingio per gli amici, è un esemplare pregiato di quella scuderia del Biancofiore che vinceva tutto nelle corse elettorali e nei Grand Prix elettrizzanti per Palazzo Chigi. Il 26 aprile 1945, a ventuno anni, teneva a Pavia il suo primo comizio ai giovani cattolici della Fuci. Le sue fortune ministeriali sono dipese in buona parte dalla grande forza contrattuale della sinistra di Base (prima “Cronache sociali” di Dossetti poi Marcora, De Mita, Misasi, Andreatta). Per tanti anni è stata questa la sua corrente di riferimento. Cioè fino all’estate del 1990. Quando Gingio, entrato un po’ nel cono d’ombra della sinistra dc, subentra alla Difesa a Mino Martinazzoli nel sesto governo Andreotti. Il Guardasigilli si dimette insieme ad altri tre ministri dc per protesta contro la legge Mammì sull’emittenza televisiva. Una rottura dolorosa.
“Mi sono iscritto alla Dc non ad una componente”, dichiarò piccato il ribelle nella quiete del suo buon ritiro di Punta Ala. Fece grande rumore una sua battuta maligna (“Bettino è già cotto!”) sul Craxi presidente del Consiglio, strappatagli “a tradimento” nel Transatlantico dal cronista politico dell’Espresso, il bravo Guido Quaranta. Insomma, per dirla con le parole di sua moglie Giancarla Landriscia, donna che affascinava per intelligenza, delicata bellezza e simpatia Sandro Pertini e gli inquilini dei Palazzi romani, la famiglia Rognoni “ha sempre mantenuto il senso delle proporzioni”.
Con il marito politico e ministro, Lady Giancarla ha diviso la responsabilità di una famiglia numerosa (quattro figli) e gli studi di Giurisprudenza. Lei a Pavia dedita all’istituto di Medicina legale a studiare i diritti alla salute; lui, professore di Istituzioni di diritto processuale, impegnato a Roma a guidare prima il dicastero dell’Interno negli anni di piombo (affronta e risolve il caso del rapimento del gen. Dozier) poi quello della Giustizia» (Fernando Proietti).
• Uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico, ultimato nel febbraio 2007. Presidente del Collegio dei garanti del Pd «La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori, alla comprensione della laicità della politica, al gioco della libertà e al dovere della giustizia. Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel Pd» [Cds 7/11/2009].
• Visto anche a teatro, a Milano, in uno spettacolo dedicato a Danilo Dolci: il regista Renato Sarti, riproponendo il processo all’intellettuale, gli fece pronunciare l’arringa di Piero Calamandrei sui principi della Costituzione (affidata in altre serate ad altri non-attori).
• Nell’autunno 2007 suscitò polemiche l’assegnazione, senza concorso, di un incarico di professore associato (Storia della lingua neogreca) alla figlia Cristina da parte dell’Università di Palermo. Disse di essere «indignato»: «Si sa bene che ci sono nicchie di privilegi nelle università, ma lei è sempre stata di una moralità radicale».
L'ultimo 'incarico' da vicepresidente del Csm. È morto Virginio Rognoni, storico esponente della DC: fu ministro degli Interni negli anni di piombo. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2022
Si è spento nel sonno all’età di 98 anni Virginio Rognoni. Esponenti di primo piano della Democrazia Cristiana, fu uno dei protagonisti della ‘Prima Repubblica’: aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto ed è morto questa notte nella sua casa di Pavia.
Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo, entrando al Viminale dopo le dimissioni di Francesco Cossiga a seguito dell’assassinio di Aldo Moro, fu nominato al suo posto e restando in carica dal 1978 al 1983. Successivamente fu ministro della Giustizia nel secondo governo Craxi e nel sesto governo Fanfani (dal 17 aprile 1987 al 29 luglio 1987) e ministro della Difesa nel sesto e settimo governo Andreotti (dal 26 luglio 1990 al 28 giugno 1992).
Da ministro dell’Interno è ricordato per aver affidato il coordinamento della lotta al terrorismo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e per esser stato promotore assieme al deputato del Pci Pio La Torre della prima legge desinata a colpire i beni gestiti dalla mafia, la legge Rognoni-La Torre.
Dopo la fine dell’esperienza della Democrazia Cristiana, spazzata via da Tangentopoli, ha aderito al Partito Popolare guidato da Mino Martinazzoli.
È stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006, ultima esperienza istituzionale. Dopo l’incarico a Palazzo dei Marescialli, Rognoni aderirà al Partito Democratico.
“Un grande amico e un punto di riferimento”, lo definisce Enrico Letta, che ha commentato su Twitter la scomparsa dell’ex ministro. Rognoni è stato “protagonista sempre in positivo di tante stagioni importanti della vita istituzionale del nostro Paese”, lo ricorda il segretario del Partito Democratico. Nel 2007 Rognoni è stato scelto come uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico.
M. Antonietta Calabrò per justout.it il 21 settembre 2022.
L’ intramontabile “Gingio”, grande vecchio della politica italiana. Non volle rispondere alla Commissione Moro II, dopo la desecretazione degli archivi. Di lui si può ben dire che è stato grande vecchio della politica italiana. Un potere solido, non ostentato, durevole, attraverso decenni e decenni della storia italiana e dei suoi momenti più drammatici. Morto il 20 settembre 2022 quasi centenario, essendo nato nel 1924. Un gran lombardo. Ancora in forma e attivo, sino alla fine. L’ultima apparizione pubblica, nella primavera del 2021 per la celebrazione dei 660 anni della fondazione della “sua” università, quella di Pavia, dove è stato professore.
Virginio Rognoni era ministro dell’Interno, quando il 9 ottobre 1982 un commando palestinese riferibile ad uno dei terroristi più temibili, fondatore del Consiglio rivoluzionario di al Fatah, Abu Nidal, mette a segno un attentato proprio nel centro di Roma. Davanti alla Sinagoga, a pochi passi dal Tevere. Nell’agguato muore un bambino di due anni, Stefano Gaj Talché, cittadino italiano di religione ebraica e altre 37 persone rimangono gravemente ferite.
Il fatto nuovo (riportato per primo da "Il Riformista” un anno fa) è che in base ai documenti ufficiali del Sisde (il servizio segreto per la sicurezza interna, ora AISI) desecretati in questi ultimi anni, un attentato era stato “segnalato” come altamente probabile in ben sedici “alert”, nei quali se ne riteneva possibile l'esecuzione in occasioni delle feste ebraiche. E il 9 ottobre ricorreva appunto "la festa dei bambini”.
Nonostante questo e nonostante le molte richieste della comunità ebraica di incrementare le misure di sicurezza, proprio quel giorno persino la singola camionetta che usualmente stazionava davanti al Tempio maggiore, quella mattina venne rimossa. Perché? Come mai il Viminale non dette seguito alle informative del Sisde? Cosa avrebbe potuto ancora dire Virginio Rognoni al riguardo? Quarant’anni fa ci furono forti polemiche per quella che apparì subito come una grave inefficienza del Ministero dell’Interno.
Ma i nuovi documenti e molti altri che sono ormai consultabili in base alla legge “Renzi” del 2014, hanno fatto sorgere nell’ultimo anno nuovi e pesanti interrogativi. Quelli che il fratello sopravvissuto della piccola vittima della Sinagoga ha raccolto in un libro che viene pubblicato a quarant'anni da quell'agguato. (Gadiel Taj Tache' "Il Silenzio che urla", settembre 2022)
Noi oggi, infatti, sappiamo con certezza che, a partire dal 1973, venne sottoscritto un patto tra i nostri servizi segreti e le fazioni terroristiche palestinesi in modo che l’Italia diventasse per esse un terreno di passaggio per il traffico d’armi. Con una sostanziale "non interferenza" italiana, se gli obbiettivi dei palestinesi in Italia fossero stati israeliani, ebrei o americani.
Come spiegò nel 2008 in una intervista Francesco Cossiga al quotidiano israeliano Yediot Aharonot: “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi”. E lo stesso capo dell’OLP Yasser Arafat nei suoi Diari (di cui il settimanale L’Espresso ha fatto un’anticipazione nel 2018), ha annotato, perentorio, in relazione a quegli anni: “L’Italia è una sponda palestinese nel Mediterraneo”.
Il mondo allora era diviso in due e Roma assomigliava a Berlino, a metà tra Est ed Ovest. La prova del patto con i palestinesi è in un telex del febbraio 1978, a noi noto solo dal 2015, quando esso è confluito negli atti a disposizione della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. In quel cablogramma da Beirut il colonnello Giovannone (preannunciando il rischio di una grossa azione terroristica in Europa) confermava la volontà del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) di tenere indenne l’Italia.
In realtà le cose andarono molto diversamente. Perché neppure un mese dopo Aldo Moro venne rapito ad opera delle Brigate Rosse, ma operarono sul campo terroristi tedeschi della Rote Armee Fraktion, gestiti dal servizio segreto della Germania orientale (Stasi), in stretto contatto con i gruppi terroristici palestinesi. E a Berlino Est aveva trovato rifugio sicuro lo stesso George Habbash, leader del Fronte per la liberazione della Palestina, proprio il “firmatario” palestinese del “patto” con l’Italia e il terrorista Wadi Haddad, coinvolto dal colonnello Giovannone nelle trattative per liberare Moro durante i 55 giorni.
Un “patto” la cui esistenza è stata confermata personalmente anche da un protagonista dell’epoca ancora in vita, Abu Sharif, soprannominato da Time magazine “il volto del terrore”, braccio destro di Arafat , nella sua audizione a Palazzo San Macuto del giugno 2017. La documentazione completa relativa a quell’accordo impropriamente denominato "Lodo Moro" (visto che in realtà fu voluto dall’allora presidente del Consiglio Andreotti anche se Andreotti ne ha sempre negato pubblicamente l’esistenza) è ancora tutelato dal segreto di Stato, rinnovato nell’estate del 2020 dal Governo Conte II.
Eppure, già quello che oggi sappiamo in base a decine di migliaia di atti desecretati e consegnati alla Commissione Moro che ha chiuso i suoi lavori nel 2018, e all’Archivio di Stato, è sufficiente per “ristrutturare" il campo della conoscenza della storia degli anni di piombo nel nostro Paese . E degli attentati organizzati in Italia dai palestinesi (compreso quello di Fiumicino del 1985 con 13 morti e 76 feriti). Del resto, l’Italia era diventata dall’inizio degli anni Settanta e fino al 1989, uno dei terreni principali su cui venne messa in atto la Guerra Fredda. E i terroristi palestinesi vi giocarono un forte ruolo.
Rognoni, esponente di lungo corso della sinistra Dc, eletto deputato a partire dal 1968 per sette legislature, nel 1976 divenne vicepresidente della Camera, fino a quando il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, nel 1978, lo chiamò a sostituire come ministro dell’Interno, Francesco Cossiga che si era dimesso subito dopo l’assassinio di Moro. “Gingio", per gli amici, rimase al Viminale per 5 anni, fino all’83, mentre si sono succeduti ben cinque governi (Andreotti, Cossiga, Forlani, Spadolini I e II, Fanfani).
Nell’82 ai tempi dell’attentato alla Sinagoga era presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, il primo premier filoatlantico e filoisraeliano, salito a Palazzo Chigi dopo l’esplosione dello scandalo P2. Spadolini fu anche l’unico politico presente ai funerali del bambino. I cinque anni di Rognoni al Viminale risultarono cruciali.
Rognoni era al Viminale il 1 ottobre del 1978 quando fu scoperto dagli uomini del generale Dalla Chiesa il covo brigatista di via Montenevoso, dove (sappiamo oggi) venne ritrovata la copia di documento delicatissimo relativo all’organizzazione della NATO, circostanza di cui Dalla Chiesa informò il Ministero dell’Interno, all’inizio del 1979. Rognoni era al Viminale quando, nella primavera del 1979, si concretizzò una veloce e concordata “consegna” alla polizia dei due br “dissociati” Valerio Morucci e Adriana Faranda che erano riparati in casa di Giuliana Conforto (figlia di Giorgio, “Dario", il più importante agente Kgb in Italia nel Dopoguerra, secondo il "dossier Mitrokhin") , appartamento in cui fu sequestrata una delle due armi che uccisero Moro, la mitraglietta Skorpion.
Rognoni era al Viminale quando Dalla Chiesa, capo dell’antiterrorismo, per oltre un anno si era messo alla ricerca dei documenti originali sull’organizzazione Gladio, scomparsi dalla cassaforte del Ministro della Difesa Ruffini, cui alludevano le copie ritrovate a via Montenevoso. Era al Viminale quando il generale, nel marzo 1980, eseguì il blitz di via Fracchia a Genova, dove venne ucciso Riccardo Dura, capo della colonna genovese e soprattutto, sappiamo oggi, venne recuperata una quantità imponente di documentazione. E tra essa quegli “originali”, che così riuscirono tornare al loro posto a palazzo Baracchini, qualche mese più tardi.
Rognoni era al Viminale quando il 4 maggio del 1982 venne stilato un cartellino segnaletico di Alessio Casimirri (l’unico br presente in via Fani e condannato a sei ergastoli, ma che a tutt’oggi non ha fatto un giorno di carcere, ancor oggi riparato nel Nicaragua governato dai sandinisti) dopo un "probabile" arresto di cui si è avuta traccia solo nel 2015. Rognoni era al Viminale, quando succedette a Rinaldo Ossola, nel 1982, come presidente dell’Associazione di amicizia italo- araba (carica che ha mantenuto per oltre un decennio). Incarico che non deve stupire visto che già dagli Anni Settanta, tra tutti gli esponenti della sinistra dc, “Gingio” era considerato il più filoarabo, sulla scia del suo mentore e maestro Luigi Granelli (che lui accompagnò in delegazione ad una Conferenza al Cairo di cui si ricordano interventi di fuoco di Granelli contro Israele).
Per tutti questi motivi, pochi anni fa i commissari della Commissione Moro II avrebbero voluto ascoltare l’ex responsabile del Viminale. Per sentire da lui cosa potesse rendere noto sulle novità emerse dagli archivi. Si sarebbero recati loro a Milano, in modo da evitare all’anziano politico una faticosa trasferta a Roma. Sono state scambiate mail su mail, ma alla fine Rognoni ha fatto in modo di far cadere la cosa.
Nel 2018, tuttavia, Rognoni ha trovato tempo e voglia per presentare un libro sui lavori della Commissione, scritta da Wladimiro Satta insieme all’unico parlamentare, Fabio Lavagno, che ha votato contro la Relazione finale dell’organismo parlamentare (approvato all’unanimità anche dall’Aula di Camera e Senato).
Evidentemente non si è trovato d’accordo con la ricostruzione del terrorismo italiano ed internazionale fatta dalla Commissione Moro II e con la sua principale conclusione. E cioè che la ricostruzione “ufficiale” della storia degli anni di piombo (quella nota fino alla recente apertura degli archivi) è stata il frutto di un negoziato tra istituzioni e le Br, per “confezionare” - grazie al cosiddetto Memoriale Morucci - “una verità di compromesso” che non alterasse equilibri internazionali troppo delicati, a cominciare da quelli con l’Est europeo e i palestinesi.
Tra l’estate del 1986 e quella successiva, 1987, un anno fondamentale - questo oggi lo sappiamo con certezza - per la stesura del Memoriale che viene attribuito a Valerio Morucci, Rognoni era Guardasigilli, cioè titolare del Ministero della Giustizia, che ha anche il controllo delle carceri.
“Gingio", sarà nuovamente ministro, nel luglio 1990, l’anno dopo della Caduta del Muro di Belino, con Andreotti presidente del Consiglio (per rimanervi fino al 28 giugno 1992). Nuovo ruolo, questa volta: ministro della Difesa.
Per andare al governo, ruppe con tutta la sinistra dc (i cui esponenti, compreso Sergio Mattarella, non erano d'accordo nell’impegnarsi nella formazione del nuovo esecutivo) e ruppe in modo clamoroso con Granelli che lo accusò pubblicamente di “essere un traditore”. Come responsabile della Difesa gestì (a partire da agosto) insieme al presidente Andreotti, il “disvelamento” della struttura della NATO che era stata creata alla fine della Seconda Guerra Mondiale per rendere operativa la resistenza nel caso di una eventuale invasione sovietica, la struttura Gladio-Stay Behind.
All’inizio di ottobre (1990), una nuova irruzione nel covo br di Via Montenevoso portò alla luce la parte “mancante" del Memoriale di Moro riguardante la Gladio. Ma secondo l’analisi filologica compiuta sulle varie versioni del Memoriale di Moro (se ne contano almeno quattro) e ai loro rimandi interni, da Francesco Maria Biscione (consulente della Commissione stragi e collaboratore dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana) mancherebbero però ancora all’appello il riferimento ai rapporti tra Andreotti e i servizi segreti e alle operazioni dei nostri servizi segreti in Libia.
Quello di ministro della Difesa è stato l’ultimo incarico governativo di Virginio Rognoni (anche se venne eletto dal 2002 al 2006, vicepresidente del Csm). Dopo che tanto tempo è passato dagli attentati e dalle stragi, oltre al Pnrr e alle riforme, il Paese ha bisogno di verità sulla sua Storia: dall’attentato alla Sinagoga al caso Moro. Perché un filo rosso li unisce: un filo rosso che emerge dai documenti ufficiali, non dalle dietrologie. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ne è consapevole e il 2 agosto 2021 (anniversario della strage alla stazione di Bologna del 1980) ha firmato una direttiva per un’ulteriore desecretazione di documenti.
Un uomo con un così lungo e prestigioso standing istituzionale, come Virginio Rognoni, non ha però sentito il bisogno di aggiungere nulla a quanto ha aveva detto in passato. Adesso porta vis con se' alcuni segreti della storia italiana.
La strage di via Fracchia e le torture: tante ombre sull’ex dc. Chi era Virginio Rognoni, a 98 anni se ne va il successore (più cattivo) di Cossiga. David Romoli su Il Riformista il 21 Settembre 2022
L’incontro con Virginio Rognoni, allora ministro degli Interni, scomparso ieri a 98 anni, lo racconterà anni dopo Marco Pannella. Erano entrambi a Montecitorio, di fronte al tabaccaio, e il leader radicale avvertì il ministro democristiano che la sera stessa, nel corso di una Tribuna autogestita con Emma Bonino, i radicali avrebbero mostrato in gigantografia le foto delle torture alle quali era stato sottoposto il brigatista rosso Cesare Di Lenardo. Pannella chiese anche all’importante esponente democristiano compianto oggi coralmente se fosse al corrente delle torture. Era il 1982. Lo Stato aveva già vinto la sua battaglia contro il terrorismo ma ancora non lo sapeva o non ne era sicuro. La risposta di Rognoni fu dunque gelida: «Questa è una guerra e il nostro dovere per difendere la legge e lo Stato, è coprire i nostri uomini».
La Tribuna andò regolarmente in onda. Tutti fecero finta di niente: erano moltissimi i bravi democratici che la pensavano come Virginio Rognoni, esponente di spicco della sinistra Dc molto vicino all’ex segretario Benigno Zaccagnini, dunque a Moro. Del resto quel “coprire” era probabilmente un eufemismo. Dopo il rapimento del generale Dozier, il 17 dicembre 1981, le pressioni di Washington sul ministero erano diventate martellanti. Uno dei principali dirigenti di polizia che lavoravano a tempo pieno sul sequestro racconterà trent’anni dopo, nel 2012, che il prefetto capo dell’intelligence del Viminale, prefetto De Francisci, convocò tutti e fu molto chiaro senza bisogno di fare nomi: «Ci dice che l’indagine è delicata, importante. Dobbiamo fare bella figura. Ci dà il via libera a usare le maniere forti. Indica verso l’alto, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte sarete coperti, faremo quadrato». Le torture non avevano aspettato l’ostaggio americano. La squadretta di torturatori detta “Quelli dell’Ave Maria” e guidata dal professor De Tormentis era attiva già dal 1978. Il sinistro, al funzionario Nicola Ciocia lo aveva dato direttamente il dirigente dell’Ucigos Improta, con in mente la Colonna infame di Manzoni. Che il ministro non fosse al corrente della pratica lo si dovrebbe escludere.
Forse il termine “coprire” è più adatto al comportamento del ministro dopo la strage di via Fracchia, il 28 marzo 1980. Quella notte i carabinieri del generale Dalla Chiesa irruppero nell’appartamento nel quale dormivano 4 brigatisti e li uccisero. Per rispondere al loro fuoco, dissero, ma ai giornalisti che per primi entrarono nell’appartamento fu invece chiaro, come affermerà molti decenni dopo Giorgio Bocca, che erano stati fucilati. I cronisti scelsero di coprire la mattanza e in tutta evidenza lo stesso fece il ministro. Nella leggenda popolare il ministro degli Interni a capo della guerra contro il terrorismo è stato Francesco Cossiga. Non è così. Quando Cossiga si dimise, dopo l’uccisione di Moro il 9 maggio 1978, il terrorismo era all’offensiva, lo Stato aveva subìto la sua più cocente sconfitta. Il compito di risollevare le sorti della battaglia adoperando il pugno di ferro se lo assunse Rognoni, un uomo discreto, gentile, universalmente lodato per la sua signorilità. Un democristiano diverso dalle star dell’epoca, che non mancavano di istrionismo, erano personaggi celebri, vistosi, conosciuti da tutti.
Rognoni no. Non si metteva in mostra. Era riservato, geloso della vita privata: un matrimonio durato 57 anni, fino alla morte della moglie Giancarla Landriscina conosciuta all’università, quattro figli, sei nipoti. A spingerlo ad accettare un incarico considerato allora ad alto rischio, succedendo a Cossiga, era stata proprio lei: «Hai scelto di fare politica: quel che segue lo devi accettare». Tuttavia fu proprio questo compassato signore a dare il via libera alle torture e a una guerra combattuta senza esclusione di colpi e senza pastoie legali. Nei guai il ministro ci finì una volta sola, nel 1980. Il primo grande pentito delle Br, Patrizio Peci, aveva parlato di un leader di Prima linea figlio di un ministro, Carlo Donat-Cattin. Cossiga, allora primo ministro, avvertì il padre, ne venne fuori uno scandalo coi fiocchi, Rognoni finì nel tritacarne ma ne uscì indenne. Lo Stato scelse di coprire, in questo caso non per meriti di guerra. La verità, tanto per cambiare, la raccontò Cossiga molti anni dopo. Disse che il primo reato lo aveva commesso il ministro, mettendo a parte dell’increscioso caso il segretario della Dc Piccoli. Decisero di informare insieme Cossiga. Fu proprio Rognoni, “gigante di coraggio”, a chiedere a Cossiga di informare lui Donat-Cattin, con il quale il titolare del Viminale “non andava d’accordo”.
Rognoni vinse la guerra con il terrorismo e perse quella con Cosa nostra. O forse non la combattè oppure non potè combatterla. Gli allarmi di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa, l’isolamento denunciato da quest’ultimo spedito a Palermo senza alcuna copertura da parte dello Stato rimasero lettera morta. Lo zu Totò chiuse la partita a colpi di kalashnikov. Nell’82 fu però lui a sostenere, firmare e far approvare la legge La Torre, nel frattempo assassinato, contro Cosa nostra. Dopo gli Interni Rognoni passò alla Giustizia, quindi alla Difesa. La tempesta dei primi anni 90, con la fine della Dc sembrava averlo spedito in pensione per sempre nel 1994, dopo 28 anni passati in Parlamento. Invece nel 2002 fu chiamato alla vicepresidenza del Csm, da dove fece muro contro ogni critica rivolta alla magistratura in perfetta consonanza con quella che era la linea del suo partito, La Margherita, e del partito di cui nel 2007 contribuì, con altri 11 saggi, a scrivere il “manifesto”: il Pd. Antifascista negli anni giovanili a Pavia anche se mai partigiano, giurista raffinato e colto, avvocato e docente, Virginio Rognoni è stato senza dubbio un democratico convinto e vicino all’anima più aperta e di sinistra dello scudocrociato. Ma è stato anche l’ultimo nella tradizione democristiana dei ministri degli Interni col pugno durissimo. David Romoli
Massimiliano Panarari per “Specchio – La Stampa” il 16 agosto 2022.
Cosa resterà degli anni Ottanta? Così cantava Raf al Festival di Sanremo nel 1989. Tanto, decisamente. L'inizio di questo periodo ha conosciuto la tragedia - non solo in Italia, ma specialmente nel nostro Paese - degli anni di piombo, prosecuzione della coda velenosa dei Settanta, una cappa cupa e sanguinosa che ha oscurato le strade e le speranze dei nostri connazionali con gli attentati e gli omicidi del terrorismo nero e del brigatismo rosso.
Gli Eighties furono così, per molti versi, anche una reazione a quanto avvenuto negli anni Settanta sotto il profilo politico-ideologico, nel quadro dell'ascesa del neoliberismo. Ovvero, il paradigma socioeconomico della rivoluzione neocon portata al potere dal thatcherismo e dal reaganismo, che trovò degli autentici manifesti cinematografici nelle saghe di Rambo (dal 1982) e Top Gun (dall'86).
Gli anni Ottanta - quelli che non sono mai finiti, a giudizio di alcuni osservatori - hanno rappresentato il trionfo del ritorno al privato e del «riflusso» di generazioni desiderose di lasciarsi alle spalle l'impegno collettivo (e certi suoi estremismi) per concentrarsi su di sé.
La nuova era dell'individualismo spinto e dell'edonismo reaganiano (per dirla col tormentone inventato da Roberto D'Agostino a Quelli della notte, poi divenuto una categoria tout court del dibattito culturale). Dal «tutto è politica» si è passati, per tanti versi, al «tutto è comunicazione», grazie al potenziamento anche tecnologico dei media, alla loro moltiplicazione, e ai mutamenti radicali della cultura e dello spirito dei tempi.
È il decennio che ha consacrato la «cultura del narcicismo» (come la denominò Christopher Lasch), in cui il culto del corpo - dal surf al body-building e al fenomeno sociale dell'andare in palestra - è letteralmente esploso, provenendo in primis (al pari di parecchie altre novità) dalla California, frontiera dell'Estremo Occidente.
Autorappresentazione di sé e autoperformatività che affondavano i loro albori simbolici in una celebre pellicola di John Badham di fine anni Settanta, La febbre del sabato sera con John Travolta. E che avrebbero gettato le basi per la ricerca sempre più frenetica di strumenti e opportunità per comunicare, una dimensione che rimanda anch' essa, in maniera eminente, all'espressione della soggettività (premessa per il successivo dilagare di quell'«autocomunicazione di massa» di cui ha scritto magistralmente Manuel Castells).
Il decennio dell'ascesa, nella triangolazione Parigi-West Coast-New York, della cultura postmoderna. Quella che, in un battibaleno, diventa di massa e pop(olare) con il successo planetario del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, pubblicato da Bompiani nel 1980.
E che incontra una macchina comunicativa e scenografica poderosa nelle varie edizioni dell'Estate romana, nata nel 1977 (anno seminale che chiude, di fatto, i «brevi Settanta» e inaugura i «lunghi Ottanta») su iniziativa di Renato Nicolini proprio per rianimare le piazze della capitale atterrita dalla violenza politica (e per animare le periferie), mescolando cultura alta e bassa, giustappunto secondo la visione di fondo del postmodernismo.
La colonna sonora del decennio - ricchissima - in Italia propone alcune hit storiche di ricerca del divertimento e di fuga dai "cattivi pensieri" e dalle preoccupazioni, come quelle dell'album Alè-oò di Claudio Baglioni ('82), Gioca jouer di Claudio Cecchetto ('81), Vacanze romane dei Matia Bazar ('83), Bello e impossibile di Gianna Nannini ('86), Gimme Five di Jovanotti ('88).
L'età aurea delle discoteche e del clubbing, anche nella versione di quella creatività individuale del look degli avventori che raggiungerà l'apice in locali quali il Tenax di Firenze, tempio della new wave. Soprattutto, gli anni Ottanta furono quelli del «diluvio commerciale» delle televisioni e radio private (come lo definì il sociologo dei media Jay Blumler) e della pubblicità, in grado di stabilire un'inedita egemonia sottoculturale, che in Italia venne sparsa a piene mani dal berlusconismo catodico.
Con le sue punte di diamante in trasmissioni tv come Drive In, un complesso «apparato finzionale», ispirato da alcune intuizioni del situazionismo rovesciate politicamente di segno che, dietro l'atmosfera ridanciana e disimpegnata, veicolava la nuova religione dell'iperconsumo (compreso quello sessuale, svestendo un gruppo di ragazze per la prima volta in prima serata) e un'ideologia de facto di taglio neoconservatrice.
E proprio allora ebbe inizio anche la marcia trionfale della rivoluzione informatica: Apple metteva sul mercato il suo pc Macintosh, accompagnandolo con lo spot 1984 diretto da Ridley Scott (reduce dal capolavoro Blade Runner); e il 20 novembre dell'85 Microsoft lanciava la versione originaria del sistema operativo Windows.
Dagospia il 16 agosto 2022. PRECISAZIONE CON RICHIESTA DI PUBBLICAZIONE
In Riferimento all’articolo
Caro Dago,
la risposta in questione è una garbata precisazione dell’ufficio stampa.
Fosse stato per me, mi sarei limitato a osservare, guardando la foto di Panarari, che purtroppo in alcuni casi Lombroso ha ragione. Antonio Ricci
Gentilissimo Massimiliano Panarari,
Con la pervicacia di un Goebbels de’ noantri, torna a ripetere falsità su Drive in. Così tocca pure a noi ripeterci e ri-ricordarle che il varietà di Antonio Ricci fu una trasmissione libera e libertaria, un programma comico e satirico che ha irriso e messo alla berlina protagonisti, mode e personaggi degli anni ‘80.
Una parodia dell’Italia di quegli anni esagerati, della Milano da bere, del riflusso, e di quell’edonismo reaganiano anche da lei nominato. Oreste Del Buono, Angelo Guglielmi, Federico Fellini, Umberto Eco e tanti altri intellettuali dell’epoca la definirono “la trasmissione di satira più libera che si sia vista e sentita per ora in tv” o “l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv”.
Ancora le facciamo notare che - come lei le definisce - “le ragazze svestite” erano altrove. Oltre che al cinema e sulle copertine dei settimanali di opinione, erano sui canali Rai. Rosa Fumetto ne Il Cappello sulle 23, Ilona Staller in C’era due volte, Barbara d’Urso in Stryx e quelle che facevano da tormentone in Due di tutto, per fare qualche esempio.
A Drive In, per la primissima volta in un varietà, le ballerine di fila (più vestite delle “donnine di Macario” e delle acrobate di qualsiasi circo) prendevano la parola e facevano battute, tra l’altro interpretando testi scritti da una donna, Ellekappa. All’epoca non si erano mai viste in tv tante comiche donne: da Margherita Fumero a Syusy Blady, da Olga Durano a Johara, da Caterina Sylos Labini a Luciana Turina e Antonia Dell’Atte. Una piccola grande rivoluzione che suscitò l’attenzione anche di Maria Novella Oppo che ne scrisse sull’Unità.
Vorremmo evitare anche di inviarle nuovamente il documentario di Luca Martera “Drive In: l’origine del male”. Potrebbe farsi un’idea più completa degli anni ‘80 e rivedere certe sue assurde certezze, ma non ci pare abbia troppa voglia di studiare. Visto, però, che l’anno prossimo Drive In compie 40 anni, ci riproviamo ed esprimiamo il desidero soffiando sulle candeline. Con l’augurio che lei non prenda più cantonate come accadde tempo fa con il deepfake di Matteo Renzi, ricorda?
Aveva sostenuto che Striscia la notizia aveva solo in seconda battuta rivelato che il famoso video era un falso. Mentre era stato lo stesso Ricci a darne notizia pochi giorni prima della messa in onda davanti a decine di giornalisti in una affollata conferenza stampa. Il fatto era stato riportato anche da La Stampa, quotidiano sul quale scrive, ma che evidentemente non legge. Per cortesia nella sua risposta non la butti, come sempre, in caciara. Fatti, non mal di pancia.
Cordiali saluti, L’Ufficio stampa di Striscia la notizia (e di quel che resta del Drive In)
DAGONEWS il 16 agosto 2022.
È un tormentone della rete. Un collage di memorabilia politico, datato trentacinque anni fa (sette anni prima della discesa in campo dal Cavaliere) con una catena di spot di famiglie felici che intonano: Forza Italia! E non per la nazionale, ma per la Democrazia Cristiana. Uno spot diventato iconico, creato dalla stessa agenzia che produsse quello de “Il Mulino Bianco” per la Barilla e della “Milano da bere” per l’Amaro Ramazzotti: “Per un sorriso, per la libertà, per un grande sogno, l’amore per l’avvenire, per una vita e la serenità, la tua casa e il lavoro del futuro dei tuoi sogni, forza Italia, forza Italia, Forza Italia. Fai vincere le cose che contano: vota Democrazia Cristiana”.
Un mondo semplice: con i comunisti, i socialisti e i socialdemocratici, i repubblicani, i liberali e i radicali e il Movimento Sociale Italiano (Destra Nazionale).
Si parte coi trenini di Spadolini. Un plastico che riduce in versione Rivarossi (o Lima) uno scenario da Cassandra Crossing dove sui treni c’è il destino del Paese (alla guida dei locomotori dei due convogli pronti a scontrarsi non si capisce se ci siano De Mita e Craxi. Fischio urlante e: “Diritti per la propria strada, decisi, irriducibili, così alcuni partiti, pretendono di uscire dalla crisi, ma quando nessuno da strada a nessuno, quando tutti vogliono tutto, la corsa al potere diventa la corsa verso il disastro.
Oggi c’è una via di uscita la via della chiarezza e della ragione. Imbocchiamola insieme” e un bel fermo immagine di Giovanni Spadolini - in modalità airbag - con invito a votare per lui (unico che si fa citare: “Vanità della vanità, tutto è vanità” Ecclesiaste). Poi c’è la Destra Nazionale, che gioca con la Nazionale, in azzurro. Siamo al rigore finale (in un montaggio tenerissimo; si passa da un’inquadratura di uno stadio stracolmo a un dettaglio di un calciatore che poggia il pallone sul dischetto in uno stadio vuoto e con anello per l’atletica – assente nell’immagine precedente: “Il momento è arrivato, puoi farcela. Basta un gesto per cambiare il tuo futuro e quello della tua nazione. È il tuo futuro in gioco, non sbagliare! Vota Movimento Sociale Italiano”. Il calciatore tira e fa goal. Dove tira? Al centro! Appunto. A corredo c’è la solita bella fiamma, tricolore, che arde ancora inconsapevole delle future polemiche ideologiche e, presto, energetiche.
Quindi scena bucolica, poi del lavoro, poi ragazzina che guarda in camera e tiene un’inquadratura stretta di 10” che nemmeno Liz Taylor al massimo splendore: “C’è un’altra possibilità eliminare l’inquinamento non l’ambiente. C’è un’altra possibilità far crescere il lavoro non solo i profitti. C’è un’altra possibilità una politica lontana dagli intrighi vicina ai cittadini. Vota Partito Comunista Italiano”. C’erano ancora i comunisti.
Elettore in cabina: “E questi si fanno un governo e non se lo votano (si riferisce al monocolore democristiano per cui ricevette l’incarico Amintore Fanfani con l’obiettivo di portare il Paese alle elezioni).
Questi sono contro quelli e poi ci vanno insieme. Questi fanno la terza posizione… E questi stanno alla finestra. Oooo gli unici con un po’ di buon senso mi sembrano i socialdemocratici. Da un anno a questa parte sono cambiati hanno coraggio di scegliere e parlano a viso aperto. Vota social democratico. Vota l’alternativa riformista! Oh – ritorna in camera il protagonista - diffidate delle imitazioni!”. A interpretare il cittadino, socialdemocratico, Gigi Reder, Luigi Schroeder, l’immortale Ragionier Filini. Paolo Villaggio, risponderà, nelle stesse elezioni, con un appello al voto per Democrazia Proletaria.
“Le regole del gioco: barare o cambiare? Hai un voto per dirlo: Partito Liberale Italiano. L’Italia è cambiata! Cambia con noi”. Spot grafico, dove i colori del tricolore si alternano e scambiano come carte da gioco. Segretario Renato Altissimo.
Quindi tocca alla DC seguita dallo spot dei radicali che intonano “Nel blu dipinto di blu” del loro Domenico Modugno - ne fu parlamentare e presidente - su immagini di Marco Pannella: “Se solo c’è in gioco il più piccolo dei tuoi diritti noi radicali siamo capaci di fare di tutto proprio di tutto. Capite perché si può decidere di votare radicale?” con un giovanissimo Giovanni Negri, che guarda in camera. Magrissimo.
Si chiude coi socialisti: “Costruiamo nuovi anni di progresso, di modernità, di eguaglianza. In questi anni l’Italia è cresciuta. Può continuare a farlo”. Si esce dalla lettura dello speaker: “Possibilmente con un fiore” è Bettino Craxi che guarda in camera con in mano un garofano. I socialisti rispondono al Filini socialdemocratico con un Minoli turbo socialista (in versione intervistatore ossessivo che insegue il leader socialista tra università, parchi, fabbriche e supermercati – qui sta alla cassa - per porgli irrimandabili domande).
Se ne viene dai due governi socialisti, in un’Italia che ha visto l’inflazione passare dal 16 al 4% e da una staffetta tradita del PSI con la Democrazia Cristiana.
Siamo in un mondo agli sgoccioli della “Guerra fredda”; in America vanno in onda la prima puntata di Beautiful e dei Simpson; Gary Hart, candidato democratico alla Presidenza, capitola su Donna Rice; l’Italia, a Sanremo, canta con Morandi, Ruggeri e Tozzi: “Si può dare di più”.
Sarebbe arrivato molto di meno.
Da repubblica.it il 16 agosto 2022.
Era il 1996. In Italia, due alleanze concorrevano alle elezioni del 21 aprile. La destra con il partito di Silvio Berlusconi, Forza Italia, Alleanza Nazionale e il CDD. La sinistra con il partito di Romano Prodi, il PDS, il PPI e le varie sinistre (coalizione dell'Ulivo). In un servizio del telegiornale francese Soir 3 Giorgia Meloni, all'epoca 19enne, viene descritta come una militante molto attiva di Alleanza Nazionale che riprende idee neofasciste.
Nell'intervista in francese, la Meloni spiega che Mussolini è stato un buon politico per l'Italia, un'idea (secondo la tv francese) condivisa dal 61% dei militanti di Alleanza Nazionale e da quella di sua madre, Anna Paratore, ex militante del partito fascista MSI e poi di Alleanza Nazionale.
Massimo Caprara amarcord. C’era una volta la passione. WALTER VELTRONI su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.
Un testo edito dalla Camera dei Deputati ripropone i discorsi dell’esponente comunista. Il volume sarà presentato giovedì 23 giugno a Roma nell’Aula dei Gruppi parlamentari
Il nome di Giovanni Battista Giuffrè dice qualcosa? Probabilmente no, son passati tanti anni. Eppure alla fine degli anni Cinquanta era sulla bocca di tutti. Per lui fu inventato il soprannome di «banchiere di Dio» (che tornerà poi appiccicato a spalle ben più importanti, come quelle del cardinale Paul Marcinkus), lui fu il protagonista di uno scandalo che coinvolse i pubblici poteri e quelli ecclesiastici che fece intravvedere il rischio di una finanza sregolata che raccoglieva fondi per «costruire nuove chiese» e che finì per rovinare risparmiatori ingenui (arricchendone pochi ma molto meno ingenui). Sono passati più di sessant’anni eppure nelle pagine di un volume edito dalla Camera dei Deputati emerge una descrizione vivida e acuta. Non è un’inchiesta giornalistica, ma l’intervento di un parlamentare, un parlamentare un po’ speciale che risponde al nome di Massimo Caprara.
Questi scritti — pensati per esser letti in un’aula severa, senza dirette televisive — hanno una nitidezza e una profondità che ancora suscitano ammirazione. Polemiche politiche durissime ma non urlate o condite di insulti ma ricche di dettagli, di studio, in cui i fatti si allineano e le domande incalzano. Che si parli dello scandalo dei «banchieri anonimi» (questo il nome scelto per la commissione parlamentare d’inchiesta non su Giuffrè ma sui mancati controlli che avevano reso possibile quello scandalo), o della speculazione edilizia a Roma, e — con una passione personale ancora maggiore — della drammatica situazione di Napoli nel lungo dopoguerra, Massimo Caprara è sempre lì: documentato, pungente, affronta di petto i problemi, polemizza direttamente con i membri del governo.
Caprara è stato, dal 1953, deputato per quattro legislature, era il secondo eletto della circoscrizione di Napoli (il primo era regolarmente Giorgio Amendola, capolista) era famoso per la sua cultura, per i suoi modi, per il rapporto di confidenza con Palmiro Togliatti di cui per anni era stato segretario. E già qui vediamo come nell’idea di un Pci tutto di ferro c’è qualche cosa che non va. Immaginate un leader politico che arriva in Italia nel 1944, in piena guerra, dopo un lungo esilio, che era stato tra i capi dell’Internazionale comunista, che a Mosca aveva vissuto gli anni di ferro e di fuoco. Ebbene, la prima cosa che fa — appena lanciata la svolta di Salerno — è quella di andare in cerca di giovani di talento: incontra Massimo Caprara, parla con lui di letteratura francese, di poeti ermetici e lo sceglie come redattore di «La Rinascita» e poi come suo segretario personale. Ci voleva del coraggio per scommettere su un giovane, appassionato borghese nato a Portici e approdato al comunismo negli ambienti culturali della Milano dove aveva studiato da liceale e nella Napoli dove aveva animato un circolo di giovani intellettuali raccolti attorno a «Latitudine». Aveva coraggio Togliatti, ma anche occhio, perché Caprara e quel gruppetto di amici «diventarono» il regista Franco Rosi, il romanziere Raffaele La Capria, lo scrittore Luigi Compagnone, il promettente dirigente politico (anche se allora si occupava soprattutto di teatro) Giorgio Napolitano.
Ecco, questi discorsi parlamentari ci raccontano una generazione e una Italia che può apparirci lontana ma nella quale stanno le nostre radici. La passione per il Mezzogiorno (quello orgoglioso, non quello «con la mano tesa del mendicante», come ebbe a dire lui stesso) lo portò a essere sindaco di Portici, a battersi contro Achille Lauro, il sindaco monarchico e il padre di una specie di populismo straccione, persino a fare un cameo nel film di Rosi Le mani sulla città insieme a quel gruppetto di amici che si chiamavano Carlo Fermariello, Andrea Geremicca, Maurizio Valenzi... Ma la biografia di Caprara non si ferma certo qui, perché la sua è la «storia di un italiano che ha attraversato il XX secolo», come si intitola la bella e complessa prefazione firmata da un altro Caprara, Maurizio, che i lettori di questo giornale conoscono bene. E la sua è stata anche una storia di dissensi, di uscite, di ripensamenti, di una ricerca spinta da domande e urgenze. Massimo Caprara fu tra quanti vennero radiati dal Pci per la nascita del «Manifesto». Attraversò l’esperienza di quel giornale (più che del partito che ne era stato il frutto) tenendo insieme il rispetto per il Parlamento e le istituzioni e la passione per i Consigli di fabbrica e le nuove forme di democrazia. Soprattutto scrivendo, con la sua lingua allenata ai poeti simbolisti francesi e alle battaglie politiche.
Rileggere oggi queste carte ci dice molto di noi, della nostra storia, di una generazione di italiani che si era scrollata di dosso quel fascismo nel quale erano nati. Che ha vissuto intrisa di politica e, man mano, scoprendo, anche nel proprio campo ideologico, la bellezza del dubbio, sinonimo di libertà.
Giovedì 23 alle 18 - La presentazione a Roma nell’Aula dei Gruppi
Il volume che raccoglie i Discorsi politici e parlamentari di Massimo Caprara sarà presentato giovedì 23 giugno alle 18 a Roma (Aula dei Gruppi parlamentari, via di Campo Marzio 78, 06.67609307, cerimoniale.adesioni@camera.it). Dopo l’intervento introduttivo di Ettore Rosato, vicepresidente della Camera, sono in programma interventi di Rocco Buttiglione, già vicepresidente della Camera, di Anna Finocchiaro, presidente dell’associazione «Italiadecide», di Filippo Ceccarelli, giornalista. Partecipa Maurizio Caprara, modera la giornalista Giovanna Pancheri. Durante l’incontro l’attore Ignazio Oliva leggerà alcuni brani dal volume. Il libro di Massimo Caprara è reperibile nella libreria online della Camera dei Deputati a link: camera.it/leg18/1163.
Il volume e la vita
Discorsi politici e parlamentari di Massimo Caprara, a cura della Biblioteca della Camera dei deputati, con una introduzione di Maurizio Caprara, sono editi dalla Camera dei Deputati (pp. 244, euro 10). Politico e giornalista, Massimo Caprara (Portici, Napoli, 7 aprile 1922) fu, tra l’altro, segretario particolare di Palmiro Togliatti, sindaco di Portici dal 1952 al 1954, deputato eletto nelle liste del Pci per quattro legislature, membro del comitato centrale del partito e segretario regionale del Pci in Campania. Tra i fondatori del gruppo del «Manifesto», nel 1969 venne radiato dal Pci. È morto a Milano il 16 giugno 2009
Prima repubblica e crisi della politica. La morte della democrazia non fu colpa solo di De Mita. Enzo Carra su Il Riformista il 5 Giugno 2022.
Caro direttore, nel tuo epicedio per Ciriaco De Mita, così diverso dagli altri da sembrare stonato, ma la politica non obbedisce a un canone melodico, tu concludi, perdona la citazione demitiana, con un ragionamento. Dici che da “quando non c’è stata più la grande politica è rimasto solo il demitismo e a quel punto è stato spazzato via tutto e quindi è stata spazzata via la Prima Repubblica.”
Così, tu attribuisci a De Mita un ruolo imponente nell’ultima fase di quella che con leggerezza chiamiamo Prima Repubblica (è forse stata cambiata la Costituzione?). Certo, dal caso Moro in poi quella parte della nostra storia ha proseguito il suo corso come sospesa, malamente, senza idee e senza progetti. La cosiddetta lotta politica s’era trasformata dalla fine degli Anni settanta in uno scontro tra i detentori del potere e quelli che volevano impossessarsene. Per dire: Andreotti spogliato del governo dopo il caso Moro punta sull’elezione di De Mita alla segreteria della Democrazia Cristiana per poi mollarlo appena ottenuto il ministero degli esteri da Bettino Craxi. Per dire.
Negli Anni ottanta la “grande politica” è assente. Molta tattica, un governo a guida socialista appoggiato da una parte della Democrazia Cristiana e il partito di Scalfari-Repubblica che appoggia De Mita: c’è questo e poco altro in quel fine secolo ed è complicato limitare a uno solo dei protagonisti dell’epoca la responsabilità del crollo. È sicuro invece che questo crollo, tu lo definisci icasticamente la “morte della democrazia”, avviene nel maggio del 1982 quando si vota per il presidente della repubblica. Sarà il successore di Francesco Cossiga, il “picconatore” tanto per restare in tema di crolli. In quei giorni si consuma l’ultimo atto della repubblica dei partiti. Si inizia con un saggio di filodrammatici, li chiamano franchi tiratori, che seminano trappole e si finisce avvolti dalle fiamme in una tragedia che brucia uomini e istituzioni.
Cominciamo dalla fine, una fine vera. Lunedì 25 maggio a metà giornata i grandi elettori applaudono Oscar Luigi Scalfaro nuovo capo dello stato: hanno votato a stragrande maggioranza una persona che prima di quell’infernale week end avevano escluso dalla lista degli eleggibili. Sono le fiamme e la tragedia di Capaci a obbligare quell’esercito allo sbando a votare per Scalfaro, il candidato al di sopra di ogni sospetto. E alla domanda perché Riina e gli altri assassini abbiano scelto quel giorno per la strage la risposta è: Andreotti. Dopo Salvo Lima, Cosa Nostra completa la sua vendetta contro chi l’ha scaricata con quell’orrore inimmaginabile che impedirà a Andreotti di chiudere al Quirinale la sua carriera politica.
Per ottenere questo risultato però non c’era bisogno di quintali di tritolo perché già dall’estate del 1990, al rientro a Roma della commissione parlamentare antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte da una importante e rivelatrice missione a Palermo, i comunisti fanno sapere ad alcuni dirigenti democristiani che il partito non sosterrà più Andreotti. La Democrazia Cristiana tiene conto di questa decisione del partito con il quale ha sempre condiviso la scelta al Colle più alto. Una prassi che ha tollerato un’unica eccezione, il voto per Giovanni Leone che mandò il giurista al Quirinale e su tutte le furie il partito comunista, neutralizzato in quell’occasione, che poi seppe come dilaniare il presidente che non doveva ringraziarlo. Il 1992 è un anno speciale. Mani Pulite è partita da poco ma promette grandi cose e i partiti, tutti i partiti comunisti compresi, non hanno lo smalto di una volta, anzi boccheggiano.
Un’ultima volata, un disperato sforzo di restare in piedi per non mandare all’aria il sistema -la Prima Repubblica– che non ha alternative se non quella dell’avventura come sistema, è questo il tentativo del quadripartito (democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali). Un’operazione che nello scrutinio decisivo potrà raccogliere i cosiddetti voti in libertà da sinistra e forse anche da destra. Una scelta conservativa, sì ma per evitare il peggio. È vero, all’occorrenza ci sarebbe anche Oscar Luigi Scalfaro, il “candidato di Marco Pannella” come scrivono i giornali. Non è per questo che sul quel nome ci sia il “no” della Democrazia Cristiana. Ciriaco De Mita, presidente del partito con Forlani segretario, non dimentica la severità curiale, l’enfasi moraleggiante, la demagogia con cui Scalfaro ha condotto, da presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, i fatti della ricostruzione in Irpinia.
Prima Montanelli sul Giornale, con una grande inchiesta giornalistica di Paolo Liguori, ha sommerso di accuse il “clan degli avellinesi”, poi la commissione parlamentare ha messo in bella copia e dettagliato quelle denunce. Raro esempio di un’azione giudiziaria ispirata e sorretta da un’inchiesta giornalistica, da allora in poi infatti avverrà il contrario e i giornali aspetteranno il via, soprattutto le carte dalle procure. De Mita controlla un buon quaranta per cento dei grandi elettori della Democrazia Cristiana e i suoi orientamenti influenzano l’intero arco costituzionale che del resto è una sua invenzione. Arnaldo Forlani è capo della parte moderata che adesso si chiama Azione popolare e comprende la vecchia cara corrente del Golfo che fa capo a Antonio Gava.
Insomma, il candidato Forlani parte bene anche se Mario Segni, ex capo dei superanticomunisti democristiani, i “101” di Massimo De Carolis e Luigi Rossi di Montelera, sta molto simpatico al capo dei democratici di sinistra Achille Occhetto. Segni chiede un completo rinnovamento del suo partito, a cominciare dal candidato alla presidenza, ma i suoi amici di partito non raccolgono l’appello. Non tanto per il rinnovamento in sé quanto per gli uomini che lo reclamano. Superato questo problema resta solo la prova dell’aula. De Mita e Forlani sentono odore di bruciato, è soprattutto De Mita a intuire che qualcuno sta armando una piccola ma efficace forza speciale di franchi tiratori. All’operazione lavora probabilmente Cirino Pomicino e quei pochi che credono nel rientro di Andreotti.
Tra i congiurati non figura Vittorio Sbardella, lo Squalo, come è sobriamente definito il capo andreottiano di Roma e dintorni, odia talmente Pomicino da fare qualunque cosa pur di far fallire i piani del rivale. Il cui piano è però talmente striminzito da sfuggire ai controlli. “Mi dissero che si trattava di bloccare Forlani perché poi sarebbe entrato Andreotti e con lui noi parlavamo meglio” mi racconta anni dopo un ex sottosegretario socialista di Ariano Irpino che un tempo si chiamava Ariano di Puglia ed è distante da Nusco. I franchi tiratori che sfuggono a De Mita e atterrano Forlani sono 39 al quinto scrutinio e 29 al sesto. Voti di andreottiani che sperano, socialisti che odiano Bettino Craxi, qualche socialdemocratico e un paio di liberali del genere hai visto mai.
Ecco fatto, Forlani getta la spugna, sconfitto dai franchi tiratori, dopo aver respinto con sdegno una possibile trattativa con Bossi proposta da Pierferdinando Casini. Chi si sente sconfitto più di lui è De Mita che vede con chiarezza pararsi davanti la fine della democrazia nel senso della Prima Repubblica, come la definisci tu, caro direttore. Stavolta, davvero, non è colpa sua ma dei sogni irrealizzabili di certi avventurieri. Enzo Carra
Arnaldo Forlani e la lezione del Padreterno democristiano. Redazione L'Identità il 9 Dicembre 2022
Arnaldo Forlani compie novantasette anni, e io sono contento due volte: per lui, e per noi. Per lui, si capisce: ha avuto il dono di una lunghissima vita, la prima parte della quale occupata da straordinari onori pubblici, l’ultima segnata dall’umiliazione dell’oblio, ingiusto ma da lui accettato col buon senso marchigiano che mette la bilancia in pari tra glorie e dolori. Sono contento anche per noi, che siamo gli ultimi ragazzi democristiani, ormai sessantenni, giovani solo quando ci troviamo tra di noi, o quando – in giorni come questo – ci rapportiamo ai grandi maestri della nostra giovinezza. E’ un anno triste, perché si è portato via Ciriaco De Mita e Gerardo Bianco. Bianco fu il più grande sostenitore di Forlani, con cui condivideva le idee, la moderazione e soprattutto la straordinaria signorilità. De Mita invece fu gemellato ad Arnaldo nel patto di san Ginesio, dal nome del paesino marchigiano dove i due si allearono conquistando e dividendosi la segreteria della Dc. Pensavano di aver fatto fuori la vecchia guardia del partito, che invece fece fuori loro, alla prima fermata utile, come si usava nella Dc. Altri tempi. Ma ogni anno è bello fare gli auguri ad Arnaldo, ed assaggiare con lui quella quota di eternità democristiana che il Padreterno gli ha permesso di godere già su questa terra. Certo, l’ultimo segretario dc vivente non fa più interviste, non esce, mi dicono che non segue neppure più i telegiornali, ad essi preferendo le partite di calcio, dopo la politica la sua seconda passione (forse quella che gli ha recato meno dolori). Ma Arnaldo c’è ancora, e siamo felici di fargli gli auguri. Forlani non ha più parteggiato per nessuno , dopo la fine della Dc. Penso che abbia preferito il centrodestra al centrosinistra, ma come elettore, senza particolare coinvolgimento. Ha seguito con distacco le vicende della politica, persino quando hanno coinvolto suo figlio, valoroso parlamentare del CCD. Eppure Forlani è stato il solo democristiano consapevole di quanto stava accadendo al partito. Sfogliamo l’album dei ricordi, recuperando alcuni suoi pensieri che scandivano l’inizio della lunghissima e non ancora conclusa transizione postdemocristiana: ‘ se vi riunirete per provare a rifondare la Dc, scoprirete solo il motivo per cui ci siamo divisi’. E ancora: ‘in politica, come nel teatro, a un certo punto cambiano gli scenari, e la cosa più penosa è quando gli attori recitano la parte che sanno a memoria, senza accorgersi che alle loro spalle è stata montata la scena successiva’. E sulla fine dell’unità dei cattolici: ‘ se ci divideremo, nasceranno due partiti che faranno a gara a quale dei due sarà più cattolico, e continueranno a dividersi senza più limite’. Oggi siamo arrivati a contare settantacinque sigle centriste e democristiane. Auguri Arnaldo, lunga e vita e complimenti soprattutto per esserti tenuto a distanza dai paciughi con cui ci siamo baloccati noialtri ragazzi democristiani privi della tua guida sorniona e discreta.
Festa della Repubblica, chi era la ragazza della foto simbolo del Referendum? Un mistero risolto lungo 70 anni. Alessandro Vinci su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.
Federico Patellani, il reporter che realizzò lo scatto, non lo volle mai rivelare. La svolta nel 2016 grazie a una segnalazione anonima.
È il volto simbolo della Repubblica italiana, ma la sua identità è rimasta ignota per 70 anni. Quindici giugno 1946: sulla copertina del settimanale Tempo campeggia una fotografia che sarebbe entrata nell’immaginario collettivo. Una ragazza, la cui testa attraversa la prima pagina del Corriere della Sera del 6 giugno 1946, guarda sognante verso il cielo. «È nata la Repubblica italiana» il titolo a piena larghezza, riferito all’esito dello storico referendum istituzionale di quattro giorni prima. A realizzare lo scatto la Leica di Federico Patellani, caposcuola del fotogiornalismo nel nostro Paese nato a Monza nel 1911. Già documentarista militare durante la campagna di Russia, tra il 1943 e il 1945 aveva trascorso due anni e mezzo di internamento in Svizzera. Poi, una volta tornato in Italia, aveva ripreso a collaborare con la rivista milanese.
Emblema di speranza e fiducia nel futuro, l’immagine venne intitolata «Rinasce l’Italia» e, grazie alla sua potenza espressiva, non faticò a tramutarsi in un manifesto universale per le celebrazioni del 2 giugno. Parallelamente crebbe la curiosità di saperne di più. Non suscitò particolare sorpresa scoprire che non si trattava di una foto «spontanea», scattata cioè immortalando un genuino momento di gioia della protagonista. L’istantanea è infatti frutto di ben 41 provini a contatto oggi conservati presso il Museo della Fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo (Milano). In alcuni la giovane è ritratta davanti a una serie di manifesti, in altri legge il giornale, in altri ancora esulta con il pugno alzato. Infine l’idea vincente: quella dello «sfondamento» della prima pagina (in un primo momento anche con la mano sinistra, come dimostra il buco rimasto sotto il sommario).
Ma chi era quella ragazza? Malgrado le ripetute insistenze dei curiosi, Patellani, scomparso nel 1977, tenne sempre la bocca cucita. Molti pensarono potesse essere identificata con una sua familiare, ipotesi però smentita dal figlio Aldo. Secondo un’altra versione, invece, sarebbe stata un’ex partigiana. Ebbene, dopo decenni all’insegna del mistero, a fare luce sul caso è stata nel 2016 un’inchiesta pubblicata su Medium da Giorgio Lonardi e Mario Tedeschini Lalli. I quali, dopo aver invitato chiunque avesse informazioni utili a farsi avanti, hanno ricevuto una segnalazione anonima: «Finalmente trovo il tempo affinché sia dato giusto onore alla figura sorridente che con il suo volto giovane sbuca dalla pagina del Corriere della Sera dal lontano 1946». Ed ecco poi l’agognato nome, scritto nero su bianco: Anna . Anna Iberti. All’epoca 24enne e futura moglie di Franco Nasi, tra i primi giornalisti del Giorno. Come poi emerso, in quel giugno 1946 lavorava come impiegata nell’amministrazione dell’Avanti! , quotidiano del Partito Socialista per il quale in quei mesi scriveva anche lo stesso Nasi. In precedenza, concluse le scuole magistrali, aveva invece avuto una breve esperienza come insegnante, mentre dopo il matrimonio preferì lasciare il lavoro per dedicarsi interamente alla famiglia.
Non restava a quel punto che mettersi sulle sue tracce. Lonardi e Todeschini Lalli hanno però scoperto che la donna è scomparsa nel 1997. In compenso hanno raggiunto a Milano le figlie Gabriella e Manuela, che ancora conservano alcune stampe del servizio fotografico. «Quasi quasi mi spiace che diventi pubblica questa cosa che per tanti anni è rimasta in famiglia», ha detto la prima. «La mamma era un tipo molto riservato, parlava poco di questa cosa», le ha fatto eco la seconda. Sono state tuttavia proprio loro a rivelare, sulla base degli scarni racconti della madre, che lo scatto venne realizzato sulla terrazza del palazzo di via Senato 38 che ospitava la redazione milanese dell’Avanti!. Resta però un ultimo punto da chiarire: in che modo Patellani conobbe Anna, arrivando poi a chiederle di posare per lui. Di certo i due avevano diverse amicizie in comune nel mondo del giornalismo ma, considerato che il figlio Aldo «non ricorda alcuna particolare frequentazione tra le due famiglie», a ben vedere è proprio questa la vera domanda destinata a restare senza risposta.
I cavalieri del grande centro tra pacifismi e nemici. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.
Vi fanno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Li accomuna l’esibita devozione (intermittente nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostamento di bilancio, al non essere ossessionati dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Pnrr)
Le parole pronunciate da Silvio Berlusconi, tre giorni fa, all’uscita dal ristorante «Cicciotto a Marechiaro» davano un’innegabile sensazione di schiettezza. Maggiore, l’autenticità, di quella rintracciabile nelle declamazioni dello stesso Berlusconi il giorno successivo alla Mostra d’Oltremare. Fuori dal locale napoletano, l’ex presidente del Consiglio aveva detto in modo nitido che — fosse per lui — si dovrebbe smettere di dare armi all’Ucraina; che, qualora si decidesse di continuare a fornire armamenti alla resistenza antirussa, bisognerebbe farlo di nascosto; e che l’Europa dovrebbe impegnarsi a costringere Zelensky a prestare ascolto alle indicazioni che gli vengono da Putin. Una cosa, quest’ultima, che fin qui non aveva proposto neanche Vito Rosario Petrocelli.
L’indomani, alla convention di Forza Italia, Berlusconi è stato meno sorprendente limitandosi a rievocare la propria militanza atlantica risalente al 1948 (stavolta omettendo però ogni menzione di Putin). E a richiamare il rischio che l’Africa venga lasciata in mano ai cinesi. Senza tralasciare l’appello per un coordinamento militare comune della Ue. Evocazione, quella dell’«esercito europeo», alquanto diffusa nel discorso pubblico italiano, ad uso di chi intenda manifestare una qualche presa di distanze dagli Stati Uniti.
Berlusconi ovviamente non si è poi sentito in obbligo di rettificare quel che aveva detto all’uscita dalla trattoria. Parole venute dal cuore, pronunciate nella consapevolezza che avrebbero avuto la dirompenza di un missile piovuto dalla Russia sulla politica italiana. Con conseguenze fin d’ora ben individuabili.
L’allocuzione da «Cicciotto a Marechiaro» ha aperto la via per la nascita — all’insegna del no alle armi all’Ucraina — di un nuovo Grande Centro del quale faranno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Schieramento al quale Berlusconi porterà in dote l’ancoraggio al Partito popolare europeo. E che costituirà una sorta di approdo naturale per tre partiti anomali che hanno fatto la storia di questi trent’anni (Berlusconi più degli altri, quasi venti). M5S, Lega e Fi hanno all’attivo d’aver ottenuto, in fasi diverse del trentennio, alcuni ragguardevoli record di voti. Favorite (talvolta danneggiate) dalla presenza di leader impegnativi.
Tre formazioni che non hanno un’autentica parentela con la storia della Prima Repubblica. Né — eccezion fatta (forse) per Forza Italia — con i filoni tradizionali della politica europea. Tre partiti che nel corso della loro vita hanno dato prova di non essere refrattari ai cambiamenti di orizzonte, di strategia e di alleanze. Anche repentini. E che, per il motivo di cui si è appena detto, hanno come tallone d’Achille il non potersi fidare l’uno dell’altro. Li accomuna, però, l’esibita devozione (intermittente nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostamento di bilancio, al non essere ossessionati dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Piano nazionale di ripresa e resilienza). In politica estera, sono uniti da un’ostinata ricerca di orizzonti sempre nuovi. Ad est, s’intende.
Questo Grande Centro è già oggi largamente maggioritario in Parlamento. E, se rimarrà intatta la legge elettorale, al momento della composizione delle liste sarà determinante per entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra. Ma, anche se si adottasse un sistema proporzionale, questo insieme di partiti, nelle nuove Camere, avrà quasi certamente i numeri per condizionare ogni possibile maggioranza. A meno che, nel Parlamento rinnovato, non si costituisca un asse tra Fratelli d’Italia, il partito di Enrico Letta e quelli di Centro. Un asse — però — assai improbabile.
Quanto a chi fa affidamento sulle potenziali secessioni dei Di Maio, Gelmini o Fedriga, va osservato che nelle retrovie della sinistra e dello stesso Pd si annidano truppe di dubbiosi pronte a rimpiazzare gli eventuali secessionisti ricongiungendosi al M5S nel nome dell’ostilità agli Stati Uniti e alla Nato. Truppe peraltro già ben visibili.
In attesa delle elezioni del 2023, si può notare che il minimo comun denominatore di questo Grande Centro, oltre alla quasi esibita antipatia per la causa di Kiev, è una ben individuabile avversione nei confronti di Mario Draghi nonché dell’attuale governo. Si intravedono dunque per l’esecutivo draghiano settimane, mesi di inferno: il percorso di qui alla fine della legislatura sarà disseminato di trappole e mine.
Unico particolare trascurato dai nuovi «partigiani della pace» è l’impegno atlantista di cui, negli ultimi tre mesi, ha dato prova il Capo dello Stato. Un impegno manifestato senza dubbi, incertezze, esitazioni. E che, proprio per questo, potrebbe riservare qualche sorpresa.
Cossiga, Craxi e Andreotti: quando l'Italia atlantista si faceva rispettare. Luigi Bisignani su Il Tempo il 22 maggio 2022.
Caro direttore, grande fermento in Paradiso: “Bettinoooo, Giulioooo, nemesi! Nemesi storica!”, va urlando Francesco Cossiga, collegato via satellite con i lavori del Senato, dove Stefania Craxi è stata appena eletta Presidente della Commissione Esteri determinando l’ennesima débâcle M5Stelle.
“Giuseppi è finito in pellicceria in meno di niente”, commenta Craxi, armeggiando con le sue scarpe di tela, tagliate in punta, per lasciare ai suoi alluci quella libertà smarrita da vivo.
Andreotti, alle ultime battute del suo nuovo libro “I Santi visti da vicino”, ridacchia ironico: “Fare simultaneamente il compare dei cinesi e degli americani è complicato per tutti, figuriamoci per uno che viene da Volturara Appula.”
Cossiga: “Eppure ha avuto un grande maestro, il professor Guido Alpa che avrei voluto alla Consulta. Ma era troppo giovane…”.
Andreotti: “Alpa non ha colpe. Del resto anche Gesù tra gli apostoli aveva Giuda”.
Craxi: “Su Conte se ne sta accorgendo pure Grillo, al quale ho perdonato, ma non dimenticato, quella battuta infame su di me”.
Cossiga: “Lascia stare, su quella stagione di manettari tu e Giulio non avevate capito nulla”.
Andreotti: “Riflettendoci, tutto iniziò con l’accordo sulla moneta unica europea. Me lo fece notare Guido Carli tornando in aereo”.
Carli : “La tua memoria è infallibile. Dissi che avevamo creato un vincolo europeo più forte di quello Atlantico e che a Roma non avevano capito nulla”.
Cossiga: “In compenso lo capirono molto bene a Washington scatenando, poco dopo, Mani Pulite per “sfarinarci”, come direbbe Rino Formica. E non solo a Washington, anche a Londra”.
Andreotti: “Addirittura la regina?”.
Cossiga: “Non la regina. Il Britannia, lo yacht reale che approdò a Civitavecchia per dar via alle privatizzazioni”.
Craxi: “In Russia le privatizzazioni le hanno fatte gli oligarchi. Da noi, invece, la finanza anglo giudaico massonica”.
Andreotti: “Sul Britannia Ciampi spedì a fare il discorso inaugurale il mio bravo Mario Draghi. Ed era in buona compagnia, da Barclays a Goldman Sachs. Ma anche Bazoli e Andreatta”.
Cossiga: “Draghi ringraziò “gli invisibili britannici” e se la svignò. Forse si era già pentito”.
Craxi: “Da allora hanno svenduto l’Italia! Mancava solo Alessandra Ricci alla Sace, imposta dal solito duo Giavazzi-Funiciello, in passato nemica numero uno delle aziende pubbliche italiane, da Fincantieri a Finmeccanica.
Andreotti: “Si ha la sensazione di assistere ad una cessione di sovranità. Speriamo che Mattarella li mandi tutti a casa”.
Serafica, come sempre, sopraggiunge Santa Madre Teresa di Calcutta che, zittendoli, mette tutti in preghiera: “Dovreste essere felici. La Fondazione Craxi è riuscita a organizzare un Convegno sulla vostra meritoria azione in terra, coinvolgendo eminenti storici come Giovanni Orsina, Antonio Varsori, Lucia Coppolaro e Andrea Spiri”.
Andreotti: “Almeno per una giornata non sono Belzebù e il presidente Craxi non è il cinghialone”.
Cossiga: “Brava Stefania per il Convegno e bravo tuo figlio Stefano, insieme al mio amico Sessa, l’ambasciatore, hanno saputo come rendervi omaggio con lavoro di verità e ricordi. Invece i miei figli…di me, laggiù, non parla più nessuno”.
Andreotti: “La mia presentazione come un papalino romano mi è piaciuta”.
Craxi: “Io come garibaldino lombardo un po’ calvinista mi ci vedo proprio”.
Andreotti: “Nonostante ciò molti sono i punti in comune tra noi”.
Madre Teresa: “Penso all’ingiusto calvario che avete subito: un cattolico che crede nella Provvidenza e nel Disegno Divino e un garibaldino con le sue sofferenze, appunto, che si ribella e contrattacca innanzi alle ingiustizie”.
Cossiga: “Pragmatici direi. L’ambito internazionale rappresenta il vostro lascito più significativo. Entrambi atlantisti; di un atlantismo della ragione che rendeva l’Italia un interlocutore credibile”. E malinconicamente aggiunge: “Non come questi pupazzi di oggi”.
Madre Teresa: “C’erano anche punti di dissenso”.
Andreotti: “Certo! Ma eravamo avversari, non nemici. Rammento ancora poco prima del mio sesto governo, nel 1989, che parlammo a quattrocchi in un salottino di Villa Madama dove mi diede il viatico del PSI”.
Craxi ridendo: “Lo ricordo bene. A volte mandavi Peppino Ciarrapico, che ci metteva del suo”.
Andreotti: “In pochi mi mettevano di buonumore come il Ciarra, gli perdonavo tutto”.
Cossiga: “Anche l’assegno a vuoto a Gorbaciov per il Premio Fiuggi?”.
Andreotti: “ Mai avremmo pensato che lo incassasse subito. A coprirlo provvide il caro Geronzi”.
Madre Teresa: “Sempre questi gossip, serietà! Quindi? I punti salienti di maggior dissenso?”.
Cossiga: “Il Primo? Una lettura completamente diversa del compromesso storico. Andreotti veniva ancora percepito come l’uomo del dialogo con i comunisti. Una percezione che gli è costata addirittura la diffidenza iniziale di San Karol Wojtyla. E poi la vicenda Moro”.
Andreotti: “Hai sentito Bettino che hanno fatto un’altra fiction su Aldo Moro? Una serie, come dicono ora! Una nuova mascalzonata dopo quella de ‘Il Divo’ ”.
Craxi: “Sono sempre loro. Stavano coi russi e spiegavano come difendere la democrazia a noi democratici. Mi viene da sorridere a pensare alla fermezza che si evocava per Moro contro la trattativa socialista quando poi si è trattato, giustamente, grazie all’AISE, per ogni nostro singolo ostaggio. E adesso la sinistra illuminata riscopre la trattativa anche per l’Ucraina”.
Cossiga: “A me han dato pure del bipolare e hanno mandato uno psichiatra al Quirinale perché dicesse che ero pazzo”.
Craxi: “Rinnegati! Hanno perso ovunque: nella politica, nell’economia, nella storia, nella società e continuano a raccontare al mondo l’Italia enfatizzando il peggio. E dove non lo trovano lo inventano”.
Andreotti: “Arriverà anche per loro l’onda che li travolgerà. E sarà quella dell’incompetenza, dalla quale è impossibile difendersi”.
Cossiga: “E pensare che un po’ di questo casino l’ha messo su la famiglia del mio caro amico Mieli. Paolo, con la pubblicazione dell’avviso di garanzia a Berlusconi del 1994 - in pieno simposio internazionale sulla criminalità organizzata-, e il figlio producendo le serie su tangentopoli per SKY. E ora, questo indegno “Esterno notte” di Bellocchio.
Craxi, tornando sui suoi passi: “Ricordate la vicenda Sigonella, quando gli americani cercarono di riprendersi l’assassino di Klinghoffer?”
Andreotti: “ E ricordo anche che con gli alleati non si sta mai sugli attenti”.
Craxi: “Altro che alleati. Ce l’hanno fatta pagare cara: a te con accuse infamanti quanto ridicole e a me costringendomi all’esilio”.
Nel frattempo, Cossiga, vestito da Appuntato d’onore dei Carabinieri dice loro: “Il 12 giugno prossimo si votano i referendum sulla giustizia. Marcello Sorgi bene ha fatto a ricordare che ad un mafioso, condannato all’ergastolo, è stato concesso di lasciare il carcere per motivi di salute mentre un Presidente del Consiglio, gravemente malato, l’hanno lasciato morire esule in terra tunisina”.
Andreotti: “Provai perfino ad intercedere presso la Procura di Milano, attraverso la Santa Sede, dopo che mi venne a trovare Stefania, pochi mesi prima del tuo lungo viaggio fino a qui. Ma Il procuratore Borrelli non ne volle sapere”.
Irrompe San Pietro: “Il Signor Borrelli non è ancora arrivato quassù. Se e quando arriverà gli farete le vostre rimostranze. Ora basta! Torniamo a pregare, anche per lui. Credo ne abbia bisogno.”
Dopo trent’anni stiamo ancora pagando l’illusione di una democrazia senza partiti. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO su Il Domani il 19 febbraio 2022
Tangentopoli fu la miccia che innescò l’implosione di un sistema politico già in difficoltà da un paio di decenni, costretto ad adattarsi ad un mondo reso differente dalla caduta del Muro di Berlino e dai processi di europeizzazione.
Si pensò di risolvere la crisi passando a un modello di democrazia “maggioritaria”. In realtà, è molto difficile che una democrazia cambi “tipo” in modo radicale. L’unico precedente storico di significativo era la Francia di De Gaulle e il passaggio al semipresidenzialismo. La nostra transizione si è bloccata presto.
Nel biennio 1992-1994 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in modo drastico il sistema partitico: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e la sua classe dirigente. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO
Paolo Cirino Pomicino scrive a Dagospia il 7 aprile 2022:
Si scopron le tombe si levano i morti! L’inno di Garibaldi sembra sia aleggiato nell’ultima riunione alla fondazione de Gasperi dove si sono riuniti per commemorare qualcosa di antico Alfano, Casini e Cesa, i veri responsabili dell’ecclissi totale del popolarismo italiano e della gloriosa storia della democrazia cristiana.
Da 38 anni in parlamento il mio amico Pier ferdinando Casini ha bruciato ogni tentativo di rilanciare una cultura ed una politica che affondassero le radici nella storia centenaria del partito popolare bruciandola, alla fine, nel camino di Mario Monti che con quella cultura non aveva nulla da spartire, mentre il povero Alfano ubbidiente a Berlusconi per oltre 15 anni si mise in proprio e sotto il suo naso da ministro dell’interno i Kazaki rapirono Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Kazako Mukhtar Ablyazov.
Scelba e Restivo siciliani come Angelino, si stanno ancora girando nella tomba. Quelli che avrebbero dovuto essere gli eredi di Moro, FORLANI, de Mita Andreotti, Donat-Cattin ma anche dei Bodrato dei Mannino e di tanti altri dirigenti DC dopo aver accumulato macerie politiche per qualche oncia di potere si sono ridotti, come hanno dichiarato alla fondazione de Gasperi, a spiegare ai giovani la storia della DC (già ricordata autorevolmente da Antonio Polito sul Corriere della sera) in una stagione nella quale bisognerebbe riaccendere il fuoco delle idee e delle identità a difesa delle conquiste democratiche messe oggi in discussione nell’indifferenza di tanti e nella profonda crisi del nostro parlamento.
I nostri defunti ci sono cari ma lasciamo che politicamente i morti seppelliscano i loro morti (Matteo 8, 18-22).
(ITALPRESS il 7 aprile 2022) – Nel 1942 fu fondata la Democrazia Cristiana, quarant’anni fa nasceva la Fondazione De Gasperi. In occasione di queste due ricorrenze si è aperto un percorso per rappresentare e ricordare l’esperienza della DC a 80 anni dalla sua nascita.
“Il nostro impegno è lavorare per custodire la memoria e mantenere vivo un ideale, ma senza la nostalgia del passato perché ogni tempo ha la sua storia”, ha detto Angelino Alfano, Presidente Fondazione De Gasperi, nel corso dell’iniziativa organizzata dalla Fondazione: “1992-2022: 30 anni dall’ultima volta della DC”, che ha aperto l’incontro ricordando Maria Romana De Gasperi, figlia dello statista venuta a mancare lo scorso 30 marzo: “Era una donna straordinaria. Si parla giustamente di padri della patria ma quando si ricorda la sua figura si ricorda anche una figlia della Repubblica, la signora Maria Romana ha incarnato la figlia di Alcide e la figlia del Presidente De Gasperi, e credo che solo il rapporto psicologico tra padre e figlia possa spiegare tutto l’impegno di un’intera vita per divulgare la missione di suo padre”, ha sottolineato Alfano.
“Dal 1942 al 1992, ultimo anno in cui si è candidata, la DC ha fatto la storia d’Italia, l’indirizzo storico della Repubblica è segnato dalle scelte fondamentali della Dc. C’è il suo DNA nella scelta Atlantica, nella scelta europeista, nell’idea di una società che dovesse reggersi su una economia sociale di mercato, nei diritti universali come istruzione e sanità, in scelte di campo permanenti come quella della NATO e in alcuni indirizzi sul Mediterraneo.
Oggi, a 30 anni dall’ultima volta della Prima Repubblica – ha concluso il presidente Alfano – credo sia arrivato il momento per una valutazione e credo si possa fare una analisi che mantenga vivo un ideale”.
Nel corso dell’iniziativa, dove è stato presentato lo studio condotto da IPSOS su chi votano oggi gli ultimi elettori della Democrazia Cristiana, è intervenuto, tra gli altri, anche Pier Ferdinando Casini, senatore e Presidente del Gruppo Italiano dell’Unione Interparlamentare, che ha evidenziato la necessità di “coltivare assolutamente la memoria, un Paese che disperde la memoria di personalità fondamentali per la sua storia, è un Paese che ha radici poco salde.
Bisogna capire e trasmettere alle giovani generazioni quelli che è stata la grande ricostruzione del Paese e il protagonista è stato senza dubbio la Democrazia Cristiana. Coltivare la memoria di queste personalità – ha spiegato – non significa essere intrisi di nostalgia, ma avere ben chiaro cosa è stato fatto per posizionare l’Italia dove è: la scelta Atlantica, la scelta della NATO, la politica mediterranea, l’Europa”.
Entrando nella più stretta attualità Casini ha ricordato come nel 1954 “De Gasperi prima di morire nelle sue lettere scrisse la sua grande delusione: non ci sarebbe stata una politica comune di difesa bocciata dalla Francia. Lui diceva che non poteva resistere la costruzione europea basata solo sul polmone economico e monetario, ma che doveva esserci l’anima politica. Da quell’epoca sono passati 70 anni e siamo a questo, la vicenda Ucraina ci dimostra in modo inequivocabile che c’è bisogno di De Gasperi.
C’è bisogno di tornare a queste grandi personalità che avevano visto tutto 70 anni fa, e i politici grandi, gli statisti, sono quelli che capiscono prima. È importante che si coltivi la memoria ed è importante che sia anche da insegnamento per non ripetere gli errori.
L’occidente ha preso un abbaglio collettivo su Putin, oggi questi errori ci costano molto. Ci siamo andati a mettere in una situazione sotto il profilo energetico drammatica, non abbiamo una autonomia e dipendiamo da Putin.
Se vogliamo vedere la storia con un qualche fatalismo - ha concluso Casini - diciamo che questa vicenda drammatica ci sta insegnando a tornare ai grandi principi di De Gasperi, alla politica di difesa e ad aprire gli occhi. L’Occidente aveva chiuso gli occhi e girato la testa dall’altra parte, oggi siamo tutti costretti a guardare la realtà per quella che è”.
La distanza dal mondo politico post 1994. Viva la Prima Repubblica. Redazione su Il Riformista il 14 Febbraio 2022.
Con la rielezione del Presidente della Repubblica molte cose sono avvenute in questi giorni nel panorama politico e sociale del nostro Paese. La società civile ha preso atto della crisi profonda nella capacità dei gruppi dirigenti dei partiti (nessuno escluso) di colmare – in via definitiva – la distanza tra la più che contestata e criticata 1° Repubblica e l’intero mondo politico nato dopo il 1994. La rappresentazione plastica del “pellegrinaggio” di tutti i “cosiddetti” grandi elettori verso il Palazzo del Quirinale a chiedere –con costrizione ed umiltà – di ritornare indietro sulle sue affermazioni e di accettare il reincarico, non lascia alcun dubbio.
I “nuovi” politici per continuare a esercitare il mandato parlamentare loro delegato dai cittadini devono rivolgersi a personalità della Prima Repubblica, quali il Presidente Mattarella. E così per Giuliano Amato e così anche per l’attuale Presidente del Consiglio che può esser annoverato sicuramente tra le risorse dello Stato proveniente dal quel periodo. Ciò è quello che emerge dai commenti che ogni cittadino ha pubblicato sui social informatici (tenuto conto che gli organi di stampa sono tabù al di là di alcune brevi lettere che vengono pubblicate) e, da questi commenti, emerge anche il rammarico e la dolorosa certezza di aver perduto oltre 30 anni di democrazia dando fiducia ai politici ed ai partiti del dopo 1994! Si parla di crisi dei partiti, si solleva il fatto che “i peones” del parlamento hanno impedito ai loro leader di individuare un nuovo PdR non all’altezza, ma volutamente si dimentica che i “peones” sono “nominati” e rispondono a coloro che li hanno scelti! Ogni sussulto di dignità e di presa di distanza dagli “input” dei segretari dei partiti è stata motivata, a nostro giudizio, da giochi di “potere” all’interno degli stessi partiti.
Così per il 5Stelle (gruppo “dimaiano” contro gruppo “contiano”), così per la Lega (gruppo “salviniano” contro gruppo “giorgettiano”) e così per il PD tra “lettiani” ed “ex renziani, ex DC, etc.”. Le ultime vicende hanno fatto emergere, a nostro avviso, non solo l’incapacità politico/culturale della nostra classe dirigente, ma la loro continua conflittualità a livello personale; il distacco verso le esigenze reali dei cittadini e l’assenza di visioni di un progetto politico importante! A riprova di ciò vale ricordare l’intervista ed i commenti del segretario del PD rilasciati nell’intervista della Annunziata di domenica scorsa, subito dopo il risultato della elezione del PdR. Ha parlato della situazione di crisi politica da superare con una nuova legge elettorale (maggioritaria sostanzialmente e senza preferenze) e per la crisi sociale ha fatto riferimento al mondo del lavoro citando cifre e percentuali negative sul piano dell’occupazione.
Ma ha dimenticato – e non è la prima volta nella sua carriere politica – il fatto che la disoccupazione e soprattutto la precarietà in Italia è dovuta all’assenza di una politica meridionalista. Politica meridionalista scomparsa dopo Giacomo Mancini anche dalla azione politica socialista! Sino a ieri i giovani meridionali – la più triste gioventù italiana – è riuscita a sopravvivere sostenuta dalle loro famiglie che hanno rappresentato, nei fatti, la “cassa integrazione” della gioventù meridionale la quale già da alcuni decenni ha iniziato ad emigrare verso il Nord e verso l’estero. In un partito come il PD che si dichiara di sinistra “non una parola” e non una iniziativa “sostenibile” verso questo dramma dell’Italia (solo l’ex ministro Provenzano ha assunto una posizione” ma il PD non ha mai mostrato di crederci con convinzione). A fronte di ciò noi crediamo che i socialisti ed il Psi non debbono e non possono restare silenti.
Abbiamo il dovere, come partito storico della sinistra, di continuare e rafforzare le lotte in favore dell’emancipazione sociale, del diritto al lavoro e della sicurezza sul lavoro, al diritto allo studio ed alla salute pubblica e così per la ricerca ed al diritto di pari dignità di genere e di difesa delle professionalità e del merito e, quindi, delle pari condizioni di lavoro e di giudizio in tutti i settori produttivi. La nostra riflessione di fronte a questa “Waterloo” della politica, di questi politici e di questi partiti è quella che “non dobbiamo sentirci vittime” del quadro politico post macerie e considerato che a brevissimo inizierà l’anno della “campagna elettorale”, sin da subito e senza ulteriore ritardo, noi socialisti abbiamo il dovere di proporre ai cittadini linee di profondo cambiamento. Si tratta di fare proposte e di indicare quale strada da seguire e quali iniziative da assumere sia all’interno dell’area socialista che verso quello che rimane del quadro politico e, non meno importante, verso la cosiddetta società civile.
Riteniamo, in primis, che sia giunto il momento di inviare un forte invito ed un altrettanto fortissimo appello rivolto ai nostri dirigenti di ogni ordine e grado, ma soprattutto a tutti gli iscritti al PSI, convinti che mai come adesso abbiamo il dovere di aprire un dibattito aperto e non strumentale con tutto il mondo dei socialisti senza tessera sia come singoli cittadini che alle loro realtà organizzate (associazioni, circoli, movimenti e quant’altro). Non possiamo vivere la nostra azione politica quotidiana nel chiuso del nostro partito, dove la partecipazione dei compagni alle scelte politiche fondamentali spesso non è stimolato come dovrebbe. Nel Paese emerge una richiesta di “socialismo” che va a contrastare l’inefficienza pubblica quale naturale conseguenza della venuta meno dei valori portanti socialisti e della stagnazione degli ideali e assenza di alternativa.
In questi anni (e ci riferiamo non solo agli ultimi anni possiamo andare al 1994) è indubbio che non c’è stata alcuna alternativa in quanto la sinistra – pur dichiarandosi tale – non è stata protagonista di un ricambio credibile nell’esercizio della sua azione politica quotidiano ed a lungo termine. Abbiamo necessità, come socialisti e come Psi, di ricomporre la diaspora nel nostro stesso mondo, nella nostra stessa area culturale. Ciò dovrebbe diventare un traguardo da raggiungere a breve termine quale risultato di un progetto politico che intende misurarsi con tutti i problemi che la gestione di questi partiti hanno lasciato aperti e che continuano a lasciarli aperti.
E’ una scelta di fondo e l’invito ai socialisti senza tessera è quello di “iscriversi” al PSI in quanto non si possono fare battaglie isolate sui temi economici, sociali e sui diritti civili se non siamo uniti. Dobbiamo e possiamo dare forza ai lavoratori per rinnovare anche il movimento sindacale ed a tutto il mondo civile che si ispira e si identifica con i valori della sinistra. In ultimo solo se uniti e più forti potremo essere incisivi per quanto riguarda le iniziative che si intendono assumere a livello parlamentare sul piano della “nuova legge elettorale”. Se quanto avvenuto fa emergere una considerazione diversa sui politici e sulla Politica della Prima Repubblica non possiamo che chiedere che sia approvata una legge elettorale proporzionale pura, con i voti di preferenze e non più nominati e che sia inserita la “sfiducia costruttiva” e la piena applicazione dell’art. 49 della Costituzione con il riconoscimento dei diritti delle minoranze onde evitare il fenomeno dei cambi di casacca durante le legislature. E’ auspicabile che i nostri dirigenti riflettano su queste nostre considerazioni ed assumano le iniziative? Si è auspicabile e nel nostro piccolo inizieremo a farlo!
F.to – Domenico Carrino, Paolo Di Pace, Paolo Gonzales, Sandro Petrilli; Gianfranco Salvucci e Christian Vannozzi del Direttivo della Federazione Socialista di Roma Capitale
Cosa è restato. La lunga eredità degli anni ’80 che influenza la politica di oggi. Simona Colarizi su L'Inkiesta il 26 Gennaio 2022.
Tutte le condizioni che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica sono ancora presenti e definiscono il raggio d’azione degli attuali partiti. Il libro di Simona Colarizi analizza gli effetti di questa continuità.
Nelle tre ripartizioni del tempo elaborate da Sant’Agostino – presente del passato, presente del presente, presente del futuro – «il presente del passato è la storia» attraverso la quale si ricostruisce proprio quella serie di eventi sui quali è stato edificato «il presente del presente».
Questa citazione accompagna costantemente gli storici nel loro lavoro di analisi attraverso il quale fissare le partizioni temporali, determinanti per valutare quanto profonde siano le cesure che sanciscono la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, ma anche quanto a lungo restano operanti gli elementi di continuità tra un prima e un dopo.
Malgrado la ricca pubblicistica sulla fine dei partiti che avevano fondato la Repubblica democratica antifascista nel 1945, sono ancora numerosi gli aspetti di questa vicenda storica da approfondire; in particolare quei tanti lasciti del vecchio sistema politico che dopo più di trent’anni, invece di svanire, si sono moltiplicati fino a diventare caratteri dominanti della seconda Repubblica.
Non stupisce dunque la persistenza nel tempo delle polemiche appassionate su questa fase rimasta così viva nella memoria non solo dei protagonisti, ma dei tanti cittadini che nel giro di due soli anni – primavera ’92-primavera ’94 – hanno assistito alla scomparsa di tutte le forze politiche della prima Repubblica.
Per individuare quale sia stata la loro eredità, è necessario risalire alle cause che hanno portato alla caduta del vecchio sistema politico, ma ancora oggi condizionanti l’esistenza tormentata della seconda Repubblica quale si è andata definendo dopo il 1994. Un’esistenza così tormentata da rischiare di travolgere ancora una volta tutti i partiti del nuovo sistema.
Lo hanno dimostrato le crisi politiche nel 2011 e nel 2021, quando il ricorso a governi “tecnici” ha riportato alla memoria l’esecutivo di transizione guidato da Ciampi nel ’93-’94. In massima sintesi si possono individuare tre elementi di crisi che sono stati determinanti allora e che continuano a prolungare uno stato di instabilità politica paralizzante: l’Europa, scelta tormentata alla scadenza di Maastricht nel ’92 e diventata scelta profondamente divisiva con la nascita dei sovranismi; il problema del gigantesco debito pubblico che affligge l’Italia negli anni Duemila come negli Ottanta e nei Novanta; la sfiducia nella rappresentanza politica all’origine dei movimenti populisti e antipolitici, destinati a irrobustirsi col passare degli anni fino ad arrivare al governo nel 2018.
Nella ricerca del passatopresente sono emersi prepotentemente però anche i tanti legami col passatoremoto, una chiave indispensabile per leggere le tre crisi che sul finire degli Ottanta portano alla caduta finale. In questa luce il decennio degli Ottanta, prolungato fino al ’92, può essere interpretato come una lunga fase di passaggio da un’epoca all’altra, coincidente con l’intero scenario mondiale che fa da cornice alla vicenda italiana. A partire dagli anni Settanta, con la fine dell’era industriale e l’avvento di una nuova epoca postmoderna, tutti i paesi dell’Occidente europeo vivono una lunga fase di trasformazioni profonde da ogni punto di vista, dai rapporti internazionali alla globalizzazione delle economie e delle finanze, alle straordinarie acquisizioni scientifiche e tecnologiche; un insieme di fattori che sconvolgono valori, istituzioni, sistemi di relazioni e di organizzazione, certezze culturali e materiali, insomma la vita di ogni individuo e di intere società.
Una rivoluzione di queste dimensioni mette ovunque a dura prova i governi, tanto più quando nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e poi la dissoluzione dell’impero comunista si conclude la guerra fredda che ha condizionato l’intero continente diviso per quarant’anni in due sfere, l’una sotto l’influenza degli Stati Uniti l’altra dell’Unione Sovietica. In questa cornice l’Italia, come gli altri paesi europei in balia di una progressiva instabilità sistemica, rappresenta però un caso unico rispetto ai suoi partner della Cee, in nessuno dei quali la crisi si manifesta con tale violenza distruttiva da arrivare alla totale distruzione del sistema dei partiti.
Un’eccezione vistosa da analizzare alla luce di quei problemi tra loro intrecciati cui si è fatto cenno, anche se a innescare l’implosione finale sono soprattutto gli eventi dell’89 che nel caso italiano hanno un effetto devastante, da collegare naturalmente al maggior peso del vincolo esterno negli equilibri politici italiani rispetto agli altri paesi dell’Occidente.
Le ragioni sono note, riassumibili da un lato nella posizione geopolitica del nostro paese, alleato della Nato e proiettato nel Mediterraneo, un territorio cruciale nel confronto tra le due superpotenze in guerra; dall’altro lato, nella presenza in Italia del più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Questi due opposti condizionamenti internazionali per mezzo secolo avevano garantito alla Dc, alleata degli Usa, una posizione di maggioranza nel paese e nei governi col risultato, però, di bloccare di fatto ogni ricambio con le forze di opposizione egemonizzate dal Pci, il cui legame organico con l’Urss era di ostacolo alla sua legittimazione a governare. Con la fine della guerra fredda il sistema politico italiano perdeva dunque la sua rigidità, entrando in quella fase di fibrillazione che si sarebbe conclusa nel 1994 con la scomparsa di tutti i partiti della prima Repubblica.
Il primo a dissolversi era stato il Pci che, dopo la caduta del muro, iniziava la lenta mutazione in Partito democratico della sinistra; ma nessun vantaggio ne aveva ricavato la Dc che anzi si indeboliva con la scomparsa del “nemico”, da sempre un fattore fondamentale nella raccolta dei consensi. Insomma, senza più il sostegno dei vecchi vincoli internazionali, i cattolici come i loro storici avversari si erano trovati a fare i conti con se stessi e con il compito ineludibile di consolidare il legame storico con l’Europa, rimasta ormai l’unica sponda esterna.
Per tutti gli anni Novanta e anche oltre, con l’eccezione dei saggi specifici sulle relazioni internazionali e sull’economia mondiale, gli storici politici, a mio giudizio, non hanno indagato a sufficienza sulle ricadute che il nuovo complesso scenario dei rapporti tra le potenze avrebbe avuto anche sul sistema economico e finanziario italiano – e naturalmente su quello europeo. Eppure, si tratta di un campo di ricerca necessario, se si considera quanto abbia pesato nella caduta del sistema politico il Trattato di Maastricht che aveva fissato i paletti del percorso verso l’Unione Europea. Già nella seconda metà degli Ottanta in tutti i paesi della Cee si era consolidata la consapevolezza di quanto fosse urgente rafforzare le strutture unitarie per rispondere alla sfida delle trasformazioni in atto nell’economia mondiale.
Dopo l’89 poi, di fronte al nuovo mondo policentrico, ci si affrettava a fissare quella serie di regole sempre più stringenti, confluite poi nell’accordo da firmare alla riunione di Maastricht, fissata per la fine del ’92. Una firma non scontata da parte di tutti gli Stati membri, restii ad accettare gli impegni onerosi richiesti da Bruxelles non solo nel campo dell’economia, ma anche della politica e delle istituzioni, come avrebbero dimostrato le resistenze registrate prima e dopo il varo del Trattato. Particolarmente difficile appariva poi l’adesione dell’Italia, arrivata a questa scadenza con un debito pubblico incontrollabile che escludeva di fatto il rispetto dei parametri fissati per entrare nel percorso verso la moneta unica.
Si tratta di un passaggio nel quale restano ancora senza risposte persuasive molti interrogativi sulla decisione finale che si assumeva il governo Andreotti; una decisione largamente condivisa dai politici della destra e della sinistra, lucidamente consapevoli o ancora parzialmente inconsapevoli che il nuovo vincolo europeo avrebbe fatto emergere tutte le debolezze di un’economia, di una finanza e di un’industria ferme ancora alla visione keynesiana nel pieno della rivoluzione liberista
da “Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994”, di Simona Colarizi, Laterza 2022, pagine 224, euro 20
Muore De Gasperi, il Paese è sconvolto. La prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno del 20 agosto 1954. De Secly: è stato l’uomo di tutti gli italiani. Il racconto sulla «Gazzetta» di 68 anni fa. Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Agosto 2022.
È il 19 agosto 1954: la notizia della morte di Alcide De Gasperi a Borgo Valsugana sconvolge un Paese intero. «La Gazzetta del Mezzogiorno» pubblica in prima pagina la foto della salma dello statista.Uno degli uomini pubblici più in vista d’Italia, è morto circondato solo dall’affetto della sua famiglia. Nato a Pieve Tesino, in provincia di Trento, nel 1881, De Gasperi studiò lettere a Vienna. Si batté fortemente per difendere l’identità culturale italiana della sua regione e fu propugnatore della completa autonomia trentina dall’Austria. Dopo l’annessione all’Italia, nel 1921 entrò in Parlamento: tre anni dopo sostituì Sturzo, costretto all’esilio da Mussolini, alla guida del Partito Popolare. Antifascista, nel 1927 fu arrestato e condannato a 4 anni: dopo aver scontato un anno di detenzione, si rifugiò in Vaticano, dove fu assunto come bibliotecario. Caduto il fascismo, fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana. Da allora in poi è stato protagonista assoluto dell’Italia della Ricostruzione: ultimo presidente del Consiglio dei Ministri del Regno e primo della Repubblica, mantenne l’incarico per sette mandati consecutivi, fino all’agosto 1953.
Ebbe l’ingrato compito di rappresentare un Paese marchiato dal fascismo e dilaniato dalla guerra di Liberazione alla Conferenza di Pace di Parigi, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: con un eccezionale discorso al Palais du Luxembourg contribuì a ristabilire la credibilità politica internazionale dell’Italia. «L’improvvisa e inattesa morte di Alcide De Gasperi ci ha colpiti profondamente come uno dei più cari lutti familiari», scrive Luigi De Secly in prima pagina. «Gli ultimi dieci anni di questa travagliata e perigliosa esistenza l’avevamo vissuti accanto a lui, anche se fisicamente lontano da lui. Prima ancora di essere uomo di parte, capo ammirato e amato della Democrazia Cristiana, De Gasperi è stato l’uomo di tutti, colui che per il suo Paese aveva speso e andava spendendo le energie migliori della sua natura pacata ed esuberante al tempo stesso, della sua fede che non conosceva infingimenti e che aveva sfidato mille prove sempre più gravi, dall’esilio al carcere, dalla clausura alla ribalta più spietata, alle responsabilità politiche e storiche probabilmente le più gravi che abbia dovuto affrontare umana creatura.
Fiero oppositore del regime fascista, artefice della rinascita dell’Italia pur tra incertezze e discordie ma sempre fermissimo nel volere e nel perseguire il benessere generale, specialmente delle classi diseredate alla cui esistenza aveva giorno per giorno partecipato e per le quali aveva formulato nuove leggi che oggi pongono l’Italia alla testa dei Paesi riformatori dell’Europa».
Alcide De Gasperi: Il più grande statista del ‘900 italiano. Alcide Amedeo Francesco De Gasperi (3 aprile 1881- 19 agosto 1954) è considerato dalla storiografia moderna come uno dei più grandi statisti italiani. Tanto che lui amava ripetere: "Il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione". Federico Bini il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Enzo Biagi, riguardo a uno dei più illustri padri della Democrazia Cristiana, scriveva: “De Gasperi è scomodo per i potenti d’oggi. De Gasperi è una figura di statista che ti spinge a fare confronti tra i suoi comportamenti, i suoi riserbi, la sua sobrietà, la sua solitudine e lo stile di vita di coloro che vogliono accreditarsi come i suoi eredi. Lui rispondeva solo alle sue idee e alla sua coscienza. Lo celebrano, lo ascoltano, lo esaltano, ma non fu amato e non fu capito. Nemmeno dai suoi. Per tutti gli anni in cui lavorò nella Biblioteca Vaticana, non ebbe mai una visita da un prelato, anche se poi aggiungeva: “Ho un debito di gratitudine poiché con le 700 lire che guadagnavo ogni mese ho mantenuto la famiglia”.
Dalla penombra e dalle ceneri della guerra perduta, l’Italia vide emergere un personaggio inconsueto, rigoroso e austero, lontano dalla retorica e dalla narrativa teatrale della politica a cui gli italiani erano stati abituati durante il fascismo ma anche prima, nell’Italia liberale.
Nato in un piccolo borgo di montagna, Pieve Tesino (vicino Trento), circondato da castagneti, abeti, pini e dal suono dolce e rilassante dei pascoli. Poi ci sono i campanili e le chiese che con loro suono segnano le ore nel vuoto delle valli. Gente semplice gli abitanti, contadini e massaie che lottano nella loro quotidianità contro le fatiche e i dolori di una vita dura ma ricompensata dall’amore per i loro monti, per la loro terra, per i loro bestiami.
A Borgo Valsugana, De Gasperi abitava nella prima grande casa, a sinistra venendo dalla stazione. “La casa, bassa, un po’ tozza, in pietra e dagli alti soffitti - ricorda la figlia Maria Romana – ha i tappeti e i mobili scuri che sembravano a proprio agio, certi di vivere a lungo”.
In questo umile mondo contadino, molto ‘verghiano’, in cui si cercava attraverso i veri valori della vita di proteggersi dalla “fiumana del progresso”, nacque Alcide De Gasperi. Il più grande statista del ‘900 italiano e, assieme a Cavour ed Einaudi, uno dei padri della patria. De Gasperi era un uomo dall’aspetto apparentemente severo e asciutto nell’eloquio. Occhi grigi e volto di pietra, con evidenti e scavati segni di anni di lotta e sofferenze, mantenne sempre un carattere calmo, paziente, quasi “liturgico”.
Era un uomo di grandi ideali, di specchiata onestà, un servo devoto di Cristo e cercò sempre nel corso della sua vita di non perdere mai la speranza ed il senso della fede, la sua vera àncora di salvezza insieme all’amore per la famiglia nei tanti momenti bui in cui tutto sembrava perduto.
Egli seppe conciliare la fede con l’amore per la patria. Pur mantenendo distinte le due sfere d’influenza. Politico accorto e realista, di rara modestia, consigliava ai giovani di non lasciarsi andare alla “mitologia politica” e proprio ad un Congresso della gioventù democristiana disse: “Non ci sono uomini straordinari. Non ci sono uomini entro il Partito e fuori, pari alla grandezza dei problemi che ci stanno di fronte [...] Per risolvere i problemi, vi sono vari metodi: quello della forza, quello dell’intrigo, quello dell'onestà, quello della fermezza in una fede sicura. Se io sono qualche cosa, in questa categoria, mi reputo di appartenere alla terza. Sono l’uomo che ha l'ambizione di essere onesto. Quel poco di intelligenza che ho la metto al servizio della verità] Non voglio essere altro. Quindi il grido di “Viva De Gasperi”, lo traduco “Viva l’uomo di buona volontà che cerca la verità”.
La nomina a presidente del Consiglio
Nel difficilissimo momento del dopoguerra, in cui la fame, la miseria, i contrasti politici e sociali tra forze democratiche, comuniste e monarchiche infiammavano la vita politica del paese, ecco che Alcide De Gasperi seppe guidare il popolo italiano, con fermezza, intelligenza e lucidità, cercando di unirlo e di rinfrancarlo. Molti lo criticarono, soprattutto i comunisti di Togliatti, pensando che volesse distrarre l’opinione pubblica, che era al servizio del Vaticano e degli Stati Uniti, ma niente fermò la sua ascesa, data dal suo prestigio personale e culturale.
Nel 1945 fu nominato presidente del Consiglio dei ministri, l’ultimo del Regno d’Italia; carica delicatissima in un momento drammatico: l’unità nazionale – faticosamente raggiunta – era messa in pericolo e tra il governo e la casa reale gli scontri di palazzo furono durissimi.
Alle 22:10 dell’11 giugno 1946, De Gasperi, a colloquio con il Re, tra galanteria politica e diplomazia, ormai in rotta con il marchese Luciferino che accusava (nuovamente) il governo di fare pressione sulla Cassazione per accelerare i lavori, De Gasperi, si rivolse al marchese dicendo: “Io ho finito il mio latino, si vuole ricorre alla forza? Va bene, vorrà dire che io verrò a trovarla a Regina Coeli o Lei verrà a trovare me”. Fu uno scontro che fece tremare il già fragile Statuto albertino.
Durante tale governo fu proclamata la Repubblica e perciò De Gasperi fu anche il primo presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana.
Il 9 dicembre del 1946 fu invitato dall’amministrazione americana, e nel suo viaggio negli Stati Uniti (4-17 gennaio 1947) mise fine all’isolamento internazionale dell’Italia. Il presidente Truman rimase colpito da quest’uomo, che rappresentando un paese sconfitto, demoralizzato, alla fame e con poche prospettive per il futuro, seppe dare prova della sua grande dignità, ma anche della sua tenacia e soprattutto del suo essere italiano nonostante Mussolini con disprezzo lo chiamasse “l’austriacante”.
Parlò a nome del popolo italiano, mantenendo la schiena dritta e non venendo meno ai suoi principi cristiani e liberali. L’Italia era sì un paese sconfitto, ma De Gasperi – con la sua squadra di governo aiutata anche dal ruolo fondamentale degli ambasciatori a Parigi, Londra, Washington come ad esempio Tarchiani – riuscì a far passare un messaggio di svolta, autorevolezza e sincera amicizia tra due nazioni che avevano a cuore i destini, la stabilità e la pace del mondo occidentale. L’amministrazione Truman non esitò a concedere prestiti e aiuti alimentari.
L’Italia della ricostruzione di De Gasperi prese avvio dopo questo fondamentale viaggio, che lui fece accompagnato dall’amata figlia e segretaria particolare, Maria Romana.
Il 10 agosto 1946 si era invece recato invece a Parigi, con il ministro degli Esteri Carlo Sforza, per partecipare alla Conferenza che doveva stabilire le clausole del Trattato di pace. I diplomatici lì convenuti presentarono il conto da pagare ai paesi sconfitti. Il presidente del Consiglio italiano prese la parola per pronunciare uno dei suoi interventi più memorabili, esordendo così: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. Nessuno applaudì, solo il Segretario di Stato americano James Byrnes si alzò per andargli a stringere la mano e fu l’unico gesto di umanità.
La rottura con il Pci
Tra crisi di governo, attacchi da parte di molti Paesi che ci vedevano come sconfitti in ogni campo, l’avvio difficile del Piano Marshall, l’Italia che andò a votare nel 1948 (ben il 92% degli aventi diritto), ebbe fiducia in De Gasperi e per la Democrazia Cristiana fu un trionfo: maggioranza relativa dei voti (48,5% alla Camera dei Deputati, 48,14% al Senato) e la maggioranza assoluta dei seggi.
Personalmente il presidente democristiano ottenne un plebiscito di preferenze, battendo enormemente gli altri leader. Dopo queste elezioni iniziò la vera e propria fase del ‘centrismo’ con De Gasperi che volle però allargare l’esecutivo.
La Democrazia Cristiana di De Gasperi si mostrava come un partito fortemente interclassista, capace di catturare il consenso nei diversi e divergenti strati sociali del paese: dal piccolo mondo rurale del mezzogiorno alle grandi proprietà fondiarie e imprenditoriali del nord. Se poi ci soffermiamo allo straordinario risultato raggiunto alle elezioni del 18 aprile del 1948, quella che De Gasperi definì “una battaglia di civiltà”, osserviamo che il partito raggiunse la maggioranza assoluta alla Camera e una maggioranza risicata al Senato. Questo risultato, contrariamente alle spinte che venivano dalla Chiesa e da settori interni alla dc, non impedì al presidente del Consiglio di formare un nuovo governo comprendendo i “partiti laici”.
Il raggiungimento di un risultato così unico fu dato dal fatto che ampie parti del paese, dalla grande industria ai forti interessi economici locali, nonostante fossero pervase da un trasversale anticlericalismo votarono la dc in chiave anticomunista. Uno dei più attivi oppositori a De Gasperi, in una dc che ancora non era divisa in numerose correnti che si andranno formando dopo la morte dello statista trentino, fu Giuseppe Dossetti. Qui è utile distinguere tra la dc di De Gasperi e Dossetti, come fa il Prof. Bedeschi nel suo libro La Prima Repubblica. Storia di una democrazia difficile.
Mentre De Gasperi si era formato sotto l’influenza della Rerum Novarum di Leone XIII, si ispirava ai principi del cattolicesimo liberale e rappresentava la classe dirigente del defunto Partito Popolare, Dossetti, anche per età anagrafica, era cresciuto nel fascismo e in particolare negli anni della crisi del ’29 scoppiata in America e da cui aveva maturato una forte critica al sistema capitalistico. Da qui le letture di Jacques Maritain, l’ammirazione per la Costituzione sovietica del 1936 e la collaborazione con i comunisti. Non a caso, quando De Gasperi ruppe con il fronte socialcomunista la “grande collaborazione tra forze popolari”, per citare Togliatti, fra i suoi più accesi oppositori vi fu Dossetti, che intorno a sé aveva radunato un gruppo di giovani, da La Pira a Fanfani che saranno i futuri rappresentati della sinistra democristiana.
Le elezioni del 1948 videro scontri politici molto duri tra i vari candidati, in particolare tra Togliatti e De Gasperi. Quest’ultimo percorse l’Italia in aereo, in treno, in macchina, da nord a sud, per andare a diffondere in ogni angolo del paese la sua politica, le sue idee e la sua fede.
I tanti governi di De Gasperi
L’attività politica dei governi De Gasperi si sviluppò su tre fronti, che rispecchiavano, la concezione politica degasperiana espressa nel suo manifesto dal titolo Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana: l’Italia entrò nel Patto Atlantico il 5 maggio 1949, nacque il Consiglio d'Europa e il ministro Carlo Sforza disse “è il frutto di un compromesso fra le più avanzate aspirazioni franco-italiane e quelle assai più caute, invece, del governo britannico”. Furono realizzati accordi economici europei, quali ad esempio la CECA , la politica di ricostruzione fu caratterizzata dalla riforma agraria, predisposta dal ministro dell'Agricoltura Antonio Segni e inizialmente denominata ‘legge Sila’, poiché riguardava solo la Calabria, poi estesa - con l’approvazione della “legge stralcio” - ad altri territori italiani. Venne poi varato il piano INA-Casa, nacquero la Cassa per il Mezzogiorno e l’Eni, fu compiuta la riforma tributaria e la Lira si stabilizzò sotto la guida di Einaudi. Infine furono modificate la legge elettorale amministrativa e poi quella politica. Era l’estate del 1950 quando furono varate queste riforme: successivamente il 1950 passerà alla storia come “l’anno delle riforme”.
De Gasperi, dopo tutti questi mesi di grande fatica e laboriosità, era felice dell’andamento del suo governo, pur mantenendo sempre un certo realismo sulle importanti riforme appena varate scrisse: “Con la riforma agraria, vedete, noi facciamo un atto di giustizia distributiva immediata, umanamente e cristianamente necessaria, forse politicamente utile, benché in politica non bisogna sopravvalutare la riconoscenza degli uomini. Tutto questo, ricordatevi, non risolverà il problema economico del Mezzogiorno. Esso va completato in un quadro di economia più vasta guardando al domani. Oggi non possiamo adottare una forma migliore, ma noi uomini politici dovremmo stare attenti a non scivolare dall’economia alla demagogia. C’è tanto da fare e in così poco tempo!”.
I governi repubblicani, che De Gasperi guidò dal 1948 al 1953, pur tra mille difficoltà politiche, sociali ed economiche, furono di grande spessore e soprattutto governi ‘europei’, con un presidente del Consiglio europeista.
De Gasperi sognava un’Europa unita, tanto che diceva “la nostra patria Europa” e dopo che nel luglio del 1953 decise di dedicarsi solo alla vita di partito, ecco che ci fu il coronamento di una grande carriera, ma soprattutto un riconoscimento personale alla sua attività politica e diplomatica: Alcide De Gasperi divenne presidente dell’Assemblea Comune della CECA.
Il ‘figlio delle Dolomiti’, delle sue amate montagne che tanto la avevano formato e rafforzato, diventò il simbolo della futura Europa unita. Alcide De Gasperi, quel ragazzo che diceva senza vergogna “Io vengo da un ceppo di contadini e mio nonno lavorava quella magra terra, che è più roccia che terra”, arrivò al vertice della politica europea, che per lui non consisteva nel trarne vantaggi personali o partitici, la vita gli aveva tolto ma anche dato tanto, bensì lavorare nell’esclusivo interesse dei cittadini.
La scomparsa
Ma De Gasperi aveva già dato tanto, anzi troppo al nostro paese che forse mai lo capì veramente. Il suo corpo lo aveva sostenuto anche laddove nessuno se lo sarebbe mai immaginato, come quando, ormai malato, il medico gli sconsigliò di andare a Parigi, egli andò ugualmente e poi riuscì a partecipare al suo ultimo Congresso politico, a Napoli nel 1954, dove parlò e si sentì male, tanto che dovettero interrompere i lavori. Tuttavia dopo venti minuti riprese la parola e finì il discorso. Fu proprio quel discorso, forse perché sapeva che sarebbe stato l’ultimo, ad essere considerato come il suo testamento politico.
È il 19 agosto 1954 la data che segnerà la morte del più grande statista e uomo politico italiano del ‘900.
Le sue spoglie riposarono su un letto coperto di ciclamini e fiori di montagna. Fino all’ultimo desiderò che il suo letto fosse spostato verso la finestra per poter vedere meglio le sue montagne, che tanto lo avevano formato e che mai dimenticò.
La salma fu trasportata in treno da Trento a Roma, e ovunque la folla giunse per rendere omaggio. A Roma fu sepolto nel porticato della Basilica di San Lorenzo. Qualcuno tra la folla, in una delle stazioni in cui il treno si fermava, mentre si avvicinavano i potentati della Dc urlò: “De Gasperi è nostro, non vostro!”.
La Democrazia Cristiana, il partito da lui creato, governerà per ben cinquant’anni, ma i suoi allievi forse un po’ troppo ambiziosi di potere e meno degli interessi delle classi sociali verso cui De Gasperi chiese massima attenzione prima di morire, portarono la Dc al suo inesorabile tracollo politico e morale.
Con la scomparsa del politico trentino, scrisse Indro Montanelli che “entrò in scena una classe politica che nulla sapeva di Stato e tutto di una cosa sola: il potere che mai smise di contendersi [...] Con De Gasperi finisce un’epoca e ne comincia un’altra certamente non migliore”.
Vita e opere di uno dei padri della Repubblica. La storia di Alcide De Gasperi, il suddito austriaco che ci portò nel mondo libero. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Aprile 2022.
L’Alcide. Alcide e Palmiro. E Pietro Nenni. Come ritirar fuori dalla naftalina della memoria un uomo come Alcide De Gasperi, di cui si ricorda a malapena che fu lui con la sua Democrazia Cristiana e gli alleati, a vincere le minacciosissime elezioni del 1948? Fu allora, il 18 aprile di quell’anno, che il “Fronte Popolare” delle sinistre perse quello che si rivelò un referendum per la scelta di campo nella guerra delle civiltà che a quei tempi era brutale: Russia o America, I socialisti avevano appena perso il gruppo filoamericano di Giuseppe Saragat, con cui si schierò anche la rivoluzionaria russa Anna Kuliscioff.
Fra le due guerre mondiali Anna era stata una dirigente del partito comunista nell’Unione Sovietica di Lenin e Stalin e poi era tornata in Italia sconvolta e felice di parteggiare per i filoamericani. Alcide invece era imperiale. Era nato cittadino dell’Impero Austro-Ungarico, era stato deputato per l’etnia italiana al Parlamento di Vienna, era impazzito di dolore quando il Regno d’Italia nel 1915 decise di scendere in guerra con l’Intesa contro la Triplice alleanza. Alcide era costernato e di notte a Trento litigava con Cesare Battisti, che poi scappò in Italia, si arruolò, fu preso prigioniero dagli austriaci e giustiziato da un boia con la bombetta che gli stringeva a mano il cappio. L’altro del terzetto a Trento che faceva notti insonni con la barba lunga e il revolver sempre sul tavolo, era Benito Mussolini, con gli occhi strabuzzati per la fame, la barba incolta e senza fissa dimora, tessendo complotti. Poi, la polizia imperiale gli notificò un ordine di espulsione che lo portò a Ginevra nello stesso albergo di Lenin, il quale in seguito dirà di non averlo mai visto mentre Mussolini non faceva che raccontare storie su quell’amicizia.
Alcide De Gasperi era uomo d’ordine e quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria, andò a trovare i funzionari viennesi che conosceva per dire quanto era disperato per la scelta di Roma e che certamente a un eventuale referendum il novanta per cento dei trentini italianofobi sarebbe stato per l’Impero. Poi ci fu la guerra, venne in Italia e seguitò a costruire il Partito Popolare, ovvero il partito dei cattolici, ovvero la futura Democrazia Cristiana. Quell’allucinato capopolo baffuto con cui litigava di notte a Trento, era diventato capo del governo fascista a Roma, e si era tagliato i baffi. Ma si era messo in testa il cilindro e portava le ghette. Il resto è storia nota: esilio, sparizione, rapporti clandestini con i cattolici diventati antifascisti dopo essere stati fascistissimi e poi lo spirito della Resistenza. E poi scoppiò la Guerra fredda. Erano le avvisaglie, già marcate. Stati Uniti e Regno Unito stavano rompendo con Stalin dopo Yalta. Churchill aveva pronunciato il discorso di Fulton, in America, in cui aveva inventato l’espressione “Cortina di ferro” – The Iron courtain – da cui i derivati oggi incomprensibili come “oltrecortina” e insomma bisognava decidersi e schierarsi da una parte o dall’altra.
Per la verità c’era poco da decidere perché i quattro grandi avevano già deciso tutto a Yalta dove i dettagli erano stati decisi solo da Churchill e Stalin che trattavano durante la conferenza passandosi dei disegnini fatti su una scatola di fiammiferi da cui sarebbe emersa l’Europa: Stalin voleva i “buffer states” esattamente come oggi Putin: una cintura di stati vassalli, occupati. E l’Italia non era fra quelli: appartenevamo al mondo libero dei Paesi liberi sotto controllo americano ma ancora a quei tempi britannico. De Gasperi odiava i Savoia che invece i conservatori inglesi avrebbero voluto salvare per maggior stabilità conservatrice e De Gasperi amò gli americani. Così, di botto. C’è da dire che nel frattempo l’Alcide era diventato capo del governo ed era un governo con dentro comunisti e socialisti (Pietro Nenni agli Esteri, Togliatti alla Giustizia) e lo sarebbe stato per circa cinque anni, per essere poi fatto fuori dalle leve fameliche della Dc. Basta dire che De Gasperi si era preso come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il più giovane, il più votato da monache e preti, deputato italiano, un ragazzino di nome Giulio Andreotti.
L’Italia che fu governata da De Gasperi all’inizio era l’Italia del Cln e dell’antifascismo, ma dopo il viaggio in America sarebbe diventata l’Italia della Guerra Fredda e dell’anticomunismo. I comunisti sapevano perfettamente che sarebbe finita così perché era scritto non sull’acqua ma sulle carte ma reagirono molto male.
Durante il suo primo viaggio, De Gasperi restò sbalordito dall’America, dagli americani, dal loro modo di festeggiarti. Gli Usa avevano i duri al comando: i fratelli Dulles – Foster al dipartimento di Stato e Allen capo della Cia – il presidente Truman succeduto a Roosevelt come suo vice, ma con un animo da repubblicano pronto alla rissa. Fra cerimonie e fuochi, parate e fanfare, gli americani dissero ad Alcide che l’Italia si sarebbe trovata benissimo nello schieramento delle democrazie del mondo libero. E poi, ecco qua i primi cinquecento milioni di dollari in aiuti, molti di più ne verranno, pensa di poter dire che Italy is with us? De Gasperi non aveva bisogno di essere forzato: aveva dichiarato molte volte il suo timore, poi il suo disgusto per il mondo dell’Est. Una volta rientrato De Gasperi, si sparse subito la voce: abbiamo un contratto con l’America. Dobbiamo sbattere fuori comunisti e socialisti dalla coalizione di governo.
De Gasperi lo fece e l’Italia andò allo scontro: da una parte la Democrazia cristiana alleata dell’America e dall’altra comunisti e socialisti alleati dell’Urss. A quel tempo le posizioni di Pietro Nenni erano ancora fortemente filosovietiche anche se poi avverrà lo sganciamento con la riconsegna del “Premio Stalin” che il leader socialista aveva incautamente accettato. Gli americani avevano promesso a De Gasperi di darsi da fare per restituire Trieste all’Italia. Trieste era in un regime di occupazione alleato ma di fatto sotto il dominio jugoslavo del Maresciallo Josip Broz, detto Tito, un eroe partigiano legatissimo, tuttavia, agli inglesi e in particolare a Winston Churchill, considerato il delfino di Stalin, ma che proprio nel 1948 ruppe con Stalin provocando un terremoto nell’area balcanica. Nel 1948 si sarebbe consumato un colpo di Stato comunista a Praga. Le elezioni del ‘48 furono elezioni come non se ne erano mai viste in Europa: combattute con comizi volanti, manifesti, gli “agit-prop” comunisti capaci di tener testa a chiunque, sicché la sensazione era che il Fronte vincesse.
Ricordo benissimo gli uomini in bicicletta – le città erano solo piste ciclabili con poche macchine, che si fermavano un attimo come le formiche per dirsi: “il Fronte vince”. Il Fronte si presentava con il volto di Garibaldi, la coalizione democristiana aveva per simbolo lo scudo crociato che è pur sempre un’arma difensiva. La coalizione guidata dalla Dc prese il 48 per cento e le sinistre erano crollate anche sotto il martello dei parroci chiamati a ricordare dal pulpito delle chiese che i comunisti erano scomunicati e nemici della chiesa di Dio. De Gasperi personalmente aveva vinto e si preoccupò di dar vita a un governo di coalizione con repubblicani e socialdemocratici di cui non aveva realmente bisogno. Ma sapeva che le elezioni non sarebbero più state vissute come uno scontro di civiltà e che l’idea di dare al Paese uscito da una guerra voluta da un uomo solo al comando, era sbagliata.
D’altra parte, lo aspettava una prova tremenda: far accettare agli italiani e ai partiti, l’adesione al Patto Atlantico, quello che oggi chiamiamo semplicemente Nato. L’Italia, fascisti a parte, non si sentiva per niente affascinata dalla prospettiva dell’adesione a una alleanza militare che rappresentava una parte del mondo armata contro l’altra. Il capo del movimento cattolico contrario a quell’adesione fu l’intellettuale, non ancora prete, Giuseppe Dossetti, che fece appello alla coscienza dei cattolici affinché non accettassero un voto parlamentare di ratifica del trattato. La risposta di De Gasperi fu da giocatore di scacchi: mandò a Castel Gandolfo (residenza estiva del papa) il conte Sforza, che era stato il suo candidato presidente. Sforza spiegò al principe romano Eugenio Pacelli, ora Papa Pio XII, la necessità di richiamare all’ordine la sinistra cattolica e Pacelli – che era stato per anni il miglior diplomatico della Santa Sede – acconsentì. Fece un’omelia in cui si spiegava perché ogni buon cristiano avrebbe dovuto essere a favore dalla Nato e Dossetti in Parlamento fu costretto a votare a favore.
Ma col Vaticano le cose non andarono sempre lisce: «Chi poteva immaginare che proprio a me, povero cattolico della Valsugana, dovesse capitare di dire di no al papa», scrisse De Gasperi nelle sue memorie. Era accaduto quando il papa aveva deciso di far candidare a Roma come sindaco Don Sturzo, figura storica del partito popolare di cui era stato fondatore, con i voti di monarchici e fascisti per contrastare i comunisti. De Gasperi disse di no, non avrebbe mai chiesto al suo partito di coalizzarsi con fascisti e monarchici. L’ultima sua battaglia fu una battaglia persa. Quella della cosiddetta “legge truffa”. Si trattava di una legge elettorale maggioritaria arrivata al voto in Parlamento che avrebbe assegnato un premio al partito di maggioranza relativa,
Il Pci e il Psi scatenarono una formidabile campagna mediatica fatta da giornali, radio e comizio per strada e alla fine la legge non passò per pochi voti e la sinistra unita ebbe la sua rivincita. E De Gasperi vide anche che nel partito la sua leadership era finita. Era stato battuto. E con uno stile impeccabile si dimise e lì terminò la sua carriera storica cominciata come suddito entusiasta dell’imperatore Francesco Giuseppe.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
L’Ucraina e la scelta occidentale: il timone della vecchia Dc (che manca all’Italia). Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.
Il ruolo che fu di De Gasperi e degli altri democristiani. Ora intorno a Pd e FdI potrebbero saldarsi due poli per garantire, nell’alternanza, la collocazione del Paese.
Ci vorrebbe un’altra Dc. Nell’assistere alla confusione ideale e talvolta anche morale, alle furbizie e ipocrisie del dibattito politico italiano intorno alla guerra all’Ucraina, viene da rivolgersi al passato. Perché la Democrazia Cristiana, che trent’anni fa, proprio in questi giorni, partecipava con il suo simbolo per l’ultima volta alle elezioni, ha commesso molti errori, e anche qualche reato, ma su un punto non ha mai sbagliato: è stata per quarant’anni la garante della collocazione dell’Italia in Occidente, dalla parte giusta della storia.
L’adesione alla Nato
Ripercorrendo le vicende dell’adesione alla Nato nell’aprile del 1949 sembra di rileggere le vicende dell’oggi. Allora eravamo noi, piccola nazione sconfitta e distrutta dalla guerra, a chiedere di entrare nella nuova Alleanza, e negli Stati Uniti molti non si fidavano, tanto che la decisione finale fu rimessa al presidente Truman in persona. Ma anche allora il pericolo per l’Europa era l’espansionismo russo, a quel tempo rivestito peraltro della formidabile forza ideologica del comunismo. Non fu facile, nemmeno per la Dc. Esisteva in quel partito una componente di «terzaforzismo religioso», ben rappresentata dal gesuita padre Riccardo Lombardi. C’era il gruppo di Giovanni Gronchi, un cattolico così poco atlantista che quando fu eletto presidente nel 1955 l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce rifiutò di partecipare al ricevimento inaugurale, lamentando un malanno che fu subito ribattezzato «gronchite». E poi c’era la resistenza dei dossettiani. Perfino nella diplomazia vaticana si auspicava una collocazione più defilata dell’Italia, ospite della Santa Sede. Fu Pio XII a rompere gli indugi: il cristiano doveva rifiutare il motto «si vis pacem para bellum», ma anche l’espressione «pace a tutti i costi»; perché l’opzione pacifista doveva essere «pratica e realistica», non frutto di «debolezza o stanca rassegnazione».
Il trionfo di De Gasperi
Così vinse De Gasperi. E l’Italia non ebbe a pentirsene. Né in termini economici né in quanto a libertà. Certamente non nel 1956, quando l’Armata Rossa invase l’Ungheria per stroncare un tentativo di riformismo, o nel 1968 quando i tank del Patto di Varsavia stroncarono nel sangue la primavera di Dubcek a Praga. Al punto che Enrico Berlinguer, il capo di quel partito comunista italiano che negli anni ’50 si era battuto in nome del pacifismo contro la scelta atlantica, nel 1976 riconobbe a Giampaolo Pansa, sul Corriere, che sotto l’ombrello Nato si sentiva più sicuro per la democrazia italiana. Da un certo punto di vista la scelta della Dc di allora fu persino più facile, perché più obbligata, di quella di fronte alla quale si trova l’Italia di oggi: il mondo diviso in blocchi, il fattore K, il pericolo comunista, non lasciavano molti margini di scelta. Ma, d’altra parte, allora ci si trovava di fronte a una minaccia grave ma pur sempre rimasta sempre e solo virtuale: una Guerra Fredda fondata sulla deterrenza che per fortuna non diventò mai calda. Mentre oggi la guerra è calda del sangue di migliaia di morti civili in Ucraina, e il pericolo è ben più reale e immediato, e l’espansionismo russo è anche più cinico, animato com’è da un nazionalismo neanche più portatore di una missione universale, come era ai tempi del comunismo. Qualcosa di questa radice occidentalista (che del resto non impedì alla Dc di essere anche europeista con De Gasperi, neo-atlantista e mediterranea con Fanfani, filo-palestinese con Andreotti) è per fortuna rimasta nell’elettorato italiano, almeno in quello più anziano. In una ricerca di Ipsos realizzata per la Fondazione De Gasperi, la scelta di entrare nella Nato è ancora considerata da un terzo degli italiani nati prima del 1974 come la più importante fatta dalla Dc (contro un quarto dei «millennial», nati dopo il 1980). E, curiosamente, gli ex elettori scudocrociati — ne sono rimasti 5.628.000 che votarono Dc nel 1992 — riversano oggi i loro voti principalmente al Pd (13,8%) e a Fratelli d’Italia (13,4%); cioè ai due partiti più coerentemente schierati dalla parte dell’Europa e dell’Occidente nella crisi ucraina e più attenti alla dimensione internazionale della politica.
Il buco nero al centro
C’è da chiedersi se questo seme potrà germogliare in un sistema politico italiano che ha oggi al suo centro un grande buco nero, un partito di maggioranza relativa che non lo è più, che non ha una sua idea della politica estera, e soprattutto tende a subordinarla agli interessi contingenti della politica interna. Naturalmente non nascerà una nuova Dc. Ma nei due schieramenti potrebbero saldarsi intorno al Pd e a FdI poli che garantiscano, anche nell’alternanza delle maggioranze, la collocazione del Paese. Oppure potrebbe un giorno nascere al centro una maggioranza ridefinita da questa guerra, unita dalla politica estera e di difesa, garante dell’europeismo e del rapporto transatlantico, corazzata contro gli avventurismi filo-russi o filo-cinesi. Ma, per nascere, avrebbe bisogno di una legge elettorale proporzionale. Proprio ciò che i due maggiori eredi del voto democristiano, Pd e FdI, per ora rifiutano.
Maria Romana De Gasperi: «Io e mio padre Alcide». Il podcast «Le figlie della Repubblica». Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2022.
Il primo episodio della serie della Fondazione De Gasperi realizzata col «Corriere della Sera» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia d'Italia
C’è Maria Romana De Gasperi , figlia di Alcide, che si faceva raccontare dai suoi genitori quello che avevano immaginato di comprare nelle loro passeggiate domenicali in una Roma che stava rinascendo dal dopoguerra. Non si potevano permettere nulla, ma era bello sognare tutti insieme.
C’è Serena Andreotti, figlia di Giulio, che vide piangere suo padre il giorno dell’uccisione di Aldo Moro. Una cosa del genere era successa solo una volta, tanti anni prima, quando era morta la madre del sette volte presidente del Consiglio.
C’è Flavia Piccoli, figlia di Flaminio, che a 10 anni accompagnava (mano nella mano) il padre vittima di un pesantissimo esaurimento nervoso, quando dopo cena il politico democristiano andava a camminare per le vie di una Trento deserta e freddissima.
C’è Chiara Ingrao, figlia di Pietro, che negli ultimi anni di vita del primo presidente comunista della Camera andava a casa sua a leggergli ad alta voce le poesie del suo amato Giacomo Leopardi, perché lui non ci vedeva abbastanza per continuare a farlo da solo.
C’è Stefania Craxi, che pur di stare col padre Bettino, lo seguiva negli appuntamenti delle campagne elettorali del Partito socialista di cui era segretario, affidando così alla politica il compito di farle vivere le esperienze di vita che le ragazze della sua età sperimentavano in modi più classici.
E c’è un podcast, diviso in 5 puntate di circa mezz’ora ciascuna, che racconta tutto questo: si chiama «Le figlie della Repubblica» e il primo episodio (con Maria Romana De Gasperi) è ascoltabile da oggi sul sito del Corriere della Sera e su tutte le principali piattaforme (Spotify, Apple Podcasts, Google Podcasts Spreaker eccetera).
«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzato da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.
Le puntate usciranno con cadenza settimanale. Questo il calendario:
18 gennaio: Maria Romana De Gasperi (ascoltala qui)
25 gennaio: Serena Andreotti
2 febbraio: Flavia Piccoli
9 febbraio: Chiara Ingrao
16 febbraio: Stefania Craxi
Alla serie «Le figlie della Repubblica» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia della Prima Repubblica hanno collaborato alcuni Amici Giovani della Fondazione De Gasperi tra cui Corrado Cassiani, Martina Cirelli, Elisabetta Fiaschi, Federico Mossuto, Ludovica Pietrantonio e Michela Zarbaglia.
Riposa in pace. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.
Uno degli ultimi ricordi che ho di mio padre — ripeteva spesso la signora Maria Romana De Gasperi, scomparsa ieri a 99 anni — è lui stanco e malato, la schiena affondata nella poltrona del salotto e i piedi appoggiati su una cassetta della frutta, mentre aspetta la telefonata che gli dirà se il parlamento francese ha approvato la formazione dell’esercito comune europeo.
Era stata una scelta sofferta, la sua, per certi versi ancora più difficile dell’adesione alla Nato. «A chi risponderà, questo esercito?», domandava agli interlocutori, che lasciavano la risposta volutamente in sospeso, perché l’unica possibile era anche la più difficile: a un governo europeo.
Ma con la capacità di visione degli statisti, Alcide De Gasperi intuiva che solo una difesa comune avrebbe creato i presupposti per completare l’unione politica. Perciò si era deciso a correre quell’azzardo. E anche per un’altra ragione, che in questi giorni suona quanto mai attuale.
Un esercito europeo avrebbe progressivamente affrancato il Vecchio Continente dalla protezione americana. Gli sembrava incoerente che proprio chi lo accusava di avere sottomesso l’Italia agli Stati Uniti fosse poi in prima fila nell’opporsi all’esercito europeo, in nome di un pacifismo ingenuo o peloso. Il telefono di casa De Gasperi non squillava e così fu lui — raccontava la figlia — a comporre un numero all’apparecchio. Appena seppe che la Francia aveva detto di no, si lasciò andare sulla poltrona e chiuse gli occhi. Chissà quando apriremo i nostri.
Il podcast con le parole di Maria Romana De Gasperi
È morta Maria Romana De Gasperi: «Quella volta che capii chi era mio papà». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2022.
La figura di Alcide De Gasperi nelle parole della figlia Maria Romana morta questa notte a 99 anni. La guerra, la politica, la famiglia.
Maria Romana De Gasperi
Il padre la teneva d’occhio dal ritratto sulla parete dello studio — «mi piace perché restituisce bene i suoi occhi azzurri» — e dalla foto sul tavolino. In un’altra foto Alcide De Gasperi teneva in braccio la sua bambina, la sua primogenita Maria Romana, morta oggi a quasi cent’anni. Adorava il padre, ma non ne parlava come di un santo. Ti restituiva l’idea di un uomo vivo e pieno di passioni. Il suo primo ricordo di lui fu quando uscì dalle carceri fasciste. De Gasperi fu preso dalla polizia sul treno che da Roma lo portava a Firenze. «Lo portarono a Palazzo di Giustizia in catene, con altri detenuti. Si sentiva sicuro che l’avrebbero mandato libero: in fondo era un deputato che criticava il governo. Lo condannarono a quattro anni di carcere. A mia madre raccontò che non era riuscito neppure a piangere; mormorò solo il nome di Dio. Lo riportarono incatenato a Regina Coeli. Da lì mi scrisse: “Mia cara pupi, sii brava e prega tanto la Madonna per il tuo povero papà”».
Un giorno la guardia lo scoprì dallo spioncino mentre scriveva sulla parete della cella con uno spillo, sfuggito alle persecuzioni corporali. Era una frase del Vangelo: “Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur”». Beati coloro che piangono, perché saranno consolati. «La guardia chiamò il suo capo, che costrinse mio padre a cancellare la frase con il manico del cucchiaio di legno. Papà commentò che era stato gentile, perché non l’aveva punito. Dalla finestrella intravedeva l’orto botanico. Mi scrisse: “C’è dentro un usignolo e la sera quando canta penso a te; e la notte quando, bassa all’orizzonte, vedo una stella penso a te e a Lucia”, la mia sorellina, che era nata da poco».
Poi arrivò il Natale del 1927. «E papà decise di farmi un regalo. Non aveva soldi e in ogni caso non avrebbe potuto comprarmi nulla. Così ritagliò le fotografie di una rivista che gli avevano mandato in carcere, il National Geographic Magazine. Erano immagini della Palestina. Pastori con le pecore. I prati fioriti della Galilea, con il mare di Tiberiade sullo sfondo. Siccome le didascalie erano in inglese, lui le traduceva. E aggiungeva qualche riga per raccontarmi la storia di Gesù. E mamma mi leggeva la storia ad alta voce».
Quel carcerato divenne presidente del Consiglio, per otto anni consecutivi, come non è più accaduto a nessuno. «L’importante è non perdere mai la speranza, neanche nell’ora più buia. Papà dal carcere ci scriveva: “Miei cari, dormite in pace; io sono presente”. In cella si ammalò. Lo portarono in ospedale, ma sempre con la porta aperta, e la guardia di fuori. Fu liberato dopo 14 mesi. Il primo vero ricordo che ho di lui è quando tornò a casa. Non sapevo che fosse stato in prigione, mi avevano detto che era in una città lontana, per lavoro. Lucia rifiutò di abbracciarlo: “Tu non sei il mio papà, il mio papà è quello lì” diceva indicando la sua fotografia». Con le figlie era dolcissimo. «Se combinavamo qualcosa, mamma ci avvisava: “Lo dico a papà!”. Ma noi eravamo tranquille perché sapevamo che papà non ci avrebbe fatto niente. Io ero innamoratissima di lui. A tavola mia madre sedeva alla sua destra, io alla sua sinistra. Appena lui diceva qualcosa, io aggiungevo: “Ha ragione papà!”».
La sorella di Maria Romana, Lucia, si fece suora. “Poi nacque Cecilia. Papà voleva un maschio per chiamarlo Paolo: era molto devoto a san Paolo. Ma arrivò un’altra bambina; e fu chiamata Paola». Nei giorni di festa comprava sette paste, una per ogni familiare, perché in casa abitava sua sorella, zia Marcella. A Natale però oltre al presepe facevano l’albero: un retaggio austroungarico. «Papà trovò un posto nella biblioteca del Vaticano. All’inizio fu dura, molti lo guardavano con sospetto. Lavorava il mattino, lo ricordo all’una attraversare una piazza San Pietro enorme e vuota, senza sedie, senza transenne… Il pomeriggio per arrotondare faceva traduzioni dal tedesco, che parlava come l’italiano: lui dettava ad alta voce, mamma batteva a macchina. Ogni tanto mi assegnava una piccola missione. Nei giorni delle manifestazioni del regime, si temevano arresti e perquisizioni. Allora papà mi affidava un pacco con il suo diario e le sue carte, da portare alla vicina del piano di sotto, che era una brava persona. Un giorno spuntò un ritaglio con il suo nome. Solo allora capii chi era. E lui mi raccontò la sua vita politica. Ero ancora bambina, ma stavo già dalla sua parte».
Quando entrarono i tedeschi a Roma si dovette nascondere. «Era chiuso in Laterano, con lui c’era Pietro Nenni. Arrivarono i nazisti, i preti li fecero scendere nei sotterranei. Nenni disse a papà: “Tu la chiami Provvidenza, io lo chiamo Fato; ma mi sa che stavolta è finita”. Invece si salvarono, però dovettero cambiare nascondiglio. Papà si rifugiò nel palazzo di Propaganda Fide, in una stanzina sul tetto. Io andavo a trovarlo in bicicletta, mi vestivo tutta colorata per sembrare una ragazza in gita. Nel cestino, sotto la verdura, nascondevo i suoi articoli per i giornali clandestini e i messaggi per i resistenti. Una volta ero in tram quando il pacco si lacerò, un passeggero mi disse: “Forse è meglio se scende”. Dopo la guerra volevano darmi una medaglia. Papà disse che non era il caso». E del Duce cosa diceva? «Non ne parlava mai. Solo una volta in Liguria, davanti a un assalto di sostenitori che picchiavano le mani sul vetro per invitarlo a fermarsi, mi disse: “Ora comprendo Mussolini. È difficile capire se fanno così perché hai combinato qualcosa di buono, o perché sei il capo”».
Serena Andreotti: «Io e mio padre Giulio». Il podcast «Le figlie della Repubblica» di Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.
Il secondo episodio della serie della Fondazione De Gasperi realizzata col «Corriere della Sera» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia d'Italia.
È Serena Andreotti, quarta figlia di Giulio, la protagonista della seconda puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». La più piccola dei figli nati dal matrimonio del 7 volte presidente del Consiglio con Livia Danese, racconta il lato privato di uno degli uomini politici più discussi del dopoguerra, scomparso il 6 maggio 2013 a 94 anni: dall’affetto per la madre rimasta vedova giovanissima alla rigorosa educazione cattolica, dal legame con Alcide De Gasperi ai tormentati anni del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, dai processi di mafia alle battute taglienti.
«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzato da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.
Flavia Piccoli: «Io e mio padre Flaminio». Il podcast «Le figlie della Repubblica» di Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.
Il terzo episodio della serie della Fondazione De Gasperi realizzata col «Corriere della Sera» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia d'Italia.
È Flavia Piccoli, figlia di Flaminio che fu due volte segretario della Democrazia cristiana, la protagonista della seconda puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». Deputata del Partito democratico, Flavia Piccoli racconta il lato privato di un uomo politico con una biografia molto particolare: a partire dal nome, impostogli dal padre Bennone per continuare la tradizione di famiglia che rendesse impossibile la traduzione in tedesco. Piccoli era infatti nato a Kirchbichl, in Austria, nel 1915, dove la sua famiglia originaria di Borgo Valsugana era stata evacuata dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria. Nella Seconda guerra mondiale, invece, Piccoli fu arruolato come alpino e riuscì all’ultimo a salvarsi dall’internamento in un campo di concentramento. Nel dopoguerra inizia la sua carriera politica, che parte dall’Azione cattolica trentina per poi passare alla Dc, non senza qualche contrasto col Vaticano. Dello scudo crociato fu segretario nel 1969 e poi tra il 1980 e l’82, mentre tra il 1970 e il 1972 ricoprì l’incarico di ministro delle Partecipazioni statali. Deputato dal 1958 al 1992 e senatore nei due anni successivi, Piccoli è morto l’11 aprile del 2000 a Roma.
Stefania Craxi: «Io e mio padre Bettino». Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
È Stefania Craxi, figlia di Bettino, la protagonista della quinta e ultima puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». Nei giorni in cui ricorre il trentennale di Tangentopoli, che segnò l'inizio della fine dell’allora segretario del Partito socialista ed ex presidente del Consiglio, la sua primogenita difende la figura del padre, morto nel gennaio del 2000 in Tunisia, nella casa di Hammamet. È lì che Craxi era fuggito (la figlia da allora parla e parlava di «esilio») nel 1994 dopo le condanne per corruzione nel processo Eni-Sai e per finanziamento illecito per le tangenti della Metropolitana milanese. Ma il racconto di Stefania Craxi va molto oltre, ricordando il suo rapporto simbiotico con tutto ciò che era politica e che inevitabilmente finì per sottrarre suo padre alla famiglia. Cosa che spinse la giovane Stefania a vivere una gioventù molto diversa da quella dei suoi coetanei e coetanee: una gioventù fatta di politica pur di passare qualche ora in più col padre.
«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritta e diretta da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzata da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.
Clemente Mastella. Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 13 Aprile 2022.
Tra le doti di Clemente Mastella, sindaco di Benevento, ex ministro della Giustizia, bandiera della prima Repubblica, ce n'è una, taumaturgica, fin qui rimasta nascosta: la cancellazione delle multe.
Eppure Mastella pare esserne grande esperto se è vero - come racconteranno stasera "Le Iene", su Italia 1, in un'inchiesta firmata da Marco Occhipinti e Filippo Roma- che è riuscito a farsi annullare quasi tutte le 150 che ha preso in meno di cinque anni. Tutte contestate all'auto di rappresentanza del Comune di Benevento che lo porta in giro ogni giorno. Per impegni istituzionali ma anche nei continui su e giù con Roma, frequentissimi per esempio durante le elezioni per il presidente della Repubblica quando Mastella era una presenza fissa nei talk show televisivi.
A raccontare la storia alle Iene, carte alla mano, è un ex dipendente comunale, Gabriele Corona, esponente di Altra Benevento, associazione beneventana mai tenera con l'amministrazione Mastella. «In questi anni - spiega Corona, indicando una pila di documenti - la macchina del sindaco ha preso multe per eccesso di velocità, circolazione in zona Ztl, corsie preferenziali per gli autobus ».
Ma Mastella, che è un fuoriclasse, è riuscito a impugnarle e vincere i ricorsi. Come? A ogni contravvenzione ricevuta Mastella spiegava che si «recava per motivi istituzionali» in un tal luogo e che l'autista che lo accompagnava, «su indicazione dell'operatore di Polizia a bordo, ha doverosamente superato il limite di velocità imposto a salvaguardia della sicurezza personale del sottoscritto: difatti il notevole rallentamento imposto nella circostanza dal traffico sarebbe stato fonte di potenziale esposizione a pericolo».
Mastella non è sotto scorta. Ma sottoposto a regime di sorveglianza: un poliziotto lo accompagna in tutti gli spostamenti. L'ex ministro sostiene che sia stato proprio l'agente, nei 150 casi, a spingere l'autista (visto che Mastella non guida) alle infrazioni per «motivi di sicurezza». Il punto è che alcune multe sono davvero strane. Sulla Napoli-Roma, dove c'è un limite di 130 chilometri, Mastella sfrecciava a 171, alle 13. Perché? Che pericolo c'era? E ancora: chi attentava alla sicurezza di Mastella alle 3:44 di notte sulla Benevento-Caianello quando, tra l'altro su una strada pericolosissima, superava il limite di velocità? (a proposito: il Mastella sindaco ha criticato duramente i colleghi che mettevano autovelox su quel tratto).
C'è poi il caso Roma: nel 2017 all'auto dell'ex ministro sono state notificate 12 multe per ingressi non autorizzati nella Ztl: conto, 2988 euro. Anche in questo caso, ricorso. Però respinto. Ma Mastella comunque non paga. Ripresenta il ricorso, «e - racconta sempre Corona carte alla mano - questa volta la Prefettura non lo valuta. Passa il tempo e decorrono i termini». Risultato: Mastella non paga e il comune di Roma gli deve 950 euro di spese legali.
«State sprecando tempo» dice però Mastella a Repubblica . «Io non ho la patente. Non guido. Che c'entro? ». Le multe sono alla sua macchina di servizio. È lei che firma i ricorsi, sostenendo che il codice della strada è stato violato per ragioni di sicurezza. «C'è un poliziotto che è sempre con me. Mica posso dire bugie! ». Ma la notte, chi la mette in pericolo sulla Benevento-Caianello? E perché tutti quegli ingressi nella Ztl a Roma? «E che ne so? Io dormo in macchina, parlo al telefono, mica sto attento a quello che succede. E poi: ho fatto ricorso. Ho vinto. Che volete ancora?».
Le Iene, Clemente Mastella? 150 multe annullate in 5 anni, come ci è riuscito: uno "strano caso" a Benevento. Libero Quotidiano il 13 aprile 2022.
Clemente Mastella al centro di un'inchiesta de Le Iene su Italia 1. Nell'inchiesta, che andrà in onda questa sera e di cui Repubblica ha già dato qualche anticipazione, si rivela che l'ex ministro della Giustizia e oggi sindaco di Benevento sarebbe riuscito a farsi annullare quasi tutte le 150 multe prese negli ultimi cinque anni. Tutte contestate all'auto di rappresentanza del comune di Benevento, con cui di solito va in giro sia per impegni istituzionali sia per gli spostamenti da e per Roma, una città molto frequentata per esempio durante le elezioni per il Quirinale.
A sollevare il caso è stato l'ex dipendente comunale Gabriele Corona, esponente dell'associazione "Altra Benevento": "In questi anni la macchina del sindaco ha preso multe per eccesso di velocità, circolazione in zona Ztl, corsie preferenziali per gli autobus", ha spiegato a Le Iene. Sottolineando, poi, come il primo cittadino sia riuscito a impugnare tutto e a vincere i ricorsi. Alle contravvenzioni Mastella avrebbe risposto spiegando che si "recava per motivi istituzionali" in un tal luogo e che l'autista che lo accompagnava, "su indicazione dell'operatore di Polizia a bordo, ha doverosamente superato il limite di velocità imposto a salvaguardia della sicurezza personale del sottoscritto".
L'auto, insomma, avrebbe spesso superato i limiti di velocità perché "il notevole rallentamento imposto nella circostanza dal traffico sarebbe stato fonte di potenziale esposizione a pericolo". In effetti Mastella è sottoposto a regime di sorveglianza, il che significa che un poliziotto lo accompagna sempre negli spostamenti. Alcune multe, comunque, destano qualche sospetto: sulla Napoli-Roma, dove c'è un limite di 130 chilometri, per esempio, Mastella sarebbe andato a 171, alle 13. Caso simile alle 3:44 di notte sulla Benevento-Caianello. Qual era la situazione di pericolo in quei casi? Sentito da Repubblica, Mastella ha replicato: "Io dormo in macchina, parlo al telefono, mica sto attento a quello che succede. E poi: ho fatto ricorso. Ho vinto. Che volete ancora?".
Da Un Giorno da Pecora il 14 febbraio 2022.
Clemente Mastella e sua moglie Sandra Lonardo, sposati da quasi 50 anni, oggi hanno 'festeggiato' il San Valentino intervenendo al programma di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, dove hanno raccontato molti aspetti della loro lunga e felice relazione. “Siamo sposati dal 1975 e prima siamo stati fidanzati per 6 anni”, hanno esordito i due. Qual è il segreto per mantenere un rapporto così lungo? “Ci vuole molto affetto, molta stima e comprensione”.
Cosa ha regalato Clemente a sua moglie per questo S.Valentino? “Un grande mazzo di rose rosse, e stasera faremo una cena da soli”. Con un bigliettino? “Quest'anno niente bigliettino – ha detto la senatrice Lonardo a Un Giorno da Pecora Radio1 - ma gli altri anni mi ha scritto cose bellissime, come 'ti risposerei' o 'starei ancora 100 anni con te'. Più passano gli anni e più è bello stare insieme alla nostra età”. Avete dei nomignoli affettuosi? “Mai avuti, ci chiamiamo da sempre per nome”.
Qual è il difetto peggiore dell'altro? “Sandra magari su una cosa che dico mi risponde 'no vabbé...' ed io mi arrabbio”. E per lei? “Clemente è molto distratto, non si interessa per nulla delle cose della casa, demanda tutto a me”. Si può dire che siete un po' i 'Ferragnez' della politica? “Siamo un po' come i Maneskin e i Cugini di Campagna: ecco, noi siamo i Cugini di Campagna...” Potreste essere i 'Mastellaz'? “E perché no...”
Chi dei due è più geloso? “Lo siamo stati entrambi, quando Clemente faceva il deputato a Roma, e non c'era ancora il cellulare, Clemente mi chiamava 25 volte al giorno...” Dite la verità: in passato c'è stato qualche tradimento? “Non mi sono mai soffermata, qualche volta ci sono andato vicino, ho preferito non sapere, è preferibile non sapere”, ha detto a Un Giorno da Pecora la senatrice.
Iva Zanicchi qualche giorno fa ha detto che far l'amore fa bene anche superati gli 80 anni. Siete d'accordo? “L'amore fa bene sempre, a qualsiasi età. Cambiano i tempi ma è sempre bello”. Infine, prima del termine della lunga intervista, a Rai Radio1 i 'Mastellaz' hanno cantato il brano della loro vita insieme, la celebre 'il Cielo in una Stanza' di Gino Paoli.
Paolo Cirino Pomicino. Illusioni perdute. L’abbandono della politica è il grande inganno che ha rovinato l’Italia, scrive Cirino Pomicino. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 12 Maggio 2022.
Nel suo ultimo fumantino libro pubblicato da Lindau, l’antico democristiano passa in rassegna i mali del Paese, attribuisce colpe eccessive alla finanza, rivaluta Andreotti e trova nel mito del maggioritario uno dei problemi più grandi dell’instabilità di oggi.
Stimolante come i precedenti, l’ultimo libro di Paolo Cirino Pomicino (“Il grande inganno”, edizione Lindau) è però questa volta meno provocatorio, più serioso, in qualche passaggio addirittura un po’ troppo in stile testamento morale. Ma forse è solo una impressione, perché nella sua nuova vita di scrittore e polemista, ci aveva abituato ai fuochi di artificio, ai ritratti fulminanti, alle ricostruzioni ardite ma suggestive, e forse ci aspettavamo, colpa nostra, più divertimento intellettuale, come in certi suoi articoli, fin da quelli firmati Geronimo sui giornali di Vittorio Feltri.
Certo, seduto davanti alla tastiera, Pomicino ha rivelato una forte attitudine alla scrittura, pari alla sua indomabile voglia di esserci, di combattere, di dire la sua, in questa seconda o terza Repubblica che non gli appartiene, che ha spazzato via quasi tutti i protagonisti della sua epoca. Lui no, anzi ha risalito la china di un’ostilità, talora un pregiudizio, che un tempo era forte, sia sui media che nell’opinione pubblica (ma non tra gli elettori campani, che lo voterebbero in massa ancora adesso se ci fossero le preferenze), ed è invece sempre più solida la reputazione riconquistata da osservatore capace di opinioni non banali o strampalate come quelle prevalenti nei salotti televisivi.
In questo nuovo libro, su molte cose si può non essere d’accordo, e il bello è che persino il prefatore, Ferruccio De Bortoli, non risparmia critiche e prese di distanza, quasi fosse un recensore e non una firma associata a quella dell’autore.
Siamo d’accordo con De Bortoli soprattutto sull’eccesso di amplificazione dell’importanza di ciò che ha a che fare con la finanza.
In Pomicino è quasi un’ossessione, ma è davvero un eccesso, che si scontra con la realtà. Certo che la finanza ha un ruolo ben poco al servizio all’industria e allo sviluppo, come dovrebbe essere. È un male non solo italiano innegabile, ma che la finanza sia una piovra che tutto controlla – politica e giornali – è una forzatura. Non vogliamo essere ingenui e vediamo naturalmente tanti difetti nella finanziarizzazione dell’economia, ma di quale finanza parliamo?
Ai tempi di Pomicino la piovra poteva essere la Mediobanca di Enrico Cuccia, che aveva un’importanza superiore alla sua forza reale, entrando nel vivo delle realtà industriali e condizionandole con quote di minoranza e molta suasion, magari poco moral. Ma oggi chi rappresenta la finanza onnivora? Se ci fosse stata finanza forte in Italia avremmo avuto buone privatizzazioni, non una farsa furbetta come quella della prima Telecom e molte delle successive!
La recente vicenda Generali ha messo in evidenza un conflitto interno, peraltro risolto alla fine con una logica di mercato, perché ha prevalso la convenienza. Carlo De Benedetti fa in tarda età il pacifista che critica la Nato e i poteri forti mondiali. Le banche sono molto strettamente condizionate da Francoforte e vengono da una stagione che è stata un bagno di sangue. E i protagonisti delle stragi venete e toscane non erano dei finanzieri, ma imprenditori dell’azzardo e della vanità. Le anomalie del potere bancario sono state semmai facilitate da leggi della Prima Repubblica, che trasferirono il controllo a Fondazioni autoreferenziali.
Quanto al rapporto con i giornali, si sopravvaluta il ruolo di quel che rimane dell’editoria e del giornalismo. Il sorprendente blocco unitario tra Stampa e Repubblica non ha risposto a logiche di sopraffazione finanziaria e oggi, semmai, c’è un’omologazione cui fanno da contrappeso solo le direzioni di Giannini e ancor più di Molinari. Lontani i tempi in cui Scalfari dava la linea a tutti (il narcisismo di Scalfari, non la finanza). Questi cambiamenti davvero notevoli sembrano più ripiegamenti difensivi, istinto di sopravvivenza delle redazioni, alle prese con l’inarrestabile calo delle vendite in edicola, anche quando questo ha ispirato campagne un po’ disperate che hanno spianato la strada alla miseranda ascesa dei 5 Stelle, comunque non a Soros. In fondo, l’unico imprenditore che se la cava, Urbano Cairo, è una figura del tutto nuova nel panorama editoriale, il primo tentativo di editore puro tanto auspicato per la complessiva libertà di stampa. Le bizzarrie de la7 e spesso anche del Corriere non sembrano i tentacoli di una finanza proterva.
La finanza cattiva è dunque la protagonista in filigrana del libro, ma è anche il legittimo pensiero personale dell’autore, la cui mano si vede in tante pagine in cui ha voglia e forza di lasciare le impronte digitali del suo essere controcorrente, e già questo potrebbe bastare per meritare la lettura.
C’è naturalmente la difesa di Giulio Andreotti, e non poteva non esserci. D’altra parte, se uno che è stato professionalmente sconfitto nelle “sue” aule giudiziarie come Gian Carlo Caselli viene periodicamente ospitato dal Corriere della Sera per raccontare una controverità sempre moralistica che, nonostante le sentenze, sancisce ex cathedra la colpevolezza dell’odiato Giulio, avrà pur diritto un amico di sempre a far valere la forza dei fatti e affermare che la mafia si è vendicata del legislatore che più l’ha colpita.
Meno scontati altri giudizi. Vanno letti con attenzione i numerosi riferimenti a Mario Draghi. Da un lato, Pomicino è un po’ il Pippo Baudo che rivendica “l’ho scoperto io”, dall’altro è sottile e capzioso nel commentare alcune pagine non allineabili con il coro laudativo attuale, ma l’autore sta sempre molto ben attento: butta lì qualche riflessione che sembra critica e conclude sempre con un elogio.
Più gustose – tra ironia e finta di non capire – le citazioni di Gianni De Gennaro, l’uomo di tutti i ruoli delicati dell’intelligence e dell’ordine pubblico. È uno slalom strepitoso tra dubbi e fatti accaduti, mai concluso con una censura, che viene se mai lasciata al lettore. Chiave di tutto una frase che attribuisce a Giuliano Amato, ministro dell’Interno di Prodi, impossibilitato a rispondere su quanti siano stati i mafiosi scarcerati per programmi di protezione tra il 1993 il 2005. «Caro Paolo, sulle tue domande la mia amministrazione è reticente», rispose l’ineffabile, e il reticente era appunto De Gennaro.
Come dice lo stesso titolo del libro, l’opera di Pomicino è fondamentalmente un ammonimento a non credere al mainstream, oggi in verità sempre meno vincente, sui meriti e le glorie solo immaginarie della Seconda repubblica.
Il grande inganno allora riguarda un po’ tutto: dal disastro della politica estera, allo sfottò per le porte lasciate aperte ai francesi predatori, alle doppie verità a 5 Stelle della vicenda Benetton Atlantia. E soprattutto – qui siamo totalmente d’accordo – sull’inganno della soluzione dei problemi tramite legge elettorale. Il grande inganno del maggioritario che doveva ridurre il numero dei partiti e lo ha moltiplicato, incentivando il “tarlo democratico” del trasformismo. Fino al paradosso che col proporzionale precedente c’era comunque una corrispondenza tra Paese reale e Parlamento, mentre il salvifico maggioritario ha prodotto governi sostanzialmente di minoranza, non a caso ripetutamente affidati o non politici.
Tutte ricadute di un fallimento generale della classe politica, ben lontani dalle favolose promesse di una seconda Repubblica redentrice, nutrita di personalismi già di per sé discutibili, ma inaccettabili quando a interpretarli sono apparsi sulla scena leader dell’invettiva da talk show o – quando andava bene – “bravi ragazzi di paese” come Spadafora e Di Maio.
Ventisette anni di illusioni e promesse sbagliate, culminate con il successo pentastellato, una “lilliput grillina, autoritaria e farsesca”.
E una grande colpa: non aver approfittato – ora che sta svanendo – della grande occasione dei tassi favorevoli, dell’inflazione inesistente, delle materie prime abbordabili.
Quanto appunto al terreno economico, Pomicino – medico mancato, anche se suo malgrado gran frequentatore di camere operatorie (auguri sempre!) – dimostra la lucidità dei vecchi tempi.
Rivendica – contro la tendenza acritica dei commentatori degli anni ’80 come anni del debito – che «nel 1992-1993 consegnammo alla seconda Repubblica un paese ricco e benestante, privo di tensioni sociali, disinflazionato e con una disoccupazione intorno al 5%». Sono dati di fatto, così come lo sono quelli che hanno successivamente portato il debito sopra il 150% attuale.
Debito che Pomicino considera sempre il grande problema (oggi un po’ accantonato dalla distinzione tra buono e cattivo, ma la guerra lo sta trasformando tutto in cattivo) e ripropone una sua ricetta che presuppone un “accordo” tra Stato e ricchezza nazionale che metterebbe a disposizione 120 miliardi di euro non a fronte di un condono ma di un nuovo accordo conveniente per il contribuente.
Insomma, ripetiamo: un libro da leggere, pieno di suggestioni, con qualche scivolata (l’eccessivo e un po’ troppo scolastico omaggio all’ambientalismo stride un po’ con il personaggio), ma con un grande denominatore comune: la passione per la politica.
Su questo, Pomicino non transige, e ha profondamente ragione, perché molti dei guai italiani contemporanei nascono dall’aver schiacciato la politica in una dimensione caricaturale, mentre è la più seria delle pratiche intellettuali. Come tale, richiede personale adeguato ed è un’anomalia ricorrere costantemente a non politici per poter meglio combattere gli antipolitici, che hanno procurato tanti guai. Solo l’emergenza di grandi temi epocali – la pandemia, l’aggressione russa in Ukraina – hanno forse rimesso ordine alla gerarchia delle cose davvero importanti, purché non sia già troppo tardi.
Che poi Pomicino faccia coincidere la sua nostalgia di politica con l’amore quasi esclusivo, monogamico, con la Democrazia Cristiana, possiamo rilevarlo ma perdonarglielo. Anche la Dc, in fondo, sta attraversando una stagione postuma di rivalutazione.
Pietro De Sarlo per basilicata24.it il 9 maggio 2022.
Fresco di stampa il libro di Cirino Pomicino “Il grande inganno”. Per chi non ricordasse il suo contributo alla Prima Repubblica, basta sapere che fu ministro con De Mita e Andreotti sia alla funzione pubblica sia al bilancio e programmazione economica. Come dice lui stesso fu l’ultimo politico a essere ministro dell’economia.
Non ha mai goduto di buona stampa. La sua parlata stimola il vezzo, venato di razzismo anti meridionale, che si sostanzia in sottolineature denigratorie come “avvocato di Volturara Appula”, riferito a Giuseppe Conte, oppure “commercialista di Bari”, per Rino Formica, o il più garbato ‘intellettuale della Magna Grecia’ con cui Gianni Agnelli chiamò Ciriaco De Mita.
Persino Ferruccio De Bortoli, autore della prefazione, con riflesso pavloviano mette in guardia dalla “arguzia tutta partenopea” dell’autore. Già, a Milano e dintorni l’arguzia pare sia finita e da tempo.
Se però siete intellettualmente liberi e scevri da pregiudizi la lettura è interessante. La tesi del libro è che la Seconda Repubblica è stata un disastro e molto peggio della Prima che vide l’autore tra i protagonisti.
Molto “cicero pro domo sua”, certo, ma Pomicino le cose le sa. Qualcuna la dice, qualcun’altra gli scappa. Si tratta, pur nel morbido tono democristiano, di un pesante attacco al PD e al sistema della finanza e della informazione che protegge e di cui è strumento.
Ecco il libro in pillole.
L’informazione in Italia
Molto spazio dedica al tema della informazione, tema all’attualità visto che è appena uscita l’ultima classifica mondiale sulla libertà di informazione di Reporters sans Frontiere. L’Italia è precipitata in un solo anno dal 41 esimo al 58 esimo posto, tra la Macedonia del Nord e il Niger.
La genesi di questa situazione, con accuse pesanti, l’autore la fa risalire agli inizi degli anni novanta, quando il ‘salotto buono’ del capitalismo italiano, scelse di costruire la Seconda Repubblica dando credibilità e sostegno, con i propri media, a quelli che Cirino chiama i ‘vinti della storia’, ossia a quelli del vecchio PC, ora PD, sconfitti ideologicamente dalla perestroika e dalla caduta del muro di Berlino.
Il salotto buono era costituito da Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Eugenio Scalfari. Gente che deve molto al pubblico potere e in specie al PD “che si trasformò nel braccio operativo della destra neoliberista europea”.
Ma attenzione, l’intreccio tra capitale, finanza e informazione genera: “Un’arma letale per le democrazie liberali… Una potenza di fuoco difficilmente sostenibile dalle istituzioni democratiche.” Anche perché operano: “utilizzando nel contempo le insinuazioni personali e la gogna contro gli avversari, manipolando pesantemente la verità”.
In effetti il metodo si ripropone tutti i giorni su Repubblica e dintorni, e solo una narrazione farlocca può far ritenere che il PD sia stato, e sia, un partito di sinistra. A furia di ‘spiegoni’ e ‘zorate’ qualcuno ancora ci casca.
I giudizi su Ciampi, Draghi, Letta, Prodi …
C’è altro però nel libro. A partire da Carlo Azeglio Ciampi che fece “la peggiore legge finanziaria” e “a elezioni già avvenute e a capo di un governo dimissionario da due mesi” assegnò “all’amico Carlo De Benedetti” la gara per il secondo gestore di telefonia per 700 miliardi delle vecchie lire e a rate.
Affare girato a Mannesmann per 14.000 miliardi di lire dopo poco tempo. Poi Romano Prodi e Arturo Parisi, “dovrebbero spiegare dopo trenta anni” perché “impoverirono un grande Paese come l’Italia” certamente “a loro insaputa”.
Su Letta c’è poco, giusto per chiedere, visti passati incarichi tra cui quello di autorevole membro della Trilateral Commission, fondata da Rockefeller nel 1973, se sia “completamente libero”. Identica domanda c’è su Mario Draghi, con lodi di circostanza, insieme ad alcune vicende imbarazzanti come il giretto a Goldman Sachs, l’autorizzazione dell’acquisto di Antonveneta e le norme europee sul sistema bancario.
Lo stato della democrazia
Da buon DC fa quindi un invito, che pare ipocritamente strumentale, a Draghi a “trasformarsi da rappresentante delle élite finanziarie internazionali a rappresentante delle élite politiche”, come? Banalmente “candidandosi”. Perché? ” Il battesimo elettorali è essenziale per la legittimità politica in un paese democratico”. E come dargli torto.
Intanto ci ricorda che il parlamento è svuotato da ogni funzione tanto che l’ultima finanziaria di Draghi è stata approvata senza il parere della apposita commissione e senza che il Parlamento abbia avuto il tempo di leggerla. E Mattarella? Nella circostanza non pervenuto.
Insomma, la democrazia è a rischio e occorre recuperare la centralità della politica e del parlamento a partire proprio da quella media e piccola borghesia che è stata massacrata nella Seconda Repubblica.
L’Italia e la Francia
Deprimente la narrazione di come l’Italia non abbia da Sigonella, ossia da Andreotti e Craxi in poi, una politica estera, e gli effetti si vedono. Sigonella non ci è mai stato perdonato dagli USA. In ogni caso la ininfluenza del Paese è certificata dalla completa assenza di una posizione autonoma dell’Italia, appiattita sugli USA più che sull’Europa, nel conflitto attuale tra NATO e Russia sul campo Ucraino. Tanto che Mario Draghi non fu neanche invitato alla riunione tra Biden, Macron e Sholzt.
In compendo sulla Seconda Repubblica sono piovute ‘Legion d’Onore’ a tanti politici italiani, specialmente del PD. Fatto è che l’elenco delle aziende cedute ai francesi nella Seconda Repubblica è lungo e di peso: BNL, poi Pioneer e CariParma, senza dimenticare Edison, Telecom, l’agroalimentare, la grande distribuzione e il settore della moda. Quando Fincantieri cercò di fare shopping oltralpe venne però immediatamente fermata e Draghi non ha rinnovato il mandato al protagonista di quella tentata acquisizione Giuseppe Bona.
Nell’accordo di Aquisgrana del 2019 tra Francia e Germania, a detta dell’autore, tra le cose non scritte pare ci sia la divisione dell’Europa in due aree di influenza: la Grecia e l’Est alla Germania, l’Italia alla Francia. “Il trattato del Quirinale” approvato sotto gli occhi di un “compiaciuto Mattarella” pur essendo paritetico nella forma rischia di trasformarci quindi in un protettorato francese.
L’economia, Conte e il M5S
Bocciata la Seconda Repubblica anche in economia con tanto di numeri e percentuali. In compenso vede Conte e il M5S come fumo negli occhi, invece di apprezzare il tentativo di porre fine alla Seconda Repubblica, che lui stesso giudica fallimentare. Qui è la pancia che prevale, non solo nell’autore, non riconoscendo al tentativo del M5S quell’embrione di rivolta piccolo borghese e popolare che poteva dare una spallata al sistema. La spalla se la sono invece lussata.
Conclusione
Peccato gli sia rimasta la cerchiobottista sindrome DC, per cui Cirino Pomicino non arriva mai a trarre le necessarie conseguenze dai fatti. Mattarella: fortuna che c’è. Draghi: idem. Tutti amici.
I contenuti del libro non costituiscono un vero e proprio scoop, più che altro si tratta di un esercizio di memoria. Utile specialmente a chi per fatti anagrafici non ha dimestichezza con la storia recente del Paese.
Eppure la lettura si rivela preziosa per comprendere alcune dinamiche di oggi, come la santificazione di Draghi e la sua nomina a primo ministro. Da non far cadere la denuncia degli interessi in gioco della élite economica e finanziaria, più francofila che europeista, difesi dal PD e da una stampa sempre più asservita.
Se dovessimo essere pignoli manca ancora molta ‘materia oscura’ per apprezzare fino in fondo il degrado della nostra democrazia descritto nel libro. Ci sarebbe molta materia di ‘scandalo politico’, ma temo che siamo talmente scorati e demoralizzati che tutto ci scivolerà addosso come nulla.
Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” il 14 febbraio 2022.
Talvolta ruvido, permalosissimo, ancora appassionato, con una competenza strepitosa, cinico e severo ai limiti della ferocia e pero anche lucido e – piaccia o no – credibile: Paolo Cirino Pomicino di anni 82, un passato politico travolgente nella Prima Repubblica si aggira sulle macerie di questa, cosi piena di modesti e modestia, di improvvisati e impostori, tutta una classe di capi e capetti con molti autentici scappati di casa che poi quando parla lui, cioè Cirino Pomicino, hai la sensazione non sia nemmeno più un ex potente e discusso notabile democristiano, ma un incrocio tra Churchill e De Gaulle.
’O ministro, com’era chiamato a Napoli negli anni Ottanta, in un miscuglio di rispetto e tremendo timore, durante la drammatica setti- mana che ha poi riportato Sergio Mattarella al Quirinale, e tornato ad essere molto cercato, intervistato, spesso ospite dei più importanti talk televisivi.
Anche Rino Formica e Clemente Mastella sono stati parecchio ascoltati: rispetto a loro, pero, Cirino Pomicino ci mette sempre un tasso di perfidia in più. Un giorno s’è chiesto: «Non capisco perchè ci si accanisca così tanto nel volere diventare presidente della Repubblica: lo sanno anche i bambini che il potere vero ce l’ha chi sta a Palazzo Chigi».
La grammatica del potere. La logica del potere. Spiegata a chi oggi lo insegue ovunque e senza uno straccio di progetto. Pomicino osserva basito le mosse di chi guida certi partiti in questa tragica stagione. Giuseppe Conte dovrebbe farsi dare ripetizioni private. Matteo Salvini potrebbe provare: ma e possibile che Cirino Pomicino si rifiuti di dargliene.
L’abisso di vaghezza, il buio dell’improvvisazione, tutto agli occhi di uno come lui può apparire definitivo e, forse, inaccettabile. Del resto: la sua stella brillo con Giulio Andreotti e, poi, con il Cavaliere. Ha visto da vicino tutto. Compresa Tangentopoli. «E l’aldilà: 4 bypass a Houston, 2 a Londa, trapianto cardiaco a Pavia nel 2007». Da Di Pietro, che lo indago per la vicenda Enimont, si fece promettere: «Quando succederà, devi scrivermi l’orazione funebre». Poi non e successo.
E cosi adesso cambi canale e lo senti spiegare un po’ di sintassi politica a questi ragazzi che pensano di farla mettendosi una pochette nel taschino o mangiando pane e Nutella.
Donat-Cattin, un riformista al governo. Lunedì 11 aprile la presentazione. Il Domani il 09 aprile 2022.
Il libro di Marcello Reggiani sul politico e ministro democristiano verrà presentato da Elsa Fornero e Carlo De Benedetti lunedì 11 aprile al Polo del 900 di Torino.
La presentazione del libro “Un riformista al governo. Carlo Donat-Cattin ministro del centro-sinistra (1963-1978)” di Marcello Reggiani sarà lunedì 11 aprile al Polo del 900 di Torino alle ore 17.30.
A intervenire saranno Carlo De Benedetti, l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, Gianfranco Zabaldano, presidente della Fondazione Vera Nocentini e Giovanni Zanetti, professore emerito, già ordinario di Economia politica all’Università di Torino. A coordinare il dibattito sarà Mariapia Donat-Cattin del comitato scientifico della Fondazione che prende il nome dal politico democristiano.
Il libro è una ricostruzione delle riforme fatte e di quelle incompiute a cavallo degli anni sessanta e settanta: dalle leggi quadro per l’industria allo Statuto dei lavoratori, dalla riforma presidenziale a quella sanitaria.
Carlo Donat-Cattin è stato un sindacalista, giornalista e politico italiano. Fu deputato della Repubblica dal 1958 al 1979 e senatore dal ‘79 fino 1991, sempre con la Democrazia Cristiana. Ministro del lavoro dal ‘69 al ‘72 e dall’89 al ‘91, ministro dell’Industria dal ‘74 al ‘78 e della Sanità dall’86 all’89.
Carlo Donat-Cattin. LA VIOLENZA IN CASA. Il caso Donat-Cattin. Padri contro figli negli anni del terrorismo. MONICA GALFRÉ su Il Domani il 29 marzo 2022
Il caso Donat-Cattin-Cossiga innesca sentimenti contraddittori. Da una parte, alimenta il clima di sospetto e mina ulteriormente la credibilità delle istituzioni.
Dall’altra, svela quanto sia diffuso il contagio eversivo. In più il nemico sembra acquisire un volto, che è quello di un ragazzo come tanti, familiare nonostante il nome famoso.
Perché prima di tutto Carlo e Marco Donat-Cattin sono un padre e un figlio. Divisi dalla storia, che in quegli anni ha corso più veloce del solito, non si sono mai capiti, come migliaia di padri e figli di quell’età. MONICA GALFRÉ
Marco Revelli per “la Stampa” il 22 marzo 2022.
Mercoledì 7 maggio 1980 il quotidiano Paese sera esce col titolo in prima pagina: «Il figlio di Donat-Cattin fa parte di Prima linea». E' l'inizio di uno scandalo di dimensioni potenzialmente devastanti, esploso nel cuore della Prima Repubblica. Carlo Donat-Cattin è il potentissimo vice-segretario della Democrazia Cristiana. Ha appena scritto il Preambolo alle tesi congressuali del partito, con cui è stata decretata la fine del «compromesso storico», in un Paese ancora stretto nella morsa del terrorismo. Che il figlio Marco sia un militante di una delle più note formazioni della lotta armata è di per sé sconvolgente. Ma non finisce lì.
Pochi giorni più tardi, il 16 maggio, la Procura di Torino trasmette alla Presidenza della Camera i verbali d'interrogatorio di Roberto Sandalo, un altro membro di Prima linea, amico del cuore di Marco, arrestato il 29 aprile, da cui risulta che Carlo Donat-Cattin avrebbe saputo della situazione giudiziaria del figlio direttamente dall'allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, in un incontro riservato. Che la seconda carica dello Stato risulti imputabile di favoreggiamento nei confronti del figlio di un altissimo dirigente del suo partito configura le condizioni per cui quel vulnus giunga a colpire lo stesso «cuore dello Stato» con effetti persino più distruttivi del fuoco delle Brigate Rosse.
Tanto più che nel frattempo Marco Donat-Cattin è raggiunto da un mandato di cattura per l'assassinio del giudice milanese Emilio Alessandrini. Le sedute della Commissione parlamentare per i procedimenti d'accusa (il cosiddetto «tribunale dei ministri»), di fronte alla quale il capo del governo è chiamato a rispondere come imputato, tra la fine di maggio e la fine di luglio, metteranno in scena tutti gli aspetti di quello che Eugenio Scalfari definì come «uno scandalo senza precedenti».
Il quale tuttavia non ebbe tutta la assorbente visibilità che la cosa in sé avrebbe meritato solo perché inserito in una serie terribile di eventi che finirono per relativizzarne l'impatto: è del 28 maggio l'omicidio a Milano del giornalista Walter Tobagi, il 23 giugno a Napoli è assassinato dai neofascisti dei Nar il giudice Mario Amato, la strage di Ustica, con i suoi 81 morti, è del 27 giugno, mentre quella alla stazione di Bologna (85 morti, 200 feriti) segna l'inizio di agosto Così, quando il 31 maggio, la Commissione a maggioranza risicata (11 contro 9) e poi il 27 luglio l'Aula (507 contro 416) scagionano il capo del governo dall'accusa di favoreggiamento, il rumore mediatico è relativamente contenuto. Cossiga farà ancora in tempo a diventare presidente del Senato e poi il presidente della Repubblica «picconatore» che tutti ricordano.
Per Carlo Donat-Cattin, invece, di fatto la carriera politica finirà lì, inchiodato alla sorte di quel figlio con cui non era mai andato d'accordo. Sotto il profilo strettamente politico la riflessione potrebbe chiudersi così. Uno dei tanti esempi di malapolitica da «Prima Repubblica».
Ma in realtà il «caso dei Donat-Cattin» (padre e figlio) è un viluppo di problemi più profondi, di questioni più «ultime», attinenti ai temi della vita, della morte, del dolore, del senso e del non-senso, del rapporto tra le generazioni naturalmente, come suggerisce il titolo del libro di per sé evocativo di tragedia: Il figlio terrorista. «Nodi» che l'autrice Monica Galfré rivisita con competenza e sensibilità, affidandosi alle fonti con acribia da archivista ma anche all'intuito e alla capacità di compassione indispensabili quando si costeggiano abissi di questa profondità. In primo piano il livello più «visibile» della vicenda, quello processuale, con un focus importante sul passaggio parlamentare («La repubblica sotto processo» è il titolo del capitolo), da cui emergono, con drammatica evidenza, le due «culture politiche» a confronto: da una parte quella democristiana, segnata dall'attenzione alla dimensione umana del dramma del proprio vice-segretario, in forza dei rapporti di amicizia ma anche della centralità che la «famiglia» - con i suoi affetti e i suoi difetti - ha nell'universo valoriale identificante; dall'altra quella comunista, del Pci berlingueriano, che utilizzò il caso per un attacco frontale, catafratta nell'affermazione intransigente del rilievo pubblico (già sperimentata nel corso del rapimento di Aldo Moro) e del primato dello Stato come istituzione «fredda».
Ma poi, come secondo cerchio, il livello più intimo del rapporto «padre/figlio»: di quel padre così assente, tutto assorbito dalla vita politica romana, e così inarrivabile nella sua statura di leader nazionale; di quel figlio così bello, e ribelle, intreccio di vitalismo e di incostanza. E, attraverso quella coppia, la questione più generale del rapporto tra le generazioni in un'epoca di sconvolgimento delle relazioni fondamentali, in cui la modernizzazione tardiva del Paese, brutale e rapida («il crollo finale della società patriarcale»), ha lacerato consolidati legami, strutture elementari come la famiglia, mondi affettivi consolidati e violati da una tempesta di cui il Sessantotto fu la cornice.
E in cui un Edipo scatenato fece, per una feroce parentesi, terra bruciata di un intero repertorio di regole, sentimenti, umanità accumulati nel ciclo lungo della civilizzazione. Infine c'è la galassia ampia, incandescente e avvelenata, del movimento diffuso della lotta armata, col suo reclutamento di massa, i suoi giochi di morte, i meccanismi dell'emulazione e dell'iniziazione, i corpi di un nemico neppure conosciuto usati come «tragici trofei» per segnare il territorio, misurare rapporti di forza tra micro-sette, dimostrare a se stessi di esistere perché capaci di uccidere. E la domanda sul come, e il perché tanta parte di quella gioventù sospesa tra due tempi in rapido distanziamento vi si sia arruolata, da un certo punto in poi prigioniera di un presente in cui contava solo l'atto, l'azione sempre più violenta, fino all'omicidio, bruciando in pochi anni tutte le tappe di un «carnivoro cupio dissolvi».
L'autrice cita, più volte, il motto di La Rochefocauld ripreso da Elias Canetti: «Due cose non si possono guardare in faccia: il sole e la morte». Marco Donat-Cattin (e alcuni come lui) la morte, la morte degli altri da loro provocata, riuscirono a guardarla solo «dopo», dalle sbarre di una cella. La sua dissociazione fu autentica, così giudicò il tribunale. E «dignitosa», aggiunge l'autrice. Nonostante la lunga serie di reati, anche gravissimi, la sentenza sarà mite. La vigilia di Natale del 1987 uscì in libertà provvisoria. Ma ne godrà per poco. Meno di sei mesi dopo, il 19 giugno del 1988, morirà, sull'autostrada Serenissima, mentre tentava di aiutare una donna vittima di un tamponamento. «La morte ha riportato Marco a casa», commenterà qualcuno al funerale. E forse è una verità più profonda di quanto sembri.
Lettera di Antonello Piroso a Dagospia il 22 marzo 2022.
Caro Roberto, nell'articolo di Marco Revelli per La Stampa da voi ripreso -a parte l'inesattezza di collocare l'assassinio del giudice Mario Amato a Napoli (no: fu ucciso alla fermata dell'autobus vicino casa, a Roma)- c'è una ricostruzione sulla vicenda Cossiga-Donat Cattin che non tiene conto di quanto raccontato dallo stesso Cossiga nel suo libro "Italiani sono sempre gli altri".
Riassumo per punti:
1) Roberto Sandalo, "pentito" di Prima Linea, raccontò di aver incontrato Carlo Donat-Cattin, padre del terrorista Marco, per informarlo del destino del figlio (espatriato in Francia dopo diversi attentati, tra cui quello che era costato la vita al giudice Emilio Alessandrini);
2) il Pci di Enrico Berlinguer dedusse -è sempre Cossiga che parla- che se il figlio era scappato, era perchè era stato avvisato dal padre, a sua volta informato dal presidente del Consiglio, cioè dallo stesso Cossiga, in nome della colleganza democristiana (Donat-Cattin era all'epoca vicesegretario del partito e ministro del lavoro);
3) fu promossa una raccolta di firme per la messa in stato d'accusa di Cossiga, ma il Parlamento rigettò la richiesta del Pci;
4) ma chi aveva davvero messo in circolo la notizia? Cossiga da chi avrebbe saputo che Donat-Cattin junior era uno dei capi di Prima Linea? Dal ministro dell'interno Virginio Rognoni, altro Dc, che lo era andato a trovare con il segretario del partito, Flaminio Piccoli;
5) Rognoni invita Cossiga a dirglielo lui, a Donat-Cattin, della situazione del figlio, perchè "noi non andiamo d'accordo". Ma, aggiunge Cossiga, a me parve una scusa per non trovarsi coinvolto nella rivelazione di segreti di Stato;
6) Cossiga avverte Rognoni: guarda che sei già in fallo, e pure grave, perchè un conto è se tu, ministro, avvisavi solo me, presidente del consiglio; ma per il fatto di averne parlato anche con Piccoli, che è comunque un privato cittadino, hai già commesso un reato;
7) incontrando Cossiga a un successivo vertice per le nomine agli enti previdenziali, sarà Donat-Cattin a chiedere a Cossiga cosa sappia del figlio, e Cossiga gli dice cosa ha appreso delle rivelazioni di Sandalo e di quelle convergenti di Patrizio Peci, catturato dal generale Dalla Chiesa;
8) quando sta per salire in aereo per andare ai funerali del Maresciallo Tito con il cugino Berlinguer, Cossiga viene avvisato dal capo della polizia Coronas che nei confronti di Donat-Cattin jr, fino a quel momento ancora solo "sospettato", erano stati spiccati mandati di cattura;
9) e qui, commenta Cossiga, "commetto l'ingenuità più grande: metto al corrente Enrico della tragedia in corso, sottovalutando che è pur sempre segretario del Pci", che fa reagire il partito come detto;
10) il bello è che Tonino Tatò, portavoce di Berlinguer, aveva informato Luigi Zanda (sì, proprio lui, ai tempi portavoce di Cossiga) che secondo la segreteria del partito si trattava di una manovra di bassa lega politica. In effetti, il ministro dell'interno-ombra del Pci, Ugo Pecchioli, aveva difeso Cossiga, anche perchè aleggiava il sospetto che Sandalo fosse stato arrestato -non dai carabinieri di Dalla Chiesa- e rimesso in libertà come "agente provocatore", e Giancarlo Pajetta si era distinto con una riflessione che, conclude Cossiga, non ho mai dimenticato: "Io non so cosa Cossiga abbia veramente detto a Donat-Cattin, ma so che ha detto nè più nè meno di quanto avrebbe detto a ciascuno di noi qui dentro se avessimo un figlio nelle stesse condizioni".
Di tutto questo Cossiga, che intrattenne con me un cordialissimo rapporto, mi parlò in occasione della sua collaborazione televisiva con La7, quando -secondo una vulgata interessata- io sarei stato su una sua personale blacklist per aver individuato una sua fantomatica amante quando lavoravo a Panorama (circostanze entrambe false, ma questa è un'altra storia).
Il lavoro di Monica Galfrè. Il figlio terrorista, la storia di Marco Donat-Cattin che scosse la Repubblica. David Romoli su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
Nella notte del 20 giugno 1988 un giovane uomo di 35 anni viene coinvolto di striscio in un tamponamento a catena sull’autostrada Milano-Venezia, all’altezza del casello Verona Sud. C’è un ferito, sua moglie sta provando a fermare le macchine in arrivo. L’uomo la affianca, segnala con lei l’incidente anche se il buio e la velocità delle auto rendono l’impresa rischiosa. Una Thema arriva sparata, li prende in pieno, uccide entrambi sul colpo. La vittima ha un nome noto: è Marco Donat-Cattin, ex militante di Prima linea, ex detenuto politico, considerato un pentito anche se è vero solo a metà. Il padre, Carlo Donat-Cattin, è uno dei principali leader della Dc, più volte ministro, in quel momento vicesegretario del partito.
Intorno a quella parentela e al sospetto che il potente padre, allertato addirittura dal presidente del consiglio Cossiga, avesse brigato per mettere in salvo il figlio era scoppiato nel 1980 uno dei più clamorosi scandali nella storia della Repubblica. Ricostruisce quella tempesta politica, e soprattutto la parabola tragica di Marco, il libro della storica Monica Galfré, edito da Einaudi, Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione: uno dei migliori nella foltissima bibliografia su quell’epoca storica, forse il migliore in assoluto. Per quanto attiene allo scandalo, ricostruito nella prima parte del libro, la vicenda ancora oggi non è accertata nei dettagli. All’origine c’è il brigatista Patrizio Peci, primo tra i grandi pentiti della lotta armata in Italia. Nella sua fluviale deposizione aveva detto di aver saputo da un dirigente di Prima linea, il principale gruppo armato dopo le Br, che tra i dirigenti di quell’organizzazione c’era il figlio di Donat-Cattin. Era il 2 aprile 1980: pochissimi giorni dopo la deposizione di Peci arrivò nelle mani di Cossiga che – secondo la testimonianza del pentito di Pl Roberto Sandalo – si premurò di avvertire l’amico Carlo perché facesse espatriare il figlio terrorista quanto prima.
I verbali degli interrogatori di Peci, depurati però della pagina in cui veniva citato Donat-Cattin, finirono nelle mani del giornalista del Messaggero Fabio Isman, consegnatigli da numero 2 del Sisde Silvano Russomanno: finirono entrambi in galera per violazione del segreto d’ufficio. Ci rimasero per mesi, poi il giornalista fu prosciolto, l’uomo dei servizi condannato. Sandalo, il militante di Pl che aveva parlato a Peci di Marco Donat-Cattin, fu arrestato il 29 aprile. Tra la deposizione di Peci e quell’arresto, Cossiga aveva certamente incontrato il vicesegretario della Dc nel suo studio privato e il potente Carlo aveva immediatamente contattato proprio Sandalo, che sapeva essere amico e compagno di suo figlio, secondo quest’ultimo per rintracciare e avvertire il figlio. “Roby il pazzo”, come lo chiamavano, si pentì subito. Il 3 maggio fece il nome di Marco Donat-Cattin, contro cui quattro giorni dopo fu spiccato un mandato di cattura ma il “comandante Alberto”, come da nome di battaglia, era già oltre confine. Fu arrestato a Parigi mesi dopo, il 20 dicembre. Che fosse stato messo in guardia dal padre o meno, la decisione di espatriare la aveva già presa. Non dipese dall’indiscrezione del presidente del consiglio.
Le deposizioni del pentito di Prima linea non si fermarono lì. Coinvolsero Cossiga, scatenando un uragano politico. Appena due anni prima, con lo stesso Cossiga inflessibile ministro degli Interni, la Dc aveva sacrificato il suo esponente più prestigioso, Aldo Moro, per non trattare con i terroristi. La fermezza era una professione di fede, un dogma, un obbligo morale prima che politico: trasgredire in nome della famiglia o dell’amicizia, degli affetti, sembrava letteralmente inconcepibile.
Sia Donat-Cattin che Cossiga smentirono. Solo 27 anni più tardi il Picconatore avrebbe ammesso e indicato la catena lungo la quale aveva viaggiato l’informazione: dal ministro degli Interni Rognoni al segretario della Dc Piccoli, i quali avevano poi messo al corrente Cossiga, affidando a lui lo sgraditissimo compito di mettere al corrente il più diretto interessato, Donat-Cattin padre.
La faccenda finì di fronte alla Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa, il “Tribunale dei ministri”. Seduta fiume: tesa, molto drammatica e tuttavia dall’esito predeterminato. La Commissione avrebbe dovuto decidere non sull’eventuale colpevolezza del premier ma solo sulla necessità o meno di procedere con ulteriori accertamenti. Discusse invece come se dovesse emettere un verdetto e assolse a furor di maggioranza. Il Pci raccolse le firme necessarie per ripetere il “processo” in luglio, di fronte alle Camere in seduta congiunta. Fu un momento tanto solenne quanto disertato: dopo cinque giorni di dibattito ad aula semivuota Cossiga ne uscì incolume. Donat-Cattin invece rassegnò le dimissioni e uscì di scena ma solo per qualche anno: nell’86 era di nuovo ministro.
Monica Galfrè ricostruisce non solo i passaggi di quella crisi ma soprattutto la temperie che rifletteva e veicolava: il dibattito sui media, gli intrecci tra calcolo politico, propaganda e avvio, per la prima volta, di una riflessione della società italiana su se stessa e sulla bufera che stava attraversando ormai da oltre 10 anni. Quella che emerge è la verità di un Paese che perla prima volta faceva i conti con il terrorismo, cioè con l’emergenza che lo ossessionava più di ogni altra, riconoscendone la natura “interna”, inscritta nella propria storia. Sino a quel momento i terroristi erano stati visti come alieni: gelidi, efficienti, feroci, nemici mortali, sempre e comunque “altro da sé”. Complice l’intreccio familiare reso fragoroso dalla notorietà e dal ruolo dei protagonisti, i terroristi, e con loro un’intera travagliata generazione, cominciavano a essere visti per quello che erano: non solo parte del Paese ma parte delle famiglie. In senso proprio qualche volta, ma in senso più lato sempre.
Anche da questo punto di vista il 1980 è un anno di svolta: il percorso successivo non sarebbe stato lineare, la “soluzione politica” invocata dai terroristi sconfitti sarebbe sempre rimasta una chimera. Però, senza dubbio, una volta sconfitto il terrorismo, l’Italia della prima Repubblica dimostrò una disponibilità alla clemenza e una volontà di superare l’emergenza marcata dalla consapevolezza di avere a che fare con i propri figli. Quei “figli”, Marco Donat-Cattin in qualche modo li rappresenta tutti. Ragazzo ribelle, padre a 17 anni, militante di Lotta continua, poi di Senza tregua e di lì in Prima linea, quando viene denunciato il “comandante Alberto” era già uscito da Pl, deluso da una deriva militarista che stava rendendo quell’organizzazione sempre più simile alle Brigate rosse e dunque sempre più lontana dalla “struttura armata di movimento” delle origini, di ispirazione opposta a quella brigatista. Se la “ritirata strategica” in Francia lo avrebbe condotto ad abbandonare la militanza armata o a puntare su un nuovo gruppo terrorista, come sembrava comunque intenzionato a fare, non è dato sapere. Di certo nel suo percorso individuale si rifletteva una crisi che non era interna solo alle organizzazioni armate. In quel 1980, che col senno di poi sappiamo aver segnato il tramonto del terrorismo e che si sarebbe concluso alla Fiat con la sconfitta di una ribellione operaia durata oltre 10 anni, si consumò anche la fine di una sorta di incanto collettivo, generazionale, degenerato in tragedia.
L’obiettivo di rendere la parabola di Marco Donat-Cattin esemplare è esplicitato da Monica Galfré sin dal sottotitolo del libro. Per farlo, l’autrice procede in senso inverso rispetto a quello usuale: spoglia Marco Donat-Cattin di ogni componente stereotipa, dal “terrorista” al “militante rivoluzionario”, cercando invece di rintracciarne l’individualità: una verità personale condivisa, pur se declinata da ciascuno a modo proprio, da molti altri giovani del suo tempo e del suo Paese. Da storica, l’autrice ha scelto di affidarsi essenzialmente alle deposizioni di Marco, considerandole comunque meno falsate, in virtù dell’immediatezza, dei ricordi e delle ricostruzioni a distanza di decenni.
Sono gli aspetti sempre dimenticati e messi da parte quelli che vengono qui indagati e scandagliati: il rapporto con la morte data e rischiata, molto più complesso di quanto le ricostruzioni storiche non siano in qui riuscite a restituire, centralissimo nella parabola di Marco Donat-Cattin, che uccise personalmente il giudice Emilio Alessandrini e dall’incubo di quella morte data con le proprie mani non si liberò mai; le relazioni sentimentali, che c’erano ed erano essenziali anche per i militanti della lotta armata; soprattutto il rapporto tra comunità e individui, quello più articolato, per molti e contrapposti versi essenziale nello spiegare sia la precipitazione negli inferi di una lotta armata vissuta spesso con disagio e lacerazioni interiori, sia la rottura che portò molti alla dissociazione, al pentimento o alla resa. Donat-Cattin appare come un “pentito a metà”, quasi un dissociato ante litteram: quando iniziò a collaborare, non facendo nomi ma ricostruendo l’intera genesi di Prima linea, la sua articolazione e i delitti compiuti, la dissociazione ancora non esisteva. Quando morì sull’autostrada, era uscito di galera da sei mesi, lavorava nel sociale per il recupero dei tossicodipendenti. La sua tragedia personale è una chiave per capire la storia d’Italia in un momento cruciale come non è ancora stato fatto. David Romoli
Storia di Carlo Donat Cattin, il sindacalista che portò i diritti in fabbrica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Maggio 2020
La storia di Carlo Donat Cattin, uno dei più importanti leader sindacalisti e capo di una delle fazioni più forti della Democrazia cristiana, è una delle più drammatiche e rapidamente dimenticate della Prima Repubblica. Eppure fu lui a portare a compimento nel 1970 insieme al giuslavorista socialista Gino Giugni (che sarà per questo “gambizzato” dai terroristi nel 1983) quello Statuto dei lavoratori che aveva varato il socialista Giacomo Brodolini nel 1969 poco prima di morire. Donat Cattin era uno dei pochi maschi alfa della Dc, uno di quel sangue ligure piemontese fatto di durezza, silenzio e intransigenza di una stirpe montanara e di scoglio forte e taciturna, con idee duramente trattabili, ma inflessibili. Era uno che non andava giù alla destra Dc e alla destra politica in genere (che oggi, sia detto per inciso non esiste più sul panorama politico, occupato da altre destre) perché il suo sindacato – da lui creato con una scissione dalla originaria Cgil – era spesso più intransigente del sindacato guidato dai comunisti.
La destra conservatrice di allora, un genere di destra di cui oggi non c’è più traccia, lo definiva «un comunista da sagrestia», sbagliando totalmente perché Donat Cattin, come Brodolini, apparteneva a quella sinistra spesso più a sinistra delle Botteghe Oscure, ma che nel frattempo governava, e aveva accesso a quella che il vecchio leader socialista Pietro Nenni aveva chiamato «la stanza dei bottoni». Carlo Donat Cattin oltre che farsi un suo sindacato, si era di fatto anche una sua personale Democrazia cristiana all’interno del grande corpaccione elettorale cattolico con la corrente “Forze Nuove” che nei momenti di maggior splendore raggiungeva il venti per cento. Donat Cattin era dunque un politico politicante, in questo più affine al socialista Pietro Nenni – il quale dall’esilio francese aveva portato lo slogan la politique d’abord, la politica prima di tutto – che non ai comunisti infinitamente più togliattiani, ovvero sottili e duttili ma anche gelosi del loro primato nella classe operaia e del sindacato malvolentieri condiviso con i socialisti al governo insieme ai democristiani.
Erano state tutte queste contraddizioni logiche e politiche a mettere sotto stress una politica che si era arenata con l’uccisione di Aldo Moro sulla soglia del compromesso storico e che era fortemente animata dalle frange estremiste che praticavano la politica delle armi piuttosto che le armi della politica, ad imitazione di quanto avveniva nella Repubblica federale tedesca con la Rote Armee Fraktion. Fu quindi un fatto imprevisto, ma al tempo stesso di piena coerenza storica, l’emersione del ruolo di un figlio di Carlo Donat Cattin, Marco, come terrorista, anzi un leader del terrorismo rosso, uno dei più sanguinari “comandanti” di Prima Linea, una organizzazione combattente comunista affine e concorrente delle Brigate Rosse. Per il padre non fu soltanto uno shock, ma la fine della sua carriera politica, almeno come dirigente.
L’emersione del nome del figlio – che poi si pentì e morì tragicamente in un terribile incidente stradale mentre tentava di salvare alcuni automobilisti dallo stesso incidente in cui era coinvolto – prese subito la forma di uno scandalo che coinvolse Francesco Cossiga nella sua qualità di ministro degli Interni (ma che in quel momento era capo del governo) e Donat Cattin, ministro dell’industria in un governo Andreotti, che dovette dimettersi, sostituito il 25 novembre 1978, da una new entry: Romano Prodi. Non si è mai capito da quanto tempo e a chi esattamente fosse noto il fatto che Marco Donat Cattin fosse un terrorista. La sua identificazione avvenne per opera di uno dei tanti pentiti allora gestiti dai corpi speciali e quando la storia venne allo scoperto, lo scalpore raddoppiò quando emersero imbarazzanti dettagli sul retroscena della vicenda che diventarono terreno di uno scontro violentissimo perché Cossiga era ora presidente del Consiglio e messo formalmente in stato d’accusa.
Alla fine di un dibattito accesissimo, fu assolto con 597 no contro 416 sì dal sospetto di aver avvertito Donat Cattin padre della situazione di suo figlio, suggerendogli di farlo sparire alla svelta. Fu una faccenda brutta e penosa perché Donat Cattin, quasi spezzato nella sua struttura di vecchia quercia dovette ammettere di avere chiesto a Cossiga se avesse notizie di suo figlio Marco. E Cossiga ammise di aver risposto di non avere alcuna notizia del latitante. Carlo Donat Cattin restò fuori dalla politica finché fu recuperato da Bettino Craxi che lo volle ministro della Sanità in piena crisi per il diffondersi dell’Aids. Era un ruolo per lui secondario, ma non c’era ormai altro. Anche per il presidente del Consiglio Cossiga, benché salvato dal voto, fu l’inizio di un profondo turbamento umano perché – mi raccontò più volte – mai si sarebbe atteso un personale e rovente accanimento in Parlamento da parte di Enrico Berlinguer che era, tecnicamente, suo cugino. Il commento gelido di Berlinguer a questa manifestazione di sorpresa, fu: «Con i cugini si mangia soltanto l’agnello a Pasqua».
Cossiga sparì dalla politica e fu recuperato da Ciriaco De Mita, su consiglio di Eugenio Scalfari che a quei tempi riceveva a pranzo Cossiga una volta a settimana, quando Amintore Fanfani si giocò lo scranno di presidente del Senato per guidare un governicchio balneare che, alla fine, mise fuori anche lui. Allora Cossiga fu riammesso nel circolo del grande perdono cattolico comunista ed eletto presidente del Senato e di lì, quasi con un plebiscito, spedito al Quirinale perché considerato un uomo ormai privo di qualsiasi tossina pericolosa. Errore drammatico perché, come sappiamo, dopo i primi quattro anni di settennato, l’ex presidente del Consiglio umiliato alla Camera per il caso Donat Cattin cominciò a togliersi i sassolini dalle scarpe.
A Donat Cattin, che era stato un fautore dell’incontro storico con i comunisti, era del tutto passata la voglia di quella stagione. Anche lui, in maniera analoga a quel che fece Cossiga, invertì la rotta facendosi portatore del cosiddetto «preambolo» che consisteva nello smontaggio di quanto ancora rimaneva della collaborazione fra Dc e Pci: la nuova linea era quella di sbattere fuori i comunisti da ogni maggioranza, anche se Giulio Andreotti fece tutto il possibile e anche l’impossibile per riagganciare il Pci grazie al quale sperava un giorno di arrivare al Quirinale.
Nel 1986 come ministro della Sanità di Craxi (che lo apprezzava proprio per la sua incompatibilità con i comunisti e la disponibilità con i socialisti) si trovò il Pci di traverso ogni volta che se ne presentava l’occasione. Così fu attaccato violentemente sulla questione – oggi dimenticata– dell’atrazina: un diserbante inquinante, che superava la quantità massima concessa dall’Europa di 0,1 microgrammi per litro. I sindacati aderenti alla Cgil dichiararono guerra insieme ai verdi di Marco Boato finché il Pci non propose una mozione di sfiducia personale insieme alla Sinistra indipendente e Verdi, che non passò ma che contribuì ad azzopparlo ulteriormente, mentre la stella del suo protettore Craxi perdeva di forza.
Sull’Aids, Donat Cattin fece una gaffe che gli valse molte palate di fango, non del tutto immeritate. Disse infatti che «l’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare», alludendo pesantemente alla forte incidenza di omosessuali maschi fra gli infettati dal virus Hiv E in questa battutaccia c’era un po’ di tutto: una vena di cattolicesimo conservatore, una rusticana ostilità per le élite intellettuali e omosessuali molto diffusa nel Piemonte e nella Liguria operaie e che costituivano paradossalmente lo stesso bacino sardo-ligure-piemontese di cui era nutrito il Pci di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer e fino a Natta.
Nulla di più che una significativa coincidenza geografica con l’antico Regno di Sardegna, che però nella vecchia e buona Repubblica che chiamiamo “prima” come se ce ne fossero state altre, aveva un certo valore codificato dall’asprezza di i duelli mortali, combattuti senza mettere di mezzo amici o parenti, perché con quelli, al massimo, ci si mangia l’agnello a Pasqua. Donat Cattin fu il secondo padre dello Statuto dei lavoratori, dopo Giacomo Brodolini, ma probabilmente pochi lo ricordano per questo e dunque lo facciamo noi nel tentativo di rimettere insieme alcuni pezzi e capire come andarono le cose.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Gerardo Bianco. "Moro, Fanfani, Mattarella. La mia lunga vita nella Dc". Federico Bini il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.
A 91 anni quasi compiuti, Gerardo Bianco, uno degli ultimi storici esponenti di spicco della Democrazia cristiana e del popolarismo italiano racconta la sua straordinaria vita.
L'ascesa politica con Sullo e De Mita, la passione per il parlamento, gli incarichi di capogruppo, ministro e segretario del Ppi dopo la fine dell'amata Dc. Il tentativo di includere il Psi nell'area di governo, le nottate in parlamento, l'elezione mancata di Forlani al Quirinale, il ricordo di Moro, Fanfani, Cossiga e Andreotti e l'elelogio del presidente della Repubblica Mattatella.
Presidente Bianco è vero che Lei è un intellettuale prestato alla politica?
"Io metto in dubbio che sia un intellettuale. Intellettuale per me è un discorso molto profondo. Bisogna veramente essere persone di grande cultura. Ho coltivato gli studi, sono uno che ha moderatamente letto parecchi libri anche quelli del mondo latino ma non mi ritengo un grande intellettuale. Ho fatto politica, questo sì, per tutta la vita, con grande passione, soprattutto la vita parlamentare. Per me il parlamento era il cuore della politica italiana e lì ho vissuto le mie ore migliori e le giornate più avvincenti".
Lei una volta ha detto: “Il parlamento è la mia passione”.
“Esatto. Io mi sono sentito sempre un rappresentante parlamentare anche se ho avuto ruoli più di carattere partitico o di governo, io mi sono sempre sentito un rappresentante della nazione”.
Lei entra in parlamento nel 1968 e vi rimane per oltre quarant’anni. Guardando retrospettivamente come sono cambiate da dentro le istituzioni italiane. Pensiamo ad esempio al ruolo della presidenza della Repubblica.
“La situazione nel corso degli anni si è parecchio modificata. In sostanza quello che ha inciso moltissimo nella evoluzione delle nostre istituzioni a mio avviso è stata una data, una data infausta, che avrebbe stabilizzato il sistema politico italiano, ed è il 1953. Quando la legge cosiddetta 'truffa' non viene praticamente approvata e cominciano le instabilità dei governi. In questo contesto il ruolo del presidente della Repubblica vedrà crescere i suoi poteri, continuando a svolgere il ruolo che comunque la Costituzione gli conferisce di bilanciamento dei poteri, di stabilizzazione che è stato esercitato in maniera sempre più incisiva”.
Prima di entrare in parlamento da ragazzo avellinese era dato vicino come anche De Mita al ministro Fiorentino Sullo.
“Sullo aveva un carattere difficile, complicato e molte volte mutevole. A Sullo dobbiamo riconoscere di aver fatto crescere una classe dirigente. Sullo è stato un grande politico, aveva una visione straordinaria nella concezione dello sviluppo del paese. Rimane celebre la sua proposta di legge urbanistica, bocciata clamorosamente dalla stampa che era ostile e in qualche maniera anche dall’interno del partito democristiano perché chi governava il partito, all’epoca Aldo Moro, si era reso conto che avremmo perduto centinaia di migliaia di voti”.
Su De Mita invece una volta disse: “De Mita voleva la mia pelle e io mi sono rotto le palle”.
“Sono situazioni che fanno parte della dialettica politica. C’è stata prima una grande intesa, un grande incontro. De Mita era mio compagno di studi alla Cattolica a Milano, aveva già una posizione chiaramente di leadership anche dal punto di vista politico. Il suo carattere e il suo interesse erano maggiormente orientati verso la politica rispetto a me e ad altri colleghi. Abbiamo lavorato poi insieme con Sullo nella creazione della corrente di Base che era aperta all’inclusione nel sistema democratico del Partito socialista”.
Quanto ha pesato sulla Dc la morte di Aldo Moro?
“È fuori discussione che Moro fosse una figura centrale nella conduzione strategica delle alleanze politiche e quindi dell’assestamento del sistema politico-istituzionale italiano. Io però non accetto la teoria secondo cui con la morte di Moro ci fu la rottura del dialogo con il Partito comunista. Io penso che la responsabilità sia da addossare al Partito comunista e alla leadership del momento su questioni di carattere internazionali. La rottura avvenne nel 1978, quasi subito dopo il voto a favore del governo Andreotti, sul problema del serpente monetario europeo. Praticamente il Partito comunista si opponeva affinché l’Italia sottoscrivesse l’accordo. E poi l’altro fatto successivo fu il problema degli euromissili”.
Con Craxi che si smarcò nettamente dai comunisti.
“Qui ci fu il grande cambiamento della politica italiana. Craxi ricordo che non voleva che si mettesse la fiducia e disse a me che ero capogruppo della Dc che se si poneva la fiducia lui non poteva votarla. Se invece la fiducia non si metteva lui avrebbe approvato la missione che poneva il dispiegamento degli euromissili per controbilanciare quelli installati dall’Unione Sovietica”.
Lei è stato capogruppo Dc alla Camera dei Deputati dal 1979 al 1983.
“È stata una bellissima esperienza caratterizzata da una intensa attività parlamentare con il Partito radicale che ci costringeva a fare le notti. E qui c’era da trascorrere delle vere e proprie nottate per far approvare i vari provvedimenti. La sera tardi ci ritrovavamo nella ‘residenza’, una stanza del segretario generale della Camera. Un grande segretario, Vincenzo Longi il quale cercò sempre di mantenere l’assoluta terzietà della Camera”.
A quale politico è stato più vicino nella sua lunga carriera?
“Un rapporto importante l’ho avuto con De Mita, con Sullo e poi negli ultimi tempi un rapporto molto inteso e di grande stima l’ho avuto con Donat-Cattin”.
Come erano i grandi leader Dc visti da vicino?
“Moro l’ho conosciuto benissimo, Fanfani che appariva così antipatico era di una simpatia assoluta. Poi aveva la mania di cucinare. Quando era presidente del Senato e ci invitava varie volte con mia moglie, stava dietro a fare il risotto. La Pira era insieme vicino e distante. Andreotti invece era cinico nella gestione politica. Forlani un grande gentiluomo, uno degli uomini migliori della Dc. Ricordo quando rinunciò alla candidatura al Quirinale. Io insistevo perché rimanesse perché secondo me c’era la possibilità di recuperare i voti dei repubblicani e in più avremmo recuperato molti dei democristiani andreottiani convinti che Andreotti non ce la faceva ma Forlani disse seccamente di “no”. Cossiga, persona coltissima, preparatissima e un grande amore per la classicità, fu sempre molto apprezzato”.
Qual è stato il momento più gratificante della sua lunga storia politica?
“L'elezione di presidente del gruppo sia nel ’78 ma poi soprattutto nel ’92. Il biennio ’92/’94 viene ricordato solo per Mani pulite, invece fu un periodo di grande importanza perché preparò l’Italia a entrare nella moneta unica europea”.
Ma come avveniva allora la scelta dei candidati alla presidenza?
“Le elezioni del presidente della Repubblica passavano per il voto interno dei gruppi parlamentari democristiani. Io ero stato eletto da poco, e in genere chi era stato eletto in prima battuta non prendeva posizione, io invece parlai in aula e parlai a favore di Moro. Il voto dei gruppi parlamentari veniva fatto nell’aula del nostro gruppo, e alla fine c’era il controllo fatto dai presidenti dei gruppi, più dai rappresentanti delle correnti interne e alla fine le schede venivano bruciate”.
A quante elezioni di presidenti della Repubblica ha assistito?
“Se non ricordo male cinque, da Leone fino al Napolitano I. Ho fatto parte come presidente del gruppo dell’elezione di Scalfaro e Ciampi. Durante l’elezione di Scalfaro (’92) la Dc contava ancora 906 parlamentari, e poi ero presidente del partito (Popolare) durante la scelta di Ciampi. Qui c’è una cosa che a mio avviso va precisata. Oggi tutti dicono che la scelta di Scalfaro ci fu a seguito dell’eccidio di Capaci. Per quello che io ricordo, ci fu certamente una accelerazione, ma la scelta di Scalfaro era già avvenuta. Era stata fissata la data per la votazione dopo il ritiro di Forlani”.
E la candidatura di Andreotti?
“Non è mai esistita dal punto di vista reale. Il voto interno era stato tutto a favore di Forlani. Era stata ventilata la possibilità di una sua candidatura ma non avvenne niente di concreto. Anche perché c’era la contrarietà del Partito socialista”.
Craxi lavorava al suo schema…
“Sì. Il presidente della Repubblica alla Democrazia cristiana, il governo al Partito socialista e la presidenza della Camera a Napolitano. E ritornando a Scalfaro, lui era anche ben accetto da parte di Craxi perché ne era stato ministro dell’Interno e molto vicino a Forlani tanto che quest’ultimo lo sostenne apertamente”.
Nel ‘90/’91 è stato ministro della Pubblica Istruzione con Andreotti.
“Contro la mia volontà. Io non volevo andare a giurare, ma mia moglie fu pregata da Forlani”.
Suo predecessore (democristiano) al ministro della Pubblica Istruzione dall’89 al ’90 fu Sergio Mattarella oggi presidente della Repubblica.
“Con Mattarella ho avuto rapporti eccellenti da tutti i punti di vista. Il rapporto è stato poi eccellente perché io ero presidente del gruppo e lui relatore della legge che porta il suo nome, il Mattarellum. Nel ’94 io sono diventato segretario del Partito popolare e lui nel ’96 è eletto capogruppo dei popolari alla Camera. Il presidente Mattarella lo ricordo come austero, severo, cordiale e amico”.
Quale giudizio conferisce alla presidenza Mattarella?
“Eccellente. È uno dei più grandi presidenti della storia repubblicana. Io scherzando ho detto che con Mattarella si è dissipata la maledizione dei papi sui presidenti democristiani al Quirinale. Mattarella con la rielezione ha disperso questa cosa. Oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che Mattarella è entrato tra i grandi padri della storia e della Dc”.
Tra i grandi padri della Dc, chi sono stati i migliori politici?
“Svettano De Gasperi e Moro. Però io vorrei fare una precisazione, la storia della democrazia cristiana non si scrive sulla storia dei grandi leader, ma la si scrive sulla storia dei cosiddetti uomini della seconda o terza linea che erano leader locali che avevano anche una dimensione nazionale. Sono uomini come Fiorentino Sullo, Giacomo Sedati… nomi che hanno rappresentato la vera classe dirigente democristiana".
Lei crede nella ricostruzione di una grande area di centro?
“Vedo un’aggregazione di cose diverse. Se poi c’è del buon condimento nel dare sapore al minestrone va bene. Ma insomma, per ora non è quella la strada che può essere seguita”.
Moriremo tutti democristiani?
“Sarebbe bello. Il problema però è che questa è una cosa passata. Credo però che finiremo per usare il termine democristiano come discredito, ma la maggior parte dei giornalisti e scrittori non sa cosa veramente è stata la democrazia cristiana. E mi permetto di dire che nel discorso del presidente Mattarella, quando lui usa il termine ‘dignità’, ripetendolo una decina di volte, là dentro c’è tutta la cultura del personalismo cristiano, c’è dentro Maritain, e quella è una grande eredità, l’importante non è morire democristiani ma preservare la cultura dei cattolici democratici”.
Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando avevo quindici anni un’intesa attività pubblicistica e di studio in ambito politico, giornalistico e storico. Collaboro con diverse riviste d’informazione e approfondimento culturale. Tra le mie pubblicazioni si ricorda: Montanelli e il suo Giornale (Albatros editore), Roberto Gervaso. L’ultimo dandy (L’Universale) assieme a Giancarlo Mazzuca, Un passo dietro Craxi (Edizioni We) e Una democrazia difficile. Partiti, leader e governi dell’Italia repubblicana (Albatros editore). Sono stato condirettore del settimanale Il Caffè.
I candidati al Quirinale. Ritratto di Pier Ferdinando Casini, il bello che a pranzo mangia una mela verde. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Conobbi Pier Ferdinando Casini nel ‘99 quando diventai vicedirettore del “Giornale”: mi chiamò per conoscermi e per pranzare in un ristorante del Centro. Non ricordo che cosa mangiai io, ma non dimenticherò mai il pasto di Casini: una sola e unica mela verde, che pelò, tagliuzzò, contemplò, assaggiò a minuscole dosi e che poi si decise a mangiare come antipasto, primo, secondo, dessert, caffè e ammazzacaffè. Nient’altro.
Dieta, fisico asciuttissimo, conversazione esplorativa e riconoscimento reciproco che col passare del tempo diventò anche una buona amicizia, specialmente quando ci trovammo arrampicati sulle curve del Gruppo Misto alla Camera. Infatti, erano passati gli anni, io ero entrato in Senato dove presiedetti la “famigerata commissione Mitrokhin” che scoprì un po’ più di quello che c’era da scoprire e che fu per questo coperta da una massa di letame mediatico accuratamente preparato secondo gli usi e costumi della casa Italia. E non soltanto Italia. Casini a quell’epoca era uno dei tre alleati del primo governo Berlusconi: con Gianfranco Fini e Umberto Bossi permetteva al governo di reggere. Le cronache riferivano costantemente di cene tempestose e rappacificazioni mai definitive perché tutti i contraenti facevano politica e dunque avevano bisogno come dell’ossigeno di poter emergere e differenziarsi da Berlusconi senza metterlo in crisi.
Casini fu presidente della Camera e questa carica e funzione lo abilitano, secondo le regole tradizionali del Cursus Honorum, ad essere un papabile Presidente della Repubblica. Di fatto lo azzopparono. Ci fu una volta in cui Berlusconi fu persino costretto ad andare a presentare le dimissioni dal Capo dello Stato per vedersele respingere e farsi reincaricare cinque minuti dopo. Erano tutti riti tribali della nuova formula bipolare in cui la parte che vince governa ma al suo interno si spappola e l’inventore della formula nonché direttore dell’orchestra si trova continuamente legato e impacciato. D’altra parte Berlusconi aveva compiuto quel gioco di prestigio, quel miracolo storicamente irripetibile di vincere le prime elezioni a cui partecipava, mettendo insieme pezzi che non combaciavano tra di loro: La Lega Nord antifascista di Bossi al Nord, alleanza nazionale fascista al Sud con Gianfranco Fini. E poi Pierfi. Lo chiamavano così e io trovavo detestabile questo nomignolo né credo piacesse a lui ma non c’era niente da fare: Pierfi di qua, Pierfì di là e Pierfì svolgeva un ruolo importante nell’area democristiana dove allora si contendevano la leadership il professor Rocco Buttiglione, un amico papista wojtyliano ma anche amante della logica formale, Cesa e altri minori.
La Democrazia Cristiana l’avevo vista rinascere flebilmente per subito rimorire ed ero stato testimone degli ultimissimi atti quando con Mino Martinazzoli facemmo dei convegni in qualche vecchio cinema di Roma mentre andava forte il Patto Segni, con Mario Segni che però non ebbe mai da Martinazzoli la luce verde per fare ciò che tutti gli italiani si aspettavano facesse: dare la svolta, fare una piccola rivoluzione che fosse almeno un rimodernamento e aprisse a una destra liberale sulla quale già aveva messo il cappello Berlusconi perché vedeva che la situazione della Repubblica era in crisi e che i partiti della prima Repubblica avrebbero fatto una brutta fine. L’autore della profezia come è noto era stato il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che usava riversarmi confidenze di cui la più solida fu la previsione di quello che sarebbe successo al nostro paese con la fine della guerra fredda: l’Italia non avrebbe contato più un accidente, non sarebbe più stata la cerniera tra est e ovest, tutte le piccole grandi porcherie fatte da democristiani repubblicani socialisti socialdemocratici, ma anche comunisti missini e radicali e chi più ne ha più ne metta, sarebbero passate al pettine del supervincitore americano il quale avrebbe alzato le sue forche e messo sul rogo le sue streghe pur senza farlo vedere.
Poi cominciarono a cadere le teste di mani pulite, la celebre operazione americana “Clean Hands” e poi la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, il colpo di reni berlusconiano, la vittoria, il governo, l’avviso di garanzia recapitato dal Corriere della Sera a Berlusconi al suo primo meeting mondiale, con crollo dell’embrione della seconda Repubblica, passaggio di campo di Lamberto Dini per un governo tecnico, palla al centro, elezioni, governo Prodi, poi D’Alema in cabina di bombardiere sulla Serbia, poi finalmente Berlusconi rivince e dice adesso si gioca tutta un’altra partita, qui comando io o perlomeno vorrei che voi seguiste le mie linee. Non ci fu verso, e quello fu il fallimento politico del berlusconismo nato da una grande idea visionaria, il paese che amo, il rilancio di tutto il mondo liberale, l’emigrazione dei cervelli comunisti verso Forza Italia guardata anche da intellettuali schizzinosi come un porto d’approdo e poi un grande rilancio festoso al quale partecipò anche lui: Pier Ferdinando Casini, che a casa mia, mia moglie, da quando aveva saputo la storia della mela al ristorante, chiamava semplicemente il bello. Hai visto il bello, che cosa fa oggi il bello, stasera in televisione il bello non c’era, e così via.
Poi capitò che ci rivedessimo tutti a New York al Four Seasons per un saluto frettoloso e la comune vita parlamentare ci avvicinò man mano. Conobbi così un uomo molto esperto, un non divo ma non un uomo di abbuffate, al contrario un uomo di diete e di centimetri molto misurato ma anche capace di invettive. Ricordo il giorno in cui io mi precipitai dall’America e tutti i senatori e i deputati tornarono dalle loro vacanze per la improvvisa riunione delle commissioni esteri e difesa nella grande sala del mappamondo quando la Russia invase la Georgia. Era la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che un paese europeo entrava col proprio esercito oltre i confini di un altro paese europeo per sottometterlo. Ricordo Casini pronunciare un discorso di rara energia e rettitudine morale, senza enfasi chiassosa ma con le idee chiare nella distinzione tra il bene e il male, il lecito e l’illecito. In quell’occasione anch’io fui molto turbato da questo evento dal momento che venivo dal tremendo impegno per la commissione sulle penetrazioni sovietiche in Italia e avevo avuto almeno quattro dei miei informatori uccisi tra cui il povero Alexander Sasha Litvinenko, ucciso col polonio radioattivo e che diventò per poche ore la tragica star di tutte le news del mondo.
Casini è un uomo delle istituzioni, vicino quanto basta alla chiesa ma non ho mai saputo esattamente quanto e a chi, è un uomo che sa giocare a scacchi nella vita, conosce le aperture e le chiusure di tutte le partite senza per questo avere del pelo sullo stomaco ma una buona punta di cinismo si, la sua cordialità è contagiante e contagiosa e ogni suo gesto è complessivamente elegante mai fuori misura, mai volgare anche se Pierfi è certamente un uomo di mondo e anzi di buon mondo. Tralascio qui volutamente tutti i pettegolezzi, le storie che riguardano la sua vita personale che all’epoca impegnarono molto giornaletti e giornaloni come sempre accade, ma devo dire che il vecchio Pierfi mi è sempre apparso come un uomo non esente da innocenza, ma non per questo un’ipocrita. Per tutta la mia esperienza l’ho visto stare ragionevolmente dalla parte di ciò che è ragionevole anche quando ciò che è ragionevole non è per forza il giusto. Come il celebre personaggio di Totò (“E poi dice che uno si butta a sinistra”), venne il momento in cui “si buttò a sinistra” e fu quando nel 2016 l’Unione per il Centro di cui faceva parte, mollò Renzi che “si buttava troppo a sinistra”. Oggi Bossi dice a mezza voce che secondo lui per questo Casini è papabile e anzi manda un messaggio a Draghi di cui non si è capito bene il senso.
Nella cabina delle grandi manovre e sala scommesse, girano vari organigrammi, fra cui quello secondo cui Draghi deve restare dov’è e Amato deve traslocare in collina, oppure in collina si trasferisce Pier Ferdinando e allora Draghi dovrebbe stare a Chigi, altrimenti i tedeschi fanno volare lo spread e ricomincia la caccia grossa sulla politica italiana. Vai a sapere quanto c’è di vero, però intanto lo spread è salito. Lui, Pierfi, è sempre aderente alla persona e al personaggio: fu recuperato per un pelo all’elezione alla camera dove stava per non farcela due legislature fa, ma poi ce l’ha fatta e ha trovato il suo ecosistema, lo ha trasformato in giardinetto, ha aperto del report lasciando transitare aria e persone che la respirano rendendosi disponibile appunto “en reserve”, come le bottiglie di pregio che una volta o l’altra saranno l’occasione per celebrare una grande occasione. Sono tempi in cui tutto può essere.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 6 febbraio 2022.
«Il fronte politico-istituzionale è un conto, quello strettamente partitico un altro. Io sono stato impegnato in politica per talmente tanti anni che una cosa l'ho capita bene. Non ha senso rifare le cose che si sono fatte in passato. Il centrodestra ha i suoi protagonisti, l'area centrale anche. Se mi mettessi a rifare le cose che ho fatto per trent' anni, sarei un protagonista consunto...».
Al dodicesimo chilometro della sua corsa a Villa Borghese, Pier Ferdinando Casini si ferma a prendere fiato. La settimana di elezioni del Quirinale l'ha consolidato nel rango di «eterno ragazzo» della politica, un po' come il Festival di Sanremo sta facendo per il suo concittadino Gianni Morandi. La gente lo ferma per strada, i suoi social network sono pieni di messaggi di incitamento, la giacchetta è idealmente sbrindellata da chi la tira da una parte e dell'altra, Silvio Berlusconi lo incontra, i centristi lo invocano, il centrosinistra lo cerca, si spendono sulla sua figura un ventaglio di adesivi, «padre nobile», «leader», qualcuno addirittura «leader spirituale», «figura di collegamento».
È lei il grande suggeritore del Centro?
«Vede, ho imparato a mie spese che quello del suggeritore è un destino gramo. Se suggerisci quello che una persona si aspetta di sentirsi dire, il consiglio viene seguito. Altrimenti no. Lo sa come ho fatto le volte che una mia figlia mi ha portato un ragazzo a casa?».
Come?
«Vedevo questi ragazzi due o tre volte e continuavo a tacere, zitto. E allora lei a chiedermi: "Papà, vuoi dirmi che ne pensi?". E io niente. Anzi, dicevo: "Se vuoi sapere il mio parere, me lo devi chiedere cinque volte". Ma sono ed ero consapevole che il modo migliore per suggerire a una figlia di non frequentare un ragazzo che eventualmente non ti piace è di non farglielo sapere».
Spostando la lezione sul piano del centro, se Renzi
«Altolà. Ma lei ha presente Renzi? È un leader a cui voglio bene, con qualità politiche indiscutibili, che tra l'altro ha confermato in questa storia del Quirinale. Ma lei ce lo vede qualcuno nei panni del suggeritore di Renzi? È ovvio che poi fa quello che gli pare. E lo capisco anche: anch' io, quando ero leader dell'Udc, ascoltavo tutti ma poi facevo di testa mia».
Si sente «padre nobile» del Parlamento?
«Se le dicessi di sì, sarei altezzoso; se le rispondessi di no, mi prenderebbero per ipocrita. Nel corso di una lunga carriera, in cui ho fatto cose positive e anche errori, ho capito che alla fine quello che ti resta è la reputazione. Anzi, che la reputazione viene prima degli incarichi. Mi ha scritto mio figlio in un messaggio che conservo: "Papà, ci hai insegnato a rispettare sempre tutti, anche i più umili. Oggi hai vinto senza vincere"».
Anche Berlusconi l'ha chiamata. Com' è stato ritrovarsi dopo tanto tempo?
«Con Berlusconi ho fatto un bel pezzo di strada e ho anche litigato. Ma il nostro rapporto umano non si è mai interrotto. Abbiamo fatto una lunga passeggiata, mi ha detto "sei ancora giovanissimo", anche se ovviamente non è vero. Vede, per Berlusconi una volta contava vincere e farlo a ogni costo. Adesso, col passare del tempo, ha capito che il suo compito storico è quello di unire, di ridurre le divisioni. Il ritiro della sua candidatura per il Colle credo sia derivato soprattutto da questa consapevolezza».
Berlusconi era pronto a sostenerla per il Quirinale, Salvini e Meloni no.
«Meloni l'ha detto con chiarezza e da subito. Salvini non da subito ma poi è arrivato alla stessa conclusione: ha preferito Mattarella, a dimostrazione che nella vita non tutti i guai vengono per nuocere».
Lei ha attraversato tre repubbliche.
«Per me la repubblica è una sola. E comunque almeno un altro lo ha fatto senz' altro meglio di me, molto meglio. Si chiama Sergio Mattarella ed entrò con me in Parlamento nel 1983. La sua rielezione è una benedizione per il Paese. La democrazia è malata quando la politica pensa che i tecnici siano inutili ma anche quando i tecnici scalzano completamente i politici. Facendo un parallelo con l'emergenza della pandemia: Mattarella è a capo dell'ospedale e Draghi è il primario. Ma nel mezzo di una piena pandemia non mandi il primario a fare il presidente dell'ospedale. Non funziona».
Ha anche la stima dei Cinque Stelle, adesso?
«I Cinque Stelle sono maturati. Entrando nelle istituzioni, hanno capito che non erano come loro immaginavano che fossero. Una delle loro figure più importanti, di cui non faccio il nome, mi ha scritto in una lettera: "Sei la prova della distanza tra quello che pensavamo della politica e quello che la politica è davvero"».
Il Pd è il partito che l'ha riportata in Parlamento.
«Alcuni mi hanno sostenuto con grande calore, altri meno. Sento che qualcuno rimprovera a Franceschini di avermi sostenuto per il Quirinale con troppo affetto. Vede, da ragazzi io e Franceschini ci incontravamo nella nebbia del casello autostradale di Ferrara. Dario mi sosteneva nonostante il ras locale della Dc, Nino Cristofori, fosse contrario. Questo vale a riprova di quello che le ho detto finora. La politica è importante. Ma prima della politica, viene sempre la vita».
Il Quirinale e la politica estera. Terrorismo, deforestazione, epidemie: un solo luogo, molte sfide. Andrea Muratore, Federico Giuliani, Mauro Indelicato su inside Over il 24 gennaio 2022.
Quando si parla della politica estera italiana, vengono in primo luogo in mente due palazzi romani nevralgici in tal senso: Palazzo Chigi e la Farnesina. Nel primo ha sede la presidenza del consiglio, nel secondo invece il ministero degli Esteri. É lungo questo asse che si prendono le scelte più importanti. Del resto la costituzione assegna unicamente in capo al governo le competenze sulle linee politiche da intraprendere. La presidenza del consiglio, secondo l’articolo 95 del testo costituzionale, mantiene “l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Il ministro degli Esteri è poi titolare di tutte le attività concernenti i rapporti internazionali e la cooperazione. In tutto questo, il Quirinale che ruolo ha? Il Colle ha solo in apparenza una funzione di mera “rappresentanza”, come indicato dall’articolo 87. Anzi, proprio la sua funzione rappresentativa spesso ha reso l’istituto della presidenza della Repubblica attivo nella fase decisionale. In politica estera non sono mancati nella storia recente presidenti “interventisti”.
Il caso della partecipazione dell’Italia ai raid in Libia
Quando si parla di interventismo del Quirinale, il primo pensiero spesso va a quanto accaduto la sera del 17 marzo 2011. Quel giorno l’Italia festeggiava i 150 anni di unità nazionale e al teatro dell’Opera di Roma andava in scena il Nabucco diretto da Riccardo Muti. Erano quindi presenti tutte le più alte cariche dello Stato, a partire ovviamente dal presidente che in quel momento era Giorgio Napolitano. Anche su quel clima di festa però incombeva la drammaticità degli eventi in corso in Libia. Qui da circa un mese erano nate manifestazioni contro il rais Muammar Gheddafi e Francia e Gran Bretagna premevano per l’intervento. Anche se non si trattava di un’operazione a guida Usa, da Washington il presidente Obama aveva già dato il benestare per le azioni militari. L’Italia con la Libia era legata da un trattato di amicizia stipulato appena due anni prima. Tra il presidente del consiglio in carica, Silvio Berlusconi, e Muammar Gheddafi c’era anche un buon rapporto personale. Dalla presidenza del consiglio arrivava quindi un input per un non intervento. In quella sera del 17 marzo in una sala del teatro dell’Opera Napolitano si è riunito con Berlusconi, Ignazio La Russa, allora ministro della Difesa, e Bruno Archi, consigliere diplomatico di Palazzo Chigi. A premere per far partecipare l’Italia agli imminenti raid in Libia è stato proprio Napolitano. E alla fine la linea passata è stata quella del Quirinale.
A ricostruire gli eventi di quella serata è stato nel maggio 2011 il settimanale Panorama. Giorgio Napolitano ha dato quel preciso input in qualità di comandante in capo delle Forze Armate e presidente del supremo consiglio della Difesa. Funzioni attribuite dalla costituzione al presidente della Repubblica, senza però dare a quest’ultimo ruoli esecutivi. Questi spettano sempre alla presidenza del consiglio. In un’intervista rilasciata dallo stesso Napolitano a Repubblica l’ex presidente ha ricordato proprio questo aspetto, dichiarando come la decisione finale di bombardare Tripoli è stata presa unicamente da Berlusconi. Sotto il profilo politico però, la linea avanzata dal Colle si è rivelata decisiva. Tanto che, come ricostruito sempre da Panorama, Barack Obama nel chiedere una partecipazione italiana ai raid ha chiamato il Quirinale e non Palazzo Chigi. Soltanto dopo quando dalla Casa Bianca si è alzata la cornetta in direzione della sede della presidenza del consiglio, allora dall’esecutivo è arrivato il definitivo via libera. Ad oggi è forse questo l’esempio più calzante su come il Quirinale può incidere sulla linea estera dell’Italia.
Le linee di indirizzo di Mattarella al momento della nascita del Conte I
In anni ancora più recenti, un altro intervento di chiaro indirizzo politico in politica estera è arrivato anche da Sergio Mattarella. Nel 2018, a seguito di un risultato elettorale da cui non è uscita una chiara maggioranza, M5S e Lega hanno avviato le trattative per formare un esecutivo. A fine maggio i giochi sembravano fatti. In particolare, l’inedita coalizione ha indicato Giuseppe Conte quale nuovo presidente del consiglio e quest’ultimo ha ricevuto da Mattarella l’incarico. La nuova maggioranza all’estero ha suscitato sia clamore che perplessità. In Europa soprattutto i timori erano indirizzati sulle linee antieuropeiste professate in precedenza dai due partiti. Come stabilito dall’articolo 92, i ministri, su proposta del presidente del consiglio, sono nominati dal Presidente della Repubblica. Mattarella non ha accettato la nomina come ministro dell’economia di Paolo Savona, professore che negli anni precedenti si era mostrato scettico sull’esperienza dell’Euro. La scelta di Mattarella, che ha provocato la fine del primo tentativo di Conte di formare un governo (mentre andrà a buon fine, pochi giorni dopo, il secondo tentativo sempre con Lega e M5S), ha dato un chiaro orientamento sulla linea dell’Italia in politica estera. E, in particolare, sulla necessità di rimanere nell’orbita europea senza manifestare scetticismi in tal senso: “L’incertezza sulla nostra posizione nell’Euro – ha spiegato Mattarella alle telecamere motivando la sua scelta – ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali”. L’europeismo di Mattarella non ha però frenato il Quirinale dal tuonare contro Christine Lagarde e la Bce quando, nei primi tempi dell’emergenza Covid, l’Eurotower rischiava di consegnare il debito italiano agli assalti speculativi.
Un altro punto della politica estera di Mattarella ha poi riguardato l’atlantismo. Il capo dello Stato uscente ha dimostrato, dapprima velatamente (ad esempio muovendosi per spingere il Conte I a riconoscere Juan Guaidò come legittimo presidente del Venezuela) e poi con scelte organiche (dallo scrutinio dei ministri nei governi successivi al Conte-bis alla chiamata di Mario Draghi) di considerare l’atlantismo altrettanto importante dell’europeismo come cardine irrinunciabile dello schieramento del Paese nel mondo. La linea euroatlantica è stata custodita con forza dal Quirinale e ha avuto in Mattarella un continuatore di Giorgio Napolitano e Carlo Azeglio Ciampi.
Perché all’estero guardano al Quirinale
La funzione rappresentativa dunque non ha mai coinciso con una “ingessatura” del presidente della Repubblica in semplici ruoli istituzionali. In politica estera il Colle ha più volte detto la sua, incidendo e non poco sulle decisioni di Palazzo Chigi e Farnesina. Ecco perché anche all’estero si sta guardando con attenzione in queste ore alle vicende relative all’elezione del nuovo capo di Stato. Sapere chi andrà al Quirinale è più che mai importante per le cancellerie internazionali. Anche perché l’istituto della presidenza della Repubblica ha un vantaggio rispetto al governo: è di gran lunga l’istituzione più stabile. Mentre nelle sedi della presidenza del consiglio o del ministero degli Esteri i titolari cambiano nel giro di pochi anni a causa di una durata media dei governi italiani molto bassa, al Colle ci si resta comunque vada almeno sette anni. Agganciare il Quirinale vuol dire poter pianificare rapporti nel medio e lungo termine con Roma.
Il caso dei rapporti con la Cina
Ne sanno qualcosa a Pechino. I rapporti italo-cinesi hanno avuto il Quirinale come prima sponda. Agli sgoccioli dell’esperienza maoista, e pochi anni prima delle riforme di Deng Xiaoping, il 6 novembre 1970 hanno formalmente inizio le relazioni bilaterali tra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese. Per capire come è sbocciato il seme diplomatico sino-italiano bisogna tuttavia fare qualche passo indietro.
Ottobre 1955: Pietro Nenni, all’epoca Segretario Generale del Partito Socialista italiano, è stato ricevuto da Mao Zedong nella capitale cinese. Nenni ha così posizionato la prima pietra visibile di un rapporto presto destinato a decollare. Anche perché, nel 1971, il due volte ministro italiano degli Affari Esteri ha visitato la Cina per la seconda volta, ricevendo dall’allora primo ministro Zhou Enlai niente meno che “l’eterna gratitudine del popolo cinese” per l’impegno messo in campo ai fini del riconoscimento italiano della Repubblica Popolare.
Che cosa era accaduto in mezzo ai due viaggi? La Cina non faceva parte dell’Onu complice l’opposizione degli Stati Uniti; l’Italia riconosceva, di fatto, soltanto la Repubblica di Cina, ovvero Taiwan. Già allora, tuttavia, Pechino considerava quell’isola, autoproclamatasi indipendente, una provincia ribelle sotto la propria bandiera. Allo stesso tempo, Taiwan rivendicava la propria sovranità sul territorio della Repubblica Popolare, spingendo quest’ultima a considerarlo Paese ostile. In uno scenario del genere era impossibile avere, allo stesso tempo, relazioni formali con la Cina e con Taiwan. Nel 1969, una volta diventato ministro del governo Rumor, Nenni ha presentato la proposta per riconoscere la Repubblica Popolare Cinese. Per l’Italia, era arrivato il momento di aprire definitivamente le porte al gigante asiatico. Fu così che i due Paesi nominarono i rispettivi ambasciatori e che Taiwan cessò i rapporti bilaterali con l’Italia. Il 25 ottobre 1971, con Giuseppe Saragat presidente della Repubblica Italiana, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto i rappresentanti della Cina come “l’unico rappresentante legittimo della Cina alle Nazioni Unite”.
Nenni è stato il principale demiurgo delle relazioni italo-cinesi e ha trovato in Saragat un fautore della distensione. Le memorie dell’epoca ricordano che la Repubblica Popolare ha inviato a Roma tale Xu Ming, funzionario del ministero degli Esteri già vicedirettore del reparto Europa orientale; anche la Farnesina sperava di spedire oltre la Muraglia un profilo diplomatico, ma ciò non accadde per scongiurare una possibile reazione avversa di Washington, gli americani, infatti, avrebbero potuto pensare che l’ufficio commerciale italiano fosse una sorta di ambasciata. Il terreno era tuttavia preparato. Di lì a poco, Italia e Cina sarebbero diventate ancora più vicine, fino ad arrivare al marzo 2019, con la firma tra i due Paesi del MoU (Memorandum of Understanding) sulla Nuova Via della Seta e l’incontro tra il presidente italiano Sergio Mattarella e quello cinese Xi Jinping.
Il Quirinale essenziale per la politica estera
In politica estera il Quirinale, dunque, prevale sulle altre strutture dello Stato perché, nel mandato settennale, custodisce la lunga durata in un paese dove la politica resta fragile nella capacità di domare il tempo. E in quest’ottica si rivela garante dell’unità nazionale anche nel senso delle questioni geopolitiche e strategiche: il Presidente della Repubblica ha il potere non codificato di definire la cornice, il terreno di gioco entro cui lo Stato può muoversi e la diplomazia agire. La sua moral suasion vale anche all’estero, come moltiplicatore di potenza per il sistema-Paese nell’ottica di quelle relazioni internazionali che non vanno confuse con la semplice politica estera ma rappresentano la capacità di incidere di una figura o personalità in virtù dello standing individuale o dell’istituzione ricoperta. Logico dunque pensare che un Quirinale sempre più “geopolitico” troverà il suo inquilino ideale, negli anni a venire, in figure dal pedigree ben strutturato nel campo delle relazioni in questione.
Qual è il crocevia del mondo di domani?
Quanto guadagna il presidente della Repubblica: stipendi e costi del Quirinale. Redazione su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.
In questi giorni verrà eletto il 13esimo presidente della Repubblica italiana. Il mandato del Capo dello Stato uscente, Sergio Mattarella, scade il prossimo 3 febbraio ed entro quella data i Grandi Elettori (1009), riuniti in questi giorni a Montecitorio, dovranno eleggere il nuovo presidente. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.
Ma qual è lo stipendio previsto per il Capo dello Stato e quali sono i costi di gestione del Quirinale? Il Presidente della Repubblica italiana guadagna 239mila euro lordi l’anno. Uno stipendio da circa 18.300 euro (sempre lordi) al mese, calcolato su tredici mensilità. Dopo l’elezione avvenuta al quarto scrutinio il 31 gennaio 2015, Sergio Mattarella ha disposto per se stesso e per tutte le persone che svolgono funzioni all’interno della presidenza “l’introduzione del divieto di cumulo delle retribuzioni con trattamenti pensionistici erogati da pubbliche amministrazioni”.
Per le spese di gestione del Quirinale ogni anno vengono spesi complessivamente 224 milioni di euro, circa 613,698 euro al giorno, così come emerge dal Bilancio di Previsione 2020 consultabile sul sito Quirinale.it. Oltre la metà della cifra stanziata ogni anno è destinata al pagamento degli stipendi e delle pensioni del personale che lavora o ha lavorato al Colle.
Poi c’è ci sono circa 570mila euro stanziati per il parco auto e altri 200mila per il carburante, oltre alle spese di luce, acqua, gas e bollette telefoniche. Per la cancelleria ogni anno vengono spesi 215mila euro mentre altri 170mila per la posta. Altra voce di spesa sono i costi per intrattenere e accogliere gli altri Capi dello Stato e questo costa 400mila euro di pranzi e banchetti e 145mila per i regali.
Garage Quirinale, tutte le auto del Presidente. Marco Tullio Giordana su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
La Lancia Flaminia 335 cosiddetta “Presidenziale” costruita in 4 esemplari fra il 1960 e il 1961 è la più bella e ricca di fascino. Ecco storia e aneddoti. La tormentata elezione del Presidente della Repubblica, dopo che gli spericolati dilettanti allo sbaraglio avevano rischiosamente tentato di sabotarla, ha strappato Sergio Mattarella (adorato dal popolo italiano, meno dalla nomenklatura) alla vita privata cui anelava richiamandolo in servizio. L’increscioso spettacolo offerto da quasi tutti i leader (con lodevoli eccezioni) deve aver convinto il Presidente al bis, sperando tutti noi comuni mortali che non sia concesso malvolentieri come può succedere a grandi attori o musicisti esausti. Il Presidente Mattarella si rivelerà invece inesausto e buon per noi che torni al Quirinale la sua saggezza e ferma moderazione.
Fra le tante cose, il Presidente dovrà scegliere l’auto con cui sfilare fra cittadini cittadini festanti e politicanti delusi, e per sua e nostra fortuna il garage del Quirinale offre una fra le più magnificenti delle auto di rappresentanza mai costruite, ancora in perfetta forma malgrado i sessant’anni e più sul groppone: la Lancia Flaminia 335 cosiddetta “Presidenziale” costruita in 4 esemplari fra il 1960 e il 1961. Si tratta di modelli con piccole differenze tra loro, derivati dalla Flaminia di serie prodotta dalla Lancia fra il 1956 e il 1970, modello già di per sé opulento e “istituzionale” ma che nel caso della 335 fu ulteriormente ingigantito e munito di dotazioni uniche da Giovanni Battista “Pinin Farina, che proprio in quegli anni incorpora per decreto presidenziale il soprannome infantile diventando Pininfarina tutto attaccata. D’altronde fu proprio il Presidente Gronchi a commissionare le 4 gemelle pensando alle imponenti Lincoln americane, alle Rolls-Royce britanniche, alle Mercedes-Benz tedesche, alle Citroën francesi, e bisogna dire che la nostra Flaminia 335 non sfigura affatto accanto alle rivali, rappresentando anzi l’epitome della smagliante salute industriale dell’Italia del boom. La prima a esservi trasportata nel 1961 è Elisabetta II d’Inghilterra e la sovrana mostra di apprezzarla al punto da far nascere la leggenda di una quinta Flaminia regalata alla Corona. Le Flaminia non sono che quattro e tutte ancora in efficienza. Portano nomi di purosangue, come usava in casa Savoia: due sono in forza al Quirinale, la Belvedere (targa Roma 454307) e la Belfiore (Roma 454308). La Belsito (Roma 474229) è in esposizione al Museo dell’Automobile di Torino e la Belmonte (Roma 454306) al Museo della Motorizzazione militare della Cecchignola in Roma.
Dopo Giovanni Gronchi (1955-1962) la Flaminia venne regolarmente usata da Antonio Segni (1962-1964), Giuseppe Saragat (1964-1971) e Giovanni Leone (1971-1978), rimanendo invece spenta nel settennato di Sandro Pertini (1978-1985) e Francesco Cossiga (1985-1992) a favore delle meno esposte (e invece molto blindate) Alfetta, Lancia Thema, Fiat Croma e soprattutto Maserati Quattroporte. Due esemplari della terza serie furono donati a Pertini - che l’adorava! -da Alejandro De Tomaso, allora alla testa del gruppo che deteneva la marca modenese. Nel 2004 la Maserati, stavolta capitanata da Luca di Montezemolo presidente del Gruppo Fiat, fece invece dono di una smagliante quinta serie al Presidente Ciampi.
Ridimensionato l’incubo del terrorismo e di possibili attentati, la Flaminia tornò in auge per merito di Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999) e da quel momento in poi anche i successivi presidenti - Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006), Giorgio Napolitano (2006-2015) e Sergio Mattarella (2015-2022) - hanno sempre voluto utilizzarla sia per la cerimonia d’insediamento che per la parata del 2 giugno.
Piccolo ricordo personale. Nell’estate del 2011 stavo girando sulla piazza del Quirinale una breve sequenza del film Romanzo di una strage. Il Ministro degli Esteri Aldo Moro si recava in forma privata al Quirinale a bordo della sua Flavia berlina per gli auguri natalizi al Presidente Saragat. L’azione si svolge nel dicembre del 1969. Moro era interpretato da Fabrizio Gifuni e la somiglianza, dopo ore di trucco, era davvero impressionante. L’azione si svolgeva all’esterno ma Fabrizio fu riconosciuto dal personale del Quirinale, dove suo padre, Gaetano Gifuni, era stato Segretario Generale sia con Scalfaro che con Ciampi. Ci dissero che il Presidente era in sede e che ci avrebbe ricevuto. Non perdemmo l’occasione e ci recammo a salutare il Presidente che, alla vista di Gifuni nei panni di Moro, rimase piuttosto impressionato.
C’era in quei giorni la crisi del governo Berlusconi e il Presidente si trovava nel pieno delle consultazioni. Con sfacciataggine di cui fui il primo a sorprendermi, indicai Gifuni e proposi di affidare l’incarico a… Moro. Per un istante ebbi la sensazione che il Presidente, prima di sorridere, si lasciasse sopraffare dalla nostalgia.
Il Quirinale cessò nel 1970 di essere residenza del Papa per entrare invece nella piena disponibilità di Casa Savoia. Le sue scuderie trasformate in moderni garage non poterono ospitare le fastose Mercedes Nurburg 460 che fu l’auto di Pio XI insieme alla Citroën Lictoria Six e alla Graham Page utilizzata anche da Pio XI. I Savoia li riempirono invece con le FIAT 2800 e le Lancia Astura che rappresentavano allora il non plus ultra della produzione italiana, visibili in tanti cinegiornali LUCE circondate da folle in visibilio per le apparizioni del Duce e di Sua Maestà il Re e Imperatore. Queste possenti limousine, insieme ad auto meno imponenti, come le Lancia Aurelia, le Fiat 1400 e 1900, le Alfa Romeo 1900, accompagnarono i primi nostri primi Presidenti Enrico De Nicola (1947-1948) e Luigi Einaudi (1948-1955) fino ad arrivare a Gronchi e alla Flaminia 335 che ancora oggi svolge senza acciacchi il suo prestigioso servizio.
Quirinale, il mondo bestiale del nostro Parlamento: grillini struzzi, pitonesse e asini. Vi raccontiamo la giungla. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 25 gennaio 2022.
"L'uomo è un animale politico" scriveva Aristotele in tempi lontani e non sospetti, ma nella storia contemporanea l'interazione simbolica o metaforica tra mondo animale e mondo politico non ha mai raggiunto livelli così esagerati come negli ultimi anni, in cui il Parlamento italiano viene evocato sempre più spesso perla presenza in Aula di un contesto faunistico da far invidia al più variegato patrimonio bestiale di un qualunque parco zoologico al mondo.
LA LISTA È LUNGA - L'ultimo animaletto ad essere avvistato alla Camera dei Deputati è stato lo scoiattolo, il simpatico roditore che da solo, saltellando di scranno in scranno, è stato in grado di creare forti tensioni all'interno dei partiti, ignaro però che stormi di uccelli già da giorni volteggiavano su di lui per cercare di portare cattiva sorte alla sua segreta operazione, come i gufi, i falchi e i piccioni che gli hanno tramato contro, senza dimenticare le colombe che insidiavano con finto candore il premier in carica, oltre a gazze ladre, oche o minacciosi avvoltoi pronti a scacciare corvi, tacchini sui tetti, anatre azzoppate, struzzi che nascondevano la testa sottoterra, in un vorticoso, sinistro e surreale sbattere di ali, minaccioso come nel peggiore incubo di Hitchcock. Questo affollamento bestiale si rianima e rumoreggia ogni qual volta lo scontro politico diventa più acceso, in particolare con l'avvicinarsi delle scadenze elettorali, come quella iniziata ieri del Presidente della Repubblica, la più importante e solenne della legislatura, ma l'elenco degli animali che hanno trovato dimora nei palazzi romani della politica è infinito, dal mercato delle vacche al posto d'onore riservato ai suini, come il famoso Porcellum usato per definire appunto le presunte 'porcate' votate e legittimate, anche se, quando lo scontro politico diventa più acceso, oltre ai maiali vengono fatte entrare nell'emiciclo le belve feroci da non sottovalutare affatto, perché incutono timore e vengono liberate per sbarrare la strada al cammino delle riforme, come i giaguari da smacchiare, i caimani da distruggere, i camaleonti da rendere trasparenti, gli sciacalli affamati e gli oranghi infuriati che distruggono tutto il raccolto appena seminato. In genere in tali contesti degni di una giungla inesplorata intervengono i capi dell'esecutivo che, pur sprovvisti di bacchetta magica, cominciano ad estrarre dal cilindro bianchi conigli o ad introdurre canguri salta emendamenti, dando la caccia a volpi da spedire in pellicceria, con l'aiuto di grilli parlanti di collodiana memoria, oltre che di vecchie lumache lente e sbavanti che tracciano il solco di una legge sulla loro scia appiccicosa, brillante e spesso salutare. In controtendenza con la loro fama, tutti questi protagonisti del regno animale terrestre si sono ritrovati a lungo sulle prime pagine dei quotidiani italiani senza nemmeno saper leggere, buttati a casaccio, nel marasma politico che emerge nei momenti di crisi, da parlamentari paragonati a cavalli di razza, a pitonesse, ad aquile strabiche o leoni da tastiera, al punto che per non vedersi affibbiate sempre le solite sembianze animalesche, da qualche tempo si è andato a pescare finanche nel profondo degli oceani, rievocandola gloriosa stagione ittica dei tempi passati, quando fu eliminata la balena bianca dalle acque del parlamento, l’esemplare più longevo ed ingombrante, arpionata dai tanti piccoli capitani Achab, gli stessi che in seguito hanno istituzionalizzato una pesca a rete più popolare ed economica, meno faticosa e alla portata di tutti, issando a bordo del transatlantico una fauna ittica meno nobile di Moby Dick, come le trote, le spigole, le triglie, i tonni, i piranha e da ultimo le famose e numerosissime sardine, il cui branco di piccoli esemplari ha regalato in realtà poche soddisfazioni, ovvero poca polpa e tante spine.
FANTASIA ITALIANA - Gli italiani saranno anche un popolo di inventori, di sognatori e di navigatori, ma non mancano certo di fantasia, al confronto per esempio degli Stati Uniti il cui paragone bestiale è limitato all’asino democratico e all’elefante repubblicano, ma in realtà quando mancano gli strumenti espressivi per dichiarare i propri dubbi e la cultura per imporre le proprie convinzioni politiche, il ricorrere al paragone bestiale come fosse una caricatura degli uomini, o una metafora che tenta di piegare la storia ai propri scopi bestiali, è in realtà una contraddizione in termini che paragona il mondo animale a quello umano, per intelligenza e furbizia, come fosse la stessa cosa, dimenticando chela storia, anche se ha qualcosa che sfugge alla comprensione umana, con il passare del tempo ribadisce che a forza di essere falsata per motivi ideologici o a vedersi giustificata al pari degli istinti animali, ridotti a grottesca caricatura degli umani, perde ogni consistenza ed ogni rilevanza, e per un periodo cessa di esistere. Salvo poi ribellarsi alla forza della propaganda faunistica, alla falsa etica e alla labilità della memoria, riuscendo comunque alla fine a costruire ed imporre un’autentica e duratura democrazia, quella che resterà negli annali senza ruggire, barrire, ragliare o squittire, e quella che tutti ci auguriamo in queste settimane, come se lo augurano anche tutti gli amici bestiali tirati inconsapevolmente dentro il ballo sgraziato della politica italiana.
Il circolino degli ex presidenti. Claudio Brachino il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.
A un passo dal Colle, ma spesso immolati per il Colle, vicini all'Olimpo laico ma forse troppo vicini e dunque in un attimo sospinti verso il basso, nel precipizio dei franchi tiratori e delle mille fluide trattative.
A un passo dal Colle, ma spesso immolati per il Colle, vicini all'Olimpo laico ma forse troppo vicini e dunque in un attimo sospinti verso il basso, nel precipizio dei franchi tiratori e delle mille fluide trattative. Stiamo parlando della seconda e terza carica dello Stato, i presidenti del Senato e della Camera. Per la statistica sono stati premiati di più nel Quirinal game quelli della Camera. Dal 1948 ad oggi cinque di loro sono diventati presidenti, Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano. Per quanto riguarda il Senato solo due, De Nicola e Cossiga. Però i loro nomi entrano sempre nella battaglia più complessa e più ambita della nostra democrazia. Per ragioni istituzionali e per ragioni politiche. Nel primo caso è una questione di pura forma, di anello nella struttura della Repubblica. Il 3 febbraio, quando scade il mandato di Mattarella, ad esempio, se non sarà stato trovato un successore, potrebbe diventare capo dello Stato temporaneamente Elisabetta Casellati, attuale presidente del Senato, voluta nel 2018 da Forza Italia ed eletta anche dai grillini. Poi ci sono i motivi politici, figure proposte dalle parti ma spesso votate trasversalmente, per accordi, per balance maggioranza-opposizione, per questioni di potere all'interno dei partiti e delle coalizioni. La Casellati, tolto l'aspetto tecnico, proposta di fatto dal centrodestra al di là dei tre petali di rosa subito sfioriti (c'era anche l'ex presidente del Senato Pera), è già stata impallinata dal centrosinistra perché troppo di parte. Almeno finora, nella fluidità delle ore. Nel caso di Casini, ancora in corsa, fa più notizia l'aver calato la gioventù democristiana nella piattaforma della contemporaneità, Instagram, ma l'essere stato presidente della Camera è ancora un punto a favore. La bocciatura più dolorosa fu quella di Marini, presidente del Senato dal 2006 al 2008 e proposto nel 2013 da Bersani, Berlusconi d'accordo. Al primo scrutinio l'ex sindacalista venne affossato dai franchi tiratori, bipartisan. Nella percezione pubblica i nostri eroi sono un po' come capiclasse di aule spesso indisciplinate, garanti dell'equilibrio apparente ma capaci sottobanco di fare politica, di muovere la barra del potere su agende, procedure, regole del gioco. Qualche volta vogliono far dimenticare le proprie origini e seguono linee ideologiche personal. Riserve della Repubblica, certo, in senso nobile, ma qualche volta riserve nel senso calcistico, quando la politica difetta di idee e di campioni. Oppure li ha e non li usa. Claudio Brachino
Ingresso nell'emiciclo solo con tampone antigenico negativo di terza generazione. Come si elegge il presidente della Repubblica: massimo 200 ‘grandi elettori’ per lo spoglio e ‘catafalchi 2.0’. Riccardo Annibali su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.
Per la votazione del presidente della Repubblica nell’aula di Montecitorio saranno allestiti quattro catafalchi, gli stessi utilizzati solitamente per le votazioni segrete per schede, ma dotati di accorgimenti particolari anti Covid tra cui una luce ultravioletta. È stato deciso, a quanto apprende l’Ansa, nella conferenza dei capigruppo di Montecitorio i cui lavori sono in corso.
I ‘Catafalchi 2.0‘, attrezzati per l’emergenza Covid, potrebbero assomigliare di più a cabine che assicureranno la sicurezza sanitaria, a cominciare dalla ventilazione, e la segretezza. Non è chiaro ancora se ci saranno dispositivi speciali di disinfezione all’interno. In ogni caso, sarà necessario disinfettarsi le mani prima e dopo il voto. Per votare i deputati entreranno cinquanta per gruppo da uno dei due ingressi all’Emiciclo, usando l’altro per uscirne.
“Far votare i grandi elettori positivi per non inficiare o indebolire l’elezione del presidente della Repubblica”. È quanto ha chiesto Fratelli d’Italia, secondo quanto apprende LaPresse, nel corso della riunione della conferenza dei capigruppo dove si sono discusse le regole delle votazioni che partiranno il 24 gennaio alle 15. Contrari i capigruppo di centrosinistra, filtra dalla riunione, che hanno fatto muro. Secondo le stesse fonti il rischio è che, secondo l’aumento dei contagi da Covid, si arrivi a oltre 100 assenti per quarantena.
Per lo spoglio la capienza massima è di 200 persone da aggiungere le circa 100 postazioni nelle tribune. È questo l’orientamento del collegio dei questori di Camera e Senato che si sono riuniti in vista delle elezioni del Quirinale. L’accesso all’aula di Montecitorio avverrà dal lato sinistro e per fasce orarie per un massimo di cinquanta grandi elettori alla volta che dovrebbero avere complessivamente 11 minuti per esprimersi, poi usciranno ed entreranno gli altri cinquanta. Complessivamente, tra le fasi di voto e spoglio sono state previste 4 ore e mezza.
Per quanto concerne il giuramento del prossimo presidente della Repubblica ci sarà la possibilità per tutti i parlamentari di stare dentro all’Aula della Camera, mentre i delegati regionali troveranno spazio in tribuna. Questo perché – viene spiegato – è prevista una durata ridotta della cerimonia di giuramento, tra i quaranta ed i cinquanta minuti, e non sono in programma altri interventi se non quello del capo dello Stato. Si potrà entrare nell’emiciclo solo con un tampone antigenico negativo di terza generazione, fatto la mattina stessa del giuramento, a Montecitorio o a palazzo Madama. Riccardo Annibali
Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 25 gennaio 2022.
Alle 15 in punto un'ambulanza imbocca via della Missione, sotto Montecitorio. Nessuno si è sentito male, proprio all'inizio delle votazioni per eleggere il presidente della Repubblica. Dentro l'ambulanza c'è l'ex presidente della Sardegna, ora deputato di Forza Italia, Ugo Cappellacci.
Da sabato sera positivo al Covid, ma asintomatico, solo un po' di raffreddore. È pronto a inaugurare il seggio anti Covid allestito nel parcheggio di solito riservato ai deputati. Non appena all'interno il presidente delle Camera, Roberto Fico, apre ufficialmente la seduta, Cappellacci scende dal mezzo sanitario (noleggiato per l'occasione) ed entra a piedi nel parcheggio. Con lo smartphone gira un video, per documentare una scena inimmaginabile fino a due anni fa. È lui il primo grande elettore della storia repubblicana a esprimere la propria preferenza per il capo dello Stato fuori dalle aule parlamentari.
Ad accoglierlo c'è un funzionario della Camera vestito come un infermiere di un reparto Covid di un qualsiasi ospedale italiano: tuta di contenimento, guanti, occhiali, coperto dalla testa ai piedi.
Primo gazebo, identificazione, sanificazione delle mani e consegna di guanti protettivi, insieme a una matita e alla scheda da compilare.
Secondo gazebo, due cabine a disposizione, dove votare in segretezza.
Terzo gazebo, urna sigillata dove inserire la scheda.
Dopo circa cinque minuti Cappellacci esce e risale sulla "sua" ambulanza, proprio mentre un mini suv grigio arriva alla sbarra di via della Missione. Il parlamentare alla guida svolta a destra ed entra direttamente nel parcheggio: non scende, abbassa solo il finestrino, mostra il documento di riconoscimento e ritira la scheda.
Poi prosegue fino a un'area di sosta, l'abitacolo è il suo "catafalco" personale. Riparte verso l'uscita e si ferma a metà, per inserire la scheda nell'urna. Il seggio drive-in è realtà. Nelle successive due ore, almeno altre otto macchine compiono lo stesso giro, simile a quello che milioni di italiani hanno fatto, negli ultimi due anni, per sottoporsi a un tampone. Ma non tutti i 17 grandi elettori (positivi o in quarantena) che si sono prenotati, partecipano alla prima votazione. Alla fine in 6 non si presentano.
È il caso della deputata del Misto, ex 5 stelle, Doriana Sarli, che spiega con un post su Facebook di non essere «nelle condizioni di uscire ed esprimere la mia preferenza». Mentre un'altra ex del Movimento, la senatrice Bianca Laura Granato, racconta di non essere «riuscita a raggiungere il seggio per motivi logistici: doversi spostare con l'auto in zone a traffico limitato è un problema», forse non sapendo che basta comunicare alla Camera la targa della propria macchina per ottenere il permesso. Prova a "imbucarsi", invece, la deputata Sara Cunial, nota per le sue posizioni No Vax e No Pass, bloccata dalla polizia all'inizio di via della Missione.
Vuole votare nel seggio per i positivi al Covid, senza un certificato medico che giustifichi la sua richiesta. D'altra parte, da non vaccinata, le sarebbe bastato un tampone negativo nelle 48 precedenti per entrare e votare in aula. «Il Green Pass, che è un documento amministrativo, non può subordinare il diritto al voto - ha attaccato - Siamo pronti a querelare quelli che ci hanno bloccato l'accesso, a cominciare da Fico, e a invalidare tutta l'elezione del presidente della Repubblica» .
Ecco chi sono i 58 delegati-grandi elettori delle Regioni. Il Corriere del Giorno il 24 Gennaio 2022.
Tutti i rappresentanti-delegati delle Regioni presenti a Roma per eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Tra i rappresentanti scelti, la maggioranza è del centrodestra, poche le donne: solo sei.
I 58 delegati regionali che da oggi lunedì 24 gennaio hanno indossato l’abito “buono” per vestire i panni dei Grandi elettori, per eleggere il prossimo presidente della Repubblica, votato dal Parlamento in seduta comune con la partecipazione appunto dei delegati eletti dai Consigli regionali. In totale, i Grandi elettori sono 1.009: 321 senatori, 630 deputati (tra questi c’è anche la new entry Cecilia D’Elia del Pd scelta alle suppletive di Roma centro che ha preso il seggio della Camera lasciato libero dal sindaco Roberto Gualtieri) e 58 delegati regionali (tre per ogni Regione, generalmente due di maggioranza e uno di opposizione, a eccezione della Valle d’Aosta che ne avrà uno, garantendo anche la rappresentanza delle minoranze).
Tattiche, sgambetti negli stessi schieramenti soprattutto nel centrodestra alleanze in bilico. In Lombardia la Lega ha nominato due delegati mentre il Pd è stato estromesso a favore del M5S. Cosa che invece non è successa nel Lazio: qui il Pd ha retto nonostante le insistenze dei grillini che volevano uno dei loro al posto del secondo dem scelto (oltre a Zingaretti).
Questa la mappa completa dei 58 Grandi elettori designati dalle Regioni. Il centrosinistra arriva a 25 delegati rispetti ai 33 del centrosinistra. Quasi irrilevante la presenza femminile: solo su 58.
Valle d’Aosta
La Valle d’Aosta, cui secondo l’articolo 83 della Costituzione spetta un solo delegato, sarà rappresentata dal presidente della Giunta Erik Lavevaz (Union Valdotaine).
Trentino Alto Adige
Maurizio Fugatti (Lega), Josef Noggler (Svp) e Sara Ferrari (Pd) sono i tre delegati della Regione Trentino Alto Adige che partecipano all’elezione del presidente della Repubblica. Li ha eletti il consiglio regionale lunedì 17 gennaio. Fugatti, presidente della Provincia di Trento e della giunta regionale, ha ottenuto 33 voti su 61 espressi. Noggler, presidente del consiglio regionale del Trentino Alto Adige e vicepresidente del consiglio provinciale di Bolzano, ha ottenuto 29 preferenze. Mentre la dem Sara Ferrari, consigliera provinciale di Trento e consigliera regionale, ne ha prese 22.
Liguria
La squadra ligure dei Grandi elettori è composta dal governatore Giovanni Toti, centrista, il presidente del consiglio, il leghista Gianmarco Medusei, e il consigliere del Pd Sergio Rossetti.
Piemonte
Il Piemonte ha scelto i suoi delegati: tutti uomini e due del centrodestra. Si tratta del governatore Alberto Cirio di Forza Italia, del presidente leghista del Consiglio regionale Stefano Allasia e dell’ex capogruppo Pd nella passata legislatura Domenico Ravetti. I tre sono stati votati martedì scorso a scrutinio segreto dal Consiglio regionale, riunito da remoto, dopo l’annullamento della prima votazione nella quale era stata registrata una discrasia fra il numero dei votanti e il numero di voti pervenuti dalle Pec dei consiglieri per lo scrutinio. Cirio ha ottenuto 30 voti, Allasia 28 e Ravetti 16.
Lombardia
La scelta dei delegati lombardi non è stata così semplice. Il Pd è stato fatto fuori e scelto un esponente del M5S, una mossa che testimonia quanto l’alleanza tra Pd e 5S sia sempre in bilico. In quota opposizione, infatti, è stato scelto il grillino Dario Violi votato soprattutto dal centrodestra. Sconfitto il dem Fabio Pizzul. Il Partito democratico lombardo con una nota ha parlato di “accordo sottobanco” per aggiungere quel voto ai sostenitori di Silvio Berlusconi. Ma il diretto interessato, Violi, ha negato. Alla fine, per Roma partono il governatore leghista, Attilio Fontana, il presidente del consiglio regionale Alessandro Fermi (con un passato in Forza Italia e poi passato con Salvini) e il grillino Dario Violi.
Veneto
Due leghisti e un dem. In Veneto la scelta dei delegati-Grandi elettori è stata senza sorprese. A votare il successore di Mattarella, sono il governatore leghista Luca Zaia, il presidente del consiglio, altro leghista Roberto Giambetti e il capogruppo del Pd, Giacomo Possamai.
Friuli Venezia Giulia
Il presidente del consiglio regionale Piero Mauro Zanin di Forza Italia, il presidente leghista della Regione Massimiliano Fedriga e il dem Sergio Bolzonello dell’opposizione. Sono i tre grandi elettori del Friuli Venezia Giulia che a Roma, dal 24 gennaio, parteciperanno alle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica. Tutti i 49 consiglieri eletti (29 di maggioranza, se comprendiamo due dei tre esponenti del Gruppo Misto, e 20 di opposizione) hanno partecipato giovedì scorso al voto a scrutinio segreto, che consentiva di esprimere un massimo di due preferenze. È stato il presidente Zanin a ottenere il maggior numero di consensi (31, più del totale dei voti della maggioranza), seguito dal governatore Fedriga (27) e da Bolzonello (16).
Emilia Romagna
Anche la Regione Emilia-Romagna ha eletto i tre delegati regionali che partecipano a Roma alle votazioni per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. La maggioranza ha premiato le due massime cariche, il presidente della Regione Stefano Bonaccini del Pd e la presidente dell’Assemblea Emma Petitti (anche lei del Pd). Il centrodestra ha puntato invece sul capogruppo della Lega Matteo Rancan. Critiche di Fratelli d’Italia sul voto telematico avvenuto tramite app (metodo utilizzato per ridurre i rischi di contagio in aula).
Toscana
Alla fine sono stati scelti il governatore pd Eugenio Giani (che ha ottenuto 25 voti), il presidente dem del consiglio regionale Antonio Mazzeo (per lui 27 preferenze) e il consigliere della Lega Marco Landi (13 voti). Non è stata eletta, ma ho ottenuto due preferenze la 5 Stelle Irene Galletti.
Umbria
Dall’Umbria sono partiti per Roma la governatrice leghista Donatella Tesei, il presidente del consiglio regionale Marco Squarta di Fratelli d’Italia e Fabio Paparelli del Pd.
Marche
A rappresentare le Marche sono il governatore di Fratelli d’Italia, Francesco Acquaroli, il presidente del Consiglio regionale Dino Latini (Udc) e Maurizio Mangialardi (Pd). Su 29 votanti il presidente della Regione ha ottenuto 12 preferenze, il presidente del consiglio regionale 9 ed il capogruppo del Pd 8.
Abruzzo
Tra le pochissime donne scelte come delegato regionale c’è la grillina abruzzese Sara Marcozzi. Insieme a lei parteciperanno alle votazioni anche il governatore di Fdi, Marco Marsilio e il presidente del consiglio regionali, il forzista Lorenzo Sospiri. L’Abruzzo è stata la prima regione a scegliere i propri rappresentanti già dallo scorso 27 dicembre.
Molise
Il Consiglio regionale del Molise ha eletto il governatore Donato Toma di Forza Italia, il presidente dell’Assemblea Salvatore Micone (Udc) e il consigliere Andrea Greco (M5S).
Lazio
A differenza della Lombardia, nel Lazio tra Pd e M5S alla fine ha vinto il primo. Oltre al governatore dem Nicola Zingaretti, il futuro presidente della Repubblica sarà votato da Marco Vincenzi anche lui del Pd. Per il centrodestra all’opposizione è stato scelto Fabrizio Ghera di Fratelli d’Italia. Il Pd ha retto, nonostante le insistenze dei grillini che volevano uno dei loro al posto di Vincenzi.
Campania
Sgambetti tra forzisti in Campania. Sicuro in quota opposizione era stato dato l’azzurro Stefano Caldoro – sfidante di Vincenzo De Luca alle regionali – ma a sorpresa tra i Grandi elettori è stata eletta Annarita Patriarca, capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale che ha fatto sapere che il suo voto andrà al leader del suo partito, Silvio Berlusconi. Gli altri due Grandi elettori campani sono il governatore Vincenzo De Luca e il presidente del consiglio Gennaro Oliviero, entrambi del Pd.
Puglia
I tre grandi elettori pugliesi sono il governatore del Pd Michele Emiliano che ha ricevuto 31 voti, la presidente del Consiglio regionale, Loredana Capone (sempre Pd) che ne ha ricevuti 30, e il vicepresidente del Consiglio regionale Giannicola De Leonardis (Fdi) che ha ottenuto 15 voti. Non ci sono state sorprese nel centrosinistra rispetto alle indicazioni iniziali, mentre nel centrodestra alla fine ha prevalso la linea di Fratelli d’Italia, primo partito di opposizione mentre Paolo Pagliaro eletto nella lista civica “La Puglia domani”, ma di fatto dalla Lega, ha dovuto fare un passo indietro.
Basilicata
Per la Basilicata a partecipare all’elezione del successore di Mattarella saranno tre uomini, due del centrodestra e un democratico. Ossia: il governatore forzista Vito Bardi, il presidente del Consiglio regionale il leghista Carmine Cicala e Roberto Cifarelli, quest’ultimo consigliere regionale in quota Pd.
Calabria
Dalla Calabria la schiera che voterà il nuovo capo dello Stato è tutta maschile. I tre delegati indicati dal Consiglio regionale per partecipare all’elezione del presidente della Repubblica sono il presidente della giunta Roberto Occhiuto di Forza Italia, il presidente del Consiglio Filippo Mancuso (Lega) e il consigliere dell’opposizione e capogruppo del Pd Nicola Irto. Un riconoscimento del partito a Irto, che fu fatto fuori nella corsa a governatore.
Sardegna
Per la Sardegna ci sono i presidenti di Giunta e Consiglio regionale, Christian Solinas (Psd’Az) e Michele Pais (Lega), e il capogruppo del Pd Gianfranco Ganau.
Sicilia
L’Assemblea regionale siciliana ha eletto il presidente Nello Musumeci (Diventerà Bellissima), il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè di Forza Italia e Nunzio Di Paola (M5S).
Quei leoni del Nord consumati dalla politica. Gabriele Barberis il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.
C' è una nota di dolcezza struggente nella sguardo di Umberto Bossi, il vecchio Leone del Nord che si è rivisto alla Camera per le elezioni del presidente della Repubblica. Vale un romanzo la toccante immagine in bianco e nero che ha postato sui social il giornalista Massimo Maugeri: il Senatùr sulla sedia a rotelle salutato con affetto da Pierluigi Bersani nel cortile di Montecitorio.
Bossi in privato poteva stupire per bonarietà e timidezza, ma in realtà era il Barbaro spaventoso che si era mangiato la Prima Repubblica con picconate che avevano sbriciolato Dc e Psi. Nella foto con Bersani fuma seraficamente il sigaro, con la rassegnazione dell'anziano fuoriclasse escluso dai giochi che è già passato alla storia e non ha bisogno di affermarsi per il presente. Il fondatore della Lega ha 80 anni, mentre l'ex segretario Pd Bersani ne ha dieci di meno. Eppure anche lui si è ritagliato il ruolo della vecchia gloria, sopravvissuto ai veleni dei democratici e all'emorragia cerebrale che lo colse nel 2014. Prima di infilarsi in una deriva anti berlusconiana e di veterocomunismo di ritorno, il deputato di Leu aveva incarnato il moderno ministro riformista, in sintonia con il Nord, produttivo che sfornava privatizzazioni e liberalizzazioni. Ormai recita il ruolo del saggio rispettato a destra e mal tollerato tra i dem, e ha già annunciato che non si ricandiderà a fine legislatura. Entrambi, Umberto e Pier Luigi, hanno indossato le maschere popolari della Seconda Repubblica tra battute feroci e un gramelot linguistico intriso di sfumature padane.
A sinistra Bersani è passato inosservato, sopportato come un soprammobile ereditato da faide interne che hanno visto in pochi anni la fuoriuscita dal Pd di tre segretari (D'Alema e Renzi i compagni di disavventure). Un brontolone fuori dal dibattito che al massimo può regalare un titolo brillante agli intervistatori. Invece nel mondo leghista il rientro di Bossi è stato vissuto con emozione, una macchina del tempo che ha riportato tutti a vent'anni fa, quando Salvini era un giovane consigliere comunale senza felpa e senza barba. Ieri mattina il Senatùr ha coronato il suo dissestato percorso interno alla Lega negli ultimi anni con una standing ovation che l'ha commosso. E per induzione i delegati leghisti sono esplosi in un applauso fragoroso per Silvio Berlusconi, la tessera numero uno esterna della Lega, l'alleato di ferro che faceva ingelosire Fini per il suo rapporto strettissimo con Bossi, Calderoli e Maroni. Tanto che all'epoca si diceva malignamente che la sede del governo non era Palazzo Chigi bensì Arcore, con le cene del lunedì sera. Anche il Cavaliere è fuori dalla partita del Quirinale, ma il Carroccio 4.0 di Salvini l'ha inserito di diritto nel Pantheon verde. Bisogna sempre guardare in avanti, ma alla fine non è così triste soffermarsi su un'istantanea in bianco e nero. La sottile differenza tra il ricordo e il reducismo.
Gabriele Barberis. Caporedattore Politica, Il Giornale
(ANSA il 26 gennaio 2022) - In un Transatlantico anche oggi affollato e con i finestroni spalancati per far circolare l'aria, ci sono ripetuti siparietti tra grandi elettori che si salutano e si fanno dei selfie insieme. Pierferdinando Casini, indicato tra i possibili papabili per il Quirinale, è andato a salutare il fondatore della Lega Umberto Bossi, in sedia a rotelle ma finora sempre presente ai tre scrutini; immancabile la foto della stretta di mano. Anche l'ex premier Mario Monti ha salutato Bossi, così come diversi delegati regionali.
LA PAZIENZA DI UMBERTO BOSSI. Maurizio Crippa per “il Foglio” il 26 gennaio 2022.
Se i cronachisti umorali della Repubblica, quelli che compilano schede biografiche come fossero sentenze, avessero avuto (avessero sempre, come norma assoluta) un po’ di pazienza, cioè intelligenza, non avrebbero dovuto ieri ricredersi, o fare finta di niente.
Ieri, quando il vecchio Senatùr Umberto Bossi, malandato ma col sigaro tra i denti, che da quasi tre anni non si muoveva da Gemonio, s’è fatto spingere in carrozzina fino a Montecitorio, la cravatta verde, la pochette verde. Per votare il presidente della Repubblica.
Lui che dalla Repubblica voleva secedere, lui che aveva 300 mila insorti su nelle valli contro Roma ladrona. Invece ieri Bossi era lì, facendo uno sforzo sanitario senz’altro più ingente di quello non fatto dalla no vax come si chiama, e uno sforzo politico maggiore di tante burbette alla prima chiama, per quella Repubblica contro cui ha sempre alzato il vocione.
A chi gli chiedeva pronostico, ha detto furbo che “Draghi è un nome che può uscire alla fine”. E a chi gli chiedeva del suo amico-nemico-amico, ha disegnato col sigaro un lampo d’intelligenza: “Berlusconi ha una grande dote, è un uomo coraggioso, ma la dote che gli manca è la pazienza”. Politico di razza.
7 anni di Mattarella sui social: poco successo, ma tanto rispetto. Piero de Cindio su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
E’ finito ufficialmente il percorso di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. L’ultimo inquilino del Quirinale ha iniziato il suo mandato nel 2015 e, secondo un’analisi del data journalist Livio Varriale, le parole Quirinale e Mattarella hanno generato solo su Twitter 1.941.995 tweets, 14.517.195 mi piace, 4.395.844 condivisioni, 377.696 citazioni e 1.674.199 commenti.
All’interno di questo schema, la parola Mattarella è comparsa in 1.412.660 tweets mentre Quirinale 654.203.
Il trend del presidente della repubblica negli anni ha raggiunto il maggior coinvolgimento nel 2018 come da grafico ed è singolare come questo anno sia stato migliore degli anni della pandemia.
2018 è stato l’anno di Mattarella
Nel 2018, gli argomenti che hanno fornito maggiore visbilità al Presidente della Repubblica sono stati: le Consultazioni che hanno portato al primo Conte con Salvini al Governo e la polemica con Luigi Di Maio per l’affaire Savona, non gradito all’Europa, su cui si scatenò la furia incrociata sui social dove si invocava il processo al Presidente per attentato alla Costituzione. In questo stesso anno, iniziano a scoppiare le prime le prime polemiche sugli immigrati che hanno portato alla caduta di Salvini nell’anno successivo.
Nel 2019 e nel 2020 è emerso un lato di Mattarella dissacrante sia in forma diretta che indiretta. Nell’anno pre Pandemia, il tweet con più condivisioni e preferenze è stato di un utente francese che ha raccontato come “Trump lo abbia chiamato Mozzarella e non Mattarella”
Nel 2020 invece ha fatto sorridere la gaffe della diffusione di un video istituzionale ai media dove il Presidente della Repubblica lamentava la scompostezza dei suoi capelli nel messaggio alla nazione durante il lockdown. Un evento questo, il cui dubbio sulla sua genuinità resta ancora in piedi, che ha aumentato la popolarità del presidentissimo, a seguito di un messaggio di scuse del profilo Twitter ufficiale del Quirinale ed è il post social più gradito di tutto il settennato.
Sono del 2020 gli altri due post che hanno dato lustro a Mattarella nel mondo virtuale: quello di Ivana Trump che si congratulava con la moglie del Presidente per l’accoglienza ricevuta in occasione del g8, più la nota del Quirinale in piena pandemia. Nel 2021, invece, la convocazione di Draghi al Quirinale ha scaldato il popolo della rete.
Chi sono i politici più citati insieme al Presidente?
N° Tweets
Mattarella – Salvini
106233
Mattarella – Conte
96053
Marratella – Renzi
74401
Mattarella – Draghi
43361
Mattarella – Meloni
23843
Marratella – Berlusconi
19933
Mattarella – Speranza
9050
Mattarella – Calenda
4389
Mattarella – Letta
3623
Matteo Salvini e Giuseppe Conte sono i leader di partito più presenti nei tweets dove è stato citato in questi sette anni il presidente Mattarella. Il peggiore di tutti è Enrico Letta, superato persino da Calenda, mentre Draghi in un solo anno è già nel mezzo della classifica.
Secondo Google Trends, l’interesse del pubblico per il Presidente è stato nella fase iniziale del suo mandato e nel 2018 come già ampiamente riportato. Sicuramente è stato maggiore rispetto al Quirinale ed è curioso notare come l’Abruzzo sia la regione che ha cercato di più su Internet Mattarella, mentre la ricerca più frequente è stata “discorso di Mattarella”, riferito al messaggio di fine anno.
Secondo l’autore della ricerca, Livio Varriale, “l’analisi ha evinto che Mattarella non è stato un presidente social, nonostante la pandemia gli abbia generato intorno maggiore consenso senza convertirlo in successo “di immagine”. Negli anni trascorsi con lui alla guida, c’è da evidenziare che il Presidente della Repubblica seppur non sia di alto interesse, resta una figura rispettata dalla popolazione e la solidarietà espressa nel 2018 ne è stata la prova”.
Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format
Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.
L'incarico: trovare un peone qualsiasi, farsi raccontare come lo trattano, lo schifo di giornate che sta vivendo qui a Montecitorio, tenuto all'oscuro, grande elettore per modo di dire, per lui solo comandi bruschi, costretto a votare come gli ordinano i capi via WhatsApp (finora: sempre scheda bianca; infatti poi alcuni s' infilano nelle cabine e, per sfregio, scrivono Claudio Baglioni o Nino Frassica).
Lo sguardo scivola sul Transatlantico e giù nel cortiletto: bolgia anche in questo secondo giorno, si fuma ovunque, mascherine abbassate, chiacchiere, la candidatura di Mario Draghi al Quirinale perde quota, Renato Brunetta l'unico che lo difende platealmente. Sì, ma i peones? Eccone un gruppetto.
Questo con le mani in tasca è Mario Acunzo da Battipaglia. Ex 5 Stelle: cacciato perché non versava i soldi al Movimento. Arrotonda facendo l'attore nella fiction di Rai 1 «Il commissario Ricciardi». Ma Acunzo non parla (è disperato: fece l'errore di dire che avrebbe voluto Berlusconi al Quirinale).
Questa invece è Carmela «Ella» Bucalo da Barcellona Pozzo di Gotto, di anni 58, Fratelli d'Italia: ieri si scattava selfie di ricordo. «Decide tutto Giorgia, certo: ci mancherebbe». Un giovane cronista ha già battuto il terreno: «Con la Granato, perdi tempo. Puoi provare con Ciampolillo, ma lo sai anche tu che è un po' banale. Le grilline sono diventate furbe, annusano il pericolo, sono reticenti».
Poi passa Sergio Battelli. «Come mi ha chiamato?». Peone. «Guardi che io mica mi offendo». Ma infatti io non intendevo offenderla. «Peone ero quando entrai nel 2013, peone mi sento». Sì, ecco: Sergio Battelli di anni 39, grillino genovese, può funzionare. È amico di Luigi Di Maio, però questo non sposta di un centimetro la sua condizione di bracciante della politica. Battelli, tra qualche tempo, sarà materia di studio: licenza media, un decennio trascorso a lavorare come commesso dentro un negozio di animali. Cucce, croccantini, guinzagli.
Poi l'apparizione di Beppe Grillo sulla porta d'ingresso. Due clic, parlamentarie e, nel 2013, si ritrova qui: deputato. Circa 14 mila euro accreditati sul conto corrente. Ogni mese. Per la tragica regola imposta da Gianroberto Casaleggio dell'«uno vale uno», nel 2018 lo nominano pure presidente della commissione Affari europei. «Se devo essere trattato male...».
Guardi, è cronaca. «Okay: cosa vuol sapere?». La sua giornata. «Mi sveglio, faccio colazione, mi vesto...» (tipo simpatico, veloce, ha imparato le regole del gioco: ma sul vestire non ci siamo. Indossa un abito di lana a quadratini e un maglione nero a collo alto).
State eleggendo il nostro nuovo presidente della Repubblica: non pensa di essersi presentato vestito come per un brunch al lago? «Lei pensa?». Penso che tra il suo maglione e la grisaglia di Aldo Moro possa esserci una decorosa via di mezzo. Parliamo di queste votazioni. «Vengo qui in anticipo. Parcheggio il monopattino ed entro. Oggi ho mangiato un panino al volo alla buvette. Poi aspetto che arrivi il mio turno di voto parlando con i miei colleghi, immaginando soluzioni, scenari».
Siete preoccupati? «Senta: se a Palazzo Chigi venisse giù tutto, o perché Draghi sale al Colle, o perché al Colle magari ci va un altro e Draghi si stranisce e molla, il rischio di andare a votare è chiaro che esiste. E io, che come Di Maio sono al secondo mandato, per le attuali regole del Movimento dovrei tornarmene a casa. Ma le assicuro che non mi ammazzerei di certo se dovessi lasciare questo luogo, la politica. E poi...».
Poi? «Mi sono sempre saputo reinventare. Anche stavolta troverei qualcosa per campare». Tipo? «Mi piace la musica. Suonavo, so incidere, potrei buttarmi nella produzione discografica». Squilla il cellulare: sul display comincia a lampeggiare la scritta «Luigi Di Maio». Allora Battelli mette su uno sguardo che tiene insieme imbarazzo e fretta (è noto che Di Maio s' infuria se non gli rispondono entro il secondo squillo; il suo ragionamento dev' essere, più o meno, questo: ma come, io sto qui a faticare per voi, a combattere con Letta zio e Letta nipote, a parlare con Salvini e ad ascoltare persino Conte, e voi fate salotto?). Così Battelli s' allontana. Ma, tenendolo d'occhio, eccolo poi che passetto passetto torna subito ai divanetti, dove lo aspettano. «Allora, Giggino che dice: butta male?». Peones.
Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 30 gennaio 2022.
È il rosario che aspettavano. « Mattarella... Mattarella... Mattarella... ». Cortiletto di Montecitorio, lo spoglio in diretta sui maxischermo. Nel riverbero giallastro dei lampioni, loro. I vincitori. Sta finendo come volevano. Fanteria parlamentare all'ultimo bivacco.
Occhiate di purissima allegria sotto le mascherine, febbrile eccitazione: «Siamo già a 348 voti! Eh eh...».
Seduti in circolo, pregustano la certezza di poter trascorrere un altro anno abbondante dentro questo potere e questo lusso, certi qui e gli altri a Palazzo Madama, ma tanto un Transatlantico vale l'altro: l'importante, per la maggior parte di loro, è continuare a camminare nei corridoi con il velluto rosso alle pareti, i marmi che risplendono, i lampadari sempre accesi come nemmeno a Versailles e un bell'accredito sicuro sul conto corrente. « Mattarella... Mattarella... Mattarella... ».
Ha ripreso colorito Mario Acunzo da Battipaglia, ex 5 Stelle, quello che per arrotondare recita nella fiction di Rai 1 «Il commissario Ricciardi» e che pensava di aver fatto un casino ammettendo di volere Berlusconi al Quirinale.
Ecco pure Alviso Maniero, un altro gigante del gruppo Misto che, quando lasciò il Movimento, paragonò Davide Casaleggio a Kim Jong-un. Ma lo spettacolo più tragico è stato assicurato, ogni giorno, da molti di quelli che sono rimasti grillini. Paura battente. Animi sanguinanti.
Eccoli qui, i conti cimiteriali ancora in tasca: con un voto elettorale anticipato, un po' per il calo dei consensi, un po' per la contrazione dei seggi prevista dalla nuova legge, due terzi di loro non sarebbero stati rieletti.
Così l'arrivo di Luigi Di Maio è stato sempre accolto con inchini e sospiri. Lui incedeva offrendo il suo corpo rassicurante, distribuiva carezze, blandiva, state tranquilli, non può succedervi nulla. Tiziana Ciprini e Luca Frusone, Paolo Parentela e Marta Grande. «Giggino, siamo nelle tue mani».
«Giggino, che Dio ti benedica». Una fatica bestiale. Adesso giacciono stremati sulle panchine. Passa Daniela Santanché avvolta in un giaccone maculato (che potrebbe essere di leopardo finto ma anche vero, cacciato appositamente per lei). Li osserva schifata: «Hanno pensato solo a cadrega e portafoglio».
Occhiate feroci per lei e per quelle altre che la poltrona comunque non l'avrebbero rischiata: la Ravetto, con le sue borse firmate che costano come l'annualità di un metalmeccanico; oppure la Boschi, ormai definitivamente altera e lassù, distante, tra una copertina di Chi e la promessa di tornare, prima o poi, a fare il ministro. «Mattarella... Mattarella... Mattarella...» .
Sbuffano in un miscuglio di stanchezza e soddisfazione pure certi leghisti. Perché anche da quelle parti: calcoli malevoli. Con gli attuali sondaggi, un voto anticipato avrebbe prodotto almeno 70 seggi in meno, tra Camera e Senato. E però vedevano il capo piombare di corsa, stravolto. Salvini entrava, votava, spariva. Due ore dopo annunciava cinquine, terne. Pera, Moratti, Nordio. Un pomeriggio è andato a casa di Sabino Cassese.
Nel frullatore ha messo Giampiero Massolo e Franco Frattini. Poi ha mandato a sbattere la seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Casellati. Infine, la tombola: candidando Elisabetta Belloni, il capo dei servizi segreti. Così i leghisti - preoccupati - erano spesso accucciati accanto all'Umbertone Bossi: seduto sulla sedia a rotelle, il sigaro acceso, faceva segno di no, non andrà come «pensa quello lì, state calmi». I governatori Fedriga e Zaia, muti, sgomenti, di cera. «Mattarella... Mattarella... Mattarella...». Sul tabellone luminoso siamo a 487 voti.
C'è ancora il tempo di ricordare la visita pastorale di Giuseppe Conte, che Rocco Casalino, l'altro giorno, ha deciso di trascinare qui. «Devi venire perché sei tu, fino a prova contraria, il capo del Movimento... Non possiamo lasciare i gruppi nella braccia di Di Maio». Solo che Conte lisciava, non riconoscendole, le sue pecorelle grilline: e così il panico diventava totale.
«Questo non sa nemmeno chi siamo, porcaccia miseria!». Ma Conte aveva altro, in testa. Per dimostrare d'essere il miglior alleato riformista possibile del Pd, si stava accodando a Salvini, che voleva dare all'Italia una guida tipo quella di Abdel Fattah al-Sisi in Egitto. Giornate penose per tutti. Potete recuperare sui social le immagini di euforica liberazione con cui il pattuglione del Pd, nella sala del Mappamondo, ha accolto la notizia che al Quirinale sarebbe rimasto il vecchio Presidente.
Anche tra i dem serpeggiava il dubbio: lo sapete, sì, che se Enrico dovesse rifare le liste elettorali, almeno la metà di noi tornerebbe a casa? Poco fa, Matteo Renzi se ne è andato seguito dalla sua guardia d'onore (per qualche ora, al mattino, ha provato a piazzare Casini: che, annusato il colpaccio, da meraviglioso democristiano soffiava ai peones: «Fratelli, non smarrite la strada, che siamo vicini...». E quelli: «Ha svalvolato?». « Mattarella... Mattarella... Mattarella... ». Ci siamo: 503, 504, 505. Quorum. Abbiamo il Presidente. Applauso lungo e forte (ma è rivolto a lui, o a loro stessi?)
Fabio Martini per “La Stampa” il 30 gennaio 2022.
Oramai le riflessioni di Rino Formica somigliano ad aforismi politici: «A noi ci hanno "salvato" i peones!».
Sarebbe a dire?
«Sarebbe a dire che in Parlamento c'è stata una disperata rivolta degli autoconvocati: la loro sopravvivenza di parlamentari ha coinciso con la sopravvivenza del potere democratico e del Parlamento! Molti di loro forse neanche lo sanno che hanno battagliato per la democrazia. Per la prima volta abbiamo assistito ad un attacco del potere esecutivo al potere di garanzia, rappresentato dalla Presidenza della Repubblica e al potere legislativo».
Classe 1927, già ministro socialista, Rino Formica ha iniziato a far politica nel 1944 in casa Laterza a Bari, un giorno che da lì passò Benedetto Croce e da allora non ha più dimesso la passione per la cosa pubblica.
Ventinove gennaio 2022: al netto della retorica che oramai accompagna ogni evento, che giorno è stato?
«E' tornato al vertice della Repubblica un presidente forte di suo come Mattarella e alla presidenza della Corte Costituzionale abbiamo un democratico come Giuliano Amato. Due personalità che rappresentano una garanzia per le istituzioni. Nessuno dei due ha però una forza reale come quelle che si muovono fuori dal Parlamento».
Perché tanto allarme democratico?
«In queste settimane si è consumato uno scontro tra chi voleva mantenere l'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione e chi voleva cambiarlo a Costituzione invariata».
Draghi?
«Il sistema dell'informazione quasi non se ne è accorto: ma quando mai palazzo Chigi e il suo leader sono stati il centro dell'organizzazione politica? Mai l'istituzione si era fatta partito. Neppure quando la Dc aveva il 40 per cento».
Ma si è trattato di un'ambizione personale
«Appunto l'ambizione di un "partito personale"».
Draghi non ha mai mostrato di avere ambizioni partitiche o politiche in senso stretto, non le pare?
«Peggio. Ambizioni di potere. Ancora più pericolose. Se avesse fondato un partito, benissimo. Monti non era pericoloso: ci ha provato e non è andata bene. Ogni tanto si alza in Senato e fa il cigno: io ne sapevo più di voi».
Per qualche mese il governo sarà più forte?
«Nei prossimi mesi vengono al pettine nodi politico-sociali inediti. Si svolgerà il referendum sulla giustizia: nella campagna elettorale saranno coinvolte milioni di persone, toccate direttamente da problemi di giustizia civile, penale, tributaria».
Il governo resisterà un anno?
«Un anno di governo reale non c'è. Fra sei mesi siamo in campagna elettorale, comunque. Ecco perché mi fa ridere il "patto di legislatura"».
L'ammaccato Salvini di queste ore non aspetta altro che tornare libero a scorrazzare?
«Per forza. Con una aggiunta che le anticipo».
Sarebbe a dire?
«Che quasi nessuno dei ministri draghiani sarà candidato nel proprio partito. Non Brunetta e neppure le donne di Forza Italia. Ma anche quelli del Pd rischiano tranne Orlando che ha una sua componente. Non parliamo poi di quelli della Lega»
Forza Italia si renderà disponibile per un'alleanza di centro-sinistra?
«Forza Italia non può che avere una posizione liberale. Per necessità. Mediaset produce informazione, non scarpe. E quando si arriva al dunque, gli interessi da tutelare non sono industriali, perché Berlusconi ha bisogno del pluralismo delle idee come imprenditore. Sulla candidatura Belloni una posizione liberale è venuta proprio da Forza Italia».
Sul tema si è esposto Renzi, da lei mai risparmiato
«E invece dico: viva Renzi! Ha detto l'abc. Dopo 75 anni di vita democratica, ma come caspita si fa a pensare che si passa dalla guida dei Servizi alla guida dello Stato senza un "lavaggio elettorale?»
L’impossibile segreto. Le regole per eleggere il Capo dello Stato e il culto idolatrico della trasparenza. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 28 Gennaio 2022.
I padri costituenti non potevano immaginare che i mass media avrebbero racconto in tempo reale la scelta del presidente della Repubblica. Chi corre per il Quirinale dovrebbe candidarsi o essere candidato in modo ufficiale, spiegando in Parlamento le ragioni della scelta.
Non so come andrà a finire tra qualche ora o tra qualche giorno l’elezione del Capo dello Stato e su chi finirà per ricadere la scelta dello Spirito Santo che, per previsione costituzionale, soffia sul collegio quirinalizio.
Rimane comunque l’impressione che neppure se uniformate a quelle del conclave dei cardinali per l’elezione papale – tutti chiusi dentro e nessuno parla con l’esterno – le regole dell’elezione presidenziale potranno mai più resistere al pervertimento del mondo in tempo reale e dell’interconnessione globale, delle dirette permanenti e del pedinamento dei grandi elettori, delle indiscrezioni e dei depistaggi.
D’altra parte, se le notizie ormai trapelano più o meno in diretta pure dalla Cappella Sistina quando c’è da scegliere un nuovo Papa, non c’è da illudersi che il segreto, che la Carta vorrebbe precedesse la fumata bianca sul nuovo Capo dello Stato, sia custodito da mille grandi elettori o da dieci capi partito, abituati a vivere in diretta Facebook e la cui esistenza e potenza politica è certificata in primo luogo dalla ubiquità mediatica.
Se le regole istituzionali per funzionare devono comunque adattarsi al modo con cui la realtà retroagisce su di esse, deformandole o conformandole ai propri paradigmi, i meccanismi di un’elezione tanto importante dovrebbero tenere conto della potenza e della pervasività di un apparato mediatico, che i costituenti non potevano neppure immaginare. Un’elezione segreta non è più compatibile né con la tecnologia, né con la cultura del sistema e della società dell’informazione.
La segretezza delle trattative per la scelta di un Capo di Stato confligge in primo luogo con il culto idolatrico della trasparenza, la cui diffusione dimostra di per sé l’irreversibile confusione concettuale e pratica tra le categorie del politico e quelle del mediatico e suscita l’illusione che la controllabilità del potere e dei potenti sia legata alla loro perpetua esposizione pubblica, come se questa non fosse già un prodotto, un mezzo di persuasione, prima che un oggetto di conoscenza, un far vedere, prima che un vedere.
In ogni caso, se pure si volesse eroicamente resistere all’idea che la difesa della democrazia passi da uno streaming ininterrotto di chiacchiere e distintivi, rimane il fatto che per sua stessa natura la politica non ha più un dentro che non sia anche un fuori, cioè non ha più materialmente la possibilità di custodire alcunché in un segreto, che per esistere, per rilevare, per fare consenso, per stabilire chi ha vinto e chi ha perso, deve essere raccontato.
Di fronte a tutto, perché l’inconciliabilità dell’elezione presidenziale non rimanga una causa di ulteriore opacità e sospetto sui movimenti e sulle intenzioni dei politici (per definizione sordide, come vuole la vulgata) sarebbe di gran lunga preferibile che quella per il Quirinale venisse trasformata in una vera elezione, in cui ci si candida o, se si viene candidati, si accetta o non accetta la candidatura e in cui si spiegano istituzionalmente – in Parlamento, non uscendo dalle pizzerie o dalle case private – le ragioni dei sì e dei no.
Viene comunque quasi da sorridere a immaginare questa come una riforma possibile, in un sistema istituzionale condannato da decenni alla paralisi dalla ferrea alleanza tra quelli che vogliono sfasciare tutto e quelli che non vogliono cambiare niente.
Quirinale, bordata di Dagospia a votazioni aperte: "Tutto questo caos? Quando Mattarella e il suo uomo..." Libero Quotidiano il 28 gennaio 2022.
Prima di giocarsi la carta Draghi per Palazzo Chigi, Sergio Mattarella avrebbe voluto l'ex banchiere come suo successore al Quirinale. Lo rivela Dagospia in una nota: "Una scelta sofferta. L’arrivo a Palazzo Chigi di Draghi bruciava quella che era la prima opzione alla sua successione. L’asso nella manica che aveva tenuto al riparo dai partiti per spianargli la strada verso il Colle”. Pare, inoltre, che per evitare di giocarsi il suo nome durante la crisi di governo di un anno fa, l’uomo ombra del presidente, Ugo Zampetti, si fosse speso per dare vita al Conte ter. Opzione poi fallita.
Alla fine infatti, come sappiamo, il nome dell'ex banchiere si è reso necessario vista la crisi profonda che si stava attraversando. Anche perché Mattarella, come da lui spiegato un anno fa, voleva scongiurare il voto anticipato sia perché si era in piena pandemia sia perché mancava una nuova legge volta a ridisegnare i collegi elettorali dopo la riduzione del numero dei parlamentari.
In ogni caso pare, spiega Dagospia, che i nomi “super partes” dei possibili candidati al Colle, evocati in questi giorni, siano gli stessi che aveva in mente il Capo dello Stato uscente da oltre un anno per garantire stabilità al Paese: Mario Draghi, Giuliano Amato, Marta Cartabia e Sabino Cassese.
IL GIORNO DELLE VOTAZIONI
Elezione Presidente della Repubblica, la diretta del voto per il Quirinale della prima giornata: incontro Salvini-Letta “apre il dialogo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.
Al via oggi le elezioni del Presidente della Repubblica. Il Presidente della Camera Roberto Fico ha convocato l’assemblea che eleggerà il prossimo Capo dello Stato oggi, lunedì 24 gennaio 2022, alle 15:00 per la prima seduta. Il successore di Sergio Mattarella (che ha in diverse occasioni ribadito che non è in corsa per un secondo mandato) sarà il 13esimo Presidente della Repubblica Italiana. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.
Causa covid-19 si terrà una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.
Caos e ore di trattative febbrili tra i partiti. Il leader e fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi ha sciolto la riserva: fallita l’operazione scoiattolo, ha rinunciato alla corsa al Quirinale. Scricchiola la candidatura del Presidente del Consiglio in carica, dato da mesi per favorito, Mario Draghi. Ancora preso in considerazione per alcuni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Le ipotesi Pierferdinando Casini e Giuliano Amato ancora in corsa, come quelle di Marta Cartabia ed Maria Elisabetta Alberti Casellati. New entry della giornata di ieri: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e la direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni.
Il live minuto per minuto
8:00 – Si va verso un primo scrutinio senza intese tra i partiti. L’unica certezza, salvo sorprese, è che nell’urna finiranno molte schede bianche. Continuano le trattative febbrili. Oggi incontro Letta-Salvini. Il segretario del Pd ha chiesto una presa di posizione chiara su Mario Draghi: “Ha rappresentato per l’Italia una straordinaria risorsa e il compito di tutti noi è di preservarlo”. Opzione Mattarella ancora in campo per il leader dem: “Darebbe il massimo, la soluzione ideale e perfetta”. Letta pronostica tra martedì e mercoledì una candidatura condivisa. Per Salvini invece “togliere Draghi da Palazzo Chigi è pericoloso”. Per il segretario del Carroccio “Casini non è un candidato del centrodestra”.
8:50 – Con la morte del deputato di Forza Italia Enzo Fasano, scomparso ieri sera a 70 anni, i Grandi Elettori scendono a 1008. Scende così anche a 672 il quorum dei due terzi chiesto nelle prime tre votazioni per l’elezione. Per tornare al 1009 andrà proclamato il primo dei non eletti, che parteciperà subito al voto.
9:00 – Secondo La Repubblica la trattiva che potrebbe sbloccare tutto è quella di Elisabetta Belloni, prima donna a capo dell’intelligence, Presidente del Consiglio e Draghi al Quirinale. Si tratterebbe della prima donna a Palazzo Chigi e del primo capo dell’intelligence a guidare un governo. L’attuale direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza è stata segretario generale della Farnesina e alla direzione dell’unità di crisi del ministero. Sarebbe considerata una personalità trasversale.
10:48 – Il vicepresidente e coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani ha dichiarato, in linea con Berlusconi e Salvini, ai giornalisti arrivando a Montecitorio in mattinata che “oggi serve unità nazionale e Mario Draghi è il miglior garante dell’unità nazionale. Non è una questione personale ma dell’interesse del Paese. Serve unità di governo e che questo esecutivo arrivi a fine legislatura”. No a veti da parte di Tajani: “Ho parlato con Salvini, Meloni e gli altri leader, nella giornata di ieri, e ritengo che il centrodestra farà delle sue proposte e poi valuteremo, ci confronteremo. Ciò che non possiamo accettare è che si sostenga il principio per cui chi è espressione del centrodestra non possa avere incarichi pubblici, perché questo è illiberale ed antidemocratico”.
11:00 – Il successore di Enzo Fasano, il deputato di Forza Italia morto ieri sera, sarà scelto tramite una procedura rapidissima che dovrebbe riportare il numero dei Grandi Elettori a 1009 entro mercoledì. La Giunta per le elezioni di Montecitorio e l’aula della Camera in una seduta ad hoc saranno convocate in queste 72 ore per individuare il primo dei non eletti di Forza Italia nella Circoscrizione Campania 2 e verificarne i titoli. È la prima volta nella storia che la Camera sarà convocata durante le elezioni del Capo dello Stato per la proclamazione di un deputato subentrante.
11:15 – Nessun veto da parte del Movimento 5 Stelle. “Abbiamo alzato l’asticella, vogliamo una personalità di alto profilo, compatibile coi valori del Movimento”, ha detto il leader Giuseppe Conte arrivando a Montecitorio. “L’assemblea M5s, che è il numero più consistente, ha convenuto diffusamente che l’obiettivo è preservare la continuità dell’azione di governo perché non possiamo trascurare che ci sono famiglie, imprese cittadini che ci guardano e non possono pensare che prima ci fermiamo per il Quirinale e poi per un nuovo governo”.
12:00 – Il Presidente della Camera Roberto Fico pubblica sul suo profilo Facebook le foto delle cosiddette “insalatiere”, le urne dove consegnare il proprio voto: “Alle 15 il Parlamento si riunirà in seduta comune per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Stamattina in programma le due riunioni congiunte di Camera e Senato – prima quella dell’Ufficio di Presidenza e poi la Conferenza dei capigruppo – per ultimare l’organizzazione dei lavori”.
12:30 – Spunta un nome nuovo per il Colle. A farlo è Giorgia Meloni, con Fratelli d’Italia che lancia per il Quirinale l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio. “Molte personalità, che provengono dall’area del centrodestra, avrebbero il curriculum e lo standing per ricoprire il ruolo di presidente. Nomi come quello di Marcello Pera, Letizia Moratti, Elisabetta Alberti Casellati, Giulio Tremonti, Franco Frattini sono tutti autorevoli. Io ho chiesto di allargare la rosa anche alle personalità che non hanno un trascorso politico e per questo abbiamo aggiunto il nome di Carlo Nordio, su cui ci pare difficile che si possano muovere obiezioni”, ha detto ai suoi grandi elettori riuniti in assemblea.
13:00 – Decisa la ‘timeline’ del voto. Il calendario prevede infatti la convocazione per domani alle 15, confermando dunque l’orario odierno per consentire la partecipazione ai funerali del deputato di Forza Italia Vincenzo Fasano, scomparso domenica sera.
Il terzo scrutinio, previsto mercoledì, inizierà alle 11 del mattino, come stabilito dalla conferenza dei capigruppo di Camera e Senato.
13:30 – Maria Rosa Sessa, detta Rossella, sarà il grande elettore numero 1009. La deputata prenderà infatti il posto di Enzo Fasano, il deputato di Forza Italia morto domenica sera. L’annuncio è stato dato in commissione Affari Costituzionali da Stefano Ceccanti, deputato e capogruppo del Partito Democratico.
Una decisione lampo con la verifica dei ‘titoli’ della Sessa da parte della Giunta per le elezioni della Camera, con l’elezione che verrà proclamata in apertura di seduta oggi ripristinando così il quorum.
13.50 – Niente schede segnate. Il presidente della Camera Roberto Fico leggerà solo il cognome del votato ove la scheda rechi solo tale indicazione ovvero quando, pur riportando altre notazioni, sia comunque univocamente individuabile il soggetto cui è attribuito il voto. Si tratta di una informazione importante: la lettura del solo cognome e non la lettura “tale e quale” del voto evita il controllo da parte dei gruppi politici che in queste ore sono a lavoro per individuare il prossimo presidente della Repubblica. Un escamotage utilizzato più volte in passato per contarsi e capire effettivamente quanti voti si avevano a disposizione. Storico – come riporta l’Ansa – il caso della votazione in cui Franco Marini era candidato del centrosinistra e non venne eletto. Le variabili furono tante, da “Marini Franco” a “Franco Marini” a “Marini dottor Franco” o “Franco dottor Marini”.
14:30 – Stamattina il vertice tra il segretario del Pd Enrico Letta, il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte e il segretario di Articolo Uno Roberto Speranza. Scheda bianca al primo scrutinio, preservare il nome di Andrea Riccardi e aprire un confronto “vero” con il centrodestra le indicazioni dal summit. Conte, a differenza di Letta, ha detto che non avrebbe “remore a considerare una candidatura che venga dal centrodestra”. L’ex premier avrebbe preferito tra l’altro tenere coperto il più possibile il nome di Andrea Riccardi fino al momento giusto. Per Letta è “il candidato ideale”. Previsto oggi pomeriggio l’incontro tra il segretario dem e quello della Lega Salvini.
14:35 – Il Presidente del Consiglio Mario Draghi e il segretario della Lega Matteo Salvini si sono incontrati stamattina a Palazzo Chigi. “No comment” sul faccia a faccia.
14:46 – “La Lega voterà scheda bianca”, l’indicazione emersa durante la riunione con il segretario Matteo Salvini alla Camera. “Confermeremo di essere seri e responsabili”.
15:06 – In programma oggi pomeriggio il segretario della Lega Matteo Salvini e il leader del M5s Giuseppe Conte. L’ex premier pentastellato avrebbe sentito ieri diversi leader il presidente di Fdi Giorgia Meloni e oggi il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani.
16:00 – Giornata di incontri per una giornata interlocutoria che dovrà mettere le basi per un possibile accordo. Per questo Matteo Salvini, come confermano fonti della Lega, incontrerà sia Enrico Letta che Giuseppe Conte, i due leader di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle.
Prima di vedere però gli “alleati” di governo, Salvini si confronterà con Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia ha candidato, almeno per le prime votazioni, l’ex magistrato Carlo Nordio.
16:15 – SkyTg24 apprende da fonti parlamentari che nell’agenda agenda Draghi sono previsti incontri con tutti i leader di partito.
16:20 – Fine della votazione dei Senatori. Dopo 10 minuti di pausa, con sanificazione degli ambienti, si riprenderà con i deputati.
16:25 – Renzi ai cronisti davanti a Montecitorio: “Come vedo bis di Mattarella? Non lo vedo”. E “al momento non vedo grandi soluzioni all’orizzonte. Il parlamento 2013 ha fallito, il parlamento del 2015 era lo stesso, ma ha eletto Mattarella. La differenza la fa la politica”. L’ex premier ha aggiunto: “Penso e spero che nelle prossime 48 ore, siano decisive per passare dal Wrestling alla politica. E sono sinceramente ottimista perché hanno tutti interesse a farlo. Basta schermaglie, ora si fa sul serio”. L’ipotesi Draghi “sta in piedi solo in un quadro di accordo politico”.
16:53 – Incontro Salvini-Letta: “Si è aperto dialogo”. Riferiscono fonti della Lega e del Partito Democratico: “Lungo e cordiale incontro tra Matteo Salvini ed Enrico Letta negli uffici della Lega alla Camera. Con il faccia a faccia si è’ aperto un dialogo: i due leader stanno lavorando su delle ipotesi e si rivedranno domani”.
17:50 – Quello con il segretario della Lega Matteo Salvini è stato “un incontro molto positivo” secondo il segretario del Pd Enrico Letta. Domani un altro faccia a faccia. “Abbiamo aperto il dialogo, è positivo, ci rivediamo domani”.
18:15 – Un messaggio importante su una possibile convergenza sul nome di Pier Ferdinando Casini arriva dal senatore del Partito Democratico Dario Stefano, presidente della Commissione politiche Ue. Da Stefano infatti è arrivato uno stop alle ambizioni di Draghi al Quirinale: “diffusa che Draghi debba proseguire il lavoro al governo per portarci fuori dalla crisi pandemica, dalla emergenza dei costi energia e materie prime e per conseguire la piena attuazione del Pnrr. Il Paese non puo’ permettersi una crisi al buio”. Per il colle quindi “serve un nome che unisce, che non sia bandiera di nessuno, che aiuti le convergenze e che conosca bene il parlamento e le sue regole di funzionamento. Casini è certamente uno dei candidati che risponde perfettamente a questo profilo”.
Tesi ribadita anche dal ministro delle Politiche agricole e capodelegazione del Movimento 5 Stelle al Governo, Stefano Patuanelli: “Mario Draghi deve restare a palazzo Chigi? “I cittadini hanno bisogno di certezze”.
19:50 – “Sto lavorando perché nelle prossime ore il centrodestra unito offra non una ma diverse proposte di qualità, donne e uomini di alto profilo istituzionale e culturale, su cui contiamo ci sia una discussione priva di veti e pregiudizi, che gli italiani non meritano in un momento così delicato dal punto di vista economico e sociale”. E’ quanto dichiara il leader della Lega Matteo Salvini.
20:09 – Inizia lo spoglio da parte del presidente della Camera Roberto Fico. Moltissime schede bianche, voti poi per Alberto Angela, Paolo Maddalena, Elisabetta Belloni, Ettore Rosato, Amadeus, Sergio Mattarella, Umberto Bossi, Franco Rutelli, Bruno Vespa, Marco Cappato, Marta Cartabia, Craxi, Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, Claudio Lotito, Alfonso Signorini, Giuseppe Cruciani, Mauro Corona e Claudio Sabelli Fioretti.
20:21 – “C’è un clima positivo di confronto” ha dichiarato Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, all’uscita da Montecitorio.
21:38 – Dopo circa un’ora è finito lo spoglio delle schede dopo la prima votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. I votanti sono stati 976. Come previsto, la stragrande maggioranza sono schede bianche (672), 49 quelle nulle. Preferenze poi per il presidente uscente Sergio Mattarella (16), i magistrati Paolo Maddalena (32), Carlo Nordio (pochissime per il candidato avanzato da Fratelli d’Italia) e Nicola Gratteri, le donne Elisabetta Belloni e Marta Cartabia (9), poi i politici Silvio Berlusconi, Ettore Rosato, Umberto Bossi, Pierluigi Bersani, Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Marco Cappato e spunta anche Craxi. Nuova votazione domani, martedì 25 gennaio, alle 15.
22:30 – Elezioni presidente Repubblica, tutte le preferenze dopo primo scrutinio: da Amadeus a Lotito a Signorini
23.56 – Draghi presidente della Repubblica e Di Maio premier: i nomi e le ipotesi dopo la prima giornata. Le strategie in Transatlantico: asse tra il ministro degli Esteri e Giorgetti.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
672 le schede bianche. Elezioni presidente Repubblica, tutte le preferenze dopo primo scrutinio: da Amadeus a Lotito a Signorini. Redazione su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.
Fumata nera, come era ampiamente prevedibile, dopo il primo voto dei Grandi Elettori per scegliere il 13esimo presidente della Repubblica (il mandato di Mattarella scade a inizio febbraio). Domani, martedì 25 gennaio, alle ore 15 è in programma la seconda votazione.
In questa prima giornata sono stati complessivamente 976 i votanti e dallo spoglio, diretto dal presidente della Camera Roberto Fico, sono ben 672 le schede bianche. Quelle nulle sono invece 49. Chi ha ottenuto più preferenze è il magistrato Paolo Maddalena, candidato avanzato dalla componente “Alternativa c’è”, ovvero gli ex Movimento 5 Stelle confluiti nel gruppo Misto.
Maddalena ha racimolato 36 preferenze. Al secondo posto si piazza il presidente uscente Sergio Mattarella con 16, segue la ministra della Giustizia Marta Cartabia con 9. Poi Silvio Berlusconi, il deputato di Forza Italia Roberto Cassinelli, Guido De Martino, figlio di Francesco, e il deputato ex M5S Antonio Tasso, con 7; Umberto Bossi e il presidente di Italia viva, Ettore Rosato, con 6.
Marco Cappato prende 5 voti; il senatore della Lega Cesare Pianasso e il giornalista Bruno Vespa con 4 voti; il conduttore di un ‘Giorno da pecora’ Giorgio Lauro, Enzo Palaia, il direttore del Dis Elisabetta Belloni, la deputata di Italia viva Maria Teresa Baldini, il presidente della Lazio Claudio Lotito, Pierluigi Bersani, il giornalista Claudio Sabelli Fioretti, Francesco Rutelli, il presentatore Amadeus e Craxi 3 voti.
Due voti per Giuliano Amato, il presidente del Senato Elisabetta Casellati, il divulgatore scientifico Alberto Angela, Pier Ferdinando Casini, l’ex premier Giuseppe Conte, Gianluca De Fazio, il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, il chirurgo Ermanno Leo, Antonio Martino, il giurista Ugo Mattei, il sottosegretario all’Editoria, Giuseppe Moles, il deputato del Pd Paolo Siani.
Un voto a Sabino Cassese, Carlo Nordio (candidato proposto da Fratelli d’Italia), Mario Draghi, Walter Veltroni, Anna Finocchiaro, Rosy Bindi, Antonio Tajani. Hanno ricevuto un voto anche, tra gli altri, Donina Cesare, Ugo Mattei, Andrea Pertici, Ermanno Leo, Pastorino, Fulvio Abbate, Alessandro Barbero, Alfonso Signorini, Giuseppe Cruciani, Vincenzo De Luca, Mauro Corona, Mario Segni, Giorgio Presu, Aldo Morrone, Antonio Razzi, Prosperetti, Giuseppe Cossiga, Gioacchino Gabbuti, Salvatore Borsellino, Dino Zoff e il magistrato Nicola Gratteri.
Il nome scelto dal Gruppo Misto. Chi è Paolo Maddalena, il magistrato candidato al Quirinale dagli ex grillini. Redazione su Il Riformista il 24 Gennaio 2022-
Nato a Napoli 85 anni fa, Paolo Maddalena è un ex magistrato e vice presidente emerito della Corte Costituzionale. Nei giorni scorsi il suo profilo è stato scelto dai parlamentari ex Movimento 5 Stelle confluiti ora nel Gruppo Misto e nella componente “Alternativa c’è”, di cui fanno parte poco più di 40 tra deputati e sanatori. “Per individuare una figura di alto profilo morale e tecnico da proporre per l’ormai prossima elezione del presidente della Repubblica, si è aperto un confronto tra parlamentari del Gruppo Misto di Camera e Senato all’opposizione, che ha portato all’indicazione del professor Paolo Maddalena”, si legge nella nota diffusa.
Maddalena è una “figura super partes, lontana da appartenenze politiche: ha messo al centro della sua opera di magistrato, docente universitario e giudice costituzionale (vice presidente della Consulta) la tutela dei beni pubblici demaniali, della legalità, della sovranità popolare e della nostra Costituzione. Per queste ragioni riteniamo possa essere una figura tra le più importanti sulla quale tutte le forze politiche potrebbero convergere. Le invitiamo ad esprimere il proprio voto per una personalità in grado di incarnare pienamente le caratteristiche di garante della Costituzione e dei diritti del popolo italiano”.
Chi è Paolo Maddalena?
Subito dopo la laurea (conseguita presso l’Università di Napoli nel 1958), Maddalena iniziò l’attività didattica e di ricerca nell’ambito del diritto romano, come assistente di Antonio Guarino. Libero docente di Istituzioni di diritto romano dal 1971, successivamente al suo ingresso in magistratura spostò i suoi interessi verso il diritto amministrativo e costituzionale. I principali risultati in questo settore hanno riguardato una nuova configurazione della responsabilità amministrativa e la tesi della risarcibilità del danno pubblico ambientale. Dopo avere insegnato per alcuni anni nell’Università degli Studi di Pavia, parallelamente al suo impegno come magistrato, dal 1991 al 1998 è stato titolare della cattedra Jean Monnet Diritto della Comunità Europea per il patrimonio culturale ed ambientale presso l’Università degli Studi della Tuscia a Viterbo. In questo periodo si è occupato, in numerosi scritti, anche dei profili istituzionali ed ordinamentali dell’Unione europea. Presidente dell’associazione di promozione sociale Attuare la Costituzione dal 2017. Dal 5 settembre 2019 è a capo della Consulta sul Debito del Comune di Napoli (Audit).
Maddalena è entrato nella Magistratura della Corte dei Conti nel 1971. Dopo un lungo periodo trascorso presso la Procura Generale, nell’ultimo periodo, dal 1995, è stato Procuratore regionale del Lazio della magistratura contabile. Ha avuto modo di applicare le tesi da lui prospettate in sede scientifica sia collaborando allo svolgimento di numerose istruttorie, in particolare su temi ambientali, sia svolgendo incarichi di diversa natura. Tra l’altro ha fatto parte del gruppo Ecologia e Territorio istituito presso la Corte suprema di cassazione, ed è stato Capo di gabinetto del ministro della Pubblica istruzione Gerardo Bianco (1989-1991) e Capo ufficio legislativo presso il Ministero dell’ambiente.
Dopo una lunga carriera nella quale ha coniugato l’attività di studio e ricerca nei settori del diritto romano, diritto amministrativo e costituzionale e diritto ambientale con le funzioni di magistrato, culminate con la nomina alle funzioni di presidente di sezione della Corte dei conti, il 17 luglio 2002 è stato eletto alla Corte costituzionale nella quota riservata alla magistratura contabile. Ha assunto le sue funzioni dopo aver giurato il 30 luglio dello stesso anno.
Il 10 dicembre 2010 è stato nominato vicepresidente della Corte dal neoeletto presidente Ugo De Siervo, carica nella quale è stato riconfermato il 6 giugno 2011 dal neoeletto presidente Alfonso Quaranta. Tra il 30 aprile 2011 e il 6 giugno dello stesso anno ha svolto le funzioni di presidente della Corte. Il suo mandato alla Consulta è giunto a termine il 30 luglio 2011.
Il 1 aprile 2014 è stato nominato esperto a titolo gratuito dal Sindaco di Messina Renato Accorinti, per le politiche di giurisdizione costituzionale per i beni comuni.[1] Nel 2016 ha espresso posizioni vicine al movimento No Cav schierandosi a favore della tutela delle Alpi Apuane. Il 16 gennaio 2022 viene indicato da 40 parlamentari, per la maggior parte fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle come candidato per l’elezione del Presidente della Repubblica Italiana del 2022.
Moneta parallela all’euro
In passato Maddalena propose una moneta parallela all’euro: “L’antico pensiero economico e produttivo di stampo keynesiano – scriveva il giurista – prevedeva una distribuzione della ricchezza anche alla base della piramide sociale. E il maestro di Mario Draghi, Federico Caffè, si ispirava agli insegnamenti di Keynes. Purtroppo il sistema di stampo keynesiano è stato trasformato in un sistema economico patologico e predatorio di stampo neoliberista. E il sistema neoliberista vuole tutta la ricchezza concentrata nelle mani di pochi: autostrade, frequenze televisive, acqua, rotte aeree. Il primo vero problema da affrontare, per uscire dalle crisi ambientale, sanitaria e economica nelle quali siamo caduti, è quello che riguarda il tema importantissimo, ma stranamente trascurato, della “creazione del danaro dal nulla”. La moneta non nasce in natura, ma è creata dalla mano dell’uomo, e, in pratica, o dallo Stato, o dalle banche, che al momento sono tutte private. E privata è anche la Bce che è oggetto di proprietà delle banche centrali private dei singoli Stati europei. Insomma utilizziamo una moneta a debito anziché una moneta a credito, emessa direttamente dallo Stato che, per giunta, ha anche la capacità, come suol dirsi, di “monetizzare il debito”, cioè di pagare i debiti con l’emissione di nuova moneta e non con la creazione periodica di nuovi debiti, come oggi avviene”.
Paolo Maddalena per ilfattoquotidiano.it il 22 febbraio 2022.
Il governo Draghi, dopo aver disposto la vendita agli stranieri di tutti i servizi pubblici essenziali (Ddl Concorrenza Art. 6) e, in particolare, della distribuzione dell’acqua (emendamento 22.6 al Dl Recovery), con decreto ministeriale del 19 febbraio 2022, ha disposto la messa a gara della compagnia di bandiera Ita Airways.
Con tali atti Draghi dimostra di diventare in pratica l’esecutore delle multinazionali e della finanza internazionale per la liquidazione dell’intero patrimonio pubblico del Popolo italiano.
Egli agisce in palese contrasto con la Costituzione, la quale considera i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia, le situazioni di monopolio e le industrie strategiche (art. 43 Cost.) in proprietà pubblica demaniale del Popolo, ai sensi del comma uno, primo alinea, dell’articolo 42, il quale sancisce che la proprietà è pubblica e privata.
È chiaro che svendendo l’intero demanio pubblico lo Stato italiano resta nella impossibilità di garantire a tutti i servizi pubblici indispensabili per la vita di tutti i cittadini.
Infatti alle entrate del bilancio statale vengono sottratti i molto lauti guadagni che provengono dalla gestione dei servizi pubblici essenziali, e alla pubblica amministrazione non resta altro, per soddisfare i bisogni della popolazione, se non la possibilità dell’aumento delle imposte, le quali riducono la domanda e impediscono lo sviluppo economico, distruggendo posti di lavoro, portando tutti a una ineliminabile miseria.
In sostanza il governo Draghi non si accorge che, con queste operazioni, sta distruggendo il nostro Stato-Comunità, rendendolo schiavo degli Stati economicamente più forti a cominciare da Germania e Francia. E tutto questo mentre i media di tutto parlano, tranne che della rovina economica nella quale siamo indirizzati.
È indispensabile che gli uomini di buona volontà, pure esistenti nel Paese, svolgano una incisiva azione di divulgazione di questo stato di cose, e che il maggior numero possibile di cittadini adiscano la via giudiziaria con il fine di portare davanti alla Corte costituzionale queste disposizioni legislative tanto dannose per gli interessi generali.
E a tal proposito si ricorda che i cittadini singoli o associati sono legittimati ad agire in giudizio: in quanto parte della collettività (art. 2 Cost.), in quanto titolari del diritto di partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2, Cost.) e in quanto autorizzati a svolgere attività di carattere generale secondo il principio di sussidiarietà (art. 118, comma 4, Cost.).
Siamo davvero ad una svolta decisiva e, se non facciamo attuare nel settore economico la nostra Costituzione, ci aspetta soltanto un futuro di schiavitù sotto lo schiacciante potere economico delle multinazionali e della finanza internazionale.
Si tratta di adempiere al dovere sacro del cittadino di difendere la Patria, secondo quanto sancisce il primo comma, primo alinea, dell’articolo 52 Cost. Come al solito, e con maggiore apprensione, invito tutti ad attuare gli articoli 1, 2, 3, 4, 9, 11, 41, 42, 43 e 118 della nostra Costituzione repubblicana e democratica.
Chi è Elisabetta Belloni, tra i candidati a presidente della Repubblica. Corriere della Sera il 27 Gennaio 2022.
Elisabetta Belloni, ambasciatrice, è la prima donna a raggiungere il vertice dei servizi segreti: il suo è tra i nomi di cui si parla per il Quirinale, in queste ore.
Il nome di Elisabetta Belloni — la diplomatica ora alla guida del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza — è tra quelli per la scelta del prossimo presidente della Repubblica. Belloni, 63 anni, romana, è stata nominata lo scorso anno da Mario Draghi Direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. In precedenza aveva ricuperto il ruolo di segretario generale del ministero degli Esteri, dove è stata sostituita dall’ambasciatore Ettore Sequi. Belloni è la prima donna ad arrivare ai vertici dell’intelligence (dopo essere stata la prima donna a guidare l’Unità di crisi, la prima donna a dirigere la Cooperazione allo Sviluppo, la prima donna capo di Gabinetto di un ministro degli Esteri, la prima donna a dirigere tutta la macchina della Farnesina). A pesare, come scritto qui da Fiorenza Sarzanini, è stata la sua grande esperienza: per anni capo dell’unità di crisi della Farnesina, Belloni ha gestito i sequestri degli italiani in Iraq lavorando fianco a fianco con gli 007 e diventando punto di raccordo per l’azione del governo per la liberazione degli ostaggi, ma anche punto di riferimento per le famiglie. Da segretario del ministero degli Esteri si è occupata dell’organizzazione della Farnesina. Come raccontato in questo ritratto di Marco Galluzzo, Belloni adora camminare: «esce di casa alle prime luci dell’alba, tuta e scarpe da ginnastica, impiega un’ora per arrivare alla Farnesina. Ogni giorno, che sia sole o pioggia cambia poco. Alle sette e mezza si è già fatta una doccia ed è alla sua scrivania. Autorevole ma non autoritaria, una capacità eccezionale di relazioni esterne, intese come tali ma anche umane, nel mondo diplomatico, economico, istituzionale, compreso quello dei Servizi, con cui ha lavorato fianco a fianco quando dirigeva l’Unità di crisi. Non si stacca mai dal suo cellulare, ma stacca veramente quando nel weekend si gode la sua casa nella campagna aretina, insieme ai suoi adorati tre pastori alsaziani e alle gioie di un orto che ama curare con le sue mani». Nel corso della carriera, è stata candidata diverse volte, con un profilo tecnico, anche per cariche politiche: da ministra degli Esteri a presidente del Consiglio. Come in queste ore.
Quirinale, chi è Elisabetta Belloni, la riserva della repubblica ideale. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 24 Gennaio 2022. Uno dei nomi più evocati nelle ultime ore sia per palazzo Chigi che per il Quirinale è quello di Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti.
Il curriculum dell’ex segretario generale vicinissima a Di Maio è prova sufficiente della sua competenza sopra la media, ma Belloni è stata brava a coltivare i propri rapporti con tutto l’establishment italiano.
Il fatto di non essere legata a nessun partito potrebbe rappresentare un limite per la sua elezione: tutto l’arco parlamentare la stima, ma si discute dell’opportunità di mandarla a palazzo Chigi e di come possa accoglierla il paese da presidente della Repubblica.
LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.
Quirinale, Elisabetta Belloni presidente dalla Repubblica? "Quella ha in mano i dossier", chi piomba nel panico in Parlamento. Libero Quotidiano il 27 gennaio 2022.
Salgono le quotazioni di Elisabetta Belloni al Quirinale e i parlamentari, rivela Aldo Cazzullo nella sua diretta sul sito del Corriere, sono già nel panico. "Quella ha i dossier di tutti… Io non ho niente da nascondere, per carità…però, insomma…". La Belloni infatti, è il capo dei Servizi segreti, e ora potrebbe diventare presidente della Repubblica, visto che il suo nome convince tutti, da Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni a Enrico Letta.
Ma appunto si solleva una questione di opportunità. Il problema, infatti, è che Elisabetta Belloni passerebbe dal ruolo di capo dei Servizi segreti a ricoprire la prima carica dello Stato. "Non viviamo in una democrazia dimezzata o in uno stato autoritario. Il capo dei servizi segreti, chiunque sia, non può assurgere a ruoli istituzionali per inadeguatezza della funzione e potenziale potere di condizionamento, tantomeno può concorrere ai vertici dello Stato", ha attaccato il senatore del Psi Riccardo Nencini in una nota. "Un'Italia che percorresse strade sudamericane o emulasse la Russia di Putin tradirebbe la sua storia repubblicana è lo spirito della costituzione".
Evidentemente non è l'unico a pensarla così. E al di là delle questioni puramente istituzionali, la sua figura inquieta più di qualche deputato e di qualche senatore.
Luca Pellegrini per repubblica.it il 27 gennaio 2022.
Quirinale, Mastella: "Belloni al Colle? È come se un portiere volesse fare il centravanti". "Ufficialmente sono perché il capo dei servizi segreti italiani diventi il capo del mondo. A dire il vero, avrei preferito che arrivasse qua con la veste di segretario della Farnesina, non come capo dei servizi segreti": così Clemente Mastella, lasciando Montecitorio, commenta la possibilità di eleggere al Quirinale Elisabetta Belloni. "Sarebbe giusto che continuasse a ricoprire il ruolo suo - continua l'ex Guardasigilli e attuale sindaco di Benevento - ma qui nessuno lo vuole giocare, come se il portiere volesse diventare centravanti. E vale anche per Draghi, essere a Palazzo Chigi è un incarico prestigioso".
Le manovre della Farnesina. Il mistero Belloni e il caso Kostin, l’ombra della Farnesina. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
Tre governi europei ieri hanno riunito il gabinetto di guerra. Le manovre militari russe, che oggi impegneranno quasi diecimila militari sul campo, premono sui confini ucraini. La telefonata di Biden a Draghi non ha sortito gli effetti sperati: complice l’appuntamento istituzionale più importante, l’Italia sembra distratta. E anche intorno al Colle si nota qualche strana manovra, qualche manina che proviene dalle barbe finte. Quel mondo si interroga da giorni sulla misteriosa vicenda della candidatura anomala del capo del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, l’apprezzatissima Elisabetta Belloni.
Per la prima volta nella storia repubblicana il direttore dei servizi segreti ha fatto capolino quale possibile Capo dello Stato. Naturale che si sia accesa subito la caccia grossa sui nomi dei suoi propugnatori. Belloni dell’iniziativa non era informata e – per chi ne conosce lo stile – si può immaginare con quale fastidio l’abbia accolta. Ma neanche si può immaginare che chi governa l’intelligence ne sia potuta rimanere al buio fino all’ultimo. Ci dice il direttore di una prestigiosa fondazione geopolitica: “Non può che essere stato un ballon d’essai della Farnesina, ovviamente in chiave anti-Draghi”. Si scherza col fuoco.
E sul dialogo e sugli eccessi di diplomazia con Mosca c’è chi punta il dito verso il Ministero degli esteri per un caso serio: con Decreto del Presidente della Repubblica formalizzato sulla Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio scorso, su proposta del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è stata conferita l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine della «Stella d’Italia» a due cittadini russi Andrey Kostin (banchiere) e Viktor Evtukhov (sottosegretario di Stato al Ministero dell’Industria e Commercio Estero). Entrambi oggetto di pubbliche denunce per utilizzo scorretto di denaro pubblico da parte del dissidente russo Alexei Navalny. Andrey Kostin è sottoposto a sanzioni da parte dei governi di USA e Canada, dove non può mettere piede per “il suo ruolo chiave nel portare avanti politiche nocive di Putin”.
Altroché medaglie, sottolineano i Radicali Italiani che per primi hanno rilevato l’affaire: “Constatiamo che il Movimento 5 Stelle ha svoltato di 180 gradi su quasi tutte le posizioni politiche assunte in passato, tranne che per i suoi ammiccamenti con il regime di Mosca. Tale ambiguità, da parte non di un esponente di partito ma di un ministro degli Esteri di un Paese membro della Nato, nel giorno in cui gli Stati Uniti hanno iniziato ad evacuare la loro ambasciata a Kiev, è francamente vergognosa ed inaccettabile”, dicono in coro i dirigenti di Radicali Italiani Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini, Igor Boni.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Dalla Farnesina agli incarichi con i governi Berlusconi, Renzi, Conte e Draghi. Chi è Elisabetta Belloni, la diplomatica che potrebbe essere la prima donna Presidente della Repubblica. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Gennaio 2022.
È la prima donna a capo degli 007 italiani e potrebbe essere anche la prima Presidente della Repubblica italiana donna. Elisabetta Belloni, 63 anni, potrebbe essere il nome che mette insieme tutti anche perché dal suo curriculum sembrerebbe piacere a tutti i colori politici.
Belloni è una stimata diplomatica, ha collaborato con ministri politici di tutti gli schieramenti, riuscendo però a non schierarsi mai. Tanto che non è chiaro per chi voti. A maggio 2021, è stata nominata dal premier Mario Draghi direttore generale del dipartimento delle Informazioni per la sicurezza, un ruolo delicatissimo che è coperto da una donna per la prima volta nella storia italiana.
Belloni si è laureata in Scienze politiche nel 1982 alla Luiss di Roma cominciando presto – a soli 27 anni – la sua carriera diplomatica alla Farnesina, presso la Direzione generale degli Affari politici (era il 1985). Un anno dopo Belloni si trasferisce prima a Vienna, poi a Bratislava dove rimane fino al 1999, quando rientra in Italia, al ministero degli Esteri. Lì ricopre il ruolo di capo della segretaria della Direzione per i Paesi dell’Europa, capo dell’Ufficio per i Paesi dell’Europa centro-orientale e capo della segretaria del Sottosegretario di Stato agli Esteri.
Nel 2004 l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini (Forza Italia, governo Berlusconi) la nomina capo dell’unità di crisi della Farnesina. Ruolo in cui la confermerà subito dopo Gianfranco Fini, subentrato al ministero. Belloni gestisce, in quel caso, dossier delicatissimi come il rapimento di cittadini italiani in Iraq e Afghanistan e si occupa anche del coordinamento delle ricerche a seguito dello tsunami in Thailandia. Nel 2008, invece, ancora Frattini la nomina direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo. Nel 2013, sotto il governo tecnico guidato da Mario Monti (oggi senatore a vita, dunque “grande elettore”), Belloni diventa direttore generale per le Risorse e l’Innovazione, su richiesta del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata.
Nel 2015 il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni (governo Renzi) la chiama come capo di gabinetto per poi nominarla segretaria generale del ministero degli Esteri, prima donna a ricoprire questo incarico. Ruolo che continuerà ad avere anche con i successivi governi presieduti da Giuseppe Conte, diventando un punto di riferimento prezioso anche per Luigi Di Maio, ministro degli Esteri. Belloni resta segretaria generale fino alla nomina di Draghi alla guida dei servizi segreti.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Da corriere.it il 24 gennaio 2022.
Il caso Sara Cunial continua a tenere banco. La deputata ex M5S, dichiaratamente no vax e no green pass (il certificato verde è necessario per entrare a Montecitorio), chiede di poter votare nella postazione esterna riservata ai grandi elettori positivi o in quarantena. La parlamentare non ha intenzione di spostarsi.
«Sono sana e chiedo di poter votare il Presidente come è mio diritto costituzionale fare, non vedo perché non possa votare come i malati di Covid sia vaccinati che non». E ancora: «Non far votare un cittadino prima ed un parlamentare poi perché sano è un affronto alla democrazia, alla legge e alle istituzioni».
L'aria che tira, Gasparri travolge Molinari: "Morta una persona, un po' di rispetto". Quel titolo agghiacciante su Repubblica. Libero Quotidiano il 24 gennaio 2022.
"Sono molto triste per la morte di questo nostro parlamentare, Enzo Fasano, una persona seria e perbene": Maurizio Gasparri, ospite di Myrta Merlino a L'Aria che tira su La7, ha iniziato così il suo intervento, ricordando il deputato scomparso ieri. Approfittando della presenza del direttore di Repubblica, poi, il senatore di Forza Italia ha detto: "Voglio dire una cosa a Maurizio Molinari. Ieri Repubblica titolava: 'I grandi elettori scendono a 1.008'. Un po' più di calore e rispetto quando muore una persona, non è solo un numero".
Gasparri, poi, ha lanciato una proposta: "Se Repubblica facesse qualcosa di più caloroso per riparare a questo modo statistico di dare la notizia sarebbe apprezzato". Poi, cambiando argomento, il senatore azzurro ha dichiarato: "Berlusconi non ha voluto dare luogo a spaccature e divisioni. Adesso però il veto su Berlusconi sembra, nelle parole di Enrico Letta, essere stato trasferito su chiunque non sia della sinistra".
Quirinale, sfregio di Roberto Fico al deputato di Forza Italia morto: "Niente minuto di silenzio", sconcerto in Parlamento. Libero Quotidiano il 24 gennaio 2022.
Roberto Fico ha declinato la proposta di osservare un minuto di silenzio per ricordare Enzo Fasano. È accaduto durante il primo giorno di votazione per il prossimo capo dello Stato. Qui il presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, ha chiesto al collega della Camera dei deputati di richiamare alla memoria il deputato di Forza Italia, scomparso alla vigilia del voto per il Quirinale.
A ricostruire l'accaduto è stata l'Adnkronos. Fico, racconta l'agenzia, avrebbe consultato il segretario generale della Camera Fabrizio Castaldi, salvo poi soprassedere. Le motivazioni non sono ufficiali, ma stando ad alcune ipotesi dietro la decisione dell'esponente del Movimento 5 Stelle ci sarebbe il protocollo. Quest'ultimo non prevederebbe la richiesta della Casellati. A maggior ragione perché questo caso l'Assemblea è seggio elettorale.
Ma quanto accaduto nella giornata del 24 gennaio non sarebbe il solo episodio. È tornato infatti d'attualità un precedente risalente al 24 giugno 1985. In quell'occasione la presidente Nilde Iotti, nella seduta comune del Parlamento, espresse il cordoglio per la scomparsa il giorno prima del senatore della Dc Angelo Tomelleri, senza che venisse osservato il minuto di silenzio. Accadde lo stesso anche il 24 maggio del 1992, dopo la commemorazione di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta uccisi nella strage di Capaci. In quel caso il presidente Oscar Luigi Scalfaro non invitò l'Aula a osservare un minuto di silenzio. "Richiamiamo la nostra volontà a responsabilità più alte; diamo al popolo italiano la percezione di un mondo politico responsabile che sente l'urgenza di una unità di intenti e di una volontà viva e vera per servire, non per dominare. Colleghi, il silenzio sia la sottolineatura di questo impegno; le vittime del dovere e le vittime civili siano richiamo", furono le sue parole.
II GIORNO DI VOTAZIONI
Il live minuto per minuto della seconda giornata. Elezione Presidente della Repubblica, la diretta del voto: Letta boccia la rosa del centrodestra e chiede un conclave, rabbia Lega contro veti. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
In attesa dei candidati veri, la prima giornata dedicata all’elezione del 13esimo presidente della Repubblica si è conclusa con una valanga (672) di schede bianche su un totale di 976 votanti. Oggi, martedì 25 gennaio, si torna a Montecitorio per la seconda votazione in programma a partire dalle 15.
Il successore di Sergio Mattarella (che ha in diverse occasioni ribadito che non è in corsa per un secondo mandato) sarà il 13esimo Presidente della Repubblica Italiana. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.
Causa covid-19 si terrà una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.
Caos e ore di trattative febbrili tra i partiti. Il leader e fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi ha sciolto la riserva: fallita l’operazione scoiattolo, ha rinunciato alla corsa al Quirinale. Scricchiola la candidatura del Presidente del Consiglio in carica, dato da mesi per favorito, Mario Draghi. Ancora preso in considerazione per alcuni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Le ipotesi Pierferdinando Casini e Giuliano Amato ancora in corsa, come quelle di Marta Cartabia ed Maria Elisabetta Alberti Casellati. New entry della giornata di ieri: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e la direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni.
00:30 – Elezioni presidente Repubblica, tutte le preferenze dopo primo scrutinio: da Amadeus a Lotito a Signorini
02:30 – La strategia di Draghi dopo i colloqui con Salvini, Letta e Conte. E spunta l’ipotesi Di Maio premier.
03:30 – Attesa per le proposte del centrodestra promesse da due giorni a questa parte dal leader della Lega Matteo Salvini. L’ex numero uno del Viminale ha ribadito: “Sto lavorando perché nelle prossime ore il centrodestra unito offra non una ma diverse proposte di qualità, donne e uomini di alto profilo istituzionale e culturale, su cui contiamo ci sia una discussione priva di veti e pregiudizi, che gli italiani non meritano in un momento così delicato dal punto di vista economico e sociale”.
Ore 8:35 – Secondo Matteo Renzi l’Italia “avrà un nuovo presidente della Repubblica “non oltre giovedì o venerdì”. In una intervista a Il Messaggero, il leader di Italia viva ritiene che il Presidente sia “l’arbitro imparziale della politica interna per sette anni ma anche un presidente credibile in politica estera: le tensioni tra Russia e Ucraina, le sfide globali tra Stati Uniti e Cina, la crisi della Nato richiedono che il nuovo inquilino del Quirinale sia un leader forte, garante del patto atlantico e dal marcato profilo europeista. Si tratta di raccogliere anche su questo l’eredità di tre grandi presidenti quali Ciampi, Napolitano e Mattarella”. Renzi lancia “un appello alla serietà: non perdiamo altro tempo. La crisi geopolitica, la pandemia, l’inflazione, il costo delle bollette e delle materie prime chiedono alla politica di non buttare altro tempo”. Per Renzi c’è “sola una ipotesi in campo: Draghi al Quirinale con un grande accordo politico. L’altra no. L’idea di perdere Draghi anche come premier infatti non sta in piedi: può lasciare Chigi solo per un trasloco istituzionale. Altrimenti si scelga un uomo o una donna di equilibrio per la funzione di Capo dello Stato lasciando a Draghi la responsabilità di governo per l’anno e mezzo che ancora ci manca”. “Di tutte le possibilità – conclude – l’unica che non esiste è che Draghi se ne vada da tutto“.
Ore 09:45 – Pier Ferdinando Casini, tra i candidati alla presidenza della Repubblica, si riscopre improvvisamente social. Su Instagram ha pubblicato una foto da giovanissimo (quando guidava i giovani Democratici Cristiani) con la didascalia: “La passione politica è la mia vita!!”.
Ore 10:30 – In mattinata la Lega prova a smorzare gli animi e i retroscena sulle trattative tra Matteo Salvini e Mario Draghi su “un presunto rimpasto”, ovvero sulla trattativa in contemporanea su Palazzo Chigi e Quirinale.
“Non è in corso alcuna trattativa tra il senatore Matteo Salvini e il presidente del Consiglio Mario Draghi a proposito di un presunto rimpasto”, spiega infatti in una nota la Lega. “È infondato e irrispettoso per il senatore Salvini e per il presidente Draghi immaginare che in questa fase, anziché discutere di temi reali, siano impegnati a parlare di equilibri di governo”.
Ore 11:40 – L’accordo tra i partiti su un nome condiviso per il Colle appare lontano. Il centrodestra si riunirà alle 15 per un vertice in cui verranno fuori i candidati da proporre alle altre forze in Parlamento: secondo l’Agi ci saranno Letizia Moratti, Marcello Pera, Maria Elisabetta Casellati e Carlo Nordio (fuori dunque Frattini e Casini). I nomi verranno poi ufficializzati in una conferenza stampa convocata alle 16:30 alla Camera.
Dal Nazareno però fonti Pd rilanciano e annunciano un ‘no’ certo a figure come lo stesso Pera, Casellati o simili.
Ore 12:30 – Appare ormai fuori dai giochi la candidatura al Colle di Franco Frattini. Le quotazioni dell’ex ministro degli Esteri di Berlusconi, attuale presidente del Consiglio di Stato, erano date in forte rialzo anche per una probabile convergenza sul suo nome di Salvini e Conte.
Una proposta su cui però hanno fatto muro Italia Viva e Partito Democratico. Colpa delle posizioni filorusse di Frattini mentre in Ucraina si sta infiammando lo scontro tra Mosca e i Paesi della Nato. Opinione condivisa di Enrico Letta e Matteo Renzi è che in una fase delicata per la crisi Ucraina serva un profilo di presidente della Repubblica “europeista e atlantista”.
Ore 12:50 – Il vertice del centrodestra è stato anticipato di mezz’ora: si terrà infatti alle 14:30, con la conferenza stampa che verrà svolta alla Camera alle 16.
Ore 13:20 – Anche i leader del centrosinistra ‘allargato’, ovvero Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, si incontreranno nel pomeriggio per fare il punto della situazione. Un vertice fissato alle 15, quando inizierà anche la seconda giornata di voto nell’Aula della Camera.
Da 5 Stelle, Partito Democratico e Leu l’indicazione è ancora quella di confermare la scheda bianca.
Ore 14:30 – Matteo Salvini ribadisce il no al trasloco di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Il leader della Lega nei minuti che hanno preceduto l’avvio del vertice di coalizione ha riferito ai cronisti fuori Montecitorio che il premier “già lavora bene a Palazzo Chigi”, smarcandosi ancora una volta da tale ipotesi.
Salvini ha quindi confermato l’esclusione dalla ‘rosa’ dei candidati di Pier Ferdinando Casini e di Franco Frattini, attuale presidente del Consiglio di Stato ed ex ministro degli Esteri dei governi Berlusconi: “Nessuno lo ha ancora fatto eppure è stato già bocciato”. Quindi una sottolineatura ambigua: “I nomi che proporremo non hanno neanche una tessera di partito”, ha spiegato Salvini.
Ore 15:15 – Arriverà dopo le 17 la risposta del centrosinistra sui ‘Quirinabili’. Pd, 5 Stelle e Leu attenderanno infatti la conferenza stampa di Salvini e soci in cui verrà avanzata la lista dei candidati per fare una controproposta.
Ore 16:20 – L’ex premier Matteo Renzi chiede di iniziare a tirare fuori i candidati: “Chi ha un candidato lo tiri fuori. Il centrodestra ha diritto di avanzare la candidatura. Ma questo non è uno show”. Poi suggerisce: “Spero che la presidenza inizi a far votare due volte al giorno perché c’è una crisi pesantissima in Ucraina, la crisi economica su energia e gas, regole assurde a scuola per la dad, almeno il Parlamento abbia la consapevolezza di quello che si sta giocando. Il mio è un appello a fare presto”.
Ore 16:33 – Tre nomi per la corsa al Quirinale. Sono quelli lanciati dal centrodestra nella conferenza stampa tenuta a Montecitorio. Matteo Salvini ha annunciato per la corsa al Quirinale l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex magistrato Carlo Nordio e l’attuale assessore regionale lombardo (ex sindaco di Milano ed ex ministro) Letizia Moratti.
Ore 16:45 – Nel corso della conferenza stampa, Giorgia Meloni ha ricordato che “gli ultimi 4 presidenti della Repubblica sono stati proposti dal centrosinistra, in un paese in cui si dice che la maggioranza sia di centrodestra. Rivendico rispetto da chi dice che qualsiasi proposta del centrodestra sarà respinta”. Poi aggiunge: “Sono molto soddisfatta della compattezza con cui il centrodestra sta affrontando questa prova. Crediamo sia nostra responsabilità cercare di fare un passo avanti con proposte concrete. Il centrodestra non ha i numeri per eleggere da solo il presidente, ma ha i numeri maggiori e ha il diritto di fare delle proposte e chiedere agli altri di esprimersi”.
Ore 16:55 – Sempre nel corso della conferenza, Salvini ha voluto anche rimarcare come nei tre nomi proposti non ci sono “dirigenti di partito anche se ovviamente, e lo dico io, c’è qualcuno a questo tavolo che non avrebbe un titolo ma tantissimi per ambire a questa carica, a proposito di europeismo, atlantismo, dimestichezza con le diplomazie”.
Ore 17:20 – Anche Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, chiude all’ipotesi Draghi al Quirinale: “Se abbiamo affidato a un timoniere questa nave in difficoltà, non ci sono le condizioni per fermare i motori e cambiare l’equipaggio. La nostra nave è ancora in difficoltà”. Sui tre nomi avanzati dal centrodestra commenta: “Rispettiamo proposte ma ci riserviamo di fare valutazioni”.
Ore 18:20 – Il patto tra Conte e Salvini: “Draghi resti premier”, Letta e il Pd furiosi
Ore 18:40 – Iniziato lo spoglio alla Camera dopo la seconda votazione. Molte le schede bianche annunciate dal presidente Roberto Fico. Il quorum richiesto è dei due terzi, pari a 673 voti. Anche nella seconda giornata di votazioni compaiono voti per Sergio Mattarella, Pierluigi Bersani, Silvio Berlusconi, Giancarlo Giorgetti e Francesco Rutelli. Ma ci sono preferenze anche per il ‘senatùr’ Umberto Bossi, il premier Mario Draghi, Marco Cappato, Massimo D’Alema, Nicola Gratteri, Fulvio Abbate, Roberto Cassinelli, Claudio Lotito.
Ore 19:20 – Mentre prosegue lo spoglio con la maggiorana delle schede bianche, Giuseppe Conte, Enrico Letta e Roberto Speranza bocciano i tre nomi avanzati dal centrodestra. “Prendiamo atto della terna formulata dal cdx che appare un passo in avanti, utile al dialogo. Pur rispettando le legittime scelte del centrodestra, non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione in questo momento necessario” fanno sapere al termine del vertice di centrosinistra. “Riconfermiamo la nostra volontà di giungere ad una soluzione condivisa su un nome super partes e per questo non contrapponiamo una nostra rosa di nomi”.
Ore 19:22 – Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio lascia Montecitorio e ai giornalisti si limita a dire un “sono ottimista“. Non è chiaro in merito a cosa.
Ore 19:25 – “Nella giornata di domani proponiamo un incontro tra due delegazioni ristrette in cui porteremo le nostre proposte“. Lo afferma una nota congiunta di Giuseppe Conte, Enrico Letta e Roberto Speranza, al termine del vertice congiunto.
Ore 19:41 – Tanti i voti-burla della seconda giornata. Tra le preferenze per il Presidente della Repubblica compaiono Claudio Baglioni, Al Bano e Enrico Ruggieri. Un voto anche per Dino Zoff come ieri. E poi il conduttore Alberto Angela, Giorgio Agamben (il filosofo), e i conduttori Massimo Giletti e Cladio Sabelli Fioretti. Un voto anche per il comico Nino Frassica.
Ore 19:44 – “La proposta che facciamo è quella di chiuderci dentro una stanza e buttiamo via le chiavi: pane e acqua, fino a quando arriviamo a una soluzione, domani è il giorno chiave” ha dichiarato Enrico Letta, segretario del Pd, all’uscita da Montecitorio.
Ore 20:05 – I voti più strani a Presidente della Repubblica: “Ma chi sono?”
Ore 20:10 – Sulla stessa linea di Letta, ovviamente, anche le dichiarazioni di Giuseppe Conte. “Oggi abbiamo deciso di non presentare una rosa di nomi. In questo modo acceleriamo il dialogo con il centrodestra con l’impegno di trovare nelle prossime ore una soluzione condivisa” ha spiegato l’ex presidente del Consiglio e leader dei 5 Stelle. “L’Italia non ha tempo da perdere. Non è il momento del muro contro muro“, ha aggiunto Conte.
Ore 20:20 – Ufficiale la seconda ‘fumata nera‘ di queste elezioni per il presidente della Repubblica. Come previsto infatti a stravincere sono state le schede bianche, 527, con 976 votanti su 1009 grandi elettori.
I più votati sono stati l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella e Paolo Maddalena (39), seguiti da Renzo Tondo (18) Roberto Cassinelli (17), Ettore Rosato (14), Umberto Bossi (12) Giancarlo Giorgetti, Luigi Manconi e Marta Cartabia (8), Silvio Berlusconi e Giuseppe Moles (7) e Nicola Gratteri (6).
Ore 21:50 – Il ‘no’ di Letta, Conte e Speranza alla terna dei nomi proposta dal centrodestra per il Quirinale agita la Lega. Il Carroccio infatti tramite fonti ha fatto filtrare l’irritazione per la bocciatura della ‘rosa’ composta da Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera.
“A differenza di chi cambia idea dopo poche ore, la Lega continua a lavorare con contatti a tutto campo. Restiamo convinti dell’assoluto spessore delle candidature presentate oggi per il Quirinale, ed è evidente la differenza tra noi e chi dice no a ripetizione e mette veti”, spiegano fonti del partito di Salvini.
Ore 22:20 – L’irritazione di Salvini avrà in realtà anche un altro bersaglio, perché anche Matteo Renzi boccia i tre nomi proposti dal centrodestra per la presidenza della Repubblica. Il leader di Italia Viva, ospite di Cartabianca su Rai 3, esprime infatti un giudizio netto: “Sono tre nomi di livello ma credo che domani non voteremo i candidati di centrodestra: il presidente della Repubblica non è un giudizio sulla persona, ma è la scelta del candidato più adatto a fare il presidente della Repubblica”.
La tradizione allo spoglio. I voti più strani a Presidente della Repubblica: “Ma chi sono?” Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
“Ma chi sono?”, ha scandito perfino Enrico Mentana a un certo punto della sua diretta su La7, mentre il Presidente della Camera Roberto Fico leggeva e passava i fogli con le preferenze alla Presidente del Santo Maria Elisabetta Alberti Casellati. E chi sono allora? Alcuni sconosciuti, altri che impegnano le redazioni a scovare profili e biografie, molti vip come sempre. E a Montecitorio, nel secondo giorno di votazioni per il prossimo Capo dello Stato, è andato in scena il consueto teatrino delle preferenze creative e buffe.
Il portiere della Nazionale Campione del Mondo nel 1982 Dino Zoff, il cantautore Claudio Baglioni, il divulgatore scientifico Alberto Angela, i cantanti Albano ed Enrico Ruggeri, il presentatore e direttore artistico del Festival di Sanremo Amadeus che già era stato tirato in ballo ieri, lo storico Alessandro Barbero. Un voto persino per Aldo Moro. Un altro per il sociologo Domenico De Masi. Varia umanità, molto spettacolo, sport: c’è chi si diverte insomma in queste ore di stallo a Montecitorio.
Dino Zoff
Claudio Baglioni
Enrico Ruggeri
Alberto Angela
Roberto Mancini
Claudio Lotito
Giorgio Agamben
Massimo Giletti
Claudio Sabelli Fioretti
Alfonso Signorini
Mauro Corona
Giuseppe Cruciani
Antonio Razzi
Christian De Sica
Giorgio Lauro
Claudio Sabelli Fioretti
Fulvio Abbate
Francesco Verderami
Giovanni Rana
Enrico Chiapponi
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
I voti-burla e il tempo dei pagliacci. Francesco Maria Del Vigo il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Giovanni Rana, Enrico Ruggeri, Nino Frassica, De Sica, Alberto Angela, Amadeus, Al Bano, Antonio Razzi, Mauro Corona. E sono solo alcuni dei tanti.
Giovanni Rana, Enrico Ruggeri, Nino Frassica, De Sica (non si sa quale, ed essendo una stirpe è difficile capirlo), Alberto Angela (in questo caso siamo sicuri, ma onore anche al padre, ingiustamente trascurato), Amadeus (temiamo non si tratti di Mozart), Al Bano, Antonio Razzi, Mauro Corona. E sono solo alcuni dei tanti. Cos'hanno in comune tutti questi personaggi? La risposta normale sarebbe questa: sono, a vario titolo, dei vip; nomi di spicco dell'imprenditoria, della musica, del cinema, della cultura o della televisione. Risposta normale in un Paese normale. Dunque risposta errata. Sono alcuni - solo alcuni perché la lista completa è decisamente più lunga - dei nomi che i nostri parlamentari, ieri, hanno votato come Presidente della Repubblica. Tutti personaggi rispettabilissimi, alcuni persino più credibili e rappresentativi dei vari «signor nessuno» che hanno fatto capolino nei vari retroscena giornalistici. Ma non confondiamo il veglione di Capodanno e il trenino in diretta tv con il discorso del Presidente a reti unificate: nonostante tutti i vani tentativi della politica di autodelegittimazione, l'elezione del capo dello Stato rimane una cosa seria. La scheda con la quale i «grandi» elettori votano non è un meme come quelli che i «piccoli» cittadini usano per candidare Rocco Siffredi o Topolino al Quirinale nei loro post su Facebook.
Beh, è sempre successo - obietterà qualcuno - in ogni elezione presidenziale qualche burlone si è divertito a scarabocchiare un nome impossibile. Vero, ma ogni cosa ha il suo tempo e questo non è esattamente quello dei pagliacci. O, per lo meno, non dovrebbe esserlo. E non c'è nulla di peggio di un comico che non riesce più a fare ridere, di una battuta che viene accolta dal silenzio imbarazzato della sala. Questo ora è l'effetto dei voti beffa. Non è una questione di moralismo, che da queste parti non ha mai albergato, ma piuttosto di pragmatismo.
Le ferite del nostro Paese non si sono ancora cicatrizzate, la pandemia rallenta ma continua a fare paura, l'economia è claudicante e dall'est soffiano venti di guerra che preoccupano tutta l'Unione Europea. Ma i nostri parlamentari hanno, evidentemente, del gran tempo da perdere. Loro sì, l'Italia no. E mai come in questo caso si tratteggia chiaramente la distinzione tra Paese reale e Paese virtuale. Tra chi lavora e chi si balocca. Ci sono decine di milioni di cittadini incollati a televisori e pc nel tentativo di seguire un'elezione tanto importante quanto complessa, sempre più simile a un rebus del quale si è persa la soluzione. Cittadini che non meritano lo spettacolo dei politici che si spernacchiano da soli.
Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.
Fondatore dell'Intergruppo Parlamentare 2.0 per l'innovazione. Chi è Roberto Cassinelli, avvocato e deputato di Forza Italia votato per diventare presidente della Repubblica. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Genovese, avvocato, liberale, interista, deputato al Parlamento. Già senatore della Repubblica. Fuori dai radar fino al momento in cui il presidente della Camera Fico ha iniziato lo spoglio. È nato a Genova il 10 Dicembre 1956. Ha conseguito la maturità classica presso il Liceo “Vittorino da Feltre” di Genova, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università statale di Milano.
È avvocato, patrocinante presso la suprema Corte di Cassazione ed è stato per due mandati consigliere dell’Ordine degli Avvocati del Foro di Genova. Opera prevalentemente nel settore civile ed amministrativo, con particolare riferimento al diritto societario, bancario, finanziario, fallimentare ed alla contrattualistica. Svolge attività di consulenza ed assistenza legale per istituti bancari e di credito di rilevanza nazionale ed europea, per gruppi industriali e commerciali, per società di servizi ed enti pubblici. È stato, consigliere di amministrazione, sindaco, commissario giudiziale e commissario straordinario in numerose società. Inoltre è membro del Consiglio dell’Associazione Proprietà Edilizia della Provincia di Genova.
Ha aderito sin da giovanissimo al Partito Liberale Italiano, di cui il padre Giorgio è stato Vicepresidente Nazionale. Con il P.L.I. è stato eletto tre volte al Consiglio Comunale di Genova, nel 1981, nel 1985 e nel 1990. Ha inoltre ricoperto numerosi incarichi pubblici nell’ambito della Fiera internazionale di Genova, delle Unità Sanitarie Locali VIII e XIII, dell’Azienda per l’igiene urbana di Genova, dell’Ente per il diritto allo studio universitario della Liguria e dell’Autorità per i servizi pubblici del Comune di Genova.
Tra i fondatori di Forza Italia in Liguria, ne è stato Vice Coordinatore Regionale dal 1994 al 2006, Commissario Cittadino per la città di Genova dal 2005 al 2007 e Coordinatore Cittadino per la città di Genova, eletto dal Congresso, dal 2007 al 2009. Dal 2005 fino allo scioglimento del Partito ne è stato membro del Consiglio Nazionale. Dalla nascita del Popolo della Libertà ha assunto l’incarico di Coordinatore Vicario per la città di Genova ed è di diritto membro dell’Assemblea dei Parlamentari. Dal giugno 2009 è membro della Consulta nazionale del Pdl sul tema della Giustizia e responsabile nazionale del Dipartimento sul diritto societario e fallimentare del Popolo della Libertà.
Alle elezioni politiche del 13-14 Aprile 2008 è stato eletto alla Camera dei Deputati per il Popolo della Libertà, nella Circoscrizione Liguria. Nella XVI Legislatura è membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Nell’ambito della propria attività di deputato, si occupa prevalentemente di Giustizia, Libere Professioni, Legge & Internet. È fondatore dell’Intergruppo Parlamentare 2.0, un gruppo di deputati e senatori di ogni schieramento che ha l’obiettivo di promuovere le politiche dell’innovazione presso il Parlamento italiano.
Dai canali Rai a lui interamente dedicati a come realizzare il paradiso in Terra. Chi è Mauro Scardovelli, il candidato Presidente della Repubblica che ha raccolto oltre 20mila firme online. Gianni Emili su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Mauro Scardovelli è giurista, psicoterapeuta e musicoterapeuta. È stato professore di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Genova e docente di musicoterapia al Cep di Assisi. Nel 1998 fonda l’associazione Aleph Umanistica, scuola di crescita personale che coniuga la formazione psicologico-relazionale, interiore e spirituale, con quella costituzionale, relativa al mondo esterno.
Vive e lavora a Camogli, insieme a un gruppo di ‘monaci-ricercatori’ che hanno deciso di dedicare la loro vita all’applicazione più integralista non di testi sacri, bensì della Costituzione italiana. Per la sua autoproposta al Colle sono state raccolte oltre 20mila firme online con l’iniziativa ‘Vogliamo Mauro Scardovelli come Presidente della Repubblica’. Nel testo dal titolo ‘Il Nuovo Rinascimento‘ con il quale Scardovelli suggella la sua candidatura in modo entusiastico precisa che “non era la prima volta che ricevevo messaggi in tale direzione”, e si riserva come primo nome di candidare “Paolo Maddalena, che considero il mio Maestro”.
Nel testo che snocciola il programma per un “presidente scelto dal basso, dal Popolo, per ripristinare la legalità Costituzionale, violata da tutte le altre Istituzioni, che hanno tradito la Costituzione, aderendo al modello ad essa antitetico: il Neoliberismo” vengono citati molti “pensatori più illuminati e coraggiosi del nostro tempo”, da Diego Fusaro a Ermanno Bencivenga passando per Fulvio Grimaldi. Rifacendosi alle “dirette come quella di Robert Kennedy a Milano, o del processo di Assange a Londra, o della settimana intera a Trieste a seguire i portuali, o di Firenze dove nessuna televisione voleva andare, a seguire la vicequestore Schilirò, i convegni come l’International Covid Summit, Sapiens³”.
Non manca ovviamente la totale sfiducia nei media: “Tutto questo ha prodotto la Tv dei Cittadini in soli tre mesi guadagnandosi la fiducia di milioni di italiani mentre le redazioni dei TG tradizionali chiudevano per mancanza di ascolti. Siamo arrivati fino a qui solo ed esclusivamente grazie a voi. L’Italia è quel Paese dove i cittadini si pagano una televisione di tasca loro perché quelle grandi li hanno stufati“.
Il primo punto cita testualmente: “Come Presidente della Repubblica scelgo due canali Rai, Rai televisione 1 e Rai radio 1 che siano a me interamente dedicati” poi come esimersi dal “discorso del Presidente di fine anno, trasmesso a reti unificate”. Il programma prosegue poi allontanandosi dall’esaltazione della persona per “valorizzare la nostra piccola impresa, i nostri medici italiani, i nostri fisici italiani” per poi incontrarsi nel punto di convergenza con altri partiti che dall’Europa vogliono uscire. Necessario è il “recupero della sovranità monetaria“.
Le richieste si fanno più nebulose con “l’incompatibilità della democrazia Costituzionale con una popolazione che è fatta, quasi esclusivamente, di narcisisti” di cui non se ne capisce benissimo il fine, e neppure il significato pratico. Seguita da una paventata ‘soluzione’ al problema del “narcisismo dilagante” per poi virare su una fantomatica educazione pedagogica “ai nuovi valori Costituzionali, Spirituali, Cristici”. Non manca l’energia pulita “inesauribile”, l’aspirazione robespierriana di “mettere al servizio dei Popoli, anziché delle élite, le nuove straordinarie tecnologie mediche di ultima generazione, oggi disponibili” da cui, non è chiaro, se sia più importante aiutare i poveri o privare i ricchi.
Sulla salute torna con quello che forse è il punto più oscuro “promuovere la vera medicina: quella preventiva” e poi sulla pandemia: “Covid e vaccini, la mia esperienza personale e l’azione giudiziaria“. Imperdibile infine il punto “Come realizzare il paradiso in Terra“. Una rivoluzione costituzionale dell’Italia che secondo Scardovelli parte “dalla pratica della preghiera come premessa” e che si svolgerà “all’interno di un contesto dove l’humor, il gioco e l’Eros sono sempre presenti e la violenza assente”.
Non c’è bisogno di aggiungere altro. “Quello che facciamo parla da solo”, se no fa niente, dice Scardovelli: “Siam pronti alla morte“.
Vittima due volte di errori giudiziari. Serafino Generoso, chi è l’ex assessore regionale vittima di malagiustizia votato per il Quirinale. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Per due volte arrestato e incarcerato, per due volte assolto con la formula del “fatto non sussiste”. È la storia di malagiustizia che ha visto protagonista Serafino Generoso, fino al 1992 potente assessore ai Lavori Pubblici democristiano della Regione Lombardia, che oggi nel secondo giorno di votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica ha incassato cinque voti.
Avvocato 73enne di Pozzo d’Adda, nell’hinterland milanese, si vide arrestare per la prima volta nel 1992, il 25 novembre, mentre in Regione la sua Dc aveva chiuso l’accordo per la giunta col Psi guidata da Fiorella Ghilardotti.
“Dieci giorni di custodia cautelare per una storia di mazzette negli appalti post alluvione in Valtellina”, raccontò in una intervista al Giornale Generoso, che poche ore dopo quell’intesa “ero a San Vittore”. Una prima vicenda giudiziaria da cui l’assessore democristiano esce assolto e risarcito con 50 milioni di lire.
I magistrati però non si fermano: l’anno successivo il secondo arresto con 21 giorni trascorsi in carcere. Questa volte l’accusa è di tentata concussione in relazione a presunte tangenti per la realizzazione della centrale Enel di Turbigo, in provincia di Milano.
Risultato? Assolto dalla seconda sezione penale del tribunale di Milano, mentre la pm Margherita Taddei aveva chiesto per lui una condanna a 2 anni e 8 mesi di reclusione.
“Sono stato arrestato due volte ed in entrambi i casi assolto perché il fatto non sussiste. Sono contento ma certo c’è tanta amarezza per quello che ho subito. In questi anni ho ripetuto sempre che non c’entravo nulla ma è stato veramente difficile farsi ascoltare”, dichiarava dopo la seconda assoluzione l’ex assessore.
Su quelle vicende, sul suo essere vittima di malagiustizia, Generoso tornerà a parlare in una intervista a Il Giornale del 2011. I problemi, manco a dirlo, erano gli stessi di quelli odierni: “La custodia cautelare resta un problema grave. Andrebbe limitata ai fatti di sangue, e per quelli amministrativi usata solo in casi estremi”, denunciava 11 anni fa Generoso. Non solo, parole nette anche sull’obbligatorietà dell’azione penale, che “si traduce con potere discrezionale. Va abolita, ma è l’intero sistema che va riformato, dai tempi dell’indagine alla responsabilità civile dei magistrati”.
Oggi un ‘riconoscimento’ nei suoi confronti da parte di cinque grandi elettori, che nel segreto dell’urna hanno deciso di ricordare così una delle tante vittima di malagiustizia del nostro Paese.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Pera, Moratti e Nordio: ecco la rosa del centrodestra. I leader della coalizione presentano tre nomi per il Quirinale. Il segretario leghista: "Spero che non ci saranno veti a priori". Il Dubbio il 25 gennaio 2022.
La rosa di tre nomi del centrodestra comprende «Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio» e nessuno dei tre «ha la tessera di un partito in tasca». Ad annunciarlo nella seconda giornata di voto per il prossimo presidente della Repubblica è il leader della Lega, Matteo Salvini, nel corso della conferenza stampa del centrodestra di oggi.
«Speriamo che gli altri abbiano la voglia di confrontarsi nel merito sui nostri nomi» dice il leader della Lega. «Non si tratta di candidati di bandiera perché noi non abbiamo bisogno di fare giochetti – avverte – sono personalità di alto profilo che pensiamo possano rappresentare la comunità italiana al meglio». «Io – dice – non sono qui a imporre niente a nessuno». «Non presentiamo dirigenti di partito anche se c’è qualcuno seduto a questo tavolo avrebbe tutti i titoli per ambire a questa carica», sottolinea poi il leader della Lega riferendosi ad Antonio Tajani, presente in conferenza stampa e citato per l’alto profilo internazionale. «Non c’è invece il nome di Elisabetta Alberti Casellati perché riteniamo le cariche istituzionali debbano essere tenute fuori», aggiunge il leader leghista dopo aver escluso il nome di Draghi. «Abbiamo fatto una lunga e proficua riunione. Il centrodestra è compatto, ci muoviamo all’unisono dall’inizio alla fine di questo percorso. C’è e ci sarà accordo, sono soddisfatto del clima». Poco dopo è arrivato il commento di Enrico Letta, il quale fa sapere che «sono nomi sicuramente di qualità, li valuteremo senza spirito pregiudiziale».
«Frattini pare non vada bene a prescindere, io non lo conosco, Casini poi in una rosa di centrodestra non c’è. E Draghi sta a Chigi e lavora bene a Chigi», aveva commentato Salvini dopo il veto dem sul nome di Frattini. «Sto lavorando per arrivare a un sì, non dico no preventivi, mi auguro che nessuno dica che la cultura liberale e moderata non possa fare proposte», aveva annunciato Salvini. «Noi non andiamo a proporre il Prodi di turno, vorremmo quindi quantomeno discuterne», aveva sottolineato dopo l’assemblea con i grandi elettori, sul tema della rosa che verrà proposta dal centrodestra.
I tre nomi presentati dal centrodestra «non sono candidati di bandiera, né di tattica, ma personalità di altissimo profilo», ribadisce Giorgia Meloni parlando alla conferenza stampa dei leader. «Non sono proposte buttate li», assicura la leader di Fdi. «Esprimo la soddisfazione di Fdi per la compattezza e l’unità con cui la coalizione di centrodestra sta affrontando questo passaggio politico così importante – sottolinea -. Chi spera in una nostra disarticolazione sta rimanendo spiazzato…».
Chi sono i candidati del centrodestra al Quirinale: Moratti, Pera e Nordio per la corsa al Colle. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Tre nomi per la corsa al Quirinale. Sono quelli lanciati dal centrodestra nel pomeriggio, in una conferenza stampa tenuta a Montecitorio, nella stessa sala dove Matteo Renzi ritirò le ministre Bellanova e Bonetti facendo di fatto cadere il secondo governo Conte.
Matteo Salvini ha annunciato infatti per la corsa al Quirinale l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex magistrato Carlo Nordio e l’attuale assessore regionale lombardo (ex sindaco di Milano ed ex ministro dell’Istruzione) Letizia Moratti.
Fuori dunque dalla ‘rosa dei nomi’ l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani e la presidente del Senato Elisabetta Casellati. “È una terna che offriamo alla discussione — ha detto Matteo Salvini illustrando la proposta — sperando che non ci siano veti”. Obiettivo, ha ricordato ancora Salvini, “è l’apertura al dialogo e fare in fretta. Non diciamo no pregiudizialmente a nessuno e speriamo che anche gli altri si confrontino nel merito”.
Salvini ha voluto anche rimarcare come nei tre nomi proposti non ci sono “dirigenti di partito anche se ovviamente, e lo dico io, c’è qualcuno a questo tavolo che non avrebbe un titolo ma tantissimi per ambire a questa carica, a proposito di europeismo, atlantismo, dimestichezza con le diplomazie”.
Il riferimento è ad Antonio Tajani, il coordinatore di Forza Italia presente accanto a Salvini nella sala conferenze della Camera: “Uno come lui ha i titoli per ambire alla carica anche se è un capo di partito”, ha infatti sottolineato il leader del Carroccio.
In merito alla mancata candidatura della Casellati, Salvini ha spiegato che la sua assenza nella ‘rosa dei nomi’ è perché il centrodestra “vuole che le cariche istituzionali siano tenute fuori e abbiano in sé la dignità di essere una possibile scelta“. In realtà proprio la mancata candidatura ufficiale nella ‘rosa’ appare come il segnale di voler ‘coprire’ il nome della seconda carica dello Stato, vera carta del centrodestra per il Quirinale.
Giorgia Meloni, intervenendo nella conferenza, ha invece rimarcato che gli ultimi quattro presidenti della Repubblica sono espressione del centrosinistra e che nel rispetto del principio di alternanza il nuovo capo dello Stato può avere una appartenenza culturale diversa, anche alla luce della maggioranza relativa in Parlamento di Fratelli d’Italia e gli altri partiti della coalizione.
Nomi che hanno visto una prima parziale apertura da parte di Enrico Letta, il segretario del Partito Democratico che sempre nel pomeriggio farà assieme a Movimento 5 Stelle e Leu una ‘controproposta’ sui candidati per il Colle. Secondo Letta dal centrodestra sono arrivati “nomi di qualità” che saranno valutati “senza pregiudizi“, ha spiegato il segretario Dem parlando con i giornalisti in Transatlantico.
Marcello Pera
Già presidente del Senato dal 2001 e dal 2006 col centrodestra a trazione berlusconiana, ha un passato da accademico come professore di Filosofia della scienza all’università di Pisa. Prima vicino al Psi, Pera passa in Forza Italia nel 1994 e viene subito eletto senatore, carica che ricopre fino al 2013.
Una vita politica ambivalente: durante la stagione di Mani Pulite Pera cavalca gli istinti più giustizialisti, quindi il cambio radicale e l’approccio garantista con Forza Italia. Stessa cosa anche nell’ambito religioso: definitosi in passato “non credente”, Pera si avvicinerà al pensiero cristiano arrivando addirittura a firmare un libro sulle radici cristiane dell’Europa assieme all’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Carlo Nordio
Ex magistrato 74enne, ora in pensione, si è occupato nella lunga carriera trascorsa a Venezia delle inchieste sul Mose, sulla Tangentopoli delle cooperative rosse e del terrorismo, in particolare delle Brigate Rosse.
Il nome di Nordio è stato espresso come candidato nella ‘rosa’ del centrodestra da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Letizia Moratti
Assessore al Welfare della Regione Lombardia, chiamata a sostituire Giulio Gallera nel pieno dell’emergenza Covid dal presidente Attilio Fontana, è anche vicepresidente della Giunta. In passato è stata sindaca di Milano dal 2006 al 2011 e in precedenza ministro dell’istruzione nel governo Berlusconi (tra il 2001 e il 2006) e presidente della Rai tra il 1994 e il 1996.
Formalmente Letizia Moratti non è iscritta ad alcun partito del centrodestra, ma è da sempre considerata vicina al leader di Forza Italia Silvio Berlusconi.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Il nome 'Quirinabile' per Fratelli d'Italia. Chi è Carlo Nordio, l’ex magistrato proposto da Meloni come presidente della Repubblica. Fabio Calcagni su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.
C’è un nome nuovo tra i ‘Quirinabili’, i nomi che da giorni ormai circolano nelle stanze dei partiti in subbuglio per trovare il profilo adatto per la presidenza della Repubblica. A farlo è stata Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia che ha proposto per il Colle l’ex magistrato Carlo Nordio.
“Molte personalità, che provengono dall’area del centrodestra, avrebbero il curriculum e lo standing per ricoprire il ruolo di presidente. Nomi come quello di Marcello Pera, Letizia Moratti, Elisabetta Alberti Casellati, Giulio Tremonti, Franco Frattini sono tutti autorevoli. Io ho chiesto di allargare la rosa anche alle personalità che non hanno un trascorso politico e per questo abbiamo aggiunto il nome di Carlo Nordio, su cui ci pare difficile che si possano muovere obiezioni”, ha detto la Meloni ai suoi grandi elettori riuniti in assemblea.
Le chance di elezione sembrano però particolarmente limitate. Era stato lo stesso Nordio la scorsa settimana a stroncare una ipotesi di questo tipo, dopo che il suo nome era iniziato a rimbalzare nel centrodestra. “Credo che la carica di capo dello Stato debba esser affidata a un politico, e la mia cultura politica è esclusivamente teorica, non ho mai fatto parte neanche di un Consiglio comunale. Comunque, se cercassero tra i giuristi, ce ne sono molti assai più preparati e autorevoli di me”, aveva spiegato l’ex procuratore di Venezia.
Ex magistrato, nato a Treviso nel febbraio del 1947, Nordio è stato procuratore aggiunto di Venezia e titolare dell’inchiesta sul Mose di Venezia, oltre a essere protagonista della ‘stagione’ di Mani pulite con le inchieste sulle cooperative rosse.
Non solo: Nordio nella sua lunga attività in magistratura indagò anche sul terrorismo rosso, quello delle Brigate rosse. Ma il suo focus sono sempre stati i reati economici e di corruzione: fino al 2017, anno del suo pensionamento, si è occupato di questi ‘settori’ come procuratore aggiunto della Procura di Venezia.
Nordio è stato particolarmente attivo anche sul fronte delle pubblicazioni. Ha collaborato a lungo con giornali e riviste giuridiche, tra cui i quotidiani Il Messaggero, Il Gazzettino e il Tempo. Con l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia è stato co-autore del libro “In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili”, pubblicato nel 2010.
Dopo la pensione per limiti di età nel febbraio 2017, avendo compiuto 70 anni, Nordio è diventato collaboratore del quotidiano romano Il Messaggero e dal 2018 componente del CdA della Fondazione Luigi Einaudi Onlus.
Nel 2000 fu anche al centro di una campagna di stampa e di polemiche politiche per una vicenda di cronaca che aveva seguito come magistrato. Nordio infatti convalidò il sequestro della macchina e la denuncia per favoreggiamento della prostituzione di un geometra incensurato di 25 anni, che stava accompagnando una prostituta moldava. Imputato che si suicidò per la vergogna, con Nordio che venne di fatto ‘accusato’ di aver provocato il gesto estremo del 25enne.
L’ex magistrato, passando alla vita privata, celebrò il matrimonio di Adriano Panatta, unico tennista italiano capace di vincere una prova dello Slam, il Roland Garros. Nordio sposò con rito civile Panatta con Anna Bonamigo nell’ottobre del 2020.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Carlo Nordio, l'ex toga che indagò sulle tangenti del Pci e critica i magistrati. Paolo Bracalini il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Magistrato in pensione dal 2017, si è occupato di Br, sequestri di persona, tangenti, Mose. Ma Carlo Nordio, trevigiano, 73 anni, non ha mai fatto difesa corporativa della sua categoria, anzi sulla magistratura italiana ha espresso profonde critiche arrivando a dire che la politica la «fa da padrona» sia nell'Anm che nel Csm. Giudice istruttore a Venezia, poi pubblico ministero, all'inizio degli anni Ottanta ha portato avanti l'inchiesta sulle colonne venete delle Br e poi su alcuni rapimenti. Durante Mani Pulite indagò sui finanziamenti al Pci-Pds dalle coop rosse, filone che gli costò dei problemi. «Nel '97, la giunta dell'Associazione nazionale magistrati mi convocò a Roma per un'audizione davanti ai probiviri... Mi chiamarono a causa delle interviste in cui avevo detto che la politica non era poi così corrotta come sembrava perché in Italia solo in un determinato periodo tutti i partiti, e sottolineo tutti, venivano finanziati in modo illegale e clandestino... Il Pci non aveva nessuna legittimazione a dare lezioni di moralità tenuto conto che il Pci veniva finanziato dall'Urss, ovvero da un Paese nemico. Ricordo l'onorevole Pietro Folena che, al limite dell'oltraggio, ci dipinse come una "procura fascista"» ha raccontato Nordio.
Consulente della Commissione parlamentare per il terrorismo e le stragi (1997-2001), presidente della Commissione per la riforma del codice penale (2002-2006), ha scritto libri molti critici sulla gestione della giustizia. Sul caso Palamara dice :«Adesso tutti si scandalizzano per le riunioni carbonare fra i consiglieri e i politici, ma da sempre la politica la fa da padrona a Palazzo dei Marescialli e nell'Associazione nazionale magistrati. Basta riflettere sulle correnti che sono costruite a imitazione dei partiti, con una destra, un centro e una sinistra. Le nomine sono pilotate, se non hai la sponsorizzazione di questa o quella corrente non puoi aspirare a uffici importanti».
Ama l'equitazione e i libri antichi, di cui è un appassionato collezionista e raffinato lettore. In passato lo si è anche intravisto a Parigi, sui Lungosenna, dove andava ad acquistarli. L'idea di essere candidato al Quirinale, confessa, gli fa «tremare i polsi». Paolo Bracalini
L'ascesa del forzista. Chi è Marcello Pera, il candidato del centrodestra al Quirinale che negli anni ha criticato Lega e Berlusconi. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Le mosse di Matteo Salvini agitano il centrodestra. Il leader del Carroccio che si sfrega le mani per un possibile ritorno alle urne, gioca la carta di altri nomi per la corsa al Quirinale. In una conferenza stampa tenuta a Montecitorio, il leghista ha messo sul piatto anche il nome di Marcello Pera che, insieme agli altri due (l’ex magistrato Carlo Nordio e l’attuale assessore regionale lombardo Letizia Moratti), non “ha una tessera di partito ma ha ricoperto ruoli importanti”, ha detto Salvini.
Toscano, classe 1943, vanta un’esperienza istituzionale. Sempre appoggiato dall’area del centrodestra, Pera, è stato presidente del Senato dal 2001 al 2006, dopo un passato da accademico come professore di Filosofia della scienza all’università di Pisa. Pera, infatti, è anche filosofo, accademico, scrittore. Si è laureato in filosofia all’Università di Pisa nel 1972, con 110. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni lo ha presentato come il candidato che “ha il curriculum”.
Il suo percorso politico è stato però accidentato. Prima è entrato nel Psi e poi, nel 1994, è passato a Forza Italia, di cui diventa coordinatore nazionale della Convenzione per la riforma liberale. È stato eletto senatore, carica che ha ricoperto fino al 2013. Nel 1998 è diventato vicepresidente del Gruppo di Forza Italia a Palazzo Madama. Nel 2001 è stato eletto al primo scrutinio Presidente del Senato della Repubblica, seconda carica dello Stato, che manterrà fino al 2006.
Pera non ha mai avuto una buona idea dei leader di partiti che ora lo stanno promuovendo per salire al Quirinale. Prima del 1994, e quindi prima del suo ingresso in Fi, Pera definiva il Cavaliere “un cabarettista azzimato” e persino “un venditore televisivo di stoviglie”. Inoltre, non ha sempre appoggiato le posizioni della Lega: all’inizio descriveva il Carroccio come un movimento che “rischia di essere eversivo, portando alla divisione del Paese”. Lo scorso anno, poi, la virata salviniana. “Salvini? Mi sembra un leader su cui si può scommettere per costruire una nuova cultura di governo”. Parole subito condivise sui social dal leader della Lega.
Durante la stagione di Mani Pulite, Pera ha abbracciato la morale giustizialista, criticando apertamente la corruzione della politica. Posizione che lo ha portato a schierarsi senza riserve dalla parte dei magistrati di Milano. Poi il cambio radicale: abbandona le posizioni giustizialiste temperandole in senso garantista.
Anche il suo iter religioso ha conosciuto una svolta. Definitosi in passato “non credente”, si è poi avvicinato al pensiero cristiano arrivando a scrivere diversi libri e saggi.
Nel 2004, ha firmato con il cardinale Joseph Ratzinger, che poi diventerà papa Benedetto XVI, il libro “Senza radici”. Nel 2008 ha scritto il saggio “Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica”. Il forzista non appoggia le posizioni sui migranti di Papa Francesco, che, per lui, sconfinano nel “fare politica”. Dopo aver attaccato Bergoglio per aver reso la Chiesa una sorta di Ong, non ha mancato di criticare il Papa nemmeno per la sua visione green: “Ha trasformato Greta (Thunberg) in un idolo”, ha detto.
I QUIRINABILI. Quirinale: ecco chi è Marcello Pera, nella rosa di candidati di centrodestra. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 25 gennaio 2022.
L’ex presidente del Senato che fa parte della “rosa” del centrodestra nel 1993 descriveva la Lega come una forza eversiva, oggi vede in Salvini un nuovo leader. Papa Francesco sui migranti per lui «ha trasformato la chiesa in una specie di Ong». D’accordo su Renzi con il referendum del 2016, ha criticato spesso Berlusconi
Il centrodestra ha nella sua “rosa” di candidati Marcello Pera, l’ex presidente del Senato di Forza Italia. Il suo nome non dispiace nemmeno a Matteo Renzi, il leader di Italia viva con cui in passato ha condiviso la battaglia per il sì al referendum costituzionale del 2016. Critico con papa Francesco, Pera vede nell’immigrazione un rischio.
L’elezione arriverebbe in prossimità del suo compleanno: il forzista (che oggi non ha più la tessera) è nato a Lucca il 28 gennaio 1943. Professore ordinario di Filosofia della Scienza all’università di Pisa, ha condiviso la sua carriera politica con Silvio Berlusconi, anche se è celebre la sua frase del 1994: «Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini».
Il primo ingresso in parlamento è del 1996. Si candida e perde nell'uninominale a Lucca, ma grazie al recupero del proporzionale in Toscana entra per la prima volta in Senato e ci resterà fino al 2013. Dal 2001 al 2006 ha ricoperto la carica di presidente del Senato in quota Pdl, la seconda carica dello stato.
LA CHIESA E I MIGRANTI
«Quale prezzo il cristianesimo paga alla dottrina dei diritti umani? Può pagarlo? E se lo paga, aggiorna o trasforma il messaggio cristiano?» gli interrogativi che Pera, uscito dal parlamento, si poneva nel saggio del 2015 Diritti umani e cristianesimo. «Penso che, accettando i diritti umani, in particolare i diritti sociali - rifletteva Pera - la Chiesa abbia riveduto il suo tradizionale insegnamento che mette al centro del comportamento cristiano i doveri dell'uomo verso Dio».
Nel 2004, è autore con il cardinale Joseph Ratzinger, che poi diventerà papa Benedetto XVI, del libro Senza radici. Nel 2008 scrive il saggio Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica.
Pera, contro «l’ideologia dei diritti», non apprezza papa Francesco. La posizione di accoglienza ai migranti per lui sconfina nel «fare politica»: «Francamente questo Papa non lo capisco, quanto dice è al di fuori di ogni comprensione razionale. evidente a tutti che un’accoglienza indiscriminata non è possibile», diceva nel 2017. E chiedeva: «Perché manca di un minimo di realismo, di quel poco che è richiesto a chiunque?». E accusava Bergoglio di usare il Vangelo per fini politici. Nel 2019 ha detto che papa Francesco «ha ridotto o la chiesa a una specie Ong».
Non solo, anche l’ambientalismo di Francesco non gli piace: «Ha trasformato Greta (Thunberg, l’attivista svedese) in un idolo, corre dietro a visioni solidaristiche, politiche e sociali, al buonismo».
CONSERVATORE LIBERALE
Sul piano politico e culturale, il politico si definisce un "conservatore liberale". Il caso vuole che nel 1995 abbia firmato con Luigi Manconi, oggi il candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica di Sinistra italiana e dei Verdi, un appello per l'uso delle droghe leggere.
In più occasioni si è detto a favore delle unioni gay, criticando invece la chiesa: «La chiesa italiana ha subìto il divorzio, l’aborto. Si rassegnerà anche alle unioni civili» aveva affermato in occasione dell’approvazione della legge Cirinnà.
IL RAPPORTO CON LA LEGA
Mentre adesso sembra pronto a diventare il nome che unisce il centrodestra, nel 1993 i rapporti con la Lega non erano buoni: «La Lega Nord è un movimento che, anche non è programmaticamente eversivo, rischia di esserlo, e può effettivamente portare alla divisione del Paese. Non c’è una risposta democratica alla Lega sul terreno della Lega». Sette anni dopo, Salvini diventa l’uomo su cui costruire una nuova cultura di governo.
RENZI E REFERENDUM
Non è strano che il nome sia gradito al leader di Italia viva, Matteo Renzi. Nel 2016 Pera si è schierato dalla parte di Renzi contro Berlusconi sul referendum costituzionale, al punto da portare avanti l’appello “Liberi Sì'” firmato da trentacinque ex parlamentari di Forza Italia: «Sono uomini e donne che hanno fatto la storia di Forza Italia. Tra loro c'è chi ha ricoperto il ruolo di ministro, di sottosegretario, di presidente di Regione». Lui per primo a spendersi per mantenere Renzi al governo.
L’ex premier non ha escluso l’appoggio della sua compagine qualora fosse una reale possibilità per il Colle: «Quasi tutti gli ex presidenti di assemblea sono da sempre quirinabili, specie se hanno svolto il compito con rigore istituzionale e con apprezzamento complessivo».
L’ipotesi di una convergenza tra Salvini e Renzi circola da ottobre, anche se Pera è rimasto sempre vago: «Se smentisco confermo» ha detto a fine dicembre a Libero.
LE PRESSIONI PER ENEL
Nel suo curriculum ci sono anche rapporti poco chiari con il tessuto economico. Marco Travaglio e Peter Gomez, nel loro saggio Se li conosci li eviti, una sorta di antologia delle biografie dei candidati in vista delle elezioni politiche del 2008, ricordano le sue vicende giudiziarie. Pera, scrivono, compare in un’indagine archiviata dalla procura di Lucca nel 2007 per presunte pressioni sul sindaco di Lucca, Pietro Fazzi, e sui vertici della Lucca Holding Spa e della Gesan Gas Spa per portare a termine un affare con Enel.
L’«indebita» ingerenza rilevata dai giudici dell’allora presidente del Senato risultava riscontrata, tuttavia il reato di concussione era indimostrabile, in quanto quelle pressioni erano state fatte per «non pregiudicare i rapporti tra Enel e presidente del Senato», dunque senza che ci fosse alcuno scambio di denaro.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Marcello Pera, l'amico laico di Ratzinger che guidò il Senato. Può avere i voti di Renzi. Paolo Bracalini il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Berlusconiano della prima ora (il 1994), l'apice politico di Marcello Pera è la presidenza del Senato raggiunta nel 2001, alla sua seconda legislatura da senatore con Forza Italia. Filosofo, accademico di area liberale, Pera nasce come un laico ma negli ultimi anni si avvicina al cattolicesimo grazie al magistero di Joseph Ratzinger, con cui ha un legame di amicizia e sintonia di pensiero (hanno scritto insieme un libro, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam), mentre è molto critico sul pontificato di Bergoglio. Dopo il 2013, quando finisce la sua carriera parlamentare, Pera torna ai suoi amati studi, ma sempre con la politica sullo sfondo. Nel 2016, insieme ad altri padri nobili di Fi come Giuliano Urbani si schiera per il Sì al referendum costituzionale lanciato da Renzi. Presiede il comitato «Liberi Sì» per radunare «tutti quei liberali, democratici, popolari, che ritengono che il referendum sia l'occasione preziosa e irripetibile per rendere le nostre istituzioni più efficienti, più snelle, più trasparenti». Il referendum finisce male, come noto, ma quella posizione di Pera potrebbe ora servire per raccogliere i voti di Italia viva. Nel 2018 è stato nominato dall'allora premier Giuseppe Conte presidente del «Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale».
La genesi politica di Pera in realtà è negli anni '80 con il Psi. Nel 2004 andrà ad Hammamet in visita alla tomba di Bettino Craxi, da lui definito un «patrimonio della Repubblica», che appartiene alla «storia della sinistra italiana». Poi agli inizi degli anni '90 si schiera con i magistrati nella lotta alla corruzione politica, mentre negli anni successivi prende le distanze da quello che definisce il «giustizialismo dei giudici». Nel 2001, prima di essere nominato presidente del Senato, si fa il suo nome per il ministero della Giustizia. Per il quale ha un programma immediato: far fuori la scrivania che fu nel 1946 del Guardasigilli comunista Palmiro Togliatti (l'anticomunismo è un altro pilastro del suo pensiero). Filosofo e pensatore, ma anche abile tessitore di rapporti. Dietro la sua candidatura c'è una rete che va da Denis Verdini, a Salvini (anche per il tramite della leghista toscana Susanna Ceccardi), a Franceschini e Luca Lotti nel Pd, a Di Maio e Conte con cui si è sentito. Paolo Bracalini
Letizia Moratti, la lady di ferro al timone di ministeri, Rai e Milano. Sarebbe la prima donna. Paolo Bracalini il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.
La carica pubblica per cui è più nota è quella di sindaco di Milano, nel 2006, dopo Albertini e prima di Pisapia. È con lei che nasce la candidatura di Milano all'Expo 2015 che sarà poi un successo (per Sala). Ma di cariche e poltrone prestigiose è piena la vita di Letizia Maria Brichetto Arnaboldi, vedova Moratti (il petroliere Gian Marco Moratti, presidente della Saras, morto qualche anno fa). Nel secondo governo Berlusconi era già stata ministro dell'Istruzione dando prova di un carattere da lady di ferro (Montanelli diceva di lei «soave pugno di ferro»), celebri le sue liti con Tremonti per i fondi alla scuola. Da ministro scese in piazza a Milano per celebrare il 25 aprile. Sfidando i fischi e le contestazioni degli autonomi, festeggiò la Liberazione insieme al papà, il «partigiano bianco» insignito di due medaglie al valor militare, incassando la solidarietà del centrosinistra, da Prodi alla Cgil. Ha guidato la Rai per un biennio, provando a privatizzarne un canale in seguito al referendum sulla tv pubblica del '95, missione impossibile anche per lei.
Milanese classe '49, a 25 anni manager in campo assicurativo e poi presidente di News Corp Europe del gruppo Murdoch, poi appunto la carriera politica, gli incarichi in società e banche, dal gruppo Carlyle alla Bracco a Ubi Banca, di cui è stata presidente fino al 2020, quando è tornata in prima linea come vicepresidente e assessore al Welfare (con delega sul servizio sanitario regionale) chiamata da Berlusconi e Salvini per raddrizzare la campagna vaccinale anti-Covid in Lombardia. L'altro campo a cui si dedica da una vita è il sociale, con l'impegno decennale nella Comunità di San Patrignano, che la convinse a lasciare il consiglio comunale di Milano. E poi la cooperazione internazionale, nel 2015 ha fondato la E4Impact Foundation, di cui è presidente (Obiettivo: «Formare una nuova generazione di imprenditori a forte impatto sociale in Africa»). Nel 2018 firma insieme agli altri ex sindaci di Milano una lettera a sostegno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sotto attacco del M5s (che minacciò persino l'impeachment). Prima, nel 2016, il suo sì al referendum costituzionale del governo Renzi. È stata la prima donna sindaco di Milano, la prima donna a guidare la Rai. Potrà esserlo anche per il Colle? Paolo Bracalini
Chi è Franco Frattini, il candidato al Quirinale che piace perfino a Conte. Giampiero Casoni il 25/01/2022 su Notizie.it.
L'uomo che potrebbe essere il grimaldello per i grandi elettori del M5S: chi è Franco Frattini, il candidato al Quirinale che piace perfino a Conte
Franco Frattini, il candidato al Quirinale che piace perfino a Giuseppe Conte, potrebbe essere l’uomo giusto. Per cosa e per chi mentre decade il Mattarella bis? Il due volte ministro degli Esteri e fautore della legge sul conflitto di interessi, oggi presidente del Consiglio di Stato, potrebbe diventare l’uomo da indicare per il Colle se sul perennemente intraversato Mario Draghi non si trovasse la quadra.
Frattini potrebbe entrare in lizza del centrodestra alla quarta chiama con il quorum un po’ sgonfiato.
Franco Frattini, il candidato “ideale” per sopravvivere alla quarta chiama e per andare al Quirinale
Quale rosa? Open la riassume: Elisabetta Casellati Carlo Nordio, Marcello Pera, Gianni Letta,Letizia Moratti ed Antonio Tajani. Questi in superficie e col 90% di loro destinato a fare “ammuina”, poi con Frattini palombaro che potrebbe sbancare. Perché? Perché Franco Frattini piace anche fuori dal recinto del centrodestra, piace ai Cinquestelle per una serie di “piacionerie” vissute a suo tempo con Giuseppe Conte.
Chi ha fatto il nome di Franco Frattini come candidato al Quirinale non solo del centrodestra
E non è un caso che l’ex premier abbia fatto il nome di Frattini con il playmaker del centrodestra Matteo Salvini. Franco Frattini è nato nel 1957 a Roma. È laureato in giurisprudenza, ha fatto l’avvocato di Stato nel 1984 ed è passato al Tar Piemonte. Frattini è stato due volte alla guida della Farnesina nei governi Berlusconi. Nel governo Dini ebbe invece la Funzione Pubblica.
Dopo il 2012 lasciò Forza Italia per passare con Scelta Civica di Monti. Consigliere giuridico di Claudio Martelli e già segretario generale della presidenza del Consiglio nel 1994, ha presieduto il Comitato di Controllo dei servizi segreti. Dalla Farnesina caldeggiò l’appoggio logistico all’invasione dell’Iraq da parte degli Usa ed è l’autore della legge sul conflitto d’interessi del 2004. Frattini è buciabile come gli altri ma qualche skill aggiuntiva ce l’ha. Glie la potrebbe dare proprio Salvini, che sta cercando di portare a casa non solo un presidente, ma anche un esecutivo gradito.
La regia di Salvini e l’opzione di Franco Frattini candidato al Quirinale, con “l’aiuto della Russia”
Se Draghi va al Colle Salvini vuole uno scranno da ministro, se Draghi resta vuole accreditarsi come regista di un’operazione che metta sotto i corazzieri un uomo su cui ha lavorato lui, magari con l’inavvicinabile (si far per dire) Conte. Ma quali furono le “piacionerie” che Frattini e Conte si fecero e che potrebbero fare breccia nella hit del presidente M5S? C’entra la Russia: Frattini fu con Conte nel chiedere lo stop delle sanzioni europee a Mosca e nel 2018 lo accreditò con Sergey Lavrov, il potentissimo capo dei diplomatici di Putin.
Grazie dei fior, però… Così i giallo-rossi rifiutano i nomi del centrodestra. Pd, M5S e Leu rispediscono al mittente la terna Moratti-Pera-Nordio, senza lanciare una rosa alternativa al centrodestra. Letta propone un conclave a tutti i partiti. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 25 gennaio 2022.
Grazie dei fior, ma non possiamo accettare. Risponde più o meno così, in serata, il trio Letta-Conte-Speranza alla rosa dei nomi per il Quirinale presentata dal centrodestra. Nessun appunto sui profili scelti, definiti inizialmente «di qualità», ma i giallo-rossi preferirebbero figure maggiormente condivise. Senza però mettere sul piatto controproposte utili.
Il vertice del centrosinistra, infatti, si conclude con la scelta di non fornire rose alternative, un po’ per evitare un clima da contrapposizione e un po’ per nascondere le profondissime divisioni interne. «Prendiamo atto della terna formulata dal centrodestra che appare un passo in avanti, utile al dialogo», fanno sapere i tre leader giallo-rossi, convinti però che «che su quei nomi» non «possa svilupparsi la larga condivisione in questo momento necessaria». Porta educatamente chiusa in faccia, dunque a Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera, i tre candidati, «senza tessere di partito in tasca» proposti da Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani.
Lo schema digiallo-rosso pretende un profilo «super partes». Che per Letta significa Mario Draghi e per Conte chiunque tranne l’attuale premier. Per venirne a capo, il segretario del Pd propone il metodo “conclave” ad alleati di coalizione e di governo: «Chiudersi dentro una stanza, buttare via la chiave e stare a pane e acqua fino ad arrivare a una soluzione finale», dice Letta, uscendo dal vertice. Da giovedì si potrà eleggere il capo dello Stato a maggioranza semplice, è dunque arrivato il momento di «smetterla con il tatticismo. Dobbiamo chiuderci in una stanza e arrivare a una soluzione con un nome condiviso, super partes e senza forzature», aggiunge il leader dem. Il centrosinistra chiede dunque un incontro per oggi con tutte le delegazioni. E solo allora i giallo-rossi, fanno capire, scopriranno le carte con i loro “jolly”.
L’obiettivo di Letta è duplice: scongiurare che qualcuno metta il cappello sull’elezione del nuovo presidente e troncare il dialogo troppo fitto tra Salvini e Conte, decisi a fermare il cammino del presidente del Consiglio.La soluzione individuata, in realtà, serve solo a coprire lo stallo delle trattative sul Quirinale e prendere ancora tempo. Un atteggiamento insensato, secondo Matteo Renzi, abituato a giocare da protagonista le partite del Palazzo e momentaneamente escluso da entrambi i tavoli: «Si fanno le rose senza il coraggio di votare i nomi», scrive sulla sua E-news. «Alla terza votazione per il Presidente della Repubblica non si fanno le rose, si votano i nomi: facciamo politica, non sondaggi d’opinione. Si perde tempo con una votazione al giorno (torniamo almeno a fare due votazioni al giorno). E manca la regia politica», aggiunge il leader di Italia viva.
Ma dentro le coalizioni e soprattutto all’interno dei singoli partiti le lacerazioni sono troppo profonde per immaginare che qualche leader sia in grado di intestarsi la regia politica del film quirinalizio. Salvini deve districarsi tra l’unità della maggioranza e quella dell’alleanza da lui guidata, consapevole che basta spostare un mattoncino per far venir giù almeno una delle due case. Letta, già alle prese col governo complicato del suo partito, dichiara di avere un ruolo («proteggere Draghi») profondamente diverso da quello di Conte («difendere l’interesse nazionale»). Sullo sfondo: il rischio elezioni anticipate che terrorizza più della metà dei protagonisti. E in questo clima di incertezza e diffidenza – in cui nessuno schieramento ha i numeri per far da sé – il guizzo del regista tarda ad arrivare.
Non resta che prender tempo e tenere fuori dalle rose ufficiali qualche nome da tirar fuori all’occorrenza, come quelli di Maria Elisabetta Casellati e Pirferdinando Casini, i candidati ufficiosi di cui tutti chiacchierano nei corridoi di Montecitorio, senza che nessuno li schieri a viso aperto. E in attesa di una mossa del cavallo, oggi il centrodestra, al terzo scrutinio, l’ultimo a maggioranza qualificata, potrebbe scegliere di votare uno dei tre candidati messi in lista, giusto per testare la tenuta della coalizione.Tanto la partita vera inizierà solo giovedì. E senza una soluzione realmente condivisa, in tanti sperano ancora in “San Mattarella”, come recita il meme che in serata spopola sulle chat grilline.
Quel tabù della sinistra che esclude la destra dal Colle. Le reazioni isteriche alla stravagante e improbabile candidatura di Silvio Berlusconi sono soltanto l’aspetto più fastidioso di un pregiudizio profondo, che ha le sue radici nel secondo dopoguerra. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 25 gennaio 2022.
È un patto gentilizio, un’alleanza di ottimati, un’intesa tra maggiorenti e virtuosi. Ma soprattutto è il tabù più resistente della seconda repubblica: stiamo parlando dell’esclusione, quasi de jure, del centrodestra dalla corsa al Quirinale.
Le reazioni isteriche alla stravagante e improbabile candidatura di Silvio Berlusconi sono soltanto l’aspetto più fastidioso di un pregiudizio profondo, che ha le sue radici nel secondo dopoguerra, ossia nel bipolarismo catto-comunista che disegnava il cosiddetto arco costituzionale. L’idea è semplice: la Costituzione antifascista può essere custodita solo dagli eredi di quelle due famiglie politiche che, guarda caso, da tre decenni costituiscono l’ossatura del centrosinistra. Nel corso degli ultimi 30 anni abbiamo avuto due presidenti ex democristiani (Scalfaro e Mattarella, un ex Pci (Napolitano) e un laico progressista (Ciampi). In nessuna di queste tornate un candidato proveniente dal blocco Forza Italia-An-Lega ha mai avuto la possibilità concreta di aspirare alla prima carica dello Stato.
Si è negoziato senza problemi per le presidenze di Camera e Senato ma mai per il Colle. Ciò non vuol dire, come pretendono puerilmente in molti nel centrodestra, che a questo giro “tocchi a loro”. L’elezione di un presidente della Repubblica non segue logiche riparatorie o una turnazione meccanica. Ma neanche che vengano esclusi dalla corsa per partito preso, come a dover scontare il peccato originale di essere stati berlusconiani o comunque sodali del Cavaliere e del suo fantomatico progetto “eversivo”. La destra non è la landa dei barbari e al suo interno ci sono diverse personalità moderate, capaci di mediare tra i veti e i capricci dei partiti e di assumere un ruolo super partes. Continuare a considerarli degli appestati illegittimi è soltanto un vecchio imbroglio politico.
Dubbi, confusioni e incertezze sul ruolo del Capo dello Stato. Presidente della Repubblica, quanto ne sanno gli italiani: tra gaffe e amnesie il test sul Quirinale. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Mancano poche ore alla fine del secondo giorno di chiama per eleggere il Presidente della Repubblica e gli italiani osservano con incertezza i movimenti dei partiti politici. Le elezioni hanno acceso gli animi di politici e cittadini. Mentre circolano i nomi del successore di Sergio Mattarella, tra giochi politici e vecchie alleanze, fuori dalla Camera aleggia confusione sul ruolo e i compiti del Capo dello Stato.
Mentre c’è chi balbetta sorridente per non sapere che una persona, per essere eletto Presidente, deve avere almeno 50 anni di età, c’è chi ostenta preparazione e consapevolezza. I cittadini romani, tra shopping e una passeggiata nella fredda via del Corso, hanno saputo rispondere senza esitazione su chi ha impacchettato le ultime cose prima di lasciare il Quirinale. A tentennare sono soprattutto i giovani che sono un po’ imbarazzati per non riuscire a rispondere a qualche domanda. La separazione tra nuove e vecchie generazioni si è andata via via allargando se si guardano i numeri dei sondaggi che vedono i ‘giovani’ e ‘coloro che si informano prevalentemente sui social’ come le categorie meno interessate a questa elezione.
“Mi trovi impreparato”, ha detto un giovane che ha balbettato qualche risposta. Mentre un ragazzo ha azzardato persino come i cittadini siano attualmente impegnati in una lunga tornata elettorale per scegliere il Presidente della Repubblica che deve avere almeno 18 anni, “anzi no, deve essere più anziano”, si è poi corretto. Qualcun altro, invece, ha tentennato su quanti Capi dello Stato sono stati i garanti della Costituzione. “Ce ne sono stati 16, o forse 17”, ha detto un ragazzo, mentre una giovane donna ha persino affermato che al Quirinale, in 76 anni di storia della Repubblica italiana, ci fossero stati quattro Capi di Stato. Per un’altra, invece, il primo Capo dello Stato è stato Carlo Azeglio Ciampi, dimenticando, però, che quest’ultimo è stato il decimo Presidente della Repubblica.
L’incertezza, poi, ha prevalso sui compiti del Capo dello Stato: molti sono caduti in confusione alla domanda sul potere del Presidente della Repubblica di dichiarare lo stato di guerra. “Non c’è mai stata l’occasione, fortunatamente”, ha detto un’anziana signora. “Non farmi parlare di chi comanda in questo Paese”, ha detto invece in romanesco un’altra signora rifiutando di rispondere alle domande.
Prima che senatori e deputati, insieme ai ‘grandi elettori’, eleggano il nuovo Presidente della Repubblica, è meglio che gli italiani aprano i libri per ripassare chi è e cosa fa il Capo dello Stato.
Michele Ainis per "la Repubblica" il 25 gennaio 2022.
Girano regole bizzarre attorno all'elezione del prossimo capo dello Stato. Anzi: doppiamente bizzarre, giacché nel Paese delle cinquantamila leggi le regole in questione sono figlie d'una lacuna normativa, derivano insomma da un vuoto di diritto. Eppure il paradosso si profila già al momento della scelta, durante l'espressione del voto. In questo caso mancano, difatti, candidature avanzate ufficialmente dai partiti. La Costituzione non le vieterebbe, ma una prassi battezzata nel maggio 1948 (quando fu eletto Einaudi) qualifica il Parlamento in seduta comune come collegio imperfetto, dove si vota ma non si può discutere sull'oggetto del voto.
Di conseguenza il primo accorgimento del candidato perfetto è negare l'esistenza stessa della sua candidatura, per evitare di bruciarla. Da qui un festival dell'ipocrisia, ma da qui inoltre un velo d'opacità sull'elezione, che si consuma in conciliaboli nelle segrete stanze dei partiti, mentre ai cittadini non resta che sbirciare dal buco della serratura. Infine viene fuori un nome. Quale? Poniamo Mario Draghi.
Ma poniamo altresì che si chiami Draghi Mario anche un postino di Siena, e che il giorno dopo quest' ultimo si presenti ai corazzieri per cominciare il suo mandato. Dopotutto, ne avrebbe buon diritto. Mancando candidature formali, mancando una lista elettorale affissa nei seggi come avviene alle politiche, per quale ragione non potrebbe essere proprio lui l'eletto? Risposta: perché evidentemente si presume che il nuovo presidente sia persona già nota agli italiani, e non è il caso del postino.
Però si tratta di un'altra regola non scritta, di un'altra toppa sopra il buco delle regole. E Mattarella? Scade il 3 febbraio, ma con l'aria che tira non è detto che quel giorno il Parlamento abbia già trovato il successore. Che ne sarà, quindi, di lui? La Costituzione non lo dice. L'articolo 85, difatti, menziona un'ipotesi diversa: se le Camere sono sciolte, o mancano meno di tre mesi alla loro cessazione, l'elezione slitta, mentre il presidente viene prorogato. Sicché delle due l'una: o s' estende per analogia la prorogatio anche a questo caso, oppure il 3 febbraio subentrerà il supplente, cioè la presidente del Senato.
Più giusta la prima soluzione, tuttavia, giacché la supplenza muove da un "impedimento" del capo dello Stato, mentre qui l'impedito è il Parlamento. Che perciò potrebbe giocare uno scherzetto al vecchio presidente: per rieleggerlo basta non eleggerlo, basta mandare a vuoto ogni successiva votazione, tanto lui verrebbe prorogato. Chi invece non può subire proroghe è il presidente del Consiglio, ove venga eletto al Quirinale. Dovrà dimettersi con effetto immediato, dato che la Costituzione vieta il doppio mestiere.
E il governo, chi lo guida? Silenzio: nessuna norma disciplina l'ipotesi in questione, né la morte (facciamo gli scongiuri) del premier in carica. L'unica regola si legge nell'articolo 8 della legge n. 400 del 1988: nel caso d'impedimento temporaneo, il timone passa al vicepresidente del Consiglio, ovvero - "in assenza di diversa disposizione da parte del presidente del Consiglio" - al ministro più anziano. Basta perciò applicare (un'altra analogia) la norma che disciplina questa situazione all'impedimento permanente, e il rebus si risolve. Sicuro?
Un conto è un automatismo, per cui se manca il generale il comando passa al colonnello. Un altro conto è conferire al generale il potere di nominare il caporale. Tanto più che il premier, nel nostro ordinamento, non ha la facoltà di revocare i suoi ministri, mentre avrebbe viceversa l'autorità di nominare il successore, come gli imperatori dell'antica Roma. E siccome la regola varrebbe anche se il presidente del Consiglio muore (doppi scongiuri), dovremmo immaginare che quest' ultimo si rechi dal notaio per fare testamento: lascio la casa al figlio, l'automobile al nipote, Palazzo Chigi al ministro dello Sport. Ma è il bello delle regole che ci cadono addosso come tegole: se qualcuno ci rimette, qualcun altro giocoforza ci guadagna.
III GIORNO DI VOTAZIONI.
Il live minuto per minuto della terza giornata: ancora fumata nera. Elezione Presidente della Repubblica, la diretta del voto. Salvini smentisce incontro con Cassese e attacca: “Da Pd e M5S mai proposte”. Redazione su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
Fumata nera per la terza giornata dedicata all’elezione del 13esimo presidente della Repubblica, l’ultima con il quorum di 2/3. Sono diminuite le schede bianche, scendendo dalle 527 di ieri a 412. Durante lo spoglio si sono imposti i nomi di Sergio Mattarella e Guido Crosetto, lanciato a sorpresa da FdI. Per l’attuale Capo dello Stato sono spiccati i 125 voti, mentre quelli incassati dal cofondatore di Fratelli d’Italia sono 114, quasi il doppio dei 63 grandi elettori del partito di Giorgia Meloni. Al terzo posto si piazza il giurista Maddalena con 61 voti di Alternativa c’è e di molti ex M5s, seguito da Casini che raggiunge quota 52.
Il successore di Sergio Mattarella (che ha in diverse occasioni ribadito che non è in corsa per un secondo mandato) sarà il 13esimo Presidente della Repubblica Italiana. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.
Causa covid-19 si terrà una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.
Caos e ore di trattative febbrili tra i partiti. Il leader e fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi ha sciolto la riserva: fallita l’operazione scoiattolo, ha rinunciato alla corsa al Quirinale. Scricchiola la candidatura del Presidente del Consiglio in carica, dato da mesi per favorito, Mario Draghi. Ancora preso in considerazione per alcuni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Le ipotesi Pierferdinando Casini e Giuliano Amato ancora in corsa, come quelle di Marta Cartabia ed Maria Elisabetta Alberti Casellati. New entry della prima giornata: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e la direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni.
Nel secondo giorno il fronte progressista ha respinto la terna di nomi proposta dal centrodestra (Pera-Moratti-Nordio), i più votati risultano l’attuale inquilino del Colle Sergio Mattarella e l’ex magistrato Paolo Maddalena, candidato promosso dal gruppo di Alternativa. Entrambi raccolgono 39 preferenze, ma a salire rispetto a ieri è soprattutto il capo dello Stato uscente, che raccoglie 23 voti in più. Invariato il numero di grandi elettori presenti e votanti (976), si abbassa il numero delle schede bianche (527 rispetto alle 672 del primo scrutinio), quello delle nulle (38 rispetto a 49), mentre salgono i voti dispersi che toccano quota 125 (ieri 88).
Alle 11 si riunisce il Parlamento in seduta comune per la terza votazione, l’ultima con il quorum di 2/3, ma c’è chi chiede di velocizzare da giovedì le operazioni per cercare di chiudere la partita in settimana. “Spero che la presidenza autorizzi le votazioni due volte al giorno – dichiara il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, intercettato in Transatlantico durante le votazioni -. C’è una crisi in Ucraina pesantissima, la crisi su energia e gas, regole assurde per la scuola: il Parlamento abbia la consapevolezza di quello che si sta giocando”. Richiesta poi formalizzata da una lettera inviata dalla capogruppo di Italia viva a Montecitorio, Maria Elena Boschi, al presidente della Camera, Roberto Fico: “Le misure per garantire sicurezza sanitaria e limitare la possibilità di contagi durante le operazioni di voto possono essere messe in pratica anche nel caso di una seconda votazione nel corso della stessa giornata”.
“No a una guerra delle due rose, non serve”. Pd, M5S e Leu non rispondono con altri nomi d’area alle candidature di Letizia Moratti, Marcello Pera e Carlo Nordio avanzate dal centrodestra. Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, a sera, dopo un faccia a faccia che va avanti per quasi due ore, definiscono “un passo in avanti, utile al dialogo” la mossa fatta dai leader del campo ‘avversario’. Sono “nomi di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale”, si spinge a dire il segretario dem e anche Stefano Patuanelli, capodelegazione pentastellato al Governo, li definisce ipotesi “di peso”.
La strada, però, resta sbarrata. “Non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione in questo momento necessaria”, mettono nero su bianco i rappresentanti della coalizione progressista. Nessuna contrapposizione di ‘area’, quindi, ma la “volontà di giungere ad una soluzione condivisa su un nome super partes”. Per questo, la proposta è riunire domani le due delegazioni. “Chiudiamoci dentro una stanza, buttiamo via la chiave e stiamo a pane e acqua fino ad arrivare a una soluzione finale”, dice chiaro Letta. “Acceleriamo il dialogo con il centrodestra con l’impegno di trovare nelle prossime ore una soluzione condivisa.
LA DIRETTA
Ore 08.30 – “Casellati? È la seconda carica dello Stato, non ha bisogno di essere candidata…. Pera, Moratti e Nordio sono nomi all’altezza. Spero che Conte e Letta non si fermino ai no”. Lo dice Matteo Salvini prima di andare nei suoi uffici a Montecitorio. “Il mio tentativo è quello di dialogare” conclude il leader della Lega. “Il nuovo premier non lo troviamo a Campo de Fiori…Stiamo lavorando già a un Presidente della Repubblica e io ho un’idea. Qualora Draghi lasciasse il governo avremmo settimane di confusione, sarebbe un problema per l’Italia, con la crisi economica, sanitaria…”. “A parte che se perdo tre chili male non mi fa, ma il mio tentativo e’ dialogare, ma per farlo bisogna essere in due. Se mi siedo a un tavolo e mi dicono, ‘sono pronto a dialogare ma qualunque nome tu mi faccia è no’, allora si capisce che è un dialogo un po’ particolare. Noi dei nomi li abbiamo fatti. E ne potremmo farne altri dieci all’altezza, speriamo che ce ne sia uno di questi nomi che vada bene, dopo 30 anni uno non di sinistra”.
Ore 09.05 – “Con i tre nomi del centrodestra si è fatto un passo in avanti, stiamo parlando finalmente di iniziare a discutere, a votare nomi. Basta con questa manfrina delle schede bianche che mal si lega alla situazione che stiamo vivendo. Bisogna fare presto”. Lo ha detto il leader di Italia viva Matteo Renzi a Cartabianca, su Rai3 “Sono nomi di livello, – aggiunge – ma noi domani non li voteremo”. Ipotesi Casellati? “Che il centrodestra presenti tre candidati per tirare il terzo mi sembra mancanza di rispetto ai tre candidati, come dire che sono finiti”.
“Se penso che Draghi possa andare al Quirinale ?Assolutamente sì. E sono contento che questo paese si sia innamorato di Draghi, perchè un anno fa quando dicevo che bisognava mandare a casa Conte mi dicevano che ero pazzo”. Lo ha detto il leader di Italia viva Matteo Renzi a Cartabianca, su Rai3 affermando: “Sono stato più draghiano di Draghi”. “Non vedo l’idea che comunque vada Draghi rischi di lasciare il governo. – aggiunge – Io però non sono convinto che la partita non sia chiusa, nè alla quarta, nè alla quinta, nè alla sesta votazione secondo me Draghi è ancora in pista per fare il presidente della Repubblica”.
Ore 10:30 – Come nelle prime due giornate di voto, e nell’attesa di trovare un accordo su un nome condiviso, i partiti confermeranno l’indicazione della scheda bianca. È questa infatti la scelta di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Leu da una parte e della coalizione di centrodestra dall’altra.
Ore 11:00 – Via al terzo giorno di votazioni a Montecitorio per eleggere il Presidente della Repubblica.
Ore 11.45 – Fratelli d’Italia si smarca dal centrodestra e, per ora, non sta rispondendo alla prima chiama della terza votazione per il capo dello Stato. Il partito di Giorgia Meloni, raccontano, infatti, ancora non ha deciso se votare scheda bianca come il resto della coalizione. L’ufficialità in una nota: il partito di Giorgia Meloni indicherà il nome di Guido Crosetto.
Ore 11.55 – “Anche oggi, facendo seguito al nostro patto di consultazione, come Europa Verde e Sinistra Italiana voteremo convintamente Luigi Manconi alla Presidenza della Repubblica” affermano i co-portavoce nazionali di Europa Verde Angelo Bonelli e Eleonora Evi e ii segretario nazionale di sinistra italiana Nicola Fratoianni. “Una figura che può creare quella convergenza fondamentale che può far superare le barriere degli schieramenti.”
Ore 12.20 – Matteo Renzi a La7: “Io ho detto a Letta e Salvini che se avessero deciso di fare il conclave saremo andati per discutere, ma per far che? È uno show che non sta in piedi”. Poi aggiunge, sulla poltrona del Senato che in caso di elezione di Casellati lo vedrebbero in pole position per sostituirla: “Io penso di essere l’uomo politico più antipatico d’Italia ma non faccio mai una battaglia per un posto per me. Mai uno scambio che mi vede al Senato“. Inoltre da uno guardo alle prossime votazioni: “Voi state facendo uno schema che alla quarta Salvini e Meloni portano la Casellati. Questo disegno punta a ricostituire la maggioranza gialloverde, e se andasse avanti il centrosinistra tenterebbe il controblitz“. “La destra – aggiunge il senatore – ha due obiettivi: mettere in campo tre candidature di livello e ottenere il presidenzialismo. Se lo fa porta a casa il risultato, ma se perde ottiene il capolavoro di un altro presidente di sinistra“. Renzi sottolinea l’urgenza di arrivare a un nome: “Un presidente della Repubblica non si fa facendo a gomitate. Il gioco a contendersi i resti dei 5s non ha senso, mettiamoci insieme e individuiamo un nome (Draghi va bene, Casini va bene).
Ore 12.58 – Il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato Luca Ciriani: “FdI non partecipa a nessun conclave“.
Ore 13:00 – Le possibilità di una ‘ascesa’ al Quirinale della Casellati si riducono. A chiarire infatti la posizione del Movimento 5 Stelle è Stefano Buffagni, ricordando i ‘precedenti’ del presidente del Senato sul caso Ruby-Mubarak. “Sono sicuro che il centrodestra alla fine non tirerà fuori dal cilindro il nome di Elisabetta Casellati. Non potrei mai votare come presidente della Repubblica, e come me tutto il m5s, chi ha avuto il coraggio di avallare la tesi di Ruby nipote di Mubarak e che ha utilizzato voli di Stato durante il lockdown per recarsi in vacanza in Sardegna”, scrive su Facebook Buffagni.
Ore 13:15 – Mentre l’ipotesi di ‘conclave’ si allontana, sono in corso contatti tra i vertici del Partito Democratico e il leader della Lega Matteo Salvini. Fonti dem spiegano il tentativo del partito è di convincere Salvini a non procedere domani, nella quarta votazione, in autonomia su un nome di centrodestra come quello della Casellati perché in questo modo salterebbe la maggioranza che regge il governo Draghi.
Ore 13:45 – Sara Cunial, deputata eletta tra le fila del Movimento 5 Stelle e oggi passata nel gruppo Misto, tramite l’avvocato Edoardo Polacco ha presentato querela nei confronti del presidente della Camera Roberto Fico e contro ignoti, poiché era stata respinta al seggio drive-in, dove ha tentato di votare per l’elezione del presidente della Repubblica, nonostante fosse sprovvista di green pass. “Ciò che sta avvenendo è gravissimo. In questi giorni, si sta impedendo a un parlamentare democraticamente eletto dal popolo italiano, di esprimere legittimamente il proprio mandato e di adempiere al proprio incarico, anzi al suo più alto incarico in relazione all’elezione del Presidente della Repubblica”, ha affermato Cunial, che ha definito il provvedimento “un atto illegittimo, lesivo non solo dei miei diritti ma della nostra stessa Carta Costituzionale e della normativa nazionale e internazionale di riferimento”.
Ore 14:13 – Terminata nell’aula di Montecitorio la terza votazione, è iniziato lo spoglio che viene effettuato personalmente dal presidente della Camera Roberto Fico.
Ore 14:45 – Lungo incontro tra Enrico Letta e Matteo Renzi alla Camera, negli uffici del gruppo di Italia viva. Il colloquio, spiegano fonti del Nazareno, è servito “per concordare i prossimi passi”.
Ore 14:59 – A spoglio in corso sono quasi cento i voti per Sergio Mattarella (ieri le preferenze sono arrivate a 39). Segue Guido Crosetto, votato oggi dai grandi elettori di Fratelli d’Italia. Segue il candidato di Alternativa C’è, Paolo Maddalena. Cresce anche Pier Ferdinando Casini. Preferenze anche per Giancarlo Giorgetti, Umberto Bossi, l’ex generale Antonio Pappalardo. Voti poi a Marta Cartabia e Pierluigi Bersani.
Ore 15.38 – 125 voti per Sergio Mattarella, Guido Crosetto proposto da Fratelli d’Italia, ha raccolto 114 voti, Paolo Maddalena 61, Pierferdinando Casini 52. I votanti al terzo scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica sono 978. Voti dispersi 84, schede nulle 22. Domani quarto scrutinio alle ore 11 con quorum a 505.
“Sono onorato. Non ho seguito alcuno spoglio ma sono commosso. C’è la capacità del centrodestra di essere attrattivo anche fuori dal centrodestra”, ha commentato così Guido Crosetto, a Montecitorio, il risultato della terza votazione. L’ex deputato ha superato i cento voti, poco meno di quelli ricevuti dall’attuale Presidente della Repubblica in carica ancora fino a giovedì 3 febbraio.
Ore 15:50 – Da Enrico Letta arriva un messaggio chiarissimo sulla possibile candidatura di Maria Elisabetta Casellati da parte del centrodestra, che pensa ad una prova di forza nella quarta di votazione di giovedì con quorum abbassato a 505. Per il segretario Dem “proporre la candidatura della seconda carica dello Stato, insieme all’opposizione, contro i propri alleati di governo sarebbe un’operazione mai vista nella storia del Quirinale. Assurda e incomprensibile. Rappresenterebbe, in sintesi, il modo più diretto per far saltare tutto”.
Ore 16:30 – Il bello della diretta, o per meglio dire della “Maratona Mentana”. Il direttore del tg di La7 ha infatti ricevuto una telefonata in diretta di Beppe Grillo, il garante e cofondatore del Movimento 5 Stelle, che ha smentito la ricostruzione di questa mattina secondo cui avrebbe telefonato a Giuseppe Conte per convincere il leader pentastellato a votare Draghi al Quirinale.
Ore 16:45 – La guerra per il Quirinale tra Lega e M5S: Di Maio e Giorgetti contro Conte e Salvini
Ore 16:50 – “Lavoro con fiducia, serietà e ottimismo. La soluzione può essere vicina“, dice il leader della Lega Matteo Salvini, che ha convocato una riunione con i governatori del Carroccio alle 17,30 e con i vertici del partito alle 18. Successivamente il segretario della Lega vedrà i gruppi parlamentari e potrebbe anche fare un nome nuovo per il Colle superando la candidatura della Casellati.
Sullo sfondo resta la possibilità di un incontro Letta-Salvini in serata, che potrebbe portare ad una soluzione che sblocchi l’impasse.
Ore 17.35 – “Se domani si va al muro contro muro tra centrodestra e centrosinistra, si rischia di spaccare seriamente la maggioranza. Cerchiamo un nome condiviso tra centrodestra e centrosinistra”, dice il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, interpellato sugli scenari in vista della quarta votazione per l’elezione del presidente della Repubblica.
Ore 18:05 – Fratelli d’Italia si mette di traverso su una possibile trattativa sul nome condiviso per il Quirinale. Il partito di Giorgia Meloni infatti in una nota sottolinea di ritenere “imprescindibile una votazione compatta del centrodestra su un candidato della coalizione, come concordemente valutato nell’ultimo vertice”, ovvero uno tra Letizia Moratti, Marcello Pera e Carlo Nordio. FdI quindi affida a Matteo Salvini “il mandato individuare, attraverso le sue molteplici interlocuzioni, il candidato più attrattivo tra quelli presentati ieri”.
Ore 18:33 – Gianni Letta presidente della Repubblica, il jolly di Berlusconi e Salvini per convincere il nipote Enrico
Ore 19:00 – Il segretario della Lega Matteo Salvini avrebbe incontrato il giudice emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro Sabino Cassese nella sua casa ai Parioli. La notizia è stata smentita dalla Lega
Ore 19:30 – Il leader del Carroccio smentisce qualsiasi incontro con il costituzionalista Sabino Cassese. “Non so dove abita“, assicura il leader della Lega. “Abita ai Parioli? Non ci sono stato oggi dalle parti dei Parioli…”. Poi avvisa i giornalisti: “Tenete i telefonini accesi perché sarà una lunga notte di lavoro“. Salvini non ha voluto anticipare cosa voterà domani il centrodestra nella quarta votazione: “Avendo riunito i miei 200 elettori mi sembra più rispettoso parlarne prima con loro che con la libera stampa”. Quando gli viene chiesto dell’esclusione di Draghi e Casini, regala una chicca: “Non mi piace escludere, non sono nato per escludere ma per includere (e i migranti?, ndr), per proporre. Continuo a ritenere, come penso la stragrande maggioranza degli italiani, imprenditori, artigiani, che Draghi sia prezioso nel suo ruolo di regista, coordinatore, collante di una coalizione di governo che ovviamente è amplissima – ha aggiunto arrivando alla riunione con i parlamentari della Lega -. Senza Draghi penso che avrebbe qualche difficoltà di linea di direzione”. Infine bacchetta Pd e M5S: “Stiamo lavorando, continuiamo a lavorare per offrire nomi di alto profilo ma non possiamo permettere che il Paese rimanga ostaggio di no e veti della sinistra. Abbiamo fatto nomi di altissimo profilo, altri ne faremo. Da Pd e M5s invece sono mancate le proposte”.
Ore 20:10 – “Stiamo cercando di convincere le forze di centrodestra a evitare esibizioni muscolari che significherebbero contrapposizione, lo spirito opposto a quel clima che stiamo costruendo”. Sono le parole del leader del M5S Giuseppe Conte all’uscita da Montecitorio. “Se domani dovesse venire una proposta di parte, una prova di forza si ritarda ancora la soluzione – ha sottolineato Conte – la Presidente Casellati è la seconda carica dello Stato, come può essere strumentalizzata per una prova di forza? Non avrebbe proprio senso, sarebbe un cortocircuito”. “Cassese? Non so nulla” ha aggiunto. Poi ribadisce: “Non è questione di conclave, l’importante è coltivare lo spirito di questo confronto e trovare una soluzione… Le forze di centrosinistra avrebbero tanti candidati degnissimi da proporre. Il centrodestra altrettanto. Lo schema che da subito ho proposto, complice il fatto che il M5S è una forza innovatrice, è puntiamo subito a un candidato super partes, autorevole, ampiamente condiviso”.
Ore 20:40 – Si profila una notte di incontri per sciogliere il nodo sul nome da portare domani in aula per la quarta votazione sul presidente della Repubblica. Il vertice del centrodestra dovrebbe riunirsi dopo le ore 22. L’incontro dovrebbe avvenire in parte in presenza e in parte in streaming, dal momento che Antonio Tajani e Licia Ronzulli si trovano a Milano. In base a quanto viene riferito, fra i nomi sul tavolo ci sarà quello di Pier Ferdinando Casini. L’ex presidente della Camera oggi ha ricevuto 52 voti e la sua candidatura è spinta dai centristi. “Se fosse il centrodestra a proporlo, il centrosinistra non potrebbe non votarlo”, è il ragionamento che viene fatto. Nulla, però, viene spiegato, è ancora chiuso. Ma il M5S alza le barricate. Se Pd, Iv e centrodestra vogliono votare Pierferdinando Casini lo facciano pure ma si preparino a sostenere da solo il governo, M5s va all’opposizione. E’ questa la voce che circola tra i pentastellati.
Ore 21:10 – L’area del centrodestra frena su Casini. Secondo quanto si apprende da fonti parlamentari la Lega non punterebbe su Casini e neanche Fratelli d’Italia sarebbe propensa ad aprire. Anzi. Per il Pd, in realtà, l’ex presidente della Camera sarebbe un ‘piano B’, ma i centristi insistono che se non c’è Draghi allora c’è Casini. Potrebbe aprire, invece, secondo quanto si apprende Forza Italia ma solo una parte del Movimento 5 stelle. Il Pd punta ad una soluzione istituzionale, ad un’intesa che non crei scossoni sia per quanto riguarda la partita di palazzo Chigi che su quella sul Colle. Il vertice del centrodestra è convocato alle 22.30, posticipato di mezz’ora rispetto a quanto inizialmente candidato.
Ore 21: 15 – Malumori spuntano tra Fdi e Lega. Fonti del partito guidato da Giorgia Meloni sostengono che la decisione di votare Guido Crosetto da parte di Fratelli d’Italia “era concordata con Matteo Salvini”, che non “avrebbe mosso obiezioni”.
Ore 21.25 – Posticipato il vertice dei leader del centrodestra: si terrà domani mattina alle 8,30 negli uffici del gruppo Lega alla Camera, prima della quarta chiama.
Ore 21:30 – Iniziata nell’Aula dei gruppi parlamentari la riunione fra il segretario Enrico Letta e i grandi elettori del Pd. “Ora viene il passaggio più complesso, in cui ognuno di noi ha una idea e dobbiamo trovare una sintesi. Una complessità mai così forte”, ha detto Letta. E poi ha aggiunto “Nel Parlamento più frammentato di sempre c’è una sovrapposizione di due perimetri diversi: quello della maggioranza e quello del centrosinistra”. Domani sarà quindi una giornata di dibattiti, mentre stasera si riflette sullo stato dell’arte del Parlamento.
Ore 21:40 – Secondo quanto twittato dall’onorevole Ceccanti, capogruppo Pd commissione Affari costituzionali, il segretario dem Letta ha detto che “L’accordo deve tenere insieme tutta la maggioranza”. Ma soprattutto il leader del Pd ha affermato che “se non ci saranno novità entro domattina confermerò la scheda bianca”, presentando l’ipotesi di votare un presidente non di parte, e quindi non di destra, nella giornata di venerdì.
Ore 22:00 – Fibrillazioni anche durante il vertice del M5S. Giuseppe Conte, parlando ai grandi elettori del Movimento, ha affermato che il Movimento “non è una forza politica che fa inciuci o caminetti, nessuno scambi la necessità di riservatezza col fatto che seguiamo percorsi poco trasparenti”. “A noi – ha aggiunto – interessano i risultati. Non abbiamo detto no a nessuno, abbiamo detto sì, lavoriamo per il Paese, siamo disponibili a rilanciare l’esecutivo con un patto di cittadini e non di legislatura”. Il Movimento sta dialogando per una soluzione condivisa, fanno sapere fonti pentastellate.
Ore 22: 10 – Il segretario Dem Enrico Letta scarica le colpe sul centrodestra. La trattativa per il Quirinale è “difficile” perché il centrodestra ha detto no a tutte le ipotesi di “personalità terze”, ha detto il segretario dem Enrico Letta ai grandi elettori del Pd. “È una trattativa difficile perché dal centrodestra sono arrivati tutti no. Ma lo schema di lavoro è stato diverso: i nostri no erano pubblici, i loro una lunga sfilza di no privati. Spero che almeno uno dei loro no si trasformi in sì”. “Per ora il centrodestra nella sua interezza ha detto di no a tutte le nostre ipotesi di personalità terze: Mattarella, Draghi, Amato, Casini, Cartabia, Riccardi”.
Ore 22: 15 – Durante l’assemblea dei grandi elettori del M5S, Conte lancia un messaggio al centrodestra: “Quando si è diffusa l’ipotesi di candidatura di Casellati da parte del centrodestra si erano create le premesse di un cortocircuito con noi e di uno sgarbo verso di lei: una carica istituzionale non può essere trasformata in candidatura di bandiera. Creerebbe imbarazzo istituzionale senza logica. Ci auguriamo questa ipotesi venga accantonata dal centrodestra”.
Ore 22:30 – Concluso il vertice dei grandi elettori del M5S. Conte ha concluso il suo intervento sottolineando che si cercherà di arrivare alla “soluzione più alta e autorevole possibile”. ”Io – ha aggiunto – non so dove atterreremo ma vi posso dare la mia parola d onore che mi batterò per atterrare alla soluzione più alta e autorevole possibile”.
Aumentano i voti per l'attuale Capo dello Stato Mattarella. Quirinale, i nomi e le ipotesi dopo la terza giornata: Casini e Cassese corteggiati dal centrodestra. Redazione su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
Ancora fumata nera nel terzo giorno dell’elezione del presidente della Repubblica. Le urne si sono aperte questa mattina alla Camera alle ore 11 e lo spoglio è terminato dopo le 14. Diminuiscono le schede bianche al terzo scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica, scendendo dalle 527 di ieri a 412, e i partiti, anche al loro interno, iniziano a contarsi.
Durante lo spoglio si impongono i nomi di Sergio Mattarella e Guido Crosetto, lanciato a sorpresa da FdI. Per l’attuale Capo dello Stato spiccano 125 voti, mentre quelli incassati dal cofondatore di Fratelli d’Italia sono 114, quasi il doppio dei 63 grandi elettori del partito di Giorgia Meloni. Al terzo posto c’è il giurista Maddalena con 61 voti di ‘Alternativa c’è’ e di molti ex M5s, seguito da Casini che raggiunge quota 52.
Lega e Forza Italia hanno votato scheda bianca anche alla terza votazione. E la stessa indicazione è arrivata dal centrosinistra: Pd, M5S e Leu. Probabilmente, sono i pentastellati che hanno alzato la posta su Mattarella, nonostante il presidente della Repubblica uscente abbia più volte espresso l’intenzione di lasciare il Quirinale.
La situazione è ancora in stallo. Dopo l’onda cavalcata con il nome della seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, poi respinto dal segretario del Pd Enrico Letta perché “farebbe saltare tutte le trattative”.
Alla viglia della quarta votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica che vedrà il quorum scendere a quota 505, tra i partiti regna il caos ed un nome su cui convergere ancora non c’è.
L’incertezza aumenta e certifica un Parlamento in stallo, dove permangono antipatie e litigi nati in passato. Fdi polemizza per la scelta dei due partiti di centrodestra di votare scheda bianca, nonostante l’accordo tra Meloni e Salvini di votare Guido Crosetto, proposto dal partito guidato da Meloni.
La soluzione di Matteo Salvini per la corsa al Quirinale potrebbe essere Sabino Cassese. La notizia è stata data dal quotidiano Il Foglio. Il segretario della Lega questo pomeriggio si sarebbe recato nella casa romana del professore Cassese ai Parioli. Candidatura né smentita né confermata dal diretto interessato.
Le Lega, nel giro di pochi minuti dalla pubblicazione della notizia, ha smentito l’incontro. “Non so dove abita”, assicura il leader della Lega. “Abita ai Parioli? Non ci sono stato oggi dalle parti dei Parioli…”. Poi avvisa i giornalisti: “Tenete i telefonini accesi perché sarà una lunga notte di lavoro”. Peccato però, che dopo vari rinvii, sia arrivata la conferma di un vertice dei leader di centrodestra che si terrà domani mattina, prima della quarta chiama.
Ma Salvini non ha voluto anticipare cosa voterà domani il centrodestra nella quarta votazione.
Oltre al nome di Cassese, in giornata è circolato quello di Pierferdinando Casini. L’ex presidente della Camera è stato sedotto e abbandonato dal centrodestra ma anche dal centrosinistra. Inizialmente la carta Casini, che oggi ha ricevuto 52 voti, è stata presentata dai centristi. “Se fosse il centrodestra a proporlo, il centrosinistra non potrebbe non votarlo”, è il ragionamento che viene fatto. Ma il M5S ha alzato le barricate e ha minacciato di passare all’opposizione. Così il centrodestra ha frenato sul nome dell’ex presidente della Camera.
Al di là dei quanto filtri dalle riunioni, rimane avvolta nel buio l’ipotesi di convergere sul premier Mario Draghi. Il segretario leghista torna ribadire la necessità di lasciare SuperMario a palazzo Chigi: “Senza il premier penso che avrebbe qualche difficoltà di linea di direzione”. Un fronte, quello che non vuole che il premier traslochi al Colle, che comprende anche Beppe Grillo. Il fondatore M5s nel corso di una telefonata con Giuseppe Conte avrebbe concordato sul fatto che il presidente del Consiglio resti a Chigi.
A meno di sorprese dunque i nomi su cui si continua a lavorare sono gli stessi, mentre gli italiani attendono di conoscere chi sarà il primo cittadino dello Stato.
IL NOME DI BANDIERA. Chi è Guido Crosetto, votato al Quirinale da Fratelli d’Italia. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 26 gennaio 2022.
Fondatore del partito insieme a Giorgia Meloni oggi è il capo della lobby dell’industria degli armamenti: Fratelli d’Italia ha deciso di votarlo nella terza giornata dell’elezione del presidente della Repubblica per “contarsi”
Nel corso della terza giornata di votazioni per il presidente della Repubblica, Fratelli d’Italia ha deciso di fare il nome di Guido Crosetto, ex parlamentare, fondatore del partito e consigliere di Giorgia Meloni. Crosetto non ha possibilità di essere eletto, ma è stato votato per “contarsi”, cioè verificare di quanti dispone Meloni. Sulla carta, Fratelli d'Italia dispone di 63 grandi elettori e quindi ci si aspettano almeno altrettanti voti per lui.
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LA CARRIERA
Guido Crosetto ha 58 anni ed è nato a Cuneo, in Piemonte. Nel 2012 insieme a Giorgia Meloni e ad altri dirigenti politici provenienti dalla galassia della destra radicale ha fondato Fratelli d’Italia, di cui è stato anche coordinatore nazionale. Da qualche anno si è ritirato dalla vita politica, anche se è spesso ospite di trasmissioni tv come opinionista. Dal 2014 è presidente dell’Aiad, l’associazione di categoria delle imprese del comparto difesa.
La sua carriera politica è iniziata negli anni Ottanta, quando frequentava l’università ed era iscritto alla Democrazia Cristiana. Nel 2001 viene eletto per la prima volta deputato con Forza Italia. Nel quarto governo Berlusconi, tra 2008 e 2011, ricopre l’incarico di sottosegretario al ministero della Difesa.
È in questo periodo in cui Crosetto si avvicina a Meloni. Anche se provengono da percorsi diversi, Meloni viene da Alleanza nazionale e dalla destra radicale, Crosetto dalla Dc e dall’ambiente liberale e conservatore, entrambi militano nel Popolo della libertà. Quando il partito entra in crisi dopo la caduta del governo Berlusconi, Meloni e Crosetto decidono di fondare Fratelli d’Italia.
Il partito inizialmente si presenta come una formazione liberale, anche se di ispirazione conservatrice. Crosetto, ad esempio, dice che il candidato ideale del partito è il giornalista Oscar Giannino. Con il passare dei mesi, però, l’identità del partito torna a spostarsi verso destra. Nel 2014, Crosetto annuncia l’abbandono dell’impegno politico e diventa presidente dell'Aiad.
Ma continua a mantenere buoni rapporti con Meloni e con il partito. Tanto che nel 2017 partecipa al congresso di Fratelli d’Italia e l'anno dopo viene eletto deputato nelle sue liste. Non durerà molto, però. A maggio, pochi mesi dopo le elezioni, annuncia le sue dimissioni da deputato e torna a esercitare a tempo pieno il suo lavoro di presidente delle industrie del comparto difesa.
IL QUIRINALE
Il voto per Crosetto di oggi è soprattutto un espediente tattico di Fratelli d’Italia. Crosetto non ha vere possibilità di essere eletto e questo Meloni lo sa bene. Votando per lui, però, Fratelli d’Italia comunica la sua distanza dal resto del centrodestra, che invece ha votato scheda bianca, e ha l’occasione di “contarsi", cioè di mostrare agli altri partiti quanto vale e ottenere quindi maggior peso nelle trattative dei prossimi giorni.
DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.
Il nome del partito di Giorgia Meloni. Chi è Guido Crosetto, il candidato di Fratelli d’Italia a Presidente della Repubblica alla terza votazione. Vito Califano su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
Il gruppo di Grandi Elettori di Fratelli d’Italia ha oggi, al terzo giorno di votazioni per il Presidente della Repubblica, voterà Guido Crosetto. I votanti di Fdi hanno risposto alla seconda chiama. Ignazio La Russa ha comunque spiegato che la decisione non rappresenta una divisione nel centrodestra. “Vogliamo dare un segnale che questa storia della scheda bianca cui ci sta costringendo la sinistra deve finire. E dimostreremo anche che siamo un partito compatto, i nostri 63 voti li prenderemo tutti”, ha assicurato citato dall’Aska. Fdi esprime 21 i senatori, 37 deputati e 5 delegati regionali per un totale di 63 delegati.
“Non facciamoci illusioni, potrebbe ancora essere Draghi, e si vota tra un anno”, uno degli ultimi commenti di Crosetto, tra i fondatori del partito guidato da Giorgia Meloni, in queste ore di trattative convulse e caos sulla corsa al Quirinale. Classe 1963, nato a Cuneo, imprenditore che fin da giovanissimo ha preso la guida dell’azienda di famiglia che produce macchine per l’agricoltura. L’attività si era poi allargata al comparto immobiliare e turistico. Ha studiato Economia all’Università degli studi di Torino. Da giovane era iscritto alla sezione giovanile della Democrazia Cristiana.
Divenne segretario regionale del movimento giovanile e responsabile nazionale della formazione. È stato consigliere economico del Presidente del Consiglio Giovanni Goria, sindaco di Marene in provincia di Cuneo dal 1990 al 2004, candidato di Forza Italia alla Presidenza della Provincia di Cuneo nel 1999, consigliere provinciale fino al 2009 con l’incarico di capogruppo di Forza Italia. È stato eletto alla Camera dei deputati nelle elezioni nel 2001, nel 2006 e nel 2008 prima nelle fila di Forza Italia e quindi con il Popolo delle Libertà.
Crosetto è stato sottosegretario alla Difesa nel IV governo Berlusconi e tra i fondatori di Fratelli d’Italia di cui è stato coordinatore nazionale. È stato nominato nel 2014 presidente dell’Aiad, la Federazione delle Aziende Italiane per Aerospazio. Ha fondato Fdi con Meloni e La Russa nel dicembre 2012. Si è candidato a Presidente della Regione Piemonte piazzandosi quarto con il 5,73%. Dopo aver lasciato la politica nel 2014, è tornato in campo nel 2017 candidandosi alle elezioni del 2018 come capolista alla Camera, dove è stato eletto. Si è dimesso da Montecitori nel marzo 2019 per tornare a svolgere a tempo pieno il ruolo dell’AIAD e quindi da coordinatore del partito. È stato presidente di Orizzonte Sistemi Navali, impresa creata come joint venture tra Fincantieri e Leonardo specializzata in sistemi ad alta tecnologia per le navi militari e di gestione integrata dei sistemi d’arma.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Quirinale, Crosetto: «Che onore quei 114 voti. Ma in tempi così difficili va scelto un padre nobile». Giuseppe Alberto Falci su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.
L’ex deputato di FdI al terzo scrutinio per la scelta del presidente della Repubblica ha ottenuto 51 voti in più dei grandi elettori del partito: «È un piacere vedere che ho seminato a livello umano. Ci punto? Ho senso della misura».
Nella tarda mattinata Guido Crosetto, imprenditore, ex parlamentare, fondatore di Fratelli d’Italia, riceve una chiamata da Giorgia Meloni. «Ero al lavoro, a fare il privato cittadino, si illumina il cellulare ed è Giorgia: “Scusami, non ti creo problemi se propongo il tuo nome come candidato alla presidente della Repubblica?”».
E lei, Crosetto, cosa risponde?
«Intanto la ringrazio, le dico che sono lusingato e che può procedere, che so benissimo che è una candidatura di bandiera ma che è sempre un onore. Per di più è stata annunciata nel pieno della prima chiama della terza votazione».
Se l’aspettava?
«No. Anche perché pensavo che il centrodestra potesse votare uno dei candidati proposti nella rosa».
Il Corriere ha una newsletter dedicata alla corsa al Quirinale: si intitola «Diario Politico», è gratuita, e per iscriversi basta cliccare qui
La sua candidatura dimostra che il centrodestra non è compatto.
«A me pare che sia compatto. Quando nessuno ha la maggioranza, l’elezione del presidente della Repubblica è una partita a scacchi. Fai diverse mosse ma te ne accorgi solo a fine partita».
Lei ha insomma scalzato la concorrenza di Carlo Nordio, Marcello Pera, Letizia Moratti. A suo avviso su chi dei tre avrebbe dovuto convergere il centrodestra?
«Non sono un grande elettore. E sono tre amici...».
Cosa succede un minuto dopo esser stato candidato al Quirinale?
«Ricevo centinaia di chiamate e di messaggi da amici, ex colleghi parlamentari, conoscenti. Ma mi affretto subito a spiegare: “Guarda che la mia è una candidatura di bandiera”. Dovrei prendere i 63 voti di Fratelli d’Italia. Risentiamoci dopo il voto».
Quando si conclude lo spoglio della terza votazione Crosetto ottiene 114 voti, una cinquantina in più dei grandi elettori di Fratelli d’Italia. Lo ricontattiamo.
Si è commosso?
«Mi sono sentito onorato dall’amicizia di tanti ex colleghi. È un piacere vedere che si è anche seminato umanamente. Poi però sì che il risultato è il frutto di un impegno personale di Giorgia e dei due capigruppo che hanno cercato di non farmi fare brutta figura».
A questo punto ci crede?
«Ma no, per chi mi prende? Ho rispetto delle istituzioni e senso della misura. Voglio credere nella capacità del Parlamento di individuare una persona autorevole nella quale riconoscerci tutti. Tempi difficili richiedono padri nobili».
Che significato dà il suo risultato?
«Il mio risultato dà ragione a Giorgia Meloni quando dice che il centrodestra può avere una capacità attrattiva in questo Parlamento e che deve misurarsi compattamente su una proposta condivisa. Perdere un’occasione per timore è forse peggio di perdere la partita».
E adesso come si comporterà FdI?
«Sosterrà una candidatura unitaria».
L’operazione Crosetto va a segno: «Sono onorato e commosso». L'ex parlamentare di Fratelli d’Italia capitalizza quasi il doppio delle preferenze rispetto a quelle avute sulla carta: i grandi elettori del partito di Giorgia Meloni, infatti, sono 63. Il Dubbio il 26 gennaio 2022.
«Mi chiami pure presidente, tanto a Roma sono tutti dottori e presidenti…». Raggiunto al telefono dall’Adnkronos Guido Crosetto sta al gioco e sorride quando gli viene chiesto come ci si sente, per un giorno, nei panni di candidato alla presidenza della Repubblica.
Per denunciare e stoppare il «balletto surreale delle bianche», Fdi aveva lanciato l’operazione “Guido for president”, chiedendo ai suoi grandi elettori di indicare nella scheda, alla terza votazione per il Colle, il nome dell’ex sottosegretario dei governi Berlusconi e poi fondatore del partito di Giorgia Meloni. Così alla fine Crosetto ha ottenuto 114 voti nel corso della terza votazione per eleggere il presidente della Repubblica, capitalizzando quasi il doppio delle preferenze rispetto a quelle avute sulla carta: i grandi elettori del partito di Giorgia Meloni, infatti, sono 63. «Sono onorato, commosso, grazie», commenta dopo lo spoglio. «Secondo me è la capacità, se volesse il centrodestra, di poter prendere voti anche al di fuori del centrodestra. Ci sono, ed escludo me ovviamente dal giudizio, persone nel centrodestra che hanno questa capacità», aggiunge l’ex parlamentare.
«I miei 114 voti dimostrano che Giorgia Meloni aveva ragione e ha lavorato bene: i grandi elettori del centrodestra volevano esprimersi e vogliono un presidente della loro area…», dice ancora Crosetto. Che poi scherza: «Io al Quirinale? Sì, il 2 giugno per la festa della Repubblica, se mi invitano». Crosetto parla poi azzarda qualche pronostico: «Penso che entro venerdì avremo il Presidente della Repubblica. Auspico che si arrivi a una personalità il più condivisa possibile. I gruppi parlamentari hanno voglia di votare dei nomi dopo tante schede bianche ma se è difficile trovare accordi nelle riunioni di condominio, figuriamoci nell’elezione del presidente della Repubblica».
"Da repubblica delle banane", perché a Omnibus stroncano Elisabetta Belloni presidente. Federica Pascale su Il Tempo il 27 gennaio 2022.
Durante la puntata di Omnibus di giovedì 27 gennaio, si commentano in studio le parole del segretario del PD Enrico Letta, che rimane dell’idea che sia necessario trovare un candidato super partes per il Quirinale e che, pare, abbia convinto anche il centrodestra a proporre nomi “meno divisivi”.
Ospite in collegamento la giornalista del Corriere della sera Maria Teresa Meli, che evidenzia: “È l’unica vittoria che si possa dire del centrosinistra, che è spaccatissimo. Salvini non è andato avanti con la prova di forza della Casellati”. Ma è una vittoria facile, “perché mi pare che in questo momento Salvini sia davvero in difficoltà”.
Logica avrebbe voluto che il segretario della Lega si intestasse la candidatura di Mario Draghi per il Quirinale, e tutti avrebbero dovuto supportarla. “Perfino Conte avrebbe dovuto accettare, e fare buon viso a cattivo gioco”. D’altra parte, un centrosinistra frastagliato: “Il PD è spaccato tra Draghi e Casini. I cinque stelle non si capisce cosa vogliono”.
L’unico nome sul quale pare si possa convergere è quello di Elisabetta Belloni, l’unico al quale Conte ha detto sì. La donna a capo del Dis, ossia gli 007 italiani, "è una persone encomiabile e straordinaria, ma l’idea che il capo dei servizi segreti possa andare al Quirinale... neanche nella Repubblica delle banane”. La Meli rimane dell’idea che le uniche due opzioni realistiche siano il senatore di lungo corso Pier Ferdinando Casini e l’attuale presidente del consiglio Draghi. “Un Parlamento che dice che Draghi è un tecnico e non può andare, ma mette la persona che guida i servizi segreti al Quirinale, forse è un Parlamento con problemi gravi”.
Quirinale, sul tavolo restano le carte Casini e Draghi. Gli sms di Casellati ai leader del centrodestra: «Votatemi». Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
La quinta votazione per il capo dello Stato avrà un valore politico: è la prova chiesta da Meloni per dare un segnale di solidità.
Il vertice di centrodestra terminato a notte fonda anticipa un’altra fumata nera oggi. Ma il passaggio della quinta votazione avrà un valore politico, sarà la prova chiesta dalla Meloni per tenere salda l’alleanza prima di arrivare a quella che si prospetta come la chiama decisiva: quella di domani. La leader di Fdi ha chiesto di contarsi in modo da verificare i numeri della coalizione, e il capo della Lega ha accettato la richiesta. Sarà l’ultimo giro di giostra, l’ennesima contorsione di una corsa al Colle che finora è parsa una sciarada.
Ieri Salvini aveva passato la giornata nel disperato tentativo di sfuggire alla forza di gravità, facendo suo lo slogan di Conte, secondo il quale bisognava «trovare rapidamente un nome per evitare il nome di Draghi». Così nel pomeriggio — dopo una performance da dimenticare per il centrodestra alla quarta votazione — il segretario del Carroccio aveva rilanciato su Frattini, figura condivisa giorni fa con il leader del Movimento. Già allora era stato sommerso da una valanga di no. Compreso quello dell’Ambasciata americana, che era sobbalzata al nome dell’ex ministro degli Esteri considerato un «filo russo». Al secondo tentativo, si è beccato anche il veto della sua coalizione e sottovoce persino quello dei suoi compagni di partito.
Qui trovate il «calcola maggioranze». Qui invece il link per iscriversi alla newsletter «Diario Politico» (è quotidiana, e gratuita)
Era stata l’ennesima mossa per resistere alla forza di gravità e all’insistenza della Meloni, perché l’operazione per Salvini resta rischiosa. Più che per i rapporti con il centrosinistra, per lo stato di disgregazione che emerge nel centrodestra, dove i franchi tiratori sono pronti a colpirlo insieme al candidato. Se così stanno le cose, non si capisce come mai per tutto il giorno la Casellati abbia inondato i cellulari di (quasi) tutti i maggiorenti della coalizione con lo stesso, stringato messaggio: «Mi dovete votare». E la sua richiesta è stata esaudita.
In effetti è complicato guidare una trattativa, se oltre alle difficoltà di trattare con gli avversari bisogna gestire le ambizioni degli alleati. Ma un kingmaker non può limitarsi a sostituire una terna di nomi con un’altra nel giro di pochi giorni, senza fare i conti con il principio di realtà. E Salvini ieri ha dovuto constatare la debolezza della linea Maginot costruita assieme a Conte per evitare l’ascesa di Draghi al Colle. È a questo che Di Maio si è riferito quando ha contesta il modo in cui si è giocato con «figure di spessore» come la responsabile del Dis Belloni, finita nel tritacarne dei candidati anche con la complicità di una parte dei democratici. Perché pure nel Pd fino a ieri mattina si era smarrito il senso delle istituzioni, inserendo nella lista dei quirinabili il capo dei Servizi segreti.
Il ministro degli Esteri, oltre a contestare il fatto che «stiamo bruciando alti profili verso i quali serve rispetto», ha avvertito del rischio di un passo falso che farebbe «saltare il governo e ci porterebbe al voto». Così si è rivolto a Salvini e Conte (arroccato vanamente su Mattarella), usando le parole di Draghi. Perché è su Draghi che si ragiona, ora che i leader si trovano a corto di candidati e munizioni. «C’è Draghi in campo», dice Renzi, nonostante il premier — a suo giudizio — abbia «commesso vari errori anche per responsabilità dei suoi collaboratori». «C’è Draghi», ripete Letta per una volta in sintonia con l’acerrimo rivale. «C’è Draghi», sussurrano persino i leghisti più vicini al Capitano. Figurarsi Giorgetti e i governatori, che danno appuntamento alla sesta chiama.
Si vedrà se Berlusconi farà il passo, dopo il colloquio con l’ex presidente della Bce. Se la posizione di Forza Italia, formalmente «non mutata», sia stato solo un gesto rispettoso verso Salvini. Il capo della Lega è chiamato alla decisione: sul tavolo sono rimasti i nomi di Draghi e di Casini. E Salvini al termine di una giornata trascorsa a fare casting, è parso orientato nella scelta: «Il mio obiettivo è tenere unito il centrodestra e la maggioranza di governo». Non è che ci sia molto spazio per la fantasia.
Elisabetta Casellati, chi è la candidata al Quirinale a cui Salvini disse: "Ti farò Presidente". Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.
Dalla sua scorta che sperona quella di Mattarella ai premi accumulati ai voli di Stato: ascesa e incidenti di percorso della seconda carica dello Stato.
Fuori da ogni retorica e ipocrisia, il bello della corsa per il Quirinale è che riattiva la memoria di eventi così belli, simbolici e a questo punto densi di presagi da sembrare finti, mentre al contrario sono avvenuti sul serio.
Era il 17 settembre del 2020 quando, lungo la strada che portava a Vò Euganeo, nel tentativo di superare di gran carriera il mega corteo istituzionale, una delle auto della scorta della presidente
Quirinale, ecco cosa diceva Elisabetta Casellati nel 2011 su Berlusconi e il caso Ruby. su L'Espresso il 26 Gennaio 2022.
Il nome di Elisabetta Casellati - presidente del Senato - è tra quelli spesi in queste ore per la successione a Sergio Mattarella al Quirinale. Per questo motivo è tornata virale sui social un'intervista concessa l'11 aprile 2011 da Casellati a Otto e Mezzo a difesa di Silvio Berlusconi, all'epoca al centro dello scandalo Ruby. "Quando Berlusconi ha incontrato Mubarak prima di questo episodio pare che sia venuto fuori da alcune testimonianze che proprio nell’incontro Mubarak aveva parlato di questa sua nipote, ed era un incontro ufficiale", afferma la presidente del Senato commentando la famosa telefonata alla questura di Milano per chiedere il rilascio di Ruby. "Il centrodestra la vorrebbe al Quirinale", commentano sui social
Maria Elisabetta Alberti Casellati, la zia di Mubarak. Susanna Turco su L'Espresso il 26 Gennaio 2022.
Avanza la candidatura della Presidente del Senato e subito torna sui social la sua performance ai tempi di Ruby.
Il centrodestra converge su Casellati e Mubarak torna in tendenza su twitter. È il primo effetto del nome del possibile candidato del centrodestra alla quinta votazione per la svolta sul Quirinale.
Nemmeno il tempo di domandarsi cosa c’entri la seconda carica dello Stato con Hosni Mubarak, colui che fu presidente dell’Egitto per quasi trent’anni, fino al febbraio 2011, ed ecco che la rete soccorre, con un imperdibile frammento di Otto e mezzo, datato 11 aprile 2011 nel quale la futura presidente, all’epoca sottosegretaria alla Giustizia, intervistata da Lilli Gruber, con soave andamento argomentativo alla Niccolò Ghedini – del resto l’avvocato è suo amico di famiglia e grande elettore - spiegò che sì, Berlusconi aveva telefonato alla questura di Milano ritenendo Ruby la «nipote di...
Così lo Stato ha finanziato le iniziative musicali di Alvise Casellati, figlio della presidente del Senato. Per un filmato visto da poche decine di persone, una sorta di prove generali di un concerto, l’Istituto italiano di cultura di New York ha speso 30.000 dollari per pagare i cantanti del maestro. Il direttore Finotti: “Omaggio a Caruso in collegamento col ministero e il Comitato del centenario”, ma entrambi smentiscono. Il ruolo del direttore d’orchestra nei contratti dei suoi soprani e del suo tenore. Carlo Tecce su L'Espresso il 27 Gennaio 2022.
Finalmente lo Stato è riuscito a sovvenzionare le attività di un artista musicale di rapida e fulgida carriera che in un decennio si è formato e si è consacrato nei più prestigiosi teatri d’opera d’Italia: Alvise Casellati, il direttore d’orchestra, il figlio di Maria Elisabetta Alberti Casellati, la presidente del Senato. Con un investimento di oltre 30.000 dollari, attraverso l’Istituto italiano di cultura di New York, lo Stato si è conquistato il merito e l’onore di finanziare non un concerto, quello è ancora un’aspirazione, ma le prove generali di un concerto del maestro Casellati e dei suoi cantanti. Il filmato è ancora disponibile sulla pagina dell’Istituto su Youtube e ha già deliziato qualche decina di appassionati.
Ogni anno da quattro anni, ben sostenuto da diverse multinazionali italiane, il maestro Casellati si esibisce a New York oppure a Miami, davanti a un pubblico non pagante, con un classico repertorio italiano, brani di Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi, Gaetano Donizetti, Gioachino Rossini. La manifestazione, organizzata da «Central Park Summer Concerts» di cui Alvise è presidente, si intitola «Opera italiana is in the air».
Quest’anno il maestro Casellati ha omaggiato la rinascita dopo la pandemia e il tenore Enrico Caruso nel centenario della scomparsa. Così l’Istituto italiano di cultura di New York, che dipende dal ministero degli Esteri, si è fiondato sull’evento. Il direttore Fabio Finotti, alla vigilia del concerto che si è tenuto il 28 giugno a Central Park, ha ospitato nella sede dell’Istituto un’ora e mezza di lezione a imprecisati allievi del maestro Casellati con i soprani Gabriella Reyes e Jennifer Rowley e il tenore Stephen Costello. Il gruppo ha intonato un paio di arie e il maestro Casellati ha insistito parecchio con la giovane Reyes sull’esigenza di non far vibrare troppo la voce su «Oh mio babbino caro» come ha insegnato Maria Callas. Poi unanime commozione per «Core ‘ngrato».
Quando L’Espresso ha contattato l’Istituto italiano di cultura di New York, il direttore Finotti ha rivendicato la sua impresa, cioè di aver ottenuto «senza il versamento di alcuna somma» che il concerto venisse dedicato a Caruso, «il tutto in collegamento con il ministero della Cultura e col comitato Caruso ivi insediato per celebrare il centenario della morte del tenore che - come lei sa - è un'icona dell'italianità negli Stati Uniti». Chi non sapeva, però, erano proprio il ministero della Cultura e il comitato Caruso ivi insediato. E non li si può biasimare. Poiché il programma ufficiale per le celebrazioni di Caruso è stato presentato al teatro San Carlo di Napoli il 6 luglio con il ministro Dario Franceschini e Franco Iacono, presidente del comitato. «Noi non c’entriamo nulla con New York. Ci hanno soltanto chiesto l’utilizzo del nostro logo e non me ne sono neanche occupato io», racconta Iacono, già deputato socialista e assessore regionale.
Finotti ha sempre quasi confermato e quasi negato una partecipazione economica. Ha quasi risposto. Finché L’Espresso ha chiesto se l’Istituto avesse utilizzato del denaro pubblico per registrare quella lezione – viene chiamata «Masterclass» – in cui il direttore Finotti siede accanto al concittadino maestro Casellati (entrambi sono di Padova) e Reyes e colleghi scaldano le corde vocali prima del concerto di Central Park. A quel punto Finotti ci ha comunicato, in terza persona, di essere in congedo e di rivolgerci alla segreteria dopo il 22 agosto.
Per fare chiarezza, prima che il video raggiungesse le cento visualizzazioni in trenta giorni, L’Espresso ha ricavato le informazioni in altro modo. E dunque l’Istituto italiano di cultura di New York, a parte i costi fissi per le riprese di Awen Films, ha speso 30.000 dollari per ingaggiare Reyes, Rowley e Costello. Una cifra considerevole per la prestazione artistica dei cantanti e per le risorse di solito utilizzate. In passato per un concerto dal vivo, durante il mandato di Giorgio Van Straten, l’Istituto ha impiegato non più di 1.500 dollari.
Rowley e Costello hanno fama internazionale e perciò si sono divisi gran parte dei compensi, mentre Reyes si è accontentata di 5.000 dollari per un intenso ripasso di «Oh mio babbino caro». Alessandro Ariosi di Ariosi Management è l’agente del soprano Rowley e anche del maestro Casellati (non retribuito per la lezione). Stavolta Ariosi, come i rappresentanti di Costello, non ha dovuto gestire complesse trattative o pratiche burocratiche. Perché l’Istituto italiano di cultura di New York si è riferito a Casellati per i contratti dei suoi cantanti. Basta poco, un sorriso. Viva Caruso: «Era lu tiempo antico/pe mme lu paraviso/ca sempre benedico/pecchè cu nu surriso/li bbraccia m’arapive».
ESCLUSIVO: L’ITER PARTITO QUANDO SALVINI ERA MINISTRO DELL’INTERNO. Superbonus Casellati, dal Viminale 270mila euro per i lavori nella sua villa. EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 27 gennaio 2022.
Il ministero dell'Interno ha investito una somma monstre per la sicurezza della casa di Padova della presidente del Senato e di suo marito
I lavori di ristrutturazione sono già costati 175 mila euro: cambiati tutti gli infissi e le finestre. Altri 95 mila euro sono già stati preventivati per il muro del giardino
"Motivi di sicurezza" dice la prefettura. Domani ha sentito Mattarella, Fico e gli ex presidenti Boldrini e Grasso: tutti hanno negato investimenti pubblici nelle loro abitazioni.
Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 28 gennaio 2022.
A Padova, nella centralissima via Euganea, c’è una villa che in città conoscono tutti. Un palazzetto del Settecento extra lusso di tre piani e 546 metri quadri più giardino annesso e scale d’epoca. Un immobile di proprietà di Giambattista Casellati, avvocato e presidente dell’ente Veneranda Arca di San Antonio, e della di lui moglie Maria Elisabetta Alberti Casellati, ex avvocato di Silvio Berlusconi e attuale presidente del Senato.
Una dimora che negli ultimi tempi, in gran segreto, è stata sottoposta a qualche importante lavoro di ristrutturazione. Pagato con i fondi del ministero dell’Interno e della prefettura padovana.
Anche se Casellati vive a Roma a palazzo Giustiniani e torna a casa di tanto in tanto nei weekend, Domani ha scoperto che l'organo periferico del Viminale (il ministero al tempo delle prime richieste autorizzative era guidato da Matteo Salvini) ha già speso la bellezza di 175mila euro. A cui vanno aggiunti 94mila euro di lavori già preventivati ma non ancora realizzati.
In pratica, lo stato ha già investito o sta per investire 271mila euro nella casa dell’avvocata per la sostituzione degli infissi, la sopraelevazione e ristrutturazione del muro del giardino che circonda la casa, più altri interventi ufficialmente destinati «alla messa in sicurezza, a tutela, dell'abitazione del presidente», spiega il prefetto Raffaele Grassi, che ha ereditato la pratica da pochi mesi: l’ex direttore dello Sco della polizia e questore di Reggio Calabria è arrivato in città solo a maggio scorso.
La cifra è consistente, e così Domani ha cercato di capire se c’erano precedenti di spesa confrontabili con quelli fatti per Casellati. La presidente non ha risposto alle domande che le abbiamo fatto attraverso il suo ufficio stampa.
Abbiamo però contattato le prefetture competenti, lo staff di Sergio Mattarella, il presidente della Camera Roberto Fico, gli ex numeri uno di Montecitorio e palazzo Madama, cioè Laura Boldrini e Pietro Grasso: non risultano lavori con costi lontanamente comparabili per la messa in sicurezza delle loro abitazioni.
Casellati è tra i candidati papabili alla presidenza della Repubblica. Salvini è il suo principale sponsor, ma anche Giuseppe Conte e un pezzo dei Cinque stelle sono tentati di votarla in chiave anti Draghi.
Nonostante dall’inizio del suo incarico sia stata spesso criticata per l’uso di risorse pubbliche, in primis per i costi dei suoi viaggi. Il quotidiano Repubblica ha raccontato qualche mese fa «di 124 voli di stato in un anno» («falso, sono di meno, e non ho violato alcuna legge», replicò lei), mentre altri giornali spiegarono come la presidente si facesse accompagnare dalla sua scorta anche all’interno del bar di palazzo Madama.
La casa di via Euganea era già diventata protagonista delle cronache della stampa locale e del Corriere della Sera nel 2018, a causa delle proteste del vicinato, innervosito dalla decisione delle forze dell’ordine di vietare la sosta delle auto ai residenti sulla via, scelta fatta per «proteggere la sicurezza» dell’avvocata specializzata nelle cause di nullità davanti alla Sacra Rota.
«È un privilegio», disse qualcuno a sinistra, forse in antipatia a una politica di fama, vicinissima allo storico legale di Berlusconi, Nicolò Ghedini, e celebre per il carattere assertivo e non facile, che secondo i maligni l’ha costretta durante i primi quattro anni del suo mandato a cambiare sette portavoce.
Ora, la messa in sicurezza delle abitazioni dei vertici istituzionali e di soggetti a rischio è disciplinata da norme che prevedono tutele e investimenti pubblici decisi dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, presieduta dai vari prefetti. Ma com'è possibile che si sia arrivati, per Casellati, a quasi trecentomila euro, cifra con cui è possibile comprare a Padova un appartamento nuovo di 100 metri quadri?
E come mai a Domani risulta che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la sua storica casa a Palermo, molto esposta essendo un attico in via Libertà, ha goduto solo di sistema d'allarme elettronico con un investimento pubblico minimo, mentre il presidente Roberto Fico non ha avuto nelle sue abitazioni private a Napoli alcun lavoro strutturale né blindatura di sicurezza?
Infine, come è stata scelta la ditta, il Gruppo Garbo, che ha fatto (e dovrà ancora fare, fossero approvate le ultime autorizzazioni) i lavori di villa Casellati?
Dal momento che la casa della presidente è vincolata, chi scrive ha chiesto innanzitutto informazioni alla soprintendenza archeologica delle Belle arti di Venezia e Padova. L’accesso agli atti richiesto nei mesi scorsi ci è stato però negato dagli uffici dell’ente.
Più disponibile è stato il sovrintendente Fabrizio Magani, intervistato nella splendida biblioteca nei suoi uffici patavini. «I lavori a casa della presidente sono partiti da anni, ben prima che io arrivassi qui. Sono stati autorizzati dalla prefettura. Sono loro la stazione appaltante, non noi» spiega.
«La soprintendenza ha dato il via libera a tre autorizzazioni, solo per quel che ci competeva: la prima risale al 19 marzo 2019, c’era ancora il mio predecessore Andrea Alberti, e riguarda la fornitura e l’installazione di serramenti vari e vetri antisfondamento.
La seconda riguarda l’ancoraggio di una porta finestra. La terza, del settembre 2020, la sopraelevazione del muro di cinta. Qui forse bisogna fare una variante perché la parete va prima consolidata. Lavori degli spazi interni? Non mi risultano».
Almeno una volta, ad aprile 2021, la presidente ha verificato di persona l'andamento della pratica della ristrutturazione della sua villa, andando a supervisionare i progetti insieme agli uomini della prefettura e a quelli della soprintendenza.
«Sì, ci sono andato anche io due volte a casa Casellati – dice Magnani – Dovevo verificare come i lavori erano stati eseguiti. Il vecchio muro del giardino per esempio non era del tutto allineato, ed era intenzione di portarlo allo stesso livello». La «friabilità» del muro avrebbe inciso sul prezzo dell’opera, che ha un costo preventivato di 94mila euro, pagata sempre con denaro pubblico.
L’azienda incaricata è un’impresa di Padova: si tratta della impresa individuale Edili Garbo, dodici dipendenti (non ci sono bilanci depositati alla Camera di commercio), specializzata in edifici residenziali. L’elenco dei lavori per mettere in sicurezza la dimora privata della presidente prevede il montaggio di finestre blindate, l’innalzamento del muro esterno, forse l’impianto di videosorveglianza, che dovrebbe essere realizzato da un’altra ditta specializzata del settore.
Non sappiamo se con i soldi della prima tranche già spesi sia stato fatto altro. Il prefetto di Padova, «in qualità di committente unico dei lavori», indica a Domani solo l’importo notevole già finanziato: «La loro esecuzione ammonta a 175.916 euro. La sopraelevazione del muro di cinta perimetrale dell'abitazione padovana della presidente del Senato allo stato non è ancora stata realizzata», ci dice con trasparenza il prefetto Grassi.
La necessità di realizzarlo «per esigenze di sicurezza» è stata però già «attestata», e «la somma preventivata per tali lavori ammonta a 94.588 euro. Non ci sono state pressioni da parte della presidente per questi lavori e queste spese. La ditta? Non c’era bisogno di fare la gara, abbiamo fatto affidamento diretto»
Per avere altri dettagli sui lavori della presidente del Senato abbiamo dunque contattato la Edili Garbo. La procuratrice speciale Giorgina Garbo ha negato un loro coinvolgimento: «Non mi risulta affatto, non so di cosa sta parlando. Comunque non sono io che mi occupo di cantieristica, arrivederci». Anche Giampietro Garbo, l’ingegnere titolare dell’impresa, non ha voluto dare alcuna precisazione sui lavori: «Si tratta solo di preventivi, nessuno ha incassato niente, non abbiamo ancora iniziato alcun lavoro da nessuna parte».
Non sappiamo quali sono i criteri con cui la prefettura abbia scelto la Garbo. «Una ditta seria e affidabile», dicono a Padova. Consultando documenti degli uffici antiriciclaggio della Banca d'Italia risulta che Giampietro nel 2009 abbia usufruito dello scudo fiscale varato dall’allora governo Berlusconi. In quegli anni Garbo ha riportato in Italia quasi 5 milioni di euro complessivi, sia dalla Svizzera sia da San Marino.
Per la cronaca, all’epoca la loro concittadina Casellati (che ha come migliore amica e stilista del cuore Rosy Garbo, che ha disegnato anche i vestiti che sta indossando durante le votazioni di questi giorni: su fonti aperte non risultano parentele) era sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi che promulgò il mega condono per chi aveva tesori all’estero.
Casellati all’epoca era pure impegnata nella strenua difesa del premier dagli “attacchi” dei pm di Milano e della stampa avversa al premier. Tanto che l’allora deputata disse in tv che il nome di Karima El Mahroug, alias Ruby Rubacuori (spacciata dal Pdl per la nipote dell’ex presidente egiziano) «pare sia venuto fuori in un incontro ufficiale» tra Berlusconi «e Mubarak, che aveva parlato di questa sua nipote».
Se non ci sono illeciti, e se non conosciamo i dettagli dei lavori fatti con i soldi del Viminale per la villa di via Euganea, è possibile però fare dei raffronti, e verificare se medesime cifre siano state investite anche per la sicurezza delle altre alte cariche istituzionali, sia del presente sia del passato.
Mentre a Roma Mattarella vive nel palazzo del Colle, fonti qualificate del Quirinale spiegano che a Palermo non sono mai stati fatti dalla prefettura competente investimenti per la sicurezza della casa del presidente uscente. «Mattarella vive all’ultimo piano, e qualcuno di noi pensò che fosse doveroso cambiare gli infissi, perché gli affacci sono molto esposti. Ma alla fine non si è fatto nulla: la sicurezza viene garantita da una volante e da un sistema elettronico che costa poche migliaia di euro».
Roberto Fico, tra i leader di un movimento che ha fatto della lotta agli sprechi veri e presunti della casta politica mantra elettorale, durante il mandato da presidente della Camera dice di non aver avuto mai lavori in casa pagati dalla la prefettura di Napoli o dal ministero dell’Interno. «Nei primi anni il presidente ha vissuto in una casa in affitto, poi si è trasferito in un residence. Ma in nessun caso ci è stata proposta una “blindatura” dell’abitazione, né lui l’avrebbe mai chiesta», assicura il suo portavoce.
Domani ha sentito anche Laura Boldrini, che è stata alla guida di Montecitorio dal 2013 al 2018. Minacciata per un lustro da fanatici e gruppi fascisti sul web, ha ricevuto buste con proiettili. Nel 2017 i giornali di destra la criticarono a tutta pagina inventando la bufala di un «trasloco (e sarebbero comunque stati pochi migliaia di euro, ndr) pagato dagli italiani», ma l’ex presidente chiarisce che, nonostante non abbia mai vissuto a Montecitorio, la sua abitazione a Trastevere a Roma non ha mai subìto lavori di ristrutturazione pagati dallo stato per aumentarne la sicurezza.
«C’era solo un sistema d’allarme elettronico vecchio che hanno migliorato perché vivevo al piano terra a via delle Mantellate, davanti al carcere di Regina Coeli. Lo hanno solo collegato all’ispettorato della Camera. Il costo? Credo sia stato irrilevante» dice. «Nessuna finestra, nessuna telecamera e nessun muro nuovo, nessun intervento per migliorare la casa. Ho sempre avuto una porta sgangherata che si poteva aprire con una spallata e che non è mai stata cambiata. Ma va bene, non c’era bisogno di blindarla, anche perché avevo i miei agenti di scorta come tutte le alte cariche dello stato».
A Domani risulta però che il ministero dell’Interno abbia speso alcune migliaia di euro per la protezione di una casa di campagna nelle Marche, buen retiro di Boldrini e di proprietà (anche) dei suoi fratelli. «Quanto è costato? Ma credo pochissimo: si tratta di una rete, di quelle verdi con l’anima di ferro, che hanno voluto mettere perché non c’era alcun tipo di recinzione tra il mio giardino e la strada» dice Boldrini. «Una volta mi sono trovata nella mia proprietà mentre ero in pigiama delle persone che volevano farsi un selfie, mentre un’altra volta alcuni ragazzini entrarono – a causa di un incidente – con la loro macchinetta dentro il mio terreno. Ma la rete sarà costata poco e nulla, ora ci ho fatto crescere delle siepi davanti perché è davvero orrenda».
Insomma, i 270mila euro spesi per Casellati sembrano un unicum. Abbiamo però contattato anche il portavoce di Pietro Grasso, predecessore di Casellati alla presidente del Senato ed ex procuratore Antimafia.
Alcune fonti avevano infatti raccontato a Domani che anche l’ex presidente Grasso aveva avuto finestre nuove pagate dallo stato. «È falso» dice il portavoce Alessio Pasquini: «Quando fu eletto lui viveva in zona Laurentina, in periferia di Roma, perché aveva rinunciato a vivere a palazzo Giustiniani, come voleva lo spirito anti casta del tempo. L’allora prefetto gli mandò però una lettera, con allegati un preventivo molto alto per la messa in sicurezza della sua abitazione.
Lui rispose che non voleva pesare per centinaia di migliaia di euro sui contribuenti, e così si convinse a spostarsi con tutta la famiglia a palazzo Giustiniani». Grasso però ha pure un’abitazione a Palermo. Abbiamo chiesto se sono stati fatti lavori almeno lì: «C’è solo una garitta costruita anni fa, null’altro», conclude Pasquini. «Tra l’altro gli sembrò opinabile che da procuratore nazionale antimafia minacciato dai clan avesse bisogno di minori protezioni rispetto a quando è diventato capo del Senato»
A sentire le fonti dirette, solo Elisabetta Casellati avrebbe dunque goduto di un superbonus immobiliare così oneroso destinato alla sua villa. E quanto ci è dato sapere la presidente non è mai stata obiettivo dei clan come Grasso.
Le uniche minacce conosciute verso Casellati sono quelle ricevute un anno fa via social da due uomini: un 62enne di Teramo e un 42enne della provincia di Verona, “leoni da tastiera” disoccupati, con piccoli precedenti alle spalle e non appartenenti a frange estremiste. Fortunatamente sono stati individuati dai carabinieri. Ma difficilmente la coppia sarebbe riuscita a entrare nella villa-bunker che il Viminale ha voluto per la presidente.
I PROBLEMI DELLA PRESIDENTE. Quirinale, Elisabetta Casellati e i passi falsi della donna che aspira alla presidenza. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 26 gennaio 2022.
La presidente nel suo curriculum ha molte situazioni poco chiare: la difesa di Berlusconi su Ruby «nipote di Mubarak», voli di stato mai giustificati, poco opportuni fondi pubblici ai concertisti del figlio Alvise a New York e lo stop alle interrogazioni del Metropol
Mentre la presidente del Senato Elisabetta Casellati prende quota tra i nomi coperti della “rosa” di centrodestra per il Quirinale, ha iniziato a circolare in rete il video di quando a La7 ha difeso strenuamente la versione di Silvio Berlusconi su Ruby “Rubacuori”, il caso da cui sono partite le inchieste per le «cene eleganti» e la presunta prostituzione minorile: per Casellati era credibile che B. la ritenesse la “nipotina” del presidente egiziano Hosni Mubarak e per questo si sarebbe mosso in suo favore.
La presidente, che adesso aspira al Colle, non ha avuto nel suo passato solo quella gaffe, tra voli di stato per tornare a casa mai giustificati, poco opportuni fondi pubblici ai concertisti del figlio Alvise a New York, sono molti i dubbi che accompagnano la sua candidatura.
Anche la sua presunta posizione “super partes” suscita qualche perplessità, visto che nel 2019 ha deciso di non ammettere nessuna delle interrogazioni dei dem che riguardavano l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini per la trattativa del Metropol di Mosca. Il caso che lei aveva definito un «pettegolezzo giornalistico» ha visto indagato l'ex portavoce di Salvini per corruzione internazionale.
I VOLI DI STATO
La tratta Roma-Venezia è stato il tragitto che la presidente del Senato avrebbe percorso più spesso nei 124 voli di Stato effettuati da maggio del 2020 fino al 21 aprile 2021. Un numero elevato di spostamenti sul Falcon 900 dell'Aeronautica che ha scatenato le richieste di chiarimento da parte del Movimento 5 Stelle. Non solo. Il Codacons ha presentato un esposto alla Corte dei Conti con l'obiettivo di «accertare il possibile danno sul fronte erariale».
Il quotidiano La Repubblica ha dettagliato: 97 volte sulla rotta Roma-Venezia (il tragitto casa - lavoro) e 6 volte tra la Capitale e la Sardegna. L’ex pentastellato Alessandro Di Battista ha fatto i calcoli: «C’è chi sostiene che un'ora di Falcon costi tra i 5000 ed i 7000 euro. Se fosse così i voli blu della Casellati ci sarebbero costati circa 750.000 euro nell'ultimo anno».
La presidente non ha mai voluto rispondere ufficialmente, solo a margine di un evento pubblico ha detto al sindaco di Milano, Beppe Sala, con cui stava camminando: «Tutto per arrivare a lavorare. Non c’erano voli, non c’erano treni, questo nessuno lo dice». Nessun commento su quelli per andare in vacanza in Sardegna.
I SOLDI AI CANTANTI DEL FIGLIO
Il 27 luglio 2021 L’Espresso ha rivelato che l’Istituto italiano di cultura di New York, che dipende dal ministero degli Esteri, ha finanziato con 30mila dollari un’iniziativa legata al figlio, il maestro Alvise Casellati e dei suoi cantanti, pagando agli artisti una masterclass in cui i protagonisti del concerto “In onore di Enrico Caruso” si sono esibiti davanti alle telecamere.
L’evento si sarebbe tenuto il 28 giugno a Central Park e la registrazione è del giorno prima. «Le prove generali», obietta il settimanale. L’Istituto italiano di cultura di New York dipende dal ministero degli Esteri e ha ribadito che Caruso è «un’icona di italianità». Casellati non ha mai ritenuto di dover spiegare.
IL METROPOL
Sul caso del Metropol di Mosca che ha messo in difficoltà il leader della Lega Matteo Salvini, Casellati ha invece utilizzato con tutta evidenza il suo peso istituzionale.
L’Espresso nel 2019 ha portato alla luce la trattativa a cui ha partecipato l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, nello storico hotel russo per finanziare la Lega tramite una fornitura di gasolio all'Eni. Oltre all’inchiesta, con foto degli incontri in quei giorni di Savoini, è stato pubblicato anche un audio da BuzzFeed.
Per Casellati però si trattava solo di chiacchiericcio, e ha bloccato le interrogazioni del Pd che erano state presentate all’indirizzo del ministro dell’Interno, allora lo stesso Salvini, per fare luce sulla vicenda.
L’11 luglio del 2019 ha risposto in Aula ai parlamentari che le chiedevano conto della scelta: «Le mie decisioni sono inappellabili», ha esordito in un’agitata seduta d’assemblea, «io ho risposto egualmente – ha proseguito -, giustificando e dicendo che il Senato non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici». Lo stesso giorno è arrivata la notizia che Savoini era stato indagato dalla procura.
Il Partito democratico e il Movimento 5 stelle, nei colloqui tra le forze politiche, continuano a dire no al suo nome per la presidenza della Repubblica dopo Sergio Mattarella.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per la Repubblica il 26 gennaio 2022.
Fuori da ogni retorica e ipocrisia, il bello della corsa per il Quirinale è che riattiva la memoria di eventi così belli, simbolici e a questo punto densi di presagi da sembrare finti, mentre al contrario sono avvenuti sul serio.
Era il 17 settembre del 2020 quando, lungo la strada che portava a Vo' Euganeo, nel tentativo di superare di gran carriera il mega corteo istituzionale, una delle auto della scorta della presidente del Senato Casellati speronò una vettura della scorta del presidente della Repubblica che precedeva quella su cui viaggiava, in tutta serenità, Sergio Mattarella.
Seguirono attimi di paura, anche perché nel frattempo, sul lato opposto della carreggiata era sopraggiunta una Panda guidata da un pensionato che, dinanzi al potenziale groviglio di lamiere blindate, si buttò fuori strada per evitare il crash .
Casellati era in ritardo, toccando a lei di accogliere Mattarella. Purtroppo le cronache non fanno riferimento a eventuali sirene quale solenne colonna sonora all'incidente. Il pensionato si salvò. Una volta sul posto, la scorta del Quirinale non fu per nulla amichevole con quella di Palazzo Giustiniani. Ma l'episodio, che sembra tratto da una commedia all'italiana, proietta inesorabili bagliori sull'attuale corsa di Casellati, detta in Senato, con qualche rassegnazione, "Queen Elizabeth". (...)
Che non c'è niente di male, beninteso, ad accogliere riconoscimenti, e neppure a distribuirne a destra e a manca. Però insomma, rispetto a tanti austeri predecessori (non rientra nel novero Pera, che ricevette Totti e Miss Italia), l'impressione è che una maggiore economia premiale, oltre che un uso più sorvegliato degli spazi e degli aerei a disposizione della seconda carica dello Stato, uno dei quali sorpreso in enigmatici andirivieni con la Costa Smeralda, avrebbe forse meglio protetto il Parlamento, già così screditato e malmesso.
Ma Casellati intraprende facile e non solo è salita anche sull'elicottero che nella prima fase del Covid ha voluto sorvolare il Veneto con le reliquie di Sant' Antonio, ma è molto fiera di aver aperto la bomboniera di Palazzo Madama alla cultura, dapprima meritoriamente, arte, dramma antico, teatro, poesia; però poi in aula sono finite per risuonare le note di Trottolino amoroso (tu-tu-tu tà-tà-tà) e la presidente, che è mamma di un direttore d'orchestra, le ha accompagnate oscillando il capo, come da indimenticabile video YouTube; poi è arrivato anche Fausto Leali: Ti lascerò . Ma queste sono pruderie da babbioni che non c'entrano tanto con la voglia che il personaggio mostra di ascendere al Colle.
E qui gli archivi a volte sono bugiardi, ma vi si trova scritto che Salvini aveva già "promesso" il Quirinale a Casellati nell'estate 2019, quand'era accolto sui palchi col Vincerò , prima durante e dopo il Papeete. Se i lapsus hanno un senso, durante la crisi di governo, sbagliandosi per ben due volte nella stessa seduta, lei chiamò lui «presidente » (era ministro).
Quanto ai Cinque stelle, subito dopo averla votata (in cambio di Fico alla Camera), sempre negli archivi si legge che Gigino Di Maio si avvicinò a Casellati e con occhietto vispo e voce flautata: «Possiamo darci del tu?» (risposta: «Sì, ti prego, sennò mi sento vecchissima»).
Appena eletta, d'altra parte, come prima cosa Casellati si era recata a casa di Berlusconi, che strenuamente aveva difeso nel caso Ruby (di qui l'irresistibile appellativo makkoxiano: "La Zia di Mubarak"), poi con piazzata sotto il tribunale di Milano (lo ricorda nel suo libro Ilda Boccassini) e vestendosi di nero in Senato nel momento in cui il Cavaliere decadde. Per quanto fin troppo abusata, "l'alto profilo" resta un'espressione fin troppo impegnativa. Non sarebbe male, ogni tanto, misurarla sulla realtà - a cominciare da quella delle strade percorse dai cortei presidenziali.
Meriti e sogni. Quando Maria Elisabetta Casellati diceva che Abbado, Piano, Elena Cattaneo e Rubbia non meritassero il seggio di senatore a vita. L'Inkiesta il 26 Gennaio 2022.
Nel 2013 l’attuale presidente del Senato criticò la decisione del Capo dello Stato di dare un posto in Parlamento a quattro italiani di enorme spessore e riconoscimento internazionale. Per lei non avevano «meriti sufficienti»: la sua proposta era Berlusconi.
Oggi per il centrodestra sembra che la figura su cui puntare per il Quirinale sia quella di Maria Elisabetta Casellati. La presidente del Senato era stata volutamente tenuta fuori dall’elenco di candidati che Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani avevano stilato in un primo momento, un piano b rispetto alla triade Marcello Pera, Letizia Moratti, Carlo Nordio: insomma, Casellati come una riserva di lusso.
«Casellati è candidabile senza che Salvini la proponga», ha detto lo stesso Salvini, confidando di poter trovare diverse decine di voti nel Movimento 5 stelle. Per il centrodestra Casellati è candidabile in quanto già rappresentante di una delle più importanti istituzioni italiane. Ma proprio lei in passato, da senatrice di Forza Italia, aveva provato ad abbattere ogni parametro logico della definizione di «candidabile».
Era il 2013. Mentre il partito di Silvio Berlusconi provava a difendere il suo leader proponendolo come senatore a vita, Casellati – con Lucio Malan – contestava le ultime quattro nomine fatte dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: il direttore d’orchestra Claudio Abbado, la ricercatrice Elena Cattaneo, l’architetto Renzo Piano e il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia.
«Pur rispettando il Capo dello Stato e i quattro nominati, dalle carte trasmesse alla Giunta, non sono emersi elementi sufficienti ad identificare gli “altissimi” meriti scientifici della professor Cattaneo né gli “altissimi meriti sociali” attribuiti a tutti e quattro», diceva l’attuale presidente del Senato, chiedendo un rinvio della convalida per l’acquisizione della documentazione necessaria, non considerando “sufficienti” i loro meriti.
Quattro italiani di enorme spessore e riconoscimento internazionale, eppure giudicati non meritevoli. Proprio in quei giorni di fine 2013 Berlusconi era decaduto da senatore, condannato con sentenza definitiva e con una serie di processi in corso e sentenze di primo grado che lo indicavano come colpevole di diversi reati.
Corrado Ocone per "Libero quotidiano" il 27 gennaio 2022.
Sabino Cassese è sicuramente uno che non le manda a dire. Si può non essere d'accordo con le sue tesi, vi si può leggere a volte una impronta di intellettualismo, ma comunque si deve ammettere la sua onestà intellettuale. Che fa tutt' uno con la sua dottrina e preparazione giuridica, anche se di una giurisprudenza molto poco meridionale (lui che è di Atripalda in provincia di Avellino) e molto comparativistica e anglosassone. La sua mentalità è empiristica: dati, numeri, fatti conosciuti e descritti con precisione, diagnosi e prognosi, ovvero proposte concrete.
"Conoscere per deliberare" potrebbe essere anche il suo motto. E, in effetti, un timbro einaudiano contraddistingue i suoi interventi pubblicistici, di cui per nostra fortuna è molto generoso: come il primo Presidente della nostra Repubblica, egli sa spiegare in modo semplice questioni complesse riducendole agli elementi più semplici, il tutto condito da una sottile vena ironica che i lettori più attenti non tardano a cogliere.
I suoi articoli sono in qualche, sempre come quelli di Luigi Einaudi, delle "Prediche inutili". Il suo pallino fisso è la riforma dello Stato, che per lui significa essenzialmente due cose: svecchiamento della macchina burocratica, con le sue procedure arcaiche e i suoi funzionari che assomigliano un po' ai mandarini cinesi, gelosi del loro potere e capaci di bloccare o stravolgere ogni tipo di legge; necessità di semplificare, ridurre, e rendere semplici nel dettato e nello spirito, quelle migliaia e migliaia di leggi e sottoleggi, commi e codicilli, che assomigliano a una vera e propria "selva oscura" o a un labirinto che sembra studiato apposta per far perdere in esso l'onesto cittadino.
Ultimamente nemmeno la legge di Bilancio del governo Draghi ha superato l'esame della sua lente d'ingrandimento, o del suo "rasoio di Occam": "l'anno è terminato con un fuoco d'artificio finale", ha esordito ironico, e giù ad elencare tutte le contraddizioni e le oscurità linguistiche di quello che non ha esitato a definire un parto mostruoso.
Cassese ha un forte senso delle istituzioni e una conoscenza non effimera dei meccanismi parlamentari, quella stessa che proprio stamattina l'ha portato a smascherare sui giornali il sofisma o "cattivo ragionamento "che si vorrebbe far passar in questi giorni: e cioè che la maggioranza che elegge il Presidente della Repubblica debba essere per forza di cose la stessa che elegge il presidente del Consiglio.
Durante la manifestazione di Atreju, Cassese si è anche detto favorevole ad una riforma in senso presidenzialistico della nostra Costituzione, che lui ha sempre rispettato ma senza esserne una "vestale". Il che andrebbe in contraddizione con la sua allergia, molto salveminiana, alla retorica patria. Parole molto forti ha anche usato, nel recente passato, contro certe politiche pandemiche, soprattutto del governo Conte: pronte a non bilanciare, come era giusto che fosse, le esigenze di sicurezza con il rispetto delle libertà individuali e della stessa Costituzione.
Sicuramente Cassese, che fra l'altro è amico di vecchia data di Sergio Mattarella, ricoprirebbe il ruolo di Presidente della Repubblica con autorevolezza e imparzialità. Onestà intellettuale però impone che qui si considerino anche alcune idee del nostro che a chi scrive non sembrano condivisibili. Cassese crede forse troppo nelle istituzioni sovranazionali (qualcuno ha scritto che è un "onusiano") e nel superamento dello Stato-Nazione: poco attratto dal realismo politico, confida troppo nei "diritti umani" e negli universali "principi morali", ed è poco attento al monito di Machiavelli che dice che gli "Stati non si governano coi Paternostri".
Da qui forse la sua incomprensione delle esigenze reali di cui si sono fatti portavoce i cosiddetti movimenti "sovranisti". Molto criticabile è anche la sua concezione del ruolo dell'intellettuale, che per lui deve avere una voce di riguardo e una priorità nel dibattito politico e nello stesso governo (un po' il modello platonico del re-filosofo).
Che è una esigenza "epistocratica", come lui stesso la chiama, che non ha molte buone ragioni dalla sua. Né teoriche, perché gli intellettuali in quanto specialisti tendono a mettere in primo piano gli elementi a loro cari, che radicalizzano perdendo spesso di vista l'insieme e il buon senso; né storiche, viste le tragedie che hanno causato tutte le volte che sono andati al potere. Non è vero che "uno vale uno", ma chi vale più di uno non sempre è un intellettuale o un uomo di scienza.
Dagospia il 27 gennaio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Stimato Roberto, se il centrodestra propone Sabino Cassese per il Quirinale, il Pd non potrebbe negargli i voti, visto che nel 2013 lo stesso emerito giurista fu uno dei candidati piddini al Colle. Eppure, i troppi terminali parlamentari della casta togata potrebbero azzannare lo strenuo-temerario Sabino, che, a suo rischio e pericolo, ha più volte osato criticare la sete di strapotere della magistratura. Giancarlo Lehner
Quirinale. L'ironia di Cassese sull'ipotesi candidatura: "Io al Colle, perché escluderlo?" Concetto Vecchio per repubblica.it il 27 gennaio 2022.
Telefoniamo di buon mattino a Sabino Cassese, 86 anni, già giudice della Corte costituzionale, uno dei giuristi più influenti del Paese.
Buongiorno professore, è vero che ieri ha incontrato Salvini?
"Intanto mi scuso con lei se ne le ho risposto ieri sera, ma ero impegnato con un concerto".
Un concerto per il Quirinale?
(Ride)
Mi avevano detto che lei era impegnato in una riunione.
"Guardi, si è creata attorno all'elezione del Capo dello Stato un'attenzione smodata. Non trova che i problemi dell'Italia siano altri? Invece tutti parlano soltanto del prossimo presidente della Repubblica".
Ma stiamo parlando del Capo dello Stato.
"Ma ci sono cose più importanti. Tra qualche decennio saremo trenta milioni, perché nessuno fa più figli. Abbiamo il tasso più basso di laureati nella Unione europea, il minor numero di nuovi iscritti quest'anno. La sanità territoriale è tutta da rifondare. La scuola pure".
D'accordo, ma lei ha visto Salvini?
"Siamo presi tutti da un eccesso agonistico".
Professore!
"Colgo il suo mugugno".
Perché non mi risponde. (Ridendo).
"Non è vero!"
Non vi siete visti?
"No"
E allora com'è nata la notizia della visita di Salvini a casa sua?
"Qualcuno deve avere avuto una visione".
Una visione?
"Ma sì. Io vivo come i monaci stiliti, ha presente? Scelsero di vivere su una colonna. Ecco, non vedo nessuno, manco i miei nipoti..:"
La notizia dell'incontro l'ha anticipata Il Foglio, a cui lei autorevolmente collabora.
"Eh, capisco, capisco. Cercherò il direttore Claudio Cerasa, e gli domanderò la fonte. Ecco, lui sì che una volta è stato ospite a casa mia, a pranzo".
Un vicino di casa ha visto Salvini uscire dalla sua palazzina, risulta a noi di Repubblica.
"Sopra casa mia abita un ex senatore, che per inciso è stato anche mio studente".
Quindi è andato da lui?
"Perché no?"
Quindi smentisce?
"Salvini non lo conosco".
Professore, per molti lei sarebbe stata una degna opzione per il Colle.
"Perché lo vuole escludere?"
Da ilriformista.it il 27 gennaio 2022.
Dopo l’editoriale di domenica sul Corriere della Sera, il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, è tornato sulle nostre pagine per commentare ulteriormente l’ipotesi di prorogare lo stato di emergenza nel nostro Paese da parte del Governo. Proprio sul Riformista risponde al premier Giuseppe Conte che lo ha accusato dalla pagine del Fatto di dire “stupidaggini” e non manca anche una sferzata al ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Francesco Boccia: le sue dichiarazioni hanno la stessa chiarezza di quelle della Sibilla Cumana.
Da Palazzo Chigi fanno sapere che “non si tratta di avere pieni poteri, ma di farsi trovare pronti in caso di recrudescenze del virus”. È un semplice gioco di parole ma la sostanza rimane la stessa?
La dichiarazione dello stato di emergenza richiede un attuale – sottolineo attuale – stato di emergenza. Ci è stato detto che possiamo muoverci da casa, viaggiare, andare in ufficio, vedere i parenti. Dov’è lo stato di emergenza? Qualora si presentasse davvero una emergenza, quanto tempo è necessario per riunire il Consiglio dei ministri per dichiarare lo stato di emergenza?
Domenica sera è trapelata l’ipotesi di estendere lo stato di emergenza non più al 31 dicembre ma al 31 ottobre. Come giudica questo passa indietro?
Mi fa dubitare della serietà del motivo, che non dovrebbe prestarsi a trattative e negoziati.
Esperti del diritto – come Clementi – e politici – come Emma Bonino – richiamando l’articolo 77 della Costituzione, suggeriscono l’utilizzo del decreto legge per affrontare la Fase 3, al posto dei dpcm. Lei cosa ne pensa?
Gli interventi sulle epidemie sono regolati dalla legge del 1978 e dovrebbero essere di competenza del Ministro della Salute. Si è preferito ricorrere alla norma del 2018 sulla protezione civile (io ho dubbi sulla legittimità del ricorso a questa norma). Questa richiede la sola delibera del Consiglio dei ministri.
Secondo Lei dietro l’eventuale proroga dello stato di emergenza, c’è l’obiettivo di rinviare le elezioni di settembre? Dunque posticipare lo stato di emergenza potrebbe essere una scelta più di opportunità politica che di salute pubblica?
Non credo che vi siano tali intenti secondari. Se vi fossero, sarebbe grave, dopo la discussione che c’è stata in Parlamento sulla data delle elezioni.
Il ministro Boccia, incontrando i giornalisti in occasione della visita in Umbria, ha dichiarato ieri: “L’estensione dello stato d’emergenza a seguito del Covid-19 non limita la libertà individuale delle persone ma consente di avere maggiore protezione da parte dello Stato”. Si tratta una lettura troppo semplicistica?
La frase del ministro delle regioni è tanto chiara quanto le profezie della Sibilla Cumana.
Il premier Giuseppe Conte in una intervista rilasciata al Fatto Quotidiano risponde al suo editoriale di domenica sul Corriere della Sera: “Chi evoca il modello Orbàn dice una sonora stupidaggine. Io non ho né voglio pieni poteri”. Come replica?
I fatti, perché i suoi lettori possano giudicare. Ho scritto, al termine di un articolo sul Corriere della sera di domenica: “Non dimentichiamo che Viktor Orbán cominciò la sua carriera politica su posizioni liberali”. Orbán è sotto giudizio dell’Unione europea per aver fatto adottare dal Parlamento ungherese una legge che dichiara uno stato di emergenza senza fissare un termine.
La dichiarazione dello stato di emergenza e i successivi decreti legge hanno consentito in Italia a una persona sola, con dpcm, di chiuderci in casa, vietarci di andare al lavoro, non visitare parenti, e così via. Tutto per di più selettivamente, perché intere filiere sono state esentate.
Il primo decreto legge disponeva queste ed altre limitazioni (innominate) senza fissare un termine temporale e dando mano libera nel disporre limiti con dpcm. Il governo ha successivamente capito e ha abrogato quasi tutto tale decreto, approvandone un altro nel quale i poteri avevano un termine e i limiti un elenco. Non credo che vi siano aspiranti dittatori. Ma temo che si possa dare il brutto esempio, cioè creare precedenti. E si sa che i giuristi credono molto nei precedenti.
Nel 2013 fu proposto dal Pd ma vinse Napolitano. Chi è Sabino Cassese, il giurista possibile candidato presidente della Repubblica. Riccardo Annibali su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
Fonti della Lega smentiscono l’incontro di Salvini nella casa romana del professore Sabino Cassese, trapelata pochi minuti prima. Cassese, che risulta comunque uno dei nomi senza tessere di partito e super partes, è ex ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi, giudice emerito della Corte costituzionale, editorialista del Foglio e del Corriere della Sera. Il leader del Carroccio aveva dichiarato poco prima: “La soluzione può essere vicina” e si è reso disponibile a incontrare, come da richiesta, il segretario del Partito democratico Enrico Letta.
Giudice emerito della Corte Costituzionale e ministro del Governo Ciampi, Sabino Cassese è una delle personalità più conosciute sia a livello giuridico che politico, visti i diversi incarichi ricoperti nella sua lunga carriera. Subito dopo essere andato in pensione, il giurista è diventato giudice emerito della Corte Costituzionale.
Nato ad Atripalda in provincia Avellino, il 20 ottobre 1935, figlio dello storico Leopoldo Cassese e fratello di Antonio, giurista esperto di diritto internazionale. Sabino Cassese è un esperto giurista e celebre accademico, oltre che giudice emerito della Corte costituzionale. Dal 1952 al 1956 è stato allievo del prestigioso Collegio Medico-Giuridico (allora annesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa, oggi inglobato nella Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna) e si poi è laureato con lode all’Università di Pisa e diplomato presso la Scuola Normale Superiore – Collegio giuridico con pieni voti nel 1956.
Nel 1993 il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi lo ha nominato Ministro per la funzione pubblica, un incarico ricoperto per poco più di un anno, già negli anni precedenti il giurista era entrato in Parlamento e a Palazzo Chigi come presidente di diverse Commissioni. Nel 2013 il Partito Democratico aveva pensato a lui come presidente della Repubblica anche se alla fine la maggioranza ha scelto la riconferma di Giorgio Napolitano.
Negli ultimi anni si è dedicato all’attività di giornalismo collaborando come editorialista con il Corriere della Sera e Il Foglio. Un’opportunità per esprimere le proprie idee come fatto nel 2016 quando ha preso una posizione a favore del sì al referendum confermativo della Riforma costituzionale voluto da Renzi e dall’ex ministra Boschi.
In un’intervista a Repubblica rilasciata lo scorso dicembre disse: “Checché se ne dica, il Presidente della Repubblica ha un grande potere, superiore a quello di un presidente degli Stati, se è omogeneo al governo ed è espressione della maggioranza parlamentare. Potrebbe, nel caso di un leader politico, potenzialmente disporre dei numeri necessari per fare passare i provvedimenti che gli stanno a cuore. Ecco perché si è sempre evitato di scegliere un capocorrente”. Esperto di inquilini del Quirinale, ha curato un’opera in due volumi: “I presidenti della Repubblica – Il capo dello stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana”.
L’11 dicembre scorso partecipò ad Atreju, la tradizionale festa di Fratelli d’Italia. In quell’occasione prese parte al dibattito ‘Analisi, necessità e prospettive di una riforma dello Stato in senso presidenziale’. “Se intendo sostenere la proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista presentata da Fratelli d’Italia? Direi certamente”. Riccardo Annibali
La candidatura al Quirinale. Sabino Cassese: “Ecco la prima cosa che farei da Presidente della Repubblica”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.
“Attenti a non esagerare, non fate gli ultrà”. Sabino Cassese, uno dei nomi più ricorrenti nelle trattative tra i partiti per il Quirinale, risponde scherzosamente al Riformista. Gli diamo conto di una dichiarazione di Giorgia Meloni che lo sostiene. Salvini si sarebbe detto d’accordo. “Mi sostengono con forza? Non so se sia un bene”, risponde per alleggerire con una battuta. Sul suo nome rimane una significativa convergenza, anche il Pd non esclude di votarlo mentre Silvia Fregolent, di Italia Viva, si espone: “Sarebbe un Presidente eccezionale”. E Carlo Calenda conferma al Riformista: “Sì che lo voterei”. Il giurista non si lascia andare a facili entusiasmi, tutt’altro.
“Come vivo questo momento? Cerco di lavorare, ma mi telefonano in tanti. E cerco di lavorare tra una telefonata e l’altra”. Sorpreso? “Non tanto”, chiosa con un sorriso il giurista. Ricorda al telefono con noi (audio integrale qui) quella volta in cui venne chiamato a fare il ministro. Governo Ciampi, 1993. “Ero a cena fuori, non ne sapevo niente. Alle 23 iniziano a telefonarmi tutti, credetti fossero impazziti: avranno scambiato la notte per il giorno? Poi capii che ero stato eletto”. Ma per oggi, invita alla cautela. “Aspettiamo, aspettiamo”. La prima cosa da Presidente? “Una passeggiata”. E un arrivederci: “Sentiamoci quando sarà finita, così le dico cosa penso del neopresidente”. Forse si conoscono bene.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
In Onda, Sabino Cassese sul Quirinale: "Non mi ha cercato solo Matteo Salvini...", la confessione cambia il quadro. Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022.
Ora che la partita del Quirinale si è chiusa con il bis di Sergio Mattarella, parla uno dei protagonisti della convulsa settimana che si va a chiudere: Sabino Cassese, il costituzionalista che per una notte è sembrato vicinissimo alla presidenza della Repubblica. Lo fa a In Onda, il programma de La7 condotto da Concita De Gregorio e David Parenzo. E Cassese svela particolari importanti: no, non lo ha cercato solo la Lega con Matteo Salvini, così come si pensava fino ad ora.
Il giurista premette: "È giusto che le forze politiche abbiano cercato di lanciare dei nomi e fare degli accordi. Dobbiamo essere però felici per l'esito di Mattarella, il nome che ha raccolto più consensi". Dunque le lodi a Luigi Di Maio per quanto detto dopo la conferma di Mattarella: "Teniamo presente di che mutamento radicale c'è stato nel M5s. La dichiarazione di Di Maio poteva essere quella di un vecchio notabile della Dc di settant'anni. Sentire quelle cose da lui mi ha fatto piacere, vuol dire che la loro forza è a disposizione della Repubblica, è molto importante", sottolinea (delegittimando, de facto, Giuseppe Conte).
La sesta votazione sarà quella decisiva? Indiscrezione sulle nuove candidature: tre "condivisi" e una grossa sorpresa
Quindi Concita chiede chi lo abbia cercato, in questi giorni. E Cassese ammette: "Sì, ho avuto dei contatti. Con Italia Viva, con la Lega e con Fratelli d'Italia". "È bizzarro che la abbia cercato la destra...", commenta sorniona Concita. E lui ricorda: "Io ero stato invitato a parlare insieme ad altre persone di tutte le altre forze politiche ad Atreju, alla riunione conclusiva, riguardava il presidenzialismo". La De Gregorio insiste: "FdI la avrebbe votata? Ne ha parlato con la Meloni?". "Scusi, ma poi che senso ha fare questa storia retrospettiva?", conclude Cassese. Resta il dato politico: stando a quel che dice, è stato cercato anche da FdI e da Matteo Renzi. Già, al Colle ci è stato davvero vicino.
IV GIORNO DI VOTAZIONI.
Le urla di Meloni (per il nome di Casini), l’occhiolino di Di Maio: diario di una trattativa invisibile. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2022.
Nel voto per il presidente della Repubblica, i leader sono impegnati a rassicurare i rispettivi grandi elettori (ma senza spiega nulla).
Ecco quello che succede qui a Montecitorio. Un giochetto che, dopo quattro giorni, sta diventando stucchevole.
Per dire: Matteo Salvini spunta dal nulla nel Transatlantico affollato dai grandi elettori, lo attraversa a passo di carica, con una finta evita il leghista Claudio Borghi che vorrebbe congratularsi a prescindere, entra nell’emiciclo, vota, esce e fila via verso il portone principale.
Mischione di cameramen e fotografi in attesa, microfoni a mezz’aria. La dichiarazione di Salvini è: «Offrirò nomi noti anche a livello internazionale».
Ma quando l’ha deciso?
E dove?
E con chi?
Giorgia Meloni è d’accordo?
Hanno telefonato a Silvio Berlusconi?
C’è un elenco di quei nomi?
Sono domande che non hanno risposta. Circa mille grandi elettori devono accontentarsi di apprendere le notizie dalle agenzie di stampa. Meno di dieci persone (Salvini, Letta, Meloni, Di Maio, Conte, Franceschini, Renzi e pochi altri) stanno decidendo il nome del nostro nuovo presidente della Repubblica incontrandosi, parlandosi, trattando e litigando, litigando parecchio, lontani da questo salone liberty e dal cortiletto dove bivacchiamo tutti — votanti e cronisti, portavoce e portaborse, un tizio con il Borsalino calato sulla testa che nessuno sa chi sia, un altro vestito da marinaio con un maglione giallo che non cambia da lunedì — tutti fumando come non ci fosse un domani, sigari, sigarette vere e sigarette elettroniche, con la mascherina abbassata anche chi non fuma, tra botte di noia pazzesca e soprassalti di cupo terrore; i grillini, non appena torna a circolare l’ipotesi che alla fine sia Mario Draghi a salire su al Quirinale, annusano il rischio elezioni e vanno nel panico.
Luigi Di Maio lo sa: e, infatti, viene a votare con il chiaro e unico intento di «tranquillizzare» la fanteria a 5 Stelle, che lo adora. «Giggino caro, che ci dici?». «Giggino, ah se non ci fossi tu...». Lui offre il corpo fasciato in un abito di sartoria napoletana e si lascia sfiorare, accarezzare, stringe mani e incede, un po’ ministro degli Esteri e un po’ sultano, un sorriso qua, un occhietto là, rassicurante come venti gocce di En. Ma anche Di Maio: mai visto scambiarsi mezza parola in pubblico con Letta. O con Speranza.
Rocco Casalino, leggendaria ombra di Giuseppe Conte, capita l’antifona, ha suggerito: «Peppino, meglio che vieni a farti un giretto...».
E così si presenta pure Conte, che non è un grande elettore ma sarebbe comunque il capo in carica del Movimento. Eccolo allora comparire morbido nel suo cappotto di cashmere, saluta un paio di giornalisti e poi va alla buvette, incontra Liliana Segre e si lascia fotografare: quando però riparte nel suo giro pastorale non riconosce le sue pecorelle stellate, ne liscia una dozzina che si aspettano almeno un cenno, e invece niente, procede distribuendo sorrisi e inconsapevoli sospetti.
Guardate: non è che in passato, per esempio nel maggio del 1992, Giulio Andreotti venisse a sedersi su questi divanetti per trattare la sua candidatura al Colle; restava per ore chiuso nel suo ufficio a cercare di spiegare quanto e come fosse più giusto votare lui e non il suo avversario, Arnaldo Forlani, il Coniglio Mannaro (cit. Giampaolo Pansa). Però poi a spiegarti la scena scendeva Paolo Cirino Pomicino, Ciriaco De Mita blandiva le truppe scudocrociate e ti portava a bere un caffè, arrivava Rino Formica e dava un senso ai tuoi appunti.
Stavolta, invece: tutti distanti. Nascosti.
Certo le urla della Meloni erano così forti che sono rotolate giù dal palazzo dei gruppi, le finestre che affacciano su via degli Uffici del Vicario. Nella notte, Lega e FI le avevano preparato un pacchetto. Lei l’ha scartato e dentro ci ha trovato il nome di Pier Ferdinando Casini.
Così s’è capito anche perché, fino all’alba, Salvini fosse sparito (certo non era tornato a casa del professor Sabino Cassese: quelli del Foglio giurano che la visita sia avvenuta nelle ore precedenti). Però, per intenderci: adesso le agenzie di stampa battono la notizia che è irraggiungibile Conte.
Dove sei Conte? Che fai?
Quanto al Cavaliere: è ancora ricoverato, ed è complicato persino parlargli al telefono (pure Mario Draghi ha faticato un po’). Enrico Letta, invece, è poco loquace anche quando vede le partite del Milan, figuratevi adesso (poi comunque nel Pd sono così tanti quelli che pensano di decidere qualcosa, che alla fine vivono meglio).
Il live minuto per minuto. Elezione Presidente della Repubblica, la diretta della quinta giornata di voto: torna l’ipotesi Casellati. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.
Si alza il sipario sulla quinta giornata di voto, dopo l’ennesima fumata nera avvenuta ieri, giovedì, nella quarta giornata dedicata all’elezione del 13esimo presidente della Repubblica.
Anche questa mattina alle 11 basterà la maggioranza assoluta dei voti, 505, per eleggere il prossimo capo dello Stato. I nomi sul tavolo sono rimasti quattro, salvo eventuali sorprese dell’ultim’ora: il presidente del Consiglio Mario Draghi e l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, mentre più defilati ci sono Sergio Mattarella con un suo eventuale bis al Quirinale ed Elisabetta Belloni, la diplomatica ora alla guida del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza.
Il leader della Lega Matteo Salvini ha il pieno mandato del centrodestra per avviare la conta, una prova di forza finalizzata a puntare su un nome e cercare di trovare un’attrattiva nell’area del centrosinistra. Il centrodestra punta su un nome di bandiera e spunta, di nuovo, quello della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Ma si punta anche sul rosario di altre personalità di area centrodestra alternative a Draghi prospettate da Salvini, Meloni e Forza Italia dopo il ritiro di Silvio Berlusconi: Carlo Nordio, Franco Frattini, Sabino Cassese, Letizia Moratti, Marcello Pera, Elisabetta Belloni, Giampiero Massolo.
Tutti nomi che però, dall’altra parte del campo, Enrico Letta, Matteo Renzi, Luigi Di Maio e Roberto Speranza hanno denunciato avere il vizio di origine di non essere candidature condivise ma imposte. Queste scelte, infatti, nei giorni scorsi hanno fatto infuriare i partiti di centrosinistra.
La giornata inizia con i vertici in prima mattinata, per arrivare a eleggere il neo Capo dello Stato. Forse con la prospettiva di creare un unicum per la storia repubblicana: mai, infatti, è stato eletto il capo dello Stato al quinto scrutinio. Nel corso delle precedenti 12 elezioni, il quarto voto è stato decisivo per ben quattro volte.
Il presidente della Camera Roberto Fico comunicherà ai presidenti dei gruppi di Camera e Senato da lui convocati, il calendario delle sedute successive, in caso di quinta fumata nera. Sul tavolo la decisione se da stasera, oppure da domani, si inizierà a votare due volte al giorno anzichè una.
Causa covid-19, finora si è tenuta una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.
Ore 08:45 – Prima del nuovo vertice delle delegazioni di Pd, M5S e Leu, il segretario dem Enrico Letta non nasconde la delusione per le giornate precedenti: “Abbiamo sempre lavorato per l’unità. L’impressione è che abbiano tentato di dividerci, con idee fantasiose con l’obiettivo di dividere e non di trovare una soluzione per il Paese”, ha detto entrando alla Camera. E poi afferma “Chiederemo a Fico di aumentare le votazioni e arrivare almeno a due votazioni al giorno”. E poi, con un pizzico di amarezza, sibila: “Mi chiedo se ho fatto bene a fidarmi”. Il riferimento ricade sul centrodestra.
Ore 08:55 – Il leader di Iv Matteo Renzi lascia in campo l’ipotesi di un Mattarella Bis. “Non escludo l’ipotesi che possa esservi anche un Mattarella bis, sarebbe una forzatura nei confronti di Mattarella e oltremodo scorretto ma al venerdì mattina o la vicenda si risolve nelle prossime ore o questa ipotesi e’ in campo con tutta la sua forza”. Così il leader di Italia viva, Matteo Renzi su Radio Leopolda. Per Italia Viva non è sul tavolo la possibilità di votare il presidente del Senato Casellati. “Noi Casellati non la votiamo come non votiamo nessun candidato divisivo come abbiamo sempre detto. Ma il centrodestra la smetta di correre dietro la Meloni che tenta di far saltare la maggioranza di Governo”. Lo ha detto il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato, ai cronisti della Camera.
Ore 09:00 – Il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani, arrivando a Montecitorio per il vertice di centrodestra, assicura: “Il governo non cade. Dobbiamo lavorare molto. Vogliamo trovare soluzioni condivise”. E nell’ostentare compattezza, punta il dito sul centrosinistra. “E’ la sinistra che ieri si è divisa, il centrodestra è compatto e unito. Noi scandalosi? Addirittura, dov’e’ lo scandalo. Non abbiamo mai posto veti”.
Ore 09:10 – Dure parole della leader di Fratelli di Italia Giorgia Meloni su Twitter: “La desolazione delle manfrine sull’elezione del Presidente della Repubblica certifica 2 cose che @FratellidItalia sostiene da sempre: 1. Con questo Parlamento è impossibile decidere qualsiasi cosa. 2. Se fossero stati gli italiani ad eleggere il PdR lo avrebbero fatto in un giorno”.
Ore 09: 21 – Il centrodestra non ha ancora comunicato al centrosinistra il nome del candidato che oggi dovrebbe votare per il Quirinale. E’ quanto si apprende da varie fonti mentre è in corso il vertice di M5s, Pd e Leu. Le delegazioni stanno valutando come comportarsi nel caso in cui il centrodestra votasse un nome di area nella quinta votazione. L’idea ad ora prevalente sarebbe quella di uscire dall’aula o astenersi.
Ore 09:25 – E’ iniziato, alla Camera, il vertice del centrodestra in vista dell’elezione del presidente della Repubblica. All’arrivo al vertice il segretario Udc Lorenzo Cesa ha detto che il centrodestra resta orientato a votare la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. “Sì”, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano se il voto andrà alla Presidente del Senato.
Ore 09:30 – “Proporre la Casellati è irresponsabile? “E perché? E’ la seconda carica dello Stato. La sinistra ha la pretesa di voler avere il monopolio dei giudizi morali, è questo il vizio di tutta questa vicenda”. Lo ha detto il senatore di FI, Maurizio Gasparri, arrivando a Montecitorio. E poi sul nome di Cassese uscito nei giorni scorsi ha detto: “Cassese è stato uno dei più tenaci avversari delle idee del centrodestra, mai potra’ essere Cassese che va cassato”. E a chi gli domandava se è stato un errore strategico del leader leghista Matteo Salvini ha risposto: “Non lo so, saranno stati dei comunisti a proporlo, escludo che lo abbia fatto Salvini”.
Ore 09:45 – Il centrosinistra potrebbe optare per la scheda bianca alla quinta votazione. L’indiscrezione mentre è ancora in corso il vertice tra il leader Pd Enrico Letta, quello del M5s Giuseppe Conte e Leu Roberto Speranza. Si valutano anche candidature alternative. In corso ancora le valutazioni.
Ore 09:55 – Il segretario della Lega Matteo Salvini ha invitato tutti i leader della maggioranza a un vertice prima del voto al via alle 11:00.
Diretta dalla Camera: 4° giorno di votazione per l’elezione del Capo dello Stato. Il Corriere del Giorno il 27 Gennaio 2022.
Oggi dopo una lunga notte di trattative tra partiti, vertici e telefonate si è tornati in Aula alle 11,. Si prova a trovare un accordo ma in mattinata il leader leghista fa sapere: “Non sarò io a proporre nomi di sinistra”. La maggioranza richiesta è quella assoluta, pari a 505 voti su 1009 grandi elettori.
Da oggi è sufficiente la maggioranza assoluta (505 voti) per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Ma con ogni probabilità si rischia di replicare lo scenario delle giornate precedenti. Il Pd che cerca di imporre le proprie decisioni senza avere i voti necessari, ha già annunciato che voterà scheda bianca, e lo stesso farà Italia viva. Quindi al momento in cui scriviamo prima che inizi la votazione un accordo ancora non c’è. Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Enrico Letta continuano a lavorare su una lista di nomi. Il segretario del Pd, invece, punta sulla giornata di domani (venerdì 28 gennaio) per una intesa con il resto della maggioranza al governo.
Tensione nei rapporti anche nei rapporti tra Fdi, Forza Italia e Lega: ieri in Aula il partito di Giorgia Meloni si è staccato e ha votato per il co-fondatore Guido Crosetto, candidato di bandiera che ha preso 114 preferenze, cioè quasi il doppio rispetto ai 63 Grandi elettori, risultato il secondo più votato dopo Sergio Mattarella (125 voti).
Matteo Salvini, prima di vedere il resto della coalizione di centrodestra, ha detto: “Gli altri leader li sento tutti i giorni, è il mio lavoro. Porto proposte, abbiamo nomi di assoluto livello, non penso che il centrodestra che rappresenta decine di milioni di italiani debba dimostrare qualcosa e che solo a sinistra ci siano profili morali e istituzionali. Prima si elegge” il capo dello Stato “meglio è. Stiamo scegliendo la più alta carica dello Stato, dobbiamo fare una scelta che renda orgogliosi gli italiani “. E sul nome di Pierferdinando Casini il segretario del Carroccio lascia capire il totale dissenso del centrodestra: “Proposto da sinistra, è stato eletto con il Pd“.
Da questo scrutinio non serve più la maggioranza qualificata di 673 grandi elettori, da ora in poi per eleggere l’inquilino del Colle è sufficiente la maggioranza assoluta della metà più uno, cioè 505 preferenze.
LA GIORNATA IN DIRETTA
ore 10:13 | Conte: “Nessuno schieramento può pensare di eleggere Presidente suo“
“Siamo sempre fiduciosi che da questo loro incontro si apra la possibilità di un dialogo più serrato per arrivare a una soluzione“, dice il presidente del M5S, Giuseppe Conte, a proposito del vertice del centrodestra sul Quirinale “Noi abbiamo fatto delle proposte ufficialmente, abbiamo anche aperto a un confronto, perché nella situazione in cui siamo nessuno schieramento precostituito, nessuna coalizione può pensare di eleggere il presidente della Repubblica suo, di parte, che non rappresenti tutti”. aggiunge Conte, parlando con i cronisti all’arrivo alla Camera, a proposito della corsa al Quirinale.
ore 10:25 | Il centrodestra ha deciso l’astensione
“Il centrodestra ha deciso di proporre la disponibilità a votare un nome di alto valore istituzionale. Per consentire ai grandi elettori di tutti i gruppi di superare veti e contrapposizioni – e convergere per dare all’Italia un nuovo Presidente della Repubblica – la coalizione ha deciso di dichiarare il proprio voto di astensione nel voto odierno. Il centrodestra è pronto a chiedere di procedere domani con la doppia votazione“. E’ quanto si legge in una nota al termine del vertice del centrodestra. Luigi Brugnaro, fondatore di Coraggio Italia, ha dichiarato: “Oggi alla quarta votazione per il Colle il centrodestra non presenterà scheda bianca, ci asteniamo…“.
ore 10:30 | Vertice Pd-M5S-Leu alla Camera
Vertice in corso alla Camera fra il segretario del Pd, Enrico Letta, il presidente del M5S, Giuseppe Conte, e il leader di Leu, Roberto Speranza. Alla riunione partecipano anche i capigruppo dei rispettivi partiti. All’ordine del giorno ci sono le scelte sulla quarta votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica
I leader del centrodestra torneranno a riunirsi stasera alle 19. Lo si apprende da fonti della coalizione.
ore 10:45 | M5S-Pd-Leu: disponibili a confronto per la ricerca di un nome condiviso super partes
“Coerentemente con quanto chiesto e fatto nei giorni scorsi, riconfermiamo la nostra immediata disponibilità ad un confronto per la ricerca di un nome condiviso super partes, in grado di rappresentare tutti gli italiani. Nel frattempo in questa votazione voteremo scheda bianca“. Così M5S, PD e LeU in una nota congiunta.
ore 10:50 | Nuovo vertice del centrodestra stasera alle 19
ore 11:00 | Al via il quarto scrutinio, maggioranza 505
È iniziata nell’Aula della Camera la quarta votazione in seduta comune integrato dai delegati regionali per l’elezione del presidente della Repubblica. La maggioranza richiesta è quella assoluta, pari a 505 voti su 1009 grandi elettori. Il quorum richiesto da questa votazione è quello della maggioranza assoluta dei componenti del Collegio Al banco della presidenza ci sono i presidenti di Camera e Senato Roberto Fico e Elisabetta Alberti Casellati. Si inizia con la chiama dei senatori a vita e dei cosiddetti ‘prevotanti’ per motivi di salute. Come nei precedenti tre scrutuini, il primo a votare è Umberto Bossi.
ore 11:05 | Italia Viva voterà scheda bianca
Italia viva voterà scheda bianca al quarto scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica. E’ quanto riferiscono fonti del partito.
ore 11:15 | Casini scherza entrando alla Camera: “Vicini a mio nome? No vicini alla porta”
“Siamo più vicini al mio nome? No siamo vicini alla porta“. Scherza Pier Ferdinando Casini con i cronisti che lo assediavano arrivando alla Camera. Casini indossava una vistosa sciarpa rossoblu “il Bologna è una fede…“, ha aggiunto.
ore 11:25 | Tajani, sì incontro con progressisti ma no veti
Un incontro con il fronte progressista? “Sì, ma basta che non ci siano veti”. Lo ha detto il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. Sull’astensione annunciata dal centrodestra, Tajani aggiunge: “Per far vedere che il centrodestra c’è”.
ore 11:30 | Cresce richiesta due voti, al momento no decisioni
Cresce la richiesta da parte dei grandi elettori di procedere dal prossimo scrutinio con due votazioni al giorno. Ma al momento, viene spiegato da fonti di Montecitorio, non sono previste convocazioni della conferenza dei capigruppo e, quindi, non vi è alcuna novità in merito. Intanto si sta svolgendo la quarta votazione. I primi ad avanzare alla presidenza della Camera la richiesta di procedere con due scrutini al giorno sono stati i grandi lettori di Italia Viva: già martedì, giorno della seconda votazione, la capogruppo alla Camera Maria Elena Boschi aveva posto la questione al presidente Fico, richiesta rinnovata ieri. Oggi si aggiunge il centrodestra e anche Leu, come ha detto il ministro Roberto Speranza, si dice d’accordo con due votazioni al giorno.
ore 11:40 | Salvini: vorrei candidato buono, non di bandiera
“Sono fiducioso, sono ottimista. L’astensione è per evitare scontri, non voglio un candidato di bandiera, vorrei un candidato o una candidata buona”. Lo ha detto Matteo Salvini ai giornalisti presenti alla Camera. L’astensione è un modo per contarsi? “Le prove di forza non ci interessano” ha aggiunto Salvini interpellato dai cronisti alla Camera. “Noi le proposte le abbiamo fatte. Speriamo di arrivare a un nome il prima possibile. La doppia votazione di domani? Chiediamo di accelerare”.
ore 12:05 | Meloni irritata: voleva che il centrodestra si misurarre in Aula
Molto irritata per l’esito del vertice di centrodestra. Così è descritta Giorgia Meloni dai suoi. La presidente di Fratelli d’Italia ha dato il via libera all’astensione nella quarta votazione per il presidente della Repubblica per non spaccare la coalizione. Ma non era assolutamente d’accordo, viene spiegato. “Abbiamo insistito per votare un nostro candidato”, viene riferito. “Il centrodestra, per noi, ieri come oggi, doveva misurarsi con l’Aula. Anche perchè, su Elisabetta Casellati, per noi, i 50 voti in più, quelli che servono a raggiungere la maggioranza, c’erano eccome”. “Gli alleati invece non hanno voluto contarsi“, si aggiunge. “Non hanno voluto votare. Viene quasi il sospetto che non siano capaci di tenere i voti“
ore 12:10 | Ora votano i deputati
Si è conclusa nell’Aula della Camera la votazione dei senatori per l’elezione del presidente della Repubblica. Ora votano i deputati.
ore 12:15 | Salvini ai suoi, su Draghi noi manteniamo posizione
Noi manteniamo la parola data, su Draghi abbiamo spiegato ai cittadini che deve rimanere a palazzo Chigi. Fonti parlamentari della Lega riferiscono che nella riunione con i dirigenti del partito Matteo Salvini sia stato netto. Il suo sospetto – viene riferito – è che anche altri nel centrodestra possano cambiare linea e virare su Draghi. Salvini comunque ribadisce ai fedelissimi che sta lavorando ad un’alternativa.
ore 12:40 | Renzi: astensione centrodestra? Lo trovo scandaloso
“Davanti a questa situazione di difficoltà trovo irresponsabile questo atteggiamento del centrodestra di non partecipare al voto. È un atteggiamento non all’altezza delle istituzioni, profondamente ingiusto verso i cittadini. Indipendentemente dai nomi, trovo scandaloso che oggi il centrodestra abbia fallito l’esame di maturità che aveva. Mancano poche ore, speriamo che per domani si recuperi saggezza, è finito il tempo delle bambinate. Questo gioco dei nomi è insopportabile“. Lo ha detto il leader di Italia viva Matteo Renzi, parlando ai cronisti davanti Montecitorio.
ore 12:45 | Salvini: “Di sicuro sento Letta, non so se riusciremo a vederci“
Ci sarà un incontro oggi con Enrico Letta e gli altri leader? “Sicuramente con Letta ci sentiremo, non so se riusciremo a vederci…”, risponde Matteo Salvini avvicinato in Transatlantico, a Montecitorio.
ore 14:25 | Iniziato lo spoglio delle schede
È terminato il quarto scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica. Vengono quindi aggiunte le schede dei grandi elettori positivi o in quarantena che hanno votato nel seggio speciale allestito nel parcheggio esterno di Montecitorio. Il presidente Roberto Fico ha iniziato ora allo spoglio delle schede. La maggioranza richiesta è quella assoluta, pari a 505 voti.
ore 14:55 | Coraggio Italia: “Belloni? No a due tecnici al vertice“
“Nessun problema sul profilo, ma è difficile spiegare come si possa accettare che i vertici delle istituzioni siano ricoperti da due tecnici a capo della presidenza della Repubblica e di Palazzo Chigi. E sarebbe ancora più incomprensibile che questa proposta venga da chi aveva già problemi a spostare un tecnico da un posto all’altro“. Lo dicono all’Ansa fonti di Coraggio Italia, commentando l’ipotesi di una candidatura alla presidenza della Repubblica dell’ ambasciatore Elisabetta Belloni, attualmente al vertice del Dis (i servizi segreti italiani) .
ore 14:55 | Tra i candidati Altobelli, Veltroni e Taverna
Sono per la maggior parte schede bianche, poi i voti per Sergio Mattarella (oltre 160 per ora) ed oltre 50 per il magistrato Nino Di Matteo, candidato di Alternativa. Ma spuntano voti anche per l’ex attaccante dell’Inter Alessandro Altobelli, per l’ex segretario del Pd Walter Veltroni e per il ministro leghista Giancarlo Giorgetti. Preferenze anche per Pierluigi Bersani, per Mario Segni, Pierluigi Castagnetti. Rispetto ai precedenti tre scrutini, il numero dei voti dati a personalità che sono al di fuori del mondo della politica e delle istituzioni, al momento, risulta essere molto inferiore.
ore 14:58 | Verso nuova fumata nera, i più votati Mattarella e Di Matteo
Nello spoglio della quarta votazione per il presidente della Repubblica, l’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella ottiene 166 preferenze quando sono stati scrutinati circa 405 voti su 1.009. Segue, a 56 voti, il magistrato Nino Di Matteo. Al momento le schede bianche sono 261. Astenuti 433.
ore 15:05 | Finito lo spoglio delle schede: Mattarella 166 voti, Di Matteo 56, Casini 3
Aumentano i voti per il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel quarto scrutinio per l’elezione del suo successore, che passa dai 125 di ieri ai 166 di oggi. 56 le preferenze per il pm Nino Di Matteo, indicato dai parlamentari ex M5S de l’Alternativa al posto di Paolo Maddalena. Pierferdinando Casini, che ieri aveva raccolto 52 voti, oggi, con i delegati del centrodestra che si sono astenuti, si ferma a 3. Due altri papabili per il Quirinale indicati nelle ultime ore, vale a dire Elisabetta Belloni e Sabino Cassese, ottengono, rispettivamente, due voti e uno.
La candidatura per il Colle. Mi sono candidato al Quirinale per dare un po’ di colore nella mediocrità. Fulvio Abbate su Il Riformista il 27 Gennaio 2022.
Può uno scrittore, sia pure in nome del paradosso, avanzare il proprio nome per il Quirinale? E soprattutto con parole d’ordine (o disordine) non meno paradossali, quali “Contro ogni ambizione” e “La forza dell’irrilevanza”. Può, poiché siamo in democrazia, e forse non sarebbe cosa ingiusta credere nell’immaginazione, soprattutto riflettendo sul vuoto di pensiero che governa il “Palazzo”. Della politica, e forse anche di chi la osserva con assenza di estro, di proposte, almeno ai suoi occhi, convincenti esattamente dalla prospettiva proprio della fantasia, dell’immaginazione, che poi sono categorie che dovrebbero affiancare i diritti essenziali di cittadinanza.
Lo scrittore, meglio, in questo momento esatto, prova nostalgia per il tempo nel quale era possibile accostarsi agli elettori, (era il caso dei socialisti francesi nei giorni di Mitterrand) con parole rubate a un poeta, Arthur Rimbaud: “Changer la vie”: cambiare la vita. Lo spettacolo che la politica italiana sta consegnando ai suoi spettatori, assodato che non ci sono problemi poiché non ci sono soluzioni, appare almeno ai miei occhi, sia detto con un’immagine letteraria, sotto il regno di Saturno, il dio della malinconia. Il candidato della destra in blazer o tailleur non meno insignificante, al momento, ha il volto di una signora “cattolica e conservatrice”, un’antiabortista che vorrebbe riaprire le case di tolleranza, già cooptata da Berlusconi, una proposta irricevibile per chi volesse, appunto, se non proprio mutare l’esistente, continuare a credere nei valori minimi di laicità.
Lo scrittore non immagina “l’assalto al cielo”, nel nostro caso basterebbe prendere atto della miseria della politica indicando una semplice prospettiva progressista, libertaria: case, scuole, ospedali (pubblici), diritti civili, tolleranza, rifiuto del populismo razzista. Ho appena dimenticato di dire che la sinistra, meglio, il suo fantasma, nella situazione data, mostra uno stato di auto-narcosi, assenza di se stessa. Può uno scrittore dare risposte in questo senso? Probabilmente no, gli rimane, forse, la semplice necessità di indicare il vuoto di un pensiero che muova dalle aste della democrazia. Sarebbe insomma cosa giusta che le cosiddette voci libere, ossia coloro che, sia detto un paradosso, scelgono d’essere mediocri in proprio e non per conto terzi, mostrino un minuscolo segno di discontinuità umana. Ancora una volta lo scrittore è costretto a rimpiangere il coraggio di Pier Paolo Pasolini, che oggi compirebbe 100 anni.
La mia improbabile scelta di candidarmi al Quirinale, nel suo paradosso esplicito, pretende d’essere dunque una scelta “politica”, posto che non vi è neppure certezza che alcuni dei volti che attualmente aspirano al Colle vogliano dare prova di antifascismo in un Paese che vede nella tentazione autoritaria e nella semplificazione da sempre un bene rifugio subculturale. Ho già detto che non ci sono problemi poiché non esistono soluzioni, e forse, sempre lo scrittore già citato, si trova altrettanto costretto a ravvisare in Mario Draghi il miglior amministratore di condominio possibile per le pratiche correnti della sussistenza economica nazionale. Il mio amico Paolo Cirino Pomicino giustamente parla di una politica che ha abdicato a figure esterne il proprio mandato. Il vuoto assoluto di fantasia che governa il nostro quotidiano ai miei occhi appare altrettanto spettrale.
A chi ha ironizzato sui voti ricevuti finora da Fulvio Abbate, accostandoli alle preferenze accordate agli Amadeus e ad altre figure del teatro spettacolare, rispondo che hanno ragione, non possiedo la stessa “rispettabilità” di quest’ultimi, e tuttavia, sia pure nel paradosso, questa mia presenza avventurosa nella corsa per Quirinale credo serva a mostrare che sebbene sia impossibile cambiare la vita, si può almeno provare a renderla un po’ meno mediocre, restituirle i colori.
Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
Le elezioni presidenziali. Quirinale, i partiti sono interessati solo alla propria bottega. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.
Il Presidente della Repubblica è scelto in Italia dal Parlamento, cioè dagli esponenti dei partiti politici che grazie alle elezioni popolari lo compongono. La nomina del successore di Sergio Mattarella ha seguito fino a questo momento una prassi diversa, considerando il fatto che ci troviamo di fronte ad una assemblea priva di una maggioranza e anche di una forza egemone. I partiti che compongono il governo di unità nazionale, voluto da Mattarella e accettato dalle forze politiche che lo compongono in virtù di un voto di fiducia ottenuto da Mario Draghi, non sono stati in grado di preparare la nomina del Presidente della Repubblica attraverso un accordo fra di loro. Sono invece giunti quasi alla meta del 24 gennaio solo con una autocandidatura di Silvio Berlusconi, che l’ha ritirata poco prima dell’inizio delle votazioni dei grandi elettori. Si è dunque arrivati alla prima chiamata senza che fosse emerso un possibile nome comune.
A questo punto, il leader della Lega ha provato una strada singolare per sciogliere il nodo e intestarsene il merito. È andato a vedere, piuttosto che i leader degli altri partiti della maggioranza, Mario Draghi, del cui possibile trasferimento da Palazzo Chigi al Palazzo del Quirinale si è molto sentito parlare da diverse settimane, soprattutto dopo la conferenza di fine anno del primo ministro. Non conosciamo il contenuto dell’incontro. Ma non è difficile pensare che Salvini abbia provato a discutere con Draghi il problema che sorgerebbe se costui lasciasse il posto di capo del governo. Questa è però una questione che Salvini ed i partiti dovrebbero discutere eventualmente con il successore di Mattarella e non con il primo ministro in carica o in ogni caso con lui una volta che fosse eletto capo dello stato. Questa sarebbe la procedura richiesta da una corretta lettura della pratica costituzionale.
Non c’è da sorprendersi del fatto che il colloquio non abbia sciolto il nodo. E ora i partiti e i loro leader devono trovare un’altra strada per giungere alla elezione del presidente della Repubblica. O trovano un accordo su un nome che non sia quello dell’attuale capo del governo. Oppure sceglieranno Draghi e discuteranno con lui della struttura del nuovo governo – dopo la sua elezione. La prima ipotesi non è di facilissima realizzazione. Un nome di parte non ha serie chances di essere accettato anche dalla sola maggioranza assoluta, che dalla quarta votazione in poi diverrà dirimente. Un nome super partes, come si dice, vorrebbe dire, probabilmente, affidare a due estranei al mondo della politica di professione i vertici dello stato. Un sacrificio che i partiti non sembrano particolarmente volenterosi di accettare. Per il momento la situazione è di stallo e intanto la politica intesa come interesse della polis – la comunità dei cittadini – scompare e la politica, come interesse di parti che guardano alle elezioni, si impone senza peraltro riuscire a sciogliere il nodo.
Questo è, infatti, il volto della politica come ci appare in questi giorni. È vero, c’è da eleggere il Presidente della Repubblica, ed è comprensibile che il dibattito dei partiti si concentri su questo o quel nome. Ma qual è la motivazione principale di queste indicazioni? Difendere l’interesse della propria parte, sistemare uno dei “propri”. Al di là delle parole su una figura di “alto profilo”, che pensi “all’interesse del paese”, ognuno ha a cuore la propria bottega. Ciò accade anche quando si parla di Governo, nel caso si debba sostituire Draghi, eventualmente chiamato al Quirinale. A qualcuno è venuto in mente di parlare di programmi, di cose da fare, di miglioramenti nell’azione dell’esecutivo? No, tutta l’attenzione è su chi inserire dentro quest’ultimo. Ma, una volta sistemata la pratica Quirinale, si tratterà, in un modo o nell’altro, di andare avanti. E allora sarà dura per partiti come questi. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino
Calma ragazzi. Perché mai per eleggere il Capo dello Stato dovrebbe volerci meno che a decidere il vincitore di Sanremo? Francesco Cundari su L'Inkiesta il 26 Gennaio 2022.
Dal 1948 a oggi, su dodici elezioni, solo due volte il presidente della Repubblica è stato eletto prima del quarto scrutinio. E non siamo ancora arrivati al terzo (che comincia oggi).
Sono passati appena due giorni dall’inizio delle votazioni per il presidente della Repubblica e già da un giorno e mezzo autorevoli commentatori, illustri politologi, celebrità della televisione, del teatro e di twitter lamentano l’indegno spettacolo offerto dalle trattative e dalle schede bianche, strappandosi i capelli perché il parlamento non ha ancora eletto il capo dello Stato. Gente che ci mette venti minuti per ordinare una pizza, venti ore per fare una riunione di condominio (nella migliore delle ipotesi, cioè quando non finisce in tribunale), sei mesi per decidere dove andare in vacanza con la moglie, trova scandaloso che i mille grandi elettori non abbiano già trovato l’accordo sulla prima carica dello stato. Ma perché? Ma quando si è stabilito che per scegliere il capo dello stato ci debba volere meno che a decidere il vincitore di Sanremo?
È una tendenza relativamente recente, i cui primi segnali si sono visti nel 2013, la prima elezione presidenziale ai tempi dei social network. È evidentemente anche una tendenza figlia della società del tempo reale. Ma fare i conti con la modernità e con il modo in cui nuove tecnologie e nuove abitudini ci hanno insegnato a scandire il tempo, a riconsiderare certi ritmi e certi rituali, non significa necessariamente che si debba comprimere anche la più delicata e solenne scelta istituzionale nei tempi di un video su TikTok. Abbiamo già avuto le pseudo-consultazioni in streaming, giusto nel 2013, e abbiamo visto com’è finita.
È una tendenza che i politici dovrebbero contrastare, invece di cavalcare, illudendosi come al solito di poter indirizzare la cagnara contro gli altri e salvare se stessi. Un esempio a caso? Enrico Letta, ieri sera: «Noi crediamo che dobbiamo rinchiuderci in una stanza, pane e acqua, e buttare via la chiave finché non si trova la soluzione, perché il paese credo non possa aspettare giorni e settimane di voti e schede bianche». Testuale: pane e acqua, e buttare via la chiave. L’immagine dell’autodafé della politica non potrebbe essere più efficace. Ma forse è solo il frutto di troppe riunioni con i cinquestelle.
Intendiamoci, nessuno nega che oggi, probabilmente, le ventuno votazioni consecutive che servirono per eleggere Giuseppe Saragat e le ventitré che si resero necessarie per eleggere Giovanni Leone non sarebbero sostenibili. Sta di fatto che dal 1948 a oggi, su dodici elezioni, solo due volte il presidente è stato eletto prima della quarta votazione (Francesco Cossiga nel 1985 e Carlo Azeglio Ciampi nel 1999, entrambi alla prima, escludendo per ovvie ragioni Enrico De Nicola, eletto dall’Assemblea costituente nel 1946). Dieci volte su dodici, negli ultimi settantacinque anni, il presidente della Repubblica è stato eletto dalla quarta in poi. E noi non siamo ancora alla terza (che comincia oggi).
Tra i mille paralogismi che si sentono in queste ore va particolarmente forte l’invettiva contro i partiti «che hanno avuto sette anni per mettersi d’accordo» e si sono ridotti all’ultimo, come se si trattasse di compiti per le vacanze. E mai nessuno che chieda all’indignato di turno che cosa avrebbe fatto al posto non già di «tutte le forze politiche», che è facile, ma è anche una condizione che non si dà in natura, bensì al posto di uno qualunque dei leader di partito realmente esistenti, per risolvere il problema per tempo. Fermo restando che se il presidente fosse eletto oggi, ripetiamolo in coro, sarebbe la terza elezione più rapida di sempre.
Ci sono poi quelli che trovano incresciosi i nomi a casaccio scritti sulle schede, nelle votazioni in cui la stragrande maggioranza dei grandi elettori ha deciso comunque di votare scheda bianca. Come se il problema fosse la scheda con su scritto «Amadeus», che non ha alcun effetto concreto, e non le schede che hanno portato in parlamento, davvero, rappresentanti del popolo come Sara Cunial, infaticabile attivista no vax. Eletta con il Movimento 5 stelle, con il voto e con il sostegno di buona parte di quelli che oggi s’indignano per l’oltraggio alle istituzioni rappresentato dal fatto che una scheda bianca non è stata lasciata bianca (cioè senza alcun nome scritto sopra, come precisava prudentemente l’indicazione di voto dei vertici cinquestelle ai propri parlamentari).
V GIORNO DI VOTAZIONI
Diretta dalla Camera: 5° giorno di votazione per l’elezione del Capo dello Stato. Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2022.
Quirinale, il centrodestra ha scelto: giocherà la carta Casellati. Dal Pd: “Con lei si va al voto”. Il nome proposto da Salvini per la quinta votazione. La replica dei renziani: “Noi non la voteremo”. Vertice di centrosinistra con Letta, Conte e Speranza.
Il centrodestra ha votato inutilmente Elisabetta Casellati nella votazione di oggi per l’elezione del Presidente della Repubblica. La Casellati non ha superato il quorum (pari a 505 voti) e si è fermata a 382 preferenze, ben al di sotto dei numeri dei grandi elettori del centrodestra (453) e comunque meno di 400, la soglia fissata dalla coalizione per riproporla nella seconda votazione del pomeriggio. Il flop scuote il centrodestra e apre la caccia al franco tiratore: Lega e Fdi assicurano di aver votato compatti la presidente del Senato. Nel mirino finisce Forza Italia. All’appello, infatti, mancano 71 voti della coalizione.
È il momento che si “verifichino i numeri in aula e si ponga fine a questa cosa incomprensibile del non voto e delle schede bianche – ha detto Giorgia Meloni al termine del vertice – Il centrodestra dia una prova di compattezza. L’avessimo fatto prima la situazione sarebbe già sbloccata ma sono contenta si sia arrivati a questa decisione”. La leader di Fdi ha sottolineato che quella su Elisabetta Casellati, “donna e presidente del Senato” è un’apertura “su una candidatura meno politicizzata e più istituzionale. I veti sarebbero incomprensibili”.
“L’indicazione di voto per oggi è Elisabetta Alberti Casellati”. Era il contenuto dell’sms arrivato ai parlamentari del centrodestra per la quinta votazione del Colle.
“Oggi il centrodestra unito voterà per Elisabetta Casellati, Presidente del Senato e seconda carica dello Stato. Una donna ma soprattutto una figura istituzionale di alto profilo”, ha scritto su Twitter Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia. “Vediamo cosa ne pensa il Parlamento, Casellati sa che potrebbero non esserci i voti, come capita in democrazia”, ha osservato Giovanni Toti, al termine del vertice del centrodestra. “Andare con Casellati, che è la seconda carica dello Stato, non è una cosa eversiva”, ha aggiunto il governatore della Liguria.
CENTROSINISTRA. Assemblea lampo dei grandi elettori M5S alla Camera. “State in attesa che potrebbero arrivare messaggi anche all’ultimo”, si è limitato a dire ai parlamentari il capogruppo a Montecitorio Davide Crippa. Per ora, quindi, nessuna indicazione di voto: si attende l’esito del confronto tra i leader di M5S, Pd e Leu, ancora in corso. Scheda bianca o candidatura alternativa. Queste al momento, secondo alcune fonti del centrosinistra, le opzioni su cui stanno ragionando Letta, Conte e Speranza. Non è escluso che prima del voto in Aula l’assemblea possa ri-aggiornarsi.
“Mi sto chiedendo sinceramente se ho fatto bene a fidarmi, siamo stati portati in giro per tre giorni”. Lo ha detto Enrico Letta, arrivando alla Camera per il vertice tra Pd, M5S e Leu sulle elezioni per il Colle, riferendosi al centrodestra e al nodo Quirinale. “Abbiamo sempre lavorato per l’unità, l’impressione è che abbiano tentato di dividerci con idee fantasiose con l’obiettivo di dividere, non di fare l’interesse del Paese” ha aggiunto il segretario dem . “Chiederemo a Fico di aumentare e arrivare almeno a due votazioni al giorno” ha detto Letta.
la diretta video delle votazioni in tempo reale alla Camera dei Deputati
Alla quinta votazione 46 preferenze sono andate al capo dello Stato, Sergio Mattarella; 38 al pm Nino Di Matteo, ora componente del Csm; 8 a Silvio Berlusconi, 7 alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e al coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani; 6 a Pier Ferdinando Casini. Le schede bianche sono state 11, le nulle 9, come i voti dispersi. Presenti 936, votanti 530, astenuti 406. Alla Casellati sono dunque mancati 71 voti rispetto ai 453 grandi elettori del centrodestra.
LA GIORNATA IN DIRETTA
ore 10:25 | Eletti Movimento 5S chiedono oggi di astenersi in Aula
Molti eletti 5 Stelle, in questi minuti, stanno chiedendo ai vertici del Movimento di appoggiare la linea dell’astensione oggi in Aula, nella quinta votazione per l’elezione del Capo dello Stato.
ore 10:30 | Italia Viva orientata a non partecipare al voto
Italia viva è orientata a non partecipare al quinto voto sulla presidenza della Repubblica. Lo riferiscono fonti parlamentari del partito.
Matteo Salvini e Matteo Renzi si sono incontrati per circa dieci minuti a Palazzo Montecitorio.
ore 10:45 | Da domani due votazioni: alle 9.30 e 16.30.
Da domani, in caso di fumata nera nelle due votazioni in programma oggi, previste due votazioni giornaliere alle 9.30 e alle 16.30. È quanto emerso dalla conferenza dei capigruppo congiunta a Montecitorio.
ore 10:45 | Da oggi doppia votazione: alle 11 e alle 17
Da oggi doppia chiama a Montecitorio per eleggere il presente della Repubblica. La seconda si terrà alle 17:00. Lo hanno deciso i capigruppo
ore 10:45 | Sospesa assemblea grandi elettori Pd
L’assemblea dei grandi elettori Pd è stata sospesa. Verrà aggiornata in base all’evolversi delle discussioni sull’elezione del presidente della Repubblica. È quanto si apprende da fonti Pd. A comunicare la decisione ai grandi elettori è stata la capogruppo alla Camera, Debora Serracchiani.
ore 10:49 | Incontro Salvini-Renzi alla Camera
ore 11:05 | Al via quinto scrutinio, maggioranza richiesta 505
E’ iniziato nell’Aula della Camera il quinto scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica. La maggioranza richiesta è quella assoluta, pari a 505 voti.
ore 11:10 | Senatori Pd-M5S non rispondono alla prima chiama
Secondo quanto si apprende da fonti parlamentari, Pd-M5sd e Leu parteciperanno solo alla seconda chiama
ore 11:15 | Casellati torna in Aula durante la votazione
Il presidente del Senato, Elisabetta Casellati, è tornata in Aula accanto al presidente della Camera, Roberto Fico, mentre è in corso il quinto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica.
ore 11:17 | Lega: non votare Casellati è sgarbo a istituzioni
“Sergio Mattarella ha escluso più volte l’ipotesi di un bis: con senso di responsabilità, il centrodestra offre al Parlamento il nome della seconda carica dello Stato che peraltro – essendo una donna – rappresenterebbe una svolta storica per il Paese. Se alcuni partiti non partecipassero nemmeno al voto, non farebbero uno sgarbo al centrodestra ma alle istituzioni”. Così fonti della Lega.
“Il Centrodestra ha trovato l’accordo per il voto di questa mattina, su Elisabetta Casellati che da Presidente del Senato, Seconda Carica dello Stato, diventerebbe Prima Carica dello Stato. Io conosco Elisabetta Casellati da oltre 30 anni e posso garantire sulla sua assoluta adeguatezza a questo eventuale nuovo ruolo super partes. Per tale motivo mi rivolgo ai Parlamentari di tutti gli schieramenti, per chiedere loro di sostenere la Casellati”. Lo scrive Silvio Berlusconi. “Dobbiamo assolutamente porre fine all’attuale spettacolo indecoroso che la politica sta dando di sè agli italiani e che l’opinione pubblica non riesce più a capire e a tollerare. Ringrazio di cuore tutti i Parlamentari che daranno seguito a questo mio appello e mi auguro che finalmente il Parlamento possa dare un segnale di responsabilità e di adeguatezza al ruolo che la Costituzione gli assegna. Lo spero davvero“, conclude.
ore 11:31 | Pd si asterrà alla seconda chiama
“Dovete andare e dire ‘mi astengo’, senza prendere la scheda. Mi raccomando”. È L’indicazione di Simona Malpezzi, capogruppo del Pd al Senato, ai senatori del partito prima della seconda chiama.
ore 11:20 | Berlusconi: tutti gli schieramenti sostengano Casellati
ore 11:36 | Meloni: tutti parlano di donne, il centrodestra le candida
“Votiamo Casellati, è l’indicazione del centrodestra, una candidatura istituzionale, seconda carica dello Stato e donna. Tutti parlano delle donne ma poi le uniche donne ai vertici le candida il centrodestra. E’ secondo noi anche un’apertura all’altra metà campo che speriamo altri vogliano cogliere. Vogliamo decidere, perché questo spettacolo è fastidioso per gli italiani”. Lo ha detto la leader di FdI, Giorgia Meloni, parlando coi giornalisti a Montecitorio. “L’obiettivo non è spaccare il campo del centrosinistra. Io vorrei una candidatura che venisse votata da tutti. Mi pare che questo problema di compattezza, nel centrosinistra, ci sia“
ore 11:42 | Letta-Conte-Speranza: grave errore candidare Casellati
“Il centrodestra continua a gestire irresponsabilmente il più importante passaggio democratico e costituzionale, rappresentato dall’elezione del presidente della Repubblica. Consideriamo la unilaterale candidatura della seconda carica dello Stato, peraltro annunciato un’ora dalla quinta votazione, un grave errore“. Lo dicono Enrico Letta, Roberto Speranza e Giuseppe Conte in un comunicato congiunto al termine del vertice che si è tenuto questa mattina.
ore 12:00 | Centristi verso Casini o Draghi a sesto voto
Fonti centriste riferiscono che, fra le opzioni in campo, si starebbe valutando seriamente l’ipotesi di votare Pier Ferdinando Casini o Mario Draghi alla sesta votazione in programma nel pomeriggio.
ore 12:05 | I leader di centrosinistra disertano il vertice proposto da Salvini
I leader del fronte di centrosinistra, Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza hanno scelto di disertare l’incontro che Matteo Salvini aveva proposto alla maggioranza alle 11 di stamattina. Le motivazioni, sottolineano fonti dem, sono state illustrate nella nota congiunta di fine incontro, ma i tre leader hanno deciso intanto di restare insieme al gruppo Pd della Camera per fare il punto su strategie e mosse comuni.
ore 12:14 | Conclusa chiama senatori, ora tocca ai deputati
Conclusa la chiama dei senatori per il quinto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica. Ora è la volta dei deputati.
ore 12:27 | Salvini, con Casellati proposto il massimo dopo Mattarella
“Abbiamo fatto una proposta, la massima possibile dopo Mattarella, che ha più volte ripetuto che non sarà disponibile. Un gradino subito sotto c’è la seconda carica dello Stato. Ricordo che ottenne il 75 per cento dei voti dei senatori” così il segretario leghista Matteo Salvini che ha aggiunto “E’ una donna che ha anche frequentato le aule del Csm. Non è una candidata di bandiera o divisiva, ha unito il 75 per cento dei senatori che l’hanno eletta: più unitaria di così“
ore 12:38 | Salvini, fatto nuova proposta incontro a centrosinistra
“Speriamo che non sia la giornata della diserzione. Proporrò di incontrarci anche tra il primo e il secondo voto”. Così il segretario leghista Matteo Salvini parlando della proposta di incontro con gli alleati di governo di centrosinistra. “Chiedo alla sinistra di trovare un accordo entro oggi pomeriggio. La sinistra che in passato provo con Nilde Iotti, Emma Bonino, Anna Finocchiaro: può scegliere una donna”.
ore 12:48 | Conte: non partecipiamo a atti forza. Ci asteniamo
“Non partecipiamo ad atti di forza e per questo abbiamo deciso di astenerci. Non è possibile candidare la seconda carica dello Stato senza condivisione“. Lo ha detto il leader di M5s Giuseppe Conte, uscendo da palazzo Montecitorio.
ore 12:50 | Convocato un nuovo vertice centrodestra
“Noi nel centrodestra ci ritroviamo alle 14.30, vediamo l’esito del voto e vediamo come proseguire“, annuncia il leader della Lega.
ore 13:14 | Salvini: ho il dubbio che Conte o Letta vogliano far saltare il governo
“Mi pare che siano Letta e Conte, o parte del Pd e dei 5 stelle, a dire dei ‘no‘ per far saltare il governo. Mi viene il dubbio che a sinistra ci sia qualcuno che vuol far saltare il tavolo, altrimenti non mi spiego questa sequela di no. Vogliono far saltare i nervi a Draghi e far saltare il governo”. Così il segretario leghista Matteo Salvini.
ore 14:24 | Terminato il quinto scrutinio, al via lo spoglio
E’ terminato il quinto scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica. Ha ora inizio lo spoglio. La maggioranza richiesta è di 505 voti. I votanti nel seggio speciale allestito nel parcheggio esterno di Montecitorio per il voto dei grandi elettori positivi o in quarantena sono stati in tutto 11.
ore 14:28 | Centrodestra valuta Casellati alla sesta votazione se supera i 400 voti
Il centrodestra aspetta lo spoglio della quinta votazione per decidere se votare Elisabetta Casellati anche nella sesta, prevista per oggi alle 17. “Se supera i 400 voti – spiegano fonti della coalizione – la rivotiamo alle 17, altrimenti no”.
ore 14:40 | Casellati al fianco di Fico durante lo spoglio delle schede
E’ in corso nell’Aula della Camera lo spoglio delle schede del quinto scrutinio per l’elezione del Capo dello Stato. Il presidente del Senato, Elisabetta Casellati, candidata dal centrodestra, segue la procedura al banco della presidenza, alla destra del presidente della Camera, Roberto Fico. Il Partito democratico, pochi minuti prima dell’inizio dello spoglio, aveva invitato Casellati ad astenersi.
ore 14:53 | Casellati non supera la ‘soglia’ dei 400 voti
A spoglio del quinto scrutinio terminato, i voti a favore di Elisabetta Casellati non superano la ‘soglia’ di 400 voti, ritenuta la soglia minima da fonti del centrodestra ad avvio votazione. Grande soddisfazione di Anna Maria Bernini, la storica rivale interna a Forza Italia.
ore 15:08 | 382 Casellati, mancano all’appello 71 voti del centrodestra
I voti ottenuti da Elisabetta Casellati, nel quinto scrutinio, sono 382. Il centrodestra ha 453 grandi elettori. Dunque, a spoglio concluso, mancano all’appello 71 voti. Sulla carta il centrodestra, considerato nel suo insieme, ovvero Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e partiti del centro, conta 453 grandi elettori. ieri il centrodestra, in occasione del quarto scrutinio, si è astenuto: al termine della votazione le astensioni sono state 441, ma va considerato che due grandi elettori (Sgarbi e Vito) non si sono astenuti e hanno votato scheda bianca. Dunque, i calcoli di ieri davano tra i 12 e i 14 voti mancanti all’appello. Oggi il numero sale: mancano all’appello almeno 65 voti, considerate le assenze giustificate e quelle fisiologiche, come spiegano fonti di centrodestra. Ad esempio, la Lega fa sapere che dei suoi 212 grandi elettori, i 208 presenti hanno votato tutti per Casellati.
ore 15:21 | La Russa: franchi tiratori? Non in FdI e Lega
Dove sono i franchi tiratori di Elisabetta Casellati ? “Scegliete voi. Non in Fratelli d’Italia e credo nemmeno nella Lega”. Ignazio La Russa, vice presidente del Senato ed esponetene di FdI, commenta così con i cronisti a Montecitorio l’esito del quinto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica. “Ora dobbiamo prendere atto della realtà. I voti che ha espresso il centrodestra sul nome autorevole del presidente del Senato sono inferiori ai propri numeri. C’è qualcuno che se ne frega dei valori del centrodestra e pensa ad altre cose”. “Ora dovremo vedere insieme agli altri cosa fare. Candidare Casellati non è stato un errore – conclude La Russa – avevamo il dovere verso gli elettori e verso noi stessi di provare a verificare quanti voti avevamo”.
ore 15:25 | Tensione nel centrodestra, andare ‘oltre’ Casellati
Il centrodestra pronto a ‘mollare’ la pista Casellati, dopo il risultato raggiunto al quinto scrutinio sull’elezione del presidente della Repubblica. Accuse incrociate tra gli alleati della coalizione. “I 208 voti della Lega sono andati compatti alla presidente Casellati”, spiegano fonti del partito di via Bellerio. Fratelli d’Italia fa sapere di aver votato compatta per la seconda carica dello Stato. Nel mirino Forza Italia. Fonti parlamentari del centrodestra sottolineano che con questi numeri in campo la ‘pista’ Casellati sarà abbandonata.
ore 15:30 | Brugnaro: “Dopo Casellati non resta che Draghi“
“Dopo Casellati non resta che Mario Draghi“, dichiara Luigi Brugnaro, leader di Coraggio Italia.
ore 15:43 | In corso vertice centrodestra
È iniziato il vertice di centrodestra convocato dopo l’esito della quinta votazione per l’elezione del presidente della Repubblica.
ore 15:45 | Si torna ai blocchi di partenza
Quattro ipotesi: un mister X (o madame) che ancora non si intravede all’orizzonte; Casini minimo comune denominatore; accordo su Draghi e nuovo premier; appello a Mattarella. Salvini non ci sta capendo più nulla; Letta e Conte non possono continuare a dire solo no. In realtà, la soluzione naturale (cioè Mario Draghi ) è molto complicata. I suoi sostenitori sono minoranza nei loro partiti. Nella Lega lo vuole Giorgetti ma non Salvini, nei 5 Stelle lo vuole Di Maio ma non Conte. E Berlusconi pare irremovibile con il suo “niet” di Putin memoria….
ore 15:49 | Riunione Pd-M5S-Leu alla Camera
Il segretario del Pd Enrico Letta, il leader di Leu Roberto Speranza, e il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte si sono riuniti negli uffici dei gruppi del PD alla Camera per fare il punto sull’ultima votazione per il presidente della Repubblica. Assieme ai leader di PD, Movimento Cinque Stelle e Leu erano presenti i rispettivi capigruppo.
ore 15:58 | Meloni: “Fdi e Lega leali, gli altri no”
“Fratelli d’Italia, anche alla quinta votazione, si conferma come partito granitico e leale. Anche la Lega tiene. Non così per altri. C’è chi in questa elezione, dall’inizio ha apertamente lavorato per impedire la storica elezione di un presidente di centrodestra. Le decine di milioni di italiani che credono in noi non meritano di essere trattati così. Occorre prenderne atto, e ne parlerò con Matteo Salvini, per sapere cosa ne pensa“, il commento post-voto della leader di FdI, Giorgia Meloni.
ore 15:59 | Calenda: ora confronto vero, abolire kingmaker
“Ora ci vuole un timeout, nella consapevolezza che senza sedersi a un tavolo un governo di unità nazionale che va a eleggere un Presidente della Repubblica va a sbattere facendo una figura indegna”. Lo dice Carlo Calenda, leader di Azione, commentando l’esito della quinta votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica. “Stanno in Consiglio dei ministri insieme e non riescono a sedersi due ore per trovare una soluzione? Se non si riesce a fare questo semplice gesto – aggiunge conversando con i cronisti davanti a Montecitorio – ne verrà fuori un Presidente della Repubblica indebolito e un governo ancora più indebolito. La facessero finita“. “Sono tutti aspiranti kingmaker allo sbaraglio – conclude – non lo sanno fare, non ci riescono. Direi di abolire la figura del kingmaker per le prossime 48 ore“.
Diretta dalla Camera: 5° giorno, sesta votazione per l’elezione del Capo dello Stato. su Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2022.
Si sta celebrando un nuovo vergognoso braccio di ferro fra le due coalizioni. Il rito della chiama è ripreso per la prima delle votazioni pomeridiane di questa tornata. Forse anche l’ultima se il surplace annunciato con le bianche e le astensioni permetterà ai leader di confrontarsi all’esterno senza alcuna ansia da prestazione.
di Redazione Politica
Si è celebrato il sesto scrutinio nell’Aula parlamentare di Montecitorio per l’elezione del presidente della Repubblica. Come ben noto la maggioranza richiesta è quella assoluta, cioè a 505 voti. . Pd-M5S-Leu avevano anticipato che continueranno a votare scheda bianca e così anche il M5s. Al contrario Fratelli d’ Italia ha dato indicazione di non ritirare la scheda. I votanti avente diritto 976.
la diretta video delle votazioni in tempo reale alla Camera dei Deputati
Vi è stato un lungo colloquio nell’Aula della Camera tra Pier Ferdinando Casini e un gruppo di parlamentari della Lega e del Pd: tra questi ultimi si riconoscono con il senatore dem Dario Stefano (un’ ex UdC) e l’ex capogruppo a Palazzo Madama Andrea Marcucci.
Al termine della sesta votazione il presidente Sergio Mattarella ha ricevuto 336 voti, cioè 46 voti in meno di quanti ne aveva ricevuti nella votazione della mattinata la senatrice Elisabetta Casellati, attuale presidente del Senato, il risultato della votazione pomeridiana dimostra e conferma che anche l’asse del centrosinistra (M5S-Pd-Leu) non ha i voti necessari per eleggere un Capo dello Stato. E se Salvini ha fatto “schiantare” la Casellati, il “trio” Letta-Conte-Speranza hanno inutilmente scomodato il Capo dello Stato uscente, che ha più volte dichiarato di non essere disponibile ad un secondo mandato presidenziale.
IL POMERIGGIO DELLA GIORNATA IN DIRETTA
ore 16:49 | La Lega si astiene alla sesta votazione
Alla sesta votazione, che inizierà alle ore 17 alla Camera, la Lega ha deciso di astenersi.
Ore 17.15 | Sgarbi: “d’ora in poi voterò Draghi“
Vittorio Sgarbi, già “telefonista” per conto di Berlusconi nell’operazione Scoiattolo, ovvero la ricerca di consensi per l’elezione del Cavaliere tra i parlamentari di altri gruppi, annuncia che d’ora in avanti voterà per Mario Draghi. Si assume poi la responsabilità della proposta di Casellati avanzata da Salvini: “È colpa mia, pensavo che da presidente del Senato avesse rapporti con i gruppi…”. E pronostica tempi ancora lunghi: «Secondo me non si fa neanche domani».
ore 17:20 | Bossi: “Salvini farà quel che dice Berlusconi”
Anche Umberto Bossi, dopo il flop della candidatura Casellati, si sbilancia in previsioni: “Vedo un Mattarella bis, qui non si batte chiodo“. Già nei giorni scorsi aveva criticato la conduzione del gioco da parte del centrodestra, chiamando in causa “dirigenti che non pensano“. Oggi torna a punzecchiare Salvini: “Farà quello che gli dice Berlusconi, immagino che vada a ruota di Berlusconi. Cosa dirà Berlusconi? Dirà che la sinistra vuole uno dei suoi alla presidenza“.
ore 17:21 | I senatori di FdI non rispondono alla prima chiama
I senatori di Fratelli d’ Italia non stanno rispondendo alla prima chiama del sesto scrutinio.
ore 17:25 | M5s, contatti tra Conte e Centrodestra
Il leader del M5S Giuseppe Conte sta provando a sondare il terreno in area centrodestra “che dopo questa forzatura istituzionale e il fallimento della prova appare molto diviso e si intensificano trattative“. Lo rendono noto fonti del Movimento che evidenziano delle “trattative intensificate” a seguito “della forzatura istituzionale e il fallimento della prova Casellati“. Fonti del PD a loro volta invece ci tengono a far sapere che al momento non ci sono contatti tra il segretario dem Enrico Letta e quello della Lega Matteo Salvini.
ore 17:26 | Centrosinistra: astensione alla sesta votazione
Pd, M5S e Leu voteranno scheda bianca. È quanto ha fatto sapere il capogruppo Leu Federico Fornaro ai giornalisti
ore 17:35 | Dal fronte progressista spinta per Mattarella-bis subito
L’indicazione arrivata al fronte progressista è quella di votare scheda bianca, ma secondo quanto apprende l’AGI, nel Movimento 5 stelle, nel Pd e in Leu ci saranno parlamentari che scriveranno già oggi il nome di Sergio Mattarella in modo da spingere per arrivare al bis domani. Secondo un big della coalizione l’attuale presidente Mattarella potrebbe prendere oltre 200 voti al sesto scrutinio.
ore 17:42 | Bernini (Fi): “Abbiamo aperto trattativa con il centrosinistra”
“Abbiamo aperto una trattativa con il centrosinistra, ”vediamo”. Così la capogruppo Forza Italia al Senato, Annamaria Bernini, ai cronisti. Dopo l’irritazione di Lega e FdI, l’apertura di contatti a sinistra da parte degli azzurri evoca la «maggioranza Ursula» che consentì l’elezione di Ursula von der Leyen a presidente dell’Ue. In quell’occasione Forza italia si trovò sullo stesso fronte di centrosinistra e pentastellati. Bernini è notoriamente considerata un’antagonista della Casellati all’interno dell’area forzista.
ore 17:52 | Terminata la prima chiama senatori. Via alla seconda
È terminata la seconda chiama dei senatori per la sesta votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. Ora è in corso la seconda chiama.
ore 17:58 | Meloni, al voto subito dopo elezione Colle
Ore 18:00 | Salvini ha incontrato Draghi
A un passo dal baratro Matteo Salvini rallenta la corsa, chiede ai grandi elettori di centrodestra di astenersi alla sesta chiama non ritirando la scheda e cerca Mario Draghi. Da fonti leghiste trapela che il segretario nel pomeriggio di oggi ha avuto un colloquio con Draghi in un palazzo di via Veneto (che potrebbe essere il ministero dello sviluppo economico dove regna Giancarlo Giorgetti) il quale è appena rientrato nel suo ufficio di Palazzo Chigi. Dopo la bocciatura della presidente Maria Elisabetta Casellati e il fallimento della «spallata», che ha scatenato una guerra di nervi e accuse dentro il centrodestra, Salvini vuole verificare in estremo la possibilità di un accordo che tenga insieme il destino del governo e il nome del prossimo capo dello Stato.
«Riserbo assoluto», è la consueta linea di riservatezza di Palazzo Chigi , quando Draghi alle 18 di venerdì si trova di nuovo al lavoro nel suo studio. Ormai appare chiaro che il centrodestra non ha i numeri e l’unica possibilità è eleggere una personalità condivisa da tutte le forze politiche, o almeno da quelle che sostengono il governo di unità nazionale. La rosa di cui discutono i leader ha ormai solo tre nomi: Draghi, Casini e Mattarella. Il senatore centrista eletto con i Dem può contare sull’ appoggio di Renzi e Franceschini, ma Salvini non si convince e anche nel M5S: molti hanno difficoltà a votare l’ex presidente della Camera.
Draghi ha aperto un canale di dialogo con Berlusconi, eppure in Forza Italia restano resistenze e permane la forte ostilità di Giuseppe Conte. Ecco perché tra le tante ipotesi di queste ore frenetiche prende largo anche la possibilità che il capo del governo, allarmato per la tenuta della maggioranza e del Paese, possa chiedere a Sergio Mattarella di valutare un ripensamento rispetto al “bis” Per il presidente uscente sarebbe un grande sacrificio anche personale, ma tanti parlamentari guardano a lui come all’unica possibilità di sbloccare lo stallo.
ore 18:06 | Terminata chiama senatori, ora votano deputati
È terminata la chiama dei senatori. È ora iniziata la prima chiama dei deputati.
ore 18:09 | Incontro tra Conte, Salvini e Letta
Prove tecniche di confronto. Dopo tanti annunci rimasti senza seguito, è finalmente in corso un incontro tra il leader della Lega, Matteo Salvini, e quelli di M5S e Pd, Giuseppe Conte e Enrico Letta.
Ore 18.35 | Breve sospensione della seduta
La seduta della sesta votazione per l’elezione del presidente della Repubblica, alla Camera, è stata sospesa. Riprenderà alle 18.48.
ore 18:45 | Letta: “ero ottimista, mi pare stia andando bene“
“Questa mattina ero molto ottimista. Mi pare che stia andando bene” ha commentato Enrico Letta “Sono in corso interlocuzioni. Ci stiamo parlando, siamo all’inizio. I preliminari sono finiti. Ci rivedremo più tardi. Stiamo ragionando sulle soluzioni per il dopo” ha aggiunto il segretario del Pd al termine della riunione con il presidente 5 Stelle Giuseppe Conte e il leader della Lega Matteo Salvini. Letta ha poi fatto sapere che “tra un’ora ci rincontreremo” con Salvini e Conte.
ore 18:55 | In corso incontri tra Salvini e altri partiti del centrodestra
Sono in corso incontri tra Matteo Salvini e gli altri partiti del centrodestra dopo il colloquio tra il leader della Lega, Giuseppe Conte ed Enrico Letta. Salvini ha visto Lorenzo Cesa dell’Udc e sta incontrando Antonio Tajani.
ore 19:26 | La Russa: in rosa nomi per FdI ok Belloni
“Tra tutti questi nomi che sento, trovo delle agenzie di qualche giorno fa in cui Giorgia Meloni diceva che tra i nomi che non le dispiacevano c’erano quello di Sabino Cassese ed Elisabetta Belloni. Deduco – ma la mia è solo una deduzione – che Belloni possa essere un nome di intesa”. Così il vice presidente del Senato Ignazio La Russa.
ore 19:28 | Letta: “Mattarella il massimo, serve nome all’altezza“
“È sempre stato così dall’inizio e sempre sarà così”. Lo dice Enrico Letta, alla domanda se continui a ritenere che Sergio Mattarella sia “il massimo” come lo stesso segretario dem aveva dichiarato alcuni giorni fa.
Letta non ha voluto fare nomi, nè ha confermato che si stia lavorando alla terna Draghi, Casini e Mattarella bis, “di nomi non parlo pubblicamente, in una situazione come questa qualunque nome io faccia poi ha una difficoltà“.
ore 19:35 | Letta: “Salvini? Discusso in modo franco e aperto”
“La soluzione passa attraverso il fatto che tutti capiamo che siamo vincitori se tutti saremo vincitori. Dobbiamo arrivare ad eleggere il presidente della Repubblica, molto tempo è già passato. Abbiamo discusso in modo molto franco e aperto e continueremo a farlo”. Lo ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, intervistato da La7.
“Se serve siamo pronti a discutere tutta la notte o anche per tutta la giornata di domani per arrivare ad una buona soluzione. L’importante è che tutti capiscano che da questa partita dobbiamo uscire tutti vincitori, non ci può essere un solo vincitore“. Enrico Letta si concede ai cronisti a Montecitorio e rivela di avere trovato un Salvini pronto per la prima volta a discutere in modo franco. Il segretario Pd si rammarica che solo oggi, al quinto giorno e dopo la quinta votazione andata a vuoto si sia iniziato a ragionare davvero in un’ottica super partes “perché il centrodestra doveva fare tutto un giro per arrivare a capire di non avere i numeri per fare da sé”. Letta si dice poi «ottimista» anche se non «molto ottimista», perché la trattativa è complicata perché si sovrappongono il perimetro delle due coalizioni e quello della maggioranza di governo, che non coincidono. La linea però è chiara: «Bisognerà trovare un nome, un uomo o una donna, all’altezza di Mattarella. Ci sono varie opzioni».
ore 19:45 | Salvini riferisce al centrodestra
Il nuovo incontro tra Salvini e i leader di Pd e M5S annunciato per le 20 servirà per rifare il punto della situazione dopo gli ultimi sviluppi. Matteo Salvini si starebbe confrontando con gli alleati del centrodestra dopo avere raccolto il parere del campo avversario. Probabile che altrettanto venga fatto in area centrosinistra. Poi verrà il momento di tirare le somme e capire se per la prima volta ci possa essere l’intesa su un nome condiviso
ore 19:50 | Salvini: “Lavoro per avere una donna in gamba come presidente”
“Sto lavorando affinché si possa avere come presidente una donna presidente in gamba“. Lo rivela Matteo Salvini incrociando i giornalisti fuori da Montecitorio. Salvini non fa nomi, ma il riferimento potrebbe essere a Elisabetta Belloni, oggi al vertice dei servizi segreti, il cui nome era stato già evocato nei giorni scorsi e che avrebbe anche il gradimento di Fratelli d’Italia. E che potrebbe trovare consensi anche nell’area giallo-rossa.
Ore 20.00 | Conte: “Finalmente una presidente donna“
Il leader del M5S, Giuseppe Conte, a pochi minuti dall’annuncio di Salvini, parla davanti alle telecamere dell’eventualità di avere per la prima volta una donna al Quirinale. «Ho L’impressione che ci sia la sensibilità di Salvini, spero di tutto il Parlamento, per la possibilità di una presidente donna, il M5s lo ha sempre detto». Anche Conte non si sbilancia sui nomi ma parla di «almeno due, solide e super partes» figure.«Non c’è stato alcun inciucio —assicura —, siamo al lavoro per un compromesso di alto profilo»
Il live minuto per minuto. Elezione Presidente della Repubblica, la diretta della quinta giornata. Salvini e Conte: “Nome? Una donna in gamba”, no di FI e Renzi a Belloni.
Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.
Sesta votazione conclusa, in corso lo spoglio delle schede e già si conosce il colore della fumata, nera ancora una volta. Dopo il flop della candidatura di Elisabetta Casellati di questa mattina e la valanga di voti per Sergio Mattarella alla votazione che si è appena conclusa (336), è arrivato il momento delle trattative e delle proposte. Sia Salvini che Conte pensano a una donna: il nome che è sulla bocca di tutti è quello di Elisabetta Belloni che ha preso solo 4 preferenze. I risultati dell’ultima chiama: Mattarella ha preso il maggior numero di voti, gli astenuti sono stati 444 e 106 le schede bianche. Le altre preferenze di rilievo sono state per Di Matteo (41), Casini (9), Manconi (8), Cartabia e Draghi (5). Il quorum è sempre a 505.
La quinta giornata di voto: dopo l’ennesima fumata nera avvenuta giovedì, nella quarta giornata dedicata all’elezione del 13esimo presidente della Repubblica, fumata nera anche al quinto scrutinio in programma alle 11 di venerdì 28 gennaio. Lo spoglio del sesto scrutinio, in programma dalle 17, è in corso ed è già annunciata l’ennesima disfatta.
Anche oggi basterà la maggioranza assoluta dei voti, 505, per eleggere il prossimo capo dello Stato. I nomi sul tavolo sono rimasti quattro, salvo eventuali sorprese dell’ultim’ora: il presidente del Consiglio Mario Draghi e l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, mentre più defilati, dopo il flop della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, ci sono Sergio Mattarella con un suo eventuale bis al Quirinale ed Elisabetta Belloni, la diplomatica ora alla guida del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Ma si punta anche sul rosario di altre personalità di area centrodestra alternative a Draghi prospettate da Salvini, Meloni e Forza Italia dopo il ritiro di Silvio Berlusconi: Carlo Nordio, Franco Frattini, Sabino Cassese, Letizia Moratti, Marcello Pera, Elisabetta Belloni, Giampiero Massolo.
Tutti nomi che però, dall’altra parte del campo, Enrico Letta, Matteo Renzi, Luigi Di Maio e Roberto Speranza hanno denunciato avere il vizio di origine di non essere candidature condivise ma imposte. Queste scelte, infatti, nei giorni scorsi hanno fatto infuriare i partiti di centrosinistra. La giornata inizia con i vertici in prima mattinata, per arrivare a eleggere il neo Capo dello Stato. Forse con la prospettiva di creare un unicum per la storia repubblicana: mai, infatti, è stato eletto il capo dello Stato al quinto scrutinio. Nel corso delle precedenti 12 elezioni, il quarto voto è stato decisivo per ben quattro volte.
Causa covid-19, finora si è tenuta una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.
LA DIRETTA
Ore 08:45 – Prima del nuovo vertice delle delegazioni di Pd, M5S e Leu, il segretario dem Enrico Letta non nasconde la delusione per le giornate precedenti: “Abbiamo sempre lavorato per l’unità. L’impressione è che abbiano tentato di dividerci, con idee fantasiose con l’obiettivo di dividere e non di trovare una soluzione per il Paese”, ha detto entrando alla Camera. E poi afferma “Chiederemo a Fico di aumentare le votazioni e arrivare almeno a due votazioni al giorno”. E poi, con un pizzico di amarezza, sibila: “Mi chiedo se ho fatto bene a fidarmi”. Il riferimento ricade sul centrodestra.
Ore 08:55 – Il leader di Iv Matteo Renzi lascia in campo l’ipotesi di un Mattarella Bis. “Non escludo l’ipotesi che possa esservi anche un Mattarella bis, sarebbe una forzatura nei confronti di Mattarella e oltremodo scorretto ma al venerdì mattina o la vicenda si risolve nelle prossime ore o questa ipotesi e’ in campo con tutta la sua forza”. Così il leader di Italia viva, Matteo Renzi su Radio Leopolda. Per Italia Viva non è sul tavolo la possibilità di votare il presidente del Senato Casellati. “Noi Casellati non la votiamo come non votiamo nessun candidato divisivo come abbiamo sempre detto. Ma il centrodestra la smetta di correre dietro la Meloni che tenta di far saltare la maggioranza di Governo”. Lo ha detto il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato, ai cronisti della Camera.
Ore 09:00 – Il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani, arrivando a Montecitorio per il vertice di centrodestra, assicura: “Il governo non cade. Dobbiamo lavorare molto. Vogliamo trovare soluzioni condivise”. E nell’ostentare compattezza, punta il dito sul centrosinistra. “E’ la sinistra che ieri si è divisa, il centrodestra è compatto e unito. Noi scandalosi? Addirittura, dov’e’ lo scandalo. Non abbiamo mai posto veti”.
Ore 09:10 – Dure parole della leader di Fratelli di Italia Giorgia Meloni su Twitter: “La desolazione delle manfrine sull’elezione del Presidente della Repubblica certifica 2 cose che @FratellidItalia sostiene da sempre: 1. Con questo Parlamento è impossibile decidere qualsiasi cosa. 2. Se fossero stati gli italiani ad eleggere il PdR lo avrebbero fatto in un giorno”.
Ore 09: 21 – Il centrodestra non ha ancora comunicato al centrosinistra il nome del candidato che oggi dovrebbe votare per il Quirinale. E’ quanto si apprende da varie fonti mentre è in corso il vertice di M5s, Pd e Leu. Le delegazioni stanno valutando come comportarsi nel caso in cui il centrodestra votasse un nome di area nella quinta votazione. L’idea ad ora prevalente sarebbe quella di uscire dall’aula o astenersi.
Ore 09:25 – E’ iniziato, alla Camera, il vertice del centrodestra in vista dell’elezione del presidente della Repubblica. All’arrivo al vertice il segretario Udc Lorenzo Cesa ha detto che il centrodestra resta orientato a votare la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. “Sì”, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano se il voto andrà alla Presidente del Senato.
Ore 09:30 – “Proporre la Casellati è irresponsabile? “E perché? E’ la seconda carica dello Stato. La sinistra ha la pretesa di voler avere il monopolio dei giudizi morali, è questo il vizio di tutta questa vicenda”. Lo ha detto il senatore di FI, Maurizio Gasparri, arrivando a Montecitorio. E poi sul nome di Cassese uscito nei giorni scorsi ha detto: “Cassese è stato uno dei più tenaci avversari delle idee del centrodestra, mai potra’ essere Cassese che va cassato”. E a chi gli domandava se è stato un errore strategico del leader leghista Matteo Salvini ha risposto: “Non lo so, saranno stati dei comunisti a proporlo, escludo che lo abbia fatto Salvini”.
Ore 09:45 – Il centrosinistra potrebbe optare per la scheda bianca alla quinta votazione. L’indiscrezione mentre è ancora in corso il vertice tra il leader Pd Enrico Letta, quello del M5s Giuseppe Conte e Leu Roberto Speranza. Si valutano anche candidature alternative. In corso ancora le valutazioni.
Ore 09:55 – Il segretario della Lega Matteo Salvini ha invitato tutti i leader della maggioranza a un vertice prima del voto al via alle 11:00.
Ore 10:17 – “Vediamo come andrà alla prima votazione se non dovesse esserci un risultato vincente oggi pomeriggio continueremo con Elisabetta Alberti Casellati … A buon intenditor poche parole: i grandi lettori di Forza Italia voteranno Elisabetta Alberti Casellati”, le parole di Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia, riportate da LaPresse.
Ore 10:23 – “Sono contenta che si sia arrivati alla decisione di andare in aula con un candidato proposto dalla nostra metà campo ma parliamo della seconda carica dello Stato, una donna, presidente del Senato ed è un’apertura verso gli altri, una candidatura meno politicizzata e più istituzionale“, le parole della leader di FdI Giorgia Meloni al termine del vertice di centrodestra.
Ore 10:42 – Ci saranno due sedute di votazioni: anche oggi pomeriggio si voterà per il Presidente della Repubblica. Secondo molti sarà quella di oggi pomeriggio la votazione decisiva. La riunione dei capigruppo di Camera e Senato ha approvato la doppia votazione quotidiana: oggi pomeriggio alle 17:00, sabato alle 9:30 e alle 16:30.
Ore 11:00 – Italia Viva non parteciperà alla prima chiama per l’elezione del presidente della Repubblica mentre è ancora in corso il vertice del centrosinistra.
Ore 11:03 – È cominciata la quinta votazione per eleggere il 13esimo Presidente della Repubblica.
Ore 11:10 – Anche il Pd e Leu, oltre a Italia viva, hanno deciso di non partecipare alla prima chiama. Si valuterà la posizione sulla seconda
Ore 11:23 – A pochi minuti dall’inizio del voto arriva sui social il post di Silvio Berlusconi in appoggio alla candidatura di Casellati. “Il Centrodestra ha trovato l’accordo per il voto di questa mattina, su Elisabetta Casellati che da Presidente del Senato, Seconda Carica dello Stato, diventerebbe Prima Carica dello Stato. Io conosco Elisabetta Casellati da oltre 30 anni e posso garantire sulla sua assoluta adeguatezza a questo eventuale nuovo ruolo super partes. Per tale motivo mi rivolgo ai Parlamentari di tutti gli schieramenti, per chiedere loro di sostenere la Casellati. Dobbiamo assolutamente porre fine all’attuale spettacolo indecoroso che la politica sta dando di sé agli italiani e che l’opinione pubblica non riesce più a capire e a tollerare. Ringrazio di cuore tutti i Parlamentari che daranno seguito a questo mio appello e mi auguro che finalmente il Parlamento possa dare un segnale di responsabilità e di adeguatezza al ruolo che la Costituzione gli assegna. Lo spero davvero”.
Ore 11:35 – Su quali numeri bisognerà confrontarsi per capire se la candidatura della Casellati unirà realmente il centrodestra? Quelli dei grandi elettori della coalizione, che sono 457 suddivisi così: Lega 212, Forza Italia 136, Fratelli d’Italia 63, Coraggio Italia 31, UDC 5, Noi con l’Italia 3, Diventerà Bellissima 1, Noi di Centro 1, Rinascimento 1, parlamentari nel Misto (non iscritti) eletti col centrodestra 4.
Al totale dei voti va escluso quello della stessa presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che di norma (come il presidente della Camera) non vota.
Ore 11:40 – Il ‘campo progressista’, ovvero l’unione di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Leu, ha deciso ufficialmente di astenersi nella quinta votazione. La formula, spiegano dagli ‘ex giallo-rossi’, è quella del “presente non votante”.
“Il centrodestra continua a gestire irresponsabilmente il più importante passaggio democratico e costituzionale rappresentato dall’elezione del Presidente della Repubblica. Consideriamo la unilaterale candidatura della seconda carica dello Stato, peraltro annunciata a un’ora dalla quinta votazione, un grave errore”, è la posizione espressa in una nota da Letta, Conte e Speranza.
Ore 12:25 – Salvini e il centrodestra puntano fortissimo sul presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per il Quirinale. Casellati che per il leader della Lega “è il miglior candidato possibile, è il massimo che la Repubblica possa mettere a disposizione dopo Mattarella, che ha già detto di non essere d’accordo ad un reincarico. Non è un nome di bandiera tanto per contarci”, ha spiegato Salvini durante una conferenza stampa convocata mentre è in corso la quinta votazione.
Dal segretario del Carroccio accuse anche al centrosinistra allargato: “Sono deluso dalla fuga della sinistra, che diserta il voto e diserta anche le riunioni di maggioranza: proporrò di incontrarci prima del secondo voto. Se non ci si parla e si fugge la situazione non si risolve”.
A favore della Casellati è anche il punto che “potrebbe essere storicamente il primo presidente donna della Repubblica”, ha ricordato Salvini sottolineando come “fu eletta presidente del Senato con il 75% dei voti, non un’era fa ma 4 anni fa”
Ore 12:50 – Scontro a distanza (temporale) ravvicinata tra Salvini e Conte dopo le parole del primo sulla candidatura della Casellati. Per l’ex premier infatti c’è un “cortocircuito istituzionale” dopo la scelta del centrodestra di votare per la presidente del Senato.
La soluzione, aggiunte Conte, “non può che essere di alto profilo, pienamente condivisa e quindi super partes, deve nascere super partes. Non si può procedere con questi strappi”.
“Tre giorni fa abbiamo detto che rinunciavamo a fare una contro-lista di nomi – ricorda Conte – e da tre giorni inseguiamo i nostri interlocutori di centrodestra per cercare di trovare una candidatura condivisa. Oggi, a poche ore dal voto, veniamo a sapere che c’era la candidatura della seconda carica dello Stato. Non partecipiamo a questi atti di forza e alla conta su più alte cariche istituzionali. Per questa ragione abbiamo deciso di astenerci”.
Ore 13:05 – Lo stesso Salvini in conferenza sembra credere poco alla candidatura della Casellati, aprendo chiaramente ad un confronto su altri nomi: ““Io non pongo veti nei confronti di nessuno, ma se uno mi chiede di Sergio Mattarella dico che ha già detto di no, di Roberto Fico che non ha l’età. Mario Draghi? Da italiano sarei più tranquillo se continuasse a fare il premier. Anche perché se già fatichiamo a fare riunioni per trovare un presidente della Repubblica, figuriamoci per trovare un altro premier e altri ministri”, ha detto ai cronisti.
Ore 13:15 – Una ‘bordata’ contro la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati arriva dal Partito Democratico. Enrico Borghi, componente della segreteria, chiede infatti che la candidata del centrodestra non presieda lo scrutinio: “È del tutto inopportuno che la presidente Casellati nello spoglio odierno co-presieda lo scrutinio delle schede, di fatto controllando i voti per sé stessa. Nel 1992, quando Oscar Luigi Scalfaro si trovò in analoga condizione, si astenne dal presiedere lo scrutinio lasciando il compito al vicepresidente Rodotà. Ci auguriamo il medesimo rispetto delle istituzioni”, è la richiesta avanzata dai Dem.
Il motivo? La possibilità da parte della stessa Casellati di ‘contare’ i voti da parte della sua coalizione sfruttando diverse formule: un solo cognome, entrambi i cognomi, nome e cognome per esteso. Anche se il presidente della Camera Roberto Fico leggesse una formula ‘neutra’, a controllare le schede al suo fianco ci sarebbe infatti proprio la Casellati.
Ore 14:20 – Inizia lo spoglio della quinta votazione: l’attenzione è ovviamente rivolta ai voti che otterrà la presidente del Senato Casellati, la maggioranza richiesta è di 505 voti e i grandi elettori del centrodestra sono 457.
Ore 14:50 – Ancora fumata nera. Fallisce l’operazione Casellati del centrodestra. La presidente del Senato si ferma a 382 voti e non raggiunge il quorum dei 505 previsti per l’elezione, al quinto scrutinio, del 13esimo presidente della Repubblica e nemmeno la soglia dei 400 auspicata dai partiti che sostengono la sua candidatura. Il prossimo voto, il sesto scrutinio, è in programma alle 17. Voti per l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il magistrato Nino Di Matteo, indicato dai parlamentari di Alternativa e dagli indipendenti del gruppo Misto. Preferenze anche per Marta Cartabia, indicata da Azione e +Europa e per Silvio Berlusconi e Antonio Tajani. Gli astenuti sono stati 406, le schede bianche 11, nulle 9.
I numeri – I grandi elettori della coalizione di centrodestra sono 457 suddivisi così: Lega 212, Forza Italia 136, Fratelli d’Italia 63, Coraggio Italia 31, UDC 5, Noi con l’Italia 3, Diventerà Bellissima 1, Noi di Centro 1, Rinascimento 1, parlamentari nel Misto (non iscritti) eletti col centrodestra 4. Al totale dei voti va escluso quello della stessa presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che di norma (come il presidente della Camera) non vota.
Ore 16:00 – Nel centrodestra è partita la caccia al ‘traditore’, con Lega e FdI che assicurano di aver votato per Casellati: ma a uscire sconfitto dalla quinta votazione è Salvini, ‘volto’ del quinto nome bruciato dalla coalizione
Ore 16:06 – Forza Italia fa lo sgambetto alla Casellati, scintille in transatlantico: “Ora si dimetta”
Ore 16:20 – Cosa succede ora? Mentre nel centrodestra è aperta la caccia ai franchi tiratori, con Lega e Fratelli d’Italia che accusano in particolare i centristi della coalizione (tra cui Forza Italia, partito della Casellati), ripartono vertici e riunioni.
Incontri ci sono nel ‘campo progressista’, con una riunione informale tra PD, Movimento 5 Stelle e Leu, ma anche nel fronte opposto. Il tutto in vista della sesta votazione in programma alle 17, che dovrebbe essere comunque interlocutoria in vista della giornata di sabato.
Ore 16:55 – Dopo il flop del quinto scrutinio, il centrodestra, al termine del vertice, avrebbe deciso di astenersi senza ritirare la scheda nel sesto scrutinio. Un modo per contarsi ed evitare franchi tiratori.
Ore 16:58 – Casellati come Prodi, Salvini brucia la candidatura e affossa il centrodestra: Bersani si dimise, lui?
Ore 17:00 – Si riparte con la sesta votazione: viste le mosse annunciate dai vari partiti, tra schede bianche e astensione, neanche questa sera verrà eletto il presidente della Repubblica.
Ore 17:15 – Secondo quanto riferiscono fonti del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte “sta sentendo il centrodestra” che, “dopo questa forzatura istituzionale e il fallimento della prova” appare “molto diviso” e “si intensificano le trattative” per arrivare a una soluzione condivisa per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Ore 17:40 – Una riflessione comune a molti nel Transatlantico: con la doppia votazione a distanza così ravvicinata, quella del pomeriggio diventa nei fatti, come emergerà anche oggi, inutile.
Troppo poco il tempo tra la fine del primo spoglio e l’inizio del voto successivo per poter tentare nuovi accordi e fare eventuali valutazioni di quanto accaduto in Aula poco prima.
Ore 18:00 – Si muove il fronte della trattiva, sempre più larga. A riferirlo è Annamaria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato, che conferma come si è aperta una discussione “con Pd, M5S e Leu. Vediamo”. Bernini, tra l’altro considerata come una ‘nemica interna’ del partito azzurro alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, evoca quindi una possibile riedizione della “maggioranza Ursula” che consentì l’elezione di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione europea.
Ore 18:20 – Incontro a tre per il Quirinale. Negli uffici del Movimento 5 Stelle della Camera è in corso un vertice tra Giuseppe Conte, Enrico Letta e Matteo Salvini: l’obiettivo è arriva quanto prima ad un accordo su un nome condiviso.
Salvini che, scrive l’Ansa, si è visto col premier Mario Draghi poco prima del vertice con i due leader del ‘campo progressista’. I due sono stati visti uscire a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro dallo stesso palazzo nei pressi di via Veneto a Roma.
Ore 18:40 – Segnali positivi dall’incontro a tre tra Salvini, Conte e Letta. Proprio il segretario del Partito Democratico si è detto “molto ottimista“, con dichiarazioni dunque molto meno ‘abbottonate’ rispetto a quelle degli ultimi giorni. “Ci stiamo parlando, sono in corso discussioni e stiamo lavorando a una soluzione”, ha spiegato il leader Dem.
Ore 19:15 – Enrico Letta intervenendo alla ‘Maratona Mentana’ su La7 conferma che sono in corso trattative per eleggere il presidente della Repubblica, anche se “non è semplice, ci sono varie opzioni, bisogna che maturino le condizioni politiche per fare le intese, bisogna che ognuno faccia un passo avanti”.
“La soluzione – ha aggiunto il segretario PD – passa attraverso il fatto che tutti accettiamo che tutti siamo vincitori e che non c’è un solo vincitore”. Quanto a Salvini “l’ho trovato bene, abbiamo discusso in modo franco e aperto e continueremo a farlo”.
Ore 19:48 – “Riassunto della giornata: il centrodestra ha mantenuto la parola mettendo a disposizione del Paese la più alta carica dopo Mattarella. Dispiace che la sinistra non si sia presentata nemmeno in aula. Avremmo avuto la possibilità di eleggere il primo presidente della Repubblica donna. Spero che a breve eleggeremo un presidente donna in gamba, non donna in quanto tale. Ma non faccio nomi…“. Così Matteo Salvini all’uscita da Montecitorio ai giornalisti.
Ore 20:02 – “Un presidente della Repubblica donna e super partes“, è quanto auspica anche l’ex premier Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle sempre all’uscita da Montecitorio. Il nome “caldo” resta quello di Elisabetta Belloni, a capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Sarebbe dunque questo l’accordo preso da Pd, Movimento 5 Stelle e Lega al termine del vertice avuto poco prima delle 19.
“C’è un’apertura ad avere finalmente una presidente della Repubblica donna. Stiamo lavorando”. Poi ha aggiunto: “Spero che ci sia la sensibilità per avere un presidente donna. Sarebbe la prima volta della storia“, spiegando che ci sono “almeno due, solide e super partes“.
Ore 20:23 – Chi è la “Presidente donna in gamba” proposta da Salvini a Presidente della Repubblica
Ore 20:25 – Chi è Elisabetta Belloni, la diplomatica che potrebbe essere la prima donna Presidente della Repubblica
Ore 20.43 – Matteo Renzi, leader di Italia Viva ha fatto sapere che il suo partito non voterà il nome di Elisabetta Belloni alla settima chiama prevista per domani mattina alle 9.30: “Elisabetta Belloni è una straordinaria professionista la volevo ministro degli Esteri nel novembre 2014. La stimo molto, è una mia amica ma oggi è il capo dei servizi segreti e indipendentemente dal nome in una democrazia nel 2022 il capo dei servizi in carica non diventa presidente della Repubblica”, ha detto a Radio Leopolda.
Ore 20:28 – Intanto è in corso lo spoglio del sesto scrutinio. Oltre 80 voti, per ora, sono andati a Sergio Mattarella, l’attuale presidente della Repubblica. Pochi preferenze anche per il magistrato Nino Di Matteo (candidato dai parlamentari di Alternativa e dagli indipendenti del gruppo Misto) e Pier Ferdinando Casini.
Ore 21.00 – Licia Ronzulli vicepresidente dei senatori di Forza Italia, fedelissima di Silvio Berlusconi, intercettata dai cronisti alla Camera, si aggiunge ai contrari al nome di Belloni: “Per noi non va bene“. Rimane forte perplessità sull’eventualità che ci possa essere un tecnico come presidente del consiglio e un tecnico come presidente della Repubblica fanno sapere fonti di FI.
Dello stesso avviso anche il senatore dem Andrea Marcucci che scrive su Twitter: “Vorrei ricordare a tutti che per volontà della direzione del Pd, tutti nomi possibili per il Quirinale dovranno essere preliminarmente valutati e votati dall’assemblea dei grandi elettori dem. Non si possono votare candidati a scatola chiusa“.
Contrario a Renzi il parere di Carlo Calenda, leader di Azione “Voteremmo Belloni con convinzione. Cartabia ha più esperienza come garante della costituzione. Belloni più esperienza come rapporti internazionali. Entrambe sono fuoriclasse. E non possiamo perdere l’occasione. Una donna preparata al vertice delle istituzioni. Finalmente”, scrive su Twitter.
Ore 21.24 – Si rimpolpa la fazione dei contrari a Belloni. “Assolutamente inopportuno che il capo dei servizi segreti diventi presidente della Repubblica. Allo stesso modo non è accettabile che la presidenza della Repubblica e la guida del governo siano affidate entrambe a personalità tecniche e non politiche”. Così fonti di LeU.
Ore 21.33 – Piccolo imprevisto alla conclusione dello spoglio: una scheda in più rispetto ai votanti. Ma il presidente della Camera Roberto Fico tranquillizza tutti: “Tale differenza – ha spiegato – è dovuta verosimilmente al fatto che nella distribuzione è stata erroneamente ricevuta da un elettore una scheda in più depositata poi nell’urna. La differenza è del tutto ininfluente al fine del risultato del voto e pertanto sulla base del principio generale di resistenza e di analoghi precedenti la votazione svolta deve ritenersi pienamente valida”.
Ore 21.38 – Il fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo affida a Twitter il suo personale benvenuto alla futura presidente della Repubblica, secondo lui Elisabetta Belloni
Ore 22.07 – Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia risponde sul piano della rappresentanza di genere nelle istituzioni: “Tutti parlano dell’importanza delle donne nei ruoli chiave, ma alla prova dei fatti quando esce il nome di una donna per un’alta carica si assiste a un fuoco di sbarramento di una violenza inaudita. Ecco a voi la latente misoginia italiana”.
Ore 22.28 – Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si lancia contro Giuseppe Conte, al suo nuovo alleato Matteo Salvini e forse non conscio della presa di posizione di Beppe Grillo, boccia il nome della Belloni: “Trovo indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso”, e aggiunge: “Lo avevo detto ieri: prima di bruciare nomi bisognava trovare l’accordo della maggioranza Di governo. Tutto ciò, inoltre, dopo che oggi è stata esposta la seconda carica dello Stato. Così non va bene, non è il metodo giusto”.
Corriere.it il 28 gennaio 2022.
Fallisce la candidatura di Elisabetta Alberti Casellati. La presidente del Senato ha ottenuto solo 382 voti, sui 453 che sulla carta avrebbero dovuto essere appannaggio del centrodestra e una sessantina in meno rispetto ai 441 astenuti, sempre del centrodestra, di ieri. Improbabile a questo punto che il suo nome venga ripresentato alla prossima votazione. In ogni caso si tratta della quinta fumata nera. La prossima votazione, la sesta, sarà oggi alle 17.
Aldo Cazzullo per corriere.it il 28 gennaio 2022.
La Casellati: «Mi ha telefonato mia figlia in ansia… nessuno mi ha sostenuta a braccia, semplicemente una parlamentare che mi aveva votata mi ha abbracciata. Le schede? Fico le leggeva e me le passava, ma io non le ho guardate».
La Casellati esce dall’aula sostenuta a braccia da un’assistente. Un commento, presidente?
«Grazie»
La Casellati ferma a 382 voti. Grande vittoria di Anna Maria Bernini, la rivale interna.
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 28 gennaio 2022.
Luciano Nobili racconta la telefonata di Berlusconi: «Caro Luciano, che piacere, ma lei verrebbe qui a cena a parlare di Quirinale con me, Sgarbi e tre giovani amiche? Mi dicono che pure lei è sensibile all’argomento…e poi so che ama abbracciare gli ulivi, come la capisco, qui ho un ulivo secolare, lo potrebbe abbracciare con tranquillità… come quali ulivi? No, non l’Ulivo di Prodi, quelli veri! Mi scusi ma lei non è l’onorevole Ciampolillo? Ah lei è Nobili… mi scusi tanto ma Sgarbi mi fa un casino con questi telefoni…però sia chiaro: l’invito a cena con le tre giovani amiche è sempre valido!»
(ANSA il 28 gennaio 2022) Scintille tra Ignazio La Russa e Giovanni Toti in Transatlantico, davanti ai giornalisti pochi istanti dopo la fine dello spoglio, caratterizzato da una cinquantina di franchi tiratori nel centrodestra. "Hai gia' espresso la tua soddisfazione per il risultato, stai già festeggiando?", saluta l'ex ministro FdI il Governatore ligure, con un sorriso che celava a stento grande disappunto.
E Toti, impeturbabile, replica: "No, vi lascio spazio, vi lascio andare avanti...". Quindi, pochi minuti dopo, sempre davanti ai taccuini dei cronisti, un secondo scambio molto acido tra i due, stavolta vicino agli ascensori del palazzo. Chi ha tradito? Viene chiesto sempre a La Russa: "Guardate tra i centristi e in Forza Italia", risponde. A quel punto, casualmente, passa di nuovo Toti. I cronisti gli riferiscono l'accusa di La Russa: "Io sarei contento se avessi 70 parlamentari - ribatte il dirigente di Coraggio Italia - ma non e' cosi'". Taglia corto La Russa, masticando amaro: "Infatti, ne hai la meta'".
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 28 gennaio 2022.
«Non ci credo, è in preda alla sindrome da citofono». Ai piani alti del Pd, quando sui terminali delle agenzie si materializza il lancio dell'Agi sull'incontro tra Matteo Salvini e Franco Frattini, qualcuno si presenta da Enrico Letta e lo relaziona sull'ennesimo candidato del leader leghista che sembra destinato a essere «bruciato».
Il segretario del Pd aveva perso le tracce del pari grado del Carroccio da qualche ora; e anche quelle di Giuseppe Conte, al punto che si iniziava a spargere la voce che le due vecchie punte di diamante del governo gialloverde fossero andate insieme a caccia di candidati per il Quirinale (circostanza poi negata dai 5 Stelle).
È stato in quel momento, siamo nel tardo pomeriggio, che - forse per stemperare la tensione - ai vertici della cerchia lettiana qualcuno ha tirato fuori la «sindrome del citofono», ricordando quella sera della campagna elettorale delle elezioni regionali dell'Emilia-Romagna in cui Salvini si era presentato al portone di un condominio di periferia e aveva citofonato a un sospetto spacciatore. «Il meccanismo è lo stesso ma la domanda è diversa: scusi, lei si candida al Quirinale?».
Nel perimetro temporale di sole quattro votazioni, e trascurando il lavorio delle settimane precedenti, la mano di Salvini ha toccato o semplicemente sfiorato una lista indefinita di «quirinabili», regalando loro (per ora) l'atroce destino di candidature che hanno fatto giri immensi senza mai essere tornate alla base.
Donne e uomini, freschi sessantenni e quasi novantenni, accademici di grido e politici consumati e alte cariche dello Stato del presente e del passato remoto, sotto l'ombrello salviniano - in un gioco di terzine comunicate in conferenza stampa, chiacchierate riservate e visite a sorpresa, spifferi confermati o smentiti - hanno sfilato in ordine sparso Marcello Pera e Letizia Moratti, Carlo Nordio e Sabino Cassese, Giampiero Massolo ed Elisabetta Belloni, Pier Ferdinando Casini, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Franco Frattini.
E la lista è incompleta se è vero, com' è vero, che l'ufficio stampa leghista ha confermato altri incontri con «avvocati e docenti universitari», quasi a dare la misura di un casting senza fine. «Siamo a X-Factor», si lamentava ieri sera Matteo Renzi, che pure per una lunga finestra temporale di questa campagna quirinalizia è stato per l'omonimo leghista un compagno di viaggio a metà strada tra il confidente e il suggeritore («Mesi fa gli mandai dei video di Cassese alla Leopolda, lui non lo conosceva», ha spifferato il leader di Italia viva).
Il caso di Elisabetta Belloni, che sta ai vertici dei servizi segreti, ha fatto infuriare più d'uno, a cominciare dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Per qualche ora, ieri mattina, Salvini aveva lasciato intendere che «su questo nome si può ragionare». Salvo poi, dopo l'apertura di Giorgia Meloni, cambiare idea, ingranando una pericolosa retromarcia. Già, perché Salvini è alla ricerca di un sogno all'apparenza impossibile.
Una candidatura tirata fuori dal suo cilindro che lo copra con la maggioranza e che non lasci margini di protesta a Fratelli d'Italia. L'ha imparato a proprie spese Pier Ferdinando Casini, che nella notte tra lunedì e martedì è andato a dormire avvertendo tra le mani la consistenza di una larga investitura quirinalizia che poi gli è scivolata come un'anguilla. «Salvini aveva fatto capire che ci rifletteva ma poi ha cambiato idea, spaventato dalla prova di forza della Meloni con la candidatura di bandiera di Guido Crosetto», ha confessato in giornata uno degli amici più stretti dell'ex presidente della Camera.
Giancarlo Giorgetti, nel frattempo, ha memorizzato nelle note dello smartphone una risposta fotocopia a tutti i messaggi che gli arrivano e che gli chiedono conto della prossima mossa di Salvini. «Sono ottimista» è il testo copiato e incollato a beneficio di decine di destinatari. Qualcuno lo interpreta come il segnale che, alla fine di un lungo giro, il dito salviniano andrà a toccare il citofono di Palazzo Chigi, alla ricerca di Mario Draghi. Il doppio forno del segretario leghista, con Conte&Letta e con la Meloni, è sempre più attivo. Ma le candidature che ci sono finite dentro ne sono uscite bruciate. Per ora.
Marco Galluzzo per corriere.it il 28 gennaio 2022.
«Ora le verrà la sindrome di Berlusconi», sussurra con malizia e un pizzico di cattiveria una senatrice di Forza Italia che non l’ha votata. Elisabetta Casellati — la presidente del Senato uscita sconfitta dal «blitz» lanciato dalla sua coalizione per conquistare il Quirinale — esce dall’Aula di Montecitorio visibilmente scossa. Nel suo entourage non parlano: c’è sgomento, irritazione, frustrazione. E una bella dose di disorientamento.
Peggio non poteva andare. Doveva essere una prova decisiva, di forza, di potenziale successo. E invece è stata quasi una catastrofe.
Ma la protagonista della propria sconfitta, raccontano fonti di centrodestra, è stata proprio lei, la seconda carica dello Stato.
Giovedì sera c’erano molte perplessità sulla decisione di lanciarla in modo formale in Aula, cercando una prova di forza con il centrosinistra.
Eppure proprio lei si è imposta, anche alzando la voce nel corso di una telefonata con Berlusconi, uno scambio di vedute non proprio sereno. Dentro Forza Italia sapevano che ci sarebbero stati problemi: «In questi anni al Senato si è fatta più nemici che amici», confida un parlamentare che la conosce bene, ma che soprattutto conosce benissimo le senatrici azzurre che hanno con Casellati un pessimo rapporto.
Persino con Antonio Tajani, che aveva messo sul tavolo tutte le sue perplessità, sembra che la presidente del Senato abbia litigato. Eppure nelle ore che hanno preceduto l’inizio delle votazioni, nel corso delle riunioni di giovedì notte, proprio lei non ne ha voluto sapere di fare un passo indietro.
Ha sostenuto di essere certa che avrebbe avuto anche i voti di Italia Viva. Ha mandato lei stessa messaggini per chiedere di essere votata.
E invece le preferenze di oggi per Mattarella, Casini e lo stesso Berlusconi sono anche la cifra di quanti le hanno fatto sapere, chiaramente, che non erano con lei.
DAGOREPORT il 28 gennaio 2022.
Viste le nostre forze politiche in azione per la nomina del Capo dello Stato, vien solo voglia di sottoporli urgentemente a un T.S.O. Anche se per Salvini e Conte, un Trattamento Sanitario Obbligatorio forse non sarebbe sufficiente perché stasera siamo giunti alla follia totale.
Ora l’ex bagnino del Papeete, dopo aver preso in giro il povero Cassese e stroncato in aula la Casellati, ora tira fuori l’ennesimo coniglio dal cilindro: “Sto lavorando affinché si possa avere come presidente una donna presidente in gamba” (una precisazione, “quell’’in gamba”, che avrà fatto felice la Casellati).
E subito, quella cima di rapa di Conte si è accodato: “Ho l'impressione che ci sia la sensibilità di Salvini, spero di tutto il Parlamento, per la possibilità di una presidente donna, il M5s lo ha sempre detto”. I due scappati dal manicomio non fanno nomi, ma tutti hanno capito che il riferimento è ovviamente a Elisabetta Belloni, oggi al vertice dei servizi segreti. La conferma arriva con il tweet di Beppe Grillo: "Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo. #ElisabettaBelloni".
L’intesa tra i due ciucci prestati alla politica fa fuori il Pd di Letta, Italia Viva e Forza Italia che sul nome della Belloni già nei giorni scorsi avevano espresso il loro parere contrario: intanto, il trasloco del capo servizi sul Colle fa venire in mente solo la democratica Russia dell’ex Kgb Putin. Secondo: un eventuale duplex Draghi-Belloni vuol dire due tecnici ai massimi vertici dello Stato: manco in Nicaragua con Ortega.
Terzo: potete immaginare Draghi che rimane a Palazzo Chigi avendo sul Colle, quindi sopra di lui, una che è stata nominata dal suo governo? Assolutamente no: quindi tracolla il governo e voto anticipato. Quello che sogna la Meloni. Che infatti ha si è dichiarata subito a favore della zarina delle spie.
Il Conte a favore di Belloni presidente è anche uno sgarbo al suo nemico più intimo, Di Maio che ha subito sparato a zero contro Peppiniello Apulo. Da sempre sponsor dell’ambizione quirinalizia di Draghi, l’ex bibitaro del San Paolo ora si trova al bivio: la Belloni come segretario generale della Farnesina ha fatto da tutor a un ministro degli Esteri che non spiccicava una parola di inglese ed era un pesciolino fuor d’acqua nelle cancellerie internazionali.
L’uscita del Truce pro-donna arriva dopo la Casellati trombata. Per salvare quello che gli resta della faccia da una epica figuraccia di merda (la Meloni ha subito gridato “Al voto! Al voto!”, Salvini fa il suo ingresso nella sede parlamentare del M5S per un conciliabolo con Conte e Letta. Tema caldissimo: Mattarella ha preso 360 voti pur non essendo candidato.
Un numero altissimo, mai successo nella storia del Quirinale. Hic sunt peones! Sono loro che vogliono il bis della Mummia Sicula per evitare la caduta del governo e l’apertura delle urne, per arrivare alla fine della legislatura e incassare il vitalizio parlamentare. Ma Mattarella non è uno tipino facile e un atto di forza dei parlamentari non basta: come avvenne con Napolitano, vuole i leader dei partiti, in fila indiana, che salgono sul Colle per chiedere il suo assenso.
E qui viene il bello: Salvini annuncia a Letta e Conte che il centrodestra non vuole il bis del Capo dello Stato. Gigiona Meloni è da sempre contraria al bis e il matto Matteo vuole la siringa piena e la moglie drogata: vuole l’unità del centrodestra, malgrado Fratelli d’Italia sia all’opposizione, e nello stesso tempo stare nella maggioranza di governo.
Così, in una sola giornata il Capitone è stato capace di bruciare la seconda carica dello Stato (che in qualunque altro paese civile e incivile si sarebbe dimessa all’istante) e, insieme all’altro scappato di casa Conte, propone il capo dei servizi segreti. Ora gli stanno sparando contro tutti gli altri e la Belloni ben difficilmente ce la farà. Per di più il Cavaliere è fuori di sé contro il king pippa Salvini e medita di allearsi al Pd contro di lui. Per eleggere chi? Mattarella o Amato, ovviamente.
Quirinale 2022, Laura Boldrini e la frase su Elisabetta Casellati: "Non tutte le donne sono uguali". Il Tempo il 28 gennaio 2022.
I tempi delle battaglie per cambiare la vocale declinando tutto al femminine? Le guerre puniche contro gli spot pubblicitari in cui la mamma porta a tavola la pirofila della pasta? L’obiettivo dell’inclusione femminile nelle stanze dei bottoni? Tutto andato. Se, ovviamente, c’è di mezzo il centrodestra.
Ieri Laura Boldrini, l’ex presidente della Camera e oggi deputata Pd che aveva impostato il proprio mandato da Terza Carica sulla valorizzazione del ruolo delle donne, ha sonoramente bocciato la candidatura alla Presidenza della Repubblica di Elisabetta Alberti Casellati, calata dal centrodestra e respinta dal voto parlamentare. “E’ una candidatura di parte; anche in passato la Presidente Casellati ha dimostrato di avere una connotazione di parte molto forte – ragiona Laura Boldrini - è stata l’avvocato di Berlusconi, è stata eletta al Csm per il centrodestra. Il centrosinistra chiede una figura super partes”.
Insomma, niente margine. Niente riconoscimento, al di là delle differenze politiche, in favore di una candidatura in rosa ufficialmente presentata da una coalizione che costituisce, al di là dell’esito, una felice novità. Evidentemente, il dogma della rivendicazione di genere, in qualche caso, si può anche spegnere.
Elezione presidente, lo schianto dell’avvocatessa Casellati che si vedeva già al Quirinale. Conchita Sannino su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
I messaggi notturni ai parlamentari della presidente del Seanto, la creazione in extremis di un gruppo di ex 5S. E dopo il flop pensava di ripresentarsi allo scrutinio successivo.
Lui bluffava. Lei forzava. A ogni costo. "E senza avere neanche l'airbag", chiosa il gruppetto di berluscones lasciando il Transatlantico, mentre sul monitor scorrono le facce di Matteo Salvini ed Elisabetta Casellati. E sarà anche cinismo da corridoio, ma diventa subito storia di quest'avvilente vigilia il doppio schianto che - ieri mattina, quinto scrutinio - lascia a terra il Capitano della destra senza direzione e la presidente del Senato senza prudenza.
Casellati, cronaca di una sconfitta: la voce alzata con Berlusconi, la lite con Tajani e le «certezze» su Italia viva. Marco Galluzzo su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
Anche dentro Forza Italia c’è chi non l’ha votata per la carica di presidente della Repubblica: e questo ha provocato nella presidente del Senato — che ha sperato con tutte le sue forze di salire al soglio quirinalizio — sgomento e frustrazione.
Alla fine della votazione sembra abbia un attimo di mancamento, lo percepiscono in pochi, ma un assistente parlamentare si affretta a darle un sostegno fisico, offrendo il braccio. Esce dall’Aula di Montecitorio senza dire una parola, quasi stordita per una sconfitta prevedibile, temuta, ma che lei non si aspettava, almeno nelle dimensioni.
Segue lo spoglio della votazione che la dichiara sconfitta con ostentato distacco per le schede che Roberto Fico le passa di mano: le prende ma non le guarda, ci pensano due segretari deputati di centrodestra, dietro di lei. Il distacco però viene meno quando scorrono quattro o cinque schede nulle, che osserva con curiosità, e soprattutto quando uno dei voti va al suo capo di gabinetto Francesco Nitto Palma: è una frecciata velenosa nei suoi confronti.
Incassata la sconfitta Elisabetta Casellati , presidente del Senato, seconda carica dello Stato, si chiude nei suoi uffici di Palazzo Madama e quasi interrompe le comunicazioni con il mondo esterno. La botta, politica, è molto forte. Ai pochi che la raggiungono confessa di sentirsi «tradita» dal suo partito, «sono stata abbandonata» è la reazione carica di irritazione e insieme di delusione.
Eppure poche ore prima era entrata a Montecitorio con almeno una speranza: «Sono una persona super partes, non capisco perché dall’altra parte non partecipano al voto». L’obiettivo, suo come di Casini e degli altri leader di centrodestra, era di arrivare ad almeno 410 o 420 voti, per ritentare poi alla sesta votazione. Ma l’asticella si è fermata molto al di sotto, a quota 382 voti. Secondo i calcoli, considerando anche gli assenti e i malati, i franchi tiratori sono stati almeno una sessantina. Troppi, soprattutto per la seconda carica dello Stato.
Nonostante tutto, fosse stato per lei, ci avrebbe anche riprovato nel pomeriggio. Le hanno spiegato, rapidamente, che non era proprio il caso. «Ora le verrà la sindrome di Berlusconi», sussurra con malizia e un pizzico di cattiveria una senatrice di Forza Italia che non l’ha votata, subito dopo lo spoglio. Elisabetta Casellati — la presidente del Senato che ha voluto e insieme subito il «blitz» lanciato dalla sua coalizione per conquistare il Quirinale — ovviamente non ascolta i sussurri che la circondano, i sorrisi di chi si compiace per l’esito, disastroso, della sua candidatura. Nel suo entourage non parlano: c’è sgomento, irritazione, frustrazione. E una bella dose di disorientamento.
Peggio non poteva andare. Doveva essere una prova decisiva, di forza, di potenziale successo. E invece è stata quasi una catastrofe. Ma in fondo la protagonista della propria sconfitta, raccontano fonti di centrodestra, è stata proprio lei, la seconda carica dello Stato. Giovedì sera c’erano molte perplessità sulla decisione di lanciarla in modo formale in Aula, cercando una prova di forza con il centrosinistra. In tanti nel suo partito non erano convinti, avevano previsto numerose defezioni, erano a conoscenza dei rapporti deteriorati della Casellati con una parte del suo stesso partito.
Eppure proprio lei si è imposta, con caparbietà, anche alzando la voce nel corso di una telefonata con Berlusconi, uno scambio di vedute non proprio sereno. Dentro Forza Italia sapevano che ci sarebbero stati problemi: «In questi anni al Senato si è fatta più nemici che amici», confida un parlamentare che la conosce bene, ma che soprattutto conosce benissimo le senatrici azzurre che hanno con Casellati un pessimo rapporto.
Persino con Antonio Tajani, che aveva messo sul tavolo tutte le sue perplessità, avvisandola della difficoltà dell’operazione, sembra che la presidente del Senato abbia litigato. Eppure nelle ore che hanno preceduto l’inizio delle votazioni, nel corso delle riunioni di giovedì notte, proprio lei non ne ha voluto sapere, fare un passo indietro non era un’opzione.
Raccontano che agli interlocutori che l’avvertivano di una partita in salita Casellati replicava di essere certa che avrebbe avuto anche i voti di Italia Viva. Ha mandato lei stessa messaggini, diverse decine, destinatari in tutto il centrodestra, per chiedere di essere votata.
E invece le preferenze ricevute da Mattarella, Casini e lo stesso Berlusconi sono state anche la cifra di quanti le hanno fatto sapere, chiaramente, alla luce del sole, che non erano con lei.
La giornata nera di Elisabetta delusa dal "tradimento". E la sinistra va all'attacco. Anna Maria Greco il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Casellati tra tanti dubbi e l’orgoglio di presiedere lo spoglio. Poi la doccia gelata: a non rispettare i patti sono stati gli amici. Lei è lì, sullo scranno più alto di Montecitorio accanto a Roberto Fico che sta scrutinando le schede, per metterci la faccia. Faccia impietrita dal tradimento dei suoi, reso evidente dall'astensione di tutti gli altri. Anche Italia viva si allinea a Pd, M5S e Leu, tutti d'accordo per non votare.
«Casellati-Casellati-Casellati-Mattarella-Casellati-Berlusconi-Casellati-Casellati-Tajani...». I nomi scanditi dal Presidente della Camera e tra le mani di Maria Elisabetta scivolano, una a una, le schede della sconfitta. Perché, alla fine, il conto si ferma a 382 sì, mentre dovevano essere 450-457. Ce ne sono 8 per Berlusconi e 7 per Tajani, di azzurri che non l'hanno scelta. La pattuglia di franchi tiratori si allarga soprattutto nell'Udc e in Coraggio Italia. E la polemica nel centrodestra monta. «I nostri 208 voti sono stati compatti», dicono dalla Lega. Fanno i conti grazie al modo di distinguersi tra i partiti scrivendo diversamente il nome sulla scheda. Per loro, da Fdi e Nci sono arrivati 68 consensi, da Fi e Udc 94, invece di 139. Vittorio Sgarbi parla di 40-45 grandi elettori di Fi e 20 di Ci che non hanno rispettato l'indicazione, dei totiani «20 su 32 addirittura non hanno votato». E, se fosse vero che la seconda carica dello Stato ha avuto anche voti di ex 5S, i franchi tiratori salirebbero a un centinaio.
La presidente del Senato, chiusa nel suo elegante tailleur pantalone blu, sembra diventare una statua di sale mentre si delinea il quadro. Se fosse arrivata a 400 consensi sarebbe stata riproposta alla seconda votazione della giornata, nel pomeriggio. Ma è ben al di sotto, anche se ne servivano 505 per vincere. Eppure lei ha coraggio, ci crede ancora, si metterebbe di nuovo alla prova, sostenendo che tra gli astenuti ci sono voti che le erano stati promessi. Ma la coalizione decide di no, che ormai è «bruciata».
Fino al giorno prima è stata la stessa Casellati a insistere per misurarsi nelle urne, convinta di poter avere anche consensi extra, si è data da fare con contatti diretti e indiretti, telefonate e sms per assicurarsi l'appoggio nel suo partito, tra gli alleati e oltre. La mattina di ieri, dicono, qualche dubbio l'ha assalita. Poi è arrivato l'endorsement ufficiale di Silvio Berlusconi: «Da presidente del Senato, seconda carica dello Stato, diventerebbe prima carica dello Stato - scrive sui social il leader di Forza Italia -. La conosco da oltre 30 anni e posso garantire sulla sua assoluta adeguatezza a questo ruolo super partes. Mi rivolgo ai parlamentari di tutti gli schieramenti per chiedere loro di sostenere la Casellati». Matteo Salvini intanto diceva: «Una donna delle istituzioni al Quirinale, un onore proporla». E Giorgia Meloni: «Una candidatura meno politicizzata e più istituzionale. I veti sarebbero incomprensibili».
Invece, è andata com'è andata. E lei è amareggiata, delusa soprattutto dal tradimento degli «amici». La Meloni fa fuoco e fiamme, chiede conto a Fi e ai centristi di quel buco di voti. La sinistra fa polemica anche sul fatto che lei sia presente in aula mentre la votano e allo scrutinio. «Non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare Scalfaro nel 1992. Il galateo istituzionale non è un optional», dice Stefano Ceccanti del Pd. All'inizio del quarto scrutinio la presidente non arriva e si pensa che rinunci, invece poi si siede serafica accanto a Fico e segue tutto lo spoglio. Regge il flop con dignità, ma si vede che è provata. Infierisce l'ex 5S Alessandro Di Battista, su Fb: «La Casellati dovrebbe dimettersi in quanto non più meritevole di rappresentare la seconda carica dello Stato». Lei non ci pensa proprio. Anna Maria Greco
Elisabetta Casellati, la drammatica telefonata a Silvio Berlusconi: finisce malissimo, voci da Forza Italia. Libero Quotidiano il 28 gennaio 2022.
"È lei la protagonista della propria sconfitta", si sfogano alcune fonti del centrodestra commentando la sonora legnata che Elisabetta Casellati si è presa durante il quinto scrutinio per l'elezione del presidente della Repubblica. Doveva essere votata dal centrodestra compatto e invece ha raccolto solo 382 voto, ben al di sotto delle più pessimistiche aspettative. Del resto, pare che la presidente del Senato non sia particolarmente amata dai colleghi parlamentari, specialmente da quelli del centrodestra. Riporta il Corriere della Sera in un retroscena che ieri sera 27 gennaio c'erano molte perplessità sulla decisione di votarla in Aula, su questa prova di forza che è miseramente fallita.
Ma sarebbe stata proprio la Casellati a imporsi, arrivando pure ad alzare la voce durante una telefonata con Silvio Berlusconi, con il quale ha avuto "uno scambio di vedute non proprio sereno". Eppure all'interno di Forza Italia sapevano bene come sarebbe andata a finire: "In questi anni al Senato si è fatta più nemici che amici", rivela un suo collega, uno che la conosce bene e soprattutto sa quanto le senatrici azzurre abbiano con lei un rapporto difficile.
E non solo ha discusso con il Cavaliere ma pure con Antonio Tajani, che in tutta sincerità si era detto molto perplesso, aveva litigato. La Casellati però era andata dritta e durante le riunioni di giovedì notte si era detta non disponibile a fare un passo indietro. Anzi, sosteneva di essere assolutamente certa che avrebbe ottenuto anche i voti di Italia Viva e aveva mandato messaggi a chiunque per chiedere di essere votata.
"Una corrida". “Chi sono i franchi tiratori?”: caccia ai traditori di Casellati nel centrodestra in subbuglio: “Salvini ha superato Bersani”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.
E adesso è caccia ai franchi tiratori nel centrodestra. La coalizione è andata a sbattere, alla quinta votazione per il 13esimo Presidente della Repubblica. Era stata scelta Maria Elisabetta Alberti Casellati, Presidente del Senato, tra i fondatori di Forza Italia. Quinta fumata nera in cinque giorni. Il centrodestra, guidato dal kingmaker Matteo Salvini, segretario della Lega, riporta una batosta dura. È la versione a destra dei 101 che impallinarono Romano Prodi, a sinistra, nel 2013.
La Presidente del Senato ha ottenuto solo 382 voti sui 453 che avrebbero dovuto essere appannaggio del centrodestra. Circa 60 in meno rispetto ai 441 astenuti, sempre del centrodestra, di ieri. Il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani, aveva anticipato stamattina che sulla candidatura di Casellati si sarebbe insistito anche nella seconda votazione, al via oggi pomeriggio alla Camera alle 17:00. È improbabile a questo punto che il nome della Presidente del Senato venga riproposto. Durissime le reazioni di alcuni esponenti del centrodestra dopo lo scrutinio.
Duro, tra i più duri, il commento di Osvaldo Napoli, ex azzurro e oggi deputato di Coraggio Italia: “Si è scelto di esporre la figura della presidente del Senato, a cui va la mia stima, nel torneo del Quirinale, nel frattempo trasformato in una corrida. Considero un grave errore aver mandato allo sbaraglio la seconda carica dello Stato. Ho perso il conto dei falò accesi con candidature di ogni tipo e genere, sempre e in ogni caso espressione di una parte politica e mai una sola volta concordate con tutti i gruppi parlamentari. Se questa era l’occasione per dimostrare la piena legittimità del centrodestra a esprimere il presidente della Repubblica, si può dire che è stata sprecata con grave danno per le istituzioni e il Paese”. È invece ironico Elio Vito, deputato di Forza Italia che ha postato su Twitter la foto del tabellone di Montecitorio che riportava la sua astensione e il commento “spiaze …” perfino taggando la Presidente Casellati.
Il leader di Coraggio Italia-Cambiamo Idea Luigi Brugnaro ha ammesso che “dopo Casellati non resta che Draghi”. Fabrizio Cicchitto, ex fedelissimo berlusconiano e oggi presidente di Riformismo e Libertà ironizza: “Salvini ha preso come esempio Bersani e dobbiamo dire che davvero l’allievo sta superando di gran lunga il maestro”. Il centrodestra è in subbuglio, in crisi. È andato a sbattere esponendo la seconda carica dello Stato a una votazione disastrosa.
“Dove sono i franchi tiratori? Scegliete voi – dice Ignazio La Russa, fondatore di Fdi – non certo in Fratelli d’Italia e credo nemmeno nella Lega. I voti che ha espresso il centrodestra sul nome autorevole del presidente del Senato sono inferiori ai propri numeri. C’è qualcuno che se ne frega dei valori del centrodestra”. Sia il partito di Meloni che quello di Salvini assicurano di aver votato Casellati. Coraggio Italia-Cambiamo Idea conta soltanto 32 Grandi Elettori. Scintille davanti ai cronisti tra La Russa e Toti.
“Chiediamo che Elisabetta Casellati rassegni immediatamente le sue dimissioni da presidente del Senato”, dichiarano i deputati di FacciamoEco Rossella Muroni, Andrea Cecconi, Lorenzo Fioramonti, Alessandro Fusacchia e Antonio Lombardo. “Casellati si è maldestramente prestata ad una operazione di parte, col risultato di inasprire ulteriormente la situazione già tesa e rendere ancora più difficile il percorso verso l’elezione di un Presidente super partes e stimato da tutti”. La prossima votazione alle 17:00 accelera le trattative. La palla torna ai leader Salvini, Meloni e Tajani. Berlusconi, ricoverato domenica scorsa dopo l’addio alla corsa per il Quirinale, avrebbe sbarrato di nuovo la porta, ieri, al Presidente del Consiglio.
Salvini oggi in conferenza stampa, dopo il vertice di stamattina, aveva lasciato intendere che la carta successiva poteva essere il Mattarella bis – il Presidente della Repubblica ha a ogni occasione utile ribadito di non voler fare un altro mandato – ma anche detto “nessun veto su Draghi”. Secondo indiscrezioni de Il Foglio adesso il “Capitano” punterà su Elisabetta Belloni, prima donna a capo dei servizi segreti. Gli alti nomi emersi oggi pomeriggio: quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, 48 voti, quello del membro del Csm Nino Di Matteo, 38. Qualche scheda a Tajani, Berlusconi e Cartabia.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Quirinale, errore a Montecitorio: spunta una scheda in più dei votanti. Fico: "Il voto è valido". La Repubblica il 28 Gennaio 2022.
"È stata riscontrata una differenza tra il numero dei votanti e il totale delle schede scrutinate di una unità superiore a quella dei votanti, un numero superiore dovuto verosimilmente al fatto che durante la distribuzione delle schede è stata erroneamente ricevuta da un elettore una scheda in più depositata poi nell'urna", ma tale differenza "è del tutto ininfluente ai fini del risultato del voto" e per questo "la votazione svolta deve ritenersi pienamente valida". Così il presidente della Camera Roberto Fico, prima di dare lettura dello scrutinio nell'aula di Montecitorio.
Chi riscrive le regole a ritroso. Paolo Armaroli il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Tra le favole metropolitane che circolano a Montecitorio c'è quella di un presunto precedente grazie al quale il presidente del Senato Casellati non avrebbe dovuto sedere accanto al presidente Fico durante lo spoglio delle schede di ieri mattina.
Tra le favole metropolitane che circolano a Montecitorio c'è quella di un presunto precedente grazie al quale il presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati non avrebbe dovuto sedere accanto al presidente Roberto Fico durante lo spoglio delle schede di ieri mattina. Perché mai? Perché candidata alla presidenza della Repubblica. Il precedente di Oscar Luigi Scalfaro non solo non è un precedente ma c'entra come il cavolo a merenda.
I fatti nel 1992 andarono così. Il 25 maggio 1992 il presidente Scalfaro, presidente della Camera e del Parlamento in seduta comune, dichiara chiusa la 16ª votazione e prega il vicepresidente Stefano Rodotà di procedere in sua vece allo scrutinio. E giù applausi dei grandi elettori per il fatto che, nella sua veste di candidato avviato alla vittoria, si assentasse proprio in quel momento.
Orbene, ciò che vale per Scalfaro non poteva valere ieri per il presidente Casellati. Per la semplice circostanza che quest'ultima è sì presidente del Senato ma in tale occasione non è nell'esercizio delle sue funzioni. Il regolamento della Camera dispone: «Nelle riunioni del Parlamento in seduta comune è riservato un seggio al presidente del Senato». Non dice neppure dove debba essere collocato. Tuttavia, fin dall'elezione di Einaudi nel 1948, il presidente del Senato, Ivanoe Bonomi, siede accanto al presidente della Camera, Giovanni Gronchi.
Ne consegue che il presidente Alberti Casellati potrebbe votare nella sua veste di componente del collegio elettorale. È ben vero che una prassi in senso contrario si è affermata fin dalla prima legislatura repubblicana. Ma essa è in contrasto con una consuetudine che risale ai tempi in cui Francesco Crispi era presidente della Camera. Nel 1877 si fece togliere dalla chiama per rimarcare la terzietà della carica alla quale era stato preposto.
Se per ipotesi il presidente Casellati si fosse assentata, non avrebbe potuto lasciare la poltrona a un vicepresidente del Senato. Quest'ultimo non avrebbe avuto alcun titolo per sedere vicino al presidente Fico. Il quale ha letto il solo cognome del presidente del Senato. A dispetto del fatto che nella seduta dell'8 maggio 2006 il presidente Fausto Bertinotti aveva avvertito che è da escludersi che «la presidenza possa dettare prescrizioni circa la forma con la quale ciascun elettore è chiamato ad esprimere il proprio voto». Parole al vento, le sue, con il senno di poi. Paolo Armaroli
Da Pera a Frattini, tutti i nomi bruciati sul falò dei quirinabili. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
«M a mica pretenderà di parlare con me oggi? Proprio oggi, adesso?». La risposta arriva al terzo squillo, una manciata di minuti dopo che il Parlamento ha riversato sulla candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati una valanga di voti contrari. Marcello Pera pare ancora inchiodato al riserbo proprio dei quirinabili, dei protagonisti del totonomi, come se un alito di vento soffiasse ancora sulle sue speranze di ritornare in campo; anzi di entrarci, visto che il suo nome — incastonato nella terna ufficiale del centrodestra assieme a quelli di Letizia Moratti e Carlo Nordio — non è mai nemmeno arrivato alla prova dell’Aula. È un secondo, l’ex presidente del Senato si rende conto che quella finestra si è chiusa; si rilassa, parla, come se si fosse liberato di un fardello. «A dire il vero sono a casa, sto lavorando. Se devo essere sincero avevo la televisione spenta, non ho seguito né i notiziari né l’ultimo scrutinio. Tutto qua, non saprei che cos’altro aggiungerle...».
Al tramonto del giorno quattro dell’elezione del capo dello Stato, quando il tabellone dell’Aula di Montecitorio dà conto della sesta votazione, chiude il più clamoroso forno di nomi quirinabili della storia repubblicana. Donne e uomini, garantisti e giustizialisti, magistrati e avvocati, politici di medio e lungo corso, ex presidenti del Consiglio, presidenti delle Camere attuali e del passato, ex ministri, ex presidenti della Rai, accademici ordinari o associati o semplicemente a contratto o in pensione, ministri di ogni ordini e grado, vertici del Consiglio di Stato o della Corte costituzionale.
Una squadra di calcio, panchina lunga compresa: Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio, annunciati e mai schierati; Silvio Berlusconi, da cui i leader del centrodestra pretendevano numeri che poi la candidata del centrodestra non ha visto nemmeno col binocolo; Sabino Cassese e Giampiero Massolo, vittime delle citofonate a sorpresa — a volte sussurrate, a volte smentite — di Matteo Salvini; e ancora, a ritroso, Giulio Tremonti, nome spifferato da qualcuno del centrodestra, che aveva e ha molti amici anche a sinistra; Franco Frattini, spuntato nel racconto dell’ultima settimana come possibile anello di congiunzione tra Conte e Salvini; Paolo Maddalena e Nino Di Matteo, beniamini della fronda degli ex grillini e titolari di decine di voti validi nei primi scrutini. E poi c’è Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nome speso dal centrosinistra unito. Che dice: «Io non sono stato un candidato di bandiera perché non sventolo la bandiera di nessuno dei tre partiti che mi avevano indicato.
La mia candidatura era stata proposta dai partiti di Enrico Letta e Giuseppe Conte al centrodestra. Ma, come sapete, non è stata accolta. Vuole sapere come mi sento?», aggiunge Riccardi. «Allora glielo dico. Sono onorato anche per il solo fatto di essere stato indicato da un fronte rappresentativo di tanti italiani, un grande onore».
Disegnata da qualcuno come il perverso incrocio tra l’antichissimo Dieci piccoli indiani e l’ultra contemporanea serie tv sudcoreana Squid Game, la compilazione del TotoQuirinale edizione 2021-2022 continua ad assomigliare più banalmente a un processo in cui tante candidature, più che semplicemente bruciate, sono state rosolate, scottate, biscottate, incenerite, passate e ripassate alla prova dei due forni accesi e spenti a intermittenza da Salvini e compagnia. Ne sa qualcosa Pier Ferdinando Casini, che resiste oltre l’ultima curva e che nella notte tra mercoledì e giovedì era andato a dormire convinto di avere un mezzo via libera del leader leghista. Poi c’è stato l’ennesimo ripensamento e l’ennesimo giro di una giostra che forse si ferma e forse va avanti. Il fuoco brucia ancora, anche se è solo una fiammella.
Fabio Martini per "la Stampa" il 28 gennaio 2022.
Lo stallo dei Quirinale induce Paolo Cirino Pomicino, uno dei protagonisti della fase finale della Prima Repubblica, a concentrare il suo spirito critico: «Siamo alla caduta totale della politica e la bulimia dei talk show aggiunge confusione a confusione anche perché in queste sedi nessuno si interroga sulla questione essenziale: quali sono le qualità richieste per un Presidente della Repubblica? Ecco perché escono candidature improbabili: sei una grande avvocatessa? Sei una grande ambasciatrice? Sì, allora puoi fare la presidente della Repubblica. Ma siamo matti? Quanto si sente la mancanza di un neurologo in Parlamento!».
L'ipotesi che si possa passare dalla guida dei Servizi alla Presidenza della Repubblica le pare una sgrammaticatura?
«Con tutto il rispetto per l'eccellente ambasciatrice Belloni, facciamo come Boris Eltsin che nominò come successore il direttore dell'ex Kgb Vladimir Putin? Ma come si può immaginare anche lontanamente a personalità come Paola Severino o Letizia Moratti? Ma cosa c'entrano con la professionalità politica di un Presidente della Repubblica? Se si va avanti di questo passo perché non chiamano il generale Figliuolo?».
Come se ne esce, secondo lei?
«Ci sono candidati adeguati, Pierferdinando Casini, la presidente del Senato Elisabetta Casellati, il futuro presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato. E Gianni Letta, che per otto anni è stato sottosegretario alla Presidenza. Ma oltre a questi il più adatto è Sergio Mattarella.
Se non si dovesse trovare l'accordo, Mattarella non può non farsi carico dell'esigenza del Paese di avere autorevolezza politica alla presidenza della Repubblica. Così come lui ha chiesto un sacrificio a Draghi, devi chiedere un sacrificio a se stesso e dichiararsi disponibile. In una situazione straordinaria, accanto ad un governo straordinario, per ragioni straordinarie, serve un Capo dello Stato autorevole. Col passare dei giorni sta diventando un dovere».
Mattarella vuole sinceramente evitare il bis, ma non avendo mai detto «sono indisponibile», da uomo di Stato, lascia uno spiraglio nel caso in cui il sistema andasse in blocco?
«Non c'è dubbio, è così. Lui assomma un'esperienza positiva al Quirinale con una cultura democratico-cristiana per cui in qualsiasi momento se il Paese chiama, tu rispondi. Come ha fatto Draghi».
Soluzione "salvifica" ma al tempo stesso non sarebbe la prova plastica di una politica impotente?
«Certamente. Nessuno può negarlo. Ma alla crisi della politica si risponde con iniziative straordinarie».
Pomicino, un conto sono gli auspici, un conto le previsioni: come finisce?
«Sono convinto che se i capi dei partiti - una volta verificato che non c'è un nome condiviso - dovessero premere su Mattarella, io penso che il presidente non si limiterebbe al "chi ha dato, ha dato».
Salvini ha eroso con una certa abilità l'operazione-scoiattolo, ma potrebbe uscirne con risultati deludenti per uno schieramento che ha la maggioranza relativa
«Se uno dovesse sintetizzare con un'espressione un po' plebea, direbbe: non è mestiere suo. Lo ricordiamo giovanissimo quando si dichiarava "comunista padano": non c'è più il comunismo e neppure la Padania. D'altra parte per essere leader di un partito attorno al 20 per cento devi avere una cultura politica. Forse potrebbe mettere alla guida del partito, un organismo collegiale, pur essendo il primus inter pares. Altrimenti la Lega non va da nessuna parte e brucia la sua forza politica».
I protagonisti della Prima Repubblica, come lei, avete quasi tutti un pregiudizio per Draghi al Quirinale?
«Draghi? Lo conosco benissimo, ha lavorato per noi per quasi 2 anni. Abbiamo bisogno di un governo forte; ce l'abbiamo e lo mandiamo via? Serve di nuovo il neurologo!».
Gli sbandati. La strategia amatoriale di Salvini e gli egoismi dei leader sul Quirinale. Mario Lavia su Linkiesta il 28 Gennaio 2022.
Il leader della Lega si è autoassegnato il ruolo di regista dell’elezione del presidente della Repubblica, ma sta combinando solo disastri. Oggi è il giorno della verità per uscire dalle «nebbie» in cui i partiti si sono impantanati.
La mancanza di generosità: è questo che colpisce in questa strana vicenda dell’elezione del Capo dello Stato. È un momento che, al netto delle legittime aspirazioni di ciascuno, richiederebbe un minimo di – non ci viene un altra parola – generosità.
Quel qualcosa che nei momenti difficili dovrebbe essere nell’animo dei protagonisti, come è sempre stato nelle fasi drammatiche della vita del Paese, perché sempre a un certo punto i partiti hanno saputo guardarsi in faccia e deporre le armi. E invece non c’è generosità perché nessuno si muove, aspettando la mossa dell’altro per farla a brandelli e tuttavia prima che la casa bruci quel momento unitario sarà oggi, a detta di tutti. A meno che non si voglia davvero infliggere un altro durissimo colpo alla credibilità del sistema.
Ma come si risolve questo film dell’orrore? Ieri sera, per riprendere il filo rosso del discorso sulla generosità, prevalevano ancora gli egoismi, le furbizie, le bugie, peggio che su un ballatoio di un caseggiato malfamato, un clima di tutti contro tutti, di bocciature incrociate, sgambetti e ripicche.
Ne sono tutti responsabili ma c’è uno che è più responsabile di tutti: Matteo Salvini, l’uomo che si è autoassegnato il ruolo di Gianni Rivera pur essendo molto al di sotto della bisogna, promettendo e smentendo in un colpo solo, diventando oggetto degli strali di tre quarti del Parlamento – fino alla diagnosi di pazzia – e marcatamente da parte di quella destra di cui si è impancato a leader.
Anche il degente Silvio Berlusconi se n’è accorto, per esempio contraddicendolo quando il capo leghista era parso sul punto di rimettere in pista Mario Draghi e il povero Antonio Tajani è dovuto andare a Palazzo Chigi per spiegare al presidente del Consiglio che «la linea di Forza Italia non è cambiata, lei deve restare a Palazzo Chigi».
Dopodiché Salvini è tornato su Franco Frattini, già affondato lunedì da Enrico Letta e Matteo Renzi congiuntamente (chi se l’immaginava una sintonia così forte tra due leader che certo non si amano), e ri-bocciato in serata dal Partito democratico, a dimostrazione che sembra di essere in un infinito girotondo che sta estenuando in primo luogo le centinaia di parlamentari che non hanno il benché minimo ruolo, non sanno niente di niente e attendono disposizioni dai generali che però si ingarbugliano tra loro e abbattono sistematicamente qualunque figura si stagli all’orizzonte come i cecchini nelle guerre civili: e in questo Full metal jacket recitato a Montecitorio ci hanno lasciato le penne personaggi illustri, nomi come Sabino Cassese o Elisabetta Belloni (che resta in campo per Palazzo Chigi nel caso Mario Draghi dovesse traslocare al Colle), dopo che quest’ultima era parsa poter far quadrare il cerchio con il sì di Salvini, Meloni e Letta ma bloccata da pezzi importanti del Pd, Renzi e Forza Italia a causa della sua attuale collocazione alla guida dei servizi segreti (e il nome di Yuri Andropov, il segretario del Pcus appunto capo del Kgb è stato fatto ironicamente da molti).
In tutto questo non si capisce bene cosa pensi il Movimento 5 stelle, che ormai sono tre o quattro M5s, un gruppone di sbandati come quelli dei romanzi di Beppe Fenoglio, con un capo, l’avvocato Giuseppe Conte, che occhieggia a Salvini e di cui il Pd con qualche anno di ritardo comincia a diffidare ma che Letta non intende perdere per non restare completamente solo: e però quando questa vicenda sarà chiusa è difficile che non intervenga un chiarimento tra i due perni di un campo largo tutto da costruire.
Oggi dunque è il giorno della verità per uscire dalle «nebbie» (Bersani dixit). C’è sempre Draghi in campo, ma che verrebbe eletto più per disperazione che per convinzione, con inevitabile ammaccamento della propria immagine, ammesso e non concesso che superi agevolmente i 505 voti necessari. Così come c’è, almeno in teoria, Sergio Mattarella, che ieri è cresciuto ancora fino a 165 voti, un segnale netto che molti parlamentari ritengono che a questo punto l’alternativa vera sia tra il Presidente e il caos. E forse hanno ragione.
Capi e capetti politici non sopportano la superiore qualità del premier. PAOLO POMBENI su Il Quotidiano del Sud il 27 Gennaio 2022.
I PARTITI hanno trasformato il grande parlamento che deve eleggere il successore di Sergio Mattarella in un labirinto da cui non si riesce ad uscire. Tutti attendono che qualcuno porga loro il mitico filo di Arianna che li porti fuori, ma fino al momento in cui scriviamo (martedì 25 gennaio ore 21) non vediamo traccia di qualcosa di simile.
Il problema fondamentale è, come ormai hanno riconosciuto tutti, mettere insieme la soluzione del problema Quirinale con quella del governo e non solo nel caso, che al momento non sembra più molto probabile (ma in politica conta sempre l’ultimo minuto), in cui fosse Draghi stesso a salire al Colle.
Il tema di fondo è che la soluzione trovata a febbraio scorso da Mattarella per risolvere la crisi di impotenza delle forze politiche rimane fortemente legata alla presenza chiave di Draghi, personalità capace di imporsi su una coalizione molto larga, ma anche all’equilibrio da lui trovato nella distribuzione dei ministeri. Intendiamoci: non tutte le scelte sono state meravigliose, non tutto funziona alla perfezione, ma non riusciamo a convincerci che ci siano le condizioni per ridisegnare in un modo migliore la compagine dell’attuale esecutivo.
Anche se ci sono state le smentite di prammatica, le indiscrezioni parlano del fallimento del tentativo di alcuni partiti (Salvini, forse Conte) di negoziare con Draghi l’assetto che avrebbe preso il futuro governo nel caso l’attuale premier fosse diventato il successore di Mattarella. Era chiaramente un negoziato impossibile, perché il futuro capo dello Stato non può certo impegnarsi dando garanzie che non sono nei suoi poteri. È una leggenda che spetterebbe a lui scegliere il suo successore, perché il presidente fa le consultazioni di cui deve tenere conto, accettando quanto gli viene proposto se c’è una almeno relativa certezza che ci sia una maggioranza a sorreggerlo, o interpretando quale direzione ricavarne se la situazione si presenta confusa. Non è in suo potere distribuire i posti dei ministeri: può esercitare qualche veto su certi profili se non corrispondessero agli indirizzi ed impegni presi dal nostro stato, può suggerire qualche nome, ma se non viene accolto non può imporlo.
Per queste ragioni tutti sanno che una volta dimessosi Draghi, perché così deve fare per dettato costituzionale nel caso di una sua elezione al Quirinale, cadrebbe l’intero governo ed i negoziati per costruirne uno nuovo sarebbero più che difficili. Non si dimentichi che ormai siamo entrati in un tunnel elettorale, con le amministrative intorno a maggio e poi le politiche al più tardi nella primavera del prossimo anno. Dunque si tratterebbe di costruire un governo che più che essere la prosecuzione di quello oggi in carica, sarebbe un esecutivo pre-elettorale a tempo: sappiamo bene cosa significhi una prospettiva del genere.
Per queste ragioni mentre scriviamo si è indebolita la prospettiva di inviare Draghi al Colle: certamente anche per varie “antipatie” di capi e capetti politici che non sopportano la superiore qualità del premier, ma soprattutto per il timore dei più responsabili di cacciarsi in una trappola che potrebbe portarli ad uno scioglimento precoce e traumatico della legislatura, perché cos’altro resterebbe da fare al nuovo presidente della repubblica se non sciogliere le Camere di fronte ad una ingestibilità degli equilibri parlamentari? Dunque il tema torna ad essere quello di individuare una candidatura per il Quirinale che possa lasciare in vita l’attuale governo e anzi possa continuare a fargli da scudo come è avvenuto con Mattarella. L’esigenza di evitare assolutamente una figura “di parte” deriva proprio dalla debolezza del quadro politico attuale.
Se esso avesse una sua stabilità, non si temerebbe che dal Colle si potessero ridisegnare gli equilibri. Ma poiché già adesso quell’equilibrio non esiste e soprattutto è più che oscuro quello che emergerà dal voto quando saranno state chiuse le urne, è più che comprensibile che i gruppi dirigenti dei partiti si arrovellino su come garantirsi un Capo dello Stato che non solo non sia portato a privilegiare una parte contro le altre, ma anche che sia alieno da tendenze per così dire “creative” quando si misurerà con le crisi future (ci sono esperienze non felici in casi simili …).
La scarsità di soluzioni disponibili è un fattore da non trascurare. Se ci fossero alcune persone che danno se non le garanzie, le aspettative di agire con l’unione di competenza, esperienza, e saggezza di fronte ai difficili passaggi che aspettano questo paese (per la pandemia, per i problemi dell’economia, per le situazioni di tensione internazionale, per le tensioni sociali esistenti), sarebbe possibile costruire un consenso trasversale. Tutti sanno che l’opinione pubblica è poco disponibile a star a guardare i giochetti tattici dei politici, ma tutti temono di cadere nella trappola di soluzioni insoddisfacenti da vari punti di vista. Adesso è impossibile prevedere come andrà a finire, o almeno noi non siamo in grado di farlo.
Temiamo che comunque vada non avremo una soluzione che sia conclusiva dei nostri problemi di equilibrio e stabilità: bisognerà che ci si lavori ancora e con la dovuta pazienza nel prosieguo della nostra vita istituzionale.
Tommaso Montesano per "Libero quotidiano" il 28 gennaio 2022.
Netto a parole. Possibilista nei fatti. Sull'ipotesi che il presidente della Repubblica - quindi se stesso - possa essere rieletto, il Sergio Mattarella capo dello Stato, almeno ufficialmente, non ha mai lasciato aperto alcuno spiraglio. In ogni circostanza pubblica, sia quella più formale che quella più conviviale (si pensi ai discorsi tenuti di fronte agli studenti), il Presidente uscente è sempre stato netto: non se ne parla.
Eppure, a scavare negli archivi, salta fuori qualcosa che contraddice il "Mattarella pensiero" delle ultime settimane. Un'intervista rilasciata al Corriere della Sera alla vigilia del voto per la successione ad Oscar Luigi Scalfaro, ad esempio. È il 1999 e il capo dello Stato dell'«io non ci sto», il nome più inviso al centrodestra, allora all'opposizione come "Polo delle libertà", si avvia a concludere il settennato sul Colle. E la maggioranza di centrosinistra, l'Ulivo, è alle prese con la scelta del successore.
I numeri sono dalla parte dei "progressisti", di cui Mattarella è all'epoca uno dei leader parlamentari in qualità di capogruppo a Montecitorio del Partito popolare italiano, il Ppi, uno degli eredi della Dc. Epperò Mattarella, forse per evitare brutte sorprese, lancia agli acerrimi avversari guidati da Silvio Berlusconi un'offerta: «Perché non rieleggiamo Scalfaro al Quirinale?».
Certo, ammette il presidente dei deputati popolari, «è vero che anche da soli avremmo la possibilità di eleggere il capo dello Stato», però «un'ampia convergenza» non è mai una brutta cosa.
Se non altro perché taglia la testa al toro. Così Mattarella la butta là e, pur consapevole di come il centrodestra non ami - eufemismo - Scalfaro, lancia la proposta: settennato bis per il Presidente uscente in cambio, ecco l'offerta, «di una rinnovata intesa sulle riforme», a partire da quella per l'elezione diretta del presidente della Repubblica.
Insomma: il Mattarella intransigente di oggi sulla rielezione, 23 anni fa proponeva un patto al centrodestra: Scalfaro ancora sul Colle in cambio di un «accordo» sulla nuova versione della Costituzione, introducendo quel presidenzialismo tanto caro - oggi come allora - al centrodestra. Un'offerta che cadrà nel vuoto, visto che il 13 maggio 1999 sarà eletto alla prima votazione Carlo Azeglio Ciampi.
Batosta Casellati, Matteo Salvini cerca una soluzione. Qualunque. La presidente del Senato prende solo 382 voti, almeno 70 franchi tiratori. Il leader della Lega apre a qualsiasi ipotesi: persino al trasloco di Draghi («non c’è un veto»), mentre in Transatlantico si parla anche di Mattarella (e Casini). Adesso il boccino è in mano all’uomo del Papeete, che sembra il più confuso di tutti. Susanna Turco su L'Espresso il 28 Gennaio 2022.
Il verdetto dell’Aula è impietoso. Almeno 70 franchi tiratori affossano la candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati, proposta in mattinata dal centrodestra: la presidente del Senato si ferma a 382 preferenze, molto sotto i 452 Grandi elettori attribuibili al centrodestra, ma anche sotto l’asticella di 400, considerato informalmente il numero minimo per riproporre il suo nome.
«Una vera batosta», commenta prima di tutti il dem Emanuele Fiano, che esce dall’Aula sventolando il suo personale conteggio dei voti, prima della proclamazione ufficiale.
Quirinale 2022, l’imbarazzo della Belloni finita nel tritacarne della politica. Giuliano Foschini su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
La direttrice del Dis sorpresa, pensava di essere uscita dai giochi ed era andata fuori Roma.
Sono giorni che Elisabetta Belloni prova a sottrarsi. Non dalle responsabilità, cosa che non ha mai fatto nella sua lunga carriera da servitrice dello Stato. Ma dal tritacarne nel quale è stata - da domenica scorsa, quando per la prima volta il suo nome venne fuori come possibile sostituta di Mario Draghi a Palazzo Chigi - suo malgrado spinta.
Proposta da Conte al tavolo con Salvini e Letta, la candidatura della direttrice del Dis ha mandato su tutte le furie Renzi, Di Maio e mezzo Pd. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 29 gennaio 2022.
Hanno aspettato con pazienza che Matteo Salvini andasse a sbattere contro il voto impietoso dell’Aula, Enrico Letta e Giuseppe Conte, prima di entrare finalmente in partita. E così, dopo cinque lunghissimi giorni di “catenaccio”, segnati dall’immobilismo e diffidenze reciproche, il centrosinistra ha costretto il capo dello schieramento avverso a sedersi a un tavolo per individuare insieme il prossimo presidente della Repubblica. «I preliminari sono finiti, abbiamo finalmente iniziato a parlarci», ha detto soddisfatto il segretario del Pd uscendo dall’incontro col presidente del Movimento 5 Stelle e col numero uno della Lega avvenuto subito dopo la bocciatura di Maria Elisabetti Alberti Casellati. Un trauma per il centrodestra, uscito con le ossa rotte dalla prima votazione con un candidato vero in campo.
E ora che i giallo- rossi hanno mostrato l’inconsitenza numerica della coalizione guidata da Salvini, l’obiettivo prioritario di Letta sembra alla portata: trovare un Capo dello Stato che vada bene a tutti e, soprattutto, che non decreti vincitori e sconfitti. Il pareggio tanto inseguito potrebbe arrivare a breve. Sempre che non salti tutti con estrema velocità. Sì, perché dall’incontro a tre si è imposto un nome: quello di Elisabetta Belloni, direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, già entrata nella rosa dei papabili qualche giorno fa e poi accantonata per mancanza di dialogo. E di requisiti, secondo alcuni, considerato il ruolo ricoperto dalla “candidata”, che passerebbe dalla guida dei Servizi segreti alla guida dello Stato. Proposta al tavolo giallo- rosso- verde da Giuseppe Conte, Belloni garantirebbe la terzietà invocata da tutti ma per il centrosinistra non sarebbe comunque una passeggiata convincere tutti a votarla. E non solo per l’opposizione manifesta e decisa di Matteo Renzi, che in serata dichiara senza mezze misure: «Non penso che sia minimamente possibile votare la capo dei Servizi segreti alla presidenza della Repubblica: non sta né in cielo né in terra. Se è il suo nome proporremo di non votarlo», dice il leader di Italia viva a Radio Leopolda.
Ci sono ben altri ostacoli da aggirare. A cominciare dalla reazione infastidita che la sua elezione potrebbe provocare in Mario Draghi, dal primo momento candidato mai dichiarato per la corsa al Colle, che si vedrebbe scavalcare da una dirigente da lui appena nominata. E per lo stesso motivo il nome Belloni fa andare su tutte le furie Luigi Di Maio, ufficialmente grande estimatore dell’ex segretario generale della Farnesina, ma convinto sostenitore del trasloco del premier al Quirinale. Non solo, nell’ottica della faida interna ai 5S, il ministro degli Esteri non ha alcuna intenzione di fare uscire politicamente vico Giuseppe Conte dal Quirinal Game. Un motivo in più per impallinare la candidata.
Lo stesso Partito democratico reagisce con freddezza all’opzione Belloni. Gli ex renziani non sembrano affatto entusiasti, anzi lasciano trasparire tutto il loro disappunto senza dissimulare. E da Liberi e Uguali, formazione tenuta fuori dal summit pomeridiano, commentano così: «Con tutto il rispetto per la competenza e la capacità di Elisabetta Belloni, in un Paese democratico è assolutamente inopportuno che il capo dei servizi segreti diventi presidente della Repubblica. Allo stesso modo non è accettabile che la presidenza della Repubblica e la guida del governo siano affidate entrambe a personalità tecniche e non politiche».
Insomma, messa così, la candidatura di Belloni sembra già tramontata prima di nascere. Forse anche per questo Letta non ha rinunciato a mostrare a Conte e Salvini anche gli altri nomi appuntati sul suo foglio: Amato, Draghi e Casini. Puntando, forse, solo sul primo, visto che il premier non gode esattamente dei favori giallo- verdi e Casini non è lo sbocco sperato dallo stesso segretario dem, indisponibile a incoronare presidente il candidato di Matteo Renzi.
Non resta che cercare altrove. Per trovare un’altra donna. O per assicurarsi un garante vero. E chissà che alla fine non convergano davvero tutti su Sergio Mattarella, che ieri ha fatto ancora il pieno di voti nel centrosinistra ufficialmente indirizzato sulla scheda bianca: 336 preferenze, che sommate alle 46 della prima votazione, quella a cui ha partecipato solo il centrodestra, fanno 382. In totale gli stessi voti ottenuti da Casellati, senza essere però candidato. Un segnale dei grandi elettori ai loro leader.
“La forzatura. "È più facile che una chioccia faccia un uovo che qua esca il Presidente della Repubblica". Mastella show tra l’uovo e l’attacco alla Lega: “Casellati stronzata incredibile, Salvini si dimetta da leader”. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.
Tra una fumata nera e l’altra, Clemente Mastella è sicuramente uno dei protagonisti dei giorni caldi per la politica italiana, divisa più che mai per l’elezione del 13esimo presidente della Repubblica. Il sindaco di Benevento è ormai ospite fisso, davanti a palazzo di Montecitorio, della maratona Mentana in onda su La7. Presente a Roma da lunedì scorso in veste di accompagnatore della moglie, la senatrice Sandra Lonardo, e in veste di leader del partito “Noi di centro” (che vanta un Grande Elettore, ovvero la Lonardo), l’ex ministro della Giustizia ne ha per tutti.
Fautore della candidatura del centrista Pier Ferdinando Casini, Mastella ha attaccato duramente Matteo Salvini per la candidatura, poi bruciata, della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati: “Se fallisce con Casellati Salvini si dimetta da leader” “A Berlusconi dico ‘Sta casa aspetta a tte!’. E’ un gigante rispetto al modo in cui si stanno comportando gli altri leader”.
Poi attacca il segretario della Lega: “Le prove di forza si fanno quando si ha la forza di mettere al tappeto l’avversario altrimenti mettere a repentaglio un’istituzione come il presidente del Senato è una stronzata incredibile. Se Salvini riesce a recuperare voti da altre parti allora è un grande leader altrimenti il leader diventa un altro – aggiunge – rispetto a questi Berlusconi è un gigante”.
Poi il siparietto durante la maratona Mentana dove Mastella si presenta “armato” di un uovo: “Bisogna anche un po’ sdrammatizzare perché se dovessi valutare quello che sta accadendo in Parlamento è veramente una ipoteca alla via dell’inferno della politica e dell’attività parlamentare”. Poi il sindaco tira fuori l’uovo e spiega: “Vede questo uovo? L’uovo di Colombo, in questo caso l’uovo di Mastella, quindi una tesi mia. È più facile che una chioccia faccia un uovo che qua esca il Presidente della Repubblica”.
Poi Mentana scherza: “Resti con noi che dobbiamo andare in pubblicità! Ci hanno detto: Mastella tira tantissimo, tenetelo perché con lui gli ascolti vanno alle stelle. Lei è per noi quello che Corona per la Berlinguer. Resti lì e poi stasera venga ospite qui da noi”.
Se non sono i grillini a lamentarsi delle accuse di demagogia alla politica. Andrea Cangini il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Tra la quinta e la sesta votazione, i grandi elettori dotati di piccoli poteri percepiscono che l'ora delle decisioni fatali è prossima.
Tra la quinta e la sesta votazione, i grandi elettori dotati di piccoli poteri percepiscono che l'ora delle decisioni fatali è prossima. Prossima, ma ignota. Tutti comprendono che con la settima votazione si dovrebbe aprire una strada, nessuno saprebbe dire dove porterà. Come gattini ciechi, non ci resta che dare sfogo al malumore crescente mettendo a nudo le rispettive contraddizioni tra una sigaretta, un caffè e un supplì (eccellenti i supplì della Camera, addentati con malcelata invidia dai senatori alla prima esperienza culinaria a Montecitorio). Un grande elettore leghista di rito giorgettiano vaticina per Salvini la fine che fece Bersani una volta dissipato il ruolo di king maker sette anni fa. «Dopo il nobile ritiro di Berlusconi - dice - avrebbe dovuto cambiare gioco, invece, per paura della Meloni, ha insistito sul candidato di centrodestra. E ha fallito». Il fallimento viene descritto con accenti da tragedia greca, o, meglio, da mito biblico. La seconda carica dello Stato, diceva un grande elettore centrista a ridosso del primo voto, «si presenta all'Aula nel ruolo di agnello sacrificale, propiziatorio di scenari successivi». Il centrodestra come Abramo, la Casellati come Isacco e nessuno ad incarnare Dio che ne ferma la mano. Ma poi, quali sarebbero gli «scenari successivi»? Sul punto, sia pure alla cieca, grandi elettori dotati di piccoli poteri concordano: Casini o Mattarella Draghi no. Draghi è prezioso dov'è. E, come dice un grande elettore del Pd di affiliazione franceschiniana, «questo insistere per migrare al Colle rischia di far scadere la sua scelta di sacrificarsi per la nazione in un calcolo di carriera personale». Affermazione sottoscritta a malincuore da più d'uno tra i grandi elettori draghiani presenti nel capannello in Transatlantico.
Ma l'opera di disvelamento è solo all'inizio. Un grande elettore grillino ammettere l'incongruenza di impallinare una donna dopo aver invocato una donna. «Che figura ci facciamo?», domanda senza aspettarsi una risposta. Che poi, se la Casellati ce l'avesse fatta avremmo dovuto chiamarla «capa dello Stato»?, si interrogava in mattinata, ironizzando sull'ossessione della parità di genere, il grande elettore forzista Andrea Orsini. E Letta? «Enrico ha giocato di rimessa sul centrodestra per mascherare il fatto che il Pd, come il Movimento 5stelle, era diviso e non ha mai avuto un nome da proporre. Anche stavolta, è stato salvato da Salvini», ammette un dem. E Fico? «Ci sono voluti quattro giorni per fargli capire che, con i venti di antipolitica che spirano, era necessario prevedere non una, ma due votazioni al giorno per dimezzare i tempi e con i tempi le accuse di cialtroneria che ormai tutti i demagoghi dei media indirizzano al Parlamento», lamenta un grillino. Si conclude cosi, col pentastellato che denuncia l'antipolitica la nemesi di una giornata «storica» trascorsa nell'attesa che la Storia si compia. Sopra le nostre teste, naturalmente. Andrea Cangini
Colle, spunta l'sms che ha sedato la "rivolta" da cortile dei peones. Andrea Cangini il 28 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nel cortile di Montecitorio, un drappello trasversale di grandi elettori era impegnato nel passatempo tipico di ogni peone nei giorni convulsi in cui si elegge il presidente della Repubblica: fare a pezzi il proprio leader. Poi...
Ma chi l'ha detto che i grandi elettori sono un branco di ignoranti, fisiologicamente preda di impulsi politici irrazionali? Evidentemente deluso dalla gestione bicefala delle trattative quirinalizie che caratterizza il proprio partito, un grande elettore del Pd ieri ha stupito tutti citando nientemeno che le sagge parole del re di Sicilia Carlo d'Angiò. Era l'ora di pranzo, ma la tensione e il disorientamento generali non incoraggiavano al desco. Nel cortile di Montecitorio, un drappello trasversale di grandi elettori era impegnato nel passatempo tipico di ogni peone nei giorni convulsi in cui si elegge il presidente della Repubblica: fare a pezzi il proprio leader, ridicolizzandone la strategia. Uno dopo l'altro, ciascuno biasimava le scelte o le mancate scelte del proprio segretario politico o di questo o quell'uomo forte del proprio partito, mentre gli altri annuivano vistosamente. Poi, a turno, l'interlocutore veniva interrotto da un vicino di capannello, che gli rubava la scena con la consueta premessa: «Hai ragione, ma non sai cosa ha detto il mio...». E giù aneddoti e rivelazioni a rimarcare senza pietà alcuna né umana comprensione l'inadeguatezza dell'ufficiale in comando. Fiutata l'aria, e constatato che il comune sentire alludeva ad un male comune, il grande elettore democratico ha così inteso alzare il livello di una discussione ormai prossima allo sfogo isterico: «Cari amici, lo sapete cosa rispose Carlo d'Angiò al messo che, dandogli notizia della rivolta scoppiata in una città siciliana, gli disse che ad insorgere era stato un manipolo di pazzi?». Con una tempistica da consumato uomo di teatro, l'oratore ha lasciato che alcuni interminabili secondi fossero occupati dall'imbarazzato silenzio degli astanti e poi, con tono grave, ha loro offerto l'agognata risposta: «Ma i savi cosa facevano?"» La porta aperta fu così sfondata, le polveri infuocate. Uno ha citato Bismark («La politica è l'arte del possibile»), un altro ha citato Seneca («Per trovare la via a cose più grandi, il saggio farà anche quello che non approverà»), un terzo ha citato Balzac (ma l'ha citato in francese, perciò non ho capito nulla). Tutti noi peones abbiamo concordato sul fatto che in un parlamento di minoranze è demenziale accreditare la possibilità di una vittoria di parte, che leader timorosi e deboli non possono che generare soluzioni parziali e precarie, che se le persone di buonsenso come noi di tutti i partiti si coalizzassero avremmo già insediato il migliore tra i presidenti possibili. Poi, uno dopo l'altro, ciascuno di noi ha ricevuto un sms di convocazione e, infilata la coda tra le gambe, ha salutato l'indomita combriccola per recarsi a pie' veloce dove era stato comandato. Andrea Cangini
Di Matteo al Quirinale? Il magistrato che gli ex 5 stelle vorrebbero presidente. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 27 gennaio 2022.
Il pm che ha seguito le indagini sulle stragi di Falcone e Borsellino e sulla trattativa stato mafia vive sotto scorta per le minacce di morte dei padrini della mafia siciliana. Un personaggio che divide garantisti e giustizialisti
Il gruppo degli ex 5 Stelle che compongono “l’Alternativa” ha deciso che per il Quirinale il nome giusto è quello di Nino di Matteo, il pm antimafia che ha indagato sulle stragi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e in seguito sulla trattativa stato-mafia.
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Nato a Palermo nel 1961, 60 anni, vive sotto protezione per le minacce dei boss: lo stesso Totò Riina, il «capo dei capi» durante l’ora d’aria nel carcere di Opera di Milano nel 2014 disse di volergli far fare «la fine del tonno». L’ordine di ucciderlo secondo alcuni pentiti sarebbe stato rinnovato anche dal super latitante Matteo Messina Denaro.
LA STORIA
Entrato in magistratura nel 1991 come sostituto procuratore presso la direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta è poi diventato pubblico ministero a Palermo nel 1999. Nel 2019 è diventato membro del consiglio superiore della magistratura. Il Corriere della sera lo ha definito un «magistrato divisivo» perché in prima linea non solo nella lotta alla criminalità ma anche sui temi che riguardano la giustizia e la politica, da ultimo le critiche per la candidatura poi sfumata di Silvio Berlusconi al Quirinale.
BERLUSCONI
A novembre, Di Matteo suscitando l’indignazione di Forza Italia, ha sottolineato che il presidente della Repubblica è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura. Senza voler esprimere giudizi politici, il Pm invitò a riflettere se Berlusconi fosse o no adatto a quel ruolo e ha ricordato che secondo quanto emerso da una sentenza definitiva su Marcello Dell’Utri, che, hanno certificato i giudici, fu intermediario di un accordo tra il 1974 e il 1992 con le famiglie mafiose palermitane. Un patto che in cambio della protezione personale e imprenditoriale di Berlusconi prevedeva il versamento di somme ingenti di denaro da parte del Cavaliere a Cosa Nostra.
BONAFEDE E CARTABIA
Le critiche di Di Matteo prescindono dal colore politico. Nel 2019, su La 7, Di Matteo ha raccontato che a fine giugno 2018 era stato contattato dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede (M5s), per diventare nuovo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ma «il ministro mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento» ha ribadito poi in commissione parlamentare Antimafia. Per lui era «gravemente incomprensibile il comportamento del ministro».
Di recente è tornato a esprimersi sulla riforma della giustizia che ha spaccato il Movimento cinque stelle. Secondo Di Matteo la politica ha rinunciato alle sue responsabilità per «usare i magistrati come alibi» e - sottolineava Di Matteo - sta discutendo una «pessima riforma» della Giustizia presentata dalla ministra Marta Cartabia, che «rischia di mandare in fumo tanti processi». Nel dibattito alle Camere sono arrivati aggiustamenti ma «Io continuo a ritenere che nonostante i correttivi, complessivamente la riforma Cartabia sia una pessima riforma».
Il gruppo di fuoriusciti del Movimento 5 stelle ha deciso così di abbandonare la candidatura di Paolo Maddalena, ex vice presidente della Corte costituzionale, per puntare tutto sul magistrato simbolo del processo stato-mafia.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Famosa la legge che porta il suo nome. Chi è Paola Severino, ex ministro della Giustizia candidata a presidente della Repubblica. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.
Ex ministro della Giustizia, 73 anni, il nome di Paola Severino riemerge tra quelli dei potenziali candidati a diventare presidente della Repubblica.
Nata a Napoli il 22 ottobre 1948, Paola Severino è un’ex ministra ed è un’accademica italiana, vicepresidente dell’Università LUISS Guido Carli. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma. Dopo la laurea inizia la sua esperienza accademica. Dopo l’esperienza a Perugia, nei primi anni 2000 diventa Preside della Facoltà di Giurisprudenza alla Luiss. Dal 2016 al 2018 diventa Rettrice dell’Università, della quale diventa poi Vicepresidente.
Severino ha portato avanti anche la sua attività di avvocato. È storia il processo nel quale difese Romano Prodi rimasto coinvolto nella vendita della Cirio. Ma questo è solo uno dei processi di spicco nella carriera di Severino, che ha prestato assistenza legale anche per colossi del calibro di Telecom ed Eni.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, Paola Severino ha ricoperto la carica di vice-presidente del Consiglio della magistratura militare. È stata la prima donna a ricoprire questo incarico. Dal 2011 al 2013 Paola Severino è stata ministra della giustizia nel governo tecnico guidato da Mario Monti. Anche in questo caso si tratta della prima donna ad aver rivestito questa carica.
Storica la legge Severino, così come è passata alla storia, ossia la legge che prevede l’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche di governo (e cariche elettive) per soggetti condannati in via definitiva per delitti non colposi.
A causa di una grave malattia, Paola Severino ha subìto l’amputazione di un braccio. “So che vuol dire avere a che fare con chi ti guarda e ti chiede: che cosa ha fatto al braccio? O dice: mi farei tagliare un braccio per riuscire a …, oppure ti fissa e non ti toglie gli occhi di dosso […]. Ma chi deve superare un handicap affronta la vita con lo spirito di dire: devo fare tutto, posso fare tutto. Io senza un braccio ho anche giocato a tennis“, aveva dichiarato Severino in un’intervista rilasciata a La Repubblica.
Luca Mazza per “Avvenire” il 29 gennaio 2022.
Quando poco dopo le 20 Giuseppe Conte esce da Montecitorio ha l'aria sollevata di chi si sente vicino a centrare un doppio obiettivo politico che, soltanto poche ore prima, sembrava insperato: mantenere Mario Draghi a Palazzo Chigi e impedire una spaccatura fragorosa del Movimento 5 stelle sul voto del nuovo capo dello Stato.
Anzi, sulla prossima presidente della Repubblica. «Ho l'impressione che ci sia la sensibilità di Salvini, spero di tutto il Parlamento, per la possibilità di una presidente donna - afferma il leader dei pentastellati -. Alla fine vedrete che il M5s sarà la forza più compatta se riusciremo a portare tutte le altre forze politiche verso un presidente donna, che mi farebbe tanto piacere ».
Al tavolo delle trattative con Matteo Salvini ed Enrico Letta c'è stato «non solo un nome femminile, ma più d'uno. Perché l'Italia ha tantissime risorse che meritano di essere elevate a quest' alta carica», precisa il capo politico. Nonostante il tentativo di tenere coperta la carta e non svelare un nome, è evidente che in pole c'è Elisabetta Belloni. Come alternative femminili si ragiona anche su Paola Severino (considerata 'votabile' dal M5S) e Marta Cartabia.
Sulla direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, tuttavia, si consolida l'asse gialloverde, mentre il Pd è più scettico. Se a Salvini la scelta di Belloni consentirebbe di salvaguardare l'alleanza con Giorgia Meloni (la numero uno del Dis piace a Fratelli d'Italia), per Conte rappresenta forse una delle poche candidature non divisive tra i 236 grandi elettori. Beppe Grillo, con un tweet, si schiera apertamente: Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo. #ElisabettaBelloni.
«Voi parlate sempre di divisioni tra i partiti e anche dentro il M5s - fa notare l'avvocato pugliese ai cronisti - mentre io ho sempre detto che le valutazioni si fanno alla fine, le chiacchiere le porta via il vento».
Luigi Di Maio, però, non gradisce il metodo e i modi utilizzati: «Trovo indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso - tuona il ministro degli Esteri - Lo avevo detto ieri: prima di bruciare nomi bisognava trovare l'accordo della maggioranza di governo. Tutto ciò, inoltre, dopo che oggi è stata esposta la seconda carica dello Stato. Così non va bene, non è il metodo giusto».
Del resto a tarda sera, dalle reazioni politiche, è evidente che non mancano gli ostacoli ad un punto di caduta che preveda la salita al Colle per la guida del Dis. Dal 'no' di Renzi alla contrarietà di Forza Italia, passando per la diffidenza di parte del Pd e dei centristi, il fronte anti-Belloni è numeroso, anche se Conte continua a crederci e sul suo profilo Instagram lancia l'hashtag #Una-DonnaPresidente. Se ai piani alti del Movimento si tifa per il piano A (Belloni), rassicura anche il fatto che l'opzione B permetterebbe a Conte di 'cadere in piedi'.
Quei 336 voti all'attuale presidente della Repubblica nella sesta votazione (in cui si è astenuto tutto il centrodestra) fanno lievitare ancora le quotazioni per un 'Mattarella bis'. Il messaggio fatto filtrare in serata dal Pd autorizza a non escludere la rielezione: «Invitiamo tutti a prendere atto della spinta che da due giorni e in modo trasversale in Parlamento viene a favore della riconferma del presidente Mattarella». Dal M5s rivendicano un primato: «Non lo dicano a noi - commentano fonti interne -. Siamo stati tra i primi a crederci, anche quando tutti pensavano fosse impossibile».
DAGONOTA il 29 gennaio 2022.
In qualunque altro paese civile e incivile il presidente del Senato Elisabetta Casellati, si sarebbe dimessa all’istante, un minuto dopo essere stata trombata la folle candidatura al Quirinale, apparecchiata da Matteo Salvini. Non solo il cazzaro del Papeete ha gettata così nel bidone del ridicolo la seconda carica dello Stato mortificando le istituzioni, ma l’ha sputtanata per sempre.
Massino Giannini, ospite ieri di “Otto e mezzo”, ha messo il dito nella piaga: "Per nascondere i suoi fallimenti, la politica usa le donne come figurine per il Colle: un atto di un’irresponsabilità, di una cialtronaggine senza precedenti”.
In tanto femminicidio politico, Salvini, Meloni e Conte sono arrivati al punto di sbattere nel tritacarne anche l’altra Elisabetta, la Belloni (vedi l’articolo a seguire). Vedere la seconda carica dello stato e il capo dei servizi segreti che non bloccano sul nascere, fermamente e garbatamente, i giochini sul loro nome, che non sentono immediatamente l’esigenza di dichiarare il loro ‘’non possumus’’, sono quasi peggio di questi politici scappati dal manicomio.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2022.
Per la seconda volta nel giro di quattro giorni, il nome di Elisabetta Belloni è stato infilato nel tritacarne dei candidati alla presidenza della Repubblica. Un minuto dopo l'ennesima promessa fatta dal leader della Lega Matteo Salvini di fronte alle telecamere di avere la soluzione in tasca e di aver puntato su una donna lasciando intendere che fosse proprio lei, è partito il gioco dei veti incrociati.
Leader e gregari di formazioni politiche ormai allo sbando si sono fronteggiati perdendo evidentemente di vista quello che dicono di voler tutelare: il bene del Paese. Esporre in questo modo il capo dei Servizi segreti non mette a rischio soltanto Elisabetta Belloni, ma l'Italia intera. Svilire un ruolo così strategico, mortifica le istituzioni, fa danno alla sicurezza nazionale, fa perdere prestigio a livello internazionale.
Sembra impossibile credere che nessuno si sia posto questo problema, sia pur in ore così convulse. L'elenco in realtà è lungo. Nel gioco al massacro dove sembra contare soltanto chi riesce a proporre un nome - poco importa che sia condiviso - sono già stati usati il presidente del Consiglio di Stato, l'attuale presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica ancora in carica. Tutti nel frullatore delle trattative, senza mai interrogarsi su che cosa rimarrà quando tutto questo sarà finito.
E nel caso di Belloni con un'aggravante in più: utilizzarla perché donna, in modo da appuntarsi poi sul petto la medaglia al merito di averla proposta per primi. Appena due settimane fa, ai funerali del presidente del Palamento europeo David Sassoli, segretari di partito, ministri, parlamentari avevano preso l'impegno di seguire i suoi valori promettendo di sedersi intorno a un tavolo per arrivare a un'intesa che portasse al Quirinale un nuovo capo dello Stato «senza inseguire interessi di parte o protagonismi».
Esattamente il contrario di quanto sta accadendo. L'Italia sta ancora combattendo contro la pandemia da Covid 19, deve fronteggiare la crisi economica e gestire quella Ucraina con i partner internazionali. Deve soprattutto continuare a negoziare per raggiungere gli obiettivi imposti dal Pnrr. Sfide che vedono le cariche più alte dello Stato in prima linea. Elisabetta Belloni è tra loro, in una veste che deve essere il più possibile riservata e per questo preservata. Il momento per fermare lo scempio è arrivato.
Antonio Bravetti per “La Stampa” il 29 gennaio 2022.
Perso nel labirinto. Alla fine di una lunga giornata iniziata nella notte tra giovedì e venerdì, col via libera alla candidatura di Elisabetta Casellati, Matteo Salvini cerca in tutti i modi una via d’uscita dall’angolo in cui si è messo.
Mollato da Forza Italia, ai ferri corti con Giorgia Meloni, il segretario della Lega prova a riallacciare il dialogo con Pd e Cinque stelle. Ma pure qui le cose non si mettono bene. Dopo gli incontri del pomeriggio con Enrico Letta e Giuseppe Conte, fa il passo più lungo della gamba: «Sto lavorando affinché ci sia un presidente donna e in gamba, non in quanto donna ma in quanto persona in gamba».
Il nome che rimbalza nei corridoi di Montecitorio è quello di Elisabetta Belloni. Ma la direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza viene subito bocciata da quasi tutti: Italia Viva, Forza Italia, Leu.
Salvini si ritrova così a vagare nel suo labirinto. A postare sui social, alle 22, una foto che lo ritrae al computer negli uffici della Lega alla Camera: «Un altro caffè e al lavoro, la prima donna presidente della Repubblica sarebbe una straordinaria innovazione».
La giornata, insomma, finisce com’era iniziata: con un caffè. Al mattino lo aveva preso con gli alleati di centrodestra. In quella sede era maturato il via libera al nome della presidente del Senato: alla quinta votazione il centrodestra indicherà Elisabetta Casellati. Si va alla prova di forza, al muro contro muro, come chiede da giorni Giorgia Meloni. In Transatlantico però si respira un clima ostile all’operazione.
Si temono, giustamente, i franchi tiratori. «Ci stiamo facendo del male da soli», si lamenta un senatore leghista in un capannello con Centinaio e Durigon. «Se gli altri non la votano è difficile che passi», ammette Giancarlo Giorgetti allargando le braccia a pochi metri dall’Aula, mentre è in corso il voto.
La sconfitta di Casellati è come il morso di un serpente: il veleno si diffonde presto. Tra gli alleati corrono i sospetti: chi ha voluto affossarla? «Tutta la Lega l’ha votata», assicura il vicesegretario Lorenzo Fontana. Bossi, in Transatlantico, punzecchia il segretario: «Ora Salvini farà quel che gli dice Berlusconi. Cosa dirà Berlusconi? Dirà che la sinistra vuole uno dei suoi alla presidenza». Il tempo corre, incombe la sesta votazione, bisogna decidere cosa fare. Nel vertice di metà pomeriggio Salvini, Tajani e Meloni optano per l’astensione.
Salvini riprende a tessere la sua tela. Vede Draghi («non pongo veti nei confronti di nessuno, ma da italiano sarei più tranquillo se andasse avanti a fare il presidente del Consiglio»), poi Conte e Letta. Nuova riunione con Tajani e Ronzulli. «Ognuno si comporta come vuole - spiega - la sinistra è abituata a mettere veti, io preferisco fare proposte, dialogare, unire. Mi auguro che domani il Parlamento dia dimostrazione di lucidità, concretezza e rapidità, e che si chiuda».
Ma la strada è in salita. In tarda serata, quando lascia gli uffici della Camera, torna sui suoi passi. Rimastica le sue parole. Parla senza dire nulla. I partiti dicono no a Belloni? «Io sono per i sì è non per i no. Lavoro per chiudere la partita già domani». Forza Italia ha deciso di trattare autonomamente? «Il centrodestra non è spaccato, è giusto che ognuno faccia valere le sue priorità». Sarà l’ennesima notte di lavoro, fanno sapere i suoi, di contatti. Oggi il leader della Lega ricomincerà vedendo i vertici del partito a Montecitorio. Ancora nel labirinto. Alle 8.30, con il caffè.
Anche i Dem erano d'accordo. “Votiamo tutti Belloni”, la chat interna che inchioda il Pd. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 29 Gennaio 2022.
Il nome di Elisabetta Belloni, direttore del Dis che ha ballato qualche ora nelle nomination per il Quirinale, “è stato fatto da Letta e Conte in una riunione dove me l’hanno presentata con le sue caratteristiche positive”, ha rivelato Matteo Salvini ospite della Maratona Mentana su La7. “Io non l’avevo considerata, ma mi hanno fatto capire che aveva le qualità e i numeri per essere eletta”, ha detto il leader leghista ad un Enrico Mentana visibilmente sorpreso.
Il Riformista ha avuto copia di una chat interna dei deputati Pd, circolata ieri sera con particolare forza tra i parlamentari dem lombardi, in cui un deputato sosteneva le motivazioni dell’opportunità “di eleggere per la prima volta una donna Presidente. Dal gruppo Pd esce questa indicazione, nero su bianco: “I leader si sono visti. I nomi sono stati fatti. E la combinazione delle priorità dei diversi partiti porta alla figura di Elisabetta Belloni, per anni segretario generale della Farnesina e ora a capo del Dis, il dipartimento che coordina i servizi di intelligence. Per la prima volta sarebbe una donna a diventare Presidente della Repubblica”, prosegue l’informativa interna, che per chi l’ha scritta doveva rimanere riservatissima.
E invece è arrivata fino a noi. La nota si conclude: “Più tardi ci ritroveremo con i grandi elettori del Pd per decidere“. Sappiamo poi com’è andata a finire. Ma non sapevamo, prima di mettere mano a questo documento, da quale fonte fosse uscito il nome di Elisabetta Belloni.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2022.
«E adesso come dico a mia figlia che a tavola deve spegnere il telefonino?» si chiedeva un'amica scoraggiata, dopo avere visto la presidente del Senato incollarsi allo smartphone durante lo spoglio di una votazione che tra l'altro la riguardava personalmente.
Stiamo parlando di uno dei riti più solenni della democrazia: la catena di montaggio istituzionale che si replica ogni sette anni davanti alle telecamere richiede un'intesa perfetta fra i due presidenti - quello della Camera legge il nome sulla scheda e la smista a quello del Senato, che la riceve e la smista a sua volta - ma soprattutto una concentrazione assoluta per mantenere il ritmo infernale.
Invece ieri il povero Fico era costretto a fermarsi di continuo con la mano a mezz' aria, dato che la collega era sempre a testa bassa, tutta presa a digitare, scrollare, compulsare. Proprio come la figlia adolescente della mia amica, che a questo punto avrà buon gioco a eludere le reprimende della madre: «Se lo fa la presidente del Senato nel momento culminante del suo lavoro e forse della sua carriera, ti pare che non posso farlo io mentre sto mangiando la pasta e tu mi chiedi come è andata la verifica di matematica?».
Nessuno mette in dubbio l'urgenza dei messaggi ricevuti dalla Casellati: immagino fossero tutti di Salvini che si dava del pirla e le chiedeva scusa. Ma quando ci decideremo a usare quell'aggeggio, anziché venire usati da lui? Ora però devo salutarvi perché mi è appena arrivata una notifica sul cellulare.
R. R. per “Avvenire” il 29 gennaio 2022.
Candidata e «scrutatrice » allo stesso tempo, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati è finita nel mirino ieri per non essersi sfilata dalla guida dell'Assemblea durante lo spoglio del quinto scrutinio, quello nel quale il suo nome era in lizza.
La regola prevede che a presiedere l'assemblea per l'elezione del capo dello Stato e a leggere le schede sia il presidente della Camera mentre il numero uno del Senato gli siede accanto e la co-presiede. Ruolo che Casellati aveva già svolto nei primi quattro scrutini e che ha continuato a svolgere anche durante il quinto nonostante l'invito preventivo dei dem ad astenersi.
«È del tutto inopportuno che la presidente Casellati nello spoglio odierno co-presieda lo scrutinio delle schede, di fatto controllando i voti per sé stessa», aveva messo in guardia in anticipo Enrico Borghi, della segreteria nazionale del Pd «Sarebbe davvero inaccettabile se dovesse scegliere di copresiedere l'Assemblea mentre si svolge lo scrutinio che la vede candidata.
Ci auguriamo che abbia senso delle istituzioni e non alimenti in alcun modo il dubbio che possa controllare i voti che la interessano direttamente», ha rimarcato anche il deputato dem Emanuele Fiano. Un fuoco di fila di dichiarazioni che sono proseguite quando poi la presidente ha deciso di non accogliere l'invito al passo indietro. «È già grave che la seconda carica dello Stato si presti a un'operazione di parte quale quella in corso», ha commentato Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo del Pd, chiedendole di passare la mano.
Fino alla richiesta di dimissioni dei deputati verdi di 'Facciamo eco' e dell'ex M5s Alesandro Di Battista, perché «non più merite- vole di rappresentare la seconda carica dello Stato». Il precedente evocato dal Pd per sostenere la tesi che era opportuno far subentrare nello spoglio un vicepresidente del Senato da affiancare a Roberto Fico, è quello che si verificò durante l'elezione al Colle di Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992.
Scalfaro era presidente della Camera e, quando arrivò lo scrutinio nel quale il suo nome era in gioco, si fece da parte e lasciò il compito di leggere le schede al vicepresidente vicario Stefano Rodotà, come ha ricordato lo stesso Borghi «augurandosi il medesimo rispetto delle istituzioni ». Non sempre tuttavia i candidati al Colle hanno osservato lo stesso galateo istituzionale di Scalfaro.
Presenti durante la lettura delle schede furono anche i presidenti del Senato Amintore Fanfani e Francesco Cossiga quando furono candidati al Quirinale, con il secondo che si allontanò dall'Aula solo al termine dello spoglio che decretò la sua elezione alla Presidenza della Repubblica. A far discutere ieri sono state anche le riprese che hanno visto Casellati armeggiare con il suo cellulare durante lo spoglio.
Mentre Fico le passava le schede la presidente ha cercato più volte di digitare sul telefonino. Ieri peraltro il centrodestra si è contato nel voto su Elisabetta Casellati segnando le schede e scrivendo in modo diverso il nome della presidente del Senato, anche se poi nello spoglio il presidente della Camera Roberto Fico ha letto solo il cognome. Secondo quanto hanno confermato varie fonti del centrodestra, i parlamentari della Lega hanno scritto Casellati, Fdi e Nci Elisabetta Alberti Casellati, Fi e Udc Elisabetta Casellati, Coraggio Italia Alberti Casellati.
Elezione nuovo presidente, il paradosso del Parlamento incapace di parlarsi. Stefano Massini su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
Più il nostro Paese avrebbe bisogno di dialogare, più dai palazzi della politica ne arriva servita l’antitesi.
Ci sono voluti sei scrutini, cinque giorni, e l'impallinamento della seconda carica dello Stato, per sciogliere il paradosso di un parlamento (etimologicamente: luogo in cui si parla) incapace di parlarsi. Provate a pensare a una cucina in cui i cuochi elogino il digiuno, a una basilica dal cui pulpito i preti predichino l'ateismo, o a un ateneo dove gli insegnanti celebrino la virtù dell'ignoranza: tale è lo spettacolo cui ci è toccato assistere, di un Parlamento che non si parlava.
Pastorelli e vecchie volpi. Augusto Minzolini il 28 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Agnelli, vecchie volpi e pastorelli inesperti. Questa edizione dei giochi quirinalizi andrebbe raccontata così.
Agnelli, vecchie volpi e pastorelli inesperti. Questa edizione dei giochi quirinalizi andrebbe raccontata così. Gli agnelli sono quel 70% di parlamentari alla prima esperienza che spesso si trovano a dover seguire indicazioni insensate.
Immaginare che Elisabetta Belloni - grande servitrice dello Stato, con tanti anni nella burocrazia ad alto livello, persona stimabilissima - possa passare al di là dei tanti meriti direttamente dal ruolo di capo dei servizi segreti alla presidenza della Repubblica in un grande democrazia occidentale, vuol dire che si è completamente a digiuno di un minimo di sensibilità istituzionale. L'unico precedente che si ricordi di primo acchito è in un Paese molto particolare sul piano della democrazia: la Russia in cui Vladimir Putin diventò presidente passando per il Kgb. Ma almeno lui è stato legittimato da un'elezione diretta: differenza non da poco.
Ecco perché si ha l'idea che le vecchie volpi indichino dei candidati ben sapendo che alla fine saranno bocciati. E che dei pastorelli sbadati seguano le loro tracce perché hanno smarrito la strada. Per cui le vecchie volpi sfogliano la rosa, petalo dopo petalo, per arrivare al nome che è nei loro piani. E i pastorelli vanno loro dietro pensando che quei candidati siano veri e non specchietti per le allodole.
Il problema è che per scoprire le vecchie volpi devi disboscare il bosco dell'ipocrisia. Solo a quel punto si rivelano i loro giochi e la loro strategia. La vecchia volpe Enrico Letta, ad esempio, punta a Mario Draghi per andare alle elezioni. In questo giocando a distanza con una giovane volpe come Giorgia Meloni, che per avere le urne farebbe anche un patto con il diavolo, manderebbe sul Colle chiunque, pure Belzebù. I pastorelli sono Giuseppe Conte e Matteo Salvini, che non si accorgono come gli altri due seguano tattiche speculari.
Ecco perché sull'ipotesi di un nuovo governo che dovrebbe sostituire l'attuale non si fa un passo avanti. È impossibile: se è già difficile trovare un nome, un solo nome, per il Quirinale, immaginate quanto possa essere complesso individuare un nuovo premier, un'intera squadra di ministri e sottosegretari e, magari, anche un programma aggiornato su energia e inflazione. Il tutto senza l'autorevolezza di Draghi. Non prendiamoci in giro: il Financial Times e l'Economist lo hanno capito, i nostri giornali no.
Anche pastorelli inesperti questo gioco non lo vedono, non si rendono conto che in una finale di coppa del mondo come l'elezione del presidente della Repubblica, vista la posta in gioco, sono ammessi anche trucchi e trabocchetti. Maradona segnò all'Inghilterra a Città del Messico con una mano: non fu espulso ma fu soprannominato la Mano de Dios. Ecco, Conte e Salvini debbono rendersi conto che la realtà non è sul palcoscenico, ma dietro le quinte della corsa al Quirinale. Che le vecchie volpi arrivano a farti apparire normale eleggere il capo dei servizi segreti al Quirinale, eppoi storcono la bocca su un personaggio come Franco Frattini, additandolo come amico di Putin e rimuovendo dalla memoria che l'ex ministro degli Esteri fu proposto da due governi (Berlusconi e Monti) come segretario della Nato. Ma i pastorelli debbono, soprattutto, essere consapevoli che in questa partita non contano gli schieramenti, né le simpatie, ma solo il risultato finale, cioè che Draghi resti al suo posto e il governo vada avanti fino alla fine della legislatura. Altrimenti rischiano di far apparire come fenomeni dei mediocri calciatori di serie C. Che magari farebbero meglio ad ascoltare i consigli di qualche Maradona nella nostra politica. Augusto Minzolini
Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 28 gennaio 2022.
Continua con il nulla di fatto la corsa a nominare il nuovo inquilino del Quirinale e, ahinoi, continuano anche le maratone televisive pomeridiane a base di fuffa. Gli ascolti di ieri, giovedì 27 gennaio 2022, vedono un nuovo flop per lo Speciale Tg1 pomeridiano condotto dalla Direttrice Monica Maggioni, con ospiti Andrea Montanari, Marcello Sorgi e Serena Bortone - che salta dai balletti con Memo Remigi a Oggi è un altro giorno alle dotte disquisizioni sul Colle.
La "maratona Maggioni", dalle 14.02 alle 15.56 ha infatti ottenuto solo l'11.7% di share con 1.600.000 spettatori, distaccata nettamente dalla soap Una Vita con il suo 16.5% di share e 2.397.000 spettatori e rasa al suolo da Uomini e donne con i suoi 2.817.000 spettatori e il 21.3% di share.
A Enrico Mentana con lo Speciale TgLa7 non va meglio. In tutto il pomeriggio, Chicco racimola solo il 4.4% di share con 646.000 spettatori.
Oltre il danno, la beffa per il notiziario della Terza Rete. La Direttrice Simona Sala ospite nel suo Speciale Tg3 dedicato al Quirinale raccoglie il 6.0% con 723.000 spettatori, mentre - ospite poco dopo da Lilli Gruber - nel talk show della concorrente La7, si auto-surclassa ottenendo l'8.1% con 2.050.000 spettatori, peraltro andando contro il collega Gennaro Sangiuliano, Direttore del Tg2, che con Tg2 Post ottiene solo il 3.2% con 811.000 individui all'ascolto. Cosa ne pensa l'Amministratore Delegato Carlo Fuortes di queste ospitate dei direttori dei Tg Rai nei programmi della concorrenza... che peraltro battono quelli della Rai?
La preghiera del senatore: "Chiudere presto, arriva Sanremo". Concetto Vecchio su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
Capannelli. Vittorio Sgarbi re del Transatlantico, la faccia scura di La Russa, Galliani filosofeggia, Bossi fa previsioni su Salvini.
«Martedì comincia Sanremo», butta lì a sera Luca De Carlo, senatore veneto di Fratelli d’Italia. «Bisogna chiudere prima, gli italiani non capirebbero". Due Festival contemporaneamente sarebbero indigeribili.
Quando un giorno si racconterà dell’esplosione del centrodestra descrivere la faccia che aveva Ignazio La Russa mentre percorreva il Transatlantico dopo il flop Casellati sarà più indicativo di molti libri di storia.
Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 29 gennaio 2022.
«Martedì comincia Sanremo», butta lì a sera Luca De Carlo, senatore veneto di Fratelli d'Italia. «Bisogna chiudere prima, gli italiani non capirebbero». Due Festival contemporaneamente sarebbero indigeribili.
Quando un giorno si racconterà dell'esplosione del centrodestra, descrivere la faccia che aveva Ignazio La Russa mentre percorreva il Transatlantico dopo il flop Casellati sarà più indicativo di molti libri di storia.
Indovinare il numero dei franchi tiratori che avrebbero affondato Maria Elisabetta Casellati è stato lo sport preferito di ieri mattina. Ha vinto Osvaldo Napoli, l'eretico del centrodestra: «Prenderà 380 voti».
Adriano Galliani sta lasciando Montecitorio scuro in volto. «Nello sport chi vince festeggia, chi perde spiega. Ma io oggi preferisco non spiegare».
Claudio Durigon, quello che voleva intitolare il parco di Latina al fratello di Mussolini, si era detto entusiasta della candidatura Casellati: «È perfetta».
Quel che Umberto Bossi pensa di Salvini si capisce da questa dichiarazione: «Ora farà quel che gli dice Berlusconi, e sarà Mattarella bis».
Il vero personaggio del Transatlantico è Vittorio Sgarbi. Non è mai solo. Alto e basso in lui si fondono inestricabilmente. A un certo punto si mette a discutere del suo rapporto con la pornostar Milly D'Abbraccio. Il governatore campano De Luca lo guarda atterrito: «Ma ti rendi conto dove stai?». Sgarbi: «Tu sei gay vero?». De Luca: «Te pozzan accirere»
Il Colle della critica. Il Quirinale confina con Sanremo, qui rischiamo la diretta infinita. Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Gennaio 2022.
Già sfiancati dalle maratone televisive e da quelle su Twitter, prima ancora dell’inizio del Festival. Forse è il caso di eleggere Morandi per acclamazione, di regalare una prima serata al duo comico Mentana-Mastella e poi finalmente di cambiare canale.
E quindi, in questo venerdì che da tradizione sanremese è quello dei duetti, chi sono gli ospiti nel varietà Quirinale? È vero che Casini ha cambiato fidanzata scegliendone una più presentabile come first lady? (Se lo eleggono, questo oltraggio al capo dello Stato si autodistruggerà). E, se la progressione dei voti continua così (da 39 a 166 in tre giorni), vincerà Mattarella pur essendosi ritirato dalla gara? (Non credo fosse mai successo, in tanti gloriosi anni di repubblica sanremese).
E il premio della critica? Quello si prende nella serata dei duetti, lo sanno tutti: Sanremo non lo vinci (moralmente) con la canzone che porti in gara, lo vinci (moralmente, e a volte anche materialmente) con la cover che fai con l’ospite. Sanremo lo vinci quando l’elettorato fa la cosa che più ama fare: salire in piedi sul divano a squarciagolare canzoni note, le novità non interessano a nessuno (forse solo ai direttori delle filiali bancarie in cui hanno il conto i cantanti).
Quindi, il Quirinale sanremese si vince o si perde oggi. Mentre, là fuori, il quarto giorno sembra il quarantesimo. Certo che l’elezione di Pertini ne durò dieci, ma avete presente cosa sono dieci giorni di social compilati da gente che fino alla Zan non sapeva esistesse il voto segreto? Ieri, la generazione «nun sape mai nu cazz’» ha scoperto che – scandalo, indignazione, era pure donna ma non puoi mai fidarti – Elisabetta Belloni è la direttrice (la generazione in oggetto, non sapendo un cazzo e quindi neanche l’italiano, direbbe: direttora) del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Praticamente la Judi Dench di 007, la capa dei servizi segreti in Casinò Royale o in Skyfall.
Non si può mettere la capa dei servizi segreti a capo dello stato, cosa siamo, terzo mondo, si sa che il capo dello stato dev’essere all’oscuro dei fatti nostri e mica a fare il discorso di fine anno possiamo mandare qualcuno che abbia letto i miei WhatsApp, con tutte le cosacce che dico in privato, non vorrei me le rinfacciasse mentre sono davanti allo zampone con le lenticchie.
Quando passa di lì un adulto, e fa notare alla generazione nun sape mai nu cazz’ che in Italia i servizi segreti li comanda il presidente del consiglio, cioè un certo Mario Draghi alla cui elezione alla presidenza della repubblica essa generazione non ha mai obiettato se non nei ficcanti termini di «un altro maschio bianco etero», l’adulto viene accusato di cavillare. Se posso rubare la reazione proprio alla M di Bond: Cristo, come mi manca la guerra fredda.
Ma quindi chi vince, m’hanno chiesto l’altra sera alla radio. Se la tirano abbastanza in lungo – l’ho buttata in vacca come mio solito – a ottobre compio cinquant’anni, requisito anagrafico minimo per l’eleggibilità. Un brivido, e non era per l’ipotesi d’un mio discorso di fine anno, né per il mio tentativo di battere in mitomania i Mattei: Salvini, che va a citofonare a Cassese neanche fosse un abitante del Pilastro; e Renzi, che dice che Salvini c’è andato perché i cd di Cassese glieli ha imprestati lui dicendogli che aveva dei pezzi fortissimi (prego i renziani, assai più suscettibili per interposta fandom dei salviniani, di non insultarmi: l’appropriazione culturale renziana l’ha riportata su Twitter Stefano Cappellini di Repubblica, io come sempre ho copiato i compiti).
Era perché, per arrivare a ottobre, bisogna che questa elezione duri oltre lunedì. E, se non si risolve entro lunedì mattina, voi avete già capito cosa significa, e come me già tremate. Significa una sovrapposizione tra Quirinale e Ariston, i due edifici più istituzionali di questo povero paese.
Significa che alle abituali sette ore al giorno di tv (le cinque di concorso serale sanremese, e le due di relativa conferenza stampa: queste ultime imperdibilissime), il povero elettorato deve aggiungerne altre cinque di diretta di Mentana, minimo.
(Intermezzo. Ieri Mastella ha detto «Sono tifoso del Napoli, per me questa è Maradona Mentana». Mentana ha risposto: «Sono la parte viva». Non possiamo alzare un po’ il livello della tv dando una prima serata a questi due, al posto d’uno qualunque dei talk con pretese di serietà attualmente in onda?).
La temibile sovrapposizione, dicevo. La si potrebbe risolvere, non vorrei ripetermi, solo eleggendo martedì sera, in diretta dal festival, Gianni Morandi per acclamazione. Tra l’altro, io mi sentirei tranquillissima anche se leggesse i miei WhatsApp: che impressione vuoi che gli facciano, a Gianni che non si lascia spaventare neanche dai commentatori di Facebook. Ed è figura più unitaria di Casini, che alla terza dose di vaccino s’è instagrammato con una maglietta antiFortitudo che gli ha alienato mezza Bologna.
Oltretutto il peggio non è scongiurabile. E il peggio, lo sappiamo tutti, sono le domande dei giornalisti delle pagine degli spettacoli. Che si riesca a eleggere qualcuno oggi grazie ai duetti, o la settimana prossima in pieno festival, comunque ci toccherà un numero infinito di «Amadeus, puoi dirci cosa pensi del nuovo capo dello Stato?». Suggerirei al conduttore di Sanremo di rispondere «una figura di altissimo profilo»: potrebbe essere l’unica volta in cui non si offende nessuno. (Mi raccomando, Amadeus: se eleggono una donna, non dica niente sui passi indietro. Siamo una repubblica sfiancata dalle dirette televisive: anche la polemica sessista non ce la possiamo fare. Grazie, gentilissimo). Guia Soncini
Batosta Casellati, Matteo Salvini cerca una soluzione. Qualunque. La presidente del Senato prende solo 382 voti, almeno 70 franchi tiratori. Il leader della Lega apre a qualsiasi ipotesi: persino al trasloco di Draghi («non c’è un veto»), mentre in Transatlantico si parla anche di Mattarella (e Casini). Adesso il boccino è in mano all’uomo del Papeete, che sembra il più confuso di tutti. Susanna Turco su L'Espresso il 28 gennaio 2022.
Il verdetto dell’Aula è impietoso. Almeno 70 franchi tiratori affossano la candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati, proposta in mattinata dal centrodestra: la presidente del Senato si ferma a 382 preferenze, molto sotto i 452 Grandi elettori attribuibili al centrodestra, ma anche sotto l’asticella di 400, considerato informalmente il numero minimo per riproporre il suo nome.
«Una vera batosta», commenta prima di tutti il dem Emanuele Fiano, che esce dall’Aula sventolando il suo personale conteggio dei voti, prima della proclamazione ufficiale.
Flop Casellati, Tajani furibondo per i franchi tiratori. Un ex ministro azzurro: «Oggi è finita Forza Italia».Senza Berlusconi forzisti allo sbando. Un gruppo di senatori e deputati contro il coordinatore: «Ci ha mandato allo sbaraglio». La presidente del Senato chiama i ministri: «Tornate a votare il mio nome, la partita non è chiusa». Antonio Fraschilla su L'Espresso il 28 gennaio 2022.
La caccia ai franchi tiratori nel centrodestra è partita un secondo dopo il flop del nome di Elisabetta Casellati nella quinta votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica. E tutti hanno guardato solo in casa Forza Italia. «Non si fa così», ha urlato il coordinatore Antonio Tajani uscendo dalla stanza del gruppo parlamentare preso atto che i voti mancanti alla Casellati sono anche un atto di sfiducia interno alla sua guida del partito.
Questo sistema politico è in rovina. E la corsa al Quirinale lo ha dimostrato ancora una volta. L’elezione del presidente della Repubblica avviene nel vuoto di leadership dei partiti. L’unica preoccupazione dei Grandi Elettori è di non finire, guadagnare tempo, conservarsi. «E invece gli scatoloni li faremo noi» confessa un veterano. Marco Damilano su L'Espresso il 28 gennaio 2022.
«Per il lavoro che faccio sono sensibile alle case. E questa è la casa della democrazia, il Parlamento più bello del mondo. Non mi rassegno a quanto sto vedendo in questi giorni…», mi dice il senatore a vita Renzo Piano, mentre accompagna la collega Liliana Segre all’uscita. L’unico sprazzo di luce in giorni di buio. La sirena che ulula assordante per segnalare la votazione in corso, i volti coperti dalle mascherine blu, viola, tricolore, gli assembramenti umani che appaiono e scompaiono come ondate, i corpi incerti e traballanti.
"È più facile che una chioccia faccia un uovo che qua esca il Presidente della Repubblica".Mastella show tra l’uovo e l’attacco alla Lega: “Casellati stronzata incredibile, Salvini si dimetta da leader”. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.
Tra una fumata nera e l’altra, Clemente Mastella è sicuramente uno dei protagonisti dei giorni caldi per la politica italiana, divisa più che mai per l’elezione del 13esimo presidente della Repubblica. Il sindaco di Benevento è ormai ospite fisso, davanti a palazzo di Montecitorio, della maratona Mentana in onda su La7. Presente a Roma da lunedì scorso in veste di accompagnatore della moglie, la senatrice Sandra Lonardo, e in veste di leader del partito “Noi di centro” (che vanta un Grande Elettore, ovvero la Lonardo), l’ex ministro della Giustizia ne ha per tutti.
Fautore della candidatura del centrista Pier Ferdinando Casini, Mastella ha attaccato duramente Matteo Salvini per la candidatura, poi bruciata, della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati: “Se fallisce con Casellati Salvini si dimetta da leader” “A Berlusconi dico ‘Sta casa aspetta a tte!’. E’ un gigante rispetto al modo in cui si stanno comportando gli altri leader”.
Poi attacca il segretario della Lega: “Le prove di forza si fanno quando si ha la forza di mettere al tappeto l’avversario altrimenti mettere a repentaglio un’istituzione come il presidente del Senato è una stronzata incredibile. Se Salvini riesce a recuperare voti da altre parti allora è un grande leader altrimenti il leader diventa un altro – aggiunge – rispetto a questi Berlusconi è un gigante”.
Poi il siparietto durante la maratona Mentana dove Mastella si presenta “armato” di un uovo: “Bisogna anche un po’ sdrammatizzare perché se dovessi valutare quello che sta accadendo in Parlamento è veramente una ipoteca alla via dell’inferno della politica e dell’attività parlamentare”. Poi il sindaco tira fuori l’uovo e spiega: “Vede questo uovo? L’uovo di Colombo, in questo caso l’uovo di Mastella, quindi una tesi mia. È più facile che una chioccia faccia un uovo che qua esca il Presidente della Repubblica”.
Poi Mentana scherza: “Resti con noi che dobbiamo andare in pubblicità! Ci hanno detto: Mastella tira tantissimo, tenetelo perché con lui gli ascolti vanno alle stelle. Lei è per noi quello che Corona per la Berlinguer. Resti lì e poi stasera venga ospite qui da noi”.
VI E ULTIMO GIORNO DI VOTAZIONI
Matteo Renzi: «Casini mi fece sentire il suo discorso per l’elezione al Quirinale». Matteo Renzi su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.
Pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Matteo Renzi («Il mostro»), in uscita martedì
Pubblichiamo un estratto del libro di Matteo Renzi «Il mostro», in uscita martedì per Piemme.
«N ei primi giorni delle votazioni quirinalizie mi ero tenuto prudente. Come sempre in questi casi avevo più candidati. Dicevo a tutti che per la solidità delle istituzioni la cosa più logica mi sembrava spostare Mario Draghi al Quirinale e rinforzare il profilo politico del governo. Non era un passaggio facile. In molti lo temevano. Io pensavo che Draghi per sette anni avrebbe fatto meglio al Paese di un solo anno a Palazzo Chigi.
Certo: la sua corsa aveva alcuni handicap. E ovviamente tra questi figurava la resistenza molto forte di Cinque Stelle, Forza Italia e Lega. Penso, però, che tale ostilità si sarebbe potuta tramutare in appoggio — perlomeno a destra — se solo Draghi avesse scelto di giocarsi le carte in modo diverso. Più che Draghi, direi i suoi più stretti collaboratori. Draghi infatti è sempre stato straordinariamente signorile. Ha sempre dato la sua disponibilità davvero come «un nonno al servizio delle istituzioni». Avrebbe sicuramente fatto bene al Quirinale e sicuramente farà bene a Palazzo Chigi in questo anno. Non ha brigato. E io posso dire di esserne testimone avendo fatto qualche incontro e telefonata con lui fin dagli anni in cui era alla Bce.
Temo, però, che i suoi collaboratori più stretti — soprattutto Francesco Giavazzi e Antonio Funiciello — abbiano costruito una strategia sbagliata. L’errore dei Draghi’s Boys è stato quello di pensare di arrivare al Quirinale contro la politica, come reazione alla difficoltà della politica. Pensavano di essere chiamati al Quirinale come una sorta di naturale soluzione se si fosse continuata a indebolire la componente politica. Io avevo spiegato invece che la strada maestra era l’altra: provare a offrire ai partiti un patto di legislatura, comprensivo dell’accordo di un nuovo governo, magari più marcatamente politico. E su questo anche Salvini aveva — bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare — aperto ufficialmente a inizio gennaio. Non tanto Draghi, ma i suoi hanno insistito per caratterizzare il premier come la soluzione da presentare contro l’inconcludenza dei partiti. È la dimostrazione che si può essere bravi professori all’università, ma che il Parlamento è un’altra cosa. In Italia se vai contro ai partiti puoi arrivare ovunque tranne che al Colle: per come è fatto questo sistema istituzionale, con l’assemblea dei grandi elettori, non si diventa presidente della Repubblica contro i partiti. Mi è parso che Draghi lo avesse molto chiaro nei nostri incontri di gennaio tra Città della Pieve e Roma, ma che i suoi due principali collaboratori non lo abbiano capito per niente. Segno evidente che a Palazzo Chigi, oggi, il più politico di tutti è proprio il premier.
Peccato perché questa incapacità di leggere la politica dei tecnici draghiani ha impedito una soluzione che poteva essere difficile da costruire, ma molto utile per il Paese. Chi per qualche ora ha assaporato l’elezione è stato Pier Ferdinando Casini, il decano dei parlamentari, un moderato apprezzato in tutti gli schieramenti. Ma alla fine — questa è la verità — non è stato voluto da Salvini e dalla Lega, nonostante il placet che da Forza Italia al Pd era arrivato in modo più o meno esplicito. Sono testimone del fatto che Casini ha vissuto come sull’ottovolante quelle ore, ma sempre con una tenuta di nervi e un rispetto istituzionale che lo qualificano per quello che è, un galantuomo, e che fanno immaginare che avrebbe servito benissimo il Paese alla presidenza della Repubblica come lo aveva già fatto alla presidenza della Camera.
Quando ho capito che era tutto finito, ho chiamato Casini e gli ho offerto una pizza e una buona bottiglia di champagne a casa mia a Roma, con un nostro comune amico. Doveva essere la cena della condivisione della sconfitta perché io so per esperienza diretta che quando si vince sono tutti lì e quando si perde si è da soli. Così il giovedì sera chiamo Pier e condivido una buona bevuta scherzando e prendendoci un po’ in giro. Mi fa sentire il finale del primo discorso che avrebbe pronunciato a sedute riunite: bellissimo, con una citazione toccante di papa Giovanni Paolo II.
«Bel lavoro, tienilo per il 2029» gli dico scherzando. Lui mi manda a stendere: «Me lo hai già detto sette anni fa». E ovviamente ci ridiamo sopra come fanno due professionisti che sanno che in politica le cose non vanno quasi mai come vorremmo. Verso le 23, ennesimo colpo di scena: telefonata dal quartier generale Lega-Forza Italia, Casini torna in pista. Berlusconi e Salvini sembrano pronti a sostenerlo. La cena della sconfitta finisce lì. Gli dico: «Amico mio, se perdi io ci sono. Ma ora che rischi di vincere, io non servo più». E ci salutiamo allegri. La mattina dopo ennesima doccia fredda: Salvini torna a flirtare con Conte, stavolta sulla Belloni, Casini ripone la citazione di Giovanni Paolo II nel cassetto, l’Italia continua ad aspettare...»
Pierferdinando Casini "commosso al telefono con Berlusconi": Quirinale, indiscrezioni toccanti. Libero Quotidiano il 28 gennaio 2022.
Gira una voce:la zampata di Silvio Berlusconi per Pier Ferdinando Casini. Mentre Gianfranco Miccichè, grande elettore e coordinatore di Forza Italia in Sicilia, chiede al Cav di fare subito un appello pubblico in favore del Mattarella bis, subito dopo il flop di Elisabetta Casellati, gira voce di un caloroso e clamoroso riavvicinamento tra i due ex alleati, divisi da tanti anni anche da un "cordiale" gelo. Stando a numerosi retroscena incrociati, Berlusconi avrebbe dimostrato in queste settimane la propria contrarietà alla candidatura al Quirinale di Pierferdy, bollato senza mezze misura come "traditore". Ma ora qualcosa starebbe cambiando.
Il disastro Casellati, che i franchi tiratori del centrodestra hanno fatto fermare a 382 voti, ben lontani dalla soglia minima dei 441 voti attribuiti (per difetto) alla stessa coalizione, impone ora a Salvini. Meloni e Tajani la scelta di altri nomi su cui convergere. Non per la sesta votazione (il centrodestra non ritirerà la scheda) ma per sabato mattina, quando andrà in scena la settima tornata. E non è da escludere il colpo di scena firmato Cav. Berlusconi potrebbe fare "un appello secco dall'ospedale, per Casini", scrive Aldo Cazzullo nella sua diretta da Montecitorio perCorriere.it. Proprio con lui l'ex premier ieri avrebbe avutouna emozionate telefonata(andata bene, a differenza di quella con Mario Draghi) e il quirinabile Pierferdy "si è pure commosso. B sta lavorando per lui, anche se come extrema ratio non esclude Mattarella".
(ANSA il 29 gennaio 2022) - "L'Italia non può ulteriormente essere logorata da chi antepone le proprie ambizioni personali al bene del paese. Certamente io non voglio essere tra questi.
Chiedo al Parlamento, di cui ho sempre difeso la centralità, di togliere il mio nome da ogni discussione e di chiedere al presidente della Repubblica Mattarella la disponibilità a continuare il suo mandato nell'interesse del paese". Così Pier Ferdinando Casini, intercettato dall'ANSA.
Marco Zini per tag43.it il 30 gennaio 2022.
C’è rimasto male Pier Ferdinando Casini, e con gli amici più fidati non ha mancato di esprimere tutta la sua amarezza.
Quando il suo nome era ancora in corsa per prendere il posto di Sergio Mattarella, tra i più acerrimi nemici della sua candidatura non c’erano solo leghisti e pentastellati, che in lui vedono un emblema della Prima repubblica, ma niente meno che Mario Draghi.
Il premier infatti avrebbe fatto sapere che in caso di elezione del pupillo di Arnaldo Forlani, recordman di presenza in Parlamento con quasi 40 anni, un minuto dopo lui si sarebbe dimesso.
Evidentemente Draghi, che non aveva certo fatto mistero che al Quirinale avrebbe voluto andarci lui, mal avrebbe sopportato che la spuntasse qualcuno che non fosse Mattarella, la cui riconferma non suona certo come una sua diminutio.
Tant’è che a un certo punto il premier, un po’ per sbloccare l’impasse in cui si erano infilati i partiti, un po’ per evitare sorprese, ha preso lui l’iniziativa facendo da mediatore tra i partiti e il Colle.
La cosa ha fatto molto arrabbiare Casini, protagonista a un certo punto di una auto rinuncia alla corsa che gli è valsa simpatie politiche trasversali.
Così l’ex presidente della Camera non ha perfidamente mancato di raccontare che, quando nel 2017 fu eletto presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulle banche Draghi, allora governatore della Bce, gli aveva reiteratamente manifestato non solo stima e vicinanza, ma anche un certo interesse a conoscere i dossier su cui la Commissione avrebbe indagato.
Come governatore della Banca d’Italia infatti (il suo mandato iniziò nel 2006 entrando a via Nazionale al posto di Antonio Fazio), Draghi dette semaforo verde a quelle che restano le due fusioni bancarie italiane più importanti: quella tra Sanpaolo e Banca Intesa, e successivamente il matrimonio tra Unicredit e Capitalia.
Nonché ad altre operazioni altrettanto importanti tra cui l’aggregazione della Popolare di Novara e Verona con quella di Lodi. Per Casini dunque il diktat del presidente del Consiglio sulla sua figura è arrivato come un fulmine a ciel sereno.
Solo la sua proverbiale filosofia democristiana, quella che sin qui gli ha assicurato una lunga carriera politica anche dopo la scomparsa della Dc, gli ha fatto superare il dispiacere magari rammentando la vecchia massima di Giulio Andreotti il quale di fronte ai molti voltafaccia di amici e sodali di partito, ricordava sempre come la gratitudine fosse il sentimento del giorno prima.
L’eterno ritorno (e il ruolo decisivo) dei tanti ex Dc. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2022.
Da Casini, in corsa, agli strateghi delle coalizioni: «È un’ossatura antica e risolutiva»
L’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, 66 anni, si è formato nella Dc. Eccolo in una foto del 1987
Il dubbio di un amico: «No, scusa: ma hai provato a contarli?». Democristiani. Quanti. E tutti in ruoli decisivi. Sfogliare la Moleskine, rileggere gli appunti con dentro la storia della seconda elezione di Sergio Mattarella a capo dello Stato: trovarli. Il primo che spunta fuori è anche quello che, per qualche ora, sabato mattina, ha seriamente creduto di poter trascorrere i prossimi sette anni al Quirinale. Pier Ferdinando Casini . Esemplare magnifico.
Figlio del segretario bolognese dello scudocrociato, cresciuto nella grande Sagrestia nazionale, lanciato alla Camera a soli 27 anni: poi una vita trascorsa un po’ nel centrosinistra, un po’ nel centrodestra. Talento, più astuzia: seduttore politico seriale — il Cavaliere tuonò: «Casini Presidente? Mai! È uno che tradisce» — in realtà fedele solo al proprio passato, al punto di abitare in piazza del Gesù, di fronte al vecchio palazzo rococò che fu la sede storica della Dc.
Casini: nella paginetta successiva ecco subito il suo sponsor, Matteo Renzi (in calzoncini corti con i boy scout cattolici e, appena maggiorenne, iscritto al Partito Popolare Italiano). Il Matteo che in Parlamento sa cosa fare, e come, e quando — l’altro Matteo, vabbé — per poco non riusciva nel colpaccio: sabato, all’alba, ha infatti suggerito a Pierfurby (cit. Dagospia): «Cercati subito più voti possibili, forse ci siamo». Così Casini ha cominciato l’attraversamento pastorale del Transatlantico blandendo chiunque. «Fratello, aiuta il tuo amico viandante...».
Lo sguardo da vescovo, una carezza e un pizzicotto, ha risalito l’emiciclo arrivando fino ai banchi leghisti. Molinari e Centinaio lo guardavano incantati. Graziano Delrio, osservando da lontano, avrà invece pensato: Signore, perdonalo, Pier non sa quello che fa (Enrico Letta — presidente dei Giovani Democristiani Europei tra il 1991 e il 1995 — aveva ormai stabilito che si dovesse andare decisi su Mattarella). Delrio milita nel Pd, ma è cresciuto in una parrocchia della periferia di Rosta Vecchia in Reggio Emilia, partite di pallone interminabili e solide lezioni di cattolicesimo democratico dossettiano. Poi è comunque chiaro che i democristiani, tra di loro, si riconoscono a prescindere dagli studi (anche gli ex Pci, in verità). Il vicepresidente della Camera Ettore Rosato (Iv), per dire, viene dalla dicì triestina; il ministro Lorenzo Guerini (Pd) faceva invece il consigliere comunale a Lodi (con il padre comunista in un’epoca in cui girava voce che i comunisti mangiassero i bambini, pensate): alla fine, per capire da quale vigna ideologica provengano, ti basta parlarci cinque minuti.
Con Dario Franceschini, ne basta anche uno. Sentite cosa si è fatto scrivere il potente ministro della Cultura su Wikipedia: «Le figure carismatiche che fin dalla giovinezza suscitano la sua attenzione sono, fra le altre, Benigno Zaccagnini e don Primo Mazzolari». Riflette su Twitter un osservatore acuto come Claudio Velardi: «L’antica ossatura democristiana del sistema ha risolto bene una situazione di crisi, lungo l’asse @enricoletta @guerinilorenzo @matteorenzi, con @dariofrance sullo sfondo. Le altre culture politiche sono marginali e ininfluenti». C’è poco da aggiungere. Del resto: anche solo per capire dove stessero andando certi cespugliosi centristi, da quelli di Coraggio Italia (Toti, Romani, Brugnaro, Quagliariello) a quelli del gruppone Misto, i cronisti hanno sempre chiesto un po’ di luce a Maurizio Lupi (molti di loro, quando Lupi faceva il consigliere comunale per la Dc a Milano, occupavano il proprio liceo, in assemblea sotto i manifesti del Che: ma adesso gli tocca sorbirsi la voce lucida e rassicurante di Lupi, ormai sempre più simile a un volontario di certi corsi pre-matrimoniali che si tengono nelle parrocchie). Proprio come un parroco di provincia, con lo sciarpone stretto al collo, lo zuccotto nero, nero come il cappotto, e la sua aria curiale, pallida, ogni mattina tutti abbiamo invece visto venir su per via degli Uffici del Vicario Bruno Tabacci. Per capire che atmosfera ci fosse a Palazzo Chigi, e quale fosse l’umore di Mario Draghi, bisognava confessarsi da lui.
Democristiani. Ovunque. E necessari. Come Gianfranco Rotondi (uno che da ragazzo invece di andarsi a vedere l’Avellino di Juary, andava ad ascoltare i comizi di Forlani) consultato a lungo tipo mago Otelma per intuire quali fossero le reali intenzioni del Cavaliere. Democristiani in diretta nei migliori talk. Ospiti fissi Clemente Mastella e Paolo Cirino Pomicino che, a 82 anni, è vera leggenda vivente scudocrociata (Paolo Sorrentino, nel film Il Divo, cioè Giulio Andreotti, a Pomicino/Carlo Buccirosso fa prendere una lunga rincorsa nel Transatlantico, chiusa con una scivolata pazzesca; mai avvenuta nella realtà, però perfetta per spiegare tutta la dimensione di onirico micidiale potere dicì). Un democristiano di rango assoluto come Marco Follini ha scritto su La Stampa: «Non invocate il nome della Dc invano». No, infatti. Però qualcuno — più per scaramanzia, che per altro — è andato a rileggersi il titolo che fece il Manifesto nel 1983: «Non moriremo democristiani».
Paolo Cirino Pomicino,'' scherzoso napoletano'', per Dagospia il 31 gennaio 2022.
Sembra che Palazzo Montecitorio abbia allestito un ospedale da campo dopo la trionfale giornata di sabato durante la quale è stato rieletto, a furor di peones, Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. L’intero gruppo dirigente dei partiti ha avuto bisogno di cure immediate.
Il più grave è subito apparso Matteo Salvini ricoverato d’urgenza in una piccola terapia intensiva allestita nella prima infermeria al lato sinistro dell’aula. Era la sua grande occasione dopo il ritiro della candidatura di Berlusconi. Doveva dimostrare a sé stesso e a tutti la sua grande capacità di guida della coalizione di centro-destra. E’ caduto subito nella trappola della sinistra che, riconoscendogli il ruolo di maggioranza relativa, gli ha sollecitato nomi di uomini e donne.
Il povero Matteo ne ha sfornato sfusi e a pacchetti esponendo persone di qualità alle puntuali bocciature del campo di Agramante. Gettò nella mischia anche il Presidente del Senato nel tentativo di mostrare la forza delle proprie falangi. E fu un altro disastro. Ebbe disordini motori con mobilità disordinata entrando e uscendo dal Palazzo, dichiarando e proponendo di tutto e di più salvo poi arrendersi al democristiano Mattarella in odio al democristiano Casini.
L’incubo dei democristiani lo aveva sfinito. Intanto Giorgia, la sua maggiore alleata, dopo un tentativo di blitz ripristinando l’asse sovranista Conte-Salvini-Fratelli d’Italia subito bocciato dagli altri, ebbe una crisi di nervi urlando e minacciando il povero Matteo già sottoposto a cure urgenti in terapia intensiva.
Ma se Sparta piangeva Atene non rideva. Mentre Luigi Di Maio, nell’ombra, riceveva diversi candidati sottotraccia dando a tutti rassicurazioni a cominciare da Mario Draghi, Giuseppe Conte aveva crisi allucinatorie continue per cui le 5 stelle erano diventate 55 e faceva accordi con tutti mentre girava per il palazzo cantando “ Io cerco la Titina, la cerco e l’ho trovata” nel tentativo di candidare una donna.
Dopo una notte piena di incontri fu anche lui ricoverato nell’ospedale da campo dentro Montecitorio pur non essendo parlamentare. Nel frattempo Enrico Letta, frastornato e confuso, abbracciò, cercando serenità, finanche l’odiato amico Matteo Renzi mentre nella notte tra venerdì e sabato, tentando di trovare il bandolo della matassa, ebbero una allucinazione collettiva e videro una folla di parlamentari, deputati e senatori, marciare in fila per quattro issando manifesti con l’effige di Sergio Mattarella.
Tentarono di scappare da quelle allucinazioni ma inciamparono e finirono anche loro nell’infermeria con contusioni multiple mentre l’aula di Montecitorio votava compatta Sergio Mattarella insieme al suo paggetto, Carlo Nordio anonimo veneziano tanto caro alla svenuta Meloni.
Mentre lo staff medico era impegnato a soccorrere i capi politici di una sistema franato arrivò una telefonata da Palazzo Chigi “il premier Mario Draghi ha grandi vertigini e vomito, avete un posto o un medico da mandarci?”. “Mettetelo steso e lasciatelo per un’ora immobile e vediamo se passa”, fu il consiglio del Capo staff medico di Montecitorio, “e se le vertigini aumentano dategli una spremuta di arance siciliane, quelle belle grandi e sanguigne”.
E così fecero. Cinque ore dopo tutti si sentivano un po' meglio. Draghi si era già messo seduto, Letta e Conte zoppicavano ma camminavano lentamente mentre Salvini rimaneva con prognosi riservata. La grande armata politica che pensava di guidare il Paese verso nuovi lidi in soli 6 giorni e 5 notti fu sconfitta dall’onda lunga dell’eternità democristiana. Paolo Cirino Pomicino,
Federico Novella per “La Verità” l'1 febbraio 2022.
Giuseppe Cruciani, habemus Papam: dopo giorni di stallo, intrighi, accoltellamenti, tradimenti, sotterfugi, siamo atterrati al punto di partenza. Mattarella bis. Tutti si affrettano a celebrare il presidente per aver accettato con «sacrificio» il secondo mandato. Prime impressioni?
«Io rifiuto l'idea del "salvatore della patria". Non ho nulla contro Mattarella, però si è fatta passare l'idea che senza di lui saremmo caduti nell'abisso. Detto alla sicula, una minchiata».
Ma come, eravamo drammaticamente sul ciglio del burrone. Lo stallo alla messicana, la paventata paralisi delle istituzioni
«Guarda, la teoria apocalittica sulla presidenza della Repubblica mi fa semplicemente ridere. La stragrande maggioranza di quelli che hanno votato Mattarella non hanno pensato alla cosiddetta "stabilità", ma solo alla cadrega».
Con altre figure al Quirinale, la stabilità sarebbe stata in pericolo: o no?
«No, fosse salita al Colle la Casellati non sarebbe cambiato un bel niente. Cosa mai doveva succedere? È una pura questione di occupazione di potere. E mi fa ridere anche la dottrina del "fate presto"».
Cioè?
«È ridicolo che gli opinionisti televisivi, che peraltro vivono e ricamano sul caos, si siano indignati perché il Parlamento si è preso sette giorni per decidere. Sette giorni per stabilire chi va al Quirinale per sette anni, non mi sembrano tantissimi. Insomma, non c'era nessuna emergenza».
«Non era nei miei piani», ha detto il presidente riconfermato.
«Mattarella esercita un potere felpato, senza intervenire troppo nemmeno sui fascicoli più scottanti. Nemmeno, per capirsi, sul Csm delegittimato dagli scandali, o sulle storture dei provvedimenti anti Covid.
È in sostanza un potere invisibile, per questo piace ai parlamentari. Detto questo, l'elezione del presidente non sposta una lira nelle tasche degli italiani. Assistiamo al teatrino parlamentare, ci indigniamo un po', e torniamo ai nostri problemi. E la vita continua».
Ammetterai che abbiamo assistito, di fatto, alla resa della politica?
«Certo. Il centrodestra, o quello che ne rimane, avrebbe fatto meglio a fare un'operazione semplicissima. Anziché intestardirsi su un proprio candidato, dovevano sparigliare. Proporre un Rutelli, un Gentiloni, un Veltroni agli avversari, intestandosi l'idea».
Addirittura?
«Avrebbero fatto una grande figura, e la sinistra non avrebbe potuto rifiutare. Il centrodestra vincente alle elezioni politiche sarebbe stato comunque garantito. Dopo il voto, una presidenza scelta in questa maniera non avrebbe potuto negare loro il governo.
Ma insomma, è andata diversamente: capisco che c'erano altri obiettivi, tipo prolungare la legislatura e proteggere i vitalizi».
Ci aspettano il proporzionale e il «grande centro»?
«Non lo so. Non mi pare che Letta sia un grande fan del proporzionale. È vero che il centrodestra oggi è a pezzi. Ma questo è solo ciò che vediamo oggi: tra un anno chi lo sa».
E i 5 stelle?
«Scomparsi dai radar. Evaporati. Il tweet di Beppe Grillo che annuncia la quasi elezione di Elisabetta Belloni è la perfetta dimostrazione che questi qua non contano più nulla».
Visto il fallimento del Parlamento in seduta comune, cresce ancora la spinta verso una riforma costituzionale. Ci sono serie possibilità di eleggere il prossimo presidente attraverso un voto diretto degli italiani?
«Magari, ma non succederà mai. Secondo te i politici italiani affidano al popolo la scelta di uno degli strumenti di potere più grandi, cioè il Quirinale? Il presidente della Repubblica, soprattutto nei momenti di crisi politica, ha poteri sostanziali e spesso decisivi.
In più controlla le forze armate e presiede la magistratura. Ce la vedete la classe politica che rinuncia a un posto così cruciale per cedere la responsabilità agli italiani? Impossibile. Sarebbe un'impresa titanica».
Draghi è stato in campo fino all'ultimo, ma la candidatura non è mai decollata. Impossibile proiettarsi al Colle senza coltivare rapporti con i partiti. Il premier ha commesso degli errori?
«Voleva attraversare la palude della politica senza sporcarsi delle scarpe. Prima si è chiamato fuori, poi ha fatto una conferenza stampa sottraendosi alle domande sul Quirinale: sostanzialmente era un'autocandidatura. Quando ti comporti così, di solito ti bruci».
Dicono che, con la sconfitta della politica, Draghi andrà avanti senza pietà sulle riforme. Soprattutto quelle più scomode. Insomma basta compromessi: da oggi regnerà la tecnocrazia ancor più di ieri?
«Non credo. Se Draghi vuole andare giù dritto, va comunque a sbattere contro i gruppi parlamentari in fibrillazione. Siamo già in campagna elettorale, è tutto più difficile. Non a caso il premier voleva fuggire al Quirinale».
La riconferma di Mattarella è il trionfo dell'assetto tecnico-politico fondato sull'emergenza perpetua?
«Non a caso il più felice di tutti, per il Mattarella bis, è il ministro Speranza. Si è precipitato a manifestare la sua gioia senza perdere un attimo. Non è strano, che la sinistra interna sia quella più soddisfatta per l'elezione di un democristiano?».
Insomma, ha vinto la linea della gestione sanitaria restrittiva?
«Sì, anche se poi dubito che con un'altra figura al Quirinale sarebbe cambiato molto. Sarà forse la realtà dei fatti, presto, a farci uscire da questa bolla psicologica. Quella di essere l'unico Paese che aggiunge restrizioni, mentre gli altri le smantellano».
Presto arriverà il green pass senza scadenza, per i vaccinati con tre dosi.
«Appunto. Noi confermiamo il green pass, mentre gli altri lo tolgono. Aumentiamo la dose. Ci droghiamo di green pass. Andiamo in overdose di green pass mentre nel resto d'Europa cercano, diciamo così, di disintossicarsi».
Da domani parte la stretta anti Covid. Servirà il certificato verde per accedere alle poste e in banca. E all'orizzonte s' intravede la deadline sui luoghi di lavoro: dal 15 febbraio chi non ha il green pass non incassa stipendio. Ti aspetti altre limitazioni?
«Siamo al paradosso per cui non puoi neanche andare a ritirare la pensione senza il lasciapassare. Ripeto, succede solo da noi. È un'incredibile lesione della libertà individuale. E tutto senza risultati concreti in termini di contagi. Del resto il governo è fermo da Natale: la restrizione è l'unica forma di attività politica. Di più: un metodo di governo».
Cioè?
«Pensiamoci un attimo. A parte il fumoso Pnrr, qual è l'unica ragione di esistere di questo governo? L'emergenza sanitaria e la sua gestione. È l'unico fondamento di questo governo».
Questo spiegherebbe il protrarsi dell'emergenza?
«Sì, e inoltre questo spiega perché, mentre negli Usa e in Spagna i tribunali supremi bocciano i provvedimenti restrittivi estremi, da noi invece si accetta tutto. L'establishment, ben rappresentato al vertice dall'asse Mattarella-Draghi, funziona magnificamente».
In tutto questo, resiste un pesante giudizio morale contro i no green pass e i no vax?
«Io non sono il portavoce dei no vax, ma faccio notare che i non vaccinati esistono in tutte le società occidentali. Peraltro sono molto più numerosi all'estero che non in Italia. Non possiamo immaginare il 100% di popolazione vaccinata, per giunta con più dosi. Alcuni diritti fondamentali di milioni di italiani sono stati compressi perché considerati pericolosi per la salute pubblica: con il 90% di vaccinati, è un'aberrazione».
Dunque?
«Dunque non possiamo neanche utilizzare i no vax come capro espiatorio per salvare la faccia a chi non sa più cosa dire. Mi sorprende che la sinistra, sempre attenta ai diritti delle minoranze, oggi sposi a occhi chiusi questa sorta di pensiero unico».
Insomma, è anche banalmente una questione di interessi politici?
«Se un governo di centrodestra avesse preso gli stessi provvedimenti, sarebbero scesi in piazza sindacati, Partito democratico e sinistra assortita contro il golpe strisciante e la democrazia in pericolo».
Alcuni virologi sembra quasi si stiano riposizionando sull'utilità del green pass, o sull'opportunità delle cure domiciliari. Esistono i voltagabbana anche nel mondo scientifico?
«Nei talk show si dice di tutto, regnano l'esibizionismo e la legittima vanità, e lo dico facendo parte di quel mondo. Una volta che le restrizioni sono diventate insopportabili anche per i vaccinati, che ne vedono l'inutilità, certi esperti perennemente in tv si stanno riallineando con l'opinione pubblica. Ne percepiscono la stanchezza. In un certo senso, anche i virologi sono diventati esperti di comunicazione. Era inevitabile finisse così».
Quirinale, il retroscena: Mario Draghi pronto a dimettersi se fosse passato Casini. Perché ora il premier non avrà pietà. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022
Sergio Mattarella confermato obtorto collo al Quirinale col voto di 759 grandi elettori su 1.009 (l’altra volta furono 665) e determinato a restare lassù altri sette anni, che significherebbe scavalcare l'intera prossima legislatura. Mario Draghi inchiodato alla presidenza del consiglio, dalla quale, racconta chi ha vissuto al telefono la notte tra venerdì e sabato, è stato a un passo dal dimettersi: cosa che probabilmente avrebbe fatto se fosse stato eletto Pier Ferdinando Casini. La vittoria - l'ennesima - del dipartimento di Stato americano, della Conferenza episcopale italiana e di tutti quegli "ambienti" che da mesi puntavano sul mantenimento dello status quo. E adesso? Adesso, avverte chi nelle segreterie dei partiti ha tenuto i contatti col premier, inizia il governo Draghi, quello vero. Che non è l'esecutivo visto sinora, gestito con abbondante ricorso ai compromessi dall'ex presidente della Bce che sperava di succedere a Mattarella e si era obbligato a trovare un modus vivendi con i politici. Ma quello guidato da un tecnico che ha appena ricevuto dai partiti il grande rifiuto della sua vita e quindi non ha più nulla da chiedere ai loro segretari; semmai, ha qualcosa da dimostrare alle cancellerie europee e alle istituzioni internazionali, visto che ora ambisce a diventare presidente del Consiglio europeo o della Commissione Ue, due incarichi che saranno disponibili nel 2024.
IL PNRR (E NON SOLO)
Cosa significhi questa nuova fase, lo ha spiegato Draghi stesso ai suoi interlocutori politici, mentre trattava con loro sui possibili (e non realizzati) "sviluppi istituzionali". Chi lo ha ascoltato, la riassume così: «Una riforma a settimana, senza guardare in faccia a nessuno». Regole scritte con i parametri del tecnico puro e non più di quello "prestato alla politica". Se non è il prezzo da pagare per non averlo eletto presidente della repubblica, gli assomiglia molto. Non c'è bisogno di inventarsi nulla di nuovo, sono interventi dei quali si discute da tempo, molti dei quali previsti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza concordato con Bruxelles. Sinora, però, c'è stato un margine di "interpretazione" che ha consentito a Draghi una coabitazione tutto sommato pacifica con i partiti: dovendo scegliere tra la coerenza e la convivenza, il premier spesso ha sacrificato la prima sull'altare della seconda. Non sarà più così. Sulle concessioni demaniali marittime, ad esempio.
Da mesi balla la questione della legge che dovrebbe riassegnarle mediante gare pubbliche: non è stata fatta perché Forza Italia, Lega e Pd si sono opposti. «Dobbiamo prepararci», avvertiva ieri sera un esponente forzista che ha a cuore la pratica, «Draghi ora non avrà più motivi per usare il guanto di velluto». Discorso simile per la liberalizzazione delle licenze degli ambulanti: la legge sulla concorrenza varata nel 2021 non interviene sulla questione, ma nessuno si illude più che l'argomento sia ignorato pure nella prossima. Fuori dal perimetro del Pnrr c'è la riforma delle pensioni, con il superamento della legge Fornero: tutta ancora da scrivere. Draghi aveva ipotizzato il ricalcolo integralmente contributivo dell'assegno, secondo il criterio per cui «ognuno prende quanto ha versato»: significherebbe una pensione più bassa per chi lascerà il lavoro nei prossimi anni. L'idea, però, era rimasta lì, sospesa, in attesa di capire come sarebbe finita la partita per il Colle: ora che il risultato è noto, è chiaro pure quello che ci si dovrà aspettare. Sulla riforma del catasto e la conseguente revisione degli estimi è stata approvata una legge delega che, a seconda di come sarà usata dall'esecutivo, potrà portare o meno a quell'aggravio della pressione fiscale sugli immobili che le autorità europee chiedono da tempo. Draghi si era mostrato cauto per ragioni politiche, evaporate ieri sera. Temono anche i Cinque Stelle: il premier sino ad oggi ha tollerato il reddito di cittadinanza, limitandosi ad un ritocchino, perché così pretendevano loro, primo partito della coalizione; uno scrupolo che adesso può abbandonare.
ASPETTANDO LE ELEZIONI
Se qualche partito non lo seguirà e minaccerà di levargli la fiducia, il presidente del consiglio non se ne farà un cruccio: il casolare di Città della Pieve, a un'ora e tre quarti da Roma, è lì che lo attende. Spetterà a chi avrà provocato la crisi spiegare perché gli interessi sui titoli di Stato italiani sono decollati in una notte, o perché qualche tranche di soldi del Pnrr (tutte legate al raggiungimento di determinati obiettivi, anche intermedi) è stata bloccata, in attesa di chiarimenti. Anche così, con l'avvio di questa "Fase 2" nel momento peggiore per i partiti, a un anno dalle elezioni politiche, si spiegano le voci di «rimpasto» che sono girate ieri e i segnali inviati da Giancarlo Giorgetti: stretto tra Draghi e Matteo Salvini e sapendo ciò che attende il governo, il ministro dello Sviluppo ha già fatto capire di essere pronto a lasciare l'incarico. Un "kindergarten" nel quale i partiti siano liberi di sfogarsi, Draghi lo ha comunque previsto: è quello delle leggi sulle questioni etiche e sui diritti civili, come il ddl Zan che tornerà di moda tra tre mesi, e della riforma della legge elettorale. Se Pd, Lega, M5S e gli altri la preferiscono proporzionale, si accomodino pure: non è materia di governo e sarebbe il giusto omaggio allo sfascio dei partiti e delle coalizioni che si è visto in questi giorni.
Mario Draghi, perché non voleva Casini al Colle? Dossier e banche, indiscrezioni-terremoto. Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022
Il nome di Pier Ferdinando Casini come candidato al Quirinale è rimasto in bilico per diversi giorni. Pare che a mettersi di traverso sia stato, tra gli altri, anche Mario Draghi. Lo rivela Marco Zini su Tag43: "Il premier avrebbe fatto sapere che in caso di elezione del pupillo di Arnaldo Forlani, recordman di presenza in Parlamento con quasi 40 anni, un minuto dopo lui si sarebbe dimesso". Quali i motivi? Probabilmente il desiderio del premier di approdare lui al Quirinale.
La mossa del premier non sarebbe piaciuta a Casini. Ecco perché, continua Tag43, l'ex presidente della Camera "non ha perfidamente mancato di raccontare che, quando nel 2017 fu eletto presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, Draghi, allora governatore della Bce, gli aveva reiteratamente manifestato non solo stima e vicinanza, ma anche un certo interesse a conoscere i dossier su cui la Commissione avrebbe indagato".
Per Casini, insomma, il presunto no di Draghi alla sua candidatura sarebbe arrivato come un fulmine a ciel sereno. A tal proposito Zini scrive: "Solo la sua proverbiale filosofia democristiana, quella che sin qui gli ha assicurato una lunga carriera politica anche dopo la scomparsa della Dc, gli ha fatto superare il dispiacere, magari rammentando la vecchia massima di Giulio Andreotti, il quale di fronte ai molti voltafaccia di amici e sodali di partito, ricordava sempre come la gratitudine fosse il sentimento del giorno prima".
Elezione presidente della Repubblica, nell'ottava votazione il Parlamento sceglie Mattarella. Draghi: "Splendida notizia per gli italiani". Valeria Forgnone e Laura Mari su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
Per il bis 759 voti. In Aula applauso di 4 minuti. Il giuramento del Capo dello Stato il 3 febbraio alle 15.30. Papa Francesco: "Auguri per alto compito accettato con disponibilità". Letta: "E' vittoria di tutti". Conte: "Abbiamo un presidente garante". Salvini e Giorgetti aprono il fronte sul governo: "Sull'esecutivo lunedì faremo la nostra proposta". Meloni: "Bisogna rifondare il centrodestra".
Il Parlamento ha scelto: Sergio Mattarella è di nuovo presidente della Repubblica. La proclamazione è stata fatta dal presidente della Camera Roberto Fico: all'ottava votazione Mattarella ha ottenuto 759 voti dai 983 votanti. E ora Fico e la presidente del Senato Casellati hanno raggiunto il Quirinale e comunicato a Mattarella l'esito del voto. "Sono giorni difficili che impongono di non sottrarsi alle decisioni del Parlamento", ha detto Mattarella in un breve discorso accettando così la rielezione al Colle. Il giuramento sarà il 3 febbraio alle ore 15.30 alla Camera. I Grandi elettori, dunque, hanno conferito a Mattarella il secondo mandato come capo dello Stato. Subito dopo la proclamazione in Aula alla Camera è scoppiato un fragoroso applauso simile a quello (di oltre 4 minuti) che ha accolto il superamento del quorum di 505 voti da Mattarella e a quello che ha accompagnato la conclusione dello spoglio delle schede. In totale il capo dello Stato uscente ha ottenuto 759 voti. "La rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica è una splendida notizia per gli italiani. Sono grato al Presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo per un secondo mandato", ha commentato il presidente del Consiglio Mario Draghi. "E' una vittoria di tutti, il merito è del gioco di squadra", ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta abbracciando poi, nel corridoio del Transatlantico, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. "Ha vinto l'Italia, abbiamo un presidente garante", ha sottolineato Conte. Subito dopo la proclamazione Matteo Salvini ha chiamato Mattarella per congratularsi e al Capo dello Stato sono arrivate le congratulazioni di Papa Francesco "per l'alto compito che ha accettato con spirito di generosa disponibilità". Auguri al Capo dello Stato (solo per citarne alcuni) dalla presidente della Commissione Ue Von der Leyen, della presidente della Bce Lagarde e del presidente francese Macron.
L'intesa per il bis di Mattarella è stata raggiunta nel vertice di maggioranza e grazie alla mediazione del premier Mario Draghi. "Alcuni leader hanno fallito, grazie a Draghi si p sbloccata la situazione", ha chiarito il ministro degli Esteri 5 Stelle Luigi Di Maio. Ma ora dalla Lega Matteo Salvini e il ministro Giancarlo Giorgetti aprono il fronte sul governo e chiedono di vedere il premier Mario Draghi. "Rimpasto? Ne parleremo con lui lunedì", spiega Salvini. E Giorgetti conferma: "Servono una fase nuova e un nuovo codice di comportamento degli alleati". Intanto, dopo la decisione di Meloni di non votare per il Mattarella il bis, Salvini apre anche un fronte nel centrodestra: "Serve una riflessione chi vive di nostalgia non lo farà con noi".
I risultati delle votazioni
LA DIRETTA DELLA GIORNATA
Ore 8.15. E' in corso alla Camera l'assemblea dei grandi elettori Pd in vista della settima votazione per il Quirinale che avrà inizio alle 9.30.
Ore 8.22. "Parteciperemo al vertice di maggioranza in mattinata per cercare di trovare una soluzione, la più ampia possibile", dice ai cronisti il coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani, arrivando a Montecitorio.
In corso assemblea grandi elettori Pd
Ore 8.27. "E' durissima. Fortuna che c'è il Pd. Fortuna che c'è unità del Pd". Lo ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, aprendo i lavori della riunione dei grandi elettori dem in corso alla Camera. Un passaggio, quello di Letta, sottolineato dagli applausi degli esponenti dem.
Tajani: "Parteciperemo a vertice di maggioranza per trovare una soluzione"
Ore 8.36. È in corso alla Camera l'assemblea dei grandi elettori di Italia Viva. Il leader Matteo Renzi fa il punto sulle trattative per l'elezione del presidente della Repubblica.
Letta: "È durissima ma per fortuna che c'è il Pd unito"
Ore 8.38. "Ieri grande successo nostro la mattina. Vi ringrazio perché siete stati eccezionali nel fidarvi della tattica. E' stata una vittoria che ci ha consentito di tornare alla casella di partenza". Così Enrico Letta, segretario Pd, all'Assemblea dei Grandi Elettori in corso alla Camera.
Iniziata l'assemblea dei grandi elettori Iv
Ore 8.40. Maggior coordinamento a partire dal voto sul presidente della Repubblica di questa mattina. E' stato deciso ieri notte nel corso di un incontro tra il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani, Lorenzo Cesa dell'Udc, Maurizio Lupi per Noi per l'Italia e Giovanni Toti per Coraggio Italia. Insieme i gruppi "valgono" più di 180 grandi elettori.
Letta: "Vittoria ieri mattina ci fa tornare a casella partenza"
Ore 8.41. La Lega si asterrà al primo scrutinio della giornata per l'elezione del Presidente della Repubblica se non ci sarà un nome condiviso? "Sì, i voti a caso non fanno fare una bella figura al Parlamento". Lo dice Matteo Salvini, leader della Lega, rispondendo ai cronisti davanti a Montecitorio.
Al via il coordinamento FI con i centristi: insieme 180 voti
Ore 8.45. "Oggi si riparte con un metodo di confronto caratterizzato da un elemento in più: il centrodestra si è formalmente spaccato. Politicamente è un punto essenziale", ha continuato il segretario Pd Enrico letta, secondo quanto riferito da fonti del Nazareno, all'assemblea con i grandi elettori in corso alla Camera.
Salvini: "Senza un nome condiviso ci asteniamo"
Ore 8.48. E' in corso alla Camera dei deputati la riunione con Matteo Salvini e i dirigenti della Lega. Presenti, tra gli altri, i capigruppo del partito.
Letta: "Il centrodestra ora spaccato, punto essenziale"
Ore 8.50. "Si è ragionato di vari nomi, tanti, da Draghi, a Mattarella, la Cartabia, la Severino, la Belloni e gli altri come Amato e Casini". Lo spiega il segretario Pd, Enrico Letta, alla riunione dei grandi elettori Pd in corso alla Camera. "Attorno a tutti questi nomi si è cominciato a discutere. Poi ciascuno ha fatto delle verifiche a casa sua", ha aggiunto Letta. "Appena ciò è accaduto Salvini è uscito con la solita logica del 'sono io che do le carte'. Questo ha creato un cortocircuito anche coi Cinque Stelle".
In corso alla Camera la riunione con Salvini e i dirigenti della Lega
Ore 8.52. "Siamo per avere al Quirinale un personaggio politico. Abbiamo visto la rosa di cui parla la sinistra. Siamo per avere, come abbiamo sempre detto, un politico o una politica". Così Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia, risponde ai cronisti che gli chiedono un commento sulla possibile candidatura di Elisabetta Belloni per il Colle.
Letta: "Nomi bruciati dalla logica di Salvini"
Ore 9. "Io sconfitto? Se non eleggiamo rapidamente un presidente della Repubblica all'altezza, penso che perdiamo tutti", ha commentato il leader della Lega, Matteo Salvini, parlando con i cronisti fuori da Montecitorio.
Tajani: "Forza Italia per un nome politico"
Ore 9.13. Astensione o scheda bianca: sono le indicazioni per i grandi elettori M5S arrivate in occasione dell'assemblea congiunta riunita questa mattina alle 8,45.
Salvini: "Io sconfitto? Perdiamo tutti se l'elezione non è rapida"
Ore 9.16. C'è attesa alla Camera per la riunione, in programma a minuti, a cui parteciperanno i leader di partiti di maggioranza. Presente anche il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani, che rappresenterà anche i partiti di centro.
Per M5S astensione o bianca
Ore 9.24. "Il mio nome può essere sul tavolo solo se rappresenta un momento di unità e di convergenza. L'Italia viene prima delle nostre ambizioni personali", le parole di Pier Ferdinando Casini intercettato sotto casa, nei pressi di piazza del Gesù.
Ore 9.35. I grandi elettori di Forza Italia si astiene alla settima votazione per il capo dello Stato. Lo riferiscono fonti di Fi.
Casini: "Il mio nome solo se unisce"
Ore 9.36. Con la prima chiama dei senatori prende il via nell'Aula di Montecitorio la settima votazione per l'elezione del presidente della Repubblica. Anche in questo scrutinio è richiesta la maggioranza assoluta di 505 voti.
Forza Italia si astiene
Attesa per il vertice di maggioranza alla Camera
Ore 9.41. I senatori della maggioranza che sostiene il governo Draghi o non hanno finora risposto alla chiama per la settima votazione per eleggere il presidente della Repubblica o si stanno astenendo.
Al via la settima votazione
Ore 9.45. I senatori del Pd non stanno rispondendo alla prima chiama per il Quirinale.
Senatori di maggioranza si astengono o non risponde a chiama
Ore 9.48. È arrivata ai grandi elettori della Lega l'indicazione di voto per questa mattina: astensione e non ritiro della scheda del settimo scrutinio.
Il Pd non risponde alla chiama
Ore 9.54. I grandi elettori di Italia Viva lasciano oggi scheda bianca. "Bianca vera", è la sottolineatura dei renziani, dal momento che - al di là delle indicazioni che stanno arrivando dai partiti - anche oggi è attesa "una valanga" di preferenze per Sergio Mattarella.
La Lega si astiene al primo voto
Ore 9.56. Il presidente M5S Giuseppe Conte al vertice di maggioranza "non è venuto". Il leader di Italia viva Matteo Renzi lo conferma in Transatlantico. "Poi se c'è qualcuno che non è adatto a fare l'interpretazione autentica del pensiero di Conte sono io...", conclude Renzi escludendo l'eventualità di formulare ipotesi sull'assenza di Conte.
Italia viva lascia scheda bianca
Ore 9.57. Il presidente del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, e gli altri leader, hanno convenuto di aggiornare più tardi in mattinata il vertice di maggioranza. E' quanto fanno sapere fonti del Movimento 5 stelle dopo che questa mattina si era diffusa la voce, confermata dal leader di Italia viva, Matteo Renzi, secondo cui il presidente 5 stelle non si sarebbe presentato alla riunione di maggioranza convocata inizialmente per le 8,30.
Renzi: "Conte non è arrivato al vertice di maggioranza"
Ore 9.58. Ad avvio seduta, era presente a presiedere l'Aula solo il presidente Roberto Fico. Assente invece la presidente del Senato Elisabetta Casellati. A prima chiama dei senatori in corso, anche Fico ha lasciato i banchi della presidenza, affidando la guida della seduta a uno dei vicepresidenti.
Rinviata la riunione di maggioranza, si terrà in mattinata
Ore 10. "Se non ci diamo una mossa il presidente verrà eletto non dico a furor di popolo, ma a furor di grande elettore". Lo ha detto ai cronisti Giovanni Toti, governatore della Liguria e vicepresidente di Coraggio Italia. Alla domanda se Mattarella sia la soluzione, Toti ha risposto che "Mattarella è un nome presente in tutte le rose", nelle quali vanno aggiunti quelli di Mario Draghi e Pier Ferdinando Casini. "Se c'è qualche altro nome costruttivo noi siamo qui e lo ascoltiamo, purché abbia una storia e un significato politico, altrimenti nelle prossime 24 ore i grandi elettori prenderanno una decisione scavalcando i loro leader".
Casellati assente ad avvio di seduta
Ore 10.03. Anche oggi il Movimento 5 stelle continuerà a votare scheda bianca nella votazione per il Quirinale.
Toti: "Fare presto o decidono i grandi elettori"
Ore 10.14. Al via nell'Aula di Montecitorio la seconda chiama dei senatori.
M5S vota scheda bianca al settimo scrutinio
Ore 10.20. Anche oggi, come nella giornata di ieri, il senatore Pier Ferdinando Casini ha depositato la sua scheda nell'urna dopo aver votato da grande elettore del Parlamento in seduta comune per l'elezione del Presidente della Repubblica. E su Instagram posta una foto del Tricolore e la scritta: "Prima di noi viene l'Italia".
Al via in Aula la seconda chiama dei senatori
Ore 10.40. Mattarella bis? "Non può essere una scelta di ripiego". Così Matteo Salvini, parlando con i cronisti in Transatlantico. "Basta andare avanti con i veti della sinistra", dice il leader della Lega. "Piuttosto che andare avanti altri 5 giorni con i veti" meglio andare su "Mattarella, ma bisogna farlo con convinzione", osserva Salvini parlando del Quirinale.
Casini ha votato. Su Instagram: Prima di noi viene l'Italia
Ore 10.44. "Consideriamo che non sia più serio continuare con i no e i veti incrociati e dire al presidente di ripensarci". Così il segretario della Lega Matteo Salvini conversando con i cronisti in Transatlantico in un ragionamento su Sergio Mattarella.
Salvini, Mattarella? Sì ma con convinzione
Ore 10.52. "Per me Draghi è meglio che resti a Palazzo Chigi, perché tutto il resto sarebbe rischioso. Ma ho capito che gli altri fanno politica solo bruciando le proposte che arrivano, mentre io non ho mai messo veti nei confronti di nessuno. Però ho capito che prima di dire un eventuale si a un nome che arriva da sinistra, ora io sto zitto per non finire dentro le loro guerre interne", dice il segretario della Lega, Matteo Salvini parlando con i cronisti in Transatlantico.
Salvini: "O stop veti o dire a Mattarella ripensarci"
Ore 10.56. Dopo l'astensione nella prima chiama, i grandi elettori Pd e M5S parteciperanno alla seconda chiama. "Ci aspettiamo un boom per Mattarella", è il tam tam in Transatlantico tra i parlamentari di centrosinistra. C'è chi si scommette che si potrebbe arrivare anche a quota 400.
Salvini: "Draghi resti premier o si rischia"
Ore 11. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, si è trattenuto al Quirinale per un colloquio con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L'auto del premier ha lasciato il palazzo circa mezz'ora dopo la cerimonia di giuramento di Filippo Patroni Griffi a giudice della Consulta.
Molto prima di lui erano usciti la presidente del Senato Elisabetta Casellati, il presidente della Camera Roberto Fico e il presidente facente funzioni della Consulta, Giuliano Amato.
Pd e M5S entrano a seconda chiama
Ore 11.14. "Una parte del Parlamento non vuole trovare un accordo, allora chiediamo a Mattarella di restare, e così la squadra resta così, Draghi resta a Palazzo Chigi. È la mia posizione, poi non so nemmeno se c'è un vertice". Così il leader della Lega, Matteo parlando ai giornalisti alla Camera aggiungendo che "l'importante è che Mattarella non sia percepito come un ripiego".
Colloquio Mattarella-Draghi dopo giuramento Consulta
Ore 11.16. Telefonata fra Matteo Salvini e Mario Draghi. Mentre il segretario della Lega stava raggiungendo i suoi uffici alla Camera, ha risposto al telefono con trasporto: "Ciao Mario", portandosi il telefono all'orecchio. Poi ha camminato verso gli uffici della Lega, soffermandosi in attesa dell'ascensore. Fra le poche parole che sono state carpite: "Non ci farebbe una bella figura il Paese...". E poi il saluto. "Dai, comunque ti vengo a trovare quando finiamo qui". Ai cronisti che, al termine della conversazione, lo hanno avvicinato per chiedergli se all'altro capo ci fosse il presidente del Consiglio, Salvini non ha risposto. Sorridendo.
Salvini: "Squadra di governo resti e Mattarella bis"
Ore 11.22. Convocati d'urgenza i grandi elettori della Lega, Matteo Salvini li vedrà dalle 14.
Telefonata Matteo Salvini-Mario Draghi.
Ore 11.24. Sul Quirinale si prevede una svolta in giornata? "Direi di sì", risponde il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, ai cronisti che lo interpellano sull'apertura fatta da Matteo Salvini al Mattarella Bis. Una strada porta al Colle? "E dove, sennò?", risponde Giorgetti.
Alle 14 riunione Salvini con grandi elettori
Ore 11.39. E' iniziato il vertice con i segretari dei partiti della maggioranza.
Giorgetti: "Svolta in giornata? Direi di sì"
Ore 11.41. "Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato da Presidente della Repubblica. Non voglio crederci". Così su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni.
Iniziato vertice di maggioranza
Ore 11.48. Il leader di Italia viva, Matteo Renzi, mostra ottimismo sulla partita del Quirinale. "Stasera si chiude", ha detto ai suoi, a quanto si apprende da fonti del partito.
Meloni: "Salvini su Mattarella? Non ci credo"
Ore 12.02. Al via nell'Aula di Montecitorio la seconda chiama dei deputati.
Fonti Iv, Renzi: "Stasera si chiude"
Ore 12.05. "Gli italiani non meritano altri giorni di confusione. Io ho la coscienza a posto, ho fatto numerose proposte tutte di alto livello, tutte bocciate dalla sinistra. Riconfermiamo il presidente Mattarella al Quirinale e Draghi al governo, subito al lavoro da oggi pomeriggio, i problemi degli italiani non aspettano". Lo dice il segretario della Lega, Matteo Salvini.
Al via in Aula seconda chiama dei deputati
Ore 12.16. Il presidente del Consiglio Mario Draghi, nell'incontro di oggi al Quirinale, avrebbe chiesto al capo dello Stato Sergio Mattarella di rimanere per "il bene e la stabilità del paese", se il Parlamento lo chiederà.
Salvini: "Riconfermiamo Mattarella"
Ore 12.15. "Per noi la conferma del presidente Mattarella è una vittoria perché nel 2015 lo ha proposto Matteo Renzi, lo abbiamo indicato quando nessuno se lo aspettava sette anni fa, lo abbiamo votato allora e oggi lo rivotiamo con entusiasmo", ha detto la deputata di Italia viva Maria Elena Boschi.
Draghi chiama leader dei partiti per stringere su Mattarella
Ore 12.17. "Oggi pomeriggio rieleggeremo un grande presidente. #Mattarella #Quirinale". Lo scrive su Twitter il senatore Pd Andrea Marcucci
Boschi: "Per noi la conferma di Mattarella è una vittoria"
Ore 12.20. Il premier Mario Draghi sta contattando in queste ore i leader di tutte le forze politiche per stringere sulla rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, dopo il colloquio di questa mattina con il capo dello Stato.
Draghi media: "Mattarella resti per il bene e stabilità del Paese"
Ore 12.29. Si è conclusa la seconda chiama dei deputati. Avrà ora inizio la prima chiama dei delegati regionali.
Marcucci: "Oggi rieleggeremo il presidente Mattarella"
Ore 12.30. "Chiedo a tutti i colleghi, ai leader e al Parlamento, di cui ho sempre difeso la centralità nell'ambito delle istituzioni democratiche, di togliere il mio nome dalla discussione e di chiedere al presidente Mattarella la disponibilità a continuare il suo mandato nell'interesse dell'Italia". La richiesta arriva direttamente da Pier Ferdinando Casini. "Credo ne vada della dignità e del decoro delle istituzioni, se il Parlamento non è in grado di decidere non può contribuire alla sua delegittimazione con una serie di inutili votazioni", aggiunge.
Ora votano i delegati regionali
Ore 12.36. Si è raggiunta un'intesa nel vertice di maggioranza sul bis per Sergio Mattarella. Lo confermano fonti di maggioranza.
"L'intesa su Mattarella è una grandissima gioia", ha detto Matteo Renzi lasciando la riunione
Casini: "Parlamento chieda a Mattarella di restare"
Ore 12.41. Giorgetti via dal governo? "È una ipotesi, magari c'è da migliorare la squadra...". Così Giancarlo Giorgetti rispondendo sugli scenari post Quirinale. "Intanto oggi vado a casa", conclude il ministro.
Chiusa intesa dei leader di maggioranza su Mattarella
Ore 12.43. Uno striscione sul portone di un palazzo nel centro di Roma che recita: "Grazie presidente Mattarella". A immortalarlo in una foto è il segretario del Pd, Enrico Letta che ha condiviso lo scatto su Twitter.
Giorgetti: "io via dal governo? E' una ipotesi"
Ore 12.47. "Mantenere Mattarella al Quirinale e Draghi a Chigi è l'unico modo per lasciare l'Italia al riparo dalle strampalate follie e dalla mancanza di regia politica. Mattarella e Draghi sono due scelte eccellenti, due nomi che garantiscono le Istituzioni. Viva l'Italia". Così su Facebook il leader di Italia viva, Matteo Renzi.
Letta posta foto: "Grazie presidente Mattarella"
Ore 12.48. "Lunga e affettuosa telefonata tra il presidente Silvio Berlusconi e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Berlusconi ha assicurato al presidente Mattarella il sostegno di Forza Italia per la sua rielezione". Lo rende noto l'ufficio stampa del presidente di FI.
Renzi: "Con Mattarella-Draghi Paese in sicurezza"
Ore 12.57. Si è conclusa nell'Aula di Montecitorio la settima votazione del Parlamento in seduta comune integrato dai delegati delle regioni per eleggere il presidente della Repubblica. È iniziato lo spoglio, che viene effettuato personalmente dal presidente della Camera Roberto Fico.
Berlusconi chiama Mattarella, sostegno FI
Ore 13. "Siamo molto soddisfatti dell'intesa sulla rielezione del presidente Mattarella, che segna un grande successo per il Paese, per il Parlamento, per la stabilità dell'azione del governo. La saldezza e l'unità del Partito Democratico sono state poste al servizio della Repubblica e delle istituzioni". Lo dichiara Marco Meloni, coordinatore della Segreteria nazionale del Partito democratico.
Conclusa la settima votazione, al via lo spoglio
Ore 13.01. La presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati è giunta nell'Aula di Montecitorio a spoglio iniziato. Quando ha preso posto accanto a Roberto Fico, erano state spogliate già una quindicina di schede.
Pd: grande soddisfazione, noi a servizio della Repubblica
Ore 13.03. "Perde il centrosinistra ma soprattutto il centrodestra. Ora metteranno una bella legge proporzionale...". Così Ignazio La Russa sul dossier Quirinale.
Casellati arriva in Aula a spoglio iniziato
Ore 13.07. "Sarei stupita se Mattarella accettasse di essere rieletto presidente della Repubblica dopo aver fermamente e ripetutamente respinto questa ipotesi. Anche perché sappiamo tutti che il secondo mandato presidenziale non può diventare una prassi, forzando gli equilibri previsti dalla nostra Costituzione". Queste le parole della leader di FdI, Giorgia Meloni.
La Russa: "Perde il centrodestra"
Ore 13.09. "Il Parlamento ha ascoltato il Paese. Si consolida in un momento tanto difficile per il Paese un punto di riferimento saldo per tutte le italiane e gli italiani. Grazie Presidente Mattarella". Lo scrive su Twitter il ministro del Lavoro e capo delegazione Pd al governo, Andrea Orlando.
Meloni: "Sarei stupita se Mattarella accettasse la rielezione dopo i suoi no"
Ore 13.14. Pier Ferdinando Casini come prima opzione o, in alternativa, la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Questi, a quanto si apprende da ambienti vicini a Forza Italia, i nomi che sono stati fatti da FI durante la riunione delle forze politiche di maggioranza in vista dell'elezione del presidente della Repubblica.
Orlando: "Mattarella punto di riferimento saldo"
Ore 13.15. "Qualche giorno fa, per senso di responsabilità e nell'interesse del Paese, avevo rinunciato alla mia candidatura, anche per favorire una soluzione unitaria. Quello che è successo dopo è sotto gli occhi di tutti, ma non è questo il momento della polemica. Questo è il momento dell'unità e tutti dobbiamo sentirlo come un dovere. Ma l'unità oggi si può ritrovare soltanto intorno alla figura del Presidente Sergio Mattarella, al quale sappiamo di chiedere un grande sacrificio, ma sappiamo anche che glielo possiamo chiedere nell'interesse superiore del Paese, quello stesso che ha sempre testimoniato nei 7 anni del suo altissimo mandato". Così Silvio Berlusconi, dal San Raffaele di Milano dove è ancora ricoverato, in una nota.
Da FI prima opzione Casini o in alternativa Mattarella a riunione maggioranza
Ore 13.20. "Ancora una volta il Parlamento dimostra di non essere all'altezza degli italiani che dovrebbe rappresentare. Da domani Fratelli d'Italia moltiplicherà i suoi sforzi per una riforma presidenziale della nostra Repubblica e per ribadire che la sovranità appartiene al popolo, non agli intrighi di Palazzo". Lo dichiara in una nota il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni.
Berlusconi: "Unità solo intorno a Mattarella"
Ore 13.25. I capigruppo delle forze politiche che hanno siglato l'intesa per un Mattarella bis sono attesi al Colle attorno alle 15,30.
Meloni: "Ancora una volta il Parlamento dimostra di non essere all'altezza"
Alle 15.30 i capigruppo al Colle per il bis di Mattarella
Ore 13.30. Fumata nera al settimo scrutinio per l'elezione del Capo dello Stato. Terminato lo spoglio delle schede, nessuno ha ottenuto i 505 voti richiesti.
Ore 13.36. "Per noi era fondamentale che questo passaggio non compromettesse la necessità di un'azione di governo forte, decisa, che non si può interrompere per un solo giorno, per venire incontro ai bisogni dei cittadini. Questo risultato lo abbiamo conseguito", dice ai cronisti il leader M5S Giuseppe Conte
Fumata nera al settimo scrutinio
Ore 13.40. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ottenuto 387 voti nel settimo scrutinio per l'elezione del Capo dello Stato. 64 sono andati al Carlo Nordio, indicato da Fratelli d'Italia, 40 a Nino Di Matteo. Presenti 976, votanti 596, astenuti 380. Le schede bianche sono state 60, le nulle 4, i voti dispersi 9. Hanno ottenuto preferenze anche Pier Ferdinando Casini, 10; Elisabetta Belloni, 9; Luigi Manconi, 6, Marta Cartabia, 4, Mario Draghi 2. Prossimo scrutinio, l'ottavo, alle 16.30.
D'Incà: "Spero che Mattarella rinnovi la sua disponibilità a guidare il Paese"
Ore 13.42. "Spero che il presidente accetti di rinnovare la sua disponibilità a guidare il nostro Paese e che possa essere rieletto con la più ampia maggioranza possibile". Il tweet del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà.
Conte: "Assicurare la stabilità dell'esecutivo"
Ore 13.48. L'elezione diretta del capo dello Stato? "Non può essere vista come qualcosa che da sola si innesta in un sistema lasciandolo così com'è". Risponde così il neopresidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato ad una domanda durante la conferenza stampa dopo la sua elezione.
Risultati settimo scrutinio
Ore 13.50. "Abbiamo avuto difficoltà anche nel confrontarci con le forze di centrodestra in particolare, le abbiamo invitate a mettere da parte candidature di area culturale fortemente connotata, di destra, conservatrice, e le abbiamo spinte a confrontarsi su quelle figure super partes su cui abbiamo ragionato sin dall'inizio - racconta il leader M5S Giuseppe Conte - Questo confronto è stato intenso, io e i capigruppo abbiamo perseguito sempre l'interesse dei cittadini cercando di tenere alta l'asticella. È stata una trattativa molto complicata", rimarca l'ex premier.
Amato: "Per l'elezione diretta va cambiato il sistema"
Ore 13.51. "All'ultimo vertice di centrodestra, l'unica cosa su cui Salvini e tutti gli altri leader della coalizione sembravano uniti era proprio il no al Mattarella bis... In quell'occasione c'è stato il no globale di Salvini e degli altri, quello è stato l'unico momento in cui il centrodestra è stato unito". Lo ha detto il vicepresidente del Senato, Ignazio La Russa, parlando alla Camera.
Conte: "Trattativa complicata, difficile il confronto con il centrodestra"
Ore 13.52. I grandi elettori del Partito democratico sono convocati alle 14 nella sala del Mappamondo alla Camera.
La Russa: "All'ultimo vertice di centrodestra, tutti uniti per il no al Mattarella bis..."
Ora 13.55. "Il centrodestra è ora in coma, bisogna vedere se si tratta di un coma farmacologico, oppure se irreversibile - commenta Guido Crosetto le vicende di questa settimana quirinalizia - Il centrodestra già non era in buona salute prima, si teneva diciamo con lo scotch, negli ultimi cinque anni non è esistito" come forza unitaria, "quasi sempre diviso, prima con Salvini al governo, con i 5Stelle, per arrivare a oggi". "Poi la situazione sembra degenerata - dice - mi pare che dopo la mossa di Fi di ieri, quando ha deciso di andare da sola sul Colle e quanto successo ora, si può parlare di stato di coma. L'unica che ha cercato di tenerlo insieme è stata Gorgia Meloni", conclude Crosetto.
I grandi elettori Pd si riuniscono alle 14 alla Camera
Ore 14.10. Alle 16,15, nell'aula dei gruppi parlamentari della Camera dei Deputati, il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, terrà una conferenza stampa.
Crosetto: "Il centrodestra ora è in coma"
Ore 14.20. Come riferisce la Lega, è iniziata la riunione di Matteo Salvini con i senatori e i delegati regionali, negli uffici della Camera. Dopo vedrà i deputati.
Alle 16,15 conferenza stampa di Letta alla Camera
Ore 14.22. Una lunga standing ovation ha aperto l'assemblea dei grandi elettori Pd con Enrico Letta. Il segretario del Pd, in piedi con accanto le capogruppo Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, insieme a tutti i grandi elettori dem ha festeggiato così l'accordo per il Mattarella bis.
Lega: riunione Salvini con senatori e delegati
Ore 14.25. "È stata un'esperienza per tutti importante, formativa, nella quale siamo cresciuti tutti e abbiamo imparato tante cose". Così - ha detto il segretario del Pd Enrico Letta nel corso dell'assemblea dei grandi elettori dem - La dimostrazione che giocare di squadra è la ragione del successo, non c'è protagonismo o personalismo, c'è la volontà di dividerci i compiti: ho pensato che siamo un grande partito".
Standing ovation apre assemblea dei grandi elettori Pd con Letta
Ore 14.39. "Tutti i passaggi politici hanno dimostrato, nel momento più difficile in assoluto, che il campo largo esiste grazie al nostro lavoro. Siamo riusciti a tenere tutti attorno", ha detto il segretario Pd Enrico Letta all'assemblea con i grandi elettori alla Camera.
Letta: "Esperienza formativa. Il Pd si conferma un grande partito"
Ore 14.44. "Confesso che ieri sera tardi, stanotte, ho fatto una telefonata personale a Silvio Berlusconi, per fargli gli auguri di pronta guarigione e per spiegargli che non c'era nulla di personale, nelle settimane scorse ho avuto parole nei suoi confronti un po' forti - riferisce il segretario Pd Enrico Letta all'assemblea con i grandi elettori in corso alla Camera - In questi giorni ho dovuto fare la parte del cattivo e sono stato attaccato e criticato, ma credo che fosse necessario".
Letta: "Dimostrato che campo largo esiste"
Ore 14.57. "Il centrodestra non è un partito unico, ma una coalizione e ci sono momenti in cui i diversi partiti agiscono ciascuno per proprio conto, siamo già al governo in modo diverso". Così il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani ai giornalisti che gli chiedevano se l'opzione Mattarella bis avrà effetti sulla tenuta della coalizione.
Letta: "Stanotte ho chiamato Berlusconi"
Ore 15.05. Il presidente dei deputati della Lega, Riccardo Molinari, e quello dei senatori, Massimiliano Romeo, sono arrivati al Quirinale, dove sono attesi i capigruppo dei partiti di maggioranza per un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Tajani: "Il centrodestra non è un partito unico"
Ore 15.12. I capigruppo del M5S, Davide Crippa e Mariolina Castellone sono arrivati al Quirinale per incontrare il capo dello Stato Sergio Mattarella e chiedergli la disponibilità alla rielezione.
Capigruppo della Lega arrivati al Colle
Ore 15.13. Il presidente dei deputati di Leu, Federico Fornaro, e quella dei senatori, Loredana De Petris, sono arrivati al Quirinale per l'incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiesto dai capigruppo dei partiti di maggioranza. Poco dopo è arrivata anche Julia Unterberger, capogruppo al Senato del Gruppo misto e Manfred Schullian, capogruppo del Gruppo misto alla Camera.
Capigruppo M5S arrivati al Colle per incontrare Mattarella
Ore 15.14. "Grazie alla Presidente Casellati che si è messa in gioco. Ha preso 208 voti della Lega su 208. Noi siamo fatti così", dice Matteo Salvini durante l'assemblea con i deputati.
Capigruppo Leu arrivati al Quirinale
Ore 15.15. Anche le capigruppo del Pd, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, sono arrivati al Quirinale per l'incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella richiesto dai presidenti di deputati e senatori dei partiti di maggioranza.
Salvini: "Casellati ha preso 208 voti della lega su 208"
Ore 15.50. "È andato tutto bene". Non hanno voluto aggiungere altro i capigruppo di maggioranza lasciando il Quirinale dopo l'incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Anche le capigruppo di Pd al Colle
Ore 15.53. "Romanzo Quirinale. Manco il Gattopardo, siamoi al "nulla cambi, perchè nulla cambi", scrive su Facebook il leader di FdI Giorgia Meloni.
Capigruppo lasciano il Colle: è andata bene
Ore 16.11. Fratelli d'Italia continuerà a votare per Carlo Nordio alla presidenza della Repubblica e non per Sergio Mattarella. Lo conferma la leader del Partito, Giorgia Meloni, incontrando la stampa. Il Parlamento, ha aggiunto, è delegittimato.
Meloni: "Manco il Gattopardo, perché nulla cambi"
Ore 16.24. "Il centrodestra parlamentare mi pare che non esista. È ancora maggioranza nella nazione, credo che debba avere rappresentanza politica, lavoreremo per questo. Bisogna rifondare il centrodestra da capo. Per rispetto delle persone che si aspettano un cambiamento". Così la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, uscendo dalla Camera al termine della riunione coi grandi elettori di Fdi in vista dell'ottavo scrutinio.
Meloni: "Parlamento delegittimato, votiamo Nordio no Mattarella"
Ore 16.34. "Mi aspettavo un atteggiamento diverso da molte persone e che il centrodestra avesse molto più coraggio e convinzione nel fare una cosa che era alla portata: battersi con dignità, a viso aperto, con orgoglio per eleggere un Presidente distonico rispetto a quello che abbiamo visto negli ultimi anni - dice Giorgia Meloni ai cronisti - Non era un obiettivo scontato, bisognava crederci. I margini c'erano. Questa cosa mi fa impazzire, mi fa impazzire che si sia rinunciato prima di tentare davvero. Mi dispiace ma noi di FdI abbiamo fatto di tutto"
Meloni: "Bisogna rifondare daccapo il centrodestra"
Ore 16.35. E' iniziata alla Camera l'ottava votazione dei grandi elettori chiamati a votare il nuovo presidente della Repubblica. Si va verso Mattarella bis.
Meloni: "Il centrodestra senza coraggio, mi fa impazzire"
Ore 16.42. "La legge elettorale deve essere oggetto di discussione. Sicuramente bisogna cambiarla ma non sto qui a indicare una strada". Lo ha detto il segretario pd enrico letta durante una conferenza stampa a montecitorio.
L'ottava votazione per elezioni del capo dello Stato
Ore 16.44. "Mi fido di Giuseppe Conte", ha detto il segretario del Partito democratico, Enrico Letta.
Letta: "La legge elettorale va cambiata"
Ore 16.48. "Ribadisco con grande forza e nettezza che questo scenario che oggi certificheremo col nostro voto, Mattarella presidente della Repubblica per sette anni, Draghi presidente del Consiglio fino alle elezioni del 2023, è lo scenario per noi ideale: è meglio rispetto allo scenario che si sarebbe verificato con un'ascesa del presidente del Consiglio al Quirinale e con le difficoltà di questa maggioranza a trovare punti di riferimento diversi, di unità - commenta Enrico Letta, segretario del Pd, in conferenza stampa alla Camera - Non so se saremmo riusciti a negoziare su un presidente del Consiglio in grado di portare il Paese alle elezioni. Un altro governo con Draghi al Quirinale non so se saremmo riusciti a farlo e comunque sarebbe stato più debole rispetto a quello di Draghi. Con un altro presidente della Repubblica il rapporto con Draghi sarebbe stato tutto da costruire e il rapporto non sarebbe stato immediato come con quello attuale. Il sistema ci guadagna, è la migliore delle soluzioni possibili", sottolinea.
Letta: "Mi fido di Conte"
Ore 16.51. "Penso che sia responsabilità di Fdi salvare la faccia rispetto a quei milioni di italiani che votano centrodestra. Perché il principio che si vuole affermare in questa Nazione è che tra le decine di milioni di italiani di centrodestra non ci sono figure che abbiano la dignità di ricoprire la carica di capo dello Stato. E' un racconto al quale Fdi non si piegherà mai. Il problema è che siamo in un Parlamento dove si preferisce barattare 7 anni di presidenza della Repubblica con 7 mesi di stipendio...". Lo ha detto Giorgia Meloni fuori da Montecitorio.
Letta: "Con Draghi al Colle non so se facevamo governo"
Ore 16.54. "Per quanto ci riguarda il governo va bene così ed è nelle prerogative del presidente del Consiglio immaginare qualsiasi forma di cambiamento - continua Enrico Letta in conferenza stampa - La politica è stata per qualche settimana in apnea, ora è importante che tutto funzioni al meglio", ha aggiunto.
Meloni: "Barattato per 7 mesi stipendio"
Ore 17.02. "Una delle cose che intendiamo fare immediatamente è rilanciare, con una raccolta firme on line disponibile tra poco, la nostra legge di iniziativa popolare per l'elezione diretta del capo dello Stato", ha annunciato la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni uscendo da Montecitorio.
Letta: "Rimpasto? Per noi il governo va bene così"
Ore 17.16 Il leader Matteo Salvini e il ministro allo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, dopo essersi riuniti alla Camera hanno chiesto al premier Mario Draghi un incontro.
Meloni: "A breve petizione online per elezione diretta"
Ore 17.19. "Dimissioni? Per affrontare questa nuova fase serve una messa a punto: il governo con la sua maggioranza adotti un nuovo tipo di metodo di lavoro che ci permetta di affrontare in maniera costruttiva i tanti dossier, anche divisi, per non trasformare quest'anno in una lunghissima, dannosa campagna elettorale che non serve al Paese". Lo dice il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti al termine di un incontro con il segretario della Lega Matteo Salvini.
Salvini e Giorgetti chiedono incontro a Draghi
Ore 17.28. Come si apprende da fonti di Fratelli d'Italia, i presidenti delle regioni Abruzzo e Marche, Marco Marsilio e Francesco Acquaroli, hanno ricevuto un invito dalla presidenza della Conferenza delle Regioni per un colloquio con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e hanno deciso, per rispetto istituzionale, di prendervi parte. Il presidente Fedriga ha rappresentato al capo dello Stato che una minoranza delle Regioni non era favorevole a una sua rielezione. Posizione ribadita dagli stessi governatori al presidente Mattarella nel corso di un loro breve colloquio.
Giorgetti: "Dimissioni? Serve una nuova fase governo"
Ore 17.29. Si è appena conclusa la prima chiama dei senatori per l'ottava votazione per l'elezione del presidente della Repubblica. Ora è in corso la seconda chiama.
Fonti Fdi: fronte governatori ribadiscono riserve a Mattarella bis
Ore 17.31. ''Ieri ho bloccato l'asse giallo verde nero su Belloni''. Così Matteo Renzi sulla candidatura tramontata ieri di Elisabetta Belloni sulla quale ci sarebbe stata la convergenza di Conte, Salvini e Meloni. ''I 5 Stelle hanno provato a fare il congresso'' sul Colle ''ma non ha vinto nessuno. Conte ci ha provato a fare il colpaccio ma non ci è riuscito'', ha aggiunto il leader di Italia viva.
Conclusa la prima chiama senatori, via alla seconda
Ore 17.32 Dopo le due chiamate dei senatori, è ora il momento della prima chiama dei deputati pre l'ottava votazione per l'elezione del presidente della Repubblica.
Renzi: "Conte ci ha provato, ma ho bloccato l'asse gialo-verde su Belloni"
Ore 17.35. "Ringrazio Sinistra italiana ed Europa Verde, e quanti in questi giorni hanno sostenuto la mia candidatura alla presidenza della Repubblica: condivido incondizionatamente la scelta di votare Sergio Mattarella nella seduta comune del Parlamento in corso in queste ore". Lo afferma in una nota il professor Luigi Manconi.
Via alla prima chiama dei deputati
Ore 17.36. "Oggi l'Italia è più forte e il nostro Paese più unito". Lo ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza ai giornalisti davanti a Montecitorio. "Gli italiani hanno oggi un grande presidente della Repubblica e un governo molto forte. Da domani la politica deve ricominciare ad occuparsi dei problemi reali", ha poi detto Speranza.
Manconi: "Condivido rielezione Mattarella, grazie a chi mi ha votato"
Ore 17.39. "Se mi chiedete se Berlusconi è furioso, la mia risposta è sì, ma con i suoi penso". Lo ha detto Matteo Salvini ai giornalisti. "In 40 non hanno votato il candidato presidente, immagino si chiariranno al loro interno", ha aggiunto.
Speranza: "Oggi Italia più forte e Paese più unito"
Ore 17.42. Sul futuro del governo "faremo la nostra proposta lunedì". Lo ha detto ai giornalisti il leader della Lega Matteo Salvini. Lui e il ministro Giorgetti hanno chiesto un incontro al premier Draghi.
Salvini: "Berlusconi furioso? Sì, con i suoi"
Ore 17.47. "Faremo la nostra proposta per rilanciare il centrodestra", ha detto Matteo Salvini. "Se c'è qualcuno che nel centrodestra non si sente a suo agio il mondo è grande - ha aggiunto - se qualcuno vive di nostalgia, pensa ai minestroni, 'proporzionaloni' e frittatoni, torna indietro di 40 anni non lo fa con noi".
Salvini: "Sul governo faremo la nostra proposta lunedì"
Ore 17.48. "Cambio di passo? Credo che conosciate esattamente i provvedimenti che ci aspettano nel prossimo anno, i problemi sono seri e gravi. Il governo lavora benissimo ma di fronte ad un anno così è necessario quantomeno un nuovo codice comportamento tra gli alleati di maggioranza". Così il ministro della Lega Giancarlo Giorgetti.
Salvini: "Rilanceremo il centrodestra"
Ore 17.50. "Penso che sia una giornata importante, lo hanno incontrato i capigruppo e il governatore Fedriga. Io stasera chiamerò Mattarella per fargli i complimenti, aspetto però il voto". Lo ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini, rispondendo a chi gli domandava se avesse sentito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Giorgetti: "Serve nuovo codice comportamento alleati"
Ore 17.51. "Ma va, ma che rimpasto...non esiste...". Così Giancarlo Giorgetti, ai cronisti, nega che ci sia l'idea di un rimpasto dietro la sua richiesta di una nuova fase, di una messa a punto nell'azione di governo.
Salvini: "Mattarella? Lo chiamo dopo il voto per i complimenti"
Ore 17.53. "A me sembra che il nome che tutti gli altri avessero proposto fino a stamattina fosse un altro. Un nome di tutto rispetto. Mi sembra che tutti gli altri fossero d'accordo su un altro nome, non la Belloni, sto parlando di Casini". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, a chi gli domandava se avesse subito la scelta di rieleggere Sergio Mattarella al Quirinale.
Giorgetti: "Nessuna richiesta di rimpasto di governo"
Ore 17.54. "Sono felice che la Lega sia stata protagonista della chiusura di questa settimana di veti e conto che da lunedì in un incontro a tre Draghi-Giorgetti-Salvini ci siano tutti i chiarimenti necessari". Così il leader della Lega Matteo Salvini.
Salvini: "Fino a stamattina tutti d'accordo per Casini"
Ore 17.55. "Vedo che Letta - pronti, partenza e via - ha chiesto una legge elettorale proporzionale... Non è una questione di rimpasto. Già i problemi sono rilevanti se siamo una squadra, dobbiamo essere una squadra". Così Giancarlo Giorgetti parlando insieme a Matteo Salvini con i cronisti alla Camera.
Salvini: "Incontro a tre con Draghi"
Ore 17.58. Giorgetti ha chiesto un incontro a Draghi sul governo: "Il governo è piu forte o più debole oggi? Il governo è forte come ieri, perché è rimasto lo stesso quadro, con Draghi e Mattarella". Lo ha detto il leader Italia viva Matteo Renzi, uscendo da Montecitorio.
Giorgetti: "Se siamo squadra, fare squadra"
Ore 18.00. "Ho scritto a Draghi e chiesto un incontro a tre dove discutere di tutto: sicuramente però la legge elettorale non è una priorità. Se nel giorno dell'elezione di Mattarella il nostro alleato di governo parla di passare mesi in Parlamento per rifare la legge elettorale allora vuol dire che abbiamo delle priorità diverse". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, commentando le affermazioni di Enrico Letta.
Renzi: "Giorgetti vuole vedere Draghi? Governo è lo stesso di ieri"
Ore 18.02. "Io ho posto un tema con tranquillità e anche per serietà. Siamo contentissimi di come è finita e poi si ricomincia a lavorare. Ma se c'è una crisi aziendale non è che la colpa può essere della Lega di Giorgetti... Se comincia questo gioco qui non finisce più. Sto dicendo che andiamo avanti però le cose vanno tarate". Così il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti a chi gli chiede delle voci su sue presunte dimissioni.
Salvini: "La legge elettorale non è la priorità"
Ore 18.08. "Sono sollevato perché si rischiava di andare avanti tra veti litigi e beghe. E sono tranquillo ho fatto tutte le proposte possibili, soprattutto sul fronte femminile". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, al Tg1. "Domani il Parlamento torna a fare il Parlamento, il governo fa il governo: serve normalità. I litigi di questi giorni sul Colle non si riversino sul governo".
Giorgetti: "Vado avanti, ma le cose vanno tarate"
Ore 18.16. "Rimpasto? Ne parleremo con Draghi, se c'è qualche ministro che non ha voglia di lavorare o di non essere coerenti è giusto che ne parliamo, ma da lunedì". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, al Tg1.
Salvini: "I litigi non si riversino su azione del governo"
Ore 18.20. "Probabilmente è arrivato il momento di far eleggere i presidente della Repubblica dai cittadini. Questo sistema andava bene per l'Italia che usciva dal fascismo. Spero che Mattarella possa essere l'ultimo eletto così. Il mio sogno e vederlo eletto dai cittadini, e questo impone riforme costituzionali". Lo ha detto Matteo Renzi parlando con i giornalisti alla Camera.
Salvini: "Rimpasto? Ne parleremo con Draghi"
Ore 18.25. "Con i miei colleghi governatori di Regione davanti al Quirinale dopo la visita al presidente Mattarella che, con grande generosità e profondo senso delle istituzioni, ha dato la sua disponibilità a continuare il suo mandato". È il messaggio postato da Giovanni Tori, governatore della Liguria, su Twitter aggiungendo una foto con tutti i colleghi all'uscita dal Quirinale.
Renzi: "Spero in riforma per prossima elezione Colle. Presidente sia scelto dai cittadini"
Ore 18.30. "Si va verso il Mattarella bis? "Sono contenta e soddisfatta". Cosi' la senatrice a vita Liliana Segre all'Agi, commentando l'accordo di maggioranza per il Mattarella bis.
Toti posta foto con Mattarella: "Grazie presidente"
Ore 18.31. Siparietto a margine della votazione di oggi pomeriggio alla Camera: il ministro Dario Franceschini si è avvicinato al segretario del Pd Enrico Letta in Transatlantico e, salutandolo, lo ha apostrofato con "The Winner!". Il riferimento è all'intesa raggiunta nella maggioranza per arrivare a un secondo mandato di Mattarella al Quirinale.
Segre: "Mattarella bis? Sono contenta"
Ore 18.36. "Con la possibilità di avere un presidente come Mattarella, un presidente di comprovata autorevolezza e garanzia, non ha vinto Conte ma il Paese". A dirlo è stato Giuseppe Conte durante la conferenza stampa del Movimento 5 Stelle.
Pd, Franceschini saluta Letta: "Ecco the winner"
Ore 18.37. L'ipotesi di scegliere una donna al Quirinale "non è stata una mera formalita'", ma "quest'ultima battaglia non siamo riusciti a vincerla, abbiamo trovato degli ostacoli", ma di fronte a cio' avevamo "un'opzione di garanzia, assolutamente fuori quota", Sergio Mattarella. Lo ha detto il presidente M5S, Giuseppe Conte.
Conte: "Con Mattarella non ha vinto Conte, ma il Paese"
Ore 18.38. La scelta di chiedere che Mario Draghi restasse a palazzo Chigi è stata fatta "nell'ottica di valorizzare il suo operato, di assicurare tempestività e efficacia all'azione di governo". Lo ha detto il presidente del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, in conferenza stampa.
Conte: "Mattarella opzione di garanzia"
Ore 18.39. "Avevamo una opzione di garanzia, fuori quota, quella del presidente Mattarella, che ha sempre ricevuto un unanime apprezzamento da parte della comunità del M5S. Mattarella non ha bisogno di presentazioni". Lo ha detto il presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, in una conferenza stampa a Montecitorio, in merito all'elezione del capo dello Stato.
Conte: "Draghi a Palazzo Chigi per garantire efficacia governo"
Ore 18.49. "La matita con la quale ho appena votato Mattarella. Me la tengo tra i ricordi. Belli", scrive su Twitter il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, pubblicando una foto della matita in questione.
Conte: "Mattarella ha sempre ricevuto unanime apprezzamento da comunità"
Ore 18.53. "Arriverà il momento per i chiarimenti interni in una comunità che discute con tutti i componenti che devono rispondere non al leader ma alla comunità del partito". Così il Presidente M5S Giuseppe Conte in conferenza stampa rispondendo in conferenza stampa ad una domanda su una nota di ieri sera in cui il ministro degli Esteri Luigi Di Maio definiva "indecoroso" bruciare la candidatura di Elisabetta Belloni per il Quirinale.
Letta: "Matita con cui ho votato Mattarella tra i ricordi pià belli. L'ho portata a casa"
Ore 18.58. "L'ho detto più volte: trattative riservate non significa percorsi opachi e poco trasparenti". Lo ha sottolineato il presidente M5S, Giuseppe Conte. "Sono state scritte delle schifezze" sul fatto che "avrei fatto accordi", ad esempio per Casellati, ha aggiunto.
"Io non ho mai fatto accordi sottobanco", ha concluso Conte.
Conte: "Arriverà momento chiarimenti in M5S"
Ore 19.00. "Meloni ha detto di no a Draghi e oggi dice no a Mattarella: una scelta legittima. Ma mentre noi siamo stati compatti, altri sono andati in ordine sparso: vuol dire che una riflessione sull'alleanza andrà fatta. Io preferisco il gioco di squadra e non battitore libero. Se qualcuno si sente di sinistra dovremmo riflettere ". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, su La7.
Conte: "Mai fatto accordi sottobanco"
Ore 19.01. "La proposta di Belloni non è venuta a me in mente: me l'hanno proposta Conte e Letta: poi se Letta ha cambiato idea...". Lo ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini, su La7.
Salvini: "Serve riflettere su centrodestra"
Ore 19.15. "L'asse giallo-nero-verde? Attenti a non confondere i cittadini con questi effetti cromatici! Ma insomma non diciamo o rincorriamo le fesserie che vengono declamate a destra e sinistra: vi dico che i nomi su cui abbiamo trattato sono stati condivisi da Pd e Leu ed io ho avuto l'incarico di negoziare con il centrodestra". Così il presidente M5S Giuseppe Conte in conferenza stampa.
Salvini: "Belloni proposta da Letta e Conte"
Ore 19.19. Si è conclusa la prima chiama dei deputati all'ottava votazione per l'elezione del presidente della Repubblica. E' ora in corsa la seconda chiama.
Conte: "Avevo delega Pd e Leu a trattare con il centrodestra"
Ore 19.25. Dopo le chiamate dei senatori e dei deputati, è ora in corso la prima chiama dei delegati regionali.
Conclusa la prima chiama deputati, al via la seconda
Ore 19.38. Si è appena conclusa la prima chiama dei delegati regionali. Ora è in corso la seconda.
Al via la prima chiama dei delegati regionali
Ore 19.40. E' conclusa la seconda chiama dei delegati regionali. Il presidente della Camera Roberto Fico ha chiuso l'ottava votazione. Ora inizia lo spoglio.
Terminata la prima chiama dei delegati, ora la seconda
Ore 19.45. Il presidente della Camera Roberto Fico sta procedendo allo scrutinio delle schede dell'ottava votazione per l'elezione del presidente della Repubblica.
Conclusa la chiama dei delegati regionali. Inizia lo spoglio
Ore 19.50. Il presidente Sergio Mattarella, in caso di elezione, dopo che il presidente della Camera gli avrà consegnato questa sera la lettera di elezione potrebbe parlare brevemente dal Quirinale dove è prevista una diretta televisiva per l'evento.
Iniziato lo scrutinio delle schede
Ore 19.56. Applausi e abbracci da una trentina di parlamentari del M5S per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio appena arrivato in Transatlantico. L'esponente M5S ha parlato qualche minuto con deputati e senatori a lui vicini, mostrando soddisfazione per l'intesa raggiunta sulla rielezione di Mattarella.
Se eletto, Mattarella parlerà alle 21.30
Ore 20.12. La rielezione di Mattarella fa gioire tanti anche alleati che appartengono a partiti spesso tra di loro litigiosi. Stasera in transatlantico in tanti hanno notato un caloroso abbraccio tra il ministro degli esteri Luigi Di Maio e il presidente Iv Ettore Rosato, entrambi molto soddisfatti per l'esito della partita del Quirinale
Di Maio accolto da M5S con applausi in Transatlantico
Ore 20.20. Il presidente Sergio Mattarella ha superato nelloì'ottavo scrutinio il quprum dei 505 voti e nell'Aula della Camera è esploso un fragoroso applauso da parte dei Grandi elettori presenti.
In Transatlantico abbraccio tra Di Maio (M5S) e Rosato (Iv)
Ore 20.38. Nell'Aula della Camera sono durati più di quattro minuti gli applausi per il raggiungimento del quorum di 505 voti da parte di Mattarella. L'atmosfera è ora decisamente più rilassata. Non c'è più il silenzio da chiesa che ha caratterizzato la prima parte dello spoglio. Alcuni grandi elettori conversano tra loro, mentre i 'contatori' continuano a tenere il conto delle schede.
Mattarella supera il quorum dei 505 voti, esplode l'applauso in Aula
Ore 20.41. Il presidente della Camera Roberto Fico ha dichiarato concluso lo spoglio delle schede dell'ottava votazione per l'elezione del presidente della Repubblica. Ora è in corso il conteggio dei voti.
Oltre quattro minuti di applausi per Mattarella a quorum raggiunto
Ore 20.55. Il presidente della Camera Roberto Fico ha proclamato Sergio Mattarella presidente della Repubblica. Il Parlamento gli ha conferito il secondo mandato con 759 voti.
Spoglio terminato, al via il conteggio dei voti
Ore 20.59. "La rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è una splendida notizia per gli italiani. Sono grato al Presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo per un secondo mandato." Così il premier Mario Draghi.
Fico proclama Mattarella presidente della Repubblica
Ore 21.00. Mi recherò immediatamente al Quirinale con la presidente del Senato per comunicargli la sua elezione". Lo ha annunciato nell'Aula di Montecitorio il presidente della Camera Roberto Fico.
Draghi: "Rielezione Mattarella splendida notizia per gli italiani"
Ore 21.01. Il presidente della Camera Roberto Fico ha dichiarato concluso la seduta che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica.
Fico: "Mi recherò subito da Mattarella per comunicare esito del voto"
Ore 21.02. "Buon lavoro presidente Mattarella e grazie per il prezioso, rinnovato impegno. L'Italia, dopo giorni preoccupanti e difficilmente tollerabili, puo' tirare un sospiro di sollievo civile". Lo scrive su Twitter l'Anpi, l'associazione nazionale partigiani.
Conclusa la seduta alla Camera
Ore 21.03. "Parlamentari euforici per non aver cambiato nulla e aver costretto Mattarella a un altro mandato. Cosa festeggiano? Che lo stipendio è salvo". Lo scrive su Facebook la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, postando un video degli applausi dei parlamentari in Transatlantico per la rielezione di Sergio Mattarella.
Anpi: "Grazie Mattarella, prezioso impegno"
Ore 21.10. "E' una vittoria di tutti, credo che il Parlamento abbia dimostrato saggezza perché Mattarella era il presidente che volevano gli italiani". Lo ha detto il segretario del Pd Enrico Letta in Transatlantico. "Il merito - si è schernito Letta con i giornalisti - è del gioco di squadra di tutti. E' stata una settimana dura ma il risultato è ottimo, perché è per il bene del Paese".
Alla domanda se il centrodestra abbia perso, Letta ha glissato: "Ci sarà tempo per ragionare". A chi gli faceva osservare che è il primo segretario del Pd che riceve una ovazione dai propri deputati Letta ha risposto scherzando: "Allora mi devo preoccupare".
Meloni: "Parlamentari festeggiano stipendio salvo"
Ore 21.11. "Caro presidente Mattarella, congratulazioni per la sua rielezione a presidente della Repubblica Italiana. L'Italia può sempre contare sull'Ue". Lo scrive in un tweet in italiano la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
Letta: "Rielezione Mattarella è vittoria di tutti"
Ore 21.13. "Auguri, caro Sergio, per la tua rielezione": comincia così un tweet di Emmanuel Macron per la rielezione di Mattarella. "So di poter contare sul tuo impegno - continua Macron - affinché viva l'amicizia fra i nostri paesi e questa Europa unita, forte e prospera che stiamo costruendo". Al tweet, il presidente francese ha aggiunto la foto delle evoluzioni delle pattuglie acrobatiche di Italia e Francia in occasione della firma del Trattato del Quirinale: "Viva l'amicizia tra l'Italia e la Francia!" conclude Macron, in italiano.
Von der Leyen: "Italia può sempre contare su Ue"
Ore 21.14. La Cei esprime "viva soddisfazione" per l'elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica. "Il suo mandato possa dispiegarsi all'insegna di quei valori di libertà e di solidarietà contenuti nella Carta costituzionale di cui Ella è sempre stato garante attivo e rigoroso", dice il cardinale presidente Gualtiero Bassetti. "Il suo esempio di uomo e di statista - prosegue - lo spirito di servizio e di sacrificio manifestato anche nella presente circostanza, costituiscono un punto di riferimento per tutti i cittadini al di là delle appartenenze politiche e degli schieramenti. Sono certo che nell'esercizio del Suo alto incarico non cesserà di contribuire al superamento delle disuguaglianze e delle fratture che feriscono il tessuto della comunità nazionale e che sono acuite dall'emergenza pandemica ancora in corso".
Macron: "Auguri caro Sergio, conta su di me"
Ore 21.17. Abbraccio e foto tra Enrico Letta e Giuseppe Conte in Transatlantico, tra gli applausi dei Grandi elettori, dopo l'elezione di Sergio Mattarella. "Che fatica", ha detto il segretario del Pd avvicinandosi al presidente M5S. "Comunque grandissima cosa", ha aggiunto.
I vescovi (Cei): "Grande soddisfazione per elezione Mattarella"
Ore 21.19. Il presidente della Camera Roberto Fico e la presidente del Senato Elisabetta Casellati stanno raggiungendo in auto il Quirinale per comunicare a Sergio Mattarella l'esito dell'ottava votazione in cui è stato rieletto presidente della Repubblica.
Abbraccio tra Letta e Conte in Transatlantico
Ore 21.20. "Grazie presidente Mattarella. Una scelta di grande responsabilità' contro il caos e per il bene comune. Più forte l'Italia in Europa e nel mondo. E ora avanti con il governo Draghi". Lo scrive su Twitter il commissario europeo per l'Economia, Paolo Gentiloni.
Fico e Casellati lasciano la Camera in auto per salire al Quirinale
Ore 21.24. "Mi congratulo vivamente con l'amico Sergio Mattarella per il rinnovato incarico a presidente della Repubblica italiana". Così su Twitter il presidente austriaco, Alexander van der Bellen. "Le auguro il meglio per il successo del suo secondo mandato. Penso già con piacere al nostro prossimo incontro", ha scritto van der Bellen.
Gentiloni: "Grazie Mattarella, ora avanti con governo Draghi"
Ore 21.25. Felicitazioni per la rielezione alla presidenza della Repubblica a Sergio Mattarella. Così su Twitter il presidente della Svizzera, Ignazio Cassis. "Con l'Italia condividiamo 800 chilometri di confine, una lingua, importanti legami economici e numerose convergenze in politica estera. Spero di ospitarla in Svizzera gia' nel 2022", ha scritto Cassis nel suo messaggio di auguri.
Presidente austraco Van der Bellen: "Congratulazioni a amico Mattarella"
Ore 21.26. Il presidente della Camera Roberto FIco e la presidente del Senato Elisabetta Casellati sono arrivati in auto al Quirinale. Ora nella sala del Bronzino comunicheranno a Sergio Mattarella l'esito dell'ottava votazione che ha sancito la sua rielezione come presidente della Repubblica.
Presidente svizzero Cassis: "Felicitazioni a Mattarella"
Ore 21.33. Il presidente della Camera Roberto Fico ha comunciato a Sergio Mattarella, al QUirinale, l'esito dell'ottava votazione che lo ha rieletto presidente della Repubblica. Poi gli ha consegnato i verbali della seduta.
Fico e Mattarella arrivano al Quirinale
Ore 21.35. "Sono giorni difficili che impongono di non sottrarsi alle decisioni del Parlamento". Queste le parole del presidente della Repubblica nel suo breve discorso al Quirinale davanti ai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Elisabetta Casellati.
Fico consegna a Mattarella il verbale della seduta dell'elezione
Ore 21.40. "Io non commento quello che sta accadendo nelle altre forze politiche, credo soltanto che anche nel M5S serva aprire una riflessione politica interna". Lo ha detto Luigi Di Maio parlando con i giornalisti alla Camera.
Mattarella: "Giorni difficili che impongono di non sottrarsi alle decisioni Parlamento"
Ore 21.43. "Alcune leadership hanno fallito, hanno alimentato tensioni e divisioni: dobbiamo lavorare per unire, per allargare, la politica in questi giorni è rimasta vittima di se stessa: per fortuna questo stallo l'hanno risolto il Parlamento grazie anche al contributo del presidente del consiglio Mario Draghi". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio lasciando Montecitorio dopo la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale.
Ore 21.49. "Non abbiamo vinto noi, ha vinto l'Italia. Oggi abbiamo un presidente di alto profilo, super partes, autorevole e garante di tutti", commenta con i cronisti in Transatlantico il leader M5S Giuseppe Conte.
Di Maio: "Alcuni leader hanno fallito. Situazione risolta grazie a Draghi"
Di Maio: "Ora aprire riflessione nel Movimento 5 Stelle"
Ore 21.50. "Voglio ringraziare il presidente Mattarella per il suo senso delle istituzioni, per il suo sacrificio. È molto importante rivolgersi un grazie". Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio fuori dalla Camera.
Conte: "Ha vinto l'Italia, abbiamo un presidente garante"
Ore 21.51. "L'Italia è sempre stata e continuerà essere una forza trainante all'interno dell'Unione europea. Congratulazioni a Sergio Mattarella per la sua rielezione a Presidente della Repubblica". Lo scrive su twitter la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola.
Di Maio: "Grazie a Mattarella per i suoi sacrifici"
Ore 21.58. "Sono contento e stanco" per un percorso di proposte di alto livello, di uomini donne, ora sono contento per Mattarella, che forse avrebbe preferito, umanamente, stasera, essere altrove". Così Matteo Salvini, ospite di Porta a Porta.
La presidente del Parlamento Ue Metsola: "Congratulazioni a Mattarella"
Ore 22.01. Telefonata di gratitudine di Matteo Salvini al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo comunicano fonti della Lega.
Salvini: "Contento per Mattarella che forse avrebbe preferito essere altrove"
Ore 22.09. "Congratulazioni al presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella per il suo secondo mandato. Ha dedicato gran parte della sua vita al servizio dei cittadini e la sua rielezione e' la testimonianza del ruolo importante che ha svolto in questi anni in Italia. #Quirinale". Lo scrive su Twitter la presidente della Bce Christine Lagarde.
Fonti Lega: telefonata di gratitudine di Salvini a Mattarella
Ore 22.10. "Il Parlamento con 759 voti ha rieletto Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica. A lui vanno i miei auguri più sinceri ed il mio ringraziamento. Continuerà' a essere garante assoluto dei valori della nostra Costituzione e un punto di riferimento per la nostra comunità nazionale": Lo afferma il presidente della Camera Roberto Fico.
Lagarde: "Mattarella ha dedicato gran parte della sua vita al servizio cittadini"
Ore 22.11. "Desidero esprimere al presidente Mattarella i più sinceri auguri per questo secondo mandato, che gli consentirà di esercitare con rinnovata determinazione la funzione di garante della Costituzione in una fase molto delicata per il futuro del Paese, che ci vede impegnati ad affrontare le sfide economiche e sociali connesse alla ripresa dalla pandemia". Lo dichiara il presidente del Senato, Elisabetta Casellati. "Sono certa che il suo autorevole esempio ci sarà di ispirazione e guida nell'affrontare queste sfide. Buon lavoro, presidente", ha concluso.
Fico: "Mattarella continuerà a essere garante della Costituzione"
Ore 22.21. "Desidero porgere le mie cordiali felicitazioni per la sua rielezione alla suprema carica della Repubblica italiana e formulare i migliori auguri per lo svolgimento del suo alto compito, che ha accolto con spirito di generosa disponibilità". Lo scrive Papa Francesco in un messaggio di congratulazioni per Sergio Mattarella, rieletto alla presidenza della Repubblica. Il papa assicura al presidente la sua preghiera "affinché possa continuare a sostenere il caro popolo italiano nel costruire una convivenza sempre più fraterna e incoraggiarlo ad affrontare con speranza l'avvenire".
Casellati: "Esempio Mattarella sia guida"
Ore 22.24. "Se Letta si fida ancora di me? Ci mancherebbe", ha detto ai cronisti in Transatlantico, alla Camera, il leader M5S Giuseppe Conte.
Papa Francesco a Mattarella: "Congratulazioni per alto compito"
Ore 22.25. Elisabetta Belloni "era un profilo neutrale, una soluzione autorevole e adeguata nel caso dello stallo". Lo ha detto Giorgia Meloni a Porta a porta su Rai1, spiegando di non aver votato Mattarella perché "la considero una forzatura costituzionale" con cui "barattiamo 7 anni di presidenza con sette mesi di legislatura" per la paura dei parlamentari di andare al voto. Salvini come gliel'ha spiegato? "Non me l'ha spiegato".
Conte: "Se Letta si fida di me? Ci mancherebbe"
Ore 22.36. "Se la mia valutazione su Salvini è cambiata dopo i contatti degli ultimi giorni? Abbiamo lavorato a una soluzione per il Paese, poi ognuno ha una sua agenda politica. A un certo punto Salvini ha voluto aprire gli spazi, cercare altri candidati, ma secondo me non c'erano le condizioni". Così il presidente M5S Giuseppe Conte, conversando con i giornalisti alla Camera.
Meloni: "Salvini non mi ha spiegato la scelta di Mattarella"
Ore 22.37. "Congratulazioni e auguri al presidente della Repubblica Sergio Mattarella da tutte le donne e gli uomini della Farnesina, in Italia e nel mondo La Sua guida sicura sarà nostra ispirazione per affrontare sfide attuali e future". È quanto si legge in un tweet della Farnesina.
Conte: "Salvini? Abbiamo lavorato a soluzione"
Ore 22.41. La riunione del Parlamento in seduta comune per il giuramento e il messaggio del Presidente della Repubblica si terrà giovedì 3 febbraio alle 15.30.
Farnesina: "Mattarella guida sicura e nostra ispirazione"
Giuramento Mattarella il 3 febbraio alle ore 15.30
Colloquio con Draghi e appello dei leader dei partiti per un bis al Presidente Mattarella : “Se serve una mano sono a disposizione”. Il Corriere del Giorno il 29 Gennaio 2022.
Lo stallo superato con un incontro di 40 minuti tra il Capo dello Stato e il premier al Colle. Vertice della maggioranza e via libera alla riconferma. Salvini annuncia: “Gli italiani non meritano altri giorni di confusione”. Berlusconi: “L’unità un dovere”. Renzi: con Mattarella-Draghi Paese in sicurezza. L’ottavo scrutinio sarà quello decisivo e comincerà alle 16.30.
La decisione di convergere sul capo dello Stato arriva dopo una mattinata di incontri e consultazioni tra i leader, il premier e lo stesso presidente della Repubblica che, raccontano in ambienti parlamentari, avrebbe ricevuto diverse telefonate dai leader di partito stamane mentre si trovava nella sua nuova casa di Roma. Mario Draghi ha fatto da “trait d’union” tra il Colle e le forze politiche dopo un colloquio con Mattarella a margine del giuramento al Quirinale di Filippo Patroni Griffi come giudice della Corte Costituzionale. È opportuno che Mattarella resti al Colle “per il bene e la stabilità del Paese” avrebbe affermato il premier – secondo quanto si è appreso da fonti autorevoli – allo stesso presidente della Repubblica e ai leader politici, che ha sentito nella mattinata. Dopo un vertice dei leader della maggioranza l’annuncio dell’intesa per chiedere a Mattarella di restare.
È durato circa un quarto d’ora l’incontro fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e i capigruppo della maggioranza, ricevuti al Colle poco prima della votazione con cui il Parlamento dovrebbe rieleggere il capo dello Stato. Secondo quanto riferito dai partecipanti, hanno preso la parola tre capigruppo. Al termine, Mattarella ha ricevuto una delegazione delle Regioni.
I capigruppo della maggioranza sono usciti assieme dal Palazzo del Quirinale, al termine dell’incontro col presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Il Presidente Mattarella ci ha detto che aveva altri piani per il suo futuro, ma vista la situazione ha detto che serve una mano lui c’è, si è messo a disposizione“. Lo ha dichiarato la capogruppo delle Autonomie al Senato Julia Unterberger lasciando il Quirinale. “Lo abbiamo pregato, vista la situazione, di restare per un altro mandato” ha riferito ancora Unterberger al termine del colloquio chiesto dai capigruppo al Capo dello Stato.
“È andato tutto bene”, ha confermato ai cronisti la senatrice Simona Malpezzi capogruppo del Pd al Senato. Parole che hanno sbloccato lo stallo. “A questo punto Mattarella va fatto nella votazione di oggi pomeriggio, non ha senso aspettare”, hanno detto fonti parlamentari mentre i centristi che hanno lavorato fino all’ultimo, anche in queste ultime ore, per la candidatura di Pier Ferdinando Casini hanno visto sfumare la possibilità. Una previsione confermata dalle fonti della maggioranza. “Si può chiudere su Mattarella già stasera”.
“Oggi pomeriggio rieleggeremo un grande presidente. #Mattarella #Quirinale”. Lo scrive su Twitter il senatore Pd Andrea Marcucci. Lunga e affettuosa la telefonata intercorsa tra Berlusconi e Mattarella. Il presidente Berlusconi ha assicurato al presidente Mattarella il sostegno di Forza Italia per la sua rielezione. “Questo è il momento dell’unità e tutti dobbiamo sentirlo come un dovere. Ma l’unità oggi si può ritrovare soltanto intorno alla figura del Presidente Sergio Mattarella, al quale sappiamo di chiedere un grande sacrificio, ma sappiamo anche che glielo possiamo chiedere nell’interesse superiore del Paese, quello stesso che ha sempre testimoniato nei 7 anni del suo altissimo mandato.” Così Silvio Berlusconi, dal San Raffaele di Milano dove è ancora ricoverato.
Il segretario Pd Enrico Letta all’assemblea con i grandi elettori alla Camera. “L’intero sistema politico-istituzionale si regge attorno al Capo dello Stato e al capo del Governo, che sono sopra la mischia“, ha aggiunto Letta. “Quel fragilissimo equilibrio retto attorno a due personalità straordinarie può essere modificato solo se c’è una intesa complessiva che tiene e, affinché ci sia, c’è bisogno della nostra logica del né vincitori né vinti. Questa logica per adesso ispira noi, ma non tutti gli altri“. “Altrimenti, il Parlamento ha una sua saggezza e mi sembra che si stia esprimendo. Assecondare questa saggezza è anche questa democrazia“.
Alle 16.30 si torna quindi in Aula per l’ottava votazione del presidente della Repubblica. E, salvo sorprese, sarà quella decisiva: l’intesa è stata raggiunta nel vertice di maggioranza e i capigruppo delle forze politiche hanno incontrato e chiesto al presidente Sergio Mattarella la disponibilità per una sua rielezione al Quirinale.
“Romanzo Quirinale”: 6° giorno, 8a votazione per l’elezione del Capo dello Stato. Il Corriere del Giorno il 29 Gennaio 2022.
“È un momento difficile, lei rappresenta l’unità del Parlamento. Grazie”. Questo il contenuto del ragionamento fatto dai capigruppo della maggioranza al Capo dello Stato Mattarella. “Rispetto il Parlamento anche se avevo altri programmi…”, la risposta del presidente della Repubblica ai capigruppo.
di Redazione Politica
Dopo il settimo scrutinio di questa mattina, al sesto giorno di votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica, si è giunti all’unica soluzione che mette insieme la maggioranza del Parlamento attuale, e cioè la rielezione del presidente uscente Sergio Mattarella. Una soluzione, sulla quale in molti sono pronti a scommettere: entro le 20 di oggi la fumata bianca. “Stasera si chiude”, ha detto Matteo Renzi, leader di Italia Viva ai suoi parlamentari. Quindi, salvo nuove sorprese e virate a cui queste frenetiche giornate hanno ormai abituato, la votazione del pomeriggio, l’ottavo scrutinio che partirà’ alle 16,30 di oggi, dopo la sanificazione dell’Aula, potrebbe risultare quella decisiva.
“È un momento difficile, lei rappresenta l’unità del Parlamento. Grazie”. Questo il contenuto del ragionamento fatto dai capigruppo della maggioranza al Capo dello Stato Mattarella. Ad intervenire, tra gli altri, sono stati i capigruppo al Senato del Movimento 5 stelle, Castellone, di FI, Bernini, del gruppo misto De Petris. “Rispetto il Parlamento anche se avevo altri programmi…”, la risposta del presidente della Repubblica ai capigruppo.
LA GIORNATA IN DIRETTA
Ore 16:21 | Emiliano: Mattarella non è sconfitta della politica
“È un momento importante, che restituisce serenità al Paese intero, alla comunità istituzionale e soprattutto alla gente. Tra breve potremo tornare al lavoro nelle nostre Regioni e quindi questa comune convergenza sul presidente Mattarella non è, come qualcuno immagina, la sconfitta della politica, anzi“. Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, all’uscita dall’aula di Montecitorio a Roma. Nel pomeriggio il governatore, con una delegazione di presidenti di Regione (grandi elettori) per incontrare il presidente Mattarella, si è recato al Quirinale insieme ai capigruppo della maggioranza.
“La sensazione è che ci siano personalità e storie che riescono a tenere insieme anche punti di vista diversi, ideologie diverse. Questo rafforza la Repubblica e naturalmente il ringraziamento va dato anche al Presidente Draghi per il contributo che ha dato alla chiusura di questo importante passaggio, che restituisce all’Italia anche la serenità del Governo. Il mio augurio è che oggi pomeriggio si possa definitivamente dare un assetto sia al Governo che alla Presidenza della Repubblica“. ha concluso Emiliano
Ore 16:23 | “Il presidente Mattarella è in ottima forma”.
Così’ ha commentato Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano come avesse trovato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’incontro coi presidenti di regione.
Ore 16:25 | Meloni: “Bisogna rifondare daccapo il centrodestra“
“Il centrodestra parlamentare mi pare che non esista. È ancora maggioranza nella nazione, credo che debba avere rappresentanza politica, lavoreremo per questo. Bisogna rifondare il centrodestra da capo. Per rispetto delle persone che si aspettano un cambiamento”. Così Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia, uscendo dalla Camera al termine della riunione coi grandi elettori di Fdi in vista dell’ottavo scrutinio. “Mi aspettavo un atteggiamento diverso da molte persone e che il centrodestra avesse molto più coraggio e convinzione nel fare una cosa che era alla portata: battersi con dignità, a viso aperto, con orgoglio per eleggere un Presidente distonico rispetto a quello che abbiamo visto negli ultimi anni – ha aggiunto Giorgia Meloni ai cronisti – Non era un obiettivo scontato, bisognava crederci. I margini c’erano. Questa cosa mi fa impazzire, mi fa impazzire che si sia rinunciato prima di tentare davvero. Mi dispiace ma noi di FdI abbiamo fatto di tutto”
Ore 16:30 | Al via l’ottavo scrutinio: maggioranza a 505
È iniziato l’ottavo scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica. Al banco della presidenza ci sono il presidente della Camera Roberto Fico e la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Il quorum richiesto è quello della maggioranza assoluta dei componenti dell’ assemblea pari a 505 voti. In seguito all’accordo raggiunto in mattinata dalla maggioranza dei partiti che sostengono il governo, dovrebbe condurre alla riconferma del presidente uscente, Mattarella.
Ore 16:37 | Letta: il governo ne esce più forte
“Eleggevamo il presidente della Repubblica, quindi non era in discussione il governo. Bisognava mettere insieme tre perimetri: maggioranza di governo, perimetro delle coalizioni, maggioranza che elegge con il capo dello Stato. Il governo esce oggi più forte. La maggioranza è stata unita, ha lavorato assieme”. ha ha detto Enrico Letta in conferenza stampa.
Ore 16:38 | Meloni: rilanciamo elezione diretta Capo Stato
“Immediatamente, all’esito di questo spettacolo indegno, rilanciamo la raccolta di firme online la proposta di legge d’iniziativa popolare per l’elezione diretta del Capo dello Stato, che giace in Parlamento“. Lo dice Giorgia Meloni, presidente di FdI, incontrando la stampa
Ore 16:40 | Il giuramento del Capo dello Stato mercoledì pomeriggio
Il giuramento del nuovo Capo dello Stato si terrà mercoledì pomeriggio tra le 15 e le 16. È quanto apprendiamo da fonti parlamentari.
Ore 16:43 | Fedriga: Mattarella ancora una volta uomo Stato
“Mattarella si è dimostrato ancora una volta un grande uomo di Stato” ha detto il presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga, al termine dell’incontro col presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Ore 16:56 | Letta: rimpasto? Per noi va bene così
“Sono sempre stato nella mia esperienza abbastanza ostile ai concetti di fase uno, fase due, tagliando. Finisce sempre male. Per quanto ci riguarda il governo va bene così ed è nelle prerogative del presidente del consiglio immaginare qualsiasi forma di cambiamento”. Lo ha detto Enrico Letta in conferenza stampa. “La politica è stata per qualche settimana in apnea, ora è importante che tutto funzioni al meglio“, ha aggiunto.
Ore 17:05 | Giorgetti: dimissioni? Serve nuova fase e metodo
“Sono felice che Mattarella abbia accettato con senso di responsabilità l’intenzione del Parlamento di indicarlo alla presidenza della Repubblica. Dimissioni? Per affrontare questa nuova fase serve una messa a punto: il Governo con la sua maggioranza adotti un nuovo tipo di metodo di lavoro che ci permetta di affrontare in maniera costruttiva i tanti dossier, anche divisi, per non trasformare quest’anno in una lunghissima, dannosa campagna elettorale che non serve al Paese”. Così il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti al termine di un incontro con il segretario della Lega Matteo Salvini. I due esponenti della Lega hanno chiesto un incontro a Mario Draghi, aggiungendo “Ma va, ma che rimpasto…non esiste…” negando che ci sia l’idea di un rimpasto dietro la sua richiesta di una nuova fase, di una messa a punto nell’azione di governo.
Ore 17:30 | Quirinale, FdI voterà Nordio
Fratelli d’Italia voterà’ Carlo Nordio durante l’ottavo scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica. Lo si apprende da fonti del partito di Giorgia Meloni.
Ore 17:35 | Conclusa seconda chiama senatori, ora votano deputati
Si è conclusa anche la seconda chiama dei senatori. Adesso ha inizio la prima chiama dei deputati. Durante la settimana votazione, dopo l’apertura al suo bis, i voti per il capo dello Stato sono aumentati salendo a 387 rispetto a ieri (336).
Ore 17:35 | Legge Elettorale, Letta: “deve essere in agenda nei prossimi mesi“
“La legge elettorale deve essere in agenda e, per quanto ci riguarda, c’è tutto l’interesse a metterla in agenda. Quella attuale è forse la più brutta che ci sia stata regalata. Ritengo che nell’agenda dei prossimi mesi la legge elettorale ci debba essere“. ha detto il segretario Pd Enrico Letta in conferenza stampa alla Camera.
Ore 17:40 | Bernini: convergenza su Mattarella riscatto politica
“La convergenza sul nome del presidente Mattarella non è la sconfitta, ma il riscatto della politica, perché si è arrivati a un accordo che garantisce continuità istituzionale e stabilità di governo. Una soluzione dunque che va prima di tutto nell’interesse del Paese nel momento in cui la pandemia non è finita, la ripresa va accompagnata con le riforme del Pnrr e le tensioni internazionali stanno purtroppo crescendo. Forza Italia ha svolto il suo ruolo con responsabilità, favorendo in autonomia, grazie alla guida del presidente Berlusconi, lo sbocco migliore a un’impasse che rischiava di determinare una crisi di sistema. Non ci sono nè vinti nè vincitori: oggi ha vinto l’Italia”. afferma la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini.
Ore 17:51 | Giorgetti: ora nuovo codice comportamento tra alleati
“Vedo che Letta – pronti, partenza e via – ha chiesto una legge elettorale proporzionale… Non è una questione di rimpasto. Già i problemi sono rilevanti se siamo una squadra, dobbiamo essere una squadra” ha commentato Giancarlo Giorgetti parlando con i cronisti alla Camera insieme a Matteo Salvini, ed aggiunto “Credo che sappiate perfettamente gli appuntamenti elettorali che ci sono nel prossimo anno, elettorali, di vario ordine e natura, referendari. Il governo ha fatto benissimo lavora benissimo ma un anno così richiede probabilmente quantomeno un codice di comportamento tra alleati di una maggioranza. Draghi sa anche lui cosa ci aspetta. Siccome i problemi sono importanti e socialmente impattanti se non c’è solidarietà di maggioranza è complicato“.
Ore 18:00 | Renzi ricorda il trasformismo e le capriole politiche della Lega e M5S
“E’ bello che in sette anni Salvini sia passato dal tweet del 2015 ‘Mattarella non è il mio presidente‘ a ‘Mattarella è la mia scelta‘, parole dette oggi. E’ bello che in sette anni la Lega è passato dal ‘no a Mattarella’ al ‘si’ Mattarella‘. ha detto Matteo Renzi parlando con i giornalisti davanti Montecitorio, ricordando che “i 5 stelle sono passati dalla richiesta di impeachment del 2018 ad oggi… ” concludendo “noi siamo quelli che sette anni fa hanno scelto e votato Mattarella con un sorriso e oggi scelgono e votano Mattarella con un sorriso ancora più grande“.
Ore 18:17 | Salvini: centrodestra compatto in 2023? Sì, ma capire chi ci sarà
“Certo, ma bisogna capire chi è nel centrodestra“. Così il segretario leghista Matteo Salvini risponde a chi gli chiede se il centrodestra si presenterà compatto alle politiche del 2023. “La Lega è stata trainante e compatta qualcun altro no”, nel centrodestra. “Berlusconi immagino fosse furioso coi suoi che in 40 non hanno votato il candidato presidente si chiariranno al loro interno“, ha aggiunto.”Giorgia Meloni dice che il centrodestra non esiste? È una amica, e non commento le parole degli amici”.
Ore 18:25 | Toti posta foto con Mattarella: “Grazie presidente“
“Con i miei colleghi governatori di Regione davanti al Quirinale dopo la visita al presidente Mattarella che, con grande generosità e profondo senso delle istituzioni, ha dato la sua disponibilità a continuare il suo mandato“. È il messaggio postato da Giovanni Toti, governatore della Liguria, su Twitter aggiungendo una foto con tutti i colleghi all’uscita dal Quirinale.
Ore 18:31 | Pd, Franceschini saluta Letta: “Ecco the winner”
Siparietto a margine della votazione di oggi pomeriggio alla Camera: il ministro Dario Franceschini si è avvicinato al segretario del Pd Enrico Letta in Transatlantico e, salutandolo, lo ha apostrofato con “The Winner!”. Il riferimento è all’intesa raggiunta nella maggioranza per arrivare a un secondo mandato di Mattarella al Quirinale.
Ore 18:45 | Letta: terrò matita con cui ho votato Mattarella
“La matita con la quale ho appena votato Mattarella. Me la tengo tra i ricordi. Belli”, scrive su Twitter il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, pubblicando una foto della matita in questione.
Ore 18:46 | Conte: con rielezione Mattarella ha vinto il Paese
L’ipotesi di scegliere una donna al Quirinale “non è stata una mera formalità“, ma “quest’ultima battaglia non siamo riusciti a vincerla, abbiamo trovato degli ostacoli”, ma di fronte a ciò avevamo “un’opzione di garanzia, assolutamente fuori quota”, Sergio Mattarella. Lo ha dichiarato in conferenza stampa il presidente M5s, Giuseppe Conte.“Ci sono tanti che parlando di vincitori e vinti. Noi non ci sentiamo vincitori o sconfitti in nessuna delle tappe. Non ha vinto Conte o M5s“, ma con la rielezione di Mattarella “ha vinto il Paese“.
Ore 18:59 | Salvini: “Belloni proposta da Letta e Conte”
“La proposta di Belloni non è venuta a me in mente: me l’hanno proposta Conte e Letta: poi se Letta ha cambiato idea…“. ha rivelato il leader della Lega, Matteo Salvini, a #maratonaMentana su La7
Ore 19:42 | Concluso il voto
Si è conclusa l’ottava votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. Ora il presidente della Camera Roberto Fico procederà allo scrutinio.
Ore 20:12 | Mattarella raggiunge il quorum
Il presidente uscente Sergio Mattarella raggiunge il quorum dei 505 voti necessari per l’elezione: l’Aula gli tributa un lunghissimo applauso.
Ore 20:22 | Bonomi: “Soddisfatti per rielezione”
“Desidero esprimere soddisfazione, da parte di tutta Confindustria, per la conferma di Sergio Mattarella al Quirinale: la sua autorevolezza e prestigio nel ruolo di garante della Costituzione e delle scelte europee e atlantiche è un presidio di credibilità nazionale“. Così Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria, sull’elezione del Capo dello Stato.
Ore 20:34 | Moratti: “Grande apprezzamento per Mattarella”
“Grande apprezzamento a Sergio Mattarella per aver accettato la conferma a Presidente della Repubblica. Grazie alla generosa disponibilità del Capo dello Stato, il Quirinale continuerà nella sua preziosa opera di tutela della Costituzione e di garante delle Istituzioni e dei Cittadini”, così la vicepresidente di Regione Lombardia Letizia Moratti.
Ore 21:48 | Mattarella: “responsabilità e rispetto decisioni Camere“
“I giorni difficili trascorsi per l’elezione alla presidenza della Repubblica nel corso della grave emergenza sul piano sanitario economico e sociale richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento” ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo aver ricevuto dai presidenti Fico e Casellati la comunicazione della sua rielezione. “Grazie a parlamentari e delegati per la fiducia” ha detto in televisione il rieletto Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha ringraziato “i parlamentari e i delegati per la fiducia“. “Le condizioni di grave emergenza sanitaria, economia e sociale che stiamo vivendo impongono di non sottrarsi ai doveri a cui si è chiamati e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti, con l’impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini”. ha concluso il rieletto presidente della Repubblica .
(ANSA il 29 gennaio 2022) - Sergio Mattarella è stato rieletto presidente della Repubblica. L'ottavo scrutinio è ancora in corso ma è stato superato il quorum dei 505 voti, necessario per l'elezione.
(ANSA il 29 gennaio 2022) - In Aula si leva un applauso: è il segno che i "contatori" hanno fatto capire ai grandi elettori che è scattata la rielezione di Sergio Mattarella.
Tutta l'Aula si è levata in piedi al raggiungimento del quorum per un lungo, liberatorio applauso. Tanti deputati stanno facendo foto e filmati con i cellulari. Emanuele Fiano, Simona Malpezzi ed Enrico Letta si danno il 'cinque'. Il Capogruppo M5S Davide Crippa è abbracciato dai colleghi. Il presidente Fico sta facendo "sfogare" l'Assemblea. A breve riprenderà lo spoglio.
(ANSA il 29 gennaio 2022) - "La rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è una splendida notizia per gli italiani. Sono grato al Presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo per un secondo mandato". Così il presidente del Consiglio Mario Draghi.
(ANSA il 29 gennaio 2022) - "Auguri, caro Sergio, per la tua rielezione": comincia così un tweet di Emmanuel Macron per la rielezione di Mattarella. "So di poter contare sul tuo impegno - continua Macron - affinché viva l'amicizia fra i nostri paesi e questa Europa unita, forte e prospera che stiamo costruendo". Al tweet, il presidente francese ha aggiunto la foto delle evoluzioni delle pattuglie acrobatiche di Italia e Francia in occasione della firma del Trattato del Quirinale: "Viva l'amicizia tra l'Italia e la Francia!" conclude Macron, in italiano.
(ANSA il 29 gennaio 2022) - "Congratulazioni a Sergio Mattarella per la sua rielezione a Presidente della Repubblica Italiana. Credo fermamente che l'Italia continuerà a contribuire costruttivamente alla crescita dell'Ue". Lo scrive in un tweet il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. (ANSA).
(ANSA il 29 gennaio 2022) - La politica italiana rielegge un "riluttante" Sergio Mattarella a presidente della Repubblica. E' il titolo del Washington Post che descrive Mattarella come un ampiamente rispettato ex giudice della corte costituzionale che ha ricevuto di recente una standing ovation di quattro minuti a La Scala.
L'elezione riflette anche "il fallimento dei deboli e divisi partiti politici italiani", che dopo una settimana di deliberazioni non hanno saputo trovare un accordo a sostegno di un singolo nome. La rielezione di Mattarella, aggiunge il Washington Post, è una "spinta alla stabilità dell'Italia di breve termine".
Il testo integrale del discorso di Mattarella, dopo l’elezione. Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2022.
Nella serata del 29 gennaio 2022, dopo aver ricevuto dai presidenti della Camera, Roberto Fico, e del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, , ha letto un breve messaggio al Paese. Ecco il testo integrale. Ringrazio i presidenti della Camera e del Senato per la loro comunicazione. Desidero ringraziare i parlamentari e i delegati delle Regioni per la fiducia espressa nei miei confronti. I giorni difficili trascorsi per l’elezione alla Presidenza della Repubblica, nel corso della grave emergenza che stiamo tuttora attraversando sul versante sanitario, su quello economico e su quello sociale richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati, e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti, con l’impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini.
Quirinale, il discorso di Mattarella dopo la rielezione: "Grazie per fiducia, accetto per responsabilità". L'Espresso il 29 gennaio 2022.
Ringrazia per la fiducia. E accetta il secondo incarico al Quirinale "per senso di responsabilità". È un discorso breve e asciutto quello che Sergio Mattarella ha pronunciato subito dopo la sua rielezione davanti ai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico ed Elisabetta Casellati, saliti al Colle per comunicargli l'esito della votazione del Parlamento. "Desidero ringraziare i parlamentari e i delegati regionali per la fiducia espressa nei miei confronti. I giorni difficili trascorsi per l'elezione della presidenza della Repubblica, nei giorni dell'emergenza che stiamo ancora attraversando, richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste considerazioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e devono prevalere su considerazioni e prospettive personali".
Il Mattarella bis spezza il disastroso gioco della sedia dei partiti. Susanna Turco su L'Espresso il 29 gennaio 2022.
La soluzione al rebus è ovvia, ma arriva in una maniera mai vista: i leader inseguono non tanto i Grandi elettori, ma la paura che tutto crolli. La politica è all’anno zero. La svolta è di Salvini, mentre alla Camera si teme di rieleggere il capo dello Stato «per caso». Ma il centrodestra è in pezzi, Giusepppe Conte arranca. E neanche Mario Draghi si sente tanto bene. «Oh ma non è per caso che eleggiamo Mattarella durante questa votazione, senza nemmeno accorgercene?». Alle 12.20 in Transatlantico un nuovo terrore misto a sollievo corre sul filo: quello della rielezione per caso, «a loro insaputa», ultima evoluzione della più nota «a mia insaputa» entrata nel brocardo della politica grazie a Claudio Scajola, nel lontanissimo 2010. Un’inconsapevolezza collettiva, in questo caso: cioè il contrario della politica, che è previsione, trattativa, sagacia, costruzione.
Il record di Enrico Letta: per due volte ha giocato la partita del Quirinale e per due volte ha puntato sul bis. Carlo Tecce su L'Espresso il 29 gennaio 2022.
Il segretario si è messo in difesa per non rompere il partito e sin da subito ha caldeggiato il secondo mandato di Mattarella come già accaduto con Napolitano. Stavolta le condizioni sono diverse e il Capo dello Stato potrà accettare senza date di scadenza o dimissioni prescritte. Enrico Letta sta per registrare un imbattibile record. Per due volte si è ritrovato a gestire il voto per il Quirinale, in condizioni diverse, e per due volte ha propiziato la nomina del presidente della Repubblica uscente. In soli nove anni.
Nel 2013 raccolse esanime il Pd dopo le dimissioni del segretario Pier Luigi Bersani e il tradimento dei 101 contro il fondatore Romano Prodi e fu il primo a incamminarsi verso il Colle per chiedere a Giorgio Napolitano quello che aspettava gli chiedessero: restare per un po’ nonostante gli 88 anni da compiere.
Mattarella rieletto presidente della Repubblica. Il più votato nella storia dopo Sandro Pertini. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 29 Gennaio 2022.
Mattarella bis: nel corso dell’ottava votazione, l’attuale e dodicesimo presidente della Repubblica è stato confermato dai grandi elettori. Draghi e Mattarella sono soli, e liberi da ogni condizionamento. I partiti si sono sciolti, e questa non è una brutta notizia.
Al termine del suo primo settennato, e dopo sette scrutini andati a vuoto e sei convulsi giorni di trattative, miseramente fallite, tra i partiti, Sergio Mattarella è stato rieletto presidente della Repubblica. Lo ha deciso questa sera il Parlamento con l’ottava votazione, stabilendo così il bis del Capo dello Stato uscente. Anche sette anni fa Mattarella fu eletto di sabato: era il 31 gennaio del 2015, allora ottenne 665 voti.
Con l’ ottava votazione, avvenuta questa sera sabato 29 gennaio 2022, il capo dello Stato, 80 anni, ha superato la maggioranza assoluta dei grandi elettori, fissata a 505 voti, con circa 760 preferenze. Mattarella ha dunque superato il “bis” di Giorgio Napolitano ed è il più votato dopo Sandro Pertini. Il superamento di quota 505 è stato sottolineato da un lungo applauso dei parlamentari presenti nell’emiciclo di Montecitorio.
Nonostante avesse lasciato la sua casa di Palermo ed affittato una casa nel quartiere Pinciano a Roma, dove si sarebbe trasferito in settimana dopo la cerimonia di fine mandato, adesso Sergio Mattarella dovrà restare al Quirinale. Nelle votazioni precedenti all’ottava che ha sancito la sua proclamazione, Mattarella aveva già ottenuto nei giorni scorsi voti dai Grandi elettori. Nella prima votazione del 24 gennaio scorso il Capo dello Stato uscente aveva ricevuto 16 voti, nella seconda 39, nella terza 125 e nella quarta 166. Alla quinta votazione per Mattarella hanno votato in 46 e alla sesta in 336. Fino ad arrivare alla settima (387 voti) e all’ ultima ottava votazione che lo ha visto eleggere.
Mario Draghi resta presidente del Consiglio e con Mattarella assicura la necessaria continuità fondamentale per il Paese. E’ un’ottima notizia per l’Italia che avrà ancora per un anno Mario Draghi premier a Palazzo Chigi, costituendo la coppia istituzionale che ha gestito il Paese dopo il disastro della pandemia. Siamo di fronte ad un vero e proprio cumulo di macerie dei partiti che escono “rottamati”.
E’ la seconda volta in poco meno di un anno che i partiti non sono riusciti a risolvere questioni fondamentali per il Paese; in un primo momento a non riuscire a formare un governo dopo la crisi del Governo Conte II, ed ora a scegliere un Presidente della Repubblica.
“La rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è una splendida notizia per gli italiani. Sono grato al Presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo per un secondo mandato” è il commento del presidente del Consiglio Mario Draghi.
“Caro presidente Mattarella, congratulazioni per la sua rielezione a presidente della Repubblica Italiana. L’Italia può sempre contare sull’Ue”. Lo scrive in un tweet in italiano la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
“Caro e stimato Amico Sergio Mattarella ! Mi congratulo vivamente per il rinnovato incarico a Presidente della Repubblica italiana e Le auguro il meglio per il successo del Suo secondo mandato. Penso già con piacere al nostro prossimo incontro”. Lo scrive su Twitter il presidente della Repubblica d’Austria, Alexander Van der Bellen a seguito della rielezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato.
Su Twitter, si è complimentato il presidente francese Emmanuel Macron: “Congratulazioni, caro Sergio, per la tua rielezione. So che posso contare sul tuo impegno per mantenere viva l’amicizia tra i nostri paesi e l’Europa unita, forte e prospera che stiamo costruendo“.
I presidenti di Camera e Senato. Roberto Fico ed Elisabetta Casellati si sono recati al Quirinale per formalizzare il risultato delle elezioni comunicandolo al riconfermato Presidente Mattarella. Il Capo dello Stato dopo che il presidente della Camera gli ha consegnato questa sera la lettera di elezione ha parlato brevemente dal Quirinale dove era stata prevista una diretta televisiva per l’evento.
Il Presidente Sergio Mattarella con il Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e il Presidente della Camera Roberto Fico, in occasione della comunicazione dell’esito della votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica.
“Desidero ringraziare i parlamentari e i delegati delle Regioni per la fiducia espressa nei miei confronti. I giorni difficili trascorsi per l’elezione alla presidenza della Repubblica, nel corso della grave emergenza che stiamo tuttora attraversando sul versante sanitario, su quello economico, su quello sociale richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati, e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti, con l’impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini” ha dichiarato Mattarella dopo che presidenti della Camera, Roberto Fico, e del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, gli hanno comunicato ufficialmente il risultato.
Per i leader la convergenza sulla rielezione del presidente Mattarella è uno “zero a zero” palla al centro. Di fatto nessuno di loro ha vinto, o meglio tutti hanno perso. Festeggiano i grandi elettori. La presidenza Mattarella garantisce stabilità, la naturale conclusione della legislatura, l’ultima prima del taglio dei parlamentari. Ad interpretare il sentimento nascosto dei parlamentari, a settembre scatta la pensione per tutti ai 65 anni di età, un particolare non indifferente anche se nessuno ne parla, ma in realtà quasi tutti sotto sotto ci pensano.
La legislatura a questo punto è salva ed il Parlamento può arrivare alla sua naturale conclusione del mandato elettorale nel 2023. Grazie a Sergio Mattarella e Mario Draghi.
La giornata dell’elezione di Mattarella: la svolta, i leader confusi, l’applauso liberatorio. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.
Le parole di Salvini, il tweet furioso di Meloni, il catenaccio di Letta, la gioia dei peones, la processione dei capigruppo, il caso-Giorgetti. Fino all’applauso finale, che fa calare il sipario su una settimana surreale.
La svolta della settimana che - per la seconda volta nella storia - ha visto la rielezione del capo dello Stato è alle undici del mattino del sabato. Matteo Salvini ha appena annunciato il sì alla rielezione di Sergio Mattarella. Si ferma un attimo in un angolo, al secondo piano di Montecitorio: «Io il grande sconfitto? Ho fatto diciotto riunioni, tutte inutili. Ho proposto nomi importanti, tutti bruciati. Ho detto alla sinistra: fateli voi, i nomi. Hanno risposto: Belloni, e poi se la sono bruciata loro. Basta. Mattarella resta al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi, i ministri e i parlamentari al loro posto»; e che cominci la campagna elettorale, l’unico contesto in cui Salvini dopo i disastri di questi giorni si sente davvero a proprio agio.
Giorgia Meloni twitta: «Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato. Non voglio crederci». Parole quasi sprezzanti per sancire che il centrodestra non esiste più, a questo punto ognuno per sé; e la Lega potrebbe prenderla in parola e lanciare la riforma proporzionale, graditissima ai democristiani del Pd, ai 5 Stelle e a Forza Italia. Dal suo letto d’ospedale, Berlusconi fa sapere che va bene così: se il capo dello Stato non può essere lui, meglio che non sia nessun altro; si va avanti con quello che c’era già.
In Transatlantico, Enrico Letta ha rimesso gli occhiali, che alle maratone tv si toglie perché la mascherina li appanna. Ha adottato la tecnica del Padova di Rocco, il catenaccio; è rimasto fermo, lasciando che gli altri andassero a sbattere. Ora dice: «Il Mattarella bis era il nostro sogno. È diventato realtà». Draghi però avrebbe garantito il Paese per sette anni; se nel 2023 la destra avrà la maggioranza in Parlamento, cosa accadrà? «Cercheremo di evitare che la destra abbia la maggioranza in Parlamento». Il ministro Andrea Orlando: «Aspettiamo a esultare, Salvini sarebbe capace di bruciare pure Mattarella». «Sergio è ignifugo» lo rassicura un peone. I peones, loro, sono decisamente allegri: sentono di aver sconfitto i tecnici e soprattutto di aver salvato lo stipendio, e pure la pensione.
Oltre a quelli del Pd, anche i grillini votano in massa Mattarella già nell’inutile rito del mattino: alla fine sono 387 le schede per il presidente. Dieci irriducibili votano Pierferdinando Casini, che si fa vivo rinunciando fuori tempo massimo a una candidatura a cui nessuno ha mai messo il veto, ma che non ha mai convinto davvero nessuno. Mario Draghi ha due voti, gli stessi di Emilio Scalzo, leader No-Tav finito in galera per aver picchiato un gendarme francese («se avesse picchiato uno dei nostri non gli sarebbe successo niente» mormora il questore della Camera Edmondo Cirielli, Fratelli d’Italia, ex carabiniere). La rielezione di Mattarella evita al premier l’umiliazione pubblica, ma pure la sua figura esce un po’ appannata: non aveva nascosto di tenere al Quirinale, e quasi tutti i partiti hanno fatto di tutto per non mandarcelo.
Alle tre di pomeriggio la penosa processione dei capigruppo – tra cui molte donne: Boschi, Bernini, Malpezzi, Serracchiani, Unterberger… – sale al Colle per implorare Mattarella di accettare la rielezione. Subito dopo arrivano al Quirinale pure i presidenti di Regione, sollevati: «I nostri elettori si lamentavano, i voti per Terence Hill e Nino Frassica li facevano molto arrabbiare». Giani (Toscana) racconta che Mattarella non appariva poi così affranto, anzi, «mi è parso soddisfatto, pronto ad andare avanti. I suoi collaboratori, Zampetti, Guerrini, erano felicissimi».
Al di là dell’enfasi mediatica su scatoloni, traslochi e caparra della nuova casa , che alla lunga potrebbe non avergli giovato, il presidente era sincero quando sperava di avere un successore. Ha preso un Paese gonfio di risentimenti antieuropei e antisistema, e si apprestava a lasciarlo con il più europeista dei governi, sostenuto dalle forze un tempo antisistema. Nei mesi più duri della pandemia ha rappresentato lo spirito di resistenza degli italiani. Dalla rielezione, per quanto storica, ha tutto da perdere. C’è un unico precedente: nel 2013 Napolitano maltrattò i grandi elettori che lo acclamavano, chiedendo riforme costituzionali che non hanno fatto una bella fine, mentre lui si dimetteva dopo due anni. Mattarella è stato chiaro su questo punto: non esiste l’istituto della rielezione a tempo; il presidente è arbitro del proprio destino.
Alle quattro e mezza del pomeriggio ricomincia per l’ultima volta la sequenza della chiama, delle mani da disinfettare, delle schede: la segretaria generale del Senato Serafin le apre, Fico le legge, la Casellati, che si è ripresa, le verifica. Ovviamente ora sono tutti i migliori amici di Mattarella. Clemente Mastella, che non vota – lo fa per lui la moglie senatrice – ma viene qui tutti i giorni, rievoca quando non avevano ancora trent’anni, «io ero capufficio stampa della Dc, Sergio era direttore del Popolo, e ci alternavamo come editorialisti. Poi lui diventò ministro, io sottosegretario: dovevo andare agli Interni con Gava, ma Sergio mi disse: Gava non ti vuole, perché non vai con Martinazzoli alla Difesa?».
Un capannello di parlamentari toscani sta parlando ovviamente di Renzi: «Stavolta Matteo non ha fatto il king-maker, ma ha bruciato prima Frattini, poi la Belloni. Questa notte la capa dei servizi avrà sfogliato il suo dossier, alla ricerca di qualcosa che non fosse ancora uscito…Matteo stesso l’ha detto: “Se adesso sparisco…”». Ovviamente scherzano. Non era una burla però il trionfale tweet di Grillo — « Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo» — scritto quando ormai la candidatura Belloni era stata affossata. Insomma i leader non ci stanno capendo più nulla. Si affaccia Conte, a esprimere soddisfazione nella sua neolingua borbonica: lui avrebbe preferito una donna, ma i gruppi erano per Mattarella, quindi va bene così. I 5 Stelle sono i più numerosi e i più divisi, infatti finiranno per scindersi tra i puri e i governisti, ma per il momento hanno retto anche se in serata esplode lo scontro Conte-Di Maio. Tra i forzisti colpiva la gioia maligna con cui molti hanno accolto la bocciatura della Casellati.
Micciché, sicuro fin dall’inizio della rielezione di Mattarella, spadroneggia: «Se volete vi do anche i numeri del Superenalotto e i vincitori delle corse ippiche, la schedina l’hanno purtroppo abolita». La Meloni apprezza meno la sicilitudine: «Siamo al Gattopardo, tutto deve cambiare affinché nulla cambi. Noi votiamo Nordio». Alla fine l’ex pm avrà 90 voti, 27 in più dei grandi elettori di Fratelli d’Italia: forzisti che gradirebbero tornare in Parlamento con l’amica Giorgia. Mattarella segue lo spoglio nel suo appartamento privato al Quirinale, insieme con i figli, i nipoti, i collaboratori; prepara qualche parola da dire agli italiani, in attesa di parlare alle Camere la prossima settimana. Ex deputati che proprio non riescono a dimenticare la politica fanno l’aperitivo alla buvette.
Alla fine, quando il rito consacra l’eletto anzi il rieletto, si crea sempre un’atmosfera, se non di solennità, di serietà. Alle 8 e 20 si arriva a quota 505, un grande applauso saluta idealmente Sergio Mattarella, anche se la pandemia impone pure qui il distanziamento. Letta dà il cinque a Fiano, Malpezzi, Serracchiani e al tesoriere Verini, che raccoglie matite elettorali per ricordo. Da destra applausi brevi, non c’è molto da festeggiare, il leghista Claudio Borghi si incupisce: «Molto buia è la notte». Giorgetti smentisce le voci di dimissioni , ma vuole portare Salvini da Draghi per parlare di un anno di governo che sarà durissimo.
Alle 20 e 44 Fico legge il responso, Mattarella ha 759 voti, ne mancano qualche decina. I grandi elettori si scattano a vicenda foto ricordo. Arriva Conte, di persona è decisamente più sciolto che in tv, abbraccia Letta, si fa i selfie – «fate presto che non riesco più a trattenere la pancia» – con i grillini, prudentemente si fa ripetere il loro nome; nel frattempo Di Maio chiede un «chiarimento politico».
I ministri del Pd assicurano che non c’è stata nessuna regia occulta, che ha contato molto la spinta dal basso del Parlamento, che ha cominciato a votare Mattarella anche quando la consegna era scheda bianca. Il messaggio dei peones era per Draghi: sentono di non contare molto più di nulla, sorvolati dai voti di fiducia, irrisi dai social; ma il capo dello Stato lo eleggono ancora loro; il tempo dirà se è stata lungimiranza oppure orgoglio.
Fuori nella notte attendono le autoblù, che portano Casellati e Fico sul Colle. Da Mattarella poche parole: le sue «prospettive personali» erano altre, ma l’emergenza sanitaria, economica, sociale, la volontà del Parlamento, il senso di responsabilità impongono di «non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati». Nel Transatlantico ci si congratula l’un l’altro, si ha fretta di dimenticare. Le trattorie attorno sono tutte prenotate. La vita incombe: la pandemia, le bollette, il Pnrr, l’inflazione, pure l’Ucraina, invocata di continuo anche se a nessuno importa nulla.
Cala il sipario, con un certo sollievo degli spettatori, su questa settimana surreale: i superalbi di Diabolik dell’on. Cantone, l’esilarante e melanconico resoconto sgarbiano delle telefonate tra Berlusconi e gli scoiattoli, il deputato in Ferrari, le ambulanze che ancora ieri mattina portavano a votare scheda bianca qualche parlamentare positivo al Covid mentre a duecento metri da Montecitorio una donna moldava morente aspettava un’ambulanza vera per un’ora, il leggendario Toninelli che esordisce «oggi è il giorno del silenzio» e poi arringa le telecamere per venti minuti, l’onorevole No Vax Sara Cunial che contesta la legittimità dell’elezione perché lei non ha potuto votare; e i tanti dettagli della commedia del potere impotente, i mille piccoli disgusti di se stessi – direbbe Rostand – che alla fine non fanno un rimorso pieno, ma un malessere oscuro.
Così è nato il Mattarella bis: le ore decisive e la lite nella notte su Belloni. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2022.
L’elezione del Presidente della Repubblica e ’ultima trattativa sulla responsabile dei Servizi segreti. E dalla rosa di Letta era sparito il nome Draghi. Lo stop dei leghisti del Nord a Casini.
Mattarella resta. La corsa al Colle viene interrotta all’ottavo giro per l’incapacità dei suoi protagonisti di arrivare al traguardo. Questo è il resoconto della sfida per il Quirinale politicamente più sgrammaticata della storia, zeppa di strafalcioni, scarabocchi, errori da matita blu. E dalla quale tutti escono a vario titolo sconfitti. La notte della politica è proprio l’ultima notte prima dell’esame, quando i leader si rendono conto che devono prepararsi a consegnare il compito. Ma il loro foglio è bianco. Nell’ansia di recuperare il tempo perso, dopo aver detto che «c’era tempo», Salvini si fa dare l’ennesimo mandato dagli alleati di centrodestra. Sono d’accordo che sui nomi non c’è accordo, ma su un punto si intendono: nessuno vuole un secondo incarico al capo dello Stato uscente. D’altronde il leader del Carroccio lo aveva anticipato all’assemblea dei grandi elettori leghisti: «... e non accetteremo mai un Mattarella-bis». Così, dopo aver incontrato il premier, si chiude con Letta e Conte — a loro volta divisi — per discutere chi scegliere.
Già lì accade qualcosa di strano, perché il segretario del Pd davanti al capo di M5S presenta una rosa di nomi senza Draghi. Più tardi, Salvini racconterà maliziosamente che «quando con Letta parlavamo in assenza di Conte, il nome di Draghi non mancava». Stava nella lista insieme ad altri, compreso Mattarella. Non è proprio un esercizio di stile confondere in un parterre di quirinabili chi siede al Quirinale. Ma Conte e Salvini non ci fanno caso, perché nella rosa c’è il nome su cui puntano: Belloni. E dire che nel Pd era già scoppiato il putiferio tre giorni prima: proporre alla presidenza della Repubblica il capo dei servizi segreti non è roba da Paese dell’Occidente democratico. Riproporlo e trovare un’intesa su quel nome è diabolico. Eppure questo accade. E quando Conte (insieme a Salvini) rende pubblicamente noto che stanno puntando su una donna, il gioco pare chiuso. Franceschini sembra rassegnato: «È fatta purtroppo, perché con i voti della Meloni hanno i numeri. E in Aula si creerà un effetto trascinamento che ci costringerà a votarla». La De Petris, una vita passata nelle file di sinistra, si attacca al cellulare e in romanesco avvisa i compagni del Pd: «C’avete proprio rotto er...».
Mattarella bis, settimane in silenzio, poi il tormento delle votazioni. Per il presidente il mandato è di sette anni
Non proprio con queste parole, ma con lo stesso tono di voce, Guerini spiega a Letta alcuni rudimenti di politica. Più tardi confiderà a un deputato del suo partito: «Non ho mai gridato così in vita mia». Grida al telefono anche con i dirigenti di Forza Italia, perché dichiarino subito la loro contrarietà alla candidatura. Con Renzi non c’è bisogno, si muove di suo: «Hanno provato a mettercela nel (bip) con Frattini. Ora ci riprovano con Belloni. Se non li fermiamo lanceranno anche il generale Figliuolo». Renzi ha appena finito di cenare con Casini, che oscilla tra l’ottimismo e il più nero pessimismo: per questo gli ha offerto una pizza e una bottiglia di champagne. Intanto i forzisti escono dal letargo e organizzano insieme agli altri centristi un piano per la resistenza.
Nel retro di un ristorante Toti chiama Di Maio, che sta alterato di suo: «È una cosa folle. Non ne sapevo nulla. Ho sempre detto che se si deve andare su un tecnico per me c’è solo Draghi. Se è un politico, si può fare con Casini». E allora comincia la conta per Casini. Solo che Salvini non può starci, perché su quel nome i leghisti del Nord sono sopra le barricate. Dirà il governatore lombardo Fontana «non sarei più potuto andare alle feste di partito e a casa sarei arrivato solo se scortato».
I numeri ballano e intanto i ministri forzisti premono perché il Cavaliere vada su Mattarella. Sanno che Draghi ha realizzato di non avere spazio e sta spingendo affinché sul Colle resti l’inquilino in scadenza di affitto. Peraltro nel pomeriggio, previdente, Giorgetti aveva invitato il dem Delrio a far sì che sul capo dello Stato uscente iniziassero a «scivolare» a scrutinio segreto un po’ di voti: «Perché vedo come si stanno muovendo questi pazzi e temo che si vadano a cacciare in altri guai. Fermiamo questa giostra». E la giostra si ferma: i voti per Casini non garantiscono e Berlusconi vira su Mattarella.
Per Salvini e Conte è il game over. Il leader della Lega prova a intestarsi il bis e viene bocciato dai suoi stessi compagni di partito: «Se era la sua prima scelta, avrebbe dovuto proporlo alla prima votazione». E quando Franceschini incorona Letta come «the winner», lividamente Conte rende noto che «Letta puntava su Draghi, dunque anche lui ha perso». Le scolaresche il giorno dopo salgono al Quirinale e ammettono di essere impreparate: «E con minore ruvidità di Napolitano — dice Toti — ci ha congedati». Non prima dell’ennesimo siparietto di cui si rende protagonista il forzista Barelli, che si rivolge così a Mattarella: «Presidente, se ha bisogno di spostare gli scatoloni, può contare su di noi». «Farò da me». E lo farà per sette anni: «La mia non sarà una presidenza a tempo». Di Maio avrà tutto il tempo per fare ciò che si è ripromesso: «Chiederò la verifica nel Movimento. Perché quello è pericoloso e se ne deve andare». Fine della ricreazione.
Le pagelle dei leader nella partita del Quirinale. di Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.
Risultato ottimo, ma hanno copiato. Nessuna idea nuova è giunta in porto e i voti ne risentono. Si chiude il trimestre: che cosa resta nella bisaccia dei capi in attesa dell’esame elettorale di maturità?
MATTEO SALVINI
Quei nomi nel frullatore e la coalizione si sfalda
Matteo Salvini passa da un’ovazione bulgara all’altra dei suoi grandi elettori e di volta in volta soavemente infila nel frullatore un ex presidente del Consiglio di Stato, un capo dei Servizi segreti e un presidente del Senato (l’ultima ci mette del suo). Non offre una rosa, ma addirittura un mazzo. Nomi su nomi che durano lo spazio di un amen. Appena esce dai vertici e scemano gli applausi, nella Lega si sentono solo mugugni. Forza Italia si stufa e tratta da sola, Fratelli d’Italia un po’ lo preme e un po’ lo asseconda, non si sa bene se per aiutarlo o per il gusto sadico di vederlo inciampare. In pochi giorni sotto la sua guida la coalizione vacilla, sbanda, sbarella, litiga e divorzia. Ognuno per sé, tra agguati, sgambetti e nostalgia per Silvio Berlusconi. Umberto Bossi inanella rasoiate e gli tira i coriandoli, concludendo che con lui non si batte un chiodo e azzeccando la profezia: vedrete, alla fine farà quello che gli dice il Cavaliere. Resta in sella soprattutto perché nella Lega è il più bravo, ma forse non come una volta, a fare la campagna elettorale.
Voto 4
GIORGIA MELONI
Ha una parola sola ma non si mette in gioco
Il generale e filosofo cinese Sun Tzu, vissuto mezzo millennio prima di Cristo, avverte che non si vincono le battaglie se si pretende di uscirne così come si è entrati. Giorgia Meloni non ci crede, evidentemente, perché non solo non riporta ferite, ma nemmeno gli abiti si sgualciscono. È la sua forza, la donna con una parola sola, ma anche la sua debolezza, perché non si mette mai davvero in gioco. No al governo di unità nazionale, no all’accordo finale sulla conferma di Mattarella. Posizioni che sottopone al giudizio degli elettori, con qualche ragione di successo, ma nessuno l’ha vista ancora misurarsi, in senso lato, in ruoli di governo del Paese. Però si sa muovere, eccome. Sposa e in buona parte impone il tentativo della spallata, anche se pochi dubitano della sua capacità di prevedere che sarebbe fallita. Salvini quasi ci lascia le penne, mezza Forza Italia si lecca le ferite, ma lei no, non rimedia nemmeno uno schizzo di fango. Certo, non incassa il voto anticipato, ma le elezioni arriveranno. Non si sa però se basterà un voto in più della Lega per impugnare il timone.
Voto 5+
SILVIO BERLUSCONI
Si ritira ma continua ad esercitare il suo ruolo
Nella dottrina morale cattolica la superbia è considerata il peccato narcisistico per eccellenza e Silvio Berlusconi ci inciampa, tenendo inchiodata per troppo tempo la sua coalizione nel tentativo velleitario di salire lui sul Colle. Certo, si ravvede, ma ormai la carta l’ha giocata ed è costretto a lasciare Matteo Salvini a trastullarsi. La salute lo obbliga a guardare i contorcimenti della coalizione che ha fondato, e cresciuto per un quarto di secolo, dal San Raffaele. Troppo lontano da Montecitorio per mettere mano quando rancori, rivalità e improvvisazioni prendono il sopravvento. Con lui distante i suoi sono poco più che gattini ciechi, e questo gli consente alla fine di esercitare ancora un ruolo importante, tanto che si attribuisce a lui la lucidità per convergere in zona Cesarini su Sergio Mattarella. Lo aspetta una strada impervia, con il centrodestra, pur favorito nei sondaggi, che non c’è più. È ancora lui l’unico che può tentare di tenere insieme la baracca, vittima della voracità degli alleati, sempreché non si stufi e decida di stare a guardare mentre vanno a sbattere.
Voto 5+
GIUSEPPE CONTE
Si perde in duelli interni: la sua guida è a rischio
Ginocchia flesse, spalla avanti, gomito in linea con il polso. Giuseppe Conte perde il suo tempo a duellare di fioretto con Luigi Di Maio, senza però avere il coraggio di impugnare la scimitarra. Costringe Beppe Grillo a fare l’equilibrista, per evitare che la sua creatura si sbricioli, si scinda e si condanni all’irrilevanza ancora prima della sentenza delle urne. Civetta con Matteo Salvini, dimenticando la furia del Papeete e rimpiangendo l’antica amicizia. Il Pd lo guarda con sospetto ma lui giura che non intende tradire l’alleanza. Così come giura che il suo è un sì convinto a Mario Draghi, un sì perché resti al governo. Che è più o meno l’equivalente di dire ti amo come una sorella. Le assemblee dei suoi gruppi parlamentari lo prendono più volte d’infilata, obbligandolo a lunghi giri, tutti di corsa, per sorpassarli e mettersi di nuovo alla testa, adeguandosi alla nuova linea. L’amico Luigi sta quasi per strozzarlo quando goffamente contribuisce, con l’amico Matteo, a mettere in difficoltà Elisabetta Belloni, con una candidatura improvvisata. La sua leadership è a rischio.
Voto 4,5
ENRICO LETTA
Porta a casa il risultato, guai tra satrapi e alleati
Nel partito dei satrapi, dove ce n’è sempre per lo meno uno golpista, Enrico Letta riesce, con pazienza, a portare a casa la pelle. Non malaccio per un segretario sceso in campo con truppe scarse e a dir poco riottose. Si spende a lungo, con prudenza, per Mario Draghi, muovendosi sul filo del rasoio, con Giuseppe Conte che vuole il premier morto, in compagnia di Dario Franceschini, e contando sull’ambivalente sostegno a distanza di Luigi Di Maio. E siccome non si tratta di fatti personali, ma solo di politica, cura anche il canale con Italia viva. Azzecca la tattica parlamentare sulla prova di forza con Maria Elisabetta Alberti Casellati, lasciando il centrodestra a contarsi. Invita al volo a assecondare la saggezza dei grandi elettori, dopo la prova del nove su Mattarella. Ma si muove sulle uova. Gli fanno notare che Conte è ambizioso,e lui dice che è uomo d’onore . Lo avvertono che Saigon, al confronto del Pd, sembra Disneyland, e lui celebra l’unità. Lo aspetta un anno scivoloso, che si chiuderà, prima del voto, con la formazione delle liste. Per la serie il pericolo è il mio mestiere.
Voto 6,5
MATTEO RENZI
Da pirata a corsaro arriva il doppio passo
La goletta pirata di Matteo Renzi si trasforma via via, nel corso della partita in una nave corsara. La differenza è sostanziale: la prima va all’assalto con un solo obiettivo, il bottino. La seconda seguendo un progetto. Entra nell’agone sostenendo che spetta al centrodestra fare la prima mossa, attirandosi più di un sospetto di intelligenza con il nemico. Non sarebbe la prima volta che mescola i suoi voti senza pregiudizi. In realtà cerca invece di perseguire l’obiettivo di un accordo ampio, mantenendo aperto il confronto e, udite udite, trovando anche un robusto filo di dialogo con Letta. Guarda a Casini, spinge per Draghi, vede prima di altri la possibilità di convergere su Mattarella. Lo aiuta anche la capacità di mettersi alla guida di situazioni che lo sorpassano. Probabilmente si guadagna sul campo il diritto a una legge elettorale con una soglia bassa di sbarramento. Ma anche in caso di sconfitta ha un paracadute: i pirati, una volta catturati, venivano giustiziati senza processo. I corsari no, erano considerati prigionieri di guerra.
Voto 6
Quirinaleide, ecco le pagelle dei protagonisti. Chi vince, chi perde e chi pareggia: ecco la fine della "occupazione" dello Stato da parte dei partiti. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 30 gennaio 2022.
La tentazione di dare le pagelle per questa quirinaleide è forte – e chi sono io per sottrarmi.
Nell’elenco dei peggiori, metto Salvini, un vero ganassa, un capitan sfracasso inconcludente che è riuscito a bruciare e rendere irricevibile quella obbiettiva possibilità per il centro-destra di fare un nome per il Quirinale e che con la stessa candidatura, mai formalizzata e poi ritirata, di Berlusconi era stata messa nel piatto, candidatura che lo stesso Salvini, per primo, aveva contribuito a infragilire; Salvini non è cambiato mai da quando era un “giovane leghista” che gridava “forza Etna”, sempre sopra le righe, passando per il Papeete, le sue tirate allarmistiche e feroci contro gli immigrati e i meridionali – questa non è la Lega che amministra sui suoi territori del nord, concreta e capace: prima o poi, anche se Salvini riesce ancora a raccogliere la melma del voto degli italiani, questa frattura si spezzerà. Non solo, ma senza questo riequilibrio della Lega, non ci sarà ricomposizione del centro-destra: io dico che il prossimo leader della Lega sarà Luca Zaia, non Giorgetti.
Poi, tra i peggiori, c’è Grillo – con il suo infelice tweet su #signoraitalia, che spingeva la candidatura della Belloni, e quindi la costruzione di un asse Conte-Salvini, nel nome di una “candidata donna” e anche “né di destra né di sinistra”, una retorica vieta e banale che puntava alla prova di forza in nome dell’inamovibilità di Draghi dal suo posto che squassava però proprio il governo con la ricostituzione di una maggioranza forte (il vecchio asse giallo-verde) dentro una maggioranza più larga – un ragionamento insostenibile, cucinato già prima da Grillo con il suo ultimo video, in cui non si capiva una sega, tranne che lui mollava Draghi.
Il terzo dei peggiori è Conte – un vanitoso avvocaticchio e professoricchio che porta bene la sua pochette, che vanta numerose fan di signore di mezza età (maschi e femmine) per il suo ciuffo sempre a posto, già capace di cambiare un alleato con un altro nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso nel volgere di una notte pur di restare in sella: uno scivoloso capitone. Davvero un personaggio inqualificabile, un malfidato che indebolisce ulteriormente un centro-sinistra già scombiccherato di suo, e che ha giocato una pessima partita per il Quirinale.
Tra i migliori metterei Casini, un po’ per quel suo stare defilato anche se sapeva che il suo nome era in corsa, eccome, ma soprattutto quando ha fatto sapere urbi et orbi che pregava di cancellare ogni sua possibile candidatura mentre diventava credibile la riconferma di Mattarella, dando così un saggio di ciò che significa essere democristiani d’antan. Casini potrebbe essere uno dei “costruttori” di un nuovo centro largo.
E tra i migliori c’è sicuramente Draghi, il migliore di tutti, anzi: la sua “geometria invariata” («non sono possibili maggioranze diverse nell’elezione del presidente e nel sostegno al governo») vince. Chi lo critica per avare avanzato una sua candidatura («il nonno a servizio delle istituzioni») continua a non capire una ceppa dell’uomo e a fare ricorso a epiteti e pregiudizi. Draghi non poteva mettersi apertamente e “privatamente” in corsa perché questo avrebbe significato uno sgarbo nei confronti di Mattarella, uno sgarbo e una incrinatura che si sarebbero riversati in quella possibile “riproposizione” della squadra vincente che non si cambia, che è poi accaduta davvero – d’altronde, lui è lì perché Mattarella l’ha chiamato.
Poi, ci sono i pareggiatori, quelli che non perdono ma neppure vincono, ma vanno più verso la vittoria che verso la sconfitta: Letta, che ha giocato solo di interdizione, nella peggior riproposizione del catenaccio all’italiana, ma poi mette la palla in rete; Renzi, che si è tirato fuori, consapevole del suo “peso” di scarso rilievo, ma che alla fine si ritrova con i due nomi che lui ha voluto stessero proprio dove sono; Di Maio, che non poteva andare contro Draghi, visto che è ministro di questo governo e in un ruolo enorme – anche se non sempre onorato come si deve, ma il ragazzo si farà – e che comunque è un governista di natura ma si è ritrovato alle dipendenze di un segretario, Conte, che faceva e disfaceva per conto proprio, e ha saputo tenere botta, che poi è la cosa che gli riesce meglio, la facciaditolla: chissà che non possa anche lui far parte di un nuovo centro. E infine Meloni, che perde per un verso – una qualsiasi voce in capitolo nel centro-destra – ma che incassa per un altro – intestandosi l’opposizione dura e pura a Draghi – anche se questo non farà di lei una possibile leader del centro-destra come area governativa e anzi la fa scivolare verso un pericoloso estremismo o comunque verso un “fattore di esclusione”.
Detto tutto questo – che è “colore” – io penso che l’elezione rinnovata di Mattarella sia davvero la conclamata fine della Prima Repubblica, che poi è anche la Seconda e la Terza: ovvero del ruolo che i partiti hanno sempre avuto nell’essere contemporaneamente “Stato”.
Tra i partiti e lo Stato (le istituzioni) quella sovrapposizione che ha caratterizzato, e sostanzialmente anche “aiutato”, la costituzione materiale di questo straccio di democrazia che abbiamo avuto dal secondo dopoguerra, si è aperta una frattura insanabile. Le istituzioni – lo Stato – sono una cosa a sé: dal Presidente della Repubblica, passando per il presidente del Consiglio, e poggiando sui governatori delle Regioni e i sindaci (e aggiungerei la Consulta, fresca di nomina di Giuliano Amato), lo Stato si va riassettando e configurando come una cosa “diversa”, altra dai partiti, dalla politica. È un “progetto” forse coltivato con più consapevolezza dai dem, soprattutto per il loro ruolo in Europa, ma che certo non possono intestarsi, perché ne è contemporaneamente la loro “fine politica”, la loro “eutanasia politica”. Direi che in questa forma si può spiegare la “partita” di Letta e il modo con cui l’ha giocata. E forse anche la “mossa” di Grillo verso la Belloni.
La fine della “occupazione” dello Stato da parte dei partiti è di quelle notizie che non è facile interpretare. Uno Stato “senza partiti”, ovvero senza politica, dove conta l’autorevolezza del ruolo (il consenso sociale di Draghi e Mattarella) legato a un “formalismo istituzionale” di garanzia che mette sotto il tappeto le contraddizioni della “rappresentanza”, quindi della società – può davvero lasciare il passo a una democrazia formale, svuotata cioè di quell’anima che solo la sostanzia, ovvero la differenza di interessi, ovvero il conflitto. Ma apre, nello stesso tempo, a una riflessione enorme – su cui bisognerà tornare – tra il centro e la periferia. Ovvero: tra nuova forma dello Stato e nuova politica.
Mattarella-bis, Enrico Letta sconcertante: "Me la tengo tra i ricordi, quelli belli". Travolto dagli insulti. Libero Quotidiano il 29 gennaio 2022.
“La matita con la quale ho appena votato Mattarella. Me la tengo tra i ricordi. Belli”. Lo ha scritto Enrico Letta a corredo di una foto scattata subito dopo aver espresso la sua preferenza per il bis di Sergio Mattarella al Quirinale.
Ancor prima che venisse raggiunto il quorum, il segretario del Pd si è lasciato andare e ha esultato per l'imminente verdetto dell'aula. Lo ha fatto sui social, dove vuole spacciare il bis come una grande vittoria. (forse perché in tempi non sospetti è sempre stato sostenitore del Mattarella bis?). Peccato però che Letta sia uno sconfitto al pari di tutti i suoi colleghi.
Rieleggendo l’attuale capo dello Stato, i leader dei partiti che compongono la maggioranza sono usciti da questa partita con un grosso danno a livello di credibilità e capacità politiche. Mattarella costretto a quel bis che non voleva. Non a caso sotto al post della matita Letta ha ricevuto decine e decine di commenti di cittadini arrabbiati e delusi per come è stata giocata la partita sul Quirinale. Tra l’altro il segretario del Pd ha fatto registrare un record imbattibile (o almeno si spera): quello di aver eletto per due folte di fila lo stesso presidente della Repubblica che già era in carica.
L’ottimismo della matita: un segno sul Colle. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2022.
Un segno sul Colle. La matita scrive ombre di parole, dice il poeta, ed è un peccato dilapidarla. I «grandi elettori» che hanno nominato il presidente della Repubblica erano 1.009: per ogni scrutinio erano a disposizione altrettante matite che, dopo l’uso, venivano eliminate per ragioni sanitarie o, poche, portate a casa da chi le aveva usate: fatti due calcoli, «hai risolto un bel problema/e va bene così/ma poi me ne restano mille/poi me ne restano mille». In una filastrocca su un bosco incantato, Gianni Rodari lamentava una sola cosa: «C’è quasi tutto, insomma, ma non c’è, udite udite!, l’albero delle matite». Federico Fellini diceva che aveva bisogno di avere sempre in mano una matita perché la sua immaginazione si animasse davvero.
I «grandi elettori» (piccoli lettori) sono entrati prima in confusione, ma infine dalla leggerezza della matita, dalla rotondità della guaina di legno dolce e dalla punta ben temperata sono stati costretti alla nobiltà della scrittura e della scelta. Non per caso, nella «Storia della matita», Peter Handke esalta le doti segrete che il «lapis» custodisce: concentrazione e silenzio.
Ebbene, queste (e)lezioni quirinalizie passeranno alla storia per essere state caratterizzate dal pessimismo della gomma (per cancellare) e dall’ottimismo della matita.
Dal Bla bla bla in stile Greta all’uovo di Mastella. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2022.
ANSIA Col debito pubblico al 160%, l’impennata dei costi dell’energia sulle imprese, le famiglie angosciate per le bollette carissime, i picchi spropositati dei morti per Covid e i venti di guerra in Ucraina c’era davvero bisogno di caricare l’Italia di altra ansia dovuta a uno scontro così scomposto agli occhi dell’Europa? Mah...
BLA-BLA-BLA Chissà cosa avrebbe detto Greta Thunberg se avesse assistito alla girandola impazzita di proposte, polemiche, chiacchiere e deliri intorno a un tema così serio in questi tempi così seri. Potete scommetterci, avrebbe liquidato tutto come dopo il vertice di Glasgow: «Bla-bla-bla». Sinceramente: un passaggio politico così importante meritava di meglio.
COLEOTTERO «Quando proposi di mandare una donna al Quirinale scrissero: bella provocazione. Manco avessi proposto un coleottero. Sono parole che Giuliano Amato, da ieri presidente della Corte Costituzionale, disse un quarto di secolo fa. Sia come sia, magari per i motivi più sacrosanti, anche stavolta è andata così. Non sarà il caso di chiedersi «come mai proprio mai»?
DONNA «Casellati non è candidata in quanto donna ma in quanto figura istituzionale e valido professionista e servitore dello Stato riconosciuto a livello nazionale e internazionale» (Salvini, venerdì mattina, prima della batosta). «Sto lavorando perché l’Italia abbia finalmente un presidente donna in gamba, non in quanto donna, ma in quanto presidente donna in gamba (ancora Salvini, la sera, dopo il tracollo)
ELISABETTA II «Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo». Manco il tempo che Beppe Grillo benedisse con un tweet Elisabetta Belloni, dopo il tramonto dell’omonima, e nel M5S esplodeva il caos. Farsi una telefonata prima? Troppa fatica? Resta un dubbio: fino a che punto Enrico Letta, confrontandosi con Salvini e Conte aveva lasciata aperta la porta a una candidatura della stimatissima segretaria generale della Farnesina oggi direttrice dei «servizi»?
FEDERALISMO Parola icona sventolata per anni dalla Lega anche nella variante più bellicosa (Bossi: «Il Nord o vede arrivare lo Stato federale o riprende la via della lotta di liberazione, della secessione») è del tutto sparita nella settimana elettorale quirinalizia. Neppure una citazione, in tutte le declinazioni, su tutte le agenzie. Come un tema secondario.
GRIGLIATA Non occorre essere Steven Raichlen, campione mondiale di barbecue, per sapere una cosa: mai mettere troppa carne al fuoco. La destra aveva più legna di tutti: 452 grandi elettori. Ma via via, dopo aver riscaldato a bagnomaria Silvio Berlusconi, ha messo sulla griglia di tutto: Marcello Pera, Letizia Moratti, Carlo Nordio fino a tastare qua e là altre ipotesi vere o fasulle, da Sabino Cassese a Franco Frattini a Giampiero Massolo fino a incenerire Elisabetta Casellati e per poi appiccicare le fiamme anche a Paola Severino ed Elisabetta Belloni. Il risultato è noto.
IMPEACHMENT «L’impeachment di Mattarella non si può fare? Sbagliato, si può fare. Se la Lega non arretra, l’impeachment è una certezza assoluta», disse Luigi Di Maio alla fine di maggio del 2018. Ieri sera gongolava come fosse il trionfo del nonno prediletto.
LEGISLATURA Così bello è il palazzo coi suoi stucchi, i suoi divani e le sue prebende che i 345 parlamentari destinati a lasciare le Camere dopo i tagli hanno pesato assai sul rifiuto di interrompere la legislatura. Al di là di ogni ideologia. Tanto da ricordare un sonetto del Belli: «Co sta razza de mobbili a palazzo, / che maravija poi si a li signori / je viè la voja de nun fa’ più un ca...»
MARIO (DRAGHI) «Comunque vada, il Paese tra pochi mesi entrerà in campagna elettorale e non c’è chi ignori che tale periodo sia di solito fatale per i governi di unità nazionale. Inoltre, il presidente del Consiglio è troppo esperto di politica per ignorare che è quasi impossibile attuare riforme in un tale contesto. Se Draghi dovesse inciampare nelle elezioni presidenziali, non c’è alcuna garanzia che possa continuare a governare. E anche se oggi è all’apice del potere, non è inconsapevole che nel giro di pochi mesi, poche settimane o pochi giorni, potrebbe essere cacciato dai partiti che non avranno più bisogno di lui». ( Le Monde , 26 gennaio)
NO Risposta che Matteo Salvini dice d’aver «sempre ricevuto qualunque nome facessi».
OFFESA «Sono stata offesa e tradita sia dal punto di vista personale sia, soprattutto, da quello istituzionale». L’amarezza di Elisabetta Casellati per il bidone tiratole dagli «amici» è comprensibile. Un po’ meno, perfino al di là delle polemiche sull’uso dei voli di Stato, la sua scelta, un attimo prima che si votasse sulla sua candidatura, di permettere la nascita d’un nuovo gruppo, «Cal», che avrebbe doluto raccogliere fuoriusciti del M5S e forse disponibili a votare... Gruppo sciolto, dopo la tranvata, la sera stessa. Un record.
POLITICA, POLITICA, POLITICA Un coro: «Al Quirinale ci vuole un politico». «Il nuovo presidente deve essere un politico». «È ora di tornare alla politica». Da destra e da sinistra. Non è mancata qualche citazione di Massimo D’Alema: «Io non conosco questa cosa, questa politica, che viene fatta dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali». Tanti anni dopo, riecco le invocazioni. Finché, in extremis, sboccia l’appello alla prima donna in Quirinale. Una tecnica. Ma è questa, la politica?
QUALITÀ Mai come stavolta, forse, in tempi recenti, è stata sbandierata la scelta di persone di «Alto Profilo». Un tormentone. Sia chiaro, non è la prima volta. Anni fa il già citato D’Alema si vantò: «Abbiamo un problema solo: l’enorme abbondanza nel centro-sinistra di persone di altissima qualità». Una vanteria così spropositata che molti si chiesero: scherza? Il guaio è che sono in troppi a crederci davvero.
RICOMINCIAMO «Gli italiani non meritano altri giorni di confusione. Io ho la coscienza a posto, ho fatto numerose proposte tutte di alto livello, tutte bocciate dalla sinistra. Riconfermiamo il presidente Mattarella al Quirinale e Draghi al governo, subito al lavoro». Un inno a Adriano Pappalardo: ricominciamo.
SERVIZI «Che il capo dei Servizi segreti in carica diventi Presidente della Repubblica è inaccettabile. Elisabetta Belloni è una mia amica. Ma dai Servizi segreti non si va al Quirinale: chi non lo capisce ha il senso istituzionale di un Gormito». (Matteo Renzi. Seguito a ruota da Paolo Cirino Pomicino: «Facciamo come Boris Eltsin che nominò come successore il direttore dell’ex Kgb Vladimir Putin?»).
TRADIMENTO Forse mai come ieri si è gridato tanto al tradimento. Su tutti, la più furente è Giorgia Meloni. Chiudendo trionfante il festival di Atreju, un mese fa, aveva detto: «La pacchia è finita, alle prossime elezioni il centrodestra ha i numeri per essere determinante. Non accetteremo compromessi, vogliamo un patriota».
UOVO «Vedi questo uovo? L’uovo di Colombo? In questo caso è l’uovo di Mastella. Dissero a Colombo che lui sbatteva l’uovo per tenerlo in piedi che erano tutti capaci, ma nessuno ci pensava. (...) Voglio dire che è più facile che una gallina faccia un uovo che qui esca il presidente della Repubblica!» (Clemente Mastella, Maître à penser presentissimo nel ruolo di marito della senatrice Alessandrina Lonardo, del gruppo Noi Di Centro da lei medesima costituito).
VETI Lo sbarramento più duro, forse, è stato quello alzato immediatamente contro Franco Frattini, l’ex ministro degli Esteri berlusconiano appena diventato presidente del Consiglio di Stato. «La scelta del Presidente della Repubblica non ha solo ricadute interne. I venti di guerra che soffiano dall’Ucraina ci ricordano che all’Italia serve un o una presidente della Repubblica chiaramente europeista, atlantista, senza ombre di ambiguità nel rapporto con la Russia» ha detto il Pd. Con Matteo Renzi che aggiungeva: «Chi ha orecchie per intendere intenda, su questo punto faremo le barricate».
Mattarella bis, le 48 ore di trattative che hanno sbloccato lo stallo: tra incontri, chiamate notturne e falò di candidati. Claudio Tito su La Repubblica il 30 Gennaio 2022.
Il tentativo finale su Casini fermato da Salvini. Poi è Draghi a salire al Quirinale per chiedere al presidente di dire sì al secondo mandato.
Segnatevi questa data: venerdì prossimo, 4 febbraio. Sull'agenda di Sergio Mattarella quel giorno era segnato con un cerchio rosso. Sarebbe andato a cena con gli amici più stretti in un ristorante del centro di Roma. Per festeggiare. Per festeggiare la conclusione del suo mandato presidenziale. L'appuntamento era confermato fino a ieri mattina.
Claudio Tito per repubblica.it il 29 gennaio 2022.
Alla fine il principio di realtà si sta imponendo. Il Parlamento sta accogliendo la soluzione più facile e quella più utile per il Paese. Accade però con una settimana di ritardo e con le macerie del sistema politico.
La permanenza del "Dream team" Mattarella-Draghi - se tutto sarà confermato dopo il sì al bis da parte di Matteo Salvini - è una sicurezza rispetto alle sfide interne e internazionali.
Ma, appunto, tutto intorno i partiti sembrano edifici diroccati. Più di tutti il centrodestra. Da settimane si è fatto forte di un ritornello che semplicemente era irreale: abbiamo la maggioranza. Non ce l'aveva e non ce l'ha.
Salvini ha inseguito soluzioni estemporanee e soprattutto impraticabili. Con una fantasia e un distacco dal Paese senza precedenti. Questa coalizione si ritrova a pezzi.
Per il leader leghista è un "Papeete 2". Dopo un giro vorticoso di valzer si è piegato al bis di Mattarella. Ne escono però a pezzi anche Forza Italia e Fdi.
La prima è ormai senza voce e senza prospettiva. I suoi colonnelli sono già alla ricerca di nuove sponde. Giorgia Meloni, pur con meno responsabilità, non è riuscita a frenare il suo antagonista Interno e gli ha lasciato il pallino del gioco. Ha subito. E alla fine si ritrova con l'assetto meno desiderato. La coalizione è a pezzi.
Anche il centrosinistra però ha evidenziato tutte le sue debolezze. Enrico Letta è apparso come l'unico leader normale. Ha capito di dover giocare di rimessa ma nello stesso tempo il Pd si è rivelato fragile. Senza capacità di imprimere una svolta.
Anche per colpa di un M5S disarmante. Giuseppe Conte è sempre è stato ad un passo dall'accordo con il centrodestra. Anzi, con Salvini in una riedizione dei GialloVerdi. I grillini confermano di non sapere cosa siano. Il patto di centrosinistra con questi pentastellati è segnato e va ridefinito.
Un impasse è stata subìta pure dal Fronte centrista, che ha tentato la carta Casini. Il sistema politico dunque è destinato a ristrutturarsi.
Nel frattempo difficilmente al Quirinale si vedrà la sfilata di leader che accompagnò la rielezione di Napolitano. Adesso il rapporto è tra il capo dello Stato e il Parlamento. Anzi, i singoli parlamentari.
Estratto dell’articolo di Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 29 gennaio 2022.
(…) La trottola impazzita Matteo Salvini ruota senza posa come i dervisci, perso in una personalissima estasi dell'ego. È sfuggito a qualsiasi controllo, lascia esausti alleati e avversari, si sottrae a ogni consiglio dei suoi.
Governatori e numeri due e tre si sono chiamati fuori dai giochi ben prima della giornata apocalittica del grande sconfitto. Pur conclusa col faccia a faccia col premier Draghi in un palazzo di Via Veneto e poi con il vertice a tre con Enrico Letta e Giuseppe Conte.
Ma tutto improvvisato, senza una strategia, una mossa concordata, fosse pure una fuga ma pianificata, raccontano peones e dirigenti in balia del capo. E allora è troppo facile sentirli sbottare col classico "sembra tornato quello del Papeete".
(…) «Se Matteo mi convoca per una riunione vado, per il resto mi sono già tirato fuori, com' è noto la penso diversamente da lui», racconta in queste ore agli amici il ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Lui al Quirinale vedrebbe ancora bene l'amico bocconiano Mario Draghi.
Ma il numero uno del partito sembra stia facendo il possibile per mandare a rotoli tutto, governo incluso. In Transatlantico si aggirano irrequieti anche i governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. La sortita di due giorni fa, quella visita tenuta nascosta a tutti a casa di Sabino Cassese l'hanno considerata un affronto personale. «Ma come? Cassese? Giusto lui che è stato nemico giurato dell'autonomia?»
(…) Ieri, nella parabola dalla Casellati alla Belloni, il giorno della débacle. E della surreale conferenza stampa di Montecitorio. A mezzogiorno, mentre a pochi metri la presidente del Senato viene accompagnata metaforicamente a "schiantarsi" nell'urna, il segretario tiene una lunare conferenza stampa sui diritti dei portatori di handicap.
L'ex ministra Erika Stefani alla sua destra, la neo leghista Laura Ravetto alla sinistra. Matteo ha le occhiaie, è nervoso, parla a scatti, viso un po' gonfio, bianco. «Non dormo se non pochissimo», si giustifica lui. Ieri mattina alle 9 era di nuovo in conclave col resto del centrodestra. Inutilmente.
(…) Lo si vede in centro, a piedi, sempre al telefono. «Non con noi però», dice sorridendo il senatore amico. Forse con l'altro Matteo. Ma perfino il non ostile Renzi di questi tempi giura di non capire più l'omonimo.
Nel partito c'è chi dice che sia tornato all'ombra del capo Luca Morisi. (…) «Ma se ci fosse almeno Luca al suo fianco non sbanderebbe come invece sta facendo», dice chi conosce bene uomini e Lega. (…)
Da liberoquotidiano.it il 29 gennaio 2022.
L'operazione "scoiattolo", quella messa in moto da Vittorio Sgarbi per reclutare qualche voto in più per Silvio Berlusconi al Quirinale, si è dimostrata un buco nell'acqua. Eppure il leader di Forza Italia le aveva tentate tutte, anche elargire regali. Quello che ha fatto più clamore è il dipinto regalato a Luigi Di Maio. Eppure l'ex leader del Movimento 5 Stelle non è il solo fortunato. A confermarlo il critico d'arte, spiegando da dove quei cadeaux arrivano.
"È un hangar enorme - riporta Aldo Cazzullo nella sua diretta sul Corriere.it -, grande 5 volte il transatlantico. Ci sono 23 mila tele, ma quelle del Seicento saranno sei. Le altre sono da arredamento. Silvio le cataloga per argomenti: racconta di avere 120 adorazioni dei pastori, 1500 madonne, tremila battaglie… invano gli ho spiegato che non funziona così".
Stando a Sgarbi i politici capiscono ben poco di arte. E il Cavaliere è tra questi. Ma Renzi? "Meno ancora - conferma -. I politici di arte non capiscono nulla. Neanche Draghi, che pure ha una figlia nei beni culturali. Solo Stefano Candiani della Lega è un grande esperto". Quest'anno i destinatari dei "capolavori" berlusconiani sono aumentati. Da una trentina che erano sono diventati più di sessanta, molti dei quali proprio grillini.
Articolo del “Financial Times” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 31 gennaio 2022.
Il secondo mandato del riluttante capo di stato lascia il primo ministro libero di perseguire le riforme finanziate dall'UE
Nelle ultime settimane del suo mandato di sette anni come presidente, Sergio Mattarella ha chiarito che non pensava fosse appropriato servire un secondo mandato come capo di stato italiano. Né desiderava farlo. Scrive il Financial Times.
Ma quando i tentativi dei legislatori di concordare un successore si sono rivelati tossici - minacciando il fragile governo di unità nazionale del primo ministro Mario Draghi - i parlamentari hanno costretto il riluttante ottantenne Mattarella a rimanere. È stato spinto a una vittoria schiacciante sabato sera - l'ottavo turno di voto in un processo di selezione presidenziale iniziato lunedì scorso.
"Il dovere verso la nazione deve prevalere sulle mie scelte personali", ha detto in seguito il presidente, visibilmente emozionato.
I social media italiani sono ora in fermento con meme del presidente, compreso uno in cui è legato alla sua sedia con una corda spessa. Eppure, nonostante tutte le ambivalenze personali di Mattarella, la sua rielezione ha deliziato gli italiani, specialmente la comunità imprenditoriale, così come i politici e i responsabili delle politiche di tutta Europa.
La sua proroga offre ora a Roma la prospettiva di continuità e stabilità, lasciando Draghi - che era considerato uno dei potenziali successori più credibili di Mattarella - libero di portare avanti le revisioni politiche richieste dal piano di riforme e investimenti italiano finanziato dall'UE per 200 miliardi di euro.
"Il Parlamento ha preso la migliore decisione possibile, certamente quella più desiderata da tanti cittadini e imprese italiane", ha detto Corrado Passera, amministratore delegato della banca Illimity ed ex ministro delle infrastrutture. "L'attuale governo sarà in grado di portare avanti tutte le riforme e le misure che l'Italia si è impegnata a fare".
Mujtaba Rahman, amministratore delegato per l'Europa di Eurasia Group, la società di consulenza sui rischi politici, ha detto: "Rispetto a tutte le alternative possibili, è il miglior risultato che l'Europa e i mercati avrebbero potuto sperare... crea una finestra di sei o sette mesi in cui si può fare molto".
Il risultato permetterà anche a Draghi di partecipare alle discussioni cruciali a livello europeo sulle riforme dell'UE, compresi i cambiamenti relativi al patto di crescita e stabilità del mercato unico, che stabilisce le regole fiscali per la zona euro. Draghi, un ex capo della Banca Centrale Europea nominato da Mattarella l'anno scorso nel mezzo di una profonda crisi economica e sanitaria, "sarà una voce molto influente al tavolo di questa discussione", ha detto Rahman.
L'elezione presidenziale dell'Italia è arrivata in un momento delicato, con Roma nelle prime fasi di un ambizioso piano di riforme per riavviare la sua economia cronicamente sottoperformante. Nei prossimi sei mesi, l'Italia deve affrontare questioni controverse - compresa una revisione della sua politica degli appalti pubblici e della legge sulla concorrenza - per ricevere la prossima tranche di fondi UE.
La potenziale ascesa di Draghi alla presidenza ha sollevato ansia nella comunità imprenditoriale italiana, nelle capitali europee e nei mercati finanziari, con la preoccupazione diffusa che un successore meno autorevole come primo ministro avrebbe lottato per spingere le riforme attraverso una coalizione di governo frammentata. Gli stessi legislatori italiani hanno temuto di essere spinti ad elezioni anticipate se non avessero potuto concordare un sostituto come primo ministro.
Ma mentre la rielezione di Mattarella ha impedito l'implosione immediata del governo, gli analisti avvertono che Draghi deve affrontare sfide significative nel tentativo di attuare il prossimo ciclo di riforme.
Le elezioni presidenziali hanno messo a nudo le tensioni all'interno del governo di unità nazionale tra i blocchi di destra e di sinistra, in particolare dopo che il leader della Lega Matteo Salvini ha rotto le fila per sollecitare i partiti di destra a sostenere il suo candidato preferito.
Ma ha anche rivelato profonde spaccature all'interno dei partiti, dato che i leader, compreso Salvini, hanno lottato per tenere insieme le loro fazioni.
"La strada da percorrere sarà in salita, non in discesa", ha detto Daniele Albertazzi, professore di politica all'Università del Surrey nel Regno Unito. "Non ho mai creduto che solo perché sei Draghi puoi fare quello che vuoi. Lui è nelle mani dei partiti politici. Hanno il potere politico, e sono essi stessi divisi - la destra contro la sinistra, fazioni contro fazioni. Tutto questo creerà il caos".
Ma altri hanno detto che i conflitti interni ai partiti politici potrebbero rafforzare la mano di Draghi, aumentando la sua capacità di spingere attraverso accordi di compromesso.
La sua arma finale, dicono gli analisti, sarebbe la minaccia di dimettersi e staccare la spina al governo di unità nazionale, innescando elezioni anticipate, se i partiti si rifiutano di cooperare.
"C'è un'opportunità per Draghi di estendere ulteriormente il suo controllo sul governo e sulla coalizione di governo e accelerare le riforme", ha detto Wolfango Piccoli, il co-presidente di Teneo, la società di consulenza sui rischi politici. "Può cercare di sfruttare il totale disordine che sembra prevalere nella coalizione".
Da "la Repubblica" il 31 gennaio 2022.
La notizia della rielezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella appare nelle homepage delle principali testate internazionali. Tutte sottolineano una scelta nel segno della stabilità dopo una settimana di caos e divisioni fra i partiti politici e qualcuno cita lo stesso Mattarella che ha accettato «nell'interesse della nazione», ricordandone l'età e la precedente dichiarata intenzione di ritirarsi.
Il New York Times lo definisce il «guardrail» della «oscillante» democrazia italiana, mentre il Washington Post parla della rielezione di un «presidente riluttante », ricordando la foto degli scatoloni del trasloco.
In Francia, dove il presidente Macron è stato fra i primissimi a congratularsi, Le Figaro ricorda che la rielezione «permetterà di assicurare la stabilità del tandem Mattarella-Draghi che gestisce da un anno il risanamento del Paese». Le Monde cita invece «l'interesse della nazione».
Nel Regno Unito, il Guardian parla nel titolo delle «profonde divisioni» emerse durante un «farsesco processo di voto parlamentare », mentre il quotidiano economico Financial Times commenta caustico: «Una classe politica egoista evita il disastro all'ultimo minuto. Con la rielezione di Mattarella, Draghi guadagna tempo per consolidare le riforme».
Il tedesco Spiegel , definisce le elezioni presidenziali «un teatro dell'assurdo». Lo spagnolo El Pais ricorda che «i partiti non hanno trovato soluzioni all'abisso istituzionale» mentre El Mundo spiega che «si sono rassegnati a lasciare tutto immutato fino alle prossime elezioni».
Ugo Magri per "la Stampa" il 31 gennaio 2022.
Per scoprire chi è il nuovo presidente, di quale pasta è fatto e come si propone di esercitare i suoi poteri, non c'è bisogno di attendere il discorso che pronuncerà davanti alle Camere, giovedì subito dopo il giuramento di fedeltà alla Repubblica. Gli italiani già conoscono Sergio Mattarella, difficilmente li coglierà di sorpresa. Sanno che è il massimo garante della stabilità politica, che con la sua presenza sul Colle il premier si sentirà le spalle coperte, che il governo Draghi non verrà mollato al proprio destino nel bel mezzo di un'emergenza sanitaria, economica e sociale.
Il presidente e il suo staff non si sono ancora seduti intorno a un tavolo per ragionare su tutto questo, ne è mancato il tempo perché (nonostante quello che i maliziosi seguiteranno a pensare, e Giorgia Meloni insiste a solleticarli) davvero la rielezione era fuori dai programmi di Mattarella; l'apparato quirinalizio era già rassegnato all'idea, qualche consigliere stava imboccando altre strade, quasi tutti sono tornati precipitosamente sui loro passi, cosicché ieri non si coglievano da quelle parti segnali di speciale giubilo o di trionfo, della serie «ce l'abbiamo fatta»; semmai la fretta di riprendere il filo là dove era stato interrotto: cioè il 3 agosto scorso, all'inizio del «semestre bianco».
Da quel giorno Mattarella aveva assunto (com' era giusto) un atteggiamento vigile ma via via sempre più distaccato, anche per rispetto dei candidati alla sua successione. Tra tre giorni però, con il nuovo giuramento, il «semestre bianco» finirà in soffitta da dove verrà rispolverato non prima di sei anni e mezzo. Mattarella tornerà nella pienezza dei suoi poteri comprensivi, com' è ovvio, della facoltà di sciogliere le Camere, ma soprattutto della «moral suasion» che ogni presidente esercita con particolare efficacia specie all'inizio del suo mandato.
Ce ne sarà bisogno nei prossimi giorni, quando Draghi si presenterà a sottoporre le dimissioni di rito - verranno respinte - ma l'alleanza di governo sarà sottoposta ai contraccolpi di una partita quirinalizia confusa. Ci sarà molto da lavorare. A questo riguardo, tra i consiglieri presidenziali nessuno si fa illusioni, anzi prevalgono i toni preoccupati: i prossimi mesi non si preannunciano come una passeggiata di salute.
Per non trovarsi le casse vuote, l'Italia dovrà incassare 64 miliardi dell'Europa che a loro volta, sulla base del Pnrr, presuppongono il raggiungimento di ben 102 obiettivi da parte di Parlamento e governo. Il caro energia, l'aumento di prezzo delle materie prime, la caccia sfrenata ai semi-conduttori, la fine della fase espansiva della finanza mondiale: sono altrettanti fattori di rischio cui si aggiungono i venti di guerra ai confini dell'Unione.
Il ritorno di Mattarella nelle sue piene funzioni significa che Mario Draghi avrà al Quirinale un solido interlocutore in grado di fargli scudo tanto sul piano interno, quanto nelle relazioni internazionali. Non sono banali né scontati i messaggi di felicitazioni giunti a Mattarella da ogni dove. Papa Francesco loda la «generosa disponibilità» del presidente, apprezzandone il lato umano.
Due vecchi amici come il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier e quello austriaco Alexander Van Der Bellen non nascondono invece la soddisfazione di poter ricominciare a tessere relazioni più salde nella vecchia e slabbrata Europa. Poi calorose felicitazioni da Joe Biden, da Emmanuel Macron: gli interlocutori di ieri che di colpo diventano quelli di domani.
Ma.Con. per "il Messaggero" il 31 gennaio 2022.
I più giovani, e non solo, erano da settimane, con discrezione, a caccia di un altro lavoro. Tutti, o quasi, con un piede già fuori dal Quirinale quando è scattato il contrordine senza che nessuno lo azionasse materialmente. Anche se della questione dei collaboratori del Presidente si parlerà solo dopo l'insediamento, è difficile pensare che non saranno tutti confermati anche al secondo mandato.
A cominciare dal segretario generale Ugo Zampetti, funzionario dello Stato di lunga e rodata esperienza che per quindici anni ha ricoperto la carica di segretario generale della Camera, e che ha per vice, Alfredo Guarra e Gino Onorato. Nello staff degli uffici di diretta collaborazione con Mattarella ci sono Simone Guerrini, Daniele Cabras, Gianfranco Astori e Giovanni Grasso. Gli ultimi due collaboratori sono più torturati dai giornalisti perché consiglieri per l'informazione il primo e per la stampa e la comunicazione il secondo. Guerrini è stato capo della segreteria di Mattarella quando questi ricopriva l'incarico di vice presidente del consiglio e quando è diventato ministro della Difesa.
Analogo percorso per Cabras, mentre Astori, giornalista e più volte parlamentare Dc, è stato consigliere per l'informazione di Mattarella quando questi era vicepresidente del consiglio e ministro della Difesa. Grasso, giornalista, scrittore e attuale consigliere per l'informazione, è stato portavoce del ministro Andrea Riccardi.
Nella squadra anche Francesco Saverio Garofani, già parlamentare del Pd e direttore del Popolo, è consigliere del Presidente per le questioni istituzionali. Claudio Sardo, già giornalista parlamentare in diverse testate ed ex direttore dell'Unità, si occupa di ricerche e studi. Unica che potrebbe partire, forse per Parigi, è la consigliera diplomatica Emanuela D'Alessandro, già ambasciatrice in Croazia. Rolando Mosca Moschini, già comandante generale della Guardia di Finanza, è il consigliere per gli affari del Consiglio Supremo di Difesa.
Completano la squadra il generale Roberto Corsini, consigliere per gli affari militari, la prefetta Emilia Mazzuca, consigliera per gli Affari Interni e per i rapporti con le autonomie, Giuseppe Fotia, consigliere per gli Affari finanziari (ruolo che ricopriva già con il presidente Giorgio Napolitano) e Stefano Erbani, consigliere per gli Affari dell'amministrazione della giustizia. Nello staff che si interfaccia con il mondo dell'informazione, anche Martino Merigo, che nell'ufficio stampa si occupa dei social, e Costantino Del Riccio per la documentazione.
Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 31 gennaio 2022.
Tra qualche giorno, esauriti i festeggiamenti per la rielezione applaudita di Sergio Mattarella, confermato padrone del Quirinale con una votazione effettuata all'insegna della disperazione, cominceranno presto le grane per il presidente. Il quale prima o poi, comunque presto, sarà destinato a pentirsi di aver accettato il bis.
La nostra impressione è che Draghi ne abbia le tasche piene dei partiti che costituiscono la sua maggioranza. Ma su questo punto potremmo sbagliarci, voltiamo pagina. Mettiamo pure che il premier riveli di essere dotato di una grande resistenza alla imbecillità conclamata dei partiti. Rimane il fatto che tra un annetto gli italiani saranno chiamati alle urne per il rinnovo del parlamento.
Quale sarà il risultato della consultazione? Il Pd non cresce neanche se lo annaffi, il M5S ha già un piede nella fossa e se Conte va avanti così, con la complicità di Grillo, presto troverà la pace eterna e una degna sepoltura, Forza Italia è già una debolezza, solo Fratelli d'Italia sembra avviato ad irrobustirsi ulteriormente grazie a una opposizione condotta con giudizio.
Sic stantibus rebus è difficile immaginare una coalizione di governo in grado di essere tale e di poter reggere un esecutivo. Tra l'altro rammentiamo a Mattarella che il numero dei deputati e dei senatori, per effetto di una legge idiota voluta dai suicidi pentastellati, diminuirà sensibilmente per cui molti rappresentanti del popolo rimarranno disoccupati, pertanto saranno votazioni all'ultimo sangue. Si dà il caso che non siamo in grado di intuire quale esito sortirà dalla conta dei suffragi.
Ci sarà da ridere per noi se quello della Meloni sarà il gruppo che otterrà una massa di preferenze tale da renderlo il primo nel Paese. Ovviamente la supremazia della destra non basterà a formare la maggioranza, servirà che Giorgia riesca ad allearsi con altri partiti per gestire il potere.
Quali? Difficile immaginarlo. Quindi sarà un casino infernale che Mattarella, il redivivo, dovrà affrontare con poche speranze di risolverlo. Non dico che al capo dello Stato salteranno i nervi, ma dovrà abusare di camomilla per stare calmo e non mandare tutti al diavolo. Il rimpasto velenoso è alle porte e sono sicuro che Sergio si pentirà di aver accettato la conferma al Colle, perché dovrà impazzire per riuscire a dare un governo a tutti noi, posto che Draghi nel bordello generale non ci vorrà stare e cambierà mestiere.
Voi direte che sono pessimista, in realtà sono realista e scommetto che i prossimi sette annidi vita politica faranno capire a Mattarella che non doveva insistere a rimanere in un Palazzo nel frattempo trasformatosi in un luogo di dannazione, un purgatorio in cui si scontano peccati anche di presunzione.
Zanda a TPI: “Mattarella non è un piano B ma una prima scelta. Conte? Nessun attrito”. Luca Telese per tpi.it il 29 gennaio 2022.
Senatore Zanda, il Pd come giudica il Mattarella bis?
Un ottimo risultato. Anzi, mi consenta di dire meglio: il migliore che si potesse immaginare, anche alla luce di quello che è accaduto nelle prime chiame.
Il Pd aveva un altro obiettivo e il bis di Mattarella per voi è stato un piano B?
Ma scherziamo? Il nostro segretario, Letta, è stato il primo dei leader a cogliere al balzo la palla che i grandi elettori ci stavano offrendo, per rilanciare la candidatura del presidente.
E il primo effetto di questa riconferma quale sarà?
È molto semplice, e gli italiani ci stanno già dando il segnale di averlo capito: si stabilizza il Paese, in un momento delicatissimo.
Quale?
Quello che ho già raccontato in un’altra intervista a TPI: una miscela pericolosa di pandemia sanitaria e caos istituzionale.
E l’abbiamo disinnescata?
Direi proprio di sì. Mattarella garantisce continuità, serietà e rigore.
Chi ha pagato il prezzo della lotteria di questi giorni?
Sul piano privato un uomo che voleva smettere con il primo mandato, ma che ha accettato il sacrificio per disinteressato spirito istituzionale. Però sul piano pubblico il vantaggio è stato evidente, per tutto il Paese.
E le conseguenze per il governo Draghi quali saranno?
Se tutti si uniformano allo spirito di questo presidente, e al segnale di unità del voto in Aula, il governo esce più forte di prima.
Draghi ha subito un ridimensionamento?
E perché mai? Oggi ha la possibilità di governare sono a fine legislatura con la massima copertura istituzionale possibile.
Mattarella però ha fatto sapere che non accetta limiti di mandato di nessun tipo, a partire dall’integrità del settennato.
Mi pare saggio e giusto.
Non è un mandato a termine, dunque, come lo intendeva qualcuno? Due anni e poi dimissioni.
Ma non scherziamo! L’unico termine che si può immaginare per Mattarella è quello imposto dalla Costituzione.
Le Quirinarie si stavano mettendo malissimo, confessi. Nove candidati autorevoli bruciati in sei giorni.
C’è stata un po’ di confusione, é innegabile….
Per colpa di chi?
Tutti hanno visto le iniziative che sono state prese, tutti hanno potuto constatare l’insuccesso di chi ha immaginato percorsi non condivisi.
Fa il diplomatico e non cita Salvini, e le arrabbiature che vi ha fatto prendere con la candidatura Casellati?
Perché dovrei fare polemiche quando l’accordo che abbiamo raggiunto è un grande successo politico? Conta il risultato, più che la sua genesi.
Letta puntava a portare Draghi al Quirinale?
E chi lo dice? Non ci sono mai stati piani B. Mattarella è una prima scelta.
E la Belloni?
Donna delle istituzioni, figura di indubbio valore. Mi è dispiaciuto che sia stata sottoposta a questo pericoloso gioco di sovraesposizione.
Ci sono stati dei malumori con il vostro alleato Conte?
Al di là di quello che si è scritto nei retroscena, la coalizione non si è mai divisa in nessun voto d’Aula. I fatti sono questi.
E la maggioranza di governo non si è indebolita?
Non mi pare: è sempre la stessa, anche numericamente. E come ho detto all’inizio, adesso dovrà misurarsi con l’attuazione del programma di governo e l’impresa del Pnrr.
Mi sembra che lei stia infiocchettando tutto con molta diplomazia.
Si sbaglia. Abbiamo ottenuto il miglior risultato possibile. Grazie a Mattarella.
Una seconda dose di Sergio Mattarella per il Paese. Con 759 voti il secondo presidente più votato della storia è richiamato a curare il virus dell’immobilismo politico. Perché nessuno più di lui sa che questa elezione al Colle non può essere considerata un anestetico per addormentare e congelare. Marco Damilano su L'Espresso il 29 Gennaio 2022.
Alle 20.40 Sergio Mattarella conclude il Romanzo Quirinale 2022 con 759 voti, un record, il secondo presidente più votato in 76 anni di storia dopo Sandro Pertini. Il Richiamo è infine arrivato, nel corridoio dei Passi perduti di Montecitorio che sembrava un cluster affollato e confuso, con deputati e senatori a bivaccare nel caos, e si trasforma in questo sabato 29 gennaio in un hub vaccinale, per curare il virus dell'inconcludenza politica e dell’immobilismo che in questi sei giorni ha messo a rischio la tenuta del corpo democratico.
I momenti migliori del (primo) settennato di Mattarella. Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica su Il Domani il 29 gennaio 2022.
Il primo mandato di Sergio Mattarella si conclude con migliaia di immagini che hanno fatto il giro del web e hanno reso il presidente della Repubblica, per la prima volta, protagonista della rete, con fotografie e video trasformati in meme e pagine satiriche. Un fenomeno che ha avvicinato la massima carica dello stato ai cittadini
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, oggi confermato per un secondo mandato, viene ricordato non solo per l’alto profilo politico, ma anche per il successo che ha avuto sui social network. Durante il suo primo settennato è stato creato il profilo Instagram del Quirinale, per raccontare l’agenda del presidente e diffondere i discorsi ufficiali della massima carica dello stato. Le immagini e i tweet pubblicati hanno contribuito a creare la figura di un presidente pop, amato da molti: dall’espressione di gioia per la vittoria dell’Italia agli Europei, alla dichiarazione di un uomo comune durante la pandemia: «Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanche io». Immagini che hanno fatto il giro del web, producendo pagine satiriche, come “Le bimbe di Sergio Mattarella” su Instagram e “Mattarella ascolta cose” su Facebook, oltre a nuovi marchi di magliette, come quella realizzata dal brand Mattarella Rocks. Il nome del presidente ha ispirato la produzione di centinaia di magliette e felpe in stile Metallica, il cui ricavato viene devoluto all’ong Sea Watch.
Ecco il video che ha fatto il giro del web il 27 marzo 2020, all’inizio della pandemia, mandato in onda per errore dall’ufficio stampa del presidente.
Il 25 aprile 2020, durante la prima ondata pandemica, l’immagine di Mattarella si è distinta rispetto alle celebrazioni degli anni precedenti, in cui presenziavano parlamentari ed esponenti del governo. Il presidente della Repubblica ha deposto la corona d’alloro sulla tomba del Milite ignoto all’Altare della Patria, da solo, circondato dai due corazzieri.
Un’altra espressione nota del presidente uscente è stata ripresa durante la finale degli Europei, l’11 luglio 2021, allo stadio di Wembley a Londra. Mattarella ha esultato nel momento della vittoria dell’Italia contro l’Inghilterra, pur mantenendo la solita compostezza.
Un video diventato virale ritrae il capo dello stato in una sala affollata impegnato ad ascoltare una traduzione simultanea con le cuffie. Così è nata la pagina Facebook “Mattarella ascolta cose”, dove si trovano decine di video con musiche diverse, da Numb dei Linkin Park, a E penso a te di Lucio Battisti.
Il pubblico social si è poi affezionato all’immagine di Mattarella in silenzio, davanti a uno schermo, concentrato a stampare il primo certificato digitale dell’anagrafe online.
Un presidente che più volte ha voluto comunicare il suo essere uguale agli altri. Dalla fotografia che lo ritrae in attesa del vaccino, in una sala d’attesa tra le altre persone, all’immagine di Mattarella su un volo di linea Alitalia diretto a Palermo, per una visita privata, il 14 febbraio 2015.
Sempre in volo, questa volta sull’aereo presidenziale diretto a Bari, Mattarella saluta dal finestrino il pilota del jet che scorta l’aereo del presidente.
E infine la t-shirt che è stata acquistata da centinaia di persone, con il nome del presidente in stile Metallica. Uno dei creatori di Mattarella Rocks, Michele De Paola, ha spiegato che il ricavato viene devoluto alla Sea Watch, l’ong che si occupa di salvataggi nel mar Mediterraneo, perché il presidente Mattarella è stata l’unica figura istituzionale che ha chiesto una gestione più umana della questione migratoria.
Durante la carica però il presidente, molto amato dai cittadini, è stato accusato da Luigi Di Maio di alto tradimento. L’impeachment è stato comunicato dall’allora capo politico del Movimento 5 stelle durante una telefonata alla trasmissione Che tempo che fa il 27 maggio 2018. Una minaccia giunta anche dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
Due anni dopo però è arrivato il mea culpa di Di Maio, questa volta ministro degli Esteri. All’Aria che tira su La7 nell’aprile del 2020 ha dichiarato: «Nella vita delle persone da grandi errori nascono grandi opportunità. Da quell'episodio ho rafforzato il mio senso di responsabilità istituzionale e ho imparato a credere sempre di più nel ruolo di Mattarella».
Anatomia di una coalizione sfasciata dal voto per il Colle. Meloni strappa: va rifondata. Fabrizio De Feo il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
L’accusa di Fdi: "L’unica cosa su cui eravamo tutti d’accordo era il no al bis. Adesso scopriamo che le posizioni sono cambiate". «Il presidente l'abbiamo fatto, adesso bisogna rifare il centrodestra». I Grandi Elettori di Forza Italia, Lega, Fratelli d'Italia e Coraggio Italia si avvicinano all'ultima votazione con umori differenti. La giornata è stata lunga, ha seminato tensioni, allargato solchi e distanze. «Il futuro del centrodestra? Quale centrodestra?» polemizza Ignazio La Russa. E in Transatlantico gli eletti di Giorgia Meloni si rivolgono ai leghisti lasciando cadere qualche provocazione: «Dai, fai uno scatto d'orgoglio, vota per Nordio...».
Le scorie da smaltire sono molte e si sono accumulate velocemente, in meno di 24 ore. La prima scossa tellurica è arrivata con il flop della candidatura Casellati e con le accuse rivolte dagli alleati verso Forza Italia e le formazioni di Centro. Una votazione seguita da un vertice acceso nei toni in cui i vari partiti hanno messo in fila le loro preferenze. Se Forza Italia puntava su Pier Ferdinando Casini e in seconda battuta su Sergio Mattarella, la Lega riteneva a quel punto che la continuità rappresentata dal presidente in carica potesse rappresentare una soluzione. Giovanni Toti era schierato per Casini, Mattarella o Mario Draghi, Giorgia Meloni invece aveva detto chiaramente di non essere disposta a votare il Capo dello Stato uscente, «piuttosto andate su Draghi che io comunque non voterò». Un quadro complesso da comporre che porta in serata al lancio delle ipotesi rosa, Belloni e Cartabia. Una fuga in avanti che fa scattare la reazione di Forza Italia e di Silvio Berlusconi che inizia a trattare direttamente con Enrico Letta.
«L'unica cosa su cui eravamo tutti d'accordo nell'ultima riunione del centrodestra era il no a Mattarella: ci avevamo anche scherzato e invece oggi scopro che le posizioni sono cambiate», commenta Giorgia Meloni. «Mi aspettavo che il centrodestra avesse molto più coraggio per eleggere un presidente distonico rispetto agli ultimi». La svolta arriva mentre è in corso il settimo voto, quando Matteo Salvini, dopo una telefonata con Mario Draghi dà il via libera al Mattarella bis. Berlusconi chiama l'inquilino del Colle: «Gli ho assicurato il sostegno di Forza Italia». La Meloni punta il dito contro Salvini: «Non voglio crederci, Salvini chiede a tutti di pregare Mattarella di tornare». Antonio Tajani individua una nota positiva nel «forte coordinamento dimostrato dall'area popolare, mi auguro che possa andare avanti», dice riferendosi all'asse con Udc, Coraggio Italia e Cambiamo, da cui nelle ultime ore ha ricevuto la delega a trattare. Nella Lega invece si cerca di stemperare le tensioni, «con gli alleati ci sarà modo di tornare a dialogare. Giorgetti? Le sue perplessità sono un modo per condividere la sconfitta e ripartire insieme, la fiducia dal segretario l'ha già ricevuta».
Dentro Forza Italia a posteriori si ragiona sull'errore tattico di aver raccontato all'elettorato che fosse davvero possibile imporre un candidato di centrodestra, ma «anche Fratelli d'Italia deve capire che giocare in solitaria rischia di rivelarsi la classica vittoria di Pirro perché senza una maggioranza forte difficilmente il Capo dello Stato assegnerebbe l'incarico alla Meloni». L'operazione Mattarella richiama a un altro grande tema: quello della legge elettorale. Giorgia Meloni teme che sotto traccia Forza Italia e centristi siano pronti a fare l'accordo con la sinistra sul proporzionale e avverte: «Questo centrodestra è da rifondare». Nella Lega, però, sotto traccia qualche riflessione sul proporzionale inizia a farsi strada, in particolare tra qualche colonnello vicino a Giorgetti. Difficile però comprendere ora se sia uno spiraglio reale o una minaccia da tenere in piedi per contenere il competitor sovranista, deciso a capitalizzare in termini di consenso la propria scelta identitaria. Fabrizio De Feo
E adesso siamo pronti a prenderci tanti ceffoni nel discorso di apertura. Andrea Cangini il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Come getti d'aria in canotti sgonfi, una dopo l'altra le notizie sul progressivo rafforzamento dell'ipotesi Mattarella rianimano i grandi elettori dotati di piccoli poteri. A ridosso dell'ottava votazione, ci scopriamo tutti in piena forma, ringagliarditi, carichi di energie pronte a sfogarsi. Come? Come al solito: pontificando. Tra Transatlantico, buvette e cortile di Montecitorio è tutto un «io l'avevo detto sin dal primo momento», un «era ora», un «ma ci voleva tanto a capirlo?».
Dirà, il lettore, che si tratta dei soliti commenti di fine partita, delle normali spacconate da giochi fatti, della consueta preveggenza col senno di poi. Il sospetto è legittimo, ma infondato. C'è la prova. Chi ha avuto la pazienza di leggere il«Diario di un grande elettore» pubblicato ieri, ricorderà, infatti, quale fosse la tesi prevalente tra noi, per citare ancora una volta la definizione che si attribuì il grande Enzo Bettiza nei giorni dell'elezione di Sandro Pertini, «infimi esecutori». La tesi era questa: il voto sulla presidente del Senato Casellati ha avuto l'effetto del sacrificio propiziatorio «in vista dell'elezione di Mattarella o di Casini». Su Pier Ferdinando Casini, ieri, si è trattato fino all'ultimo, e se si fosse iniziato il giorno prima sarebbe passato; a prevalere è stato Mattarella. Niente «professori universitari», niente «donne» in quanto tali, niente «uomini delle istituzioni» privi di esperienza politica, niente agenti segreti e amenità del genere. Mattarella. Ancora una volta.
Ce n'è abbastanza per rivalutare i tanto screditati peones, c'è n'è abbastanza per riqualificare la grandissima massa dei grandi elettori. E ce n'è abbastanza per dichiarare definitivamente tramontate le apparenti leadership di quei presunti leader che, giocando su più tavoli e accreditando più ipotesi, incuranti delle contraddizioni e impermeabili al buonsenso si sono avvitati su se stessi come trivelle nel fango. L'umile estensore di questa rubrica superflua sa bene a chi state pensando, ma non è solo a lui che ci si riferisce.
Ora, e anche questo noi infimi esecutori lo sappiamo bene, si leverà un coro a dire che con la rielezione di Sergio Mattarella la politica è morta e il sistema è entrato in crisi. I leader, i pochi veri e i molti presunti, lo negheranno. Ma noi infimi esecutori possiamo permetterci il lusso della verità. E la verità è che la politica è morta da un pezzo, il sistema è in crisi da trent'anni e la sua crisi si è conclamata con l'avvento, provvidenziale, sia chiaro, di Mario Draghi. Eravamo in crisi prima, lo saremo finché non riformeremo il sistema politico e istituzionale.
PS. Noi grandi elettori dotati di piccoli poteri siamo pronti a subire i ceffoni che doverosamente Mattarella ci infliggerà col suo discorso di insediamento. E sin d'ora siamo in grado di prevedere che al confronto le parole pronunciate da Napolitano in analoga situazione sembreranno tenere carezze. Andrea Cangini
Così il Cavaliere in clinica ha sbloccato l'impasse. "Questi sono ragazzini". Pier Francesco Borgia il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Dal San Raffaele il leader azzurro ha sentito prima Casini e Letta, poi il capo dello Stato.
Sono le 12.51 quando le agenzie di stampe battono un flash: «Berlusconi sente Mattarella: c'è il sostegno di Forza Italia per la rielezione». Ed è quello il momento in cui si capisce che il Quirinale non cambierà inquilino. E infatti a sera, quando arriva il crisma dell'ufficialità con la chiusura dello spoglio dell'ottava votazione, il commento del leader di Forza Italia è di puro sollievo e di soddisfazione. «Siamo riusciti - commenta Berlusconi con un moto di orgoglio - a confermare un presidente che nel corso di questi sette anni ha difeso gli interessi del Paese salvaguardandone l'unità». Un risultato che, con l'investitura di Mario Draghi alla guida dell'esecutivo, segna sicuramente il riscatto della politica nell'ultimo scorcio di questa diciottesima legislatura.
La lunga e tribolata pagina delle elezioni per il quattordicesimo presidente della nostra Repubblica si allunga tra due gesti che portano entrambi la firma di Silvio Berlusconi. Dal suo passo indietro di sabato 22 gennaio (perché la sua candidatura era considerata dal Pd «divisiva») per senso di responsabilità nei confronti delle istituzioni («ho deciso di compiere un altro passo sulla strada della responsabilità nazionale, chiedendo a quanti lo hanno proposto di rinunciare a indicare il mio nome per la Presidenza della Repubblica»), alla telefonata a Mattarella per annunciare il sostegno degli azzurri e quindi per esortare il Capo dello Stato a rimanere al Quirinale in nome della «stabilità in un momento altamente delicato».
Dalla sua stanza del San Raffaele, venerdì sera, Silvio Berlusconi ha parlato al telefono prima con Pier Ferdinando Casini e poi con Enrico Letta. Il leader azzurro - che oggi dovrebbe essere dimesso - si è ripreso i panni di kingmaker dopo il passo falso della candidatura della Alberti Casellati come candidato «istituzionale» del centrodestra.
La telefonata più importante, però, è quella a Mattarella. «Questi si sono dimostrati dei ragazzini» si è lamentato il leader azzurro parlando con il capo dello Stato. Alta l'irritazione per il modo in cui sono state condotte le trattative.
Stabilita l'impossibilità di un dialogo tra i diversi soggetti che compongono l'arco parlamentare, Berlusconi ha convenuto con Letta e che l'unica soluzione possibile era una candidatura che fosse specchio dell'attuale maggioranza di governo. Quella maggioranza di unità nazionale che lo stesso Berlusconi è stato chiamato a sostenere un anno fa per evitare al Paese pericolosi salti nel buio.
«Questo è il momento dell'unità - spiega in un tweet comparso ieri pomeriggio dopo che i media avevano rilanciato la notizia della disponibilità di Mattarella per un secondo mandato - e tutti dobbiamo sentirlo come un dovere. Ma l'unità oggi può ritrovarsi soltanto intorno alla figura del presidente Sergio Mattarella, al quale sappiamo di chiedere un grande sacrificio, ma sappiamo anche che glielo possiamo chiedere nell'interesse superiore del Paese, quello stesso che ha sempre testimoniato nei sette ani del suo altissimo mandato». Impegno che gli è valso anche il riconoscimento da parte del leader del Movimento Cinquestelle, Giuseppe Conte, che ieri in conferenza stampa non soltanto ha ringraziato Berlusconi per il passo indietro ma anche per la sensibilità istituzionale con cui ha spinto il nome di Mattarella.
Le telefonate delle ultime ventiquattro ore dimostrano un attivismo da parte del presidente azzurro che in verità non è mai venuto meno nemmeno nei giorni più difficili della degenza al San Raffaele, quando è rimasto in costante contatto con i dirigenti di Forza Italia.
Gli stessi che ieri è tornato a ringraziare pubblicamente per il lavoro portato a termine. Ancora una volta il contributo del leader azzurro è stato determinante per uscire da una pericolosa impasse. Come sette anni fa quando, come ha rivelato lo stesso Gianfranco Rotondi, Berlusconi lo invitò a fare votare il suo gruppo per Sergio Mattarella e sbloccare la sua ascesa al Colle più prestigioso del Paese. Pier Francesco Borgia
Da "no" a "ripensaci". La svolta di Salvini in meno di 24 ore. Mattarella: rispondo solo al Parlamento. Adalberto Signore il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Draghi gioca l’ultima carta: Giorgetti premier o vice. E Matteo si rifugia nel bis. A differenza di Napolitano il capo dello Stato non vede i leader ma i capigruppo.
Da «il Mattarella bis è il peggiore degli scenari possibili» al «Mattarella ripensaci» passano meno di 24 ore. Durante le quali Salvini si esibisce nell'ultima delle giravolte. Hanno la meglio le inquietudini e i sospetti verso il fronte del Nord, che all'interno della Lega spinge pesantemente su Draghi ormai da giorni. Una poderosa fronda interna - non solo Giorgetti, ma anche buona parte dei governatori del Carroccio - che si salda a una Meloni che, pur stando all'opposizione, tifa discretamente per il trasloco del premier al Colle, anche perché potrebbe essere il viatico per le elezioni anticipate.
Così, nel volgere di un pomeriggio e di una nottata, Salvini decide l'ultima conversione a U. Venerdì, al tavolo dei leader del centrodestra dopo lo scontatissimo frontale mattutino della Casellati, il leader della Lega si dice d'accordo con la Meloni. I presenti fanno la lista dei loro desiderata. Tajani: «Casini o, second best, Mattarella». Toti: «Casini, Draghi o Mattarella». Salvini e Meloni, invece, ascoltano. Ma si trovano d'accordo alla domanda «quale degli scenari sul tavolo è quello meno auspicabile?». «Il Mattarella bis è il peggiore dei possibili», sentenziano all'unisono. Tanto che, racconta La Russa, «la battuta che girava era allora votiamo non-Mattarella, così siamo d'accordo».
Le ore successive, però, sono quelle della diffidenza. Il timore di Salvini - che prende piede di ora in ora - è che sia in atto una congiura all'interno del suo partito, nel tentativo di rimettere in pista Draghi. Ecco perché venerdì sera, il leader della Lega tenta l'ultimo blitz. Esce dal vertice con Conte e Letta e annuncia la candidatura di una donna, cioè il capo del Dis Belloni. Gli va dietro Conte. E scoppia la bomba. Draghi è già in macchina sulla via di casa, fa inversione e torna a Palazzo Chigi. Alza il telefono e il colloquio con Letta - che ha lasciato la Belloni nella rosa - è di quelli che il segretario dem non dimenticherà. «Ho contro anche il Pd?», è il senso delle parole del premier. Che dopo il frontale della Casellati aveva convenuto con lo staff ristretto che la sua corsa al Colle era ormai troppo in salita. Ma che come unica alternativa al suo nome ha sempre immaginato solo quello di Mattarella. L'unico che garantisce lo stesso equilibrio e che gli consente di restare premier senza uscire davvero sconfitto da una partita che, solo qualche settimana fa, dava per vinta. Appena chiuso l'accordo sul bis, infatti, Palazzo Chigi fa filtrare la «grande soddisfazione» dell'ex numero uno della Bce. Che, recita lo spin, ha lavorato alacremente per il bis. «Questa è l'Italia dei due presidenti», è il messaggio da far rimbalzare sui media. Uno è Mattarella, l'altro è Draghi che lo ha incoronato.
Inutile dire che la cronaca racconta tutta un'altra storia. Perché il premier ha provato fino alla fine a giocarsi la partita. Ma ha perso. E ha ceduto solo ieri mattina, quando c'è stato lo show down e al bis di Mattarella non c'erano più alternative. A quel punto ha - giustamente - deciso di intestarsi la cosa. Ma la politica tutta è consapevole del fatto che in una settimana di votazioni il nome di Draghi non è mai entrato in campo. Nonostante il suo indiscusso standing internazionale e il fortissimo pressing del diretto interessato. Che nell'incontro di venerdì pomeriggio con Salvini, lontano dai riflettori in un palazzo di via Veneto, avrebbe persino messo sul tavolo la poltrona di premier (o vicepremier) per Giorgetti. In uno schema non scontato - perché poi il Pd avrebbe dovuto accettare - che vedeva Draghi al Colle e un posto di leadership di governo per l'attuale ministro dello Sviluppo. Proposta - quella di vedere un leghista ai vertici di Palazzo Chigi - che invece di allettare Salvini lo ha ancor più preoccupato. Il leader leghista, infatti, è convinto che Giorgetti e il fronte dei governatori siano una propaggine del draghismo nel suo partito, degli incursori in casa sua. E Draghi, non è un dettaglio, ha dimostrato di tollerare a mala pena Salvini dal giorno in cui - lo scorso febbraio - ha bocciato tutti e tre i nomi che aveva indicato come ministri.
Così, ieri mattina, Salvini ha capitolato. Forse perché gli è arrivata voce che era in corso un ultimo, disperato tentativo di rimettere in campo Draghi (nonostante il premier non si vedesse più in gioco già dalla tarda sera di venerdì). L'intenzione era quella di mettere sulla scheda della settima votazione il nome di Draghi, idea trasversale che teneva insieme la Lega che fa capo a Giorgetti e ai governatori, un pezzo di Forza Italia, una parte di Pd e M5s (quella disponibile a fare sponda) e FdI (la Meloni aveva dato la sua disponibilità a votarlo). È a quel punto, forse, che Salvini ha deciso di accelerare. E ha detto sì al bis agli altri leader di maggioranza. Poi, a favore di telecamere, si è appellato a Mattarella: «Ripensaci!».
Il capo dello Stato non ha fatto una piega. Ma ci ha tenuto a usare un altro approccio rispetto a quello del bis di Napolitano, quando furono tutti - leader dei partiti compresi - a salire al Colle per chiedergli di restare. Mattarella, invece, ha voluto solo i vertici dei gruppi parlamentari. Per mandare un messaggio inequivocabile: non rispondo ai leader di partito e ai loro cambi di direzione, da ora in poi rispondo solo al Parlamento.
Adalberto Signore. Classe 1972, nato a Roma. Ho cominciato a scrivere di politica un po' per caso nel 1994. Sono passati quasi trent'anni e, tra alti e bassi, sono ancora qui. Giornalista parlamentare, scrivo sul Giornale dal 2002. Due libri - "Il boia non molla. La pena di morte nel mondo", Ideazione Editrice (1999) e "Razza padana. Storia, fascino e contraddizioni della Lega Nord", Rizzoli (2008) - una moglie, una figlia, la Lazio e il Circeo.
La grande rivincita dei peones. Paolo Armaroli il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Filippo Turati soleva dire: "Sono il loro capo e li seguo". Non hanno capito ma si sono prontamente adeguati.
Filippo Turati soleva dire: «Sono il loro capo e li seguo». Non hanno capito ma si sono prontamente adeguati. Si tratta, manco a dirlo, dei campioni di Sua Maestà la Partitocrazia che nell'aula di Montecitorio da lunedì scorso si sono misurati dando il meglio del peggio e uscendo dalla tenzone chi più, chi meno con le ossa rotte. Si fa presto a dire il perché. Come i pellirosse, avrebbero dovuto mettersi con l'orecchio a terra e ascoltare il rumore crescente proveniente dai gregari. Ma sì, diciamocela tutta, dai peones.
E invece niente. Fin quasi a pochi minuti dalla ventiquattresima ora non hanno avuto l'umiltà di guardare in basso. E sono andati dritti per la loro strada fino a sbattere la faccia al muro. Eppure, il primo scrutinio di lunedì scorso avrebbe dovuto allarmare i naviganti. Alla direttiva di votare scheda bianca, hanno detto di no in 304. E quel no, per la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali, si è manifestato non già a volto coperto ma a viso aperto. E questo perché chi ha detto signorsì è passato attraverso la cabina come i bersaglieri di La Marmora alla Breccia di Porta Pia: a passo di carica. Mentre coloro che in cabina si sono trattenuti per votare qualsiasi nome gli venisse in testa hanno dimostrato di essere dei signornò.
Enrico Letta, che pure non è considerato un fulmine di guerra né una volpe di Montecitorio, ha giocato astutamente di rimessa inondando le urne di schede bianche o dichiarando l'astensione. Anche perché più solo non poteva essere. Avendo per compagno di sventura quel Giuseppe Conte che si rimira allo specchio non solo perché si ama e si contraccambia ma anche per dimostrare a sé stesso di esistere. Peraltro tormentato da Luigino Di Maio, con il tempo cresciuto ci voleva poco! a dismisura. Di là Matteo Salvini ha bruciato nominativi in quantità industriali, una vera e propria strage degli innocenti, e alla fine è rimasto con un pugno di mosche. Se a manca Atene piange, di sicuro a dritta Sparta non ride. Perché nella votazione sul presidente del Senato i franchi tiratori sono stati ben 71, nonostante si sia cercato inutilmente di «segnare» i nomi della candidata. E, secondo calcoli attendibili, 35 voti sono andati al capo dello Stato.
Intanto, in questo assoluto marasma, i voti per Sergio Mattarella a poco a poco sono lievitati. 16 al primo scrutinio, 39 al secondo, 125 al terzo, 166 al quarto, 136 al sesto, 387 al settimo e poi il diluvio all'ottavo. Ma prima che i peones prendessero il sopravvento, i capigruppo della maggioranza si sono fatti una passeggiata fino al Quirinale e, con il cappello in mano, hanno implorato Mattarella a rispondere sì come la monaca di Monza al loro grido di dolore. È stato il riscatto dei peones, non più disposti a subire.
Una gran bella pagina: la democrazia ha battuto l'oligarchia 2 a 0. Paolo Armaroli
La testa d'ariete dei grandi elettori peones contro le giravolte dei leader. Il timore è che in un anno preelettorale la spinta propulsiva di Draghi al governo venga frenata dalle beghe continue dei partiti. CARLO FUSI su Il Quotidiano del Sud il 30 Gennaio 2022.
Per capire cos’è successo bisogna partire dalla fine. Sergio Mattarella che resta al Quirinale rappresenta una garanzia per tutti, cittadini ed istituzioni. Ha svolto il suo settennato in maniera impeccabile e i tanti che, più o meno ipocritamente, cercavano “uno come lui” alla fine hanno dovuto arrendersi. C’è un solo Mattarella e, per come si erano messe le cose, sta bene dove sta.
Ma sarebbe ipocrisia massima non dire che il bis rappresenta una sgrammaticatura costituzionale come lo stesso capo dello Stato aveva spiegato a più riprese, e le foto dei materassi e degli scatoloni stanno lì a dimostrare che si è innestato un rewind che sarebbe fuorviante considerare ritorno alla normalità. La verità è che Mattarella è riconfermato dalla insipienza e dalla incapacità delle forze politiche di trovare un sostituto all’altezza. La sua conferma non risolve bensì enfatizza la crisi di sistema che avvolge l’Italia.
Considerazioni simili valgono anche per Mario Draghi. La sua permanenza a palazzo Chigi fa trarre un sospiro di sollievo all’Europa intera perché uno come lui ce l’abbiamo solo noi e dovrebbe essere il nostro orgoglio. Ma anche qui è impossibile ignorare che Draghi sarebbe salito volentieri al Colle e nel Transatlantico trasformatosi in un anfiteatro di candidature tutte dilaniate dalla disinvoltura di presunti leader, molti hanno giocato a ridimensionarlo se non addirittura ad umiliarlo. Non ci sono riusciti, non del tutto almeno.
Adesso Draghi (ma è ancora SuperMario?) è formalmente blindato a palazzo Chigi fino al termine della legislatura. Il timore è che in un anno preelettorale la sua spinta propulsiva, già fortemente affievolita, venga annullata dalle beghe continue dei partiti della sua maggioranza. Il presidente del Consiglio non potrà che tirare dritto, e la speranza è che non si stanchi e si faccia prendere dal desiderio di mollare. Chi lo conosce sa che non sarà così, ma la fatica da adesso in poi sarà doppia e doppia dose di pazienza sarà necessaria.
Il via libera a Mattarella 2 è arrivato da un sottosopra che è ulteriore conferma delle difficoltà del Palazzo. Nel rodeo andato in scena nell’emiciclo della Camera, i Grandi Elettori peones, stanchi delle giravolte a vuoto dei loro leader che avrebbero dovuto dare indicazioni e invece si sono ubriacati nel balletto dell’inconcludenza, ad un certo punto si sono ribellati cominciando a votare Mattarella come testa d’ariete per sfondare il labirinto nel quale si erano infilati. I parlamentari contro i capipartito segnano forse la contorsione più eclatante di un quadro politico ultra sfilacciato e incapace di esprimere leadership valide e convincenti. I segnali c’erano tutti da tempo, però da adesso in poi sarà obbligatorio tenere conto dell’insofferenza di 915 deputati e senatori, molti dei quali per di più sanno di essere arrivati al capolinea della loro performance politica grazie al taglio dei seggi voluto dai Cinquestelle e pedissequamente accettato dal Pd. La ricaduta sulla governabilità non sarà di tipo soffice.
Chi esce letteralmente a pezzi è il bipolarismo che da più di vent’anni contraddistingue l’Italia e che nemmeno l’exploit di Grillo era riuscito a destrutturare.
Il centrodestra è esploso a causa delle girandole di candidature avanzate da Matteo Salvini che agognava a diventare il kingmaker e che invece si ritrova con Mattarella ancora al Colle e lo schieramento che teoricamente guida ridotto a brandelli. Il leader leghista ha avvalorato le iniziative della Meloni che una sola cosa cerca: le elezioni anticipate. La forzatura sulla Casellati rispondeva a questa logica ed è stata fatta a pezzi nel segreto dell’urna. Berlusconi si è platealmente dissociato e chi sogna la maggioranza Ursula può fregarsi le mani solo a patto di sottovalutare l’inconsistenza dei Cinquestelle e le slabbrature di leadership di Giuseppe Conte. Era già così prima, ma la partita del Quirinale ha dato un formidabile colpo di maglio alla credibilità di uno schieramento compatto e in grado di governare il Paese. Lega (che ha i suoi bei problemi interni, vedi la voglia di Giorgetti di mollare), Fdi e FI sono tre soggetti che si muovono autonomamente l’uno dall’altro. Prima della prova quirinalizia il centrodestra aveva evidenti crepe; adesso è un campo terremotato.
Ma anche il centrosinistra ha i suoi problemi. Il trio Letta-Conte-Speranza non è stato in grado di definire e mettere ai voti una candidatura unitaria. Ha giocato di rimessa bocciando ad una ad una tutte le proposte più immaginifiche che concrete di Salvini. Ma in politica stare fermi non porta a vincere le partite. Letta è rimasto immobile perché anche solo muovere politicamente un sopracciglio tra Renzi e Conte lo avrebbe portato a disgregare il suo schieramento. Mattarella al Quirinale e Draghi al palazzo Chigi è quanto di meglio potesse sperare, ma questa sorta di congelamento istituzionale non allontana i nodi politici di una alleanza Pd-M5S che non decolla e che anzi rischia di essere stretta al collo dalle ambivalenze e contraddizioni grilline. Se ne potrebbe uscire solo con un’azione di governo alla grande che porti dividendi prima sociali e poi politici da spendere nella gara elettorale del 2023. Sicuramente Draghi andrà avanti come un treno incurante delle liti tra i partiti della coalizione che lo sostiene. Ma in una situazione così liquida e con interessi così forti in campo visto che ci si gioca la leadership della prossima legislatura, dovrà fare molta attenzione. La crisi italiana è ben lungi dall’essere risolta. Lo vedremo assai presto.
Quirinale, l'aula dei "ribelli" ha scelto Mattarella: cosa non si fa per un anno di stipendio...Renato Farina su Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022
Con il sollievo di circa mille famiglie, che avranno pane e anche parecchio companatico sicuro e garantito per almeno altri 14 mesi, si è conclusa la grande parata democratica per l'elezione del Presidente della Repubblica. Che è e sarà, fin quando lo vorrà, sette anni di fila non ci crede nessuno, Sergio Mattarella (che all'ottavo scrutinio ha ottenuto 759 voti, più dei 665 che aveva preso nel 2015). Degnissima persona, candida come i suoi capelli, ma forse un pochino inavveduta nel sostenere che cascasse il mondo nessuno sarebbe riuscito a trattenerla un minuto di più al Quirinale. Sono le leggi elementari della comunicazione subliminale: lo ha fatto troppo presto e troppe volte per non apparire come la vergine ritrosa, che alla fine cede per dare figli alla patria (fuor di metafora: ragion di Stato). E le sequenze di foto con i cartoni per il trasloco fatte circolare come se fossero le avventure dei Ferragnez, iniettando, come da scuola di marketing, nostalgia preventiva nell'animo del popolo che preferisce essere rassicurato da chi dà garanzie che nulla accadrà, rispetto al fuoco di chi incendierà le praterie.
NIENTE DONNA
Facce meravigliate? Finzione pura. Come i tentativi di proporre una donna, tre donne, quattro donne. Mai una giusta. Ma anche il fatto che l'idea fosse venuta contemporaneamente a Salvini e Conte la rendeva indigesta a quelli del Pd perché frutto della convergenza di opinioni di "due forze estremiste". Ma non sono tutti nello stesso governo, lì gli estremisti vanno bene, e se fanno i femministi diventano impresentabili? Ridicolaggini. Era tutto già stabilito, non dalla volontà dei partiti o dei loro capibastone, ma dalla logica possente dei rapporti di forza. Era persino tornato Casini, rinfrescato dal lavacro di Silvio Berlusconi, ritornato leader di 180 centristi, deluso com' è stato dai parenti serpenti Salvini e Meloni. Eppure era così semplice da prevedere. Draghi era il favorito, ma era pur sempre uno spostamento dell'asse del mondo politico, ci sarebbero stati rovesciamenti, cambi di governo, e chissà mai: elezioni! Con almeno 600 parlamentari destinati a cambiare busta paga e a cercare di sfuggire alla disoccupazione (essere stati deputati non funziona come referenza). Da che mondo e mondo non vincono i sentimenti ma i rapporti di forza. E oggi la forza sta lì, nella pancia del parlamento, intesa proprio come stomaco e già che ci siamo intestino. A essere sconfitti sono non solo i partiti, ma i loro leader, non solo i segretari, ma anche i capicorrente, i sottopanza. Nessuno manovra più nessuno. E le coalizioni e le loro alleanze incollate con lo scotch risultano spiaccicate.
SAGGEZZA?
Ieri mattina quando la sinistra ho ordinato di votare scheda bianca, Mattarella ha avuto 387 voti, mentre il centrodestra si è astenuto. Enrico Letta con un Napoleone che si dichiara felice della sua Waterloo dichiara: «Il Parlamento ha la sua saggezza da ascoltare». E quale sarebbe la saggezza? Quella di puntare sul soldo, a prescindere dalle coloriture politiche? Oppure l'aver dato il benservito al sistema dei partiti in nome dell'accozzaglia parlamentare governata soltanto, come la folla manzoniana, da dar l'assalto ai forni per assicurarsi la pagnotta? C'è un sacco di roba da ricostruire. Ma da dove ripartire? Non è che gli italiani possono puntare il dito contro i deputati e i senatori, che avrebbero tradito chissà quale mandato popolare. Ma no: gli elettori hanno scelto proprio loro. Non si sono truccati da geni pur di farsi votare. Hanno spedito su internet i loro profili spesso da idioti patentati, senza arte né parte, se non quella del tengo famiglia.
TENGO FAMIGLIA
Consoliamoci però. Forse la gioia dell'unico partito dominante, quello dei cazzi propri, può persino non essere una sciagura. Consente a Draghi di continuare il suo lavoro, a ministri capaci come Brunetta e Giorgetti, Gelmini e Garavaglia, nonché un sottosegretario come Sileri, senza dimenticare il generale Figliuolo, di stabilizzare una ripresa economica straordinaria costruendo ripari credibili al soffio dalla pandemia. La continuità impedisce colpi di mano dei mercati finanziari i cui esponenti aggressivi si sono visti tagliare gli artigli rapaci proprio da questo nulla di fatto. Con un'Italia quieta, senza tremiti rivoluzionari, la solita Italietta del tengo famiglia. Ma a noi va bene così? Boh.
Se una donna al Colle diventa questione di tailleur. Dopo la débacle Casellati, è stata caccia grossa a un'altra donna. Purché "in gamba". Quasi a volerle lasciare la poltrona a tutti i costi, per galanteria...di Francesca Spasiano su Il Dubbio il 30 gennaio 2022.
A Maria Elisabetta Casellati si è perdonato il gesto di scaramanzia che l’ha lanciata in pasto all’aula con lo stesso tailleur blu del 24 marzo 2018, quando invece guadagnò il titolo di prima presidente donna del Senato. Un po’ meno le si è perdonata la pelliccia di ermellino, indossata chissà quando e ripescata a mezzo social per incorniciare quello schianto.
Certo, la seconda carica dello Stato poteva forse risparmiarsi, come oggi tutti le rimproverano. Ma forse non poteva immaginare che il suo black friday si chiudesse con la formula “cerchiamo un’altra donna”. Purché “sia in gamba”. Una formula odiosa, diciamolo, che nel tentativo di prevenire l’altra protesta – “non basta che sia donna” – riesce a fare anche di peggio. Si è forse detto in questa folle epopea quirinalizia che il prossimo presidente dovesse essere almeno in gamba? Si è detto “alto profilo”, si è detto che di “eccellenze” – persino tra le donne – ne abbiamo in abbondanza. E si è detto che il centrodestra “sa promuovere le donne” meglio del centrosinistra. Ma ora che l’altra Elisabetta è stata risparmiata a un passo dalle urne, c’è il dubbio che la questione – da qualunque parte la si guardi – resti un affare di pellicce e giacche “a taglio asimmetrico”.
Perché il dato politico è che nell’anno delle donne il sacrificio necessario è stato di una donna. E tutti amareggiati. Ma la verità è che il Mattarella bis dice dell’altro sul soffitto di cristallo che è crollato sotto i piedi della guardasigilli Marta Cartabia, per sua definizione. E la verità è che l’innovazione tanto invocata non può essere “promossa” a colpi di primati. E di titoli concessi come omaggio al genere. Bisogna credere che giochiamo nella stessa partita dei maschi pronti a fare un passo indietro pur di lasciare la squisita briciola a chi rimane sempre a bocca asciutta – quasi fosse una questione di galanteria. O almeno, per carità, fingere di credere che un’opzione donna sia mai esistita.
L'ipocrita "phishing" sulle donne. Marco Zucchetti il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
"Una donna al Colle" è l'equivalente della mail che ti arriva da "Ecuittalia" dal titolo "Hai diritto a un rimborso fiscale": puro e semplice phishing politico.
Nove. Esclusa Maria Elisabetta Casellati, che al quinto scrutinio si è fermata a 382 voti battendo il record di Nilde Iotti nel 1992, la donna che ha preso più preferenze in queste votazioni quirinalizie è stata Marta Cartabia alla prima chiama. Scelta da nove elettori su 1.009. Niente male per una scena politica che da anni utilizza le pari opportunità come un'esca elettorale da quattro soldi.
Oggi che cala il sipario sull'avanspettacolo e che al Quirinale salirà un Mattarella (nel tondo un meme diventato virale sui social) di nome e non una mattarella per indole, «Una donna al Colle» si svela per quel che è. Non una sacrosanta battaglia sociale e nemmeno la petizione che ha raccolto 2.500 firme fra le protagoniste della scena culturale del Paese. No, «Una donna al Colle» è l'equivalente della mail che ti arriva da Ecuittalia dal titolo «Hai diritto a un rimborso fiscale»: puro e semplice phishing politico. E come tale è giusto trattarlo, denunciando i colpevoli - se non alla Polizia postale - almeno all'opinione pubblica.
Sarebbe spietato elencare tutte le dichiarazioni sui «tempi maturi», sull'esigenza di avere queen maker in campo, sul dovere morale di «allinearci all'Europa della Von der Leyen», di «fornire alle bambine un esempio». Decine, centinaia di «svolte epocali» annunciate, di «grandissimi segnali al Paese». Era «l'occasione per dimostrare che una donna capace può raggiungere il vertice delle istituzioni». Parole bipartisan, ma con toni più commossi e pugnaci a sinistra, dove la battaglia è idealmente più sentita, almeno quanto l'imprescindibile ddl Zan. Peccato che poi, finito il piccolo spazio pubblicità progresso, la politica abbia mostrato il suo vero carattere, che nonostante il maquillage ipocrita è sempre e comunque maschiocentrico per inerzia e comodità. Così i partiti entrati in Aula fluidi come i Måneskin si sono magicamente rivelati retrogradi come latifondisti dell'Ottocento. Sicché, al dunque, solo Calenda e +Europa hanno candidato la Cartabia. Al dunque, quando il centrodestra ha tentato la carta Casellati, dalla contraerea progressista è arrivata una (ovvia) raffica ad abbattere la candidata femmina più votata della storia repubblicana. Al dunque, la boutade raffazzonata della Belloni è stata gambizzata prima ancora che si alzasse in piedi. Risultato: una strage di candidate sul selciato, un «femminicidio politico» e nessuno, tranne la Meloni, a condannare il feroce cannibalismo dei partiti e l'implicita misoginia dell'iter decisionale.
Tutto questo bluff, svelato senza neppure un gioco di rilanci dietro agli occhiali da sole, dovrebbe insegnare parecchio sulla pochezza dei giocatori al tavolo. Questo Giornale non ha mai mostrato simpatia per il meccanismo delle quote rosa applicate a qualsiasi campo, ma da sempre sostiene il merito come unico faro, a prescindere dal genere, a costo di finire bollato di conservatorismo retrivo e patriarcale. Per noi, la vera sconfitta generale è non essere riusciti a trovare un candidato alternativo a Mattarella, non tanto non aver trovato una donna. Ma questo vale per chi ha ben chiaro che la battaglia per l'autentica uguaglianza - che si combatte dopo secoli di disparità - non si vince in sei mesi e soprattutto non si vince limitandosi a tweet di propaganda. Che funzionano per ricevere like, ma che diventano controproducenti quando vengono disattesi. Perché la prossima volta che da sinistra si leverà il mantra della crociata femminista, a occhio qualche donna si ricorderà di quei nove voti alla Cartabia. E alla domanda «se non ora quando?», è probabile che risponderà: «Fosse per voi, probabilmente mai». Marco Zucchetti
Letta si intesta la rielezione. Ma voleva la Belloni al Colle. Laura Cesaretti il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Anche il segretario dem d'accordo con Conte e Salvini. Poi la virata notturna. Mistero nelle chat democratiche.
«The winner», lo chiama Dario Franceschini incrociandolo davanti ai cronisti in Transatlantico. Enrico Letta si intesta politicamente il Mattarella bis: «Avevamo detto fin dall'inizio che per noi sarebbe stato il massimo».
La rielezione è la exit strategy migliore per un partito che si è lacerato, sia pur molto meno platealmente di altri, fino all'ultimo tra chi puntava su Draghi (a cominciare da Letta), chi su Casini, chi su Amato, chi sul bis. Solo che attorno alla folle partita che si è giocata in questi giorni, e soprattutto nell'ultima notte, restano molte macerie. «Emerge una crisi della politica, ora vanno fatte le riforme», dice Letta, a cominciare dal proporzionale.
Il centrosinistra è imploso. I rapporti tra Pd e Cinque Stelle (ala Conte) sono ai minimi storici, tra scambi di accuse e veleni. «Dovremo inevitabilmente fare una profonda riflessione su questo», dice Enrico Borghi, rivendicando invece «una forte cooperazione tra il Pd, Renzi, Di Maio e Leu». Il riferimento è a quello che proprio Renzi, rivendicando di averlo «bloccato», chiama «l'asse verde-giallo-nero» sul nome di Elisabetta Belloni, capo del Dis. Aggiungendo: «Sono intervenuto ieri sera, quando era praticamente fatta perché anche Enrico Letta aveva dato il via libera». La ricostruzione di quelle ore convulse è confusa, perché dal Pd si smentisce il cartellino verde del segretario alla «operazione donna» lanciata in contemporanea da Salvini e Conte, dopo un vertice a tre con Letta, e poi appoggiata da Meloni e Grillo: «Era solo uno dei nomi della rosa su cui si ragionava, nessun placet», spiegavano già nella serata di sabato dal Nazareno. Accusando Conte e Salvini di aver giocato sporco, mettendola in piazza e dandola per fatta.
Però è vero che nelle chat interne dei parlamentari Pd, sabato sera, si avvertiva che, un paio d'ore dopo la debacle del centrodestra sulla Casellati, «le trattative sono ripartite, i leader (Salvini, Conte e Letta) si sono visti, i nomi sono stati fatti». E che «per la prima volta potrebbe essere una donna a diventare presidente», perché «la combinazione delle priorità dei diversi partiti porta alla figura di Elisabetta Belloni».
Eppure, di lì a poco, è partita una fortissima manovra interdittiva. Certo non contro la persona di una prestigiosa altissima diplomatica, stimata da tutti e tirata in ballo senza il suo permesso in una partita tutta politica, ma per il suo ruolo delicatissimo di capo dei servizi. Prima Renzi, poi Leu e Forza Italia, poi - pubblicamente - il ministro degli Esteri Di Maio e - dietro le quinte - quello della Difesa Guerini. «Una operazione inqualificabile tentata da Salvini e Conte per accreditarsi come kingmaker, ma anche per destabilizzare tutto: governo e legislatura, con l'obiettivo di far fuori Draghi e magari ricostituire un'alleanza destra-Conte per il voto», dice un dirigente dem. Che spiega: «Il blitz sulla donna, costruito mediaticamente secondo la miglior tradizione populista» poteva avere un effetto devastante: «i gruppi Pd si sarebbero spaccati», lei rischiava di non essere eletta e di doversi dimettere, il governo sarebbe caduto». Uno scenario da cataclisma, «che poteva minare la stabilità Ue» proprio mentre Putin alza la sposta. Per fermarlo «abbiamo fatto muro con Renzi, Letta, Di Maio, Fi e centristi, e dettato il time-out». Ossia la telefonata notturna di Enrico Letta a Berlusconi per avere luce verde al Mattarella bis, e l'avvertimento a Conte e Salvini: domani arriveranno oltre 400 voti su Mattarella, fermatevi. Resta il dubbio su quell'iniziale apertura Pd alla «prima presidente donna». Laura Cesaretti
Alessandro Ferro per ilgiornale.it il 30 gennaio 2022.
Spunta un "giallo" nella vicenda della candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale. segretario del Pd, Enrico Letta, si è in pratica rimangiato quanto affermato sulla candidatura a Presidente della Repubblica del capo dei servizi segreti in Italia, e cioé che la sua candidatura sia stata portata avanti dai giallorossi, quindi da Pd e Movimento Cinque Stelle.
"Non c'era nessuna lista..."
Intervistato dalla trasmissione "Mezz'ora in più" su Rai Tre, ha affermato che "non era stata fatta una lista: si è cominciato a ragionare sui nomi presenti sui giornali, punto. Io non ho obiezione che il capo dei servizi divenga Presidente della Repubblica, nessuna norma lo impedisce ma dopodichè la discussione non era arrivata a quel punto".
Così, però, non è andata: come abbiamo scritto sul Giornale.it, Letta si è preso il merito della rielezione di Mattarella ma in realtà al Colle voleva la Belloni. "Avevamo detto fin dall'inizio che per noi sarebbe stato il massimo", aveva affermato Letta pochi minuti dopo la proclamazione.
"Adesso è colpa dei giornalisti..."
A far notare l'incoerenza, ci ha pensato su Twitter Ettore Rosato, coordinatore di Italia Viva dal settembre 2019. "Certo Enrico Letta, tutta colpa dei giornalisti, era solo una discussione teorica… #Belloni", ha twittato, ripostando l'endorsment di Beppe Grillo su Elisabetta Belloni. "Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo", aveva scritto Grillo alle 21.34 del 28 gennaio. Insomma, l'intesa su Belloni era...bella e buona.
"Cortocircuito mediatico"
Per difendersi ulteriormente dal nome Belloni, Letta ha affermato alla trasmissione televisiva che "i rapporti con Conte i 5 Stelle sono trasparenti. Tutti hanno chiaro come sono andate le cose e cosa è successo. Io considero che non c'è stato accordo preventivo tra Lega e 5Stelle su quell'uscita, per me è stato un cortocircuito mediatico, la proposta è nata e morta nel giro di 10 minuti. E si è arrivati a Mattarella. Poi io da segretario del PD parlo con il segretario del M5S".
In pratica, il segretario del Pd sostiene che nel pomeriggio di venerdì si era cominciato a parlare dei nomi per capire se c'erano "veti e controveti, per vedere se era possibile fare un passo in avanti". Ognuno doveva ragionare, tra i propri grandi elettori, sui nomi che erano stati fatti fino a quel momento, ovviamente nella stretta cerchia dei "papabili". "Era l'inizio di una discussione, ma tutto è stato buttato in pasto all'opinione pubblica", conclude.
Elisabetta Belloni "sulla lista di Enrico Letta". Ma... Quirinale, il gioco sporco del Pd sulla pelle di Sergio Mattarella. Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022
Elisabetta Belloni fatta fuori dallo stesso Partito democratico che l'aveva proposta. A spiegare come siano andate davvero le cose sul nome della direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, era già stato Matteo Salvini. "La Belloni mi è stata proposta ieri da Pd e M5s. Dato che per cinque giorni sono stato io a fare proposte, ma non ne andava bene una, allora ho chiesto a loro dei nomi da sottopormi - aveva detto ai microfoni della Maratona Mentana su La7 -. Quando sono andato nell’ufficio di Conte mi sono stati fatti cinque nomi, dopo aver parlato con gli alleati sono tornato dicendo che uno aveva il sostegno della Lega perché aveva tutto per essere un ottimo presidente, credibile e super partes". Quel nome era proprio la Belloni, naufragata in una sola notte. Una mossa sporca, quella di Enrico Letta e del Pd, sulla pelle di Sergio Mattarella: una finta sul capo degli 007 per tendere un tranello a Salvini e Conte. Il prezzo da pagare? Il bis di Mattarella, appunto. E la rabbia del presidente riconfermato.
Come? Ecco che i dettagli sull'accaduto aumentano. Ad aggiungere qualche particolare in più ci pensa il Corriere della Sera. "Nella lista di Letta - si legge in riferimento alla rosa di candidati proposta dai dem - c'è il nome su cui puntano Conte e Salvini: Belloni". Peccato però che proprio su quel profilo, ben tre giorni prima nel Pd era scoppiato il caos. Il motivo? Proporre alla presidenza della Repubblica il capo dei servizi segreti non è roba da Paese dell'Occidente democratico. "È fatta purtroppo, perché con i voti della Meloni hanno i numeri. E in Aula si creerà un effetto trascinamento che ci costringerà a votarla", avrebbe commentato subito Dario Franceschini mentre M5s e Lega annunciavano il nome della Belloni in lizza per il Colle.
E ancora, Loredana De Petris in un messaggio ai colleghi: "C'avete proprio rotto er...". Ma a reagire in modo più duro degli altri Lorenzo Guerini. Il ministro avrebbe riferito di non aver "mai gridato così in vita mia". Poi è stata la volta di Matteo Renzi: "Hanno provato a mettercela nel (bip) con Frattini. Ora ci riprovano con Belloni. Se non li fermiamo lanceranno anche il generale Figliuolo". Ma anche sul fronte del centrodestra Giovanni Toti non è stato da meno: "È una cosa folle. Non ne sapevo nulla. Ho sempre detto che se si deve andare su un tecnico per me c'è solo Draghi. Se è un politico, si può fare con Casini", avrebbe detto nel retro di un ristorante in chiamata con Di Maio chiudendo anche lui all'ipotesi Belloni. Per sempre.
Estratto dell'articolo di Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 31 gennaio 2022.
[…] Ai fedelissimi il leader del Pd ha spiegato: «Mi hanno accusato di aver detto di sì a Belloni. Io ho detto che non mettevo veti preventivi. Ma la verità è che lei non è mai stata in gioco davvero perché la condizione del Pd per dire si era l'unità della maggioranza e del no di Renzi e di Forza Italia sapevano già tutti, come era ovvio il no dei nostri gruppi. Salvini ha tentato il blitz, Conte ha pensato che fosse fatta e quel nome è stato dato in pasto all'opinione pubblica».
Alla Rai, ospite di Lucia Annunziata, Letta su Belloni osserva: «Non esiste una norma che le avrebbe impedito di fare la presidente, ma la discussione non è arrivata fino a questo punto». […]
Carlo Bertini per “La Stampa” il 31 gennaio 2022.
Tardo pomeriggio domenicale, Enrico Letta si collega via Zoom con il suo stato maggiore e, nella cabina di comando del Pd, il leader butta giù la strategia per i prossimi mesi: tenersi distanti dal «congresso» dei 5 stelle, «che devono far presto a chiarirsi», stringere il dialogo con Renzi, da cui ha avuto una sponda cruciale in vari passaggi e formare un asse anche con Forza Italia in Parlamento.
Non per farla entrare nel campo largo, dove neanche l'ex segretario dem intende affacciarsi, ma in vista di una eventuale «maggioranza Ursula» a futura memoria. Per questo va fatta una legge elettorale che consenta ai centristi di sganciarsi dalla destra. Mezzo Parlamento spinge infatti per il proporzionale.
La scelta di campo dei 5s
La prima preoccupazione sono i 5 stelle: anche se si spaccassero in due tronconi, è la convinzione del vertice Pd, starebbero entrambi, Di Maio e Conte, nel perimetro della sinistra. Ma ciò porterebbe tensioni.
«Ora devono chiarirsi presto», taglia corto Letta. «Conte alla stretta finale ha rispettato le scelte dei progressisti e l'unità della maggioranza di governo, ma non dobbiamo farci tirar dentro nella guerra dei Roses dei 5 stelle tra lui e Di Maio», ragiona nel day after di quella che considera una vittoria.
Terza di una serie (dopo il successo alle amministrative nelle grandi città, dopo la conquista a pieni voti del suo seggio a Siena), che suggerirebbe di convocare lui un congresso anticipato per fare il pieno dei consensi e mettere tutti a tacere prima della tornata elettorale: questo gli chiedono i suoi fedelissimi, ma lui frena. Il congresso ha la sua scadenza naturale a inizio 2023, a ridosso delle elezioni politiche, ma il segretario non intende anticiparlo (per ora) ritenendolo un appuntamento divisivo. Mentre adesso il partito «è unito come non mai».
Il colosso Fiano fa la guardia
La cosa più divertente del day after è stato il ringraziamento che Enrico Letta ha tributato al colosso Emanuele Fiano, per essersi eretto con la sua mole in difesa degli ordini di scuderia in aula: controllando fisicamente accanto ai banchi della presidenza che tutti i grandi elettori dem urlassero «Presente!» senza ritirare la scheda, senza fare scherzi e giochini tipici dei franchi tiratori. Il gioco di squadra ha portato anche a una ricucitura dei rapporti con i ministri del governo Draghi: i capicorrente Andrea Orlando, Lorenzo Guerini e Dario Franceschini si sono spesi per Mattarella nella fase finale e anche per questo il leader adesso si sente più forte.
Basta cambi di casacca
E ora spinge su un tasto: «No ai cambi di casacca perché rendono più lontana la politica dai cittadini. Che devono poter scegliere gli eletti, quindi va cambiata la legge elettorale, perché quella attuale è la peggiore». E se in tivù da Lucia Annunziata fa notare che rispetto a quando Renzi fece eleggere Mattarella, lui ha portato a casa una partita ben più difficile («nel 2015 avevamo il 45% dei grandi elettori, oggi il 15%»), è con l'ex nemico giurato che intende siglare una tregua: mano tesa ad un nuovo sistema anche proporzionale che tutti i centristi anelano come ciambella di salvataggio.
E comunque, la polemica sulla candidatura di Elisabetta Belloni, non scartata subito dal segretario del Pd sono ancora accese. «Il capo del Dis al Colle? La norma non lo impedisce», risponde Letta. «Era uno dei nomi ma tutto si è fermato dopo dieci minuti quando Salvini ha prodotto il cortocircuito mediatico
Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 31 gennaio 2022.
Senatore Renzi, chiedere a Mattarella di ripensarci non è una sconfitta della politica?
«È la sconfitta di alcuni politici, non della politica. Apprezzo il salutare ripensamento di alcuni colleghi. Pensi a Salvini che nel 2015 twittava "Mattarella non è il mio presidente" e ora si intesta la rielezione. Oppure ai Cinque Stelle che volevano l'impeachment del presidente e adesso esultano come allo stadio. Il Parlamento di sovranisti e populisti elegge il presidente scelto da noi nel 2015: hanno perso loro, noi brindiamo».
Il bis di Mattarella, però, non era la sua prima opzione.
«Non lo era. Mattarella aveva chiesto di evitare il secondo mandato adducendo motivazioni serie. Aveva spiegato che la seconda rielezione consecutiva trasformava il precedente di Napolitano in una sorta di modifica alla costituzione sostanziale. Questa raffinata sensibilità istituzionale, propria di un galantuomo, è destinata a passare in secondo piano davanti allo show indecoroso di chi ha trasformato l'elezione del capo dello Stato in una sorta di X Factor.
Quando ho visto leader politici cercare candidati a caso, passando dal diplomatico al professore senza alcuna logica istituzionale mi sono preoccupato. E mi sono detto: meglio costringere Mattarella al bis che rimpiangere per sette anni le soluzioni strampalate last minute di qualche presunto leader».
Si riferisce a Salvini?
«In primis a lui, ma non solo a lui. Salvini ha scambiato la ricerca del presidente della Repubblica con la ricerca del super ospite a Sanremo: cercava il nome a effetto. Quando un pomeriggio il leader della Lega è sparito tre ore per andare a casa di Cassese, ho sperato che almeno gli tornasse utile la lezione di diritto che il professore avrà provato a dargli. Anche perché per me Cassese è in assoluto il migliore. E invece nulla, Salvini si è mosso senza logica. Una volta voleva l'accordo con Letta, poi con Conte, poi con Meloni, poi con noi. Alla fine è riuscito nel risultato di scontentare tutti, a cominciare dai suoi».
Salvini dice che su Elisabetta Belloni c'era l'accordo di Conte e di Letta.
«Di Letta non so. L'accordo di Conte invece c'era. La vera novità politica della settimana presidenziale è stata proprio il ritorno dei due compagni di viaggio del governo gialloverde. Salvini e Conte si sono spalleggiati. Io ho cercato di far saltare il loro patto non per antipatia personale, ma per una considerazione politica. I gialloverdi infatti hanno individuato due nomi su cui costruire una maggioranza assieme alla Meloni: il presidente del Consiglio di Stato Frattini prima e il direttore del Dis Belloni poi. Volevano un presidente espressione della coalizione giallo-verde-nera».
E perché non vi siete uniti anche voi?
«Per ragioni istituzionali: le tensioni geopolitiche tra Russia e Occidente non facevano di Frattini il miglior candidato, specie in un periodo come questo, visto la sua relazione con Mosca. E perché in una democrazia evoluta il capo dei servizi segreti non diventa presidente della Repubblica. Quando ho sceso le scale di Montecitorio e ho criticato in diretta tv la proposta di Salvini e Conte ero convinto che la Belloni sarebbe stata eletta, perché avevano i numeri per farcela.
E parte del Pd stava sposando quella scelta. Ma sarebbe stato uno sfregio alle istituzioni di questo Paese. Non ho paura di dirlo a voce alta, senza timori, con la serietà di chi è stato presidente del Consiglio e ricorda che prima delle amicizie bisogna rispettare le istituzioni. Ci ho messo la faccia, ma chi ha cultura istituzionale sa che era doveroso da parte mia farlo».
Secondo lei il governo esce indebolito? La legislatura arriverà fino al termine?
«Spero che Draghi riprenda il timone del governo con più forza. Che non significa ignorare il Parlamento ma sfidare la politica in positivo. Draghi non è indebolito. Ma il suo governo oggi può fare di più e meglio: sbloccare le infrastrutture, semplificare le regole della dad a scuola, mettere a terra i progetti del Pnrr, combattere in Europa la battaglia sul debito. Tutte cose che il premier farà, ne sono certo. E noi saremo al suo fianco. La legislatura durerà fino al 2023: mai avuto dubbi a tal proposito anche se Conte ha sognato di interromperla prima».
Ha ritrovato sintonia con Enrico Letta?
«Sui temi di fondo siamo sempre dalla stessa parte. Enrico si è tranquillizzato quando ha capito che non avrei mai fatto asse sulla Casellati. In tanti pensavano che avrei votato Casellati pur di diventare presidente del Senato. Ma io mi chiamo Matteo Renzi: combatto contro tutti per le mie idee, non per un tornaconto personale. Quando davanti a un caffè ho chiarito a Letta che non avrei mai accettato lo scambio di poltrone è cambiato il clima. E abbiamo lavorato meglio».
Forza Italia si è dissociata dal centrodestra, questo passaggio può essere foriero di novità?
«Sì. Il centrodestra non c'è più, ha detto Meloni. E non è che i Cinque Stelle siano messi meglio. Saranno mesi di cantieri all'interno dei vari schieramenti politici. Ma è prematuro immaginare che cosa accadrà. La conferma di Mattarella e di Draghi portano stabilità al Paese e questo paradossalmente consentirà l'evoluzione del quadro partitico».
Lei propone il presidenzialismo, che però mal si accorda con il proporzionale, verso cui invece sembra si vada.
«Dopo il 2016 non dovrei parlare più di riforme costituzionali e di legge elettorale: ogni giorno è sempre più chiaro che quella riforma unita alla legge elettorale con ballottaggio avrebbe dato stabilità al sistema e più forza al Paese. Tuttavia andare all'elezione diretta del presidente mi sembra una necessità rafforzata dallo show triste di questi giorni: che poi sia presidenzialismo all'americano o semipresidenzialismo alla francese, vedremo. Ma questo tema sarà oggetto della legislatura 2023-2028. Sulla legge elettorale, invece, si potrebbe fare nei prossimi mesi ma inciderà la volontà dei gruppi maggiori come Cinque Stelle e Lega che ad oggi sono dilaniati».
Salvini tra accuse e ovazioni. Dalla sfiducia degli alleati alla vittoria sui "draghisti". Paolo Bracalini il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Si riapre il fronte interno nella Lega, Matteo argina le pressioni da Chigi. Un deputato: "Dai nostri messaggi di insulti".
«Dai nostri arrivano messaggini di fuoco. I più educati ci rinfacciano di aver messo ancora una volta al Quirinale uno del Pd, dopo aver promesso il contrario. Di aver perso una settimana senza portare poi a casa niente. Per non dire degli insulti...» racconta un deputato leghista (sotto rigoroso anonimato). Il flop di Salvini nel ruolo di king maker del centrodestra, con la serie di candidati bruciati e il ripiegamento finale su Mattarella, provoca nuove crepe nel Carroccio (e critiche dagli alleati Berlusconi, Meloni e dal vecchio Bossi). Giorgetti, il punto di riferimento dell'area governista del partito, quella che ha provato a convincere Salvini a intestarsi l'operazione Draghi al Colle, è nuovamente in fibrillazione. Per qualche ora ieri si è parlato delle sue imminenti dimissioni da ministro, non smentite dal diretto interessato ma anzi alimentate da una frase sibillina («Io via? È una ipotesi, magari c'è da migliorare la squadra. Qualcuno resta al Colle, io torno a casa...»). Poi Giorgetti ha chiarito che il cambiamento a cui faceva riferimento non è un rimpasto di governo, ma una «taratura» e un nuovo «codice di comportamento tra gli alleati della maggioranza». In settimana lui e Salvini hanno chiesto un incontro con Draghi, l'obiettivo è ottenere che il governo «faccia più squadra». La Lega teme che il tutti contro tutti andato in scena sul Quirinale si sposti sul governo, paralizzandolo. Di fronte c'è l'ultimo anno di legislatura e in prospettiva una campagna elettorale, con Salvini che soffre la concorrenza interna della Meloni all'opposizione.
Il ministro, come pure i governatori Zaia e Fedriga, sono stati tenuti ai margini della trattativa da Salvini che si è mosso per conto suo, confidandosi con i pochi della sua cerchia ristretta. L'esito è considerato un fallimento. «Mattarella poteva andare anche bene, ma non così, non al settimo giorno, diventa difficile spiegarlo poi ai nostri elettori» raccontano nella Lega. Salvini ai parlamentari leghisti (che comunque lo hanno accolto con una ovazione, riconoscendogli il coraggio di aver messo la faccia in una partita difficile) ha detto che, arrivati in un vicolo cieco, tanto valeva intestarsi Mattarella (cui dopo l'elezione ha fatto una «telefonata di gratitudine»). Il leader non risparmia accuse a Forza Italia per i voti mancati alla Casellati e per la decisione degli azzurri di trattare da soli («Così mi hanno delegittimato»). Aveva provato con la Belloni («Me l'hanno proposta Letta e Conte, ma poi Letta ha cambiato idea» racconta), prima ancora aveva tentato la carta Casini, trovando però resistenze nel partito (e negli alleati, la Meloni). Ma c'è un altro fronte interno che Salvini ha dovuto tenere sotto controllo, e che alla fine lo ha fatto virare su Mattarella. E cioè il pressing telefonico del premier Draghi su Giorgetti e i governatori leghisti. Lo racconta il leghista Rixi: «L'unica cosa per cui avrei preferito Casini era la sua posizione sulla giustizia. Ma con il premier che faceva incursioni da noi non potevamo reggere. Il centrodestra? In realtà solo Berlusconi poteva guidarlo con il suo potere economico. Non so se non valga la pena a questo punto fare una riflessione sul proporzionale». Sull'ipotesi rimpasto Salvini non chiude: «Non lo so, ne parleremo con Draghi. Meglio che al governo ci sia una squadra compatta, se qualcuno non ha voglia di lavorare o ha voglia di distruggere bisogna essere coscienti e coerenti». Non è un mistero che la Lega chieda la testa della Lamorgese. Ma se Salvini non ci era riuscito prima, difficile lo ottenga ora, indebolito dalla vicenda Quirinale. Paolo Bracalini
Sergio Mattarella al Quirinale, "liti e urla nella notte": voci dalle sacre stanze, così si è arrivati al bis. Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022.
La rielezione di Sergio Mattarella è arrivata e non senza attriti. Dopo ben sette votazioni andate a vuoto, è la settima a proclamare il presidente della Repubblica uscente nuovo capo dello Stato. Cosa ha sbloccato l'impasse dei partiti? Una difficilissima trattativa avvenuta la notte precedente al voto. Stando a un retroscena del Corriere della Sera, a portare al Mattarella bis "urla e liti". Sì, proprio così. Perché se Matteo Salvini e Giuseppe Conte erano giunti alla conclusione di voler proporre Elisabetta Belloni, lo stesso non si può dire dei dem.
"È fatta purtroppo, perché con i voti della Meloni hanno i numeri. E in Aula si creerà un effetto trascinamento che ci costringerà a votarla", è quanto va sostenendo Dario Franceschini mentre Loredana De Petris è ben più schietta e si attacca al cellulare avvisando i compagni del Pd: "C'avete proprio rotto er...". Poi è la volta di Lorenzo Guerini che dà qualche dritta al segretario del partito per poi confidarsi con un altro piddino: "Non ho mai gridato così in vita mia". Secondo Il Corsera il ministro della Difesa grida al telefono anche con i dirigenti di Forza Italia, perché dichiarino subito la loro contrarietà alla candidatura. Dello stesso parere Matteo Renzi: "Hanno provato a mettercela nel (bip) con Frattini. Ora ci riprovano con Belloni. Se non li fermiamo lanceranno anche il generale Figliuolo".
I malumori però aleggiano anche nel centrodestra, dove Giovanni Toti telefonerebbe a Luigi Di Maio: "È una cosa folle. Non ne sapevo nulla. Ho sempre detto che se si deve andare su un tecnico per me c'è solo Draghi. Se è un politico, si può fare con Casini". E così si inizia a sondare il terreno per portare al Colle Pier Ferdinando Casini, ma i numeri sono risicati e Silvio Berlusconi fa un passo avanti: sì a Mattarella. I giochi a quel punto iniziano a delinearsi e il presidente uscente è l'unico nome che mette d'accordo tutti. O quasi.
Viva Mattarella. Ma 14 anni sono un regno e la rottura di una prassi. Nessuno pensi di sfruttare il sacrificio del presidente Mattarella per trarne un vantaggio di parte. Nessuno provi a intestarsi questa vittoria perché è una sconfitta per tutti. Davide Varì su Il Dubbio il 30 gennaio 2022.
Dunque siamo tornati al punto di partenza, siamo tornati a Mattarella. E quel che rimane di questa vicenda sono le ceneri di leader e partiti che hanno avuto mesi e mesi di tempo per costruire un’alternativa per Quirinale e Palazzo Chigi, salvo poi voltarsi indietro e decidere di congelare l’esistente. Ma questo è l’esatto opposto della politica.
La politica è visione, è costruzione del futuro e non cristallizzazione del passato. E ora nessuno si azzardi a dire che in realtà Mattarella sperasse da tempo in questo finale. Il capo dello Stato è un giurista, un cultore della nostra Carta e sa benissimo che rompere la prassi del settennato significa consolidare (è già accaduto con Napolitano) un precedente assai delicato: di qui i suoi scrupoli che superano di gran lunga le sue ambizioni. Ma è bene essere chiari: quattordici anni di presidenza sono tanti, sono un regno edificato sulla forzatura di quella prassi costituzionale. Certo, se proprio dobbiamo avere un “re” è bene che sia Mattarella, perché il Presidente ha un rispetto sacrale del diritto e della Costituzione, ma si tratta comunque di un’anomalia che avrà ripercussioni su un sistema di partiti già al collasso. Insomma, la candidatura di Mattarella è una buona notizia per il Paese ma un pessimo segnale per la nostra politica.
Del resto lo spiegò bene l’allora presidente Giorgio Napolitano quando, in occasione del discorso di insediamento per il suo secondo mandato, disse ai partiti che lo avevano implorato di tornare che la sua rielezione era il segno della loro sconfitta. «Di fronte alla gravissima crisi istituzionale – dichiarò Napolitano di fronte a un Parlamento ammutolito – hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi, e strumentalismi».
E qui sembra riecheggiare la voce di don Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia». E poi ancora: «Ecco cosa ha condannato alla sterilità o a esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento». Parole dure e drammaticamente attuali. La sconfitta di allora, oggi si ripete e si aggrava. E ora nessuno provi a intestarsi la vittoria del gesto di Mattarella. Non ci provi Enrico Letta, incapace, in questi mesi, di creare un’alternativa politica; non ci provi Salvini, che per giorni ha portato a spasso opinione pubblica e giornalisti bruciando candidati uno dietro l’altro e mandando allo sbaraglio persino la seconda carica dello Stato e il capo dei servizi segreti; e non ci provino né Conte né Di Maio, che hanno giocato uno contro l’altro ballando sulle ceneri di un movimento allo sbando e la cui unica preoccupazione era quella di tirare avanti fino a settembre per assicurarsi la pensione: hai capito gli anticasta? E poi non ci provino né Forza Italia né Renzi, prigionieri di una visione personalistica e autistica della politica e incapaci, ormai, di immaginare un futuro per sé e per il Paese. Non ci provi neanche Meloni – ma lei in fin dei conti non ci proverà – il cui unico scopo era minare il governo Draghi per andare al voto e intascare il prima possibile quello che i sondaggi le promettono da mesi.
Insomma, nessuno pensi di sfruttare il sacrificio del presidente Mattarella per trarne un vantaggio di parte, anche perché il gesto del Capo dello Stato si fonda sull’autonomia e sulla indipendenza e chiunque provasse a mettere il timbro sporcherebbe quella scelta alta, disinteressata, indipendente. Nessuno, dunque, provi a intestarsi questa vittoria perché è una sconfitta per tutti. Tanti auguri presidente Mattarella, sappiamo di essere in ottime mani.
Quando Napolitano spiegò ai partiti che la sua rielezione era la loro sconfitta. Il Dubbio il 30 gennaio 2022.
Il durissimo e inascoltato discorso che Giorgio Napolitano pronunciò in occasione della sua rielezione il 22 aprile del 2013.
Il durissimo e inascoltato discorso che Giorgio Napolitano pronunciò in occasione della sua rielezione il 22 aprile del 2013.
«Come voi tutti sapete non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da presidente della Repubblica. Avevo già nello scorso dicembre pubblicamente dichiarato di condividere l’autorevole convinzione che la non rielezione al termine del settennato è l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di presidente della Repubblica. (…).
A queste ragioni e a quelle più strettamente personali, legate all’ovvio dato dell’età, se ne sono infine sovrapposte altre, rappresentatemi, dopo l’esito nullo di cinque votazioni in quest’aula di Montecitorio, in un clima sempre più teso, dagli esponenti di un ampio arco di forze parlamentari. È emerso, nella mattinata di sabato, un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del parlamento in seduta comune nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere il supremo compito costituzionale dell’elezione del capo dello stato.
(…) È a questa prova che non mi sono sottratto, ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti, che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale, non si sono date soluzioni soddisfacenti; hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi, e strumentalismi.
Ecco cosa ha condannato alla sterilità o a esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in parlamento. Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato, dunque, facilmente ignorato o svalutato e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti e il parlamento sono state con facilità, ma anche con molta leggerezza, alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono». Attenzione: il vostro applauso, quest’ultimo richiamo che ho sentito di dovere esprimere, non induca ad alcuna autoindulgenza. (…) Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese».
Con i “ceci” in Transatlantico per andare in ginocchio da Mattarella. «Io ho già comprat-to i cec-ci», sussurra un grande elettore sardo M5S in Transatlantico poco dopo l’apertura di Matteo Salvini al bis di Sergio Mattarella al Quirinale. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 29 gennaio 2022.
«Io ho già comprat-to i cec-ci», sussurra un grande elettore sardo M5S in Transatlantico poco dopo l’apertura di Matteo Salvini al bis di Sergio Mattarella al Quirinale. E di ceci ne serviranno parecchio, se davvero tutte le forze politiche oggi pomeriggio saliranno al Colle per chiedere in ginocchio al presidente uscente la sua disponibilità alla rielezione.
«Dopo cinque giorni di “no” del centrosinistra, non vorrei andare avanti così per altrettanti, e quindi forse sarebbe più saggio chiedere al presidente di rivedere il suo pensiero», aveva detto pochi minuti prima il leader della Lega ai cronisti entrando in Aula per votare. O meglio per astenersi, come sta facendo tutto il centrodestra in questo settimo scrutinio. «Casini? Io non metto veti su nessuno», ha poi chiosato Salvini lasciando aperto uno spiraglio sull’ex presidente della Camera. Che ci spera ancora, scrive su Twitter che è il suo nome è sul tavolo «solo se frutta di un’ampia convergenza» ma poi elimina il post e pubblica su Instagram una foto con il Tricolore. Stile di comunicazione quantomeno “rivedibile”. Il centrosinistra opta invece per la scheda bianca, dopo che Conte non si è presentato al vertice di prima mattina dove erano presenti tutti gli altri leader, e come ieri centinaia di voti finiranno al presidente della Repubblica uscente.
«Scrivete Mattarella, ma non troppo», si legge nella comunicazione arrivata ai grandi elettori M5S, dopo il «bianca, cioè senza nessun nome scritto sopra» di qualche giorno fa. Nel frattempo una grande elettrice dem s’intrattiene su una poltroncina leggendo un Diabolik. Ma chi in questo Romanzo Quirinale sia il ladro e chi l’ispettore Ginko, chi Eva Kant e chi un semplice poliziotto incaricato di provare a fermare il Re del Terrore. Quel che è certo è che in Transatlantico tanti volti non sono quelli reali, come nella finzione del fumetto inventato da Angela e Luciana Giussani nel 1962, e che con un po’ di forzature, senza arrivare all’utilizzo della celebre Scopolamina, i peones rivelerebbero anche i segreti più nascosti. Di ladri veri, in Transatlantico, c’è solo Renzi, che come sempre prova a rubare la spilla a un collega. In questo caso Toni Iwobi della Lega, che stoicamente resiste. E Renzi, per una volta, desiste.
Il ruolo del Presidente del Consiglio. Draghi come Mr Wolf, il premier da favorito a kingmaker: altro che Salvini e Conte. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Gennaio 2022.
Draghi partiva tra i favoriti, poteva diventare il Presidente della Repubblica, o il grande perdente, il Presidente del Consiglio sconfessato dalla maggioranza e non solo, è stato il convitato di pietra a ogni incontro per l’elezione del 13esimo Capo dello Stato, la traccia che sbucava con una telefonata o un incontro da un momento all’altro. Alla fine è andata che è diventato invece il kingmaker della partita al Quirinale. Il Mr Wolf della politica.
Quando il gioco si è fatto duro, più una strage che un caos, carneficina di nomi e candidati buttati in pasto ai media e al Parlamento, con i leader di partito incapaci di trovare una soluzione, è stato il premier a essere decisivo per arrivare a un mandato bis di Sergio Mattarella. I retroscena riportano che Draghi ci lavorava da due giorni: mentre i partiti bruciavano candidati in aula o senza andare neanche al voto. La rielezione come collante della maggioranza, salvagente del governo e della legislatura, assicurazione per l’incasso dei circa 50 miliardi di euro di fondi europei in arrivo tra giugno e dicembre. La rielezione anche come sconfitta categorica dei partiti che non hanno saputo fare altro che riportare il Presidente della Repubblica in carica. Se non è commissariamento, della politica e dei partiti, poco ci manca.
“Si va avanti, squadra che vince non si cambia. Abbiamo tante cose da fare, saranno sei mesi importanti …”, le parole di ieri, venerdì pomeriggio, del premier riportate da Il Corriere della Sera. Fine delle “operazioni scoiattolo”, è partita l’operazione “dritto per dritto” dell’ex Presidente della Banca Centrale Europea. L’unica via d’uscita affinché il terremoto del fallimento dei partiti evitasse uno smottamento anche nella maggioranza. A spingerlo a scendere in campo, già nei giorni scorsi, diversi dirigenti della maggioranza – a provare a indirizzarlo verso il Quirinale erano stati soprattutto i governatori, Renzi, Di Maio, il sindaco di Venezia Brugnaro. Draghi ha quindi sentito tutti i leader di partito e sono tornati tutti alla casella di partenza.
Caduto anche il veto del segretario della Lega Matteo Salvini, frenato dalla contrarietà assoluta di Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, è finito il segreto di Pulcinella. Matteo Renzi di Italia Viva fiutava da giorni la traccia. Enrico Letta del Partito Democratico si era sempre detto favorevole. Giuseppe Conte del Movimento 5 Stelle sarebbe stato contrario ma costretto dal precipitare degli eventi. Silvio Berlusconi avrebbe acconsentito pur di sbarrare la strada a Draghi per il Colle – come Salvini e Conte. Questa mattina la notizia definitiva: un colloquio decisivo di venti minuti del premier con il Capo dello Stato, a margine del giuramento di Filippo Patroni Griffi a giudice della Corte Costituzionale.
L’Ansa aveva battuto le parole di Draghi: “per il bene e la stabilità del Paese” era opportuno che Mattarella restasse al Quirinale. Di certo non un finale a sorpresa. L’assenso del Presidente – salvo clamorosi colpi di scena – è arrivato nel pomeriggio. Da lui i capigruppo delle forze della maggioranza e i delegati delle Regioni. “Aveva altri piani per il suo futuro” ma “lo abbiamo pregato, vista la situazione, di restare per un altro mandato”. Le condizioni le porrà Mattarella: sarà il secondo Presidente a essere rieletto. Giorgio Napolitano, nel 2013, restò per due anni in più, lasciando il Quirinale proprio all’ex DC siciliano. Il giuramento si terrà mercoledì pomeriggio tra le 15:00 e le 16:00.
Eppure Salvini insiste: dopo aver bruciato rose a tre e a cinque, il Presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini, la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, una “presidente donna in gamba” non arrivata neanche al voto in aula, si è detto soddisfatto che “la mia proposta di rieleggere Mattarella sia diventata poi una proposta di tanti”. Anche Conte parla di “missione compiuta” per assicurare stabilità all’azione dell’esecutivo. Per quanto potranno raccontarla, adesso dovranno affrontare gli esami interni ai loro partiti. Debacle.
Entrambi si sono opposti strenuamente a Draghi al Quirinale. Il premier resta al timone, al comando di una maggioranza che già pare scricchiolare con i malumori di Giorgetti: per il ministro dello Sviluppo Economico serve un aggiustamento per questa nuova fase. Draghi un anno fa veniva chiamato più o meno di notte, più o meno all’ultima spiaggia, da Mattarella per fare il governo, il “governo di unità nazionale”. Quest’anno è stato lui a chiamare Mattarella per risolvere lo stallo alla messicana. Le parti si sono invertite. Draghi come Mr Wolf – e non è una buona notizia per la politica italiana.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
San Michele Arcangelo, la parrocchia palermitana del vecchio e nuovo presidente. Riccardo Arena su La Stampa il 30 gennaio 2022.
Il presidente è un cattolico praticante e già lunedì la sua parrocchia pregherà per lui. In sua assenza. Come del resto tutte le chiese d’Italia, che hanno nel messale una celebrazione liturgica prevista quando il Capo dello Stato viene eletto o, nel caso di Sergio Mattarella, rieletto. Si pregherà anche a San Michele Arcangelo, la parrocchia palermitana del vecchio e nuovo presidente, il tempio che Mattarella frequentava da cittadino qualunque: «Veniva con la moglie Marisa – dice il parroco, Alerio Montalbano – e qualche volta con i figli. Veniva spesso, ogni domenica, quando era a Palermo. Qui ha celebrato pure i funerali della signora Chiazzese, quando è venuta a mancare». Mattarella non era ancora presidente, la first lady poi è stata la figlia Laura. Tra le chiese di Palermo ha frequentato le Ancelle, in via Marchese Ugo, ma anche Sant’Espedito, in via Garzilli. E lì ci fu l’incidente di percorso, col parroco che lo salutò pubblicamente, mettendolo in imbarazzo. Il presidente andò via. «No, non ama queste cose – conferma don Montalbano –. Quando viene da noi è puntualissimo e si siede come un fedele qualsiasi. Certo, ha la scorta, ma è discreta, nemmeno si vede. Mattarella sta tra la gente, preferisce così». Una volta gli capitò una messa al termine della quale c’era il battesimo di un bambino: «Non conosceva i genitori ma partecipò al clima di festa – ancora il parroco di San Michele – e volle avvicinarsi alla coppia e al bimbo, si fermò a parlare con loro, era molto contento. Si trattava peraltro di un papà e di una mamma palermitani, ma che per lavoro vivono a Roma, dove abitava e abiterà ancora il presidente». Ma capita che il riservatissimo inquilino del Quirinale si fermi a parlare con altri parrocchiani? «Sì, lo fa spesso. O meglio lo faceva molto di più prima della pandemia. Da quando c’è il virus viene di meno in città e anche in chiesa qui da noi». La settimana scorsa, quando stava facendo il trasloco dalla sua casa di via Libertà – ora praticamente inutile – Mattarella era andato in chiesa fra le più tranquille mura della Legione carabinieri Sicilia, evitando di creare involontariamente confusione con la propria presenza. «Come vediamo un parrocchiano così importante? La comunità – dice ancora Alerio Montalbano – è stata felicissima e orgogliosa di lui, dal primo momento. È come quando si ha un figlio, un parente, che assume un incarico di primo, nel suo caso primissimo piano. Quando vedemmo il presidente salire da solo la scalinata dell’Altare della Patria paragonammo quei momenti alla salita del Santo Padre dalla piazza del Vaticano. Entrambi da soli ma con tutto un Paese e una comunità cristiana mondiale, nel caso di Papa Francesco, che erano con loro. Per Mattarella la preghiera non manca». E la preghiera presidenziale? «È una preghiera speciale, che già facemmo sette anni fa e che era e sarà di nuovo dedicata a lui. Ci sarà l’augurio di buon lavoro, la richiesta al Signore di assisterlo e di aiutarlo a essere di nuovo presidente in un mondo finalmente libero dalla pandemia».
Sergio Mattarella, gli scatti «privati» del presidente della Repubblica A cura di Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2022.
Aveva escluso più volte un suo secondo mandato. Anche organizzando il trasloco dalla sua abitazione di via Libertà a Palermo alla nuova casa presa in affitto a Roma, nel quartiere Parioli (dove sarebbe entrato da senatore a vita). Invece, sabato 29 gennaio 2022, è stato rieletto: è la seconda volta nella storia italiana che viene riconfermato il presidente della Repubblica in carica. Tutti i partiti gli hanno chiesto di restare, tranne Fratelli d'Italia: 759 i voti ottenuti, che lo hanno portato a diventare il secondo Presidente più eletto, dopo Sandro Pertini (832) nella storia della «nostra» Repubblica. «I giorni difficili trascorsi nel corso della grave emergenza sanitaria, economica e sociale richiamano al senso di responsabilità», ha detto il presidente salendo sabato sera al Quirinale dopo la sua rielezione. «Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti, con l’impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini». Poche parole, dirette e incisive, quelle usate dal Presidente — un uomo riservato e schivo — che non si è sottratto alle responsabilità per il bene del Paese (qui il discorso integrale). Un Presidente che ha raccolto con garbo l'eredità dei suoi predecessori. Riviviamo insieme alcuni momenti «privati» della sua carriera (nella foto il presidente della Repubblica prima dell'intervento video all'iniziativa «QualeFuturo», il 13 giugno 2020; Ansa/Paolo Giandotti)
Sergio Mattarella nasce a Palermo il 23 luglio del 1941. Si laurea in Giurisprudenza nel 1964 all’Università «La Sapienza» di Roma. Si iscrive all’Albo degli avvocati del Foro di Palermo dal 1967. Come ricorda la biografia ufficiale pubblicata sulla pagina del Quirinale, ha insegnato diritto parlamentare presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo fino al 1983, quando prende l'aspettativa ed entra a far parte della Camera dei Deputati (nella foto Mattarella esce dal suo appartamento preso in affitto al quartiere Parioli, sabato 29 gennaio 2022, dopo l'elezione, accompagnato dalla figlia Laura; Benvegnù-Guaitoli)
Figlio di Bernardo Mattarella, uomo politico democristiano, più volte ministro negli anni Cinquanta e Sessanta, ha militato nell’Azione Cattolica e nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana (Fuci). Dopo l’uccisione nel 1980 da parte della mafia del fratello Piersanti, all'epoca Presidente della Regione Sicilia, ha intrapreso la carriera politica con la Democrazia cristiana. È il 1983 quando viene eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, dove viene rieletto anche nelle legislature successive (fino al 2008). Tra i promotori del Partito popolare italiano, ha militato nelle fila prima della Margherita e — poi — dell’Ulivo
Nel 1987 è stato nominato ministro dei Rapporti con il Parlamento nel governo Goria e nel governo De Mita. Segue nel 1989 la nomina a ministro della Pubblica istruzione nel sesto governo Andreotti. L'anno successivo si dimette in dissenso rispetto all'approvazione della «legge Mammì
Mattarella viene nominato vicepresidente del Consiglio del primo governo D'Alema (1998-99) e ministro della Difesa del secondo governo D'Alema e del governo Amato (2000-01). Il 31 gennaio 2015 viene eletto dodicesimo presidente della Repubblica con la maggioranza assoluta (665 voti su 995 dei votanti, al quarto scrutinio). Non si sanno molte cose sulla sua vita privata, che ha sempre preferito tenere lontana dai riflettori. Il Presidente ha sempre avuto un debole per l’Inter, oltre che per la squadra della sua città natale, il Palermo. Al mare ha sempre preferito la montagna. Tra le sue grandi passioni non poteva mancare la lettura
Sempre vicino alla Dc per tradizione familiare, si avvicinò ancora di più alla politica dopo la tragica morte del fratello. Il 6 gennaio del 1980, infatti, Piersanti Mattarella venne ucciso dalla mafia: era appena entrato all'interno della sua Fiat 132, pronto per dirigersi in chiesa per la messa dell'Epifania accompagnato dalla moglie, dai due figli e dalla suocera. Pochi istanti prima di mettere in moto, il presidente della Regione — un uomo simbolo del riscatto per la sua Regione — venne freddato con diversi colpi di rivoltella calibro 38 attraverso il finestrino. L'immagine del suo corpo, privo di vita adagiato sulle ginocchia del fratello Sergio, accorso sul luogo, è stata catturata dalla fotografa Letizia Battaglia. Entrando nella memoria di tutti (Ansa)
I destini di Sergio e Piersanti Mattarella si sono incrociati non solo nella tragedia, ma anche nei momenti felici. I due fratelli — ricorda qui Alfio Sciacca — si erano, infatti, innamorati di due sorelle, diventate poi le rispettive mogli: Irma e Marisa Chiazzese. Quest’ultima, moglie del presidente della Repubblica, è morta nel marzo del 2012. Ogni anno viene ricordata con una messa nella chiesa romana di Sant’Andrea delle Fratte
Si sa pochissimo della moglie del Presidente, Marisa Chiazzese, morta nel 2012: la coppia teneva, infatti, molto alla propria riservatezza. Nata a Palermo, la signora Chiazzese era la figlia dell’accademico Lauro Chiazzese, ex rettore dell’Università di Palermo e docente di diritto romano. Qui il racconto di Federica Seneghini
In questa immagine Sergio Mattarella con l'allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, il 5 gennaio 2010 a Palermo, a margine della commemorazione di Piersanti Mattarella. Quando fu ucciso il presidente della Regione siciliana, Grasso era il pm di turno in Procura e fu proprio lui a effettuare il primo sopralluogo sul luogo dell'omicidio
Il Presidente ha sempre richiamato l'attenzione sull'importanza di fare memoria e combattere, oggi e nel futuro, ogni germe di razzismo, violenza o antisemitismo. Qui il Presidente della Repubblica Mattarella incontra la vedova del commissario Luigi Calabresi, Gemma Capra, e la moglie e le figlie di Giuseppe Pinelli (Licia, Silvia e Claudia) a Palazzo Marino in occasione della seduta straordinaria del Consiglio comunale di Milano, nel cinquantesimo anniversario dalla strage di piazza Fontana
Mattarella ama la vita solitaria e quando torna a Palermo, non manca mai di fare un salto dal suo barbiere di fiducia Franco Alfonso, in via Catania
Nonostante non sia un tifoso «sfegatato», Mattarella in questi anni ha festeggiato con orgoglio i successi sportivi dell'Italia. Qui si presta a un selfie con la Nazionale italiana di calcio femminile che ha partecipato alla fase finale dei Mondiali 2019 in Francia
Mattarella ha ringraziato l’Italia Campione d’Europa: «Avete meritato ben oltre il punteggio», ha detto il Presidente in occasione della cerimonia organizzata al Quirinale il 21 luglio 2021. Tra i presenti anche Matteo Berrettini, fresco reduce dall'ultimo atto di Wimbledon, sconfitto nella finale da Novak Djokovic
«Gol», urlò Mattarella dopo che Bonucci mise in rete il pallone del pareggio dell’Italia, nella finale degli Europei vinta dagli azzurri 4-3 ai rigori contro l’Inghilterra. Rimanendo composto, il Presidente alzò comunque le braccia l cielo, regalando uno scatto passato alla storia. La sua gioia è stata da molti paragonata a quella di Sandro Pertini, al Bernabeu di Madrid, la notte della finale del Mondiale del 1982
Un Presidente amato (anche) dai bambini. «Caro Presidente Mattarella, ho sentito che verrà rieletto e sono molto felice di questa sua decisione, perché credevo non volesse più essere il nostro Presidente ed ero molto dispiaciuto di questo. Adesso sono io a farle i complimenti, che da parte del mio fratellino Andrea», ha scritto nel giorno della seconda rielezione di Mattarella Mattia Piccoli, il bimbo dodicenne di Concordia Sagittaria (Venezia), che a dicembre 2021 aveva ricevuto proprio dalle mani del Capo dello Stato l'attestato di Alfiere della Repubblica per il supporto dato alla sua famiglia. In questa foto, Mattarella con Zaka Seddiki, moglie dell'ambasciatore Luca Attanasio ucciso nella Repubblica Democratica del Congo, e la loro figlia, in occasione della consegna dell'onorificenza
Arbitro delle contese, uomo della «ripartenza» durante la pandemia, cattolico progressista. La religione è un aspetto importante della vita del Presidente che, anche domenica 23 gennaio, il giorno prima dell'inizio delle consultazioni, si è recato a Messa, nella piccola chiesa di Santa Maria Maddalena (a Palermo), lontano da occhi indiscreti. Ad accompagnarlo, due dei figli: Laura e Bernardo. All'uscita dal condominio di via Libertà, diversi cittadini lo hanno applaudito, gridandogli: «Grazie, Presidente». In questa fotografia, uno scambio di saluti «fraterno» con papa Francesco, al termine della celebrazione Eucaristica in occasione dell'Incontro «Mediterraneo, frontiera di pace»
Mattarella all'uscita dalla chiesa di San Michele Arcangelo, insieme ad altri fedeli. In questa chiesa il Presidente si reca per assistere alla messa della domenica quando si trova a Palermo
Un saluto composto rivolto al pubblico anche in occasione della partecipazione alla Prima della Scala del 2021-2022 con il «Macbeth». Il Presidente viene accompagnato dalla figlia Laura
Nella tarda mattina di domenica 30 gennaio 2022, il giorno dopo l'elezione, dal Quirinale Mattarella è tornato a far visita al suo nuovo appartamento di Roma. Nella foto, gli scatoloni «traslocati» di nuovo al Quirinale
Laura Mattarella, chi è la first lady italiana. A cura di Sofia Gadici su La Repubblica il 30 gennaio 2022.
Avvocatessa, 53 anni, moglie e madre di tre figli: Laura Mattarella è al fianco di suo padre, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dal 2015. Lo accompagna nelle cerimonie ufficiali quando il protocollo lo richiede. Il ruolo di first lady è solitamente svolto dalle consorti dei capi di Stato, ma Mattarella è vedovo dal 2012. Per stare vicino a suo padre, Laura Mattarella ha rinunciato alla propria professione e in un’intervista rilasciata alla stampa ha affermato: "Mi piace stare con mio padre, spero di essergli utile”.
Chi è Laura Mattarella: il lavoro da avvocato e l’impegno da «first lady». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2022.
Sposata, tre figli, ha sospeso la carriera di amministrativista nel 2015 per seguire il padre nel suo mandato. Il suo stile nelle occasioni pubbliche è sobrio ed elegante.
Per mettere a fuoco il carattere, e lo stile, di Laura Mattarella basta rivedere con attenzione i video delle sue due più recenti e importanti apparizioni pubbliche accanto al padre Sergio: il 7 dicembre 2021 alla Scala, per la «prima» del «Macbeth», preceduta da quella al San Carlo di Napoli il 21 novembre per «Otello». Due interminabili standing ovation per il presidente (a Milano sei minuti) con tutto il pubblico in piedi per quelli che dovevano essere commiati.
L’unica a non poter applaudire era lei (impensabile acclamare papà), immobile accanto al padre che almeno aveva la libertà di salutare il pubblico, di agitare le mani. Lei impassibile: braccia distese, lo sguardo sulla platea. Esercizio non semplice, con gli occhi di tutta la sala addosso, niente male come autocontrollo.
Il bis di Sergio Mattarella ne comporta un altro, quello della sua unica figlia femmina Laura Mattarella Comella come first lady nelle grandi occasioni pubbliche, nei viaggi all’estero, nei ricevimenti al Quirinale. Palermitana, classe 1967, ha sospeso dal 2015 il suo lavoro di avvocato amministrativista per accettare lo stesso compito protocollare sostenuto da altre due figlie di presidenti, Ernestina Saragat Santacatterina col padre Giuseppe e Marianna Scalfaro col padre Oscar Luigi.
Esile, bionda, gli stessi occhi azzurri del padre, Laura Mattarella ricorda molto sua madre Marisa Chiazzese, l’amata moglie del presidente scomparsa nel 2012, a sua volta figlia dell’accademico Lauro Chiazzese, giurista ed ex Rettore dell’Università di Palermo: sua sorella Irma aveva sposato Piersanti Mattarella, il fratello di Sergio, assassinato da Cosa nostra nel 1980. E così è nata una grande, unica famiglia che ora ha in Laura un importante perno.
Per evitare stucchevoli oleografie, va detto che chi la conosce la descrive come donna di carattere molto deciso. Non una semplice comparsa femminile accanto al padre presidente ma la coprotagonista di un’immagine pubblica della presidenza Mattarella: una solida professionista, oltre che una figlia, pronta a consigliare e a sostenere non solo affettivamente. Era pronta a riprendere il suo lavoro con la fine del settennato paterno, dicono i conoscenti, ma il voto di sabato 29 gennaio ha cambiato i suoi piani, per dirla con le parole del padre. È sposata con Cosimo Comella, dirigente del Dipartimento tecnologie digitali e sicurezza informatica del Garante per la Privacy. Hanno tre figli: Manfredi, Maria Chiara e Costanza.
Rarissime le interviste. Ma resta famosa quella rilasciata a «Chi» nel marzo 2016 dopo un viaggio presidenziale in Africa quando in Camerun visitò centro di rieducazione Promhandicam, fondato a Yaoundé dal missionario trentino padre Sergio Ianeselli: «Tutti dovrebbero visitare un campo profughi, prima o poi. Soprattutto chi dice che bisogna lasciarli là dove stanno». Frasi e giudizi molto netti che confermano quel carattere di cui si diceva, e quell’approccio attraversato da una forte formazione cattolica, la stessa di suo padre.
Fin qui la sostanza della personalità che poi spiega l’aspetto formalmente più superficiale. Cioè la scelta, nelle apparizioni pubbliche, di toni di colore mai eccessivi: molto beige e tanti pastello (azzurro, rosa, cenere), la sera blu e nero, tagli classici anche negli abiti lunghi. L’immagine della presidenza Mattarella è, in parallelo, nelle cravatte tradizionalissime del presidente e negli abiti di sua figlia che però non sfigurano mai accanto a Letizia di Spagna, a Sonja di Norvegia, a Brigitte Macron, a Jill Biden. Ora saranno altri sette anni al Quirinale. Difficile che il suo sperimentato stile cambi, proprio come quello del padre.
Il Presidente della Repubblica. Chi sono i figli di Sergio Mattarella: il matrimonio e la famiglia con la moglie Marisa Chiazzese e la first lady Laura. Vito Califano su Il Riformista il 31 Gennaio 2022
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito la moglie Marisa Chiazzese come “la persona a me più cara al mondo”. La donna è morta nel 2012, a causa delle conseguenze di un tumore. La coppia aveva avuto tre figli. Dal 2015, da quando è stato eletto Presidente della Repubblica, ad accompagnarlo nelle occasioni ufficiali è la figlia Laura, che come da protocollo continuerà ad accompagnare il padre nelle occasioni ufficiali.
Marisa Chiazzese, nata a Palermo, era la figlia dell’accademico Lauro Chiazzese, ex rettore dell’Università di Palermo e docente di diritto romano, deputato della Consulta Nazionale fino al giugno 1946. Era sorella di Irma Chiazzese, moglie di Piersanti Mattarella, fratello di Sergio e Presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia la mattina del 6 gennaio 1980. Con la famiglia il governatore stava andando in chiesa per la messa dell’Epifania, accompagnato dalla moglie, dai due figli e dalla suocera. Almeno otto i colpi che lo freddarono davanti agli occhi della famiglia.
Sul posto c’era anche il fratello Sergio, che con la moglie Irma provò a soccorrere inutilmente Piersanti Mattarella. Un proiettile aveva spappolato anche un dito della donna. La coppia aveva avuto due figli, Bernardo e Maria. I fratelli Mattarella, Piersanti e Sergio, si erano innamorati e avevano sposato due sorelle, Irma e Marisa. Quasi una famiglia allargata. Sergio Mattarella e Marisa Chiazzese hanno avuto invece tre figli: Laura, Francesco e Bernardo Giorgio.
La figlia Laura accompagna il padre, dall’elezione del 2015, come first lady negli incontri ufficiali, nelle occasioni pubbliche, nei viaggi all’estero e nei ricevimenti al Quirinale. Come avevano fatto prima di lei Ernestina Saragat Santacatterina e Marianna Scalfaro: la regola che vige tra i Capo di Stato prevede che se un presidente è accompagnato dalla moglie, chi lo riceve deve essere a sua volta accompagnato. “Ammiriamo la riservatezza della figlia del presidente”, le parole della delegazione cinese ricevuta al Quirinale nel marzo 2021.
Bernardo Giorgio è nato invece a Palermo il 3 marzo del 1968, primogenito, porta il nome del nonno, più volte ministro. Si è laureato in legge, ha ottenuto un master of laws (University of California at Berkeley) e un dottorato di ricerca in Diritto pubblico (Università degli Studi di Firenze) è professore ordinario presso l’Università Luiss Guido Carli, cattedra di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza. È stato a capo del Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidente del Consiglio dei ministri. Del secondogenito Francesco Mattarella non sa invece molto.
Marisa Chiazzese è scomparsa tragicamente a causa di un tumore nel 2012. “Penso da tempo quando per seguire la persona a me più cara al mondo ho trascorso a più riprese numerose settimane in ospedali oncologici. Per tutte le persone in buona salute sarebbe auspicabile che ogni tanto trascorressero qualche giorno in visita negli ospedali perché il contatto con la sofferenza aiuterebbe chiunque a dare a ogni cosa il giusto posto nella vita”, il ricordo della moglie durante un intervento al Quirinale in occasione della Giornata Nazionale della Ricerca sul Cancro.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il Presidente della Repubblica. Chi era la moglie di Sergio Mattarella, Marisa Chiazzese: “La persona a me più cara al mondo”. Vito Califano su Il Riformista il 31 Gennaio 2022
Ogni anno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la sua famiglia ricordano Marisa Chiazzese con una messa nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte a Roma. La moglie del Capo dello Stato è morta nel 2012, a causa delle conseguenze di un tumore. Sergio Mattarella, a dispetto di quanto aveva previsto e annunciato, è stato confermato dall’Assemblea dei Grandi Elettori per un altro settennato al Palazzo del Quirinale.
Si sa pochissimo della moglie. La coppia teneva molto alla riservatezza. Chiazzese era nata a Palermo, figlia dell’accademico Lauro Chiazzese, ex rettore dell’Università di Palermo e docente di diritto romano, deputato della Consulta Nazionale fino al giugno 1946. Marisa Chiazzese era sorella di Irma Chiazzese, moglie di Piersanti Mattarella. I due fratelli si erano innamorati e avevano sposato due sorelle. Il 6 gennaio 1980 Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, veniva ucciso dalla mafia mentre andava in Chiesa con la famiglia per la messa dell’Epifania, accompagnato dalla moglie, dai due figli e dalla suocera. Poco prima di mettere in moto venne freddato con diversi colpi di rivoltella, almeno otto.
Irma Chiazzese venne colpita a un dito da un proiettile. Provò inutilmente a soccorrere il marito. Sul luogo del delitto c’era anche il cognato, Sergio Mattarella. La coppia aveva due figli, Bernardo e Maria. Sergio Mattarella e Marisa Chiazzese hanno avuto invece tre figli: Laura, Francesco e Bernardo Giorgio. La figlia Laura accompagna il padre, dall’elezione del 2015, come first lady negli incontri ufficiali, nelle occasioni pubbliche, nei viaggi all’estero e nei ricevimenti al Quirinale. Come avevano fatto prima di lei Ernestina Saragat Santacatterina e Marianna Scalfaro: la regola che vige tra i Capo di Stato prevede che se un presidente è accompagnato dalla moglie, chi lo riceve deve essere a sua volta accompagnato.
“Penso da tempo quando per seguire la persona a me più cara al mondo ho trascorso a più riprese numerose settimane in ospedali oncologici. Per tutte le persone in buona salute sarebbe auspicabile che ogni tanto trascorressero qualche giorno in visita negli ospedali perché il contatto con la sofferenza aiuterebbe chiunque a dare a ogni cosa il giusto posto nella vita”, il ricordo della moglie durante un intervento al Quirinale in occasione della Giornata Nazionale della Ricerca sul Cancro.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Porro sbrocca per il Mattarella bis: cialtroni, vogliono solo salvare lo stipendio. Il Tempo il 29 gennaio 2022.
Il Parlamento dopo una settimana di scontro si affida di nuovo a Sergio Mattarella. Per Nicola Porro dietro alla scelta del mandato bis non ci sono alte motivazioni istituzionali: "È l'unico modo che questi cialtroni hanno di riuscire a stare in Parlamento ancora per 9 o 10 mesi, non ce n'è un altro" attacca il conduttore di Quarta Repubblica. Il resto sono "ca**ate, il Parlamento sovrano non ha chiesto Mattarella, su quella scheda ha scritto 200.000 euro!".
Da lastampa.it l'1 febbraio 2022.
"Esimi onorevoli, ma ve lo devo dire io che sono un saltimbanco che quello dell'elezione del presidente della Repubblica è un momento sacro? È come se durante un conclave un cardinale votasse don Matteo".
La letterina di Luciana Littizzetto ai Grandi Elettori del Presidente della Repubblica che hanno votato nomi "improbabili" durante l'elezione.
Luca Monticelli per "la Stampa" l'1 febbraio 2022.
«Da spettatore resto a bocca aperta perché a questo finale non avevo pensato». Pietrangelo Buttafuoco, scrittore, intellettuale di destra - spesso definito "dissidente" e tutt' altro che organico - si richiama alla sua Sicilia per decifrare la partita del Quirinale che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella.
Che cosa è successo in Parlamento?
«C'è un aspetto di pantomima che riusciamo a vedere con il senno del poi, una sceneggiatura che solo Camilleri avrebbe potuto immaginare». Si spieghi.
«È stato tutto "tiatro" per dirla con la lingua di Vigata. E dal punto di vista della messa in scena i frammenti adesso combaciano. C'era un che di esibizionismo in quei segnali... gli scatoloni, il trasloco, questa abbondanza di bambini che si avvicinano con lettere e disegni, mi ricordano la famosa scena di De Amicis della "carezza del re"».
Si riferisce al libro "Cuore", quando Re Umberto passa tra la folla a Torino e un padre si avvicina con il figlio. Pensa davvero che Mattarella volesse fare un secondo mandato?
«Io faccio affidamento a quello che mi aveva detto Totò Cuffaro: "Solo perché non lo conoscete potete credere che ci sia un altro esito"».
Quindi ha visto una regia nell'operazione del secondo mandato a Mattarella?
«Se fa testo l'educazione, lo stile gesuitico della sinistra Dc, è stata l'apoteosi della dissimulazione onesta di Torquato Accetto, ma è anche la sana sostanza della roba verghiana: i sinistri-Dc, presentissimi nello status quo, fanno sempre il contrario di quello che dicono. Si dice no, ma invece è sì. Dissimulazione, appunto».
Dissimulazione che il centrodestra non ha capito, tanto che ne esce in frantumi.
«Sì è vero. C'è anche un altro dettaglio "camilleriano", l'uomo che con il suo Mattarellum ha varato la stagione del bipolarismo, ora si appresta a firmare il ritorno del proporzionale e quindi la morte del bipolarismo».
A proposito, è la fine del centrodestra berlusconiano?
«Ancora peggio. Noi dobbiamo distinguere il berlusconismo dal centrodestra: Berlusconi non c'entra niente con il centrodestra, è un'altra storia. Il centrodestra finisce perché paradossalmente non c'è più quel metodo che si accompagnava al Mattarella di una volta, cioè Giuseppe Tatarella. È venuta meno una strategia che era quella di allargare l'area. In Italia c'è una maggioranza che per storia, sensibilità, identità è di centrodestra, ma non riesce mai ad avere un peso politico e culturale.
Sono convito che il ceffone che il Palazzo ha assestato con questo colpo di "tiatro" avrà una conseguenza ulteriore: quello di non far andare più a votare le persone, sicuramente quelle di centrodestra. Si allargherà la forbice dell'astensione della maggioranza silenziosa».
Però Salvini la mano di poker sul Colle l'ha giocata male. Voleva fare il kingmaker e non c'è riuscito.
«Tutti i leader hanno giocato su più tavoli: Letta, Conte, Di Maio, Renzi. La verità è che ne esce sconfitta la generazione attiva. Al di là degli steccati ideologici, la malinconica considerazione da fare è che comunque la gerontocrazia si impossessa di tutto. L'unica vera distinzione è tra un Palazzo che sa difendere se stesso e il resto intorno che non è in grado di affrontare la situazione».
Tra i nomi che sono stati bruciati c'era qualcuno che avrebbe visto bene come Capo dello Stato?
«Tanti, e perfino molti potevano essere condivisi dal centrosinistra e dal centrodestra».
Ad esempio?
«Anna Finocchiaro».
Sempre in Sicilia rimaniamo.
«Allora un "candidatone" con un ottimo curriculum che piaceva agli americani e al Vaticano: Giulio Tremonti. Oppure un altro profilo con una caratura internazionale poteva essere Francesco Rutelli, il migliore sindaco di Roma. E lo stesso Antonio Martino. È stato inconcepibile non rispondere alla richiesta della nazione di individuare un'altra persona».
Che cosa pensa del dualismo Salvini-Meloni?
«Devono evitare di cadere in un errore: la pluralità dei leader deve essere un vantaggio, non uno svantaggio».
Lei ha scritto un libro dal titolo "Salvini e/o Mussolini": se dovesse aggiungere un capitolo, cosa scriverebbe oggi?
«L'ho scritto prima della pandemia, è come se fossero passati 50 anni, con il senno del poi è inaudito. Salvini ha mollato il governo dal Papeete quando per lui andava a gonfie vele. Ce lo siamo scordati quando Salvini e Di Maio vennero accolti con gli applausi nella chiesa a Genova dove si celebravano le vittime del Ponte Morandi? Sembra sia passato un secolo, visto il capovolgimento totale in cui ci troviamo».
Non c'è nulla da festeggiare. Il partito dei Pm ha deciso il Mattarella bis, il presidente subalterno alla magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Febbraio 2022.
C’è un gran tripudio attorno a Sergio Mattarella. La maggior parte dei politici, e dei giornali, e degli intellettuali è dalla sua parte e sostiene che era la migliore delle scelte possibili. Credo che anche l’opinione pubblica lo apprezzi, e credo che lo apprezzi perché lo ritiene una persona estranea, e forse addirittura nemica, del circo della politica e del potere. Io ho un grande rispetto e anche stima per Sergio Mattarella, e seguo la sua attività pubblica da una quarantina d’anni e con attenzione. Non penso che lui sia estraneo al mondo della politica.
Ha una lunga biografia, in gran parte interna alla Dc e alle correnti che hanno sopravvissuto alla Dc, piena di battaglie politiche, di colpi dati e ricevuti, di vittorie e di sconfitte, di trofei, di ferite, di cicatrici. Non penso nemmeno che sia estraneo al mondo del potere. Raramente un Presidente della repubblica lo è. Mattarella è una espressione piena e legittima della prima e della seconda Repubblica. Io però credo che non ci sia niente di male ad essere interno alla politica. Vedo la politica come una nobile attività, non come il luogo del malaffare e dell’imbroglio. Anche Berlusconi è interno alla politica, anche Casini, Cassese, Violante, Draghi. Credo che sarebbero stati ottimi presidenti della repubblica. Non lo sono perché contro ciascuno di loro ha giocato il frullatore delle correnti, che oggi non sono più neppure racchiuse nei partiti, sono libere, incontrollabili, spavalde.
Io però sono rimasto molto deluso dall’elezione di Mattarella. Il perché lo abbiamo scritto tante volte su questo giornale. Non perché non ha mantenuto la parola di rifiutare il bis. Non perché la sua rielezione forse scalfisce la Costituzione. Non perché è un politico-politico. Per una ragione diversa: perché Mattarella in questi anni si è dimostrato subalterno alla magistratura e in particolare al partito dei Pm. Il quale è intervenuto pesantemente in questa elezione presidenziale, prima bloccando la candidatura di Berlusconi, poi quella di Nordio, di Cassese, forse anche quelle di Draghi e di Casini. Se non ci sarà una svolta, se Mattarella2 sarà uguale al Mattarella1, noi sappiamo che non ci sarà riforma della giustizia, che il Quirinale proteggerà la Casta dei Pm anche da un eventuale naufragio al referendum, che il potere delle toghe resterà incontrastato, che lo Stato di diritto resterà in cantina, che un pezzo di magistratura inquirente resterà arbitra incontrollata delle nostre vite. Non festeggiamo. Non c’è niente da festeggiare. Per chi, come noi, è sempre impegnato nella battaglia garantista, l’elezione quasi all’unanimità di Mattarella è ragione di preoccupazione e non di gioia. Non è un bel giorno.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Tutti i partiti salgono sul Mattarella bus. LUCA BOTTURA su La Stampa il 30 gennaio 2022.
Quella che segue è la cronaca paradossale della giornata di ieri. Alcuni eventi sono palesemente inventati, altri sono veri, altri sono come le prime serate di Rete4: ispirati a fatti realmente accaduti. La lettrice o il lettore scelgano a loro piacimento a quale categoria riferirli. Intanto, presidente, grazie anche da parte nostra. Si riguardi, le vogliamo bene e le siamo riconoscenti. Persino avendo eletto quei mille che l’hanno costretta a restare. Ore 8 Casellati verso l’addio alla politica: visto il traffico dati generato venerdì, Vodafone le ha offerto la carica di Amministratore Delegato. Ore 8.10 Salvini comincia la retromarcia: «Quando parlavo di una donna presidente, mi riferivo a Donna Summer. Apprendo purtroppo che è defunta». Ore 8.30 Comincia l’assemblea plenaria degli elettori di Italia Viva. Ore 8.45 Termina l’assemblea plenaria degli elettori di Italia Viva: la cabina telefonica serviva a un altro utente. Ore 9 Elisabetta Belloni irritata per il tramonto della sua candidatura, spinge per errore un tasto della sua auto e sgancia un missile su quella di Conte. Nessun ferito. Ore 9.30 Enrico Letta fa colazione. Ore 10 Enrico Letta si sveglia. Ore 10.30 Problemi per Giorgia Meloni: dopo aver usato per la centesima volta il termine «granitico» in meno di 24 ore, la famiglia Mussolini le chiede la Siae. Ore 10.45 Salvini, che il giorno precedente aveva esaurito gli abbonati di Roma dalla A alla M, comincia a candidare in sequenza tutti i candidati dalla M alla Z. Ore 10.52 Primi segnali di una convergenza su Mattarella: Tecnocasa rimette in affitto «appartamento in zona pinciana libero subito, disponibilità vano corazzieri». Ore 10.55 Maria Elena Boschi: «Se becco questa Maria Elena Boschi che ieri contestava la candidatura di Mattarella, le faccio passare un brutto quarto d’ora». Ore 11 Salvini è così in confusione che si citofona da solo. Ore 11.01 Salvini scopre con sgomento che al suo citofono risponde Giorgetti. Ore 11.05 Riemerge tweet di Salvini del 2015: «Mattarella non è il mio presidente». Ore 11.05 Salvini spiega con grande dignità l’accaduto: «Ero... rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!». Ore 12.30 Casini twitta la sua rinuncia e si ripone nel freezer in cui dimora abitualmente: «Nel caso, svegliatemi tra un paio d’anni». Ore 15 Cominciano le manovre per intestarsi Mattarella: la Svp sostiene di averlo visto vestito da schützen. Ore 16.01 Mattarella comincia a rassegnarsi e telefona al portavoce Grasso: «Giovanni, mi procuri un lanciafiamme da usare martedì?». Ore 16.14 Paolo Celata de La7, costretto da Mentana a mollare Ricciardi dei 5 Stelle per inseguire Conte, chiede di essere dato in affido a TeleNorba. Ore 17 Breve conferenza stampa di Letta, che mentre scriviamo è ancora in corso. Vi terremo aggiornati. Ore 17.01 Letta conferma piena fiducia nel campo largo, che tra l’altro è lo stesso sotto il quale si è sepolto da una settimana in attesa degli eventi. Ore 17.30 Salvini e Giorgetti chiedono incontro a Draghi per rilanciare l’azione di governo. Ore 17.31 Draghi noleggia una catapulta per rilanciare Salvini in Padania. Ore 18 Brunetta annuncia la crescita record del Pil e auspica misure ancora più cogenti: «Reintrodurre la schiavitù non deve essere un tabù». Ore 18.29 I mercati festeggiano la conferma di Mattarella: in rialzo le azioni della Valeriana. Ore 19.42 Comincia lo spoglio. Alla lettura della prima scheda, Gasparri grida «Ambo!». Ore 20.12 Quattro voti per Casellati. L’aula discute su chi siano gli altri tre. Ore 20.19 Mattarella raggiunge il quorum. Gasparri grida «Ambo!». Ore 20.19 Lungo applauso dell’assemblea, battuto il record di quella volta che Toninelli azzeccò una consecutio. Ore 20.23 Ringalluzzito dai voti di FdI, Carlo Nordio fonda il suo partito: «Prima il Nordio». Ore 20.30 Berlusconi, che ha ricevuto 9 voti, fermato all’ingresso mentre tenta di aggiungere un sei prima del nove. Ore 20.53 Il presidente Fico proclama Sergio Mattarella tredicesimo presidente. Gasparri spinto giù per le scale dai commessi mentre tenta di gridare «ambo!». Ore 20.42 Di Maio abbraccia Casini e sollecita l’applauso della sala. I due si scambiano una scatoletta di tonno. Ore 20.45 Lo speciale Tg1 sfora e occupa lo spazio de «I soliti ignoti». Tra gli sconosciuti da riconoscere, a sorpresa, c’è un certo Matteo da Milano che chiede di rilanciare l’azione di governo. Ore 20.50 Meloni rilancia il presidenzialismo: «Il capo dello Stato si scelga con una marcia da Perugia a Roma». Ore 21 In onore dei bei tempi, Fico propone a Casellati di salire al colle in bus. Ore 21.01 Casellati dice a Fico di attaccarsi al tram. Ore 21.05 I partiti salgono sul carro del vincitore. Anzi: sul Mattarella Bus. Ore 21.15 Mattarella accetta la rielezione e accompagna Fico e Casellati all’uscita. Ore 21.16 Appena varcata la soglia, gavettone colpisce Fico e Casellati. Ore 21.46 Sabino Cassese su La7 rivela che la presidenza gli era stata offerta da Lega, Fratelli d’Italia e Italia Viva. Per una volta la Destra era rimasta compatta. Ore 24 Annullato Sanremo: Amadeus chiede un Maneskin bis.
La battaglia del Quirinale. “La forzatura su Casellati spettacolo penoso, dietro Draghi il nulla”, parla Massimo Cacciari. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 29 Gennaio 2022.
«Comunque vada a finire questa penosa vicenda quirinalizia, la cosa certa è che siamo già in campagna elettorale, con Draghi che esce indebolito e con lui un Governo che si reggeva sulla sua figura. Davvero un bel lavoro». Quanto alla sinistra, il suo giudizio è lapidario: «Non esiste. Punto. Ma che soggettività vuoi che esprima chi spera di salvarsi in extremis sperando in un democristiano di seconda fila come Casini?». La “battaglia del Quirinale” vista da Massimo Cacciari.
Mentre parliamo la situazione è la seguente: il centrodestra più o meno compatto sulla candidatura Casellati, il centrosinistra che si astiene e diserta l’incontro con Salvini. Professor Cacciari, e allora?
Lo spettacolo è penoso. E poi c’è la pensata di qualche politico, sedicente tale, che vorrebbe tenere Draghi “prigioniero” un altro anno a capo di un governo sempre più sfilacciato, per poi dargli il benservito. A questo siamo arrivati. E come se non bastasse, c’è chi tira un sospiro di sollievo per l’affossamento della Casellati. Forse Letta potrà dire di aver scongiurato il pericolo. Ma la Casellati non avrebbe potuto mai essere eletta a meno di un impazzimento totale del Pd e di un gioco allo sfascio del trio Salvini-Meloni-Berlusconi. Altri sono i giochi sottotraccia. Che dire: staremo a vedere.
Al momento quello che sembra essere scomparso dal centro della scena è l’uomo che fino a poco tempo fa sembrava essere il “salvatore della patria”: Mario Draghi.
Sempre che poi non ritorni fuori se si annullano reciprocamente. O che ritorni fuori Mattarella e tutto rimane com’è. Il problema è che questo spettacolo mostra l’assoluta precarietà di questo governo e di questo assetto politico. Questo è fuori discussione. Il re è totalmente nudo. Un governo di questo genere si regge esclusivamente sull’autorevolezza di Draghi ma dietro di lui c’è il nulla.
Le chiederei di vestire per un attimo i panni di un leader europeo: Macron, Scholz, von der Leyen, veda lei… Che idea si farebbe di quello che sta succedendo a Montecitorio e nei palazzi della politica italiani?
L’unica credibilità è affidata al “loro” esponente, e non del ceto politico italiano, ma all’esponente dei poteri forti europei. E finché c’è lui, Draghi, il rapporto con questo paese può reggere. Finito lui, ci salvi chi può. Puoi declinarla in tedesco o in francese, o anche in americano, ma la sostanza non cambia: stiamo facendo una figura barbina, per usare un eufemismo. Su una decisione politica di assoluto rilievo, anche simbolico, come l’elezione del Presidente della Repubblica, vedi in che situazione si trovano. Ma che credibilità vuoi che abbiano? Che credibilità vuoi che abbia il ceto politico che sostiene questo governo? Draghi e dietro di lui il vuoto assoluto. Questa è una constatazione di fatto. Fuori dall’opzione Draghi, il risultato sarà, se non riusciranno a convincere Mattarella, che avremo un Presidente di serie B o C. È sconfortante assistere a questo cupio dissolvi del sistema dei partiti. Sconfortante e preoccupante. Gli attuali partiti, di destra, di centro e di “sinistra”, non sono assolutamente in grado di indicare per il Quirinale una personalità di alto spessore, autorevole. Non ce la fanno proprio. E poi si meravigliano della marea crescente di astensioni. Il dramma è che quello a cui stiamo assistendo non è un teatrino televisivo ma la fotografia di come sono messe le istituzioni e la politica in questo paese. Male. Molto male.
Qual è, a suo avviso, la vera novità di questo voto presidenziale. Che avviene ai tempi di una pandemia tutt’altro che debellata?
Questo sarebbe un assillo per forze politiche responsabili, in sintonia con il malessere e le aspettative della gente, ma tant’è. La novità è che mai come stavolta, la partita del Quirinale è legata indissolubilmente a quella del governo. C’è poco da fare, è così. E se non riusciranno a trovare una soluzione condivisa per la presidenza della Repubblica, vedo molto difficile la tenuta del governo. L’inghippo sta in questo legame indissolubile tra le due partite. La cosa più ragionevole sarebbe stata quella di mantenere Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi. Una ipotesi che, allo stato dell’arte, non è tramontata ma appare alquanto problematica. Certo è che se convergono su una candidatura condivisa, si apre una prateria per elezioni anticipate. Se non fosse che bisognerà fare i conti con l’istinto di sopravvivenza di centinaia di persone che hanno vinto alla lotteria parlamentare e che sanno che non avranno un’altra opportunità. E quindi proveranno a tirare a campare, e non è una metafora.
Ma in questo scenario alquanto sconfortante, c’è ancora vita a sinistra?
Questo è un altro paio di maniche. Ciò che si sta consumando è il passo finale di una catastrofe culturale. È inutile che stiamo a parlare di sinistra. Una catastrofe culturale che viene da molto lontano, che è maturata nel tempo, attraverso vari passaggi, dai governi dell’Ulivo alla nascita del Pd nei termini in cui è nato, a Matteo Renzi… Stiamo assistendo alla crisi definitiva di una catastrofe culturale di ogni cultura socialdemocratica, riformista di questo paese. C’è poco da fare. Non getto la croce addosso a qualcuno degli attori attuali. Costoro non sono altro che gli eredi di trent’anni di disastri.
In questo scenario da crepuscolo…
Siamo ben oltre il crepuscolo. Siamo nella notte assoluta. Una notte che nasce dal crollo di quella timida speranza che era emersa con Torino, il Lingotto di Veltroni, dopodiché è stato un inanellarsi di sconfitte ed errori. E questa è la conclusione. Se non verrà fuori Draghi, se non verrà confermato lo status quo, l’unica prospettiva che, secondo me, ha il centrosinistra di sfangarsela è Casini. Mi dica lei: una sinistra italiana che ha come àncora di salvataggio, oggi come oggi, il democristiano di serie B. Più evidente di così. Un Partito, il Pd, che ha avuto come ultimi segretari prima Renzi e adesso Letta e come ancora di salvataggio per la presidenza della Repubblica speriamo Casini. E lei vuole ancora parlare di sinistra? Prendiamone atto. La sinistra non esiste più. Punto.
È un problema di deficit di leadership o di vuoto di pensiero?
Assoluto vuoto di pensiero. È chiaro. Non si è elaborata alcuna idea di riforma istituzionale seria, alcuna analisi di nuovi rapporti sociali, di come rapportarsi a nuovi ceti, a nuove classi, a nuove culture. Non si è pensato assolutamente a una riformulazione dello stato sociale, del welfare rispetto alle culture socialdemocratiche dell’immediato dopoguerra e così via. Non si è tenuto conto di nulla di tutto ciò. Non si è discusso di nulla. Non si è fatto un congresso degno di questo nome da tempo immemore. Si è andati avanti praticamente da elezione ad elezione con un unico fine…
Quale?
Cercare di essere disperatamente al governo. Costi quel che costi, conti quel che conti, con chiunque.
Il virus del governismo ha attecchito definitivamente?
Che altro dire. Una forza politica che è diventata un comitato elettorale non può avere altro fine che quello di andare al governo, con chiunque. E l’ultimo atto è stato questo. Poi si dice sempre che è per la salvezza della patria, per il bene comune. La salvezza di forze politiche che non hanno strategie, che non hanno culture, è quella di stare al governo. Quando mai potrebbero reggersi se non sullo stare al governo?
Ma in questa notte fonda della politica, che ne sarà dell’asse Pd-5Stelle?
Non lo so se reggerà. È chiaro che se anche in parte i 5Stelle dovessero farsi attrarre da sirene dell’altra parte, si squaglia tutto. Comunque è ben difficile che a questo punto, anche se trovassero un accordo in extremis, che so, su Draghi o Mattarella, il governo possa ancora reggere. Come può reggere dopo una prova di forza come quella che ha proposto il centrodestra?
Bella domanda. E la sua di risposta?
È il logoramento assoluto anche di Draghi medesimo. Perché lui stesso si troverebbe, volente o nolente, a governare con qualcuno che si è appena massacrato non su una questione di dettaglio, non sulle norme sulla mascherina, ma per il Presidente della Repubblica. Hanno indebolito tutto il quadro. Hanno reso più difficile tutto il processo di attuazione del Pnrr. Di fatto è successo che hanno cominciato la campagna elettorale con un anno di anticipo. Perché da questo momento in poi noi saremo in campagna elettorale anche se il governo dovesse continuare.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Paolo Griseri per “La Stampa” il 30 gennaio 2022.
Professore, la rielezione di Mattarella è una vittoria o una sconfitta della politica?
«Ma è evidentemente una sconfitta. Intendiamoci: visto come si stavano mettendo le cose credo che questa sia la soluzione più rassicurante, certamente il meno peggio. Ma la politica ne esce a pezzi».
Chi ha sbagliato?
«Abbiamo un ceto politico che non si è dimostrato all'altezza della situazione. Ma dico, dieci anni fa il parlamento costrinse un altro presidente, Giorgio Napolitano, ad accettare un secondo incarico. Napolitano andò in aula per l'accettazione e fece un discorso durissimo.
Disse che quella rielezione era la conseguenza di una crisi profonda della politica. Che era il frutto di errori, omissioni e irresponsabilità. Sono passati dieci anni e rieccoci qui, allo stesso punto di prima. E sa qual è l'aspetto più incredibile? Che ora c'è la gara a presentare questo come un risultato positivo».
I partiti fanno finta di niente secondo lei?
«Sono allibito. Non si prende nemmeno in considerazione l'idea che siamo di fronte ad una malattia mortale dei partiti e del Parlamento. Oltretutto dopo che il collasso del sistema costringe i presidenti della repubblica a creare governi di emergenza per sopperire all'assenza della politica. Tutto questo è un po' grave».
Una malattia dice. È un po' buffo chiederlo a lei, ma esiste un vaccino contro la malattia della politica?
«Il primo vaccino sarebbe la consapevolezza dei politici e dei partiti che c'è una malattia e che va curata».
Sono malati a loro insaputa?
«È evidente che sarebbe necessaria una riforma del sistema parlamentare e del modo con cui si elegge il presidente della repubblica».
Lei è favorevole all'elezione diretta, al sistema presidenziale?
«Si figuri se non sono favorevole. Lo ero già trent' anni fa quando il presidenzialismo lo sosteneva il mio maestro Gianfranco Miglio. Ma il presidenzialismo da solo non basta».
Che cos' altro ci vuole?
«Se scegliamo la strada presidenzialista, dobbiamo equilibrarla con un federalismo più spinto di quello di oggi. Invece noi abbiamo il difetto di non concepire mai riforme di sistema. Facciamo una cosa sola e pensiamo che sia risolutiva.
E' come con le malattie: troviamo il vaccino e tutto è risolto. Non si pensa al sistema sanitario, a come funzionano gli ospedali».
Facciamo il catalogo degli eroi come nell'Iliade. Partiamo da Salvini: come si è comportato il leader della Lega?
«Salvini esce clamorosamente sconfitto. Perché il centrodestra sulle questioni istituzionali, com' è l'elezione di un presidente della repubblica, va in ordine sparso. Conta il dna. Il centro del centrodestra, l'area moderata che ruota intorno a Forza Italia, arriva dalla Dc.
E ha un'idea delle istituzioni profondamente diversa da quella della Lega. Salvini ha tentato la forzatura di tenere unite queste due anime e ha perso. Anche perché, come l'altro Matteo, ha un carattere irruente e impulsivo».
Un altro eroe di questi giorni è Conte. Come si è comportato?
«Beh è l'altro sconfitto di questa settimana. Ha perso clamorosamente. Aveva un conto aperto con Draghi, come si sa. Ha lavorato per impedirgli di andare al Quirinale. Ma ha commesso l'errore di dare per fatta l'elezione di Belloni. Coinvolgendo anche Grillo nell'errore. Ora nei Cinque Stelle si aprirà la notte dei lunghi coltelli tra Conte e Di Maio».
Siamo a Letta. Ha vinto o ha perso?
«E chi lo sa? E' stato zitto. Gli altri proponevano, sbagliavano, bruciavano candidati ma si capiva quali proposte avanzavano. Qual è stata invece la proposta del Pd? Non si è capito. Il Pd è rimasto a guardare».
Il governo esce più forte o più debole?
«Draghi è tutelato dalla presenza di Mattarella al Quirinale. E questo lo rafforza. Anche perché non è detto che con un'altra figura come presidente lui sarebbe rimasto a Palazzo Chigi.
Oltretutto a guidare un governo in cui siedono i rappresentanti dei partiti che gli hanno sbarrato la strada verso il Quirinale».
Più forte dunque?
«Sì e no. Da domani cominceranno le guerre interne ai partiti».
Si dividerà il centrodestra dopo il flop di Salvini?
«Ci saranno regolamenti interni ma non credo che si divideranno. La coalizione rimarrà. Alle politiche credo che si presenteranno insieme. Dopo il voto su Mattarella Draghi potrà certo arrivare alla fine della legislatura ma non credo che avrà la forza di fare le riforme necessarie al Paese: quella della giustizia e quella della scuola».
In una settimana si sono bruciati i nomi di molte candidate. Perché si è persa l'occasione di avere la prima donna presidente?
«Eh, ci sarebbe stata la possibilità di farlo. Poteva essere davvero l'occasione giusta».
Ma…
«Ma, mi verrebbe da dire, quelle candidature sono morte perché sono state presentate nel modo più beceramente maschilista che ci fosse.
In modo raffazzonato e anche irrispettoso delle loro figure. Una girandola di nomi fatta per mettere una bandierina piuttosto che perché si era convinti che si potessero fare. Non si presenta una candidata schieratissima come Casellati dicendo che sarà la presidente di tutti».
Belloni è stata impallinata da sinistra. Perché?
«Ma, io non conosco la signora Belloni. Mi dicono che è un ottimo funzionario e credo che avrebbe fatto bene. Certo non è educato istituzionalmente presentare alla presidenza la responsabile dei servizi segreti. Ma c'erano altre figure su cui puntare, penso a Cartabia e Severino».
Lei oggi ci dice che la coppia Mattarella-Draghi è quella che tutela meglio il Paese. Come mai lo dice proprio lei dopo i duri attacchi al governo sui vaccini?
«Perché la politica si fa con il realismo. E l'Italia è uno degli anelli deboli nel sistema occidentale che ha bisogno di essere guidata da una personalità credibile a livello internazionale. Non c'è nessuno che ci possa garantire come Draghi.
Poi io non sono un ruffiano e se il governo compie errori sulla politica sanitaria io lo dico apertamente. Credo che Draghi apprezzi le critiche che nascono dall'onestà intellettuale».
Il bilancio finale di questa settimana?
«Sa come dicono i cronisti sportivi? Abbiamo visto scene che fanno male al calcio».
Giuliano Amato nuovo presidente della Corte Costituzionale. Il Quotidiano del Sud il 30 Gennaio 2022.
Giuliano Amato è il nuovo presidente della Corte Costituzionale. Rimarrà in carica 8 mesi, quanti ne mancano alla fine del suo mandato di giudice. Subito dopo la nomina, come da tradizione, ha incontrato i giornalisti in una conferenza stampa nella quale ha trattato alcuni dei temi centrali del lavoro della Consulta, a cominciare dalla collaborazione tra Corte e Parlamento, che “diventa fattore essenziale, tanto più nel caso di conflitti sui valori”, come sicurezza, libertà, famiglia e genere.
Amato ha evidenziato che compito dei giudici è “indicare una delle soluzioni possibili”, e ha ricordato i casi affrontati in tempi recenti, come quello del cognome dei figli, dell’ergastolo ostativo e del suicidio assistito, poi ha aggiunto: “Saremmo più contenti se si trovassero soluzioni in Parlamento”.
Per quanto riguarda l’ipotesi di elezione diretta del capo dello Stato, di cui tanto di parla, Amato è stato netto: “Non può essere vista come qualcosa che da sola si innesta nel sistema, lasciato così com’è. I sistemi costituzionali sono come orologi e non è detto che se cambi una rotella puoi aspettarti che l’orologio funzioni – ha chiarito – l’elezione diretta del presidente della Repubblica, presenta diversi benefici, tra i quali il fatto che avvenga in un giorno, ma non puoi prenderla come tale e collocarla all’interno del sistema”.
Il “dottor Sottile” è nato a Torino il 13 maggio 1938 ed è stato nominato giudice costituzionale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 12 settembre 2013. Docente di Diritto costituzionale comparato, elemento di spicco del Psi della prima Repubblica, è stato due volte presidente del Consiglio e ministro del Tesoro, oltre che ministro dell’Interno.
Tra i nodi toccati nella conferenza stampa c’è stato quello del sovraffollamento delle carceri e sulla questione di genere ha detto: “Continuiamo a non essere pari, continuiamo a vedere la donna più dalla cintola in giù”. “Anche i giovani spesso trovano identità nella cultura machista – chiosa – noi maschi abbiamo di che vergognarci e questo è un problema: non chiediamo al Parlamento di risolvere qualcosa che è dentro di noi”.
Come primo atto da presidente ha nominato vicepresidenti i giudici Silvana Sciarra, Daria de Pretis e Nicolò Zanon, tra i quali, a settembre, sarà scelto il suo successore. E sui prossimi mesi di lavoro ha detto: “Il tempo passa così velocemente alla Corte. L’augurio è che rimanga sempre così coinvolgente e che io, in un baleno, a fine settembre, andrò in pensione – conclude – l’età di 84 anni, anche considerati i nuovi tempi, è ragionevole per andare in pensione. Fino ad allora, mi troverete qui”.
Francesco Grignetti per “La Stampa” il 30 gennaio 2022.
E poi c'è Giuliano Amato che è il nuovo presidente della Corte costituzionale. Proprio lui, che quando parla, tanta è la conoscenza delle cose e del mondo, non sai se hai davanti il professore di diritto, l'ex presidente del Consiglio, o il giudice costituzionale.
È il Dottor Sottile e basta, come si è visto anche ieri alla conferenza stampa da neo-presidente, quando ha risposto a un fuoco di fila di domande su tanti temi, specie sulle riforme istituzionali, sul ritardo verso le donne, e sui nuovi diritti su cui il Parlamento tarda a legiferare.
«Sapete - ha esordito - che la composizione tra gli Stati membri in Europa sta diventando più difficile che in passato, perché erano conflitti economici e, come scrivono i malevoli, basta dosare meglio le fette della torta.
Negli ultimi anni i conflitti sono diventati di valori. Cos' è la famiglia? Cos' è il genere? Quanta sicurezza e quanta libertà? Questi sono conflitti più impegnativi, nei quali ci possono essere posizioni difficili da comporre. Bene, buona parte delle questioni che ci siamo trovati ad affrontare in questi anni, vanno a toccare esattamente questi temi...
Sono questioni su cui la Costituzione dice chiaramente: la soluzione non va. Però non dice con altrettanto chiarezza quale soluzione devi sostituire a quella. E qui la collaborazione tra la Corte e il Parlamento diventa essenziale».
I temi sono noti: l'ergastolo ostativo, il fine vita, il cognome materno e paterno. Le sentenze ci sono state; manca la risposta del Legislatore. «Noi indichiamo una delle soluzioni possibili; certo il Parlamento ne può indicare un'altra. Ma se il Parlamento non lo fa, noi rimaniamo in questa situazione. E a volte il Parlamento per le stesse difficoltà che incontrano gli europei, ha difficoltà a risolvere. Noi rimaniamo con le nostre soluzioni, ma saremmo molto più contenti se fossero seguite da un intervento del Parlamento».
Sui nuovi diritti, c'è un crescente protagonismo della Corte. A fronte dei vostri moniti, si registra una latitanza del Parlamento...
«Lo dicevo. Ci vuole una collaborazione molto efficace e funzionante tra Corte e Parlamento. E io non accuso. Permettetemi di dirlo: ho fatto politica per molti anni quindi può darsi che verso la politica io sia più generoso di quanto non lo siano altri. Ma il dire: "Sono questi politici... eccetera eccetera" è una risposta francamente troppo facile.
Molto spesso la questione ha una sua difficoltà per trovare un punto di equilibrio. Sa quanti anni ci abbiamo messo ad arrivare a quell'ottima legge che ha introdotto le cure palliative e la sedazione profonda? Quali conflitti veri, di valori, non interessi di bottega, si sono dovuti superare? Alla fine ci si è arrivati. Se posso dire: il Parlamento adotti quella legge come buono esempio. Ecco, lo dico volentieri».
In questi giorni di fibrillazione istituzionale, molti guardano all'elezione diretta del Capo dello Stato.
«Di certo presenta diversi benefici, tra i quali, come ho sentito dire, che si svolge in un solo giorno. Ma la lancetta di un orologio non la prendi e la metti in un altro orologio. L'elezione diretta non la puoi prendere come tale e collocarla all'interno del tuo sistema costituzionale.
Il nostro Capo dello Stato è un organo di garanzia. Se si introduce l'elezione diretta, che cosa succede di questi poteri? Sono ancora poteri di un organo di garanzia? L'elezione diretta reca in sé una rappresentatività che non è così facile attribuire all'unità nazionale, perché sarà una parte che lo elegge.
Ci saranno candidature politiche. In Francia, l'elezione diretta porta in qualche modo al semipresidenzialismo. Io stesso proposi l'elezione diretta nel 1978, e se ne discusse. Insomma, secondo me, se uno decide questo, deve cambiare orologio per evitare pasticci».
Sulla parità per le donne, ci sono ancora ritardi. Che cosa suggerirebbe al Parlamento?
«Guardi, la legislazione italiana è diventata una delle più avanzate nel sostenere la parità di diritti. Eppure negli ultimi anni, a questa legislazione che non ha nulla da invidiare a Svezia o Norvegia, ci siamo trovati a dover affiancare norme per punire in modo più severo il femminicidio.
Il reato del maschio che continua a considerare sua proprietà la donna, che davanti a qualunque sgarro della donna rispetto al suo "ruolo" di oggetto di proprietà, si sente ancora comunque legittimato ad eliminarla perché ha tradito la regola di base. E magari ha trovato pure qualche giudice che gli dice: "Poverino, stavi attraversando una tempesta emotiva".
Questo fa riflettere su quello che è il limite della legge. La quale certo esprime sempre sentimenti collettivi e opinioni condivise, ma in più casi è più avanti, se non dell'intera società, di una parte di questa. Parte che non è stata raggiunta dal senso di questa legislazione e che ha bisogno di essere portata alla con-sa-pe-vo-lez-za dell'effettività parità.
Consapevolezza che manca a coloro che uccidono la "propria" donna, ma è presente diffusamente. Insomma, se posso alleggerire: quante volte è capitato anche a me, di costituire panel a convegni e dire "Stiamo attenti, quante donne ci sono?". Ecco, il solo fatto che ci domandiamo se ci sono e se sono sufficienti le donne presenti, vuol dire che continuiamo a non essere pari.
Questo spiega molto di questo fenomeno. Per cui, attraverso la legge, si è riusciti a immettere nelle diverse carriere e professioni un numero adeguato di donne, ma poi c'è il collo di bottiglia attraverso cui la cooptazione istintiva maschile finisce per prevalere. Difficile combatterlo con la legge. C'è un lavoro ancora da fare... Noi maschi abbiamo di che vergognarci. Quindi non chiediamo al Parlamento di risolvere qualcosa che è dentro di noi».
Amato al vertice della Consulta, esordio da mattatore su donne e carcere: «Sovrafollamento, pronti a intervenire». L’ex Capo del governo eletto stamattina all’unanimità nuovo presidente della Corte costituzionale. Riguardo alla parità di genere, in conferenza stampa dice subito: «Noi maschi dovremmo vergognarci, continuiamo a vedere la donna dalla cintola in giù». Errico Novi su Il Dubbio il 29 gennaio 2022.
Che l’elezione di Giuliano Amato a presidente della Corte costituzionale s’intrecci suggestivamente con la tormentata sfida del Colle, lo si vede da vari piccoli segnali.
Intanto stamattina, poco prima che verso le 12 l’ex presidente del Consiglio fosse indicato all’unanimità (dagli altri giudici costituzionali) al vertice della Consulta, si era dovuto procedere al giuramento del nuovo componente della Corte Filippo Patroni Griffi, indicato dal Consiglio di Stato per avvicendare il presidente uscente Giancarlo Coraggio, che ha concluso i propri 9 anni a Palazzo della Consulta giusto ieri.
Immaginatevi la scena: il giuramento, come da prassi, avviene al Quirinale, dunque nelle mani del presidente in carica, Sergio Mattarella appunto. E dunque, mentre i partiti si consumavano nel loro fallimento e si accingevano ad andare a loro volta in pellegrinaggio al Colle per chiedergli in ginocchio di restarci, lui il Capo dello Stato, continuava tranquillamente a esercitare le funzioni. Vi dice nulla, come sequenza simbolica?
A voler condire il tutto, tenete presente che al giuramento di Patroni Griffi c’erano pure la protagonista di uno dei tentativi più dolorosi degli ultimi giorni, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e la terza carica dello Stato, Roberto Fico, che presiede l’Aula nel voto per la presidenza della Repubblica. Infine, Mario Draghi, protagonista implicito dell’intera vicenda Colle. Una specie di pausa collettiva di riflessione.
Poco dopo si riunisce la Corte costituzionale al completo ed elegge all’unanimità, come detto, Giuliano Amato presidente. È lui il giudice più anziano, la prassi vuole che sieda al vertice della Consulta, il che non ha alcuno dei sempre presunti effetti in termini di benefit: ai presidenti uscenti non toccano né macchine blu né altre leggendarie ma ormai inesistenti prebende.
Amato nomina subito i vicepresidenti, sempre da prassi: sono i giudici Silvana Sciarra, Daria de Pretis e Niccolò Zanon. Tutti valentissimi, il terzo peraltro redattore di alcune fra le recenti sentenze garantiste emesse dalla Corte in materia di ergastolo e carcere ostativo.
Amato in conferenza stampa: «Sulle donne, noi maschi dovremmo vergognarci»
Bene. A proposito delle due vicepresidenti donne, proprio a partire dalla questione di genere Amato regala, nell’immediatamente successiva conferenza stampa, un saggio della propria arguzia, che fa di lui un auspicabilmente ritrovato protagonista del dibattito pubblico, seppure i presidenti della Corte in carica tendano a parlare assai poco, al di fuori dei tradizionali appuntamenti annuali con la stampa: «Continuiamo a non essere pari, continuiamo a vedere la donna più dalla cintola in giù». È sferzante, spietato: «Anche i giovani spesso trovano identità nella cultura machista, noi maschi abbiamo di che vergognarci e questo è un problema: non chiediamo al Parlamento di risolvere qualcosa che è dentro di noi».
E invece il legislatore dovrebbe dare segnali su altro: «La Corte indica una delle soluzioni possibili», premette, in rifermento ad alcune delle questioni affrontate di recente, incluse l’ergastolo ostativo e il suicidio assistito, e poi però avverte: «Saremmo più contenti se si trovassero soluzioni in Parlamento».
Anche qui parla chiaro e non fa sconti, In generale: «La collaborazione tra Corte costituzionale e Parlamento diventa fattore essenziale, tanto più nel caso di conflitti sui valori». Ma visto che spesso le soluzioni non arrivano, i problemi restano, innanzitutto sul carcere: «In passato dicemmo, sul sovraffollamento, che bisognava provvedere, perché la situazione non sarebbe stata ulteriormente tollerabile. Ora siamo nuovamente sulle 52mila, 53mila presenze: se ci fosse riproposta una questione su questo tema, ci troveremmo di fronte alla responsabilità di affrontarla».
Avvertimento severo, ma in fondo rassicurante: mal che vada, c’è sempre la Consulta, per fortuna. Amato, da “quirinabile appena scampato”, non si nega su discorsi presidenziali riferiti al Colle («se si decide di cambiare, penserei al modello francese») e poi ricorda che a fine settembre andrà «in pensione», come giudice e come presidente della Consulta. «Fino ad allora mi troverete qui». Sarà breve, ma certamente intenso.
Mirella Serri per “la Stampa” il 6 Febbraio 2022.
Parafrasando il titolo di un celebre libro di Elsa Morante, la democrazia sarà salvata dalle donne? Potrebbe capitare. Almeno per Giuliano Amato, certo che la presenza delle donne nelle istituzioni «concorra ad aumentare il tasso di democrazia». Approfondiamo questa convinzione con il neoeletto presidente della Corte Costituzionale, nel suo studio al secondo piano di Palazzo della Consulta a Roma.
Perché le donne sono essenziali per dare nuova linfa alla democrazia?
«Perché cambiano l'ordine del giorno. Quella che oggi per i maschi e per i mezzi di informazione è cronaca separata dalla politica, per le donne diventa un ineludibile compito della stessa politica. La quale non può occuparsi solo di ristori, pur giusti, per i ristoratori ma deve farsi carico di ragazzi abbandonati a se stessi, vittime dei peggiori messaggi dei social, che stuprano le loro compagne di classe o perseguitano i loro compagni più deboli; oppure di genitori che, anziché educare i loro figli alla convivenza, li rendono aggressivi e intolleranti nelle attività comuni. Questo è un grande, urgente, tema politico, di cui ho colto peraltro più di una traccia nel discorso inaugurale del Presidente Mattarella».
Viene da lontano la riflessione sul mondo femminile del Dottor Sottile, come è stato ribattezzato Amato per la perizia con cui tira di fioretto e maneggia il diritto costituzionale. Ne ha accennato anche nella conferenza stampa seguita alla sua elezione, la scorsa settimana. E il due volte presidente del Consiglio non ha avuto remore nel denunciare che la parità dei generi è ancora un miraggio per l'Italia.
Presidente, aspettavamo da anni la nomina di un capo del governo donna o di una donna al Colle e nessuna delle due si è realizzata. Cosa possiamo fare per non incontrare il "soffitto di cristallo" e far salire più donne ai vertici?
«Il posizionamento delle donne nei ruoli apicali è condizionato dalla cooptazione maschilista. Le donne cercano di conquistare le vette. Ma più si sale e più c'è il collo di bottiglia. Il passaggio si fa stretto e l'aggregazione maschile finisce per prevalere. Un atteggiamento che è difficile combattere a colpi di leggi.
Potremmo istituire, sempre tramite una normativa, l'alternanza dei genders. Ma sarebbe offensivo per le donne designate non in base al merito. Io, però, mi porrei anche un'altra domanda: basta una donna al vertice delle istituzioni per garantire l'emancipazione e l'uguaglianza delle altre donne? Il Pakistan è stato governato da Benazir Bhutto e adesso ospita i genitori pakistani, che hanno cercato rifugio nel loro Paese, di una ragazzina uccisa perché rifiutava il matrimonio combinato. Indira Gandhi è stata primo ministro in India dove le bambine vengono stuprate e buttate via dopo la violenza. Il Bangladesh ha la presidente del Consiglio più longeva del mondo, Sheikh Hasina. Dunque, la presenza delle donne concorre ad aumentare il tasso di democrazia, ma non necessariamente la garantisce».
Che cosa deve fare la politica italiana?
«L'aspetta un importante compito. Non basta fare le leggi perché se la legge, anche buona, arriva prima che ne siano convinti i cittadini, allora accade che venga disattesa e che like e tweet spingano la politica in direzione opposta. La politica, invece, deve avere una visione, una progettualità, in base alla quale deve tornare a interloquire direttamente con le persone e deve essere capace di contrastarne le opinioni per far valere il proprio progetto. Nella storia della sinistra, sui temi della famiglia il Pci a volte è stato più conservatore del Psi.
Però la politica degli anni Settanta-Ottanta ha contribuito a innovare la società italiana. Quando ero un giovane socialista impegnato nella campagna per il divorzio, andavo nelle sezioni a spiegare che se l'amore era finito e c'era solo il litigio era meglio imboccare la strada della separazione. I più anziani mi rispondevano perplessi: "Queste donne esagerano!". Discutevo con loro e cercavo di spiegare che la donna non era una proprietà personale del maschio. Aveva cominciato a dirlo, molti anni prima, una donna, Anna Kuliscioff, spesso in contrasto con il suo compagno di vita e di militanza Filippo Turati.
Quando il diritto di voto venne finalmente riconosciuto anche ai non abbienti, ma solo ai maschi che avessero fatto il soldato, Anna disse: "Le donne non fanno il soldato, ma fanno i soldati"».
Le donne che hanno lavorato al suo fianco, come le ex ministre Fernanda Contri e Linda Lanzillotta, le riconoscono di averle sostenute o addirittura di averle sollecitate ad affrontare l'agone. Da dove nasce questo suo rapporto positivo con il mondo femminile?
«Ho cominciato a percepire gli effetti della disparità davanti all'evidenza che ne avevo nella mia stessa vita privata. La ragazza che ho frequentato fin da quando avevo 14 anni, la mia attuale moglie Diana Vincenzi, con cui studiavo al liceo e poi all'università, nel percorso professionale è rimasta penalizzata. Il nostro comune professore mi diceva "Diana è più intelligente e farà più strada di te". Invece dopo la nascita dei figli, per consentire a me di andare a insegnare prima a Modena, poi a Perugia e a Firenze, lei è rimasta indietro. Solo dopo che fui chiamato a Roma, lei ha potuto muoversi e fare la sua carriera, mentre io mi occupavo di più della casa».
Ma quando e come ha sentito l'urgenza della questione femminile?
«Sono stati gli occhi di mia figlia bambina, curiosi, indagatori, appassionati, che, mentre studiava, mi comunicavano questo interrogativo: "Ora che ho capito, potrò fare quello che desidero?". E io pensavo: chi le toglierà questa fiducia? Chi le darà la prima delusione?».
Lei, invece, ha dato fiducia alle donne che hanno lavorato con lei
«Ho dato fiducia perché sono convinto che poste ai vertici degli apparati sappiano trasmettere la loro autorevolezza molto meglio dei maschi. L'attuale direttrice del Dis, Elisabetta Belloni - è solo un esempio tra i tanti - corrisponde in maniera egregia a questa mia convinzione».
Le donne in Italia sono indietro anche nel mondo del lavoro. La pandemia ha contribuito ad ampliare il divario nelle retribuzioni e nell'occupazione. Cosa si può fare?
«Proprio in questi giorni è arrivata la notizia, positiva, che il numero dei posti di lavoro stia lievitando. Resta però il problema che le donne continuano ad essere pagate meno degli uomini, mentre la Costituzione impone, a parità di lavoro, parità di retribuzione. La Costituzione, non una legge qualunque».
L'addio dopo nove anni. Giuliano Amato lascia la Corte Costituzionale: l’addio una lezione di diritto e di stile. Claudia Fusani su Il Riformista il 14 Settembre 2022
Teme il “caos istituzionale”. Perché in questi nove anni, quanti sono quelli che ha passato alla Corte, “il mondo è cambiato e non è cambiato in meglio” perché sono “aumentati i conflitti tra Stati, dentro e fuori l’Unione europea, dentro le nostre società dove i sistemi politici si sono radicalizzati in particolare sui temi valoriali e identitari rendendo sempre più difficili le soluzioni condivise”. Triste e amaro finale per Giuliano Amato, intelligenza sottile, al pari della sua proverbiale ironia: ha assunto la Presidenza della Corte il 29 gennaio scorso, nel pieno del terremoto quirinalizio e del bis di Mattarella. La lascia alla vigilia di un voto politico che si annuncia come un altro terremoto e di una legislatura per la prima volta a 600. Due momenti topici osservati col necessario distacco e la altrettanto necessaria consapevolezza.
Se il passaggio o di consegne al vertice di un organo di garanzia come la Corte Costituzionale è quasi sempre un rito controllato e senza scossoni quello di Amato non poteva che essere, invece, pieno di emozioni. La cerimonia di ieri non è stato un “testamento” e meno che mai un “epitaffi o”. Del resto “la storia di Giuliano Amato è patrimonio del discorso pubblico italiano ed europeo” come ha detto Sciarra toccando i numerosi incarichi della sua vita. E il suo nome tornerà presto in corsa per qualcosa. “Buckingam palace, sputa l’ipotesi Amato” si scherzava ieri citando un meme circolato sui social. Se ci dovesse essere ad esempio una Bicamerale per le riforme, il suo è il nome più spendibile. “Intanto torno volentieri ospite nelle sale della mia amata Treccani” si sarebbe confidato con i colleghi. Ancora una volta, nella cerimonia, Amato ha voluto guardare avanti. Di 171 decisioni assunte durante i suoi nove anni come giudice costituzionale, molte delle quali sulla persona e la tutela dei diritti fondamentali, tutte hanno cercato di illuminare il futuro, quello che verrà o sarà. Quando non è successo – ad esempio sui tre quesiti referendari che la Corte da lui presieduta non ha accolto (fine vita, cannabis e responsabilità civile dei magistrati) – la stessa Corte, che ha dedicato molte risorse ad una corretta comunicazione, ha rotto tutti gli schemi e ha convocato una conferenza stampa.
Quei tre No avevano un grosso impatto e andavano spiegati. Mettendoci la faccia. A qualcuno è piaciuto. Ad altri meno. Di sicuro ha contribuito alla comprensione dei fatti. Così come sull’invio di armi per supportare la resistenza ucraina: il dibattito in Parlamento era forte, trasversale, divisivo, Amato ritenne opportuno, approfittando di un incontro istituzionale, spiegare perché, Costituzione alla mano, è giusto inviare armi. Anche il saluto è diventato alla fi ne una lezione piena di moniti. I conflitti, tra Stati e nei singoli sistemi politici, “portano ad innalzare o a minacciare di innalzare barriere nazionali contro il diritto comune”. Sul fronte interno “abbiamo camminato spesso lungo il crinale che separa la nostra giurisdizione dalle scelte che competono al Parlamento”, ovvero situazioni in cui “le nostre stesse legittime decisioni hanno bisogno per realizzarsi di un conforme intervento parlamentare. È capitato spesso però di incontrare o il silenzio del Parlamento o voci discordi che hanno impedito le decisioni”.
La Corte ha proceduto negli anni seguendo “due bussole fondamentali: la collaborazione istituzionale come veicolo per garantire a ciascuno di esercitare le proprie responsabilità e l’equilibrio nella ricerca delle soluzioni”. Nel caso Taricco, ad esempio, la Corte ha saputo tutelare i principi fondamentali interni e in particolare nella materia penale (il nodo era la prescrizione dei reati) aprendo al tempo stesso a un diritto penale europeo. Così come sulla maternità surrogata, di cui Amato ha ricordato come “mai sia stato messo in dubbio il disvalore”, la Corte ha però sollecitato il Parlamento a trovare soluzioni migliori per la tutela del bambino. Questi, ha detto Amato, “sono i binari da seguire e su cui insistere anche nel futuro nonostante le tentazioni che i tempi sollecitano e che già qualcuno sta raccogliendo”. Si riferisce, il Presidente uscente, alle “tentazioni di affermare il primato del diritto nazionale su quello comune europeo”. Un problema che non riguarda solo Polonia, Romania e Ungheria ma anche Francia e Germania. Sul fronte interno preoccupa che le “difficoltà decisionali del Parlamento” cominciano a “dare fiato a tesi che ritenevo sepolte circa la giurisprudenza come fonte del diritto al pari della legislazione”.
Questa, ha detto Amato, “è la strada che porta dalle situazioni difficili al caos istituzionale”. C’è una foto potente scattata nei mesi passati. Era il 3 febbraio, Mattarella giurava in Parlamento per il bis. In Transatlantico sfilarono uno dietro l’altro, come prescrive il cerimoniale, Mattarella, Amato e Draghi. Eravamo ancora tutti con le mascherine. Venti giorni Putin dopo portò i carri armati in Ucraina. Quella foto rassicurava. Tutti. E lo ha fatto più volte in questi mesi. Oggi Draghi è dimissionato. Amato a fi ne mandato. Ci resta il Capo dello Stato. Per la Corte adesso è corsa tre. Silvana Sciarra e Daria De Petris e Nicolò Zanon hanno la stessa anzianità. Mattarella deciderà e nominerà nei prossimi giorni il successore di Amato. A quel punto la Corte si potrà riunire per eleggere il nuovo Presidente.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Giudici spaccati sul suo nome. Silvana Sciarra, la nuova presidente della Consulta eletta da una Corte spaccata: Conte la voleva al Quirinale. Angela Stella su Il Riformista il 21 Settembre 2022
Torna una donna alla guida della Corte Costituzionale a tre anni di distanza dall’esperienza di Marta Cartabia. La nuova presidente è la giuslavorista Silvana Sciarra, 74 anni, originaria di Trani. I voti favorevoli sono stati 8 su 15. In lizza con lei c’erano Daria De Pretis e Nicolò Zanon. Proprio gli altri 7 voti sono andati alla De Petris. Dunque una Corte spaccata, a differenza delle votazioni che elessero alla guida della Consulta Cartabia, Amato, Coraggio, Lattanzi. Come primo atto da presidente, Silvana Sciarra ha confermato come Vicepresidenti Daria de Pretis e Nicolò Zanon. Sciarra, prima donna eletta dal Parlamento come Giudice presso la Corte costituzionale italiana, ha iniziato il suo mandato nel novembre 2014, dopo aver ricoperto il ruolo di Professore ordinario di Diritto del Lavoro e Diritto Sociale Europeo presso l’Università di Firenze e l’Istituto Universitario Europeo.
È Professore Emerito nell’Università di Firenze. Succede a Giuliano Amato, di cui è stata vicepresidente. Il suo mandato scadrà a novembre del 2023. Alla fine dello scorso anno il suo nome era stato proposto da Giuseppe Conte quale possibile nuovo Presidente della Repubblica. Dopo l’elezione ha incontrato la stampa: dimentichiamo lo stile Amato, la neo Presidente ha fatto capire che, pur tenendo molto alla comunicazione della Corte – più volte ha ringraziato Donatella Stasio -, la sua sarà molto più ingessata e moderata rispetto a quella del predecessore, che ci aveva abituato, da abile politico qual è, ad affrontare senza filtri i temi che gli venivano sottoposti. Noi abbiamo sottoposto e letto alla neo presidente un passaggio di un articolo del costituzionalista Andrea Pugiotto, firma autorevole di questo giornale che sul tema dell’ergastolo ostativo, tra l’altro, scriveva qualche mese fa: “Un terzo rinvio priverebbe per sempre di qualsiasi credibilità i moniti rivolti al legislatore, rivelando che la prima a non prenderli sul serio è la stessa Consulta”. Insomma avremmo voluto sapere se c’è un limite che la Corte Costituzionale si pone nel concedere al Parlamento nuovo rinvii per riscrivere una legge dichiarata incostituzionale, come quella sul fine pena mai.
La presidente, ci dispiace dirlo, ha eluso la nostra richiesta: “Ho letto l’articolo di Pugiotto ma non posso esprimermi, sarà il collegio sovrano a prendere questa decisione”. Non abbiamo chiesto un anticipo della decisione, ci mancherebbe. Avremmo voluto una riflessione sulla collaborazione tra Corte e Parlamento. Speriamo che la Consulta tenga conto il prossimo 8 novembre (entro questa data il Parlamento dovrà portare a termine la modifica dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario per evitare un possibile intervento dei giudici costituzionali che spazzi via definitivamente la norma) del fatto che da un controllo effettuato tra i resoconti della Commissione giustizia del Senato è emerso che dalla data del 10 maggio, ossia da quanto la Consulta ha concesso il secondo rinvio, a Palazzo Madama si sono susseguiti solo rinvii nelle poche sedute – meno di dieci – tenute sul tema. Dunque nessun passo avanti. Difficile poi che l’8 novembre il nuovo Parlamento emanerà una legge. E ci troveremo pure, molto probabilmente, con un Governo guidato da partiti per i quali “certezza della pena è certezza del carcere”.
Comunque, tornando alla giornata di ieri, l’elezione di Sciarra ha raccolto pareri trasversalmente positivi. “Un grande augurio di buon lavoro alla neo eletta Presidente della Corte Costituzionale Silvana Sciarra”, ha scritto su twitter il segretario del Pd Enrico Letta. Plauso ovviamente, visto il precedente, da Giuseppe Conte: “A Silvana Sciarra, nuova Presidente della Corte Costituzionale, auguri di buon lavoro dal @Mov5Stelle. La sua riconosciuta competenza costituisce sicura garanzia per l’esercizio di un ruolo istituzionale fondamentale per gli equilibri del Paese”. Soddisfazione anche da parte di Forza Italia, con il sottosegretario Francesco Paolo Sisto: “Autorevolissima giurista pugliese, laureatasi a Bari, nella nostra cara Università, onorerà al meglio con la sua competenza e il suo equilibrio l’importante incarico a cui è chiamata. È motivo di vanto per i cittadini della Puglia poter contare sulla sua figura al vertice di un organismo che presidia il rispetto della nostra Carta costituzionale”. “Una bella notizia: la Corte Costituzionale ha una nuova presidente, Silvana Sciarra. Congratulazioni e molti auguri di buon lavoro”, ha dichiarato la ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti.
Pure il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma ha osservato “con favore il fatto che per la seconda volta sia stata chiamata una donna al vertice dell’autorevole Istituzione. Giuslavorista di elevato spessore, è stata tra i giudici costituzionali che con grande sensibilità hanno partecipato nel 2018 alla memorabile esperienza di incontro con le persone detenute, documentata in Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri, progetto che aveva visto l’attiva collaborazione dello stesso Garante nazionale. In quell’occasione, la Presidente Sciarra aveva mostrato grande attenzione al tema del lavoro in carcere, questione di cruciale importanza”. Angela Stella
"Sobrietà e trasparenza". Chi è Silvana Sciarra, la nuova presidente della Consulta e prima donna eletta giudice costituzionale. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2022
Dopo Marta Cartabia torna una donna alla guida della Consulta. Silvana Sciarra, 74enne originaria di Trani, è la nuova presidente della Corte Costituzionale. E’ stata eletta con otto voti contro i sette andati a Daria De Pretis. Nessuna preferenza invece per il terzo candidato Nicolò Zanoni. Subentra al costituzionalista ed ex presidente del Consiglio Giuliano Amato. Il suo mandato scadrà tra 14 mesi, nel novembre del 2023.
Già vicepresidente della Consulta durante la reggenza di Amato, Sciarra nel 2014 fu la prima donna eletta giudice costituzionale dal Parlamento. Come primo atto da presidente della Consulta, la giuslavorista ha confermato come vicepresidenti Daria de Pretis e Nicolò Zanon. “Ho il privilegio di avere i capelli bianchi, forse la Corte ha voluto premiare questo criterio della anzianità. Voglio rafforzare la collegialità” ha dichiarato la neo presidente nel corso della conferenza stampa. Sciarra ha ricordato che “dalla sobrietà e dalla trasparenza l’istituzione prende autorevolezza”.
“L’Italia ha un corpo di leggi sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro molto avanzato con regole meticolose che viene visto come un modello” ha aggiunto. “Siamo idealmente – ha poi chiarito – in un contesto avanzato ma questo non ci può consolare: ci sono degli errori, forse delle omissioni a monte di questi eventi. Forse bisogna insistere ancora di più ma non siamo in un terreno privo di regole c’è forse una scarsa attenzione nell’attuarle”.
Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro e di Diritto Sociale Europeo presso l’Università di Firenze e l’Istituto Universitario Europeo, Sciarra ha iniziato gli studi a Bari. Si è laureata in Giurisprudenza nel capoluogo pugliese, discutendo una tesi con il professore Gino Giugni, “padre” dello Statuto dei lavoratori. Un solido punto di partenza per una carriera universitaria che si è sviluppata sia in Italia che all’esterno.
E’ stata Harkness Fellow presso l’Ucla e la Harvard Law School (1974-1976); Fulbright Fellow presso l’Ucla (1985), Visiting Professor in diverse Universita’, tra cui Warwick (Leverhulme Professor), Columbia Law School (BNL Professor), Cambridge (cattedra Arthur Goodhart in Legal Science 2006-2007), Stoccolma, Lund, University College Londra, e la Luiss a Roma. Ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie dell’Università di Siena. Dal 1994 al 2003 ha ricoperto la cattedra di Diritto del Lavoro e Diritto Sociale Europeo presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Direttrice del Dipartimento di Diritto (1995-1996), ha anche coordinato il programma di Gender Studies (2002-2003).
Ha collaborato con la Commissione Europea in numerosi progetti di ricerca ed è stata designata dal Consiglio dell’Unione Europea membro del comitato che dovrà dare un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice e di avvocato generale della Corte di giustizia. Ha ricevuto il dottorato di Ricerca in Legge Honoris Causa presso l’Università di Stoccolma nel 2006 e di Hasselt nel 2012 ed è stata per diversi anni co-direttore della rivista Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali. Alla Consulta, dove dal gennaio di quest’anno ha ricoperto il ruolo di vicepresidente, ha firmato la sentenza che a luglio ha dichiarato indifferibile la riforma delle norme sui licenziamenti, e la pronuncia che ha ritenuto discriminatoria la limitazione del bonus bebè ad alcune categorie di migranti.
Guido Paglia per sassate.it il 21 settembre 2022.
Dunque, facciamo un po’ di conti: i giudici della Corte Costituzionale sono quindici: la neo-presidente, Silvana Sciarra, è stata eletta presidente con otto voti; mentre l’altra candidata, la vicepresidente Daria De Pretis, si è fermata a sette suffragi. Manco una scheda bianca, ne’ voti dispersi.
Quindi, c’è poco da arzigogolare: le due illustri giuriste hanno votato per se’ stesse, non hanno avuto il pudore di astenersi o magari di uscire entrambe dall’aula, lasciano liberi gli altri tredici colleghi di scegliere l’una o l’altra. Non si sono fidate. E il risultato è sconcertante. Perché ora abbiamo al vertice della Consulta, cioè a capo dell’organo di controllo costituzionale delle leggi sfornate dal Parlamento, una giurista che è lì solo perché è stata eletta con il voto determinante per sè stessa.
E con una dei due vice, che ha fatto altrettanto. Non proprio il massimo, non vi pare? Ai media questo aspetto è sembrato del tutto trascurabile. Silenzio assoluto. Forse per paura di essere accusati di “sessismo”? Ecco, nel caos pre-elettorale di questi giorni, ci mancava questa auto-picconatura della Corte Costituzionale.
L’unica speranza è che presto questa Consulta monocolore voluta da Mattarella e dal Parlamento controllato dalle sinistre, sarà rinnovato per quattro quindicesimi. E saranno tutti prerogativa di Camera e Senato. Ottima occasione per raddrizzare la baracca.
La sindrome di Stoccolma che la politica vive al Quirinale con Mario Draghi. Giampiero Casoni il 25/01/2022 su Notizie.it.
Mario Draghi è diventato il solo grimaldello della possibilità che la nostra vita vada meglio. E no, il Covid non può e non deve giustificare questa autarchia.
È un film che conosciamo poco, quello dell’elezione del Presidente della Repubblica. Ne conosciamo molto bene la sceneggiata ma molto poco la sceneggiatura, quella parte cioè che davvero decide chi e come un Capo dello Stato debba insediarsi al Quirinale. E ci sono aspetti che finiscono per sfuggirci perché noi italiani abbiamo due pecche: primo, non riusciamo a discernere da sempre la politica dei partiti dalle dinamiche delle istituzioni, secondo e a traino perché siamo portati a pensare che la prima prevalga sempre sulle seconde, nel bene o nel male.
E alla fine ci facciamo prendere la mano dallo sdegno profondo nel vedere come durante l’elezione del Presidente della Repubblica tutti parlino con tutti e negli uffici, quelli belli, si consumino i summit più incestuosi fra i nostri beniamini e i rappresentanti degli schieramenti avversi. Le agenzie ci sparano dritti in faccia i lanci di capipopolo tiroidei che si fanno passare lo zucchero da squadernati leader moderati e noi cadiamo con tutti e due i piedi nella mistica del “è tutto un magna magna”.
Non funziona così e se non funziona così è perché i Padri Costituenti l’avevano pensata fina e giusta: in Italia il Presidente della Repubblica dura in carica sette anni esattamente per il motivo che è insito nella sua mission, che è quella di essere la persona più rappresentativa possibile di tutte le istanze di tutti gli italiani, o quanto meno di tutti coloro che col meccanismo della democrazia parlamentare sono stati delegati dagli italiani a prendere decisioni cruciali o “semplicemente” importanti.
Un Capo dello Stato è una somma, non è un prodotto, è un riassunto e non il capitolo più accattivante del libro, è il frigo che funziona bene, non il cibo più goloso. Ed è per questo motivo che sette anni sono il tempo minimo per consentire la sovrapposizione di più governi, che in media ne durano quattro e che in Italia possono avere vite molto più effimere. Perché il messaggio che deve passare è che che l’azione di un governo e gli indirizzi politici che quel governo prende non devono avere nulla a che fare con chi è garante di quell’azione e assieme a quella di tante altre cose.
Garanzia istituzionale ed azione politica perciò sono due cose in medesimo casermaggio ma con gradi, “durata di naja” e mission diverse. Ecco perché pare ancora più miserella la faccenda per cui in queste ore concitate ed importanti l’impressione tangibile è che Palazzo Chigi sia il vero epicentro di tutta la faccenda, che il Quirinale sia una dependance da cui scegliere il colore della moquette e Mario Draghi sia la cartina tornasole di ciò che i grandi elettori dovranno decidere.
Non perché Mario Draghi sia un premier eccellente o sopravvalutato, ma perché nel tempo e nella mistica che ci ha presi un po’ tutti Mario Draghi è diventato il solo grimaldello della possibilità che la nostra vita vada meglio e che le nostre faccende di governo di sistemi complessi vadano a meta e trovino la quadra. E l’elezione al Quirinale risente in maniera ossessiva di questa ossessionante ossessione per una leadership che assomiglia sempre di più ad un sultanato illuminato.
Draghi e il Colle sono legati anche senza che necessariamente Draghi al Colle ci vada perché quello che dovrà andare al Colle dovrà garantire non di essere, come dovrebbe essere, la sintesi delle istanze della rappresentanza politica italiana, ma la sintesi delle possibilità che Draghi resti centrale ed accompagni l’Italia fuori dal tunnel. Ed è un tunnel da cui, e diciamolo una volta per tutte, senza tema che i ciambellani ci facciano carne trita, l’Italia saprebbe uscire anche con un onesto premier che magari in Consiglio dei Ministri faccia parlare qualcun altro o si prenda un cazziatone da un partito insoddisfatto.
No, il Covid non può e non deve giustificare questa autarchia, questo cilicio quirinalizio con riverente impalcatura, e di Coriolani buoni per le stagioni difficili siamo un filino stufi tutti.
Perché la sindrome di Stoccolma nella vita di uno Stato di Diritto è molto più che un fenomeno da film figo e a volte è meglio essere liberi di sparare una fregnaccia che essere ostaggi gioiosi ed ebeti degli uomini del destino che le fregnacce non le dicono mai perché se le dicono nessuno gli va a dire che le hanno dette.
Di quelli ne abbiamo avuti già, e non è andata molto bene.
Da la7.it il 31 gennaio 2022.
Mario Monti: "La differenza tra me e Draghi? Io non ho abbandonato la presidenza del consiglio dopo un anno e mezzo. L'ambizione di Draghi - di andare al Quirinale - è stata destabilizzante. Ho votato sette volte scheda bianca e una volta Mattarella"
Ecco il vero patriottismo. Marco Tarquinio su Avvenire il 29 gennaio 2022.
Sergio Mattarella succede a Sergio Mattarella. Ed è un gran bel giorno per l’Italia. Il voto della speciale Assemblea chiamata a eleggere il Presidente della Repubblica ha corrisposto infine all’attesa e al desiderio esplicito della stragrande maggioranza del Paese, quella che chiedeva il «Mattarella bis» e non per calcolo ma per gratitudine. Un’infinità di italiani che in questi tribolati anni ha trovato saldo riferimento nel «presidente concittadino», nel suo senso del dovere e del limite, nell’amore per le Istituzioni, nella stima molte volte dimostrata per coloro che fanno e danno lontano dai riflettori.
Patriottismo, come qualcuno, anzi qualcuna, la leader della destra d’opposizione a tutto, aveva evocato quale "prova del sangue" del nuovo inquilino del Colle? Sì, patriottismo. Patriottismo vero: civile, antiretorico, inclusivo, costituzionale. Patriottismo italiano ed europeo. Sanamente laico perché di profonda radice cristiana. E chi conosce sul serio la storia della nostra democrazia sa che questo non è un gioco di parole, ma una cultura preziosa e una costante qualità politica, che Sergio Mattarella ha interpretato con appassionata coerenza per tutta la sua vita.
Un servizio politico così lungo che, a ottant’anni, avrebbe voluto non concludere, ma rallentare, dandogli ritmo e intensità molto differenti. Lo sappiamo tutti, anche perché nel Messaggio di fine 2021 ce lo ha detto, con un sorriso e a chiare note, che si sentiva all’ultima riflessione e all’ultimo augurio da Presidente. E questo, ovviamente, anche per ragioni personali ma, soprattutto, per alto convincimento. Aveva spiegato che cosa l’abbia portato a mutare avviso rispetto a qualche decennio fa, argomentando che non è bene che Capi dello Stato che durano nella carica per sette anni vengano rieletti e che sarebbe stato ancora meno positivo se questo fosse avvenuto per due volte consecutive, dopo il bis imposto, in una impasse diversa e altrettanto seria, a Giorgio Napolitano nel 2013. Eppure, Mattarella si è inchinato all’indicazione pressoché unanime del Parlamento e dei delegati delle Regioni. E anche questa è una dimostrazione esemplare: andare oltre i limiti che si riconoscono e che si vorrebbe tener cari, proprio per il senso del proprio limite che porta a onorare un dovere urgente, stavolta simile a quello per cui – giusto un anno fa – chiamò Mario Draghi a governare il necessario e l’indispensabile con una coalizione giudicata impossibile.
Si dice spesso, e in questi giorni lo si è fatto più volte per commentare lo sfiorire di ambizioni e di "rose" e il moltiplicarsi delle spine sulla via del Quirinale, che in Italia alla Presidenza della Repubblica «non ci si candida, ma si viene candidati». Si dice, ma magari non ci si crede del tutto.
Stavolta, però, non ci sono dubbi: è stato eletto il Non Candidato per eccellenza. E l’amplissimo consenso di sabato sera conferma che di scelta eccellente si è trattato. Più di qualcuno, magari, dirà che è stata anche la scelta disperata di leader politici che avevano sbagliato troppo e che rischiavano di mettere in crisi pure il governo Draghi, dopo aver discusso malamente, mentre si sgambettavano a vicenda, del trasloco dell’attuale premier al Colle. L’importante è che non abbiano sbagliato tutto.
L’Assemblea, del resto, aveva cominciato a votare "Mattarella" in crescendo e senza aspettare permessi dai gran capi. Generali che, al sesto giorno di giri a vuoto, si sono accodati infine alle truppe parlamentari (memori forse di quel sindacalista francese che sentenziò: «Sono il loro capo, perciò li seguo»). Alcuni più acciaccati di altri. Altri meno. Altri ancora per nulla. Ma questo è un bilancio che qui, oggi, non interessa fare. Questo è davvero un bel giorno per l’Italia, grazie al Parlamento e al nostro Presidente.
Quei 46 voti centristi per Mattarella erano un segnale cifrato per il Pd. Giovanna Casadio su La Repubblica il 30 gennaio 2022. L’orologio di Montecitorio segna le 14 e 51 di venerdì 28 gennaio: è l’ora da cui non si torna più indietro. Non tanto perché Maria Elisabetta Alberti Casellati soccombe sotto il fuoco incrociato di 71 franchi tiratori che provengono dalle stesse file del centrodestra che l’ha proposta. Ma soprattutto perché il presidente della Camera, Roberto Fico dà conto di un altro numero, apparentemente insignificante: Sergio Mattarella ha ottenuto 46 voti.
DAGOREPORT il 29 gennaio 2022.
A questo punto, il ciccione shakespeariano Falstaff direbbe: “La politica italiana? Un'ignobile farsa”. Da Salvini a Conte, dalla Meloni a Renzi, da Berlusconi a Letta, ecco leader senza leadership capaci solo di unire l’incapacità all’arroganza. La caotica e grottesca farsa quirinalizia, che sta per risolversi con un Mattarella bis, è stata però utilissima: pensavamo che i vari capataz dei partiti fossero tipini mediocri, invece ora sappiamo che sono delle autentiche nullità.
Dopo aver inanellato una stronzata dopo l’altra, da Casellati a Belloni, la schizofrenia della king-pippa Salvini è stata ricondotta al sano buon senso e stamattina ha balbettato ai cronisti: "Invece di andare avanti per giorni con veti incrociati, consideriamo se non sia il caso di chiedere a Mattarella 'ripensaci'".
Il Bis della Mummia Sicula è stato auspicato, in primis, dagli applausi e standing ovation degli italiani in ogni manifestazione pubblica del Capo dello Stato. Secondo: “Mattarella, il ritorno” è stata la prima opzione di Enrico Letta, Matteo Renzi e di tutti i tantissimi peones parlamentari timorosi di perdere con il voto anticipato il vitalizio di fine legislatura. Viceversa, apertamente contraria Gigiona Meloni che sogna le urne h24.
Invece, l’inesistente Peppiniello Conte ha coperto con il suo sbrodolante bla-bla da leguleio la voglia matta di andare al voto anticipato, di formare con i suoi fedelissimi le liste elettorali, sfanculando così Di Maio e i suoi, i suoi nemici più intimi.
Alla Ducetta e alla Pochette con le unghie, si è quindi accodato quella mezzasega di Salvini che, nel conciliabolo con Letta e Conte di ieri, ha detto no alla permanenza di Mattarella, continuando a inanellare una cazzata dopo l’altra, dalla trombatura annunciata della seconda carica dello Stato per finire con la folle candidatura del capo dei servizi segreti – con una Belloni che, in barba al suo status istituzionale, non ha sentito l’opportunità di fare un comunicato all’Ansa per dire a Salvini, Meloni e Conte solo tre parole: “Non sono disponibile”.
E qui l’incapacità del Truce del Papeete di fare politica, anche senza l’hangover di alcolici mojitos, è saltata agli occhi di tutti: uno che è sempre stato contrario al voto anticipato non si è minimamente reso conto che una Belloni sul Colle, senza il voto dell’attuale maggioranza di governo, voleva semplicemente dire dimissioni di Draghi, crisi e l’apertura delle urne.
Alla fine della farsa quirinalizia ci sono tre dati lampanti. Il primo è la schizofrenia da T.S.O. del Capitone, mai un leader si era mostrato tanto piccolo a fronte di una partita così importante. Del resto si è visto, eccome, il ritorno di Luca Morisi.
Il secondo è la mezza vittoria di Draghi, che ha congelato la sua prorompente ambizione di salire al Colle fino al 2023. Non è ciò che voleva, ma in fin dei conti si intesterà lui in Europa la riconferma di Mattarella.
Infatti, oggi, nella mezzora di colloquio a margine del giuramento di Filippo Patroni Griffi a giudice della Corte Costituzionale, prima di accettare la richiesta dei partiti di fare il bis, la Mummia Sicula ha chiesto e ottenuto da Draghi garanzie della sua permanenza a Palazzo Chigi.
Contemporaneamente, durante la cerimonia di stamattina, Giuliano Amato, nella sua qualità di presidente della Corte Costituzionale, ha sollecitato fortemente il Presidente della Repubblica ad accettare la richiesta dei partiti di restare al Quirinale.
Il terzo dato è la guerra aperta tra Conte e Di Maio e la resa dei conti tra Salvini e Giorgetti che si aprirà da qui ai prossimi giorni. Giuseppi ha provato a incastrare Giggino con la candidatura della Belloni, Di Maio gli ha risposto per le rime. Sarà impossibile tornare indietro. Se il M5S sarà liquefatto entro la fine dell’estate, anche la Lega che fa a capo a Giorgetti e ai governatori Zaia, Fontana e Fedriga presenterà il conto dei fallimenti al cazzaro del Papeete.
DAGOREPORT il 30 gennaio 2022.
Mattarella bis, varie ed avariate. Non è vero il “Draghi decisivo” (Corriere della Sera e Repubblica). E’ vero che Draghi effettivamente ha chiesto a Mattarella di rimanere in quanto sarebbe stato l’unico capace di dare forza al governo, nonché è l’unico che potrebbe lasciare il posto in anticipo (ma la staffetta col Siculo sarà tutta da vedere).
E’ altrettanto vero che l’ex SuperMario si è deciso di bussare alla porta di Mattarella solo all’indomani della sua sconfitta. Quando era certo che non sarebbe stato lui il Capo dello Stato. Così, in “zona Cesarini” ha cambiato copione, si è aggrappato al salvagente Mattarella ed è diventato il “garante della stabilità”, colui che “ha ricompattato una maggioranza allo sbando”. Un abile mossa: non poteva certo fare la figuraccia di mollare la guida del governo, con l’eventuale ascesa al Colle di un Casini o di una Belloni.
Difatti, il Grande Gesuita, che è ancora infuriato, ci ha sperato (e brigato) fino all’ultimo respiro perché alle cazzate dei giornaloni e dei talk (uno per tutti, il Mago Mieli: “L’esito è scontato: sarà Mario Draghi il prossimo Capo dello Stato”) ci aveva creduto pure lui. Non altrettanto il suo maggior sponsor, Enrico Letta.
Svela un gustoso episodio oggi Francesco Verderami sul Corriere: “Salvini, dopo aver incontrato il premier, si chiude con Letta e Conte - a loro volta divisi - per discutere chi scegliere. Già lì accade qualcosa di strano, perché il segretario del Pd davanti al capo di M5S presenta una rosa di nomi senza Draghi. Più tardi, Salvini racconterà maliziosamente che «quando con Letta parlavamo in assenza di Conte, il nome di Draghi non mancava». Stava nella lista assieme ad altri, compreso Mattarella. Non è proprio un esercizio di stile confondere in un parterre di quirinabili chi siede al Quirinale”.
Davanti al collasso delle “scorze” politiche, il discorso si è chiuso. Dal basso del Parlamento (“Hic sunt peones”), è partito un prorompente “ci avete rotto er cazzo” alla giostra di Casellati, Casini, Nordio, Cassese, Frattini, Belloni, Massolo etc. messa in scena dal capocomico Salvini in combutta con i Conte e le Meloni.
E Letta cambia musica. «La strategia del Pd –racconterà a cose fatte Debora Serracchiani a Maria Latella a radio24 – è stata far salire i voti per il presidente Mattarella, quotidianamente, a ogni votazione, e lo abbiamo fatto con maggior evidenza quando si è trattato di votare per la presidente del Senato Casellati» (Iacoboni su “La Stampa”).
E’ solo a quel punto che parte la mediazione di Draghi: “…le telefonate a Berlusconi, ai due Letta (Enrico e Gianni), a Salvini e a Conte, infine il faccia a faccia decisivo. Mezz' ora è durato il colloquio tra Draghi e Mattarella, al quale il premier ha confidato l'angoscia per la «situazione grave» determinata dall'impazzimento dei partiti: «Per la stabilità del Paese e per rassicurare l'opinione pubblica è necessario restare» (Monica Guerzoni, Corriere).
Quei circa 400 voti spontanei a Mattarella hanno convinto i leader vari e avariati a dare, sottobanco, il via libera ai loro parlamentari di votare il bis della Mummia Sicula. In maniera esplicita non potevano farlo perché c’è un percorso istituzionale da seguire. Infatti al Quirinale si sono presentati non i leader ma i capigruppo in rappresentanza dei parlamentari.
Ancora. Non è vero che tutto, in modalità ‘’Gattopardo’’, rimane come prima. Draghi e il Bis-presidente si sono rassicurati a vicenda: io resto se tu resti. Ma il premier sa benissimo che pagherà la sua improvvida autocandidatura e da domani, quando presiederà il primo Consiglio dei ministri post-Colle, sarà più debole. Ma non finirà prigioniero dei partiti che non lo hanno voluto al Colle: perchè da SuperMario passeremo a SuperSergio.
Sarà il Siculo a dare forza, protezione e indirizzo all’esecutivo draghiano. E’ il solo che adesso può intimare “mi avete voluto di nuovo e ora fate quello che vi dico io” a quella banda di scappati di casa che fino a ieri erano tutti d'accordo solo su una cosa: mai un secondo incarico al capo dello Stato uscente. Ora il pugno di Mattarella sarà durissimo e se prima potevano alzare un ditino adesso dovranno solo chinare la testa e assecondare SuperSergio senza proferire verbo. E per la gioia di Draghi, la Mummia Sicula sta a pallettoni e ha già chiarito: ‘’La mia non sarà una presidenza a tempo’’.
Mario Draghi, i tre "infiltrati" nei partiti che hanno fallito: perché non è arrivato al Quirinale. Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022.
La voce su Mario Draghi e sul suo desiderio di approdare al Quirinale per il post Mattarella si era diffusa ben prima dell'inizio delle votazioni. E pur non essendoci mai stata nessuna conferma da parte del presidente del Consiglio, tranne una frase sibillina - "sono un nonno al servizio delle istituzioni" -, in molti hanno finito per crederci. Stando a un retroscena del Giornale, il premier si sarebbe avvalso addirittura di un "tridente d'oro" per conquistare il Colle: tre ministri "infiltrati" nei partiti che potessero fargli da trampolino di lancio. Di chi si trattava? Giancarlo Giorgetti nella Lega, Lorenzo Guerini nel Pd e Luigi Di Maio, il più governista all'interno del M5s.
I tre ministri, però, non sono riusciti nell'impresa, visto che alla fine l'assemblea ha deciso di tornare sulla figura di Sergio Mattarella. Secondo Pasquale Napolitano del Giornale, i fedeli di Draghi avrebbero lavorato per mesi per consentire il trasloco dell'ex banchiere al Quirinale. La strada, però, si sarebbe rivelata difficile fin dall'inizio, con lo stesso Draghi che alla fine ha mediato per il Mattarella bis. Quand'è che sarebbe iniziata la partita del premier per arrivare al Colle? Un anno fa, dopo l'approdo a Palazzo Chigi. Draghi avrebbe pensato di poter fare un anno di governo prima del salto.
"Lo sponsor numero uno, per l’operazione Draghi, è stato, fin dall’inizio, il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti", scrive il Giornale. Di Maio invece sarebbe stato arruolato nel fronte pro Draghi il 21 dicembre scorso, alla conferenza degli ambasciatori, quando il premier stesso pronunciò parole di apprezzamento nei suoi confronti. Sia Giorgetti che Di Maio, però, si sono dovuti scontrare con i "no" dei loro leader. Uguale Guerini, che avrebbe combattuto contro le resistenze non solo di Letta, ma anche di Dario Franceschini e Andrea Orlando. Infine, a mettere definitivamente un punto al suo sogno sono stati anche e soprattutto l'incertezza sul governo e l'incubo delle elezioni anticipate.
I moribondi di Montecitorio costretti a rieleggere il Civil servant Sergio Mattarella. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 29 Gennaio 2022.
Sergio Mattarella, un civil servant nel senso più ampio del termine. Nonostante le 14 dichiarazioni con le quali ha ribadito di non voler essere rieletto, i moribondi di Montecitorio sono stati costretti a chiedergli di tornare al Quirinale per tenere in piedi un sistema che oggi si regge tra il riconoscimento internazionale di Mario Draghi e quello di un presidente chiamato per forza di causa a salvare lo stellone della Repubblica.
Un’ipotesi che avevamo già ipotizzato in occasione dell’ottantesimo compleanno del capo dello Stato, nel luglio del 2021. Modalità simili alla rielezione di Giorgio Napoletano, a riprova che la crisi di sistema italiano viene da lontano. Mattarella, già quando fu eletto la prima volta, si comprendeva che sarebbe stato un arbitro imparziale della infinita emergenza italiana.
Un monaco bianco di provenienza Dc. Impacciato all’inizio del mandato nel suo essere poco mediatico con lo zoppicare parole e pause mentre leggeva il messaggio agli italiani a Capodanno. Con il passare del tempo ha conquistato la fiducia degli italiani come un novello Pertini.
Tutti con Mattarella, anche quei Cinquestelle che con Di Maio ne avevano chiesto l’impeachment. Dopo due anni il leader grillino ha dovuto ammettere di aver sbagliato. Mattarella centro di gravità permanente. Anche quando ha risolto la crisi diplomatica con la Francia provocata dai Giamburrasca Di Maio e Di Battista solidali con i gilet gialli.
È stato lui a mettere l’Italia nelle sicure mani di Mario Draghi conquistando nuovi consensi per Quirinale e Palazzo Chigi e il dissenso di rumorose minoranze. I moribondi di Montecitorio volevano disfarsi, sono stati costretti a tornare da Mattarella e Draghi.
Sergio cuore d’acciaio contro Boris Johnson che all’esplodere della pandemia giustificava il numero maggiore dei contagi del Regno Unito rispetto all’Italia perché popolo che non può essere costretto a ubbidire “in modo uniforme perché amiamo la libertà”. E il presidente Mattarella rispose: “Anche noi italiani amiamo la libertà”.
Indimenticabile icona di tutti gli italiani il 25 aprile 2020, da solo all’Altare della Patria nel pieno della pandemia. Il fuori onda dal suo barbiere in quei giorni drammatici lo elesse amico di tutti. Di moltissimi ragazzi che si scatenarono con i meme.
Primo presidente della Repubblica siciliano. Uno cresciuto a pane e politica. Figlio di Bernardo, perenne ministro discepolo di De Gasperi. Uno tirato per la giacca da Pisciotta e cresciuto elettoralmente nel feudo mafioso di Castellamare del Golfo, patria di Cosa Nostra. Danilo Dolci, pacifista, presenterà dossier contro di lui ricavandone una condanna per diffamazione. Ben altro percorso quello di Piersanti, il fratello di Sergio. Morirà nelle sue braccia ucciso dal piombo della Cupola. Il presidente della Regione Sicilia si era messo a scrutare appalti e a chiedere conto a Roma. Sergio il professore in conseguenza di quella morte violenta ne eredita l’impegno. Sarà lui a determinare il successo di Leoluca Orlando nella trincea di Palermo.
Sergio Mattarella è da sempre figura istituzionale di altissimo prestigio. Ciriaco De Mita gli affida compiti di pulizia i in Sicilia e anche a Reggio Calabria. Non era personaggio da politica spettacolo. Parlamentare serio e rigoroso. E’ ministro nel 1990 nella Prima Repubblica.
In quel caldo agosto per le tv di Berlusconi la sinistra Dc segna un dato storico nell’album di famiglia che la contrapporrà alla destra prossima ventura. Cinque ministri del governo si dimettono. Sergio Mattarella lascia insieme a Misasi, Mannino, Martinazzoli e Fracanzani. Pattuglia diversissima per antropologia politica ma con uomini compatti nell’attuare un clamoroso gesto molto raro nel Palazzo italiano. Ferita ormai rimarginata anche per i berluscones dei giorni nostri.
Mattarella ha una coerente storia politica. Sartori battezzò Mattarellum la legge elettorale da lui concepita, quella che con i collegi ha dato dignità al popolo elettore. Combatte Buttiglione, apre all’Ulivo, fonda il Partito Democratico. Ha grandi intese con D’Alema come suo ministro e vicepresidente. Abolisce la naia obbligatoria e determina la scelta militare per il Kosovo. Come ministro dell’Istruzione ha introdotto i tre maestri alla scuola elementare. Poi si rinchiude alla Corte Costituzionale non rilasciando mai una dichiarazione.
Un Cincinnato chiamato per due volte al Colle senza nessun suo strepito personale. L’ultimo trionfo a Wembley per la finale agli europei. Mattarella che esulta ai rigori vincenti ed entra nella storia dell’immaginario collettivo come Pertini al Bernabeu. Come calabresi siamo molto grati al Presidente anche per aver scelto l’Istituto Nautico di Pizzo come sede dell’inaugurazione dell’anno scolastico in corso. Sergio Mattarella ora resterà al Colle per altri sette anni. I moribondi di Montecitorio non potevano altro che consegnarsi nelle sue mani e in quelle di superMario Draghi. L’anno prossimo gestirà delle complicate elezioni politiche. Buon lavoro presidente. Il presidente di tutti.
Premier spendaccione, Draghi ci costa più di Conte. Francesco Storace su Il Tempo il 31 gennaio 2022.
Nascondete all’Europa le spese di Mario Draghi. C’è il rischio che si accorgano che per il personale in servizio presso la Presidenza del Consiglio si dilapidano più quattrini che al tempo di Giuseppe Conte. Ci costa un botto. C’è una tabella che suscita qualche impressione rispetto al cosiddetto processo riformatore e allo snellimento della Pubblica Amministrazione. Nel 2020 lo stanziamento per il personale in servizio per i dipendenti della presidenza del Consiglio era di circa 212 milioni di euro, simile quello per il 2021, balzato a ben 236 milioni e spicci per il 2022. La manovra di bilancio di Palazzo Chigi ha beneficiato anzitutto i suoi inquilini. Si potranno pagare più comodamente le bollette che capitombolano tra capo e collo di famiglie e imprese, come se fossero una specie di ristori per chi lavora con SuperMario prescindendo da quello che si fa, sia in ufficio che a casa propria.
Non è esattamente la sorpresa che ci si aspettava da un premier che voleva salire addirittura al Quirinale. Il «funzionamento» di Palazzo Chigi ora arriva in totale a più di 266 milioni di euro. Saranno felici collaboratori, esperti, pupilli vari. Si parla di 150 unità in più. Un altro milione e seicentomila euro è previsto per il personale non dirigenziale. «Risparmieremo» poco meno di 400.000 euro per le retribuzioni dei ministri e sottosegretari semplicemente perché c’è un numero minore di esponenti del governo non parlamentari, mica per generosità. L’unico a non costarci – va detto – è proprio Draghi che ha rinunciato all’indennità di carica prevista per i membri del governo non parlamentari. Oltre 4 milioni e mezzo di euro, con i relativi oneri pari a circa un milione e mezzo di euro, sono stanziati per il trattamento economico accessorio per il personale. Arrivano 150 unità – rende noto la relazione – in seguito a procedure di mobilità, più un dipendente proveniente dalla Croce Rossa e altri 15 appartenenti alle categorie protette. Ancora: «Le risorse destinate agli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche sono pari ad euro 18.870.291». Nel 2021 erano pari a 16 milioni, l’aumento è consistente, oltre due milioni di euro. Sarà interessante conoscere dal premier a chi va tanto bottino tra gli staff delle cosiddette autorità politiche. Le previsioni di spesa sono state effettuate considerando «i costi effettivi derivanti dagli incarichi già attribuiti nell’ambito delle strutture di diretta collaborazione» e dai «costi teorici, previsti dai decreti di organizzazione delle medesime strutture, per gli incarichi non ancora conferiti». Quindi, più strutture, più personale, più soldi da spendere. Alla faccia della riduzione dei quattrini...
2.684.000 euro spesi nel 2021 per il personale di diretta collaborazione del premier e del sottosegretario alla presidenza salgono di 159mila euro, impennandosi a 2.844.000 circa. Per quello dei ministri senza portafoglio si passa dai 4.687.000 euro del 2021 ad una previsione maggiorata di ben 746.000 per il 2022. Per il personale di ruolo l’aumento delle retribuzioni aumenta da 100 milioni a 114. Quasi un milione in più per gli oneri riflessi. Aumenta anche la spesa per il personale assegnato alle cosiddette strutture di missione: circa cinque milioni e mezzo con un aumento di oltre un milione rispetto allo scorso anno, il 20 per cento in più. Draghi sia lodato. L’attenuante, in questo caso, è legata alla finalizzazione dello stanziamento per la segreteria tecnica per le politiche in materia di disabilità e all’istituzione delle strutture dedicate all’attuazione del Pnrr. Il vocabolario è psicosovietico però: segreteria tecnica del Pnrr, unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione. Non oseremo avventurarci nel consuntivo... Le cifre offrono ulteriori elementi di riflessione, a leggerle tutte. Quel che colpisce è l’assenza di consapevolezza del momento che vive il Paese. Non vogliamo certo deprimere il lavoro che svolgono gli uffici di Palazzo Chigi, spesso in grado di risolvere i problemi più complessi, ma tutto questo in tempi comunque difficili per il popolo italiano appare difficilmente comprensibile. La pubblica opinione magari vorrà capire meglio dal governo, dal suo premier, il perché di tutti gli aumenti elargiti da SuperMario a chi lavora al suo fianco. Chi non ha questa «fortuna» non merita, evidentemente, altrettanta generosità.
L'ITALIA DA COMPARSA A PROTAGONISTA. LA DOPPIA GUERRA MILITARE E ECONOMICA - I due segnali forti a Putin dell'Europa di Draghi, Macron e Scholz. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2022.
Il primo segnale è che l’Europa è unita. Il secondo è che c’è una troika che guida l’Europa costituita dai capi (Scholz e Macron) delle due potenze più rilevanti che sono Germania e Francia e da un terzo (Draghi) che è un tecnico che ha qualcosa da insegnare a tutti e governa oggi il terzo Paese fondatore (l’Italia) indebolito dalla sua ventennale caduta di peso economico e politico. Altrimenti l’Italia non sarebbe stata lì con Germania e Francia, addirittura con ruolo di primo attore, a dire tutti insieme che vogliono l’Ucraina in Europa e, come Draghi ha sostenuto prima di tutti, che vogliono che acquisisca da subito lo status di candidato all’ingresso nell’Unione europea. Per la prima volta l’Europa sta cercando una sua nuova guida non solo in un gioco combinato ristrettissimo di potenza economica degli Stati, ma anche di peso delle persone che nel caso di Draghi è il ruolo svolto con maestria alla guida della Bce che lo accredita oggi da premier italiano come un leader istituzionale del sistema europeo. Per questo su gas, grano e mercati l’Europa alla fine presterà ascolto a Draghi così come in Italia le riforme vanno comunque avanti
L’Europa ha dato due segnali forti nella giornata di ieri con Draghi, Macron e Scholz che incontrano Zelensky a Kiev davanti agli orrori di Irpin e parlando tutti insieme il linguaggio della pace. Il primo segnale è che l’Europa è unita. Il secondo segnale è che c’è una troika che guida l’Europa costituita dai capi (Scholz e Macron) delle due potenze più rilevanti che sono Germania e Francia e da un terzo (Draghi) che è un tecnico che ha qualcosa da insegnare a tutti e governa oggi il terzo Paese fondatore (l’Italia) indebolito in tutti i campi dalla sua ventennale caduta di peso economico e politico. Come dimostra la tradizione bilaterale franco-tedesca, consolidatasi in quest’ultimo ventennio, di direzione strategica esclusiva delle grandi questioni e dei grandi appuntamenti europei con occasionali, rarissime eccezioni.
Con tutto il rispetto per Conte, che come premier non ha fatto male, se c’era ancora lui, l’Italia non sarebbe stata lì con Germania e Francia, addirittura con ruolo di primo attore, a dire tutti insieme con la Romania che vogliono l’Ucraina in Europa e, come Draghi ha sostenuto prima di tutti, che vogliono che acquisisca da subito lo status di candidato all’ingresso nell’Unione europea. A ribadire che il mondo è con l’Ucraina e con la “resistenza eroica” del suo popolo. Che i valori della resistenza Ucraina sono i valori della democrazia europea e sono, dunque, i valori fondanti della comunità occidentale. Che nel momento in cui la storia chiede agli uomini di Stato scelte impegnative che decidono il futuro dei loro popoli, i capi di governo italiano e, a seguire, francese e tedesco si sono schierati dalla parte giusta.
Che è quella della democrazia contro l’autocrazia. Che è quella del conflitto di civiltà che senza una presa di coscienza collettiva può portare l’Occidente al suo suicidio e consegnare le chiavi del mondo a un domino autocratico di fatto già esistente ancorché disomogeneo e diviso al suo interno. Che vuol dire dare agli ucraini le armi per difendersi e costruire la pace che non può non essere la pace che lo Stato aggredito vuole, non quella voluta dallo Stato aggressore. Perché altrimenti il conflitto di civiltà segna la sconfitta di chi ha ragione e la vittoria cupa di chi ha torto.
Tutto questo e molto altro significa la giornata di ieri che chiede alla coscienza mondiale di fare i conti senza ipocrisie con le atrocità russe sgomberando il campo da presunte resistenze tedesche e ponendo l’Europa di fronte alle sue responsabilità nel grande gioco delle materie prime energetiche e agricole che sono l’altra faccia dei carri armati russi e di cui parleremo bene dopo.
Quello che non può sfuggire agli osservatori esterni e interni purché in buona fede è che per la prima volta l’Europa sta cercando una sua nuova guida non solo in un gioco combinato ristrettissimo di potenza economica degli Stati, ma anche di peso delle persone se ti rendi conto che di quella persona hai bisogno anche se si trova alla guida di un Paese che le due potenze economiche storiche dell’Europa non ritengono, di certo sbagliando almeno potenzialmente, alla loro altezza in questo momento e che invece lo ridiventa a tutti gli effetti ripercorrendo di fatto la stagione fondatrice che vedeva insieme Monnet, Adenauer e De Gasperi. Erano tutti e tre uomini di confine, ma erano dichiaratamente e orgogliosamente uno francese, uno tedesco, uno italiano. Parliamo di settanta anni fa.
Risuccede oggi dopo un periodo così lungo, guarda caso, perché alla guida dell’esecutivo italiano c’è un tecnico accreditato dal suo ruolo europeo reale svolto con maestria assoluta per otto anni alla guida della Banca centrale europea, che era e resta il ruolo europeo più importante oggi ancora più riconoscibile con la vistosa differenza di autorevolezza e incisività che emerge giorno dopo giorno tra chi lo esercita oggi (Lagarde) e chi lo ha esercitato prima di lei (Draghi). Tutto questo, perdonateci, per cercare di spiegare perché il tecnico italiano vale politicamente tantissimo anche se tutti o quasi i politici italiani non hanno capito niente e gli sputano addosso con la consueta inelegante faciloneria. Non hanno capito che questo non è un capo-partito e, tanto meno, aspirante, ma è ed è visto e apprezzato nel mondo per le qualità di un uomo che si è accreditato come un leader istituzionale del sistema europeo.
Se fosse rimasto il direttore generale del Tesoro ed il governatore della Banca d’Italia o anche l’apprezzato presidente del Financial Stability board, Draghi non avrebbe potuto esercitare in Europa e nel grande scacchiere globale dove si gioca la partita del nuovo ordine mondiale il ruolo politico che esercita. Anche da Presidente del Consiglio italiano, purtroppo, sarebbe stato così. Sono stati il ruolo di presidente della Bce e il riconoscimento mondiale dell’azione svolta di salvatore dell’euro che legittimano questo ruolo internazionale del Draghi di oggi. Paradossalmente sono la sua credibilità personale e la debolezza strutturale italiana ricevuta in eredità che giocano entrambe a suo favore.
Perché non deve fare una politica di potenza, come devono fare tedeschi e francesi che alcuni temono e altri desiderano, ma può mettere la sua conoscenza dei meccanismi internazionali e un patrimonio di competenza che uniti a oggettiva intelligenza politica rendono la bandiera italiana una stella nel firmamento politico del nuovo corso europeo che dovrà contribuire alla definizione degli equilibri del nuovo ordine mondiale. Vedete quando la Russia sostiene che, siccome ci sono le sanzioni messe dall’Occidente, mancano pezzi di componenti e sono costretti a ridurre le forniture di gas di due terzi alla Germania e in misura minore ma significativa all’Italia, è evidente a tutti che sono penose bugie e che c’è un uso politico del gas, e a quel punto acquisisce naturalmente la forza di leadership politica europea la proposta lanciata da Mario Draghi in tempi non sospetti di fare cartello e porre un tetto europeo al prezzo del gas russo che si è scontrata con le miope resistenze tedesche e quelle pelose olandesi.
Hanno ottenuto il capolavoro che le forniture sono diminuite e la Russia incassa di più perché diminuendo i flussi i prezzi volano alle stelle, ieri si è arrivati fino a 148 euro a megawattora dagli ottanta delle ultime settimane e i venti di prima di Covid e guerra. È ovvio che, in questo contesto, al prossimo Consiglio europeo la proposta Draghi acquisisce molta più forza e tutti hanno modo di afferrarne la capacità tecnica di anticipare le cose. Quella stessa capacità tecnica che è servita per fare le uniche sanzioni che hanno fatto molto male all’economia russa e hanno riguardato il congelamento delle riserve estere della sua banca centrale. Sono tutte capacità tecniche che rivelano l’intelligenza politica di Draghi e danno peso politico all’Italia.
Come si fa a non notare, se si è in buona fede, che è stato Draghi il primo leader europeo a porre con forza il tema urgente di sminare i porti ucraini e di mettere in campo la risoluzione delle Nazioni Unite per evitare il dramma di una carestia mondiale e la fame del popolo africano? Che è stato il primo ad annunciare che formalizzerà la richiesta al rappresentante delle Nazioni Unite al prossimo G7? Perché c’è consapevolezza che il tempo stringe e non ci sono più di due settimane a disposizione per evitare che il raccolto di grano vada disperso.
Quando Draghi non commenta le scelte di politica monetaria della BCE perché ha speso otto anni della sua vita a difenderne l’indipendenza dai commenti dei politici, ma ti fa una brevissima lezione sulla differenza tra l’inflazione americana e quella europea che vuol dire tutto si percepisce il peso politico di quella competenza operativa di cui hanno vitale bisogno oggi l’Europa quanto l’Italia.
Che è quella per cui l’Italia torna alla guida di una nuova Europa che vuole tornare ad essere protagonista nel conflitto in corso e dentro la nuova globalizzazione per cui anche i tedeschi hanno fornito e forniranno armi all’Ucraina. Per cui sulla politica monetaria ci possono essere sbandamenti di leadership, ma la politica richiama tutti alla realtà che esige di combattere il rischio di frammentazione se si vuole combattere davvero il mostro inflazione. Per cui al ricatto energetico e agricolo dei russi si saprà rispondere partendo da chi ne capisce e ha tracciato la rotta mentre tutti si nascondevano. L’Europa finalmente esiste sui campi di battaglia militari e su quelli della pace e, forse, anche per questo, è ripreso il dialogo tra Usa e Cina e la telefonata di Xi Jinping a Putin si muove nella direzione della pace o del cessate il fuoco, non della guerra lunga.
Noi riteniamo che l’intelligenza politica di Draghi di cui vi abbiamo raccontato genesi e espressione possa e debba essere messa a frutto con l’esperienza del governo di unità nazionale. Ogni processo riformistico all’inizio è incompleto, ma proprio l’esperienza storica dei governi De Gasperi del Dopoguerra a cui quello di Draghi di oggi molto assomiglia ci dimostra che in politica ciò che conta è iniziare. Anche l’ultima delle riforme della giustizia della Cartabia da ieri è legge e questo significa che il cammino sulla strada del riassetto strutturale del Paese sta proseguendo. Le riforme dei Paesi seri non si fanno in un colpo solo, quelli vanno bene per i comizi o per il cabaret, ma avviando dei processi che poi vengono implementati. Questo hanno fatto le grandi democrazie occidentali ogni volta che hanno cambiato segno e passo alle loro economie.
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Un’altra Italia. La fortuna di avere uno come Draghi che sa governare nonostante gli italiani. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 18 Giugno 2022
Lasciati a noi stessi siamo brutta gente, vigliacchi, fortemente e prontamente proclivi ad accettare che la libertà, il diritto, la vita altrui siano spazzati via dall’aguzzino di turno. Questo è il nostro paese e il presidente del Consiglio ha il merito di saperlo guidare nonostante tutto
Evidentemente c’era bisogno di un “vile affarista”, di un servitore dello Stato imperialista delle multinazionali, di un guerrafondaio neanche troppo ripulito, per impedire che l’Italia si dimostrasse per quel che è profondamente e per quel che avrebbe una voglia matta di poter rivendicare sé quel sabotatore non glielo impedisse: e cioè niente di meno e niente di meglio che uno Stato-canaglia.
L’ignominia italiana del secolo scorso, mai veramente riconosciuta né condannata, mai fatta oggetto del rendiconto che ne avrebbe permesso una dignitosa digestione civile, e invece rinnegata e assolta dall’enorme bugia del Paese che per vigore e convinzione propri ritrovava la luce, si squaderna dopo ottant’anni in una perfettissima reiterazione identitaria.
Lasciati a noi stessi siamo brutta gente, vigliacchi, fortemente e prontamente proclivi ad accettare che la libertà, il diritto, la vita altrui siano spazzati via dall’aguzzino per il quale nemmeno soltanto indifferenza proviamo, ma in profundo ammirazione e brama quasi orgasmica di assoggettamento.
È solo consolante, ma fuorviante, obiettare che un’altra Italia starebbe facendo mostra di non appartenere a quella rinnovata tradizione di vergogna civile e di moralità ammaccata, perché in questo modo – sia pure a comprensibili fini profilattici e di auto-conservazione, perché c’è da starne male, da disperarsene, da morirne – in questo modo si rinuncia a guardare in faccia la verità del male, che non è meno nostra e di cui non siamo meno responsabili giusto perché non siamo noi a farla vera.
L’Italia che gira la faccia dall’altra parte non solo mentre si scrivono, ma anche quando si mettono in attuazione le leggi razziali, si è sviluppata in quella che oggi fa persino peggio quando scopre qualche ragione di fondatezza dell’operazione speciale, qualche sia pur vago motivo di comprensibilità dell’aggressione e – questo è il culmine dell’oscenità – qualche oggettiva responsabilità di chi la subisce.
Senza far nulla, o quanto meno senza fare abbastanza, noi stiamo accettando che passi ancora una volta una versione contraffatta di ciò che siamo, in particolare facendo credere innanzitutto a noi stessi, per quel fine auto-protettivo, che si tratti tutt’al più del negazionismo di qualche menestrello in malversazione accademica, di qualche malvissuto sindacalista, di qualche impresentabile da comizio Rosario&Ruspa, col supplemento indulgente secondo cui il problema non sono neppure loro ma quelli che li invitano e gli danno spazio.
Ma non è così e non è questo. Perché quelli non usurpano, sfigurandola, l’immagine del Paese: quelli, tutti, la rappresentano fedelmente. Non si dica che il Paese si merita questa gente, perché anche questo è dopotutto assolutorio: il Paese “è” questa gente.
Mario Draghi sta governando contro il proprio Paese, ed è un merito incommensurabile.
Da lospiffero.com il 30 gennaio 2022.
“Sette anni fa ero qui per l’elezione di Mattarella e adesso sono di nuovo qui a votare Mattarella, non ho capito cosa sia successo nel frattempo”. Uno sconsolato Stefano Allasia, nel frattempo da deputato di lungo corso della Lega è diventato il presidente del consiglio regionale e come tale vagola da grande elettore in Transatlantico con il rovello.
Ma, forse, più che chiedersi cosa è successo, lui come gli altri suoi compagni di partito si chiede cosa succederà. L’implosione del centrodestra, nel Romanzo Quirinale dal finale copia-incolla diventa psicodramma nel partito di Matteo Salvini aspirante king maker finito, dopo l’ennesimo inciampo, col timbro della “cultura istituzionale di un gormito”, come da velenosa definizione di Matteo Renzi.
Lui, il Capitano, dice di aver “peccato di sincerità e generosità”, non propriamente le doti di un grande manovratore, ruolo che adesso molti dei suoi non gli perdonano di aver svolto nella maniera più improvvisata e sconclusionata possibile, ma senza manlevare responsabilità pure del suo stato maggiore.
E qui, la pattuglia di grandi elettori leghisti calata dal Piemonte con baldanza ripiega in una Caporetto dove certo non riconosce ardimentose gesta al suo comandante, nel caso di specie anche (e vi par poco) capogruppo alla Camera. “Mai una riunione, lunedì addirittura siamo andati a votare solo con un sms”.
Nelle chat spesso non viene neppure citato, intanto è implicito di parli di lui, Riccardo Molinari, per anni uomo ombra di Matteo in Piemonte e non solo, adesso nell’8 settembre di coloro che furono lumbard, ombra quasi invisibile durante la settimana di tregenda conclusasi ieri sera con il ritorno al passato che tormenta il povero Allasia.
Al loro presidente non pochi deputati piemontesi, ma con loro anche qualche senatore, imputano una “latitanza” sottolineate pure da qualche parlamentare del centro-sud addirittura invidioso dell’attenzione che avrebbe riservato più ai piemontesi e ai lombardi, aggiungendo velenoso, per via della fidanzata (la deputata Rebecca Frassini), a conferma che quando la pelle brucia scappa pure un colpo sotto la cintura.
Brucia nel corpaccione parlamentare leghista quella corsa senza freni contro il muro di Matteo che, forse chissà, s’interrogano, Riccardo avrebbe potuto rallentare. “Ma va, sempre muto”, viaggia in chat l’indiretta risposta.
“In casa Lega non ci sarà mezza fibrillazione” assicura da Porta a Porta Salvini, ma tra i suoi si chiedono se ci crede, almeno lui. Rientrata la voce di possibili dimissioni di Giancarlo Giorgetti, resta il segnale lanciato dal ministro a Mario Draghi, ma da molti interpretato come l’ennesima segnatura della differenza tra lui e il segretario, non ultima proprio quella sul premier al Colle, ipotesi che sarebbe stata assai gradita all’eminenza grigia della Lega, decisamente meno al Capo.
C’è chi tra i parlamentari della regione che esprime il capogruppo (ben guardatosi dall’esprimersi troppo in questi giorni) la butta giù pesante parlando, sia pure sottovoce, di “resa dei conti” lasciando da capire se in generale o restringendo il campo ai confini di pertinenza. “Comunque dopo questa brillante prova di Matteo nessuno potrà più lamentarsi delle gesta dei nostri vari Preioni”, commenta al vetriolo un parlamentare riferendosi al capogruppo leghista a Palazzo Lascaris, Alberto Preioni, non propriamente un fulmine di guerra nelle trattative politiche.
“Anche il centrodestra al suo interno ha perso pezzi”, ammette Salvini, ma subito precisa: “Non la Lega”. E però ci sono quei 37 voti più del previsto presi dall’ex magistrato Carlo Nordio, candidato di Fratelli d’Italia che nessuno può escludere, almeno in parte, arrivino proprio da forti mal di pancia leghisti e partano come segnali verso Giorgia Meloni che potrebbe continuare a drenare non solo voti, ma anche parlamentari dall’alleato, si fa per dire. C’è chi parla di “feroci pizzini” indirizzati proprio a Salvini. Altro motivo di allarme, anche in un Piemonte dove i rapporti tra Lega e Fdi non sono certo idilliaci, come testimoniato dalle tensioni non rare nel governo della Regione e come altre situazioni da oggi in avanti potrebbero ulteriormente confermare.
“Non possiamo fare regali al Pd” diceva Molinari una settimana fa. Venerdì sera mentre Salvini (e con lui Giuseppe Conte) annunciava coram populo di lavorare per un presidente donna, “in gamba”, il capogruppo spiegava che “quello di Elisabetta Belloni è un nome che sta uscendo dai vari incontri e di cui si parla ma non c’è ancora nessun accordo chiuso”. Nel frattempo onorevoli e senatori cercavano di capire, addormentandosi con l’idea di votare il capo dei Servizi e risvegliandosi con la foto di Mattarella sul comodino.
Salvini era partito col mandato di arrivare a un presidente d’area ed è finito per sposare il bis di Mattarella. L’impressione è che alla fine sia andata come pronosticato ventiquattr’ore prima da Umberto Bossi, “Salvini andrà a ruota di Berlusconi”, prevedendo un Mattarella bis. Magra consolazione l’avverarsi della profezia del Senatur per chi ancora deve ingoiare “la balla della sala capiente che non si trovava”, a giustificazione di quegli incontri non fatti dal capogruppo mentre tutto veniva giù. E Allasia che si chiedeva cos’era successo in questi sette anni. Cosa succederà da domani.
Quirinale, Alessandro Sallusti: centrodestra, un imbarazzante disastro. Era tutto chiaro già da martedì...Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022
Chi più e chi meno, alla fine tutti tranne Giorgia Meloni, hanno calato le brache e addio nuovo Presidente della Repubblica, tanto più un primo presidente non di sinistra. Ci avevamo creduto e in questi giorni non lo abbiamo nascosto anche se, ora dopo ora, era chiaro che i giocatori in campo, pur impegnandosi, non erano in grado per mancanza di esperienza e in parte di numeri di raggiungere l'obiettivo. All'ultimo, un po' tutti, proprio in zona Cesarini come si dice nel calcio, hanno preferito - grazie a un intervento su Salvini di Silvio Berlusconi al quale perdere non è mai piaciuto - un pareggio a una sconfitta.
Bene, ma a che prezzo per il Centrodestra? Sul terreno sono stati sacrificati sei illustri rappresentanti della classe dirigente (Pera, Moratti, Nordio, Frattini, Belloni, Cassese) la cui credibilità è stata bruciata in cambio del nulla, a terra resta la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, azzoppata e ridicolizzata vittima un po' di se stessa e un po' di chi l'ha illusa. Ecco, non era questo lo scenario che ci eravamo immaginati. Siamo onesti: è stato un disastro, non tanto per il risultato finale a quel punto inevitabile, ma per il modo pasticciato e a tratti imbarazzante con cui ci si è arrivati, tanto valeva per il centrodestra intestarsi da subito Mattarella o Draghi come era chiaro già da martedì.
Un disastro le cui conseguenze non saranno indolori. Se fino a ieri Mario Draghi passava per un dittatore illuminato, da domani è possibile che si comporti da despota, probabilmente un bene per l'economia meno per la democrazia. Se fino a ieri si poteva immaginare una proficua collaborazione fra i tre parenti serpenti Meloni, Salvini e Berlusconi da domani - e chissà per quanto - l'attuale Centrodestra sarà una coalizione soltanto formalmente.
E infine, se la quarta gamba del Centrodestra (Toti, Brugnaro e soci) si poteva sperare fosse un sicuro e leale compagno di viaggio, oggi sappiamo che per loro il Centrodestra è soprattutto un bus su cui salire solo per essere eletti governatori o sindaci.
Può una coalizione oggi così messa candidarsi a guidare il Paese? Matteo Salvini avrà ancora la forza e l'autorevolezza per guidare il centrodestra essendosi giustamente intestato il comando delle operazioni? Non tocca a noi dare risposte, ma al più presto qualcuno dovrà darle. Perché il fatto che il ciclone Quirinale abbia travolto anche e di più sia i Cinque Stelle che la sinistra di Letta, che questa volta Matteo Renzi si sia perso nei suoi intrighi senza toccare una palla buona se non per stopparla è una amara consolazione. Auguri di buon lavoro al presidente Sergio Mattarella. Chissà quante dovrà vederne nei prossimi sette anni.
I cinque errori di Salvini sul Quirinale. E quattro consigli non richiesti. Benedetta Frucci su Il Tempo il 31 gennaio 2022.
C’è un fattore prepolitico con cui Matteo Salvini, nella sua battaglia per il Colle, non ha fatto i conti e che ha determinato, più di altri, la débâcle: la convinzione di una presunta superiorità morale che attraversa la sinistra dal centro fino ai suoi estremi e che la porta a non riconoscere mai fino in fondo il valore di chi gioca nell’altra metà campo. Esiste poi una caratteristica profondamente politica del centrosinistra: una capacità strategica e tattica, un’intelligenza che ha saputo dimostrare soprattutto negli ultimi 10 anni, quando è riuscita a governare sempre pur quando era tecnicamente minoranza nel Paese. È dalla sottovalutazione prima di tutto dell’avversario, che nasce il primo grande errore del leader leghista.
Centrosinistra arroccato in trincea
Il centrosinistra ha dapprima fatto credere a Matteo Salvini che, sgomberando dal campo il nome di Berlusconi, l’unica vera fonte di preoccupazione degli avversari, consci delle sue capacità strategiche e da fantasista che ha dimostrato, concavo e convesso, sempre in grado di restare in sella nonostante tutto e tutti, avrebbero potuto accordarsi su un nome. Ha sbagliato a pensare che il problema fosse Silvio Berlusconi, il divisivo, l’impresentabile e non qualunque nome avesse, anche lontanamente, una connotazione di centrodestra. Salvini avrebbe dovuto capire che, disponendo di una maggioranza esigua, le strade percorribili erano due: o farsi kingmaker fin da subito di un nome apparentemente super partes, come quello di Mario Draghi, sottraendolo da un lato alla sinistra e dall’altro, distruggendo i piani elettorali di Giorgia Meloni, accordandosi prima del voto quirinalizio sulla formazione di un altro esecutivo, oppure portare avanti compatto il nome di Berlusconi fino al quarto scrutinio per poi lanciare la palla a Letta e mettere lui nelle condizioni di proporre nomi su cui, a quel punto, il leader leghista avrebbe potuto esercitare veti.
Tradita la volontà popolare, Paragone a valanga sul bis di Mattarella
Così non è andata e dopo Berlusconi, sono cominciati i niet: Frattini il filorusso, la Casellati la sgrammaticatura istituzionale perché attuale Presidente del Senato- dimenticando il precedente Fanfani- e via così. Il centrosinistra è rimasto fermo, immobile, nella trincea, lasciando che Salvini sparasse tutte le cartucce a disposizione. Ha abbandonato ogni scrupolo, come si fa in guerra, ed è andato dall’attaccare il centrodestra per l’astensione in terza chiama ad utilizzare senza scuotersi lo stesso metodo ventiquattrore dopo, per affossare la candidatura di Elisabetta Casellati. Capolavoro tattico.
Partita giocata sul fronte sbagliato
Secondo errore: non distinguere fra la strategia elettorale e quella parlamentare. Salvini ha parlato troppo con la stampa, pensando di parlare ai suoi elettori, dimenticando che la partita del Quirinale, quando non si siede comodamente all’opposizione con una truppa ristretta di parlamentari come Giorgia Meloni, si gioca tutta nei palazzi. Lo ha fatto con la crisi del governo Conte I, lo ha ripetuto con l’elezione del Presidente della Repubblica.
Terzo errore: assumere il ruolo di guida del centrodestra, in una partita difficile da vincere. Quarto errore: fidarsi degli alleati. Di una Forza Italia in cui la dirigenza è distante anni luce dai gruppi parlamentari, ancora infuriati per l’uccisione prematura del leader Silvio Berlusconi. Si racconta che i voti arrivati al Cavaliere, siano di una piccola truppa di coraggiosi, un segnale alla dirigenza che li vorrebbe schiacciati sulla Lega, un moto d’orgoglio e di autonomia.
Di una Giorgia Meloni che aveva, come obiettivo della partita, le elezioni in primis e in secundis, l’affossamento di Matteo Salvini. Che poi sono in fondo la stessa cosa. Il giorno dello schianto di Elisabetta Casellati, non a caso, c’era un particolare attivismo di parlamentari Pd con i meloniani e chissà che qualche siluro non sia partito proprio da quelle fila.
Di un gruppo, quello di Toti e Brugnaro, che può sorgere solo se diventa parte di un polo centrista.
Quinto errore: il dialogo con Conte, leader solo sulla carta di un Movimento balcanizzato, mosso nelle sue scelte solo dal risentimento.
Errori e sottovalutazioni di un leader giovane, che ha ancora però cartucce da sparare.
La separazione dalla Meloni
Quattro consigli non richiesti: abbandoni le velleità sovraniste, lasciando a Giorgia Meloni le sue posizioni antivacciniste e le urla dal talk show. L’ala di ultradestra è già con lei e lo dimostra quell’eccesso di voti a Carlo Nordio, per cui si racconta che la dirigente di Fdi sia stata molto attiva fra le fila dei salviniani no euro. Si accrediti e comporti come un leader di una destra europea, guardando al modello gaullista e non a Marine Le Pen o Zemmour; ascolti, insomma, i consigli di Silvio Berlusconi e si faccia traghettare nel PPE. Infine, giochi d’astuzia: dia il via libera a una legge proporzionale, rendendo di fatto impossibile a Giorgia Meloni, qualora risultasse vincitrice delle elezioni, la premiership. Come? Proponendo che il prossimo parlamento sia un’assemblea costituente che vari, finalmente, il semipresidenzialismo. Con un governo magari a guida Draghi, che condannerebbe la sua avversaria a un’opposizione perenne. Non è cattiveria, ma strategia.
Malumori su Salvini: "Doveva battersi di più". Gran parte lo difende: ha ottenuto il massimo. Chiara Giannini il 31 Gennaio 2022 su Il Giornale.
I mal di pancia interni alla Lega, il giorno dopo l'elezione di Sergio Mattarella nuovamente a capo dello Stato, sono un dato di fatto.
I mal di pancia interni alla Lega, il giorno dopo l'elezione di Sergio Mattarella nuovamente a capo dello Stato, sono un dato di fatto. In molti accusano il segretario Matteo Salvini di aver ceduto troppo presto, decretando così la crescente delusione negli elettori del partito che in futuro potrebbe portare a una perdita di consensi. Se pubblicamente i parlamentari leghisti difendono il Capitano, nelle chat interne qualche problemino inizia a rilevarsi, con senatori e deputati che lo accusano di essere «mal consigliato». Da chi? C'è chi ipotizza dal suocero Denis Verdini, chi ancora da una non meglio definita «vecchia guardia». E qualcuno nelle retrovie minaccia anche di passare a Fratelli d'Italia. A stemperare gli animi arriva il fedelissimo Claudio Borghi, che con un video postato su YouTube spiega senza peli sulla lingua l'accaduto, in sostanza ammettendo anche la sua arrabbiatura per la scelta di Mattarella, ma chiarendo che Salvini più di così non poteva fare. Ancora racconta che si è arrivati alla conta dei voti, dimostrando che mentre i grandi elettori di Lega e Fratelli d'Italia hanno votato tutti la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, in Forza Italia si sono smarcati 50 votanti e tra i centristi 20 su 30. Oltre a questo il rischio che il premier Mario Draghi, impegnato in una campagna di promozione personale per il Colle, al Quirinale ci andasse davvero. Insomma, impossibile per Salvini riuscire a vincere la battaglia. E mentre sui social arrivano insulti da ogni dove, dall'interno del partito del Carroccio una riflessione sale e in qualche chat si legge: «Per la destra si apre un periodo di profonda riflessione. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?». Se la dirigenza è compatta intorno al Capitano, lo è forse meno qualche consigliere regionale che si sfoga sottobanco: «Ok, sarebbe stata dura, ma ci sono presidenti eletti alla sedicesima votazione, forse Salvini avrebbe dovuto battagliare un po' di più». Cosa certa è che qualcuno inizia a sposare la proposta del senatore Manuel Vescovi, che nel 2020 depositò un disegno di legge sul presidenzialismo, che avrebbe previsto l'elezione del presidente della Repubblica da parte del popolo. Ma a Pd e 5 stelle non conviene. Perché sanno che continuando su questa strada si riesce persino a far perdere credibilità a chi si impegna davvero e con responsabilità per il Paese.
Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza del barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.
"Altri hanno tradito e non avevo scelte", lo sfogo di Salvini. Francesco Storace su Il Tempo il 30 gennaio 2022.
Chissà quante notti in bianco per arrivare poi a dover dare il suo consenso a Sergio Mattarella. E il giorno dopo non scappa, non si rifugia in casa ma affronta le telecamere a viso aperto. Matteo Salvini sente di aver fatto ciò che doveva e poteva fare. Ed è orgoglioso dei suoi grandi elettori, «deputati e senatori, governatori e delegati regionali, tutti compatti, davvero una grande squadra». In effetti non è mancato un solo voto, non c’è stata una sola voce stonata.
Ovviamente ci sarà sempre chi si cimenta nel tiro al piccione. Come se - ragiona deluso - fosse stato lui a ordinare a mezzo gruppo parlamentare di Forza Italia di non votare Elisabetta Casellati. Ma non vuole reagire a muso duro, neppure quando legge le parole di Giorgia Meloni contro di lui in un momento di indubbia difficoltà politica. «È un’amica, non commento».
«Ho creduto fino in fondo che il centrodestra fosse unito graniticamente, ma ho creduto male perché i fatti mi hanno dato un’altra dimostrazione», racconta il leader della Lega: e fa notare che «qualcuno nel centrodestra è scomparso nel senso che la Lega ha sempre votato compatta le proposte della coalizione, qualcuno in Forza Italia e in Coraggio Italia no, mi sembra evidente e questo andrà chiarito sicuramente». Qualcosa da rimproverarsi? «Io ho lavorato per fare sintesi, la Lega ha cercato di essere collante tra chi voleva andare da una parte e chi dall’altra. Noi siamo stati centrali, e non abbiamo mai sgarrato di un millimetro».
Salvini spiega anche che cosa è successo l’ultima notte, quella in cui sembrava destinata al Quirinale Elisabetta Belloni. Su di lei c’erano Pd e Cinque stelle ed era gradita a Giorgia Meloni. E anche lui se ne era convinto. Poi la retromarcia di Enrico Letta, che ha subito l’arrabbiatura di Matteo Renzi. Al voto per Mattarella si è arrivati dopo peripezie e delusioni, probabilmente forti anche sul piano umano. Non credeva lui, invece, quando ha visto i grandi elettori di Fdi votare solitariamente per Guido Crosetto, nonostante la presentazione il giorno prima della «rosa» composta da Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. Non se lo aspettava dalla Meloni.
Poi, Forza Italia, con quei troppi voti negati alla «sua» Elisabetta Casellati. E i dubbi sull’operazione, e su chi l’avesse pilotata. Ma Salvini in quei giorni ha scelto di non litigare con quelli che considerava alleati. Giorno dopo giorno, il Pd respingeva ogni proposta per il Colle da parte del centrodestra. Voleva evitare il trasloco di Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale - e non era il solo - il premier sarebbe stato travolto dai franchi tiratori, e il governo sarebbe crollato. E voleva evitare Pierferdinando Casini, non per antipatia personale ma per un’operazione politica che non condivideva. Quali alternative credibili a Mattarella dopo tutto questo?
Nella testa del leader della Lega non frullano vendette, né risentimenti. Riflette su un’alleanza che non ha tenuto e legge amaro proprio quel che ha detto la Meloni. Forse è quel che gli ha fatto male, ma vuole lasciarsi alle spalle l’amarezza. Magari la tentazione di spedirle un messaggio, una brutta parola, ma a che serve litigare. Sarebbe uno spettacolo comunque indegno, anche se vissuto in una conversazione a due. E non è neppure il momento di scherzarci su, in queste ore non si capisce neanche l’ironia...
Bisogna già pensare al domani. «Se c’è qualcuno che nel centrodestra non si sente a suo agio il mondo è grande, se qualcuno vive di nostalgia, pensa ai minestroni, "proporzionaloni" e frittatoni, torna indietro di 40 anni, non lo fa con noi». E le elezioni del 2023? «Ci sarà chi ci sarà». Tra domani e martedì assieme a Giancarlo Giorgetti vedrà Mario Draghi. Nel governo qualcosa dovrà cambiare. Un rimpasto? E chi lo può dire, oggi, se il governo è più forte o più debole. Ma certo è che non si può continuare ad andare avanti cosi: «Ragioneremo di tutto, sicuramente la priorità della Lega, del governo, del paese, non è una legge elettorale proporzionale». Che semmai può arrivare se si arriva al tutti contro tutti nelle coalizioni.
E Giorgetti? Non ci sono problemi che non si risolvono, dice il segretario, che ha visto sinceramente vicino in questa vicenda il suo vicesegretario. Ci preoccupa l’Italia, «non è questione di rimpasto. Ma i problemi sono rilevanti. Se il governo è una squadra deve essere una squadra». «Non ci possono essere ministri che fanno e alleati che disfano».
E il partito? Non ci sarà la resa dei conti che i media rilanciano ogni giorno. Da una parte perché la Lega è saldamente nelle mani del leader e poi perché il domani va costruito insieme. Anche perché tutti sono rimasti scottati dagli alleati. Meglio rimettere a posto gli arredi che non vanno più che pensare a traslocare. Anche perché davanti ci sono nuove battaglie in cui credono tutti, a partire dai referendum sulla giustizia. La politica non si è conclusa ieri. Magari si troveranno nuove alleanze.
(ANSA il 30 gennaio 2022) - "Fra le centinaia di insulti e attacchi della stampa sinistra, questo lo voglio offrire alla vostra riflessione. Non è un attacco politico dei soliti: razzista, cretino, fascista, imbecille o simili.
No. Nell'articolo del Riformista del 29 gennaio a firma di tale Angela N. si legge di "commenti pesanti sulle frequenti necessità di Salvini di assentarsi un attimo, giusto un attimo, per poi tornare rinfrancato e pimpante".
Ho capito io quello che avete capito voi? Uscirei spesso dall'ufficio, durante le riunioni, per andare a drogarmi in bagno e tornare pimpante… Accetto tutto, ma non questo".
Lo scrive su Facebook - postando uno stralcio dell'articolo citato - il leader della Lega Matteo Salvini. "In questi giorni - scrive ancora Salvini - mi hanno accusato di essere ingenuamente leale e troppo generoso, di fare tante proposte e di fidarmi delle persone, mentre altri - da destra e sinistra - tradivano, fuggivano, dicevano solo No. Accuse che accetto, e di cui anzi vado orgoglioso.
Ma drogato proprio no: questo non fa parte della contesa politica, questo va oltre, vorrei chiedere a questi "giornalisti" di ricordarsi che fuori dai palazzi della politica ho due figli che rispettano e amano il loro papà, che con tutti i suoi difetti è per loro un modello.
Non chiedo rispetto, per qualcuno sarebbe troppo, ma almeno un po' di pudore e vergogna pensando ai bambini, questo sì. Buona domenica a voi amici, comunque la pensiate. E per la signora e il suo "giornale" invece, una bella querela e tanti soldi da dare in beneficenza ai ragazzi di San Patrignano".
Pronta la solidarietà dei gruppi leghisti di Camera e Senato: "Il vergognoso articolo apparso ieri su Il Riformista in cui si insinua che Matteo Salvini sia uscito frequentemente dal suo ufficio per andarsi a drogare in bagno è quanto di più meschino, triste e raccapricciante sia stato scritto in questi giorni.
Anche l'odio politico deve avere un limite. La droga rappresenta dramma e morte e nessuna insinuazione del genere è tollerabile. Il giornale si scusi immediatamente o mostri le prove. C'è chi gioca a inventarsi notizie per avere un briciolo di notorietà, ma su questi temi non si scherza", scrivono Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo.
(ANSA il 30 gennaio 2022) - "Gli attacchi personali, conditi da insinuazioni di basso livello, mossi nei confronti di Matteo Salvini, sono assolutamente inaccettabili. Per quanto aspro possa essere il confronto, non deve mai valicare l'ambito delle idee per colpire le persone".
Lo dichiara il governatore Massimiliano Fedriga commentando un articolo pubblicato sul Riformista nel quale si sosterrebbe, come interpreta Matteo Salvini in un post sul proprio profilo Facebook, che lo stesso segretario della Lega faccia uso di sostanze stupefacenti.
Nel suo post di un paio di ore fa, Salvini riporta una frase di un articolo pubblicato sul quotidiano il 29 gennaio in cui "si legge di 'commenti pesanti sulle frequenti necessità di Salvini di assentarsi un attimo, giusto un attimo, per poi tornare rinfrancato e pimpante'.
Ho capito io quello che avete capito voi? - chiede Salvini nel messaggio su Fb - Uscirei spesso dall'ufficio, durante le riunioni, per andare a drogarmi in bagno e tornare pimpante… Accetto tutto, ma non questo". Il segretario del Carroccio ha annunciato "per la signora (che firma l'articolo, ndr) e il suo 'giornale', una bella querela e tanti soldi da dare in beneficienza ai ragazzi di San Patrignano". (ANSA).
(ANSA il 30 gennaio 2022) - "Le insinuazioni de 'Il Riformista' su Salvini sono inaccettabili". Lo dichiara il presidente del Veneto, Luca Zaia, in relazione all'articolo pubblicato oggi dal quotidiano nel quale si legge - cita lo stesso Zaia - di "commenti pesanti sulle frequenti necessità di Salvini di assentarsi un attimo, giusto un attimo, per poi tornare rinfrancato e pimpante".
"Per chi fa politica sulla carta stampata, purtroppo, gli attacchi e gli insulti verso gli avversari sono all'ordine del giorno" aggiunge il presidente veneto. Ma quelle frasi riportate nell'articolo "sono parole inaccettabili, perché diffondono insinuazioni che lasciano volutamente libere interpretazioni anche estreme sulla condotta di una persona, fino al punto che si potrebbe pensare che ci si assenti per drogarsi".
"Questo modo di informare e scrivere ai cittadini - conclude Zaia - è da condannare fermamente, senza se e senza ma. Esprimo vicinanza a Matteo Salvini, uomo, padre e politico per bene che da sempre si batte nella lotta contro la droga".
(ITALPRESS il 30 gennaio 2022) - "Trovo inconcepibile e triste che ieri, in un retroscena che chiama in causa un commentatore anonimo, sul Riformista si insinui che Matteo Salvini abbia fatto uso di strane sostanze. È odioso costruire una infamia del genere nascondendosi dietro una fonte anonima.
È vergognoso rivolgere una accusa così grave a Matteo, che ha fatto della lotta a qualsiasi droga uno dei suoi capisaldi politici. Si deve riflettere seriamente su come i media, vivendo in una spirale competitiva permanente, possano provocare danni non solo alle singole persone - fatto gravissimo - ma anche alla qualità del dibattito politico. Il Riformista dovrebbe scusarsi". Lo afferma in una nota il governatore della Lombardia Attilio Fontana.
Siamo il giornale che più di tutti ha difeso Luca Morisi. Il Riformista non ha mai insinuato che Salvini si droghi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Gennaio 2022.
Nella Lega c’è un clima di grande tensione. E’ normale dopo la sconfitta subìta alle elezioni presidenziali. Sulla pagina facebook di Salvini fioccano i commenti polemici, spesso pieni di rabbia. Centinaia e centinaia.
In questo clima di tensione, prima Salvini, poi i capigruppo della Lega in Parlamento, poi altri esponenti hanno in diversa misura protestato per un articolo uscito due giorni fa sul Riformista, nel quale si riferiva di alcuni ragionamenti ant-Salvini scambiati tra due parlamentari leghisti in dissenso con il loro leader. Nell’articolo si presentavano questi ragionamenti come “velenosi”, quindi non gli si dava nessun peso, li si indicava solo come sintomi del malessere.
Nel comunicato diffuso dagli onorevoli Romeo e Morelli si sostiene che Il Riformista avrebbe scritto che Salvini spesso esce dal suo ufficio per andarsi a drogare in bagno. Beh, questa è una pura falsità. In nessun suo articolo Il Riformista ha parlato di droga o di bagni e neppure di ufficio di Salvini. Semplicemente abbiamo riferito di un colloquio tra due suoi parlamentari nel quale si accennava alle “frequenti necessità del segretario di assentarsi un attimo per poi tornare rinfrancato e pimpante”. Il riferimento è all’ipotesi che Salvini sia eterodiretto, e che per prendere le decisioni abbia bisogno di ricevere indicazioni e rassicurazioni dall’esterno. Questa ipotesi – assolutamente politica – è stata definita dal Riformista “velenosa”, dunque in nessun modo presentata come credibile. Il Riformista si è limitato a raccontare quanto sia infuocato il clima dentro la Lega, cosa, peraltro, largamente comprovata dalla pagina facebook dello stesso Salvini.
Non è una cosa saggia da parte di esponenti politici di rilievo, come Romeo e Morelli, attribuire ad altri – persino ai giornali – parole e cose che non sono mai state scritte.
Del resto che in quell’articolo non ci fosse nessun intento scandalistico è dimostrato dal fatto che il riferimento al colloquio tra i due leghisti non era né nel titolo, né nel sommario, né nell’occhiello. Era in tre righe nel corpo dell’articolo.
Noi non abbiamo neppure lontanamente immaginato che Salvini faccia uso di droghe. Anzi, conoscendolo un po’, lo escludiamo nel modo più assoluto. E oltretutto non abbiamo mai considerato l’uso di droghe – da parte di chi realmente le usa – un delitto o una cosa riprovevole. Siamo il giornale che più di tutti ha difeso Luca Morisi quando si è scatenata contro di lui una indegna campagna di stampa. E faremmo la stessa cosa se si aprisse una campagna contro Salvini o qualunque altro esponente o leader politico.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 30 gennaio 2022.
Confessa di sentirsi «oggi più sola nel Palazzo, ma magari fuori no». Ma non ha nessuna intenzione di «lasciare soli i milioni di italiani che votano e credono nel centrodestra - ancora maggioranza in questo Paese - che hanno diritto ad essere rispettati, considerati e rappresentati.
Oggi il centrodestra per come lo abbiamo visto non c'è più. Ma lo prometto: lo ricostruiremo». A sera Giorgia Meloni non ha ancora superato la delusione per «l'enorme occasione sprecata», la possibilità di eleggere per la prima volta al Quirinale una figura d'area. E pur «orgogliosa del mio partito, Fratelli d'Italia, che si è mosso con compattezza totale, che è entrato in questa partita con una posizione e con quella è uscito», ancora non si capacita di come «non si sia voluto nemmeno provare a vincere».
Chi non ha voluto?
«Avevamo i numeri, come maggioranza relativa, almeno per dare le carte. Ma nella coalizione molti non lo hanno voluto. I centristi di Cambiamo lo hanno in pratica dichiarato, una parte di Forza Italia non lo voleva».
Berlusconi?
«Non lo so, non l'ho sentito molto in questi giorni, se non fugacemente».
E Salvini, che voleva fare il kingmaker?
«Difficile fare il maker se rimetti lo stesso King...».
Non se lo aspettava da lui?
«No. Non l'ho capito, lo trovo incomprensibile. Ho scoperto dalle agenzie che avrebbe votato Mattarella. L'unica ipotesi alla quale tutti i leader del centrodestra avevano detto no con apparente convinzione. Ed è la seconda volta che apprendo dalle agenzie di scelte su cui sembravamo d'accordo poi totalmente disattese: prima l'ingresso di FI e Lega nel governo Draghi e ora questa».
Vi siete sentiti, chiariti?
«No. D'altronde non credo ci sia molto da chiarire».
Ma con Berlusconi e Salvini oggi siete ancora alleati?
«In questo momento no. Mi sembra che abbiano preferito l'alleanza col centrosinistra, sia per Draghi sia per Mattarella. Se per fare una prova manca un terzo indizio, quello è la legge elettorale: c'è chi cercherà di cambiarla in senso proporzionale. Se ci staranno, ci sarà poco da aggiungere, perché con il proporzionale si riproduce la palude degli ultimi governi».
Ma perché secondo lei nel centrodestra non si è voluto tentare la partita? Per strategia o paura?
«Per paura. Non solo dei partiti del centrodestra, ma di tantissimi in Parlamento. Hanno barattato sette anni di presidente della Repubblica con sette mesi di legislatura, o se vogliamo di stipendio».
O forse voi non davate garanzie o nomi giusti?
«Abbiamo presentato nomi rispettabilissimi, con tutte le carte in regola. Ma qualunque candidato di centrodestra è considerato a sinistra inaccettabile o impresentabile. Hanno un complesso di superiorità non democratico.
È stato assurdo sentire dire a Enrico Letta che qualunque candidato avessimo proposto avrebbe "fatto la fine di Berlusconi". Io esigo rispetto per i nostri elettori e la cultura che rappresentiamo».
Voi però parlavate di maggioranza relativa, ma l'unica volta che avete posto un nome unitario al voto, quello della Casellati, avete preso 382 voti. Una minoranza.
«È vero. Siamo stati noi a farci male. Anche se in quel caso FdI ha votato compatta e anche la Lega ha votato bene. In qualche modo avevano ragione gli avversari che dicevano che sulla carta eravamo maggioranza, ma non nel voto sul presidente...».
Quindi alla fine eravate impantanati...
«Questo Parlamento è impantanato da mesi su qualsiasi cosa, non rappresenta più il Paese, come abbiamo chiesto noi andava sciolto mesi fa. Ma se ci fosse stata l'elezione diretta del presidente, su cui noi abbiamo presentato una proposta di legge anche online, ci sarebbero voluti comunque cinque minuti per avere un presidente della Repubblica. Col voto degli italiani».
Mattarella è comunque il politico più amato dagli italiani. Perché per lei è inaccettabile la sua rielezione?
«Al di là del fatto che non ho condiviso alcune sue scelte politiche, è inaccettabile perché è l'ennesima grave anomalia: abbiamo un premier che non ha avuto alcun mandato popolare, un capo dello Stato rieletto quando la Costituzione non esclude formalmente il bis solo per permettere che possa avvenire in caso di emergenze straordinarie, e questa non lo è.
E aggiungo che sono meravigliata che Mattarella, che aveva anche fatto sapere di non volere un secondo mandato, lo abbia accettato. E pure con un'elezione di risulta, un ripiego al settimo scrutinio, non al primo. Al suo posto non lo avrei fatto, anche per rispetto alla decisione presa, alle modalità, alla carica».
Ora che succede del fu centrodestra?
«Va ricostruito. Non mi dimentico che nella Nazione milioni di elettori lo chiedono. Inizio dal mio partito, percepisco la solitudine di tanta gente che non ha compreso, che non voleva finisse così».
Si può ricostruire solo da destra, riallacciando i rapporti con la Lega, ma senza i centristi, FI, un baricentro moderato?
«Ma noi non siamo solo destra, siamo conservatori, e non di poltrone, come altri... FdI ha già allargato il suo campo d'azione. E i "centristi" non sono una cosa a sé. In tutte le grandi democrazie c'è un partito conservatore e uno progressista, in cui ci sono esponenti che vanno da un estremo all'altro dello schieramento. Quello che negli altri Paesi non esiste è un "centro" trasformista, che può formarsi col proporzionale, spregiudicato e pronto a stare ovunque dove si governa. Questo non può esserci nel nuovo centrodestra che ricostruiremo».
Governate in molte regioni e città: che succederà?
«Sul territorio le dinamiche sono diverse, sono modelli che funzionano. Vedremo nelle prossime ore che succederà, ma ricostruiremo quello che oggi si è rotto, in modo migliore. È una promessa, e io sono una che, come si è visto, mantiene la parola data».
Da liberoquotidiano.it il 30 gennaio 2022.
"Non è vero quel che dice Giorgia Meloni". Antonio Tajani, ospite di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più su Rai 3, smentisce la sua alleata sulla candidatura di Sergio Mattarella, rieletto presidente della Repubblica ieri sera all'ottavo scrutinio. Il numero due di Forza Italia ha spiegato che il centrodestra non ha mai escluso il capo dello Stato uscente a priori.
Cosa che invece ha dichiarato la leader di Fratelli d'Italia. "Mattarella era l'ultima ipotesi, se ci fosse stato l'accordo tra tutti avremmo votato per Casini perché è un politico, indicato dalla sinistra e non da noi - ha chiarito Tajani -. Tramontata l'ipotesi di un accordo, non potevamo accettare un tecnico. Due tecnici avrebbero dimostrato che in Italia la politica non conta nulla. Mattarella non è un commissariamento della politica, è una scelta".
Parlando invece della possibilità di un rimpasto nel governo, l'ex presidente del Parlamento europeo è stato molto chiaro: "Non abbiamo proposto il cambiamento di alcun ministro o sottosegretario. Se la Lega vuole sostituire un ministro, ne parlino col presidente del Consiglio, vedano loro. Per noi vanno bene quelli che abbiamo. Abbiamo sempre detto in tutte le assemblee che Forza Italia era soddisfatta del lavoro che facevano i tre ministri, il viceministro e i cinque sottosegretari".
Infine, sulla carta Elisabetta Belloni, lanciata la sera prima della settima votazione, Tajani ha ribadito: "A Salvini avevamo detto chiaramente che noi non potevamo andare sulla figura della signora Belloni o su altre figure tecniche. E non per un giudizio sulle persone, ma perché volevamo un politico al Quirinale".
Giorgia Meloni, la foto-sfottò sul Quirinale: "Il perfetto riassunto degli ultimi giorni". Libero Quotidiano il 31 gennaio 2022
Giorgia Meloni non nasconde una certa indignazione per come è finita la partita per il Quirinale. E così, tra le ultime uscite, spunta su Twitter una foto che ha ben poco bisogno di didascalie. Nell'immagine diffusa dalla leader di Fratelli d'Italia si vede una sfilza di parlamentari con in mano le poltrone e sotto un "grazie presidente". Anche il commento non ci va per il sottile. "Il perfetto riassunto degli ultimi giorni", scrive la Meloni.
Un vero e proprio attacco a quei parlamentari che hanno permesso il Mattarella bis. Tra questi ci sono anche gli alleati di centrodestra su cui la Meloni si è già ampiamente espressa. "Le posizioni di tutti gli altri cambia, la nostra no. Ora bisogna ricominciare daccapo. Bisogna rifondare il centrodestra daccapo. Il centrodestra parlamentare non esiste. Il centrodestra è maggioranza nel Paese e noi lo vogliamo rappresentare", commentava appena Roberto Fico, presidente della Camera, annunciava la rielezione di Sergio Mattarella.
Ancora una volta la Meloni non nega che dal centrodestra, ossia da Matteo Salvini e Silvio Berlusconi si aspettava "un po' di coraggio in più. Questa cosa mi fa impazzire, mi fa impazzire che si sia rinunciato prima di tentare davvero. Mi dispiace ma noi di FdI abbiamo fatto di tutto". Una dura accusa che vede d'accordo anche Fabio Rampelli: "Il centrodestra deve rifondarsi, darsi nuove regole, fare scelte comprensibili per il popolo italiano. La decisione di Salvini e Berlusconi di convergere su un Mattarella bis", ha tuonato il vicepresidente alla Camera di FdI.
L'aria che tira, Silvio Berlusconi al Quirinale: "A dire di no è stata Giorgia Meloni": il centrodestra finisce qua? Libero Quotidiano il 31 gennaio 2022.
Si parla ancora di Quirinale a L'Aria Che Tira, il programma di La7 condotto da Myrta Merlino. In collegamento nella puntata di lunedì 31 gennaio c'è Maurizio Gasparri. Il senatore di Forza Italia si lascia andare a un lungo sfogo, raccontando anche un retroscena su quanto accaduto con la candidatura, poi ritirata, di Silvio Berlusconi. "Forza Italia ha tenuto la stessa posizione di sempre: Mario Draghi doveva rimanere a Palazzo Chigi e al Colle non ci doveva andare un tecnico". Ma a quel punto è la conduttrice a incalzare Gasparri, chiedendo di Elisabetta Casellati che in Aula non è riuscita a ottenere neppure tutti i voti del centrodestra.
"Allora - replica il senatore -, è una cosa che va approfondita perché sicuramente sono mancati voti del centrodestra, alcuni di Coraggio Italia e altri nostri. Però - e qui arriva il retroscena -, la sera prima si era deciso di riproporre il nome di Berlusconi ma qualcuno non ha voluto". E ancora: "Dico la verità, tutta la verità. Al nome del leader azzurro mi pare che Giorgia Meloni ha detto no".
D'altronde la numero uno di Fratelli d'Italia a riguardo era stata chiara: "Penso che se anche se Silvio Berlusconi decidesse di non concorrere o si stabilisse che, essendo una figura molto caratterizzata... se lui dovesse rinunciare comunque il centrodestra ha il diritto e dovere di avanzare una proposta, più proposte" . In ogni caso secondo Gasparri il nome di Berlusconi non sarebbe passato perché grillini e dem non avrebbero partecipato al voto.
Meloni contro tutti. Il vizio della Destra di chiedere solo il voto. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 31 gennaio 2022.
Nel gennaio del 2021, un anno fa, durante la presentazione del governo Draghi, la presidente di Fratelli d’Italia si lasciò prendere dall’ira e usando anche le mani e le braccia espresse insofferenza e cattivi pensieri. Interpretando il sentire di parecchi, il giornalista primatista dei social, Andrea Scanzi, la qualificò come “pescivendola”.
Più interessante la reazione, naturalmente social, che portò immediatamente Giorgia Meloni da un grossista di pesce e qui, raccolta da terra una cassetta di orate e spigole, sotto le luci al neon di quel gelido stanzone, l’unica esponente dell’opposizione parlamentare, con aria di sfida, si mise a gridare: “Pesce fresco! Pesce fresco! Avvicinatevi, ottimi prezzi!”.
Non si alzerà il sopracciglio radical-chic perché l’odierna politica vive di questi spettacoli. Proprio ieri oltretutto, sempre sui suoi profili, Meloni è apparsa con un bel maglione bianco e alle spalle una candida orchidea. Con garbata vivacità, per 32 minuti, forse un po’ troppi, ha raccontato come il centrodestra abbia sbagliato tutto e la sua incredulità quando Salvini si è convertito al Mattarella bis. In fondo, nel gran circo quirinalizio, lei si è mantenuta in seconda fila e ha fatto quello che ci si aspettava, compreso dire, pressoché unica, che i deputati hanno rieletto Mattarella per salvare stipendi e pensioni. In tal modo è apparsa coerente, essendo la coerenza il must, l’obbligo concettuale, su cui lavora il suo giovanissimo social media manager Tommaso Longobardi, oltre sul lato pop: remix, autobiografie, animali, frutta, bamboline e pupazzetti.
Illustri scienziati della politica, Dahl, Duverger, Sartori, hanno passato la vita a studiare l’Opposizione riconoscendone l’utilità nel funzionamento delle istituzioni. Un successivo filone di studiosi è arrivato a chiedersi se, oltre che elemento costitutivo della teoria democratica, il sistema abbia bisogno non solo di una semplice minoranza quanto di un “forte” opposizione.
Ora, è evidente che la crisi parallela della Lega e dei cinque stelle apre da oggi grandi orizzonti a Fratelli d’Italia. Ma per quanto la politologa Sofia Ventura sostenga che Meloni sia più “brava” e “cattiva” del “bamboccione” Salvini, il punto cruciale è che fare l’opposizione, ma farla sul serio, è maledettamente difficile; oltre a comportare la più grave responsabilità.
Nel congedarsi dai suoi fan, poco prima di schioccargli un bacio, ieri Meloni ha fatto il gesto di rimboccarsi le maniche. Sarebbe interessante capire se ha compreso che tocca a lei spalare le macerie del centrodestra. O se restando in ambito ittico, non sia tentata da quella che a destra è da decenni la peggiore attitudine e abitudine: la pesca delle occasioni. In questo senso Giorgio Almirante, nella cui stanza Giorgia ha voluto insediarsi a via della Scrofa, chiedeva sempre e comunque le elezioni. Meloni pure, con l’aggiunta di qualche Atreju per finire sui tg e di un patriottismo abbastanza innocuo, quando non sono i presepi e gli immigrati.
Vero è che il tempo fa vedere meglio ciò che prima sembrava fasullo. Ma Gianfranco Fini, dopo tutto, qualche sforzo teorico a suo modo l’aveva pur fatto; mentre l’impressione è che Meloni, cui Galli della Loggia ha riconosciuto “vivida intelligenza politica e personale simpatia (che in politica conta, eccome!)”, più che un partito capace di fare opposizione si ritrovi una palla al piede. La faccenda oltrepassa il buon rapporto con Enrico Letta e il tenero dileggio con cui immancabilmente li si assimila a Vianello e alla Mondaini. È qualcosa di più. La dissoluzione della classe politica non si ferma a chiacchiere e siparietti. Nel salvare il salvabile tocca guardare fuori e lontano – magari anche ricordandosi che quando un professore un po’ chiacchierone le diede ancora della pescivendola, e anche peggio, il presidente della Repubblica volle esprimerle di persona la sua vicinanza, anche perché l’opposizione è una cosa seria.
La candidatura di Belloni e il baco del sistema. Carlo Bonini su La Repubblica il 31 gennaio 2022.
Tra le lezioni di una settimana che il Paese non dimenticherà ce n’è una, per certi aspetti persino più rivelatrice di altre, che ha che fare con la qualità della nostra democrazia e l’integrità di una delle sue infrastrutture più delicate: gli apparati di sicurezza e intelligence. Con l’urgenza di metterla al riparo dal collasso della cultura politica della nostra classe dirigente. E con un baco del nostro sistema che va rapidamente corretto.
Che nella notte di venerdì scorso, intorno al nome di Elisabetta Belloni, direttore generale del Dis, il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, il vertice dei nostri Servizi (e prima di lei a quello di Giampiero Massolo, anche lui ex direttore del Dis), si sia consumata l’avvilente coda di un “casting” che ha degradato la scelta del candidato alla presidenza della Repubblica alle selezioni per un talent rappresenta già in sé, un catastrofico danno per la reputazione e i delicatissimi equilibri che regolano gli interna corporis dei nostri apparati. E che alla trovata abbiano lavorato con spregiudicato entusiasmo e con la collaborazione di un condannato in via definitiva detenuto ai domiciliari (Denis Verdini), un ex ministro dell’interno e vicepresidente del consiglio (Matteo Salvini) un altrettanto spregiudicato ex presidente del Consiglio (Giuseppe Conte), e la leader di una destra con ambizioni di governo (Giorgia Meloni), senza avvertire, neppure per un istante, l’enormità di un passaggio senza soluzione di continuità di un’eccellente civil servant, quale la Belloni è, dal vertice dei Servizi al ruolo di garante dell’unità nazionale e della Costituzione, è il segnale della catastrofe del rapporto tra politica e apparati. Orfana di legittimazione, la politica, che un giorno sì e l’altro pure rivendica il proprio primato e riscatto, sceglie infatti la pericolosissima scorciatoia che, nella disperata ricerca surrogata di autorevolezza e competenza, porta a travolgere il confine che deve separare e proteggere la “terzietà” degli apparati di sicurezza dal gioco politico. Ad alimentare un pericoloso, opaco e tossico milieu tra chi detiene per statuto notizie coperte da segreto e attinenti la sicurezza nazionale e coloro a cui quegli apparati rendono conto. Parliamo di chi, nelle istituzioni, siede per volontà popolare e con libertà di mandato.
Non erano del resto mancati segnali in questo senso ben prima della settimana scorsa. Sarebbe sufficiente ricordare l’incestuoso rapporto coltivato da Matteo Salvini e Giuseppe Conte con una figura come l’ex dirigente del Dis Marco Mancini (lo 007 che per una vita ha sussurrato all’orecchio della politica, cui era stata promessa la vicedirezione dell’Aise, il nostro spionaggio estero, e spedito in un autogrill della Roma-Firenze nei giorni della crisi del governo Conte per sondare le intenzioni di Matteo Renzi). O la disinvoltura nell’interpretazione del suo ruolo dell’ex direttore del Dis (e predecessore di Elisabetta Belloni) Gennaro Vecchione che di fronte al Copasir (il comitato di controllo parlamentare sui Servizi) discettava di emendamenti alla legge di bilancio per portare a casa, fuori da ogni cornice normativa, una fondazione per la cyber security. Per non dire dell’inedito di un eccellente direttore dell’Aise, Luciano Carta, transitato senza soluzione di continuità dal vertice del Servizio a Leonardo.
E’ dunque necessario e urgente, di fronte all’incapacità di self restraint della politica, all’evidente rottura di un argine cruciale della dialettica democratica, che il Parlamento metta mano alla legge di riforma dei nostri Servizi colmando un vuoto esiziale e non più sostenibile. Disciplinando dunque con cura, intelligenza, e spirito bipartisan, un regime di ineleggibilità e incompatibilità degli appartenenti o ex appartenenti ai nostri apparati di sicurezza e intelligence. Il Pd, attraverso il suo responsabile sicurezza e membro del Copasir, Enrico Borghi, ha annunciato ieri un’iniziativa in questo senso. E’ una buona notizia. Che non deve essere lasciata cadere. Perché se è vero che la salute di una democrazia si misura anche e soprattutto dalla sua capacità di manutenere e sorvegliare il suo sistema di checks e balances, di controllo ed equilibrio tra istituzioni e corpi dello Stato, questo è il momento per farlo. Con lo stesso senso di urgenza che, nei mesi scorsi, ha accompagnato la discussione di fronte a un altro baco di sistema, quello che non prevede l’incompatibilità tra l’esercizio della funzione giudiziaria e quello di rappresentante eletto nei consigli comunali.
Darsi delle regole, lì dove le regole mancano, non è mai una cattiva idea. A maggior ragione quando le regole servono a presidiare snodi decisivi nella vita delle istituzioni. Darsele alla vigilia di uno scorcio di legislatura che comincia con gli auspici della settimana appena trascorsa diventa un imperativo.
Marco Travaglio durissimo contro Luigi Di Maio: "Mia sorella? Ecco perché va espulso dal M5s". Libero Quotidiano il 30 gennaio 2022
Il nome di Elisabetta Belloni come possibile candidata per il Quirinale ha letteralmente spaccato a metà il Movimento 5 Stelle, con Giuseppe Conte da una parte e Luigi Di Maio dall'altra. Mentre il primo, insieme a Matteo Salvini, decideva di spiattellare l'ipotesi Belloni ai giornalisti la sera prima della votazione, il secondo sosteneva invece la necessità di non buttare in pasto ai media un alto funzionario pubblico. Il rischio, infatti, era quello di bruciarlo. Cosa che poi è successa.
L'ex capo politico del Movimento, allora, se l'è subito presa con Conte, criticando il suo modo di fare. Un attacco non inaspettato, anche perché già nei giorni precedenti Di Maio si era raccomandato sulla Belloni, considerata da lui come una sorella dopo i mesi trascorsi assieme alla Farnesina. Marco Travaglio non ha preso bene questa critica da parte del ministro degli Esteri. E non ha mancato di farglielo sapere nel suo editoriale sul Fatto Quotidiano: "Di Maio è il Renzi dei 5 Stelle. Beniamino dei giornaloni (quelli che gli davano del bibitaro), ma non più degli elettori (vedi insulti sui suoi social), ha giocato fin da subito per Draghi (che un anno fa voleva 'uccidere in Parlamento'), contribuendo a mandarlo al massacro, contro il suo leader e il suo movimento".
Parole molto dure quelle di Travaglio, che poi ha continuato: "Ha incontrato, sentito e promesso voti a tutti, anche a quelli che quattro anni fa non voleva vedere neanche in cartolina. Ha definito 'mia sorella' la Belloni, poi ha fatto di tutto per impallinarla. Per molto meno, se fosse ancora il capo dei 5Stelle, si sarebbe già espulso". Al momento, insomma, tra i grillini non si respira proprio una bella aria.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 30 gennaio 2022.
[...] Di Maio. È il Renzi dei 5Stelle. Beniamino dei giornaloni (quelli che gli davano del bibitaro), ma non più degli elettori (vedi insulti sui suoi social), ha giocato fin da subito per Draghi (che un anno fa voleva "uccidere in Parlamento"), contribuendo a mandarlo al massacro, contro il suo leader e il suo movimento.
Ha incontrato, sentito e promesso voti a tutti, anche a quelli che quattro anni fa non voleva vedere neanche in cartolina. Ha definito "mia sorella" la Belloni, poi ha fatto di tutto per impallinarla. Per molto meno, se fosse ancora il capo dei 5Stelle, si sarebbe già espulso.
Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 30 gennaio 2022.
Una tregua durata una giornata e poi di nuovo guerra. E senza mezze misure. Il Movimento non conosce pace. Dimaiani e contiani si punzecchiano tutto il giorno. Un ping pong di stoccate. «Belloni? Non la abbiamo eletta per colpa di chi ha manie di protagonismo».
«I piani di chi voleva Draghi al Colle sono falliti». Poi si scontrano direttamente i pesi massimi. Giuseppe Conte punta Di Maio dopo le parole sulla direttrice del Dis: «Ci saranno occasioni nella comunità del M5s per tutti i chiarimenti necessari. Sono state ore febbrili, finora non c'è stato modo di chiarire il significato di alcune uscite».
Il ministro degli Esteri in serata si fa sentire: «Alcune leadership hanno fallito, hanno alimentato tensioni e divisioni». Poi l'affondo. «Nel Movimento 5 Stelle serve aprire una riflessione interna».
Conte preferisce non replicare all'attacco diretto, ma chi è vicino al leader fa presagire che «presto» ci sarà la resa dei conti tra i due. Fonti autorevoli contiane, invece, ribattono: «Si tratta di un gesto di disperazione dopo la sconfitta di non aver portato Draghi al Quirinale». I vertici intanto lavorano a una «fase due»: rilancio del ruolo di governo, legge elettorale, oltre al confronto con alleati e big M5S.
Il Movimento dopo l'elezione del capo dello Stato prova voltare pagina. Conte nei prossimi mesi cercherà di costruire il percorso in vista delle Politiche del 2023 e di rilanciare l'azione dei Cinque Stelle in seno all'esecutivo. Non a caso il presidente M5S già annuncia: «Con Draghi ho chiesto un chiarimento. Non possiamo limitarci ad assicurare la stabilità del governo, dobbiamo essere promotori di un confronto per siglare un patto per i cittadini in cui individuare quali possano essere le priorità» del Paese. Il no all'investitura del premier al Colle è vissuto come un risultato, ma la rielezione di Mattarella lascia strascichi anche nei rapporti con il Pd, ora ai minimi termini.
Le ultime ore della trattativa sono condite da retroscena e voci. Si parla di un asse nella notte con Lega e Fratelli d'Italia e altri (con 561 voti e più a disposizione sulla carta) per provare il blitz su Elisabetta Belloni nonostante i veti dem. «Ma no, solo tattica e controtattica», minimizzano nel Movimento. «Non diciamo fesserie», commenta Conte. Così come si racconta di un tentativo di un'ala del Movimento di sgonfiare al penultimo scrutinio le preferenze per Mattarella.
Indiscrezioni senza conferma, che sono il preludio alle dichiarazioni che seguiranno in giornata. Intanto, i parlamentari festeggiano: molti sostengono che ha vinto la linea del gruppo e che questo deve essere un segnale per il futuro del Movimento. Ma a tenere banco tra deputati e senatori è anche il rapporto - scricchiolante - con i dem. Viene contestata la lettura di un Pd vincente: «Volevano Draghi al Colle e hanno perso». I nodi riguardano soprattutto la tenuta della coalizione dopo i sospetti e le tensioni su Belloni. «Non ci faremo mettere i piedi in testa dal Pd», dice un grande elettore. «Che vadano pure da soli, noi non abbiamo poltrone da perdere».
L'idea è quella di rilanciare presto, già in primavera, la riforma della legge elettorale con il ritorno al proporzionale. Il clima è teso. Dai vertici del M5S si riannodano le trame della giornata di venerdì e filtra l'indiscrezione che durante la trattativa tra i leader sia stata sottoposta a Matteo Salvini una lista di tre nomi, tra cui Belloni e Severino, lista che aveva avuto il placet di Leu e Pd. «Quando Salvini ha dichiarato di essere d'accordo sulla candidatura di una donna al Quirinale, Conte ha accolto con favore questa disponibilità a nome del fronte progressista», spiegano nel M5S.
E argomentano: «Successivamente, poi, è stato il Pd, e in particolare Guerini, che si è messo di traverso e ha scelto di defilarsi». Tuttavia, ai piani alti dei Cinque Stelle si dicono convinti che «nelle prossime settimane la situazione si chiarirà».
Dopo le accuse la replica dell'ex premier: "Era anche lui in cabina di regia". Conte e Di Maio alla resa dei conti, le ragioni della rottura e il ruolo di Di Battista. Redazione su Il Riformista il 30 Gennaio 2022.
Conte e Di Maio separati in casa. Lo erano già da tempo, secondo alcuni rumors, ma con il Mattarella bis e la gestione della scellerata settimana della politica italiana la frattura è stata definitivamente cristallizzata. Prima le accuse del ministro degli Esteri, che ieri sera, in contemporanea con le prime parole del “nuovo” presidente della Repubblica, aveva accusato, senza fare nomi alcuni “leader” perché “hanno fallito” per poi annunciare che anche “nel Movimento va aperta una riflessione interna”.
A distanza di alcune ore, arriva la replica di Giuseppe Conte, capo politico del Movimento. Intercettato sotto casa dai cronisti, l’ex premier dichiara: “Di Maio parla di fallimento” di alcune leadership. “Se ha delle posizioni le chiarirà perché anche lui era in cabina di regia. Ne ha preso parte e chiarirà i suoi comportamenti. Siamo una comunità grande che può affrontare le discussioni”.
Sul chiarimento chiesto da Di Maio, Conte rivendica: “L’ho chiesto prima io e ci sarà senz’altro. Di Maio avrà modo di chiarire il suo operato e la sua agenda”. Operato che è sembrato non proprio in linea con le decisioni adottate dall’ex premier. Lo scontro è degenerato dopo la candidatura, concordata con Salvini, Meloni e Letta (che poi ha fatto retromarcia dopo i malumori interni al Pd) di Elisabetta Belloni, la numero uno dei servizi segreti italiani bruciata nel giro di poche ore da Renzi e dallo stesso Di Maio (“Trovo indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso”).
Ma già in precedenza, nel corso dell’imbarazzante settimana dei partiti politici, Conte e Di Maio viaggiavano su binari diversi, con quest’ultimo che nel tempo, anche per il ruolo istituzionale che ricopre, avvicinatosi più al premer Draghi e a posizioni moderate.
In soccorso di Conte arriva anche Alessandro Di Battista, sempre più vicino al ritorno alla politica attiva (manca poco più di un anno alle elezioni). L’ex grillino, i cui rapporti con Di Maio sono precipitati da tempo, difende il capo politico del Movimento: “Da anni è necessaria una riflessione politica all’interno del Movimento ma è vigliacco mettere oggi sul banco degli imputati l’ultimo arrivato che al netto d’idee diverse su alcune questioni considero persona perbene e leale”.
Parole che vengono accolte positivamente da Conte: “Stimo Alessandro Di Battista. E’ una persona genuina, possiamo avere diverse opinioni politiche, ma lo rispetto e lo stimo. In politica, la qualità di essere persona perbene è importante per garantire che i traguardi siano ambiziosi, che ci sia l’etica pubblica. Ma essere perbene non è sufficiente. La politica deve esprimere delle battaglie e occorre anche tanta determinazione e coraggio”.
(ANSA il 30 gennaio 2022) - "Decisioni in cabina di regia? Non si è mai parlato di fare annunci roboanti su presunti accordi raggiunti con Pd e Lega, oggi smentiti anche dal segretario dem Letta. Non si provi a scaricare le responsabilità su altri. È chiaro che ci sono diversi aspetti che vanno chiariti". Così il ministro degli Esteri del M5s, Luigi Di Maio.
Da corriere.it il 30 gennaio 2022.
La rielezione di Sergio Mattarella, che ha avuto un’accelerazione con il fallimento dell’opzione Belloni su cui i pentastellati puntavano, continua ad avere ripercussioni nelle forze politiche.
Oltre ad avere spaccato il centrodestra «che ora deve essere ricostruito» (copyright Giorgia Meloni), sta creando una frattura anche all’interno del Movimento 5 Stelle, dove sempre più evidente è la frattura tra le due anime, quella che guarda al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ex capo politico del Movimento; e quella che fa riferimento a Giuseppe Conte, oggi presidente.
Quest’ultimo è al centro delle polemiche per la conduzione della trattativa sul Quirinale e, soprattutto, per il suo epilogo che ha lasciato insoddisfatti molti nella galassia pentastellata.
Di Maio ha parlato oggi della necessità di «aprire una riflessione politica interna». E sulla stabilità del governo ha commentato caustico: «Alcune leadership hanno fallito, hanno creato tensioni. Invece noi dobbiamo lavorare per unire».
Piccata la replica dell’ex premier, intercettato dai cronisti mentre usciva di casa: «Se Di Maio ha delle posizioni le chiarirà, perché lui era in cabina di regia, come ministro l’ho fatto partecipare. Chiarirà i suoi comportamenti, ma non a Conte, agli iscritti». E ha aggiunto: «Il M5S non è Conte e non è Di Maio, è una comunità di iscritti che partecipa attivamente. È giusto render conto sempre del nostro operato e confrontarsi internamente».
Nel botta e risposta si inserisce anche Alessandro Di Battista, ex deputato e ormai sempre più osservatore distaccato delle vicende del Movimento. Che in questo caso, tuttavia, prende le parti di Conte: «È da anni che è necessaria una riflessione politica all’interno del movimento, ma è da vigliacchi mettere sul banco degli imputati l’ultimo arrivato che, al netto di idee diverse su alcune questioni, considero persona perbene e leale».
(ANSA il 30 gennaio 2022) - Dopo la corsa per Quirinale "occorre un chiarimento politico" all'interno del Movimento 5 Stelle per "capire le motivazioni che hanno fatto emergere comportamenti non lineari".
Così il vicepresidente dei pentastellati Riccardo Ricciardi a La Repubblica. Le accuse sono rivolte in particolare all'ex capo politico Luigi Di Maio.
"Dovrà rendere conto al Movimento di alcuni passaggi", afferma Ricciardi, il quale ribadisce che "c'è una piccola minoranza con i quali dovremo chiarire alcuni passaggi".
Se "ci sono gruppi che ritengono di fare politica dentro i palazzi, questo non rappresenta il vero M5S", afferma il vicepresidente. Secondo Ricciardi "il Movimento è uno e Conte ha una legittimazione forte degli iscritti".
Riguardo all'esito delle votazioni, il cinquestelle si dice soddisfatto. "Il nostro obiettivo era garantire la stabilità di governo". "Mattarella è sempre stato sul tavolo e abbiamo contribuito a farlo crescere di voto in voto con una chiara regia", sostiene Ricciardi.
Di Maio e Conte, scambio al veleno: nel Movimento 5 stelle parte il processo al capo. Emanuele Buzzi su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2022.
Il ministro: certe leadership hanno fallito, serve una riflessione interna. L’ex premier: le parole di Luigi? Arriverà il momento per i chiarimenti.
Una tregua durata una giornata e poi di nuovo guerra. E senza mezze misure. Il Movimento non conosce pace. Dimaiani e contiani si punzecchiano tutto il giorno. Un ping pong di stoccate. «Belloni? Non la abbiamo eletta per colpa di chi ha manie di protagonismo». «I piani di chi voleva Draghi al Colle sono falliti». Poi si scontrano direttamente i pesi massimi. Giuseppe Conte punta Di Maio dopo le parole sulla direttrice del Dis : «Ci saranno occasioni nella comunità del M5s per tutti i chiarimenti necessari. Sono state ore febbrili, finora non c’è stato modo di chiarire il significato di alcune uscite».
Il ministro degli Esteri in serata si fa sentire: «Alcune leadership hanno fallito, hanno alimentato tensioni e divisioni». Poi l’affondo. «Nel Movimento 5 Stelle serve aprire una riflessione interna». Conte preferisce non replicare all’attacco diretto, ma chi è vicino al leader fa presagire che «presto» ci sarà la resa dei conti tra i due. Fonti autorevoli contiane, invece, ribattono: «Si tratta di un gesto di disperazione dopo la sconfitta di non aver portato Draghi al Quirinale».
I vertici intanto lavorano a una «fase due»: rilancio del ruolo di governo, legge elettorale, oltre al confronto con alleati e big M5S. Il Movimento dopo l’elezione del capo dello Stato prova voltare pagina. Conte nei prossimi mesi cercherà di costruire il percorso in vista delle Politiche del 2023 e di rilanciare l’azione dei Cinque Stelle in seno all’esecutivo. Non a caso il presidente M5S già annuncia: «Con Draghi ho chiesto un chiarimento. Non possiamo limitarci ad assicurare la stabilità del governo, dobbiamo essere promotori di un confronto per siglare un patto per i cittadini in cui individuare quali possano essere le priorità» del Paese. Il no all’investitura del premier al Colle è vissuto come un risultato, ma la rielezione di Mattarella lascia strascichi anche nei rapporti con il Pd, ora ai minimi termini.
Le ultime ore della trattativa sono condite da retroscena e voci. Si parla di un asse nella notte con Lega e Fratelli d’Italia e altri (con 561 voti e più a disposizione sulla carta) per provare il blitz su Elisabetta Belloni nonostante i veti dem. «Ma no, solo tattica e controtattica», minimizzano nel Movimento. «Non diciamo fesserie», commenta Conte. Così come si racconta di un tentativo di un’ala del Movimento di sgonfiare al penultimo scrutinio le preferenze per Mattarella. Indiscrezioni senza conferma, che sono il preludio alle dichiarazioni che seguiranno in giornata.
Intanto, i parlamentari festeggiano: molti sostengono che ha vinto la linea del gruppo e che questo deve essere un segnale per il futuro del Movimento. Ma a tenere banco tra deputati e senatori è anche il rapporto — scricchiolante —con i dem. Viene contestata la lettura di un Pd vincente: «Volevano Draghi al Colle e hanno perso». I nodi riguardano soprattutto la tenuta della coalizione dopo i sospetti e le tensioni su Belloni.
«Non ci faremo mettere i piedi in testa dal Pd», dice un grande elettore. «Che vadano pure da soli, noi non abbiamo poltrone da perdere». L’idea è quella di rilanciare presto, già in primavera, la riforma della legge elettorale con il ritorno al proporzionale.
Il clima è teso. Dai vertici del M5S si riannodano le trame della giornata di venerdì e filtra l’indiscrezione che durante la trattativa tra i leader sia stata sottoposta a Matteo Salvini una lista di tre nomi, tra cui Belloni e Severino, lista che aveva avuto il placet di Leu e Pd. «Quando Salvini ha dichiarato di essere d’accordo sulla candidatura di una donna al Quirinale, Conte ha accolto con favore questa disponibilità a nome del fronte progressista», spiegano nel M5S. E argomentano: «Successivamente, poi, è stato il Pd, e in particolare Guerini, che si è messo di traverso e ha scelto di defilarsi». Tuttavia, ai piani alti dei Cinque Stelle si dicono convinti che «nelle prossime settimane la situazione si chiarirà».
(Adnkronos il 31 gennaio 2022) - "Stiamo facendo le opportune verifiche per capire da dove parte la campagna di tweet-bombing contro Di Maio". È quanto affermano, parlando con l'Adnkronos, gli esponenti M5S vicini al titolare della Farnesina, i quali, alla domanda su un possibile 'fuoco amico', aggiungono: "Speriamo di no, sarebbe molto grave".
Da adnkronos.com il 31 gennaio 2022.
Lo scontro tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio si sposta sui social a colpi di tweet. Nelle ultime ore è entrato nelle tendenze di Twitter l'hashtag #DiMaioOut, con cui molti utenti stanno chiedendo la 'cacciata' del ministro degli Esteri dal Movimento 5 Stelle, accusandolo di aver 'tramato' contro il leader Conte nella partita per il Quirinale. Si tratta di una sommossa 'spontanea' o di un'operazione studiata a tavolino?
Per Pietro Raffa, esperto di comunicazione social e amministratore delegato della 'MR & Associati Comunicazione', la risposta è semplice: "E' un tweet-bombing contro Di Maio". "Ho effettuato un'analisi quantitativa e qualitativa dei tweet #DiMaioOut: sono andato a vedere quante persone avevano utilizzato l'hashtag, si tratta di 289 account. E' chiaramente un'operazione studiata, che viene fatta da chi vuole modificare la percezione su alcuni temi", spiega Raffa all'Adnkronos.
"Il tweet-bombing funziona così: ci sono profili 'bot', falsi, coordinati da una persona: un argomento utilizzato da pochi soggetti finisce così nelle tendenze nazionali di Twitter. L'effetto è dare la sensazione che un tema sia molto più discusso di quanto in realtà lo sia. Ho visto che circa la metà di questi profili twittava contro Di Maio dall'America, un po' dall'America del Nord e un po' da quella del Sud.
Questi utenti assumono il tipico comportamento dei profili fake: producono un numero troppo elevato di tweet sugli argomenti discussi. E' probabile che ci sia qualcuno dietro che ha deciso di fare questa operazione. Si tratta inoltre di profili che in passato intervenivano in altri Stati su altri temi. Ad esempio risultavano molto attivi in Francia, per sostenere le posizioni dei gilet gialli, ma anche in Germania a sostegno dei partiti dell'ultradestra", aggiunge l'esperto. (di Antonio Atte)
"Nel M5S vige purtroppo la regola 'o sei con me o sei contro di me'. Tutto così si riduce a tifoseria comunicativa, tutto sta nel fare uscire la notizia prima degli altri, 'intestarsela', gestire la comunicazione in maniera unilaterale e zero voci in dissenso. Questo modello può funzionare forse stando all'opposizione, con una manciata di parlamentari. Ma il M5S ha preso il 33% alle ultime elezioni e di parlamentari ne ha molti di più.
Il sistema delle parlamentarie ha fatto sì che entrassero in Parlamento sensibilità diverse, anche opposte su molte questioni. Luigi Di Maio ci ha messo sempre e per primo la faccia (mentre altri hanno preferito non prendersi alcuna responsabilità profetizzando sui social) con intuizioni incredibili e, per carità, anche errori, ammettendo poi di aver sbagliato (cosa rara in politica) e soprattutto ha sempre tenuto rapporti umani con le persone (mentre altri nemmeno ti rispondono al telefono)". Lo scrive sui social Sergio Battelli, deputato 5 Stelle e presidente della Commissione Politiche Ue alla Camera.
"Detto ciò, oggi abbiamo un problema: molti, io per primo, vogliono spiegazioni. Spiegazioni, non teste rotolanti. Parlare di ciò che è successo nella lunga settimana appena trascorsa. Io non ho accuse da fare ma sicuramente dubbi da dirimere", aggiunge il pentastellato. "Il MinCulPop interno - rimarca Battelli - l'ho sempre detestato e non inizierò certo a farmelo piacere oggi. Perché il non detto e il subito possono fare danni enormi. Ecco perché una richiesta di confronto seria e non di facciata, dura, forte non è uno sfregio, non è una 'lesa maestà', non è un insulto ma l'unico modo per dissipare le frizioni".
"È incredibile che il Movimento che ha fatto della Democrazia il proprio mantra usi le picconate social (con tweet che lanciavano hashtag gestiti da profili fake) Nei partiti esiste questa dialettica, esistono gli scontri forti, esistono teste pensanti che mettono alle strette il 'capo'. Fa parte della vita politica di ogni grande gruppo, si litiga in una riunione condominiale, figuriamoci qui. Le repressione o la genuflessione davanti al capo non fa parte del mio modo di fare. Di solito, dopo queste forti discussioni, si esce sempre migliori oppure a pezzi ma qui non esiste chi ha ragione e chi ha torto ma solo chi ha idea diverse per arrivare allo stesso obiettivo", conclude.
"È la solita strategia dell'odio. Adesso sfruttano account fake per orientare gli utenti. Quella della macchina del fango contro Di Maio è una pratica già esistente, ci facciamo i conti da anni". Rispondono così all'Adnkronos i parlamentari vicini al ministro degli Esteri a chi chiede un commento sull'hashtag #DiMaioOut: una campagna mirata, secondo i 'dimaiani' - che riportano le dichiarazioni di alcuni esperti social tra cui Raffa -, "portata avanti con account falsi su Twitter".
"Questa nuova trovata non ci stupisce - continuano i dimaiani -, ciò non toglie che sia un fatto molto grave. Così si apre a quelle manifestazioni d'odio sui social che, specialmente negli ultimi tempi, purtroppo conosciamo bene. Recentemente abbiamo visto cosa provocano questi fenomeni, che nelle loro degenerazioni estreme possono portare ad escalation di violenza e minacce", concludono.
"Stiamo facendo le opportune verifiche per capire da dove parte la campagna di tweet-bombing contro Di Maio". È quanto affermano, parlando con l'Adnkronos, gli esponenti M5S vicini al titolare della Farnesina, i quali, alla domanda su un possibile 'fuoco amico', aggiungono: "Speriamo di no, sarebbe molto grave".
Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 31 gennaio 2022.
C'è solo una cosa che al momento mette d'accordo le due tribù del M5S, i "contiani" e i "dimaiani": stavolta bisogna andare fino in fondo, perché così è impossibile andare avanti. Tra i due, alla fine, ne rimarrà solo uno. Giuseppe Conte si sente tradito e per Luigi Di Maio vorrebbe una sorta di processo pubblico, non solo davanti ai parlamentari, ma di fronte a tutti gli iscritti.
Il ministro ed ex capo politico invece non ha alcuna intenzione di scusarsi di qualcosa e anzi, tesse la tela in quelle che prima erano le "sue" truppe, gente da lui messa in lista nel 2018, nella convinzione che sia possibile scalzare l'attuale presidente o comunque relegarlo in un angolo. Già provato dall'affare Riccardo Fraccaro nella settimana prima del voto per il Quirinale, con il già ministro sospettato di aver tramato alle spalle di Conte per mandare al Quirinale Giulio Tremonti, il presidente del Movimento si sente accerchiato. I take delle agenzie di stampa sul M5S non direttamente riconducibili ai vertici, i retroscena sui giornali: ogni commento o critica al suo operato è vista come una trama dei dimaiani. E così, a mali estremi estremi rimedi.
La parola "espulsione", riecheggiata già per Fraccaro, ora torna per Di Maio. «Ora basta, vanno cacciati tutti, meglio pochi ma uniti », si è sentito dire negli ultimi giorni - più volte - da esponenti vicini all'attuale vertice. «La situazione è fuori controllo, serve un chiaro atto di sfiducia contro Conte e i suoi», promettono invece i dimaiani. Loro non se ne vogliono andare né gli basta fare la corrente di minoranza. I giochi per il Quirinale sono stati una sorta di pre-congresso, la convinzione del ministro è di poter contare su almeno 70-80 parlamentari, ad oggi (sono solo 20, replicano dall'altra sponda).
È difficile dire come andrà a finire, perché al di là degli schieramenti in chiaro - i pesi massimi con Di Maio sono la viceministra all'Economia Laura Castelli e l'ex ministro Vincenzo Spadafora; i fedelissimi di Conte sono il capodelegazione al governo Stefano Patuanelli e l'ex reggente del Movimento Vito Crimi - c'è una vasta area grigia dentro il M5S che non ha ancora preso una posizione e che resterà alla finestra in attesa di fiutare l'aria. E poi ci sono le variabili. La prima: Grillo, il garante acciaccato ma ancora capace di spostare gli equilibri. Da tempo viene tirato per la giacca da entrambi i versanti, la sua assenza complica le cose perché ognuno gli mette in bocca tutto e il suo contrario.
Ora viene descritto in piena sintonia con Conte, ora infuriato per essere stato ingannato sempre da Conte facendolo esporre su Belloni. Nessuno però dimentica la plateale demolizione di Conte, la scorsa estate, che stava facendo anche allora saltare in aria il M5S. Arrivarono proprio Di Maio e Roberto Fico a riportarlo a più miti consigli. Il presidente della Camera in questi giorni si è tenuto distante dalla contesa e tale resterà almeno fino al nuovo insediamento di Sergio Mattarella, di sicuro un suo coinvolgimento produrrà degli smottamenti in un senso o nell'altro. Dopodi ché Di Maio gode ormai di ampia stima nel cosiddetto establishment e non solo politico, ma Conte ha (o avrebbe) i voti fuori dal palazzo grazie ad un ancora alto consenso personale.
E come dimenticare infine Alessandro Di Battista, ex di lusso oggi svincolato ma che se tornasse in partita potrebbe ancora fare la differenza? Sui social non manca mai di attaccare il M5S per i suoi "tradimenti" ma intanto ha comunque difeso Conte. Chi perderà il duello rusticano potrebbe anche decidere di andarsene, fondando altro. Un esito che complicherebbe la vita a molti: al centrosinistra e poi al governo stesso, peraltro alla Farnesina si continua a ritenere che Conte in cuor suo voglia farlo cadere. Commenta un big di primo piano: «Andremo in guerra, ci saranno morti e feriti. E però obiettivi, esigenze, linguaggi e target sono ormai troppo diversi». Chi conosce bene Di Maio lo racconta come avveduto nelle cose di partito, pronto a ingaggiare battaglia quando è certo di vincerla. Altrimenti chissà, dopotutto il Parlamento sembra orientato a varare una legge proporzionale e il destino di Mario Draghi in politica potrebbe non esaurirsi al 2023.
Raffaele Barberio per key4biz.it il 31 gennaio 2022.
Il presunto scoop lanciato ieri sera con un tweet, si rivela all’analisi dei fatti debole e scarsamente fondato. Sorgono invece i dubbi ed i quesiti sul perché si sia soffiato cosi pesantemente su un caso, senza che alcuno si sia preso la briga di verificare.
Tanto rumore per nulla? Forse, ma a giudicare da quanto accaduto sembra che il vero bombing sia stato fatto da agenzie e giornali che si sono avventati su una notizia non verificata, che fa invece sorgere più di un quesito.
La notizia è quella dell’attacco via Twitter contro il ministro Luigi Di Maio, attacco che viene definito come premeditato, realizzato tramite Bot e proveniente prevalentemente dall’America.
È per questo che abbiamo cercato di vederci chiaro e abbiamo sottoposto i dati a un severo controllo rivolgendoci a WaterOnMars, che ha utilizzato la propria piattaforma di intelligence di rete Metatron, una delle più sofisticate al mondo.
Ma partiamo dall’inizio.
Ieri sera il tweet di Pietro Raffa
Tutto nasce da un tweet di Pietro Raffa pubblicato ieri sera in cui si descrive un presunto tweet-bombing contro Luigi Di Maio, all’insegna dell’hashtag #DiMaioOut.
Il tweet riscuote immediato successo.
Stamane agenzie e testate si avventano sul tema e inseguono Raffa, esperto di comunicazione social e amministratore delegato della MR & Associati Comunicazione, il quale dichiara con sicurezza:
“E’ un tweet-bombing contro Di Maio…Ho effettuato un’analisi quantitativa e qualitativa dei tweet #DiMaioOut: sono andato a vedere quante persone avevano utilizzato l’hashtag, si tratta di 289 account. È chiaramente un’operazione studiata, che viene fatta da chi vuole modificare la percezione su alcuni temi”.
Tweet-boombing contro Luigi Di Maio: I dati dicono il contrario
Ci siamo incuriositi e abbiamo verificato che dall’analisi di WaterOnMars emergono dati del tutto differenti.
Non risulta alcun disegno di bombing, tutt’al più di campaign, che per essere considerato tale deve affidarsi a dei Bot, ovvero ad account generati da computer.
Al contrario, gli account usati sono tutti riferibili a persone in carne ed ossa. Water On Mars ha riscontrato e analizzato 884 account per un totale di 2371 tweet.
Nessun Bot
Non figurano Bot, ma cosiddetti sock puppets, ovvero account usati poco e in un certo senso risvegliati dopo lungo letargo oppure account multipli che appartengono alla stessa persona (si tratta di un fenomeno tipico tra militanti politici).
Si tratta, nel nostro caso, di account aperti nel corso degli anni dal 2010 in poi, con solo gli ultimi due account aperti a gennaio 2022. Solo poco meno del 10% degli account coinvolti ha twittato più di 10 tweet, con la punta massima di un account (Simo) che ha twittato ben 128 volte tweet con #DiMaioOut.
Quindi, con buona pace del presunto scoop, nessun tweet-bombing, né bot creati da computer, ma azioni di persone vere, magari mobilitate da un ordine concertato, come spesso accade in rete, specialmente in ambito politico e di militanza.
Nessun attacco dall’America
Nel presunto scoop, Pietro Raffa parla anche della geo-localizzazione degli account usati: “Ho visto che circa la metà di questi profili twittava contro Di Maio dall’America”.
Si tratta di un dato non riscontrabile in alcun modo. Al contrario, tutti gli account usati del nostro caso sono localizzati per la quasi totalità in Italia.
La controprova sta nel fatto che ad un controllo dell’orario di attivazione degli account, figurano tutti posizionati ad un’ora di differenza da Greenwich.
Quindi nessun attacco proveniente da account localizzati in America: un secondo elemento, quindi, che inficia l’attendibilità dell’analisi presentata come uno scoop e ripresa con il pieno di fanfare dalla stampa stamane.
Luigi di Maio: Tweet-bombing? No, news-bombing
Per la verità va anche registrato che tutte le uscite della stampa italiana (La Repubblica, La Stampa, Il Giornale ecc.) si colloca nell’arco di 60 minuti, tra le 12,18 e le 13,20, a solo titolo di curiosità. Per cui più che di tweet-bombing si tratta di una vera e propria campagna di news-bombing, ma voluta da chi?
Ci fermiamo qui con le prime osservazioni rilevate e domani daremo seguito ad altri commenti e alla pubblicazione delle figure, tabelle che sono state tratte in corso di rilevazione e che sono in via di elaborazione.
Estratto dell'articolo di Federico Capurso per "la Stampa" il 31 gennaio 2022.
«È guerra aperta». […] È questa l’idea che circola tra i big vicini al leader M5S. Vogliono portare delle accuse contro Di Maio, per aver tramato nell’ombra, durante la partita quirinalizia, per aver puntato su altre candidature rispetto a quelle della cabina di regia e per aver creato una corrente, vietata dallo Statuto. In gioco, ci sarebbe una sentenza di espulsione. Ma a emetterla dovrebbero essere gli iscritti M5S con un voto in Rete, perché Conte non vorrebbe sporcarsi le mani di sangue. È quello che traspare dalle parole dell’ex premier, quando gli si chiede di rispondere alle accuse di Di Maio sul fallimento della sua leadership nella partita del Quirinale: «Di Maio era in cabina di regia, lo avevo coinvolto. E ora – sottolinea - dovrà chiarire i suoi comportamenti agli iscritti, non a me».
Il ministro replica piccato: «Non si è mai parlato di fare annunci roboanti su presunti accordi raggiunti con Pd e Lega, oggi smentiti anche dal segretario dem Letta. Non si provi a scaricare le responsabilità su altri». Il processo, a questo punto, è qualcosa di più di una tentazione. […] i pontieri – come il presidente della Camera Roberto Fico – sono alla ricerca di una mediazione pacifica. Se si andrà allo scontro finale, invece, sembra difficile che Di Maio si presti ad un gioco al massacro. Non vuole arrivare a una scissione […] Tantomeno vorrebbe lasciare il Movimento che ha contribuito a costruire, ma se mai fosse costretto, gli è stato già offerto, alcune settimane fa, un porto sicuro in cui approdare.
Il leader di Coraggio Italia, Luigi Brugnaro, durante il faccia a faccia tra i due alla Farnesina avrebbe offerto riparo: «Se ci sarà bisogno, potrai riunire il tuo gruppo e unirti a Coraggio Italia», la proposta. Segno che già allora, il ministro degli Esteri aveva annusato il pericolo. […] I contiani credono che Di Maio voglia evitare un rimpasto, perché avrebbe paura di vedere sostituita la sua fedelissima Laura Castelli, viceministra all’Economia, con il braccio destro di Conte, Mario Turco. […] Dall’altra parte, gli uomini del ministro degli Esteri agitano lo spauracchio di un ritorno all’opposizione: «Conte vuole uscire dal governo o al massimo concedere un appoggio esterno passando da un voto della Rete». I vertici M5S smentiscono questa ipotesi […]
Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" il 31 gennaio 2022.
Veleni incrociati e un nuovo botta e risposta. Nel Movimento le acque restano in tempesta e nel mirino finiscono altri esponenti M5S. I contiani temono che Luigi Di Maio voglia spaccare il M5S per far naufragare il nuovo corso e riprendere la leadership, i dimaiani a loro volta hanno il sospetto che Giuseppe Conte voglia far cadere il governo e andare al voto anticipato (recuperando un volto storico come Alessandro Di Battista) […] in settimana potrebbe esserci un incontro tra i due. Il clima rimane tesissimo e inizia a coinvolgere anche altri soggetti dei vertici. Il numero dei bersagli cresce. Diversi parlamentari difendono Conte ma attaccano alcuni vice, in particolare Mario Turco e Alessandra Todde, definendoli «non all'altezza del ruolo».
«Serve una riflessione e forse anche dei cambi», spiegano nel Movimento. L'accusa velata (ma non troppo) è quella di aver mal sostenuto il leader nella trattativa. I due vice - assicurano fonti - «hanno la coscienza a posto e sono pronti a chiarire le loro scelte, che sono state condivise collegialmente, davanti a tutti». […] ci sono malumori anche verso il ministro degli Esteri , preso di mira anche sui social con un hashtag, che viene accusato di essersi «venduto al nemico».
[…] Nella partita entra Alessandro Di Battista. L'ex esponente del direttorio si schiera a fianco del presidente contro Di Maio. «Da anni è necessaria una riflessione politica all'interno del Movimento ma è vigliacco mettere oggi sul banco degli imputati l'ultimo arrivato che al netto di idee diverse su alcune questioni considero persona perbene e leale», scrive l'ex deputato. […] Conte e Di Battista si sono sentiti anche nelle ultime settimane e il rapporto tra i due è buono.
Ecco allora che spunta l'idea nel M5S di un asse, dell'ipotesi di reclutare nei Cinque Stelle contiani anche l'ex in chiave antidimaio, rafforzando al tempo stesso l'ala barricadera in caso di Movimento all'opposizione. Di sicuro - dicono i ben informati - «non sarà un passaggio rapido», ma probabilmente servirà «un percorso condiviso» di riavvicinamento. Per la prima volta dopo molto tempo, però, le strade di Di Battista e dei Cinque Stelle sembrano più vicine.
Sebastiano Messina per "la Repubblica" il 31 gennaio 2022.
Uno teneva in tasca la laurea di «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste », l'altro era l'indimenticato autore della filippica in rete contro «il partito di Bibbiano, quello che toglieva i bambini alle famiglie con l'elettroshock per venderseli». Eppure le cose cambiano, e tra le spiazzanti novità della Quirinaleide 2002 c'è il ribaltamento delle parti tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Il nuovo è diventato vecchio, il vecchio è diventato nuovo.
Ora naturalmente si incrociano dietrologie e sospetti - c'è chi dice che Giuseppi puntasse al voto anticipato e c'è chi sospetta che Giggino aspirasse alla poltrona di Draghi - ma l'onestà impone di attenersi agli atti, dai quali il presidente del Movimento oggi risulta un alleato inaffidabile che tramava in segreto col nemico mentre il giovane ministro degli Esteri emerge come il difensore decisivo contro l'invasione di campo inutilmente tentata dal pasticcione Salvini.
Conte esce a pezzi dalla sei giorni di Montecitorio. Pochi avrebbero immaginato di assistere a una trasmutazione così repentina dell'ex premier, a lungo corteggiato, lusingato e accarezzato dagli eredi della Ditta che vedevano in lui addirittura il nuovo Prodi, il domatore democratico dei grillini selvatici, il campione da schierare contro il centrodestra.
Dopo l'ormai celebre definizione di Nicola Zingaretti - che forse se ne sarà pentito cento volte - Massimo D'Alema lo ha incoronato «l'uomo più popolare d'Italia», il Richelieu rosso Goffredo Bettini gli ha privatamente regalato i suoi raffinati consigli, Pier Luigi Bersani ne è diventato il difensore d'ufficio nei talk show, perché «ha una sua popolarità che bisogna esser ciechi o malintenzionati per non vederla», e anche Enrico Letta lo ha sempre trattato come l'indispensabile partner con cui disegnare il suo Campo Largo. Poi è cominciata la partita del Quirinale e l'azzimato Avvocato del Popolo con la pochette a quattro punte è improvvisamente sparito dai radar del Pd.
Per tre volte si è sparsa la voce di un patto segreto tra lui e Salvini - il suo ex ministro al quale il 20 agosto 2019 mise la mano sulla spalla, sui banchi di un governo cadente, facendogli l'elenco degli errori commessi - e su Twitter qualcuno ha perfidamente dedotto che «Letta è alleato di Conte, ma Conte non è alleato di Letta». Due anni e mezzo di lavorìo mediatico con il Nazareno e con i compañeros gettati alle ortiche con l'improvvisazione di un maldestro praticante di studio che si fa beccare mentre telefona alla controparte.
La parabola discendente di Conte incrocia quella di Di Maio, che ora punta di nuovo verso l'alto. Il rampante "capo politico" che dopo la rottura con Salvini non voleva l'accordo con i vecchi nemici del Pd, l'arrogante candidato premier che invocava l'impeachment di Mattarella, lo spregiudicato capopopolo che andava in macchina a Parigi con il subcomandante Dibba per solidarizzare con i gilet gialli contro il feroce Macron è come se fosse stato inghiottito da un buco nero.
Al suo posto c'è un altro Di Maio, che parla il linguaggio felpato dei dorotei, però ha dimostrato la lealtà di un ministro moroteo ma anche l'astuzia di un luogotenente andreottiano. Insomma, sembra un democristiano del Terzo Millennio. Saranno stati i due anni di tirocinio alla Farnesina, sarà stata la sua spettacolare capacità di adattamento, fatto sta che l'ex ragazzo di Pomigliano d'Arco - che con i 189 voti raccolti alle "parlamentarie" pentastellate riuscì nel 2013 a diventare addirittura vicepresidente della Camera oggi ha dimostrato di aver imparato rapidissimamente le regole della politica: ha fatto fallire i piani di Salvini, si è schierato con Draghi, ha dato per primo l'ordine di votare Mattarella e ora sfida Conte nel Movimento. Così toccherà a quelli che chiamavamo grillini decidere quale dei due è Nuovo e quale è il Vecchio. (ANSA il 31 gennaio 2022) - Lo scontro tra Conte e Di Maio? "Credo che a Luigi interessi più salvaguardare il suo potere personale che la salute del Movimento", dice intervistato da 'Il Fatto Quotidiano' Alessandro Di Battista, per il quale "o si arriva a una resa di conti, o faranno prima a cambiare il nome del M5S in Udeur. I 5Stelle che mi chiamano sono preoccupati. Ma ciò che sta accadendo io lo avevo già previsto due anni fa".
"Conte - afferma l'ex deputato - è l'ultimo arrivato nel M5S, per così dire. Se il capo politico fosse stato Di Maio, Draghi sarebbe stato il presidente della Repubblica. E io, che non avrei votato Mattarella, proprio come hanno fatto gli ex del M5S, reputavo Draghi al Colle lo scenario peggiore". A suo avviso, però, anche Conte si è mosso male nella partita per il Quirinale: "Avrebbe dovuto far votare la Belloni in Aula, a qualunque costo", "se c'era davvero l'accordo tra Pd e M5S su quel nome, non vedo il problema".
E aggiunge: "Io avrei preferito altre soluzioni. Ma certamente Belloni avrebbe rappresentato un segnale di discontinuità in un Paese gattopardesco". Un suo rientro? "Adesso - risponde - la sola cosa che mi interessa è supportare i referendum popolari. E proseguire nella de-santificazione del messia Mario Draghi".
Fango M5s su Di Maio: pioggia di tweet (falsi). E pure Dibba lo attacca. Domenico Di Sanzo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il "Fatto" addita il nuovo nemico: il ministro degli Esteri. L'ira di Grillo contro Giuseppi.
Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, parlamentari e profili twitter, la base e il Fatto quotidiano. La battaglia tra i due leader del M5s è a un punto di non ritorno. E in tanti, tra deputati e senatori, sono convinti che alla fine ne resterà soltanto uno. Le vie d'uscita per evitare una scissione dolorosa sono due: un intervento provvidenziale di Beppe Grillo oppure uno strappo allo statuto, con l'introduzione della possibilità di creare delle vere e proprie correnti, fino a ora vietate.
La polemica del giorno che contrappone dimaiani e contiani è il linciaggio via social a cui è stato sottoposto il ministro degli Esteri. La shitstorm coinvolge due hashtag, #DimaioOut e #Dimaiofaischifo. Una valanga di tweet di insulti indirizzati all'ex capo politico. Accusato di essere un «traditore», un «venduto», il «Renzi dei Cinque stelle». Definizione, quest'ultima, coniata dal direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio nel suo editoriale di domenica. «Il problema è il Fatto - dice un deputato grillino di area Di Maio - per i nostri elettori Travaglio è la bibbia». E infatti il quotidiano vicino a Conte ieri sforna due pagine di attacchi al titolare della Farnesina. A pagina 2 un retroscena con un titolo eloquente: «Promesse al Caimano, Casini, Casellati&C: 50 sfumature di Gigino». Per i dimaiani si tratta «di una narrazione che vuole dipingere Luigi come il cattivo». Il fuoco di fila prosegue a pagina 3, con un'intervista ad Alessandro Di Battista. «Luigi pensa al potere», spiega Dibba. Ed è proprio il «bacio» tra l'avvocato e l'ex parlamentare a preoccupare la truppa sbandata che teme l'instabilità, il ritorno all'opposizione e la crisi di governo.
Se l'attacco del Fatto è deliberato, restano i dubbi sull'origine dei tweet contro Di Maio. «Se fosse fuoco amico sarebbe grave», spiegano all'Adnkronos fonti vicine al ministro degli Esteri. I dimaiani parlano di «macchina del fango e strategia dell'odio». Anche secondo l'esperto di social Pietro Raffa siamo davanti a «una chiara operazione di tweet bombing contro Di Maio». Per l'analista l'hashtag #DimaioOut è stato usato da pochi profili, tra cui alcuni che twittavano dall'America. In pratica si tratterebbe di bot, account falsi programmati per twittare automaticamente. I contiani invece fanno girare nelle chat uno studio che dimostrerebbe l'autenticità dei messaggi.
Siamo al muro contro muro, anche se il capogruppo alla Camera Davide Crippa smentisce ipotesi di scissione. Girano voci di un faccia a faccia imminente tra i due rivali. «Luigi spiegherà agli iscritti», dice la vice di Conte Alessandra Todde. Chi è vicino a Conte chiede l'espulsione del ministro. I parlamentari che conoscono bene Di Maio scommettono che l'ex capo politico andrà fino in fondo. Si parla di un'assemblea in cui Conte potrebbe decidere di far votare agli iscritti un documento in cui ribadisce la correttezza del suo operato. Sullo sfondo la questione in sospeso del limite dei due mandati. Se Conte usasse la conferma della regola come una clava interna, impedirebbe a Di Maio di ricandidarsi, ma sbarrerebbe la strada del Parlamento anche ad alcuni contiani come Paola Taverna.
Tra i due contendenti c'è Beppe Grillo, che viene descritto come molto irritato con l'avvocato perché l'avrebbe convinto a scrivere il discusso tweet pro-Belloni. Il giallo della notte di venerdì viene già definito nei gruppi come «il casus Belloni» che ha fatto scoppiare la guerra tra Conte e Di Maio.
Domenico Di Sanzo
Qualcuno salvi Luigi dal "metodo Travaglio". Francesco Maria Del Vigo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Qualcuno salvi Di Maio dal grillismo. Il ministro degli Esteri in queste ore è al centro di quella che è una vera propria aggressione mediatica.
Qualcuno salvi Di Maio dal grillismo. Il ministro degli Esteri in queste ore è al centro di quella che è una vera propria aggressione mediatica. I più moderni la chiamano con inglesismo molto efficace, ma decisamente poco raffinato: shitstorm. I più tradizionalisti la chiamano «macchina del fango». Ma il risultato non cambia. Ieri tra gli hashtag più diffusi su Twitter troneggiava l'esplicitissimo #dimaioout, una tempesta perfetta (e sospetta) che si abbatte sull'ex leader pentastellato colpevole, secondo i suoi, di aver tramato contro Conte.
Così Di Maio finisce vittima dello stesso sistema di disinformazione che i Cinque stelle per anni hanno foraggiato e alimentato. Le squadracce che oggi seminano odio sul web contro di lui, sono le stesse che per anni lo hanno fatto contro ogni avversario politico. Non serve la scientifica per rilevare le impronte digitali. C'è già la firma del metodo Cinque stelle, che è un parente stretto del metodo Fatto quotidiano: colpire e insultare chi è contro la linea ufficiale. E le purghe staliniane si applicano tanto all'esterno quanto all'interno dello stesso partito. Anzi, come dimostra la ferocia degli attacchi all'inquilino della Farnesina, è proprio tra le mura di casa che i colpi diventano più feroci. La strategia è rodata: si fa girare una voce, un sospetto, una maldicenza che molto spesso tracima nell'isteria complottista e poi basta avere delle truppe digitali pronte a spammare odio in ogni angolo del web o anche, come parrebbe in questo caso, dei semplici bot, dei pacchetti di account dormienti risvegliati alla bisogna. Il gioco è fatto.
In men che non si dica si entra nelle tendenze di Twitter e il caso creato a tavolino diventa un tormentone nazionale. Se poi si ha anche la sponda di un quotidiano compiacente è pure meglio... Il meccanismo è tanto semplice quanto vigliacco, specialmente quando chi agisce è coperto dall'anonimato di profili inesistenti. Ma, come dicevamo, è tradizione della casa.
Se i grillini decidessero di scrivere una autobiografia corale sotto forma di trattato potrebbero intitolarla «Teorie e tecniche dello sputtanamento digitale», un'arte nella quale nel corso degli anni hanno dimostrato di eccellere. Però, questa volta, nel colpire senza scrupoli quello che era il loro leader, c'è un passo ulteriore verso l'abisso. I tweet sguaiati contro Di Maio sono i selfie di un partito diviso per bande, di una guerra fratricida che rischia di essere l'ultimo esausto capitolo della saga a Cinque stelle.
Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.
La crisi dei partiti spiegata attraverso i manifesti. Corrado Ocone su Il Riformista il 30 Gennaio 2022.
Assieme ai comizi, il manifesto è stato il principale strumento della comunicazione e della propaganda politica nell’Italia repubblicana. I partiti ne hanno considerato sempre il valore, la forza comunicativa racchiusa in uno slogan e in una immagine studiati appositamente per colpire al cuore militanti ed elettori. Questa funzione simbolica è risultata tanto più efficace quanto più la politica si rinchiudeva spesso in linguaggi esoterici, gergali, allusivi, francamente incomprensibili a chi non faceva parte della ristretta cerchia dei politici di professione (si pensi solo alle “convergenze parallele” di Aldo Moro).
Attraverso i manifesti, il loro contenuto e la loro evoluzione anche stilistica, è possibile perciò ricostruire la storia non solo dell’Italia politica, ma di tutta la società italiana del dopoguerra: dalla fondazione della Repubblica al boom economico, dagli “anni di piombo” fino a Mani Pulite e oltre. È con questo intento che è stato costruito un affascinante libro per immagini appena edito da Carocci e di cui è autore Edoardo Novelli, docente di Comunicazione politica a Roma III: I manifesti politici. Storie e immagini dell’Italia repubblicana (pagine 263, euro 24). Per prima cosa, Novelli ha selezionato più di cento manifesti politici, non necessariamente i più importanti o i più diffusi. La scelta è avvenuta in base al criterio, indubbiamente personale, della significatività, in modo però da coprire le varie aree politiche e i vari stili espressivi. Poi ha diviso il materiale cronologicamente per decenni, dagli anni Quaranta del secolo scorso agli anni Duemila, alternando la riproduzione di ogni manifesto (è un libro da gustare anche visivamente) con una pagina di descrizione e di acute osservazioni sia storiche sia estetiche.
In generale, può dirsi che la stagione dei manifesti politici ha avuto due fasi, suppergiù corrispondenti alle cosiddette Prima e Seconda Repubblica. Fino poi a scemare con l’avvento dell’era digitale, che per certi versi può considerarsi una continuazione con altri mezzi, e maggiore intensità, di quel “parlare per immagini” che è stato proprio dei manifesti. Nella prima fase, il predominio è stato quello del classico foglio 70X100, che è stato affisso sui muri d’Italia soprattutto in occasione degli scontri elettorali, a cominciare da quelli del referendum per la Repubblica del ‘46 e delle elezioni politiche del ‘48. Le quali ultime, per la virulenza dello scontro fra comunisti e anticomunisti, rappresentano forse il momento più alto e intenso di questa storia (classico resta il manifesto democristiano che afferma perentorio che “nel segreto delle urne Stalin non ti vede ma Dio sì”).
Inutile dire che fra i militanti delle diverse parti sui manifesti si è scatenata una vera e propria concorrenza, fatta anche di colpi bassi: i manifesti degli uni venivano, ad esempio, spesso strappati o ricoperti di notte da quelli degli altri. Man mano che avanzano gli anni Ottanta e poi soprattutto negli anni Novanta, il manifesto politico diventa spesso un enorme cartello pubblicitario, il più delle volte con il volto sorridente dei leader come testimonial. È il portato dell’avvento del maggioritario e della personalizzazione della politica e dei partiti. Nonché di un certo populismo di fondo (il “meno tasse per tutti” o il “milione di posti di lavoro” di Silvio Berlusconi da questo punto di vista ha fatto scuola). Molto vitale è stato anche il decennio dei Settanta, con l’esplodere di sigle extraparlamentari e con l’avanzare invece, a livello politico più istituzionale, delle battaglie per i diritti civili, sfociati nelle due campagne referendarie per il divorzio e l’aborto.
Man mano avanzano anche i temi ambientalisti, fra nucleare e caccia, e si fa strada persino l’animalismo, con una Marina Ripa di Meana che nel 1996 posa completamente nuda mostrando una folta peluria nelle parti intime sovrastata dalla scritta: “L’unica pelliccia che non mi vergogno d’indossare” (oggi forse una immagine del genere sarebbe impossibile, o sarebbe accusata di essere sessista). Gli ultimi manifesti politici riprodotti sono quelli per la campagna elettorale del 2018 e fanno davvero impressione per l’elementarità del messaggio e per l’impoverimento culturale che testimoniano. Si può dire che “la fine del manifesto politico” di cui parla Novelli è la fine, o almeno la profonda crisi, dei partiti politici. È la crisi in cui siamo sprofondati del sistema politico italiano. Corrado Ocone
Alessandro De Angelis per huffingronpost.it il 2 febbraio 2022.
Ebbene sì, non resisto, anche questa e la violazione di un segreto professionale. Pero e per dare una medaglia. Anzi il titolo di “migliore Cassandra” degli ultimi tempi. A insaputa dell’interessato che, temo, potrebbe sinceramente arrabbiarsi. La Cassandra e Marco Minniti uomo colto, esperto, incorruttibile.
Ma carattere spigoloso, speriamo bene. Sapete, l’attività di un giornalista e fatta di una miriade di contatti, incontri, chiacchierate anche per capire come vanno le cose. Facciamola breve: in questi due anni, incredibili, e dopo l’ultima settimana sul lotto volante, si e sentito di tutto.
Sfogliando il taccuino degli appunti informali, la conclusione e che e l’unico, con cui il sottoscritto ha parlato che, come si suol dire, le ha azzeccate tutte. C’è anche chi le ha sbagliate tutte, ahime, tra i gruppi dirigenti dei partiti.
Ne racconto un paio, che tanto dettagli non sono. Piena pandemia, prima ondata, contismo imperante, - ricordate “il punto di riferimento dei progressisti europei”? – sbornia collettiva da casalinismo: “La pandemia – recita il taccuino – ha dato al governo un ubi consistam che non aveva, ma le contraddizioni saranno inevitabilmente destinate a esplodere con l’aggravarsi della crisi che sta andando fuori controllo. Il punto e che i gruppi dirigenti dei partiti si muovono scomposti, nell’illusione di determinare gli eventi, ma ne saranno travolti, girano a vuoto”.
Si sente il Pci di una volta, grande scuola: l’attenzione al processo reale delle cose, il movimento di fondo e non il tweet di giornata. Sei mesi prima dell’arrivo – giuro: sei mesi - c’è scritto: “Si arriverà a un punto in cui Mattarella sarà chiamato a un’assunzione di responsabilità. Perchè quella che e in atto non e una normale crisi politica strisciante, ma una crisi di sistema conclamata, in cui nessuno degli attori e in grado di prospettare una soluzione. Arriverà Draghi”.
Prima di questa chiacchierata, Minniti ha lasciato il Parlamento, si e traferito a Leonardo, ex Finmeccanica, la grande azienda a partecipazione pubblica impegnata nei settori della difesa, della sicurezza e dell’aerospazio. Li gli hanno affidato la presidenza di una fondazione Med-Or, che ha il compito di formare classi dirigenti e promuovere relazioni economiche e culturali nel Mediterraneo.
Vai sul sito a vedere quello che ha fatto, pare un ministro degli Esteri. Fuori dal Parlamento c’è più politica di quanto si possa pensare, peccato che se ne vanno quelli bravi. O forse sono costretti ad andarsene proprio in quanto bravi. Vabbe, lo conoscete, da palazzo Chigi fino al Viminale. Si dice: l’uomo che ha fermato gli sbarchi. Meglio dire: colui che ha avuto un’idea di governo dell’immigrazione. Rinnegata dal Pd. Nel dubbio tra linea sua e quella di chi lo ha criticato, ha scelto di non averne nessuna acconciandosi su una onesta prefetta.
La sera che arriva Draghi, lo cerco. Talvolta l’impresa e titanica. Affezionato al mare e alle radici, ogni fine settimana torna sempre nella sua casa sul mare, vicino Reggio Calabria. Spartana, praticamente un faro sul mare. Tocca chiamare il fisso, con tutto il rispetto per la Calabria, le infrastrutture telefoniche non sono i punti di eccellenza.
“Mattarella ha convocato Draghi al Colle per domani mattina”. Risposta: “Bene, ma una cortesia: possiamo sentirci dopo che sto guardando l’Inter?”. Per molti sarebbe un vezzo, in questo caso e fatto proprio così. Per inciso: nessuna intervista pubblica, in questo periodo.
Ti chiedi: ma se un semplice cronista, che nel frattempo e diventato amico, almeno credo, ascolta e si fida delle sue analisi, come mai non sta nelle stanze della direzione politica di un partito dove e stato per una vita? Misteri. Cambiamo taccuino, e avviamoci alle conclusioni. In autunno invita a riflettere: “Siamo gia dentro una curvatura “presidenzialista” del sistema politico e della democrazia italiana. L’Italia, per come si e dispiegata la crisi, e, in questo momento, il paese dei “due presidenti”, Draghi e Mattarella.
Loro si occupano dell’interesse generale. Attorno un sistema partitico ancora dentro il default che ha reso necessaria la soluzione di emergenza. Per capire la partita del Quirinale si deve partire da qui”. Voi capite che, nella perenne ricerca di bussole, un giornalista, ossessionato dal racconto ma anche dal come va a finire, non resiste alla tentazione.
E, dopo la conferenza stampa di Draghi, quella dell’auto-candidatura, rieccoci sul telefono fisso. Mi becco una lezione, severa e pedagogica, sentendomi come quei segretari delle federazioni provinciali che incontravano, per la prima volta a Botteghe oscure, il dirigente della segreteria del Pci: “Non essendo nelle condizioni di fare un governo per il dopo, Draghi sarà costretto a chiedere Mattarella di rimanere. Perchè un altro governo non c’è, e Mattarella e l’unico in grado di tutelare l’equilibrio politico e il paese.
E Mattarella sarà costretto a rimanere, anche contro la sua volontà. Ripeto: anche contro la sua volonta”. C’ha pensato il tanto vituperato Parlamento, in un atto di autogestione, mentre la crisi di sistema ha travolto anche la discussione sul Quirinale, in un remake dello scorso anno di questi tempi. Ultima telefonata, sabato mattina, quando finalmente e fatta. Neanche il tempo di dire “pronto”: “Adesso, andate tutti affanculo. Devo dare da mangiare ai cani”. Clic.
Antonello Piroso per "La Verità" l'1 febbraio 2022.
«Sono due o tre sere che ti avrei dato la stessa risposta, l'esito a mio avviso è scontato». Apperò. E in virtù di quale riflessione? «Guardo queste cose dall'alto, come se vivessi in un altro Paese, senza seguire nevroticamente il minuto per minuto, e mi sembra che è la cosa che ha più senso, e più passa il tempo e più me ne convinco».
Sì, vabbè, ma cioè? Quale «cosa»? Per caso il nome del prossimo capo dello Stato? «Esatto. Che quindi sarà... Mario Draghi». E difatti. Esibirsi in una granitica previsione a 48 ore dal fischio finale dimostra una fiducia nelle proprie facoltà divinatorie che in pochi possono permettersi. Paolo Mieli può.
È lui il Branko(lo) di cui sopra, ospite in tv su La 7 giovedì sera. Uno svarione su cui ha maramaldeggiato Augusto Minzolini, direttore del Giornale: «Giorni fa ho sentito Mario Calabresi (ex direttore di Repubblica, nda) e Paolo Mieli dire in coro: il prossimo presidente è Draghi, sicuro. A quanto pare il mago Otelma ci azzecca di più. Succede quando si scambiano desideri per dati della realtà».
Che è ciò succede a Minzo quando legge i dati di vendita del quotidiano che dirige, ma non satireggiamo troppo, ché il tema è altro, e ben più «alto». Ovvero, la tendenza di alcune vacche sacre - absit iniuria verbis - del giornalismo italico, cui io «non sono degno neppure di slegare i lacci dei sandali» (la citazione è dai Vangeli), a emettere sentenze con il timbro della inappellabilità. Intendiamoci: alzi la mano chi non ha mai preso una topica. Ci caschiamo tutti, prima o poi, e i politici in questo fanno scuola.
Ma si sa: loro, sbilanciandosi tra promesse e profezie, sono abituati a pensare una cosa, dirne una seconda, farne una terza, per poi giurare di essere stati fraintesi. Noi iene dattilografe non potremmo però evitare? Mieli è pure recidivo.
L'8 gennaio 2018, a due mesi dalle elezioni politiche, ospite su La 7 con Matteo Renzi, a precisa domanda su come sarebbe andata per il Pd, di cui il Toscano del Grillo («Io so' io, e voi eccetera...») era allora segretario, replicò: «Non sono catastrofista, è messo meglio di quanto lo danno i sondaggi, dovessi scommettere direi che i risultati saranno migliori».
Va bene, però dimmi la morale, pardon: la percentuale, lo incalzò maligna Lilli Gruber, e lui: «Il 25% sarebbe un voto clamoroso» (la regia, perfida, staccò sulla faccia di Renzi tra il perplesso e lo spiazzato). E difatti.
Così clamoroso che, per la cronaca, il Pd andò peggio del peggior sondaggio di quei mesi, la rilevazione di Tecnè che all'inizio dell'anno lo dava al 20,7%, inchiodando nelle urne al 18.8%. Anche a Enrico Mentana è toccato inciampare in un errore di valutazione.
Mentre si occupava del romanzo Quirinale, in un fuori onda durante un servizio su Giuseppe Conte si è lasciato andare: «È quello che se la sta giocando meglio di tutti».
Per completezza va aggiunto che aveva premesso: «Non l'avrei mai detto». Che è stata la mia reazione quando ho sentito quel giudizio: 'a Enrì, ma che stai a dì? Mai avrei pensato che tu potessi anche solo lontanamente immaginarlo, un Conte che contasse.
Tant' è che quando Giuseppi si è esposto su un possibile voto del M5s a favore di Draghi al Quirinale, la nemesi ha voluto che la telefonata di smentita di Beppe Grillo, «ipotesi che non esiste», sia arrivata proprio a Mentana mentre era in onda. Da Grillo all'aedo dei grillonzi - e «vedova di Conte» - Marco Travaglio è un attimo.
Ecco come, su La 7 (e dove sennò?, dicembre 2020), pontificava con la consueta aria di umile superiorità: «Il governo Draghi? Una simpatica barzelletta. A me non risulta lui voglia fare il premier. E poi non esiste una maggioranza pronta a sostenerlo. Il M5s non lo voterebbe, la Lega non lo voterebbe. Lo chiamino, così scopriranno la sua indisponibilità e la pianteranno con 'sta storia».
E difatti (messo peggio di lui, sul tema, ci fu solo Carlo De Benedetti - non è un giornalista, ok, ma è pur sempre un editore, prima di Repubblica ed Espresso, oggi di Domani - che ancora su La 7, settembre 2020, pronosticava: «Escludo nel modo più categorico, conoscendolo bene, che Mario Draghi possa fare il presidente del Consiglio»).
Quando non giochiamo al «gràttati e, magari, vinci» a casa nostra, ci avventuriamo a commentare il voto degli altri: «La campagna elettorale di Donald Trump è ufficialmente finita stanotte, al terzo dibattito con la rivale Hillary Clinton», era il fulminante incipit di un post su Facebook a due settimane dal voto del 2016 (se non lo trovate, il sito Dagospia lo ha in archivio) firmato da Gianni Riotta - già direttore del Tg1 e del Sole 24 Ore, uno dei 39 esperti selezionati per il «Gruppo di alto livello contro la disinformazione», promosso dalla Commissione europea per combattere le fake news - che condiva il de profundis con un verdetto apodittico: «Hillary vincerà». E difatti. Per questo, fossi in Giorgia Meloni, davanti al tweet di Vittorio Feltri, a rielezione di Sergio Mattarella ufficializzata: «Il centrodestra si è sfasciato. Un suicidio.
L'unica che si salva è Giorgia Meloni, grande donna che non si piega e non si spezza. Alle prossime elezioni il suo sarà il primo partito», ringrazierei per la stima (reciproca: lei lo ha candidato nel 2021 a Milano con un'esternazione tracimante entusiasmo: «Sono estremamente fiera di annunciare che il direttore Vittorio Feltri ha deciso di iscriversi a Fratelli d'Italia e che lo abbiamo convinto a guidare la lista di Fdi alle prossime elezioni amministrative»). Ma terrei a portata di mano un corno napoletano.
Giulia Cerasoli per “Chi” il 2 febbraio 2022.
Forse il fattore umano del presidente della Repubblica più amato dalla gente, che negli ultimi mesi, quelli dei saluti, era stato applaudito alla Scala e acclamato per strada dai cittadini che gli chiedevano un bis, sta proprio nella sua eccezionale normalità.
Sergio Mattarella ha accettato il secondo mandato per senso del dovere e perché la situazione del Paese lo richiede, anche se aveva davvero altri piani per il suo futuro.
Da poco aveva preso in affitto un appartamento in una strada a metà tra il quartiere Parioli e Villa Ada, accanto all’abitazione della figlia Laura che sempre lo ha seguito nel primo settennato mettendo da parte la sua professione di avvocato.
L’aveva arredata anche con alcuni mobili trasferiti dalla celebre casa di via Libertà a Palermo e già aveva fatto amicizia con alcuni condomini.
Voleva stare più vicino alla famiglia, agli altri due figli, Francesco e Bernardo Giorgio, e ai nipoti che ormai sono grandi (alcuni studiano a Londra), ma che il Presidente nonno ha sempre seguito molto da vicino.
Sergio Mattarella, compiuti gli 80 anni, aveva voglia di una vita normale. Ma il suo senso del dovere ha sempre prevalso sulle scelte personali. E così domenica scorsa ha fatto il trasloco al contrario.
Con l'aiuto dei servizi della presidenza della Repubblica è andato a riprendersi le sue cravatte, il suo guardaroba, i dischi di Mina che ama tanto, i suoi libri, le lettere dei bambini di tutta Italia, i documenti privati e li ha rimessi negli scatoloni per riportarli al Quirinale.
Nato a Palermo il 23 luglio del 1941, ha studiato a Roma, ma ha sempre conservato un at-taccamento viscerale verso la sua terra d'origine, la Sicilia.
Studioso e costituzionalista avrebbe preferito, per il suo carattere riservato, una carriera esclusivamente accademica rispetto a quella politica e pubblica. Ma la morte del fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia, assassinato dalla mafia il 6 gennaio 1980, cambiò i suoi piani.
Quel giorno in cui si ritrovò nel mezzo di via Libertà a Palermo, con il fratello agonizzante tra le braccia, capì che la sua vita avrebbe preso una strada diversa.
Il senso del dovere, anche allora, e il rispetto per il sacrificio del fratello, lo spinsero a impegnarsi politicamente.
Quell'episodio drammatico pesa sul suo cuore insieme con una tragedia privatissima di cui non parla mai: la scomparsa della moglie Marisa Chiazzese nel 2012 a causa di un tumore. Ogni anno tutta la famiglia ricorda quella donna amatissima, sorella della moglie di Piersanti e che il capo dello Stato descrisse come «la persona per me più cara al mondo».
Da cattolico osservante e siciliano doc, il Presidente ha un grande senso della famiglia. Ha cresciuto come suoi i figli del fratello scomparso (Maria e Ber-nardo) e ha una spiccata sensibilità verso l'universo femminile, al punto che prima di diventare Presidente, in occasione delle feste di compleanno, pare usasse far recapitare un omaggio a ciascuna delle donne di famiglia.
Un uomo normale e perbene che sognava di ritirarsi nella sua normalissima casa (tra l'altro non aveva una casa sua dalla morte della moglie) per godersi il meritato riposo.
Che cosa succederà adesso che è stato rieletto per un altro settennato sul Colle più alto? Qualcuno ha ipotizzato che avendo già arredato il nuovo appartamento, lo terrà per andarci a trascorrere del tempo con la famiglia, magari nei fine settimana. Anche il suo predecessore, Giorgio Napolitano, ha sempre conservato la sua casa nel quartiere Monti anche quando era capo dello Stato.
Qualcuno ha persino azzardato l'ipotesi che Mattarella abbia il diritto di chiedere di esercitare i suoi poteri di Presidente in smart working, da casa sua, visto che l'hanno costretto a restare più del dovuto, quando la sua volontà diceva altro... Insomma, Mattarella deciderà e sarà una scelta oculata come al solito.
Saggio, patriota, sempre con un pensiero per i più deboli: tutto questo nel caso del Presidente coincide anche con uno straordinario consenso popolare.
Nonostante il carattere riservato e non esuberante (condiviso dalla figlia-first lady Laura, che ha concesso a “Chi” la sua unica intervista durante una missione diplomatica in Africa), Sergio Mattarella ha progressivamente conquistato un ampio consenso mediatico, grazie al suo carattere e ad alcune curiosità inattese.
Prima fra tutte il famoso fuorionda in cui confessò al suo portavoce Giovanni Grasso, che anche lui, nel corso del lookdown non aveva potuto tagliarsi i capelli.
L' idea che anche il Presidente in lockdown avesse dovuto affrontare i problemi quotidiani che avevano colpito tutti gli italiani - compreso, banalmente, non poter andare dal barbiere - ha conquistato tutti e lo ha trasformato in una star su Instagram.
Di barbieri comunque Mattarella dovrebbe averne almeno due: uno a Palermo, che si chiama Franco Alfonso, e uno a Roma, che si reca al Quirinale ogni 15 giorni per tagliargli i capelli.
Capigliatura a parte, è il primo capo dello Stato influencer in Italia. Oltre a essere seguitissimo sui social, il Presidente ha diversi profili a lui dedicati, compreso "le bimbe di Mattarella" (come i divi dei reality), che crea me-me e vignette a raffica su tutto quello che fa. E che ha sbancato proprio in occasione di questa rielezione.
Cosa che pare faccia sorridere molto anche i suoi nipoti adolescenti, fieri dell'amore del loro nonno per la tecnologia.
Tra le sue passioni, oltre a quella per la musica classica e per l'opera lirica, è esplosa quella per lo sport nel suo complesso.
Una volta era solo tifoso del Palermo, mentre ora segue la Nazionale, di persona quando possibile, nelle trasferte più importanti. E ha sostenuto gli atleti olimpionici che hanno portato medaglie e onori al nostro Paese.
Nel corso del primo settennato chi, come noi, ha avuto il privilegio di seguirlo in alcuni viaggi di Stato all'estero, ha potuto osservare il suo grande interesse per l'arte, lo stupore per le meraviglie del mondo come il tesoro di Petra, quando fu ospite del re e della regina di Giordania sotto una tenda a sorseggiare tè, o l'energia con cui saliva rapidamente le scale delle chiese rupestri di Lalibela in Etiopia a tremila metri di altezza.
«Papà, vai piano, mica riusciamo a starti dietro se corri così», gli sussurrò quella volta la figlia Laura, arrancando come tutti dietro al Presidente in doppio-petto blu anche in quella curiosa situazione nel centro dell'Africa. E aveva ragione.
Nessuno riesce a stargli dietro. Perché, sotto quell'aria mansueta e quell'ironia tutta siciliana, si nasconde la fermezza della serenità. «Ricordate sempre che mio zio è un uomo dolcissimo e rassicurante, per questo piace tanto ai giovani», ci confidò un giorno la nipote Anna Adragna, aprendoci il suo inedito album fotografico.
Stasera Italia, Giovanni Minoli e la "messinscena Mattarella": "Cosa mi dicevano gli amici siciliani". Libero Quotidiano il 02 febbraio 2022
Giovanni Minoli, ospite di Stasera Italia in onda su Retequattro, ha parlato della rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Alla domanda della conduttrice Barbara Palombelli, se fosse tutta una messinscena, Minoli risponde che: "troppe fotografie del trasloco. Molti miei amici siciliani erano tutti molto tranquilli, perché sapevano che Mattarella sarebbe rimasto", afferma il conduttore di Mixer. Tu chiamale se vuoi "sensazioni", ma la verità forse è che il meccanismo mediatico scelto dallo staff del Capo dello Stato uscente (e rientrante) aveva un sottile e astuto obiettivo. Perfettamente centrato, alla luce di quanto successo sabato scorso.
La Palombelli ricorda che nella sua trasmissione il quirinalista Marzio Breda, giornalista del Corriere della Sera: "Dobbiamo riavvolgere i nastri. Anche lui qui in trasmissione aveva previsto che l'attuale Capo dello Stato sarebbe stato riconfermato". Una scelta arrivata dopo sei giorni di trattative e di votazioni tra i partiti su nomi che non hanno mai trovato la quadra. Minoli insiste sulla scelta anche comunicativa di Mattarella: un profilo basso che ha aiutato anche ad accettare un bis che sembrava non potesse succedere. E il dubbio che, in fondo, molti dei protagonisti di quella trattativa fin dall'inizio proprio a questo esito puntassero, facendolo passare per extrema ratio e mossa obbligata, è più che lecito.
La deriva dell'immaturità. Pier Luigi del Viscovo il 31 Gennaio 2022 su Il Giornale.
È intollerabile la cagnara degli italiani contro i loro rappresentanti politici, iniziata nei giorni dell'impasse e esplosa dopo la rielezione di Mattarella
È intollerabile la cagnara degli italiani contro i loro rappresentanti politici, iniziata nei giorni dell'impasse e esplosa dopo la rielezione di Mattarella.
Cosa si aspettavano di diverso? Che pensassero al bene supremo del Paese? Che almeno mantenessero nelle forme una statura politica elevata, non sguaiata? Che riuscissero a dialogare e ad accordarsi come impone la Costituzione, visto che il loro mestiere, la politica, altro non è che l'arte del possibile? In una parola, che si comportassero da statisti? E perché? Credono forse gli italiani di aver eletto un Parlamento composto da persone del calibro di Moro, Giolitti, Andreotti, Berlinguer, Fanfani, Craxi, Croce ed Einaudi? Uomini che interpretavano delle idee di società e di sviluppo, diverse e più o meno condivisibili, con metodi a volte discutibili, ma erano visioni compiute dove tutto si teneva.
Qual è la cifra politica degli attuali rappresentanti? Bloccare cento sciagurati su una nave? Offrire lo ius soli o il ddl Zan nel mezzo di crisi epocali? Cavalcare i no vax e ogni altro corteo che passa per la strada? Sintetizzare tutto in un «vaffa»? Se una di queste è più o meno la visione che gli italiani hanno comprato, è a loro che va presentato il conto di questi giorni e degli ultimi 30 anni. Ma com'è che siamo diventati così immaturi? Cosa c'è successo?
Quando abbiamo regolato i conti con la prima Repubblica, condannandone la degenerazione, abbiamo buttato via anche le idee che la sostenevano. Erano linee politiche strutturate, ricette solide benché alternative, che imponevano la coerenza del pensiero articolato. Le abbiamo rifiutate perché rispondevano ai bisogni indicando una strada. Ma quella spinta propulsiva il Paese l'aveva esaurita da tempo e non voleva camminare. Da quel momento è stato un continuo andar dietro al salvatore di turno, che promette di risolvere i nostri problemi in cambio di un semplice voto. Nessun disegno e dunque nessuna coerenza. Abbiamo accettato di buon grado politici che votavano le riforme di Monti, giuste o sbagliate che fossero, e poi le ripudiavano facendo campagna elettorale contro.
Così siamo arrivati alla settimana scorsa quando, tra l'informazione sui venti di guerra in Ucraina e lo spettacolo travestito da giornalismo dei nani della politica, gli italiani hanno scelto il secondo in attesa di Sanremo. Eppure, 50 anni dopo il film non l'hanno fatto sull'elezione di Leone ma sulla crisi di Cuba, perché da lì è passata la storia.
Pier Luigi del Viscovo
Mediaset, Giorgia Meloni "cancellata"? Dagospia: "Dopo le critiche a Salvini e Berlusconi da Porro...". Un grosso caso. Libero Quotidiano il 02 febbraio 2022
"Parecchi mal di pancia a Mediaset" dopo l'ospitata di Giorgia Meloni a Quarta Repubblica. A riferirlo è Dagospia che parla di più di una lamentela dopo la presenza nello studio di Rete 4 della leader di Fratelli d'Italia. La Meloni è stata ospite di Nicola Porro nella puntata del 31 gennaio e non - sembrerebbe - senza creare malumori.
Nello studio la leader di FdI si era tolta più di un sassolino dalla scarpa, spiegando la sua versione sulle elezioni del Quirinale. "Secondo me - aveva detto - quello che ha fatto Matteo Salvini è folle, folle per lui. Una cosa che non ho capito, eravamo d'accordo che la rielezione di Mattarella fosse l'ultima cosa da fare". Poi l'uscita su Silvio Berlusconi che ha sciolto la riserva ritirandosi dalla corsa per il Colle: "Quando ho dato l'ok a Berlusconi non l'ho fatto per deferenza, io a Berlusconi non devo niente, ho fatto una scelta politica".
Parole forti che avrebbero generato qualche scontento. Qualcuno - scrive Dago - sta spingendo "per tenere fuori da Mediaset gli esponenti di Fratelli d'Italia, con il pretesto di voler dare voce soprattutto ai partiti di governo (cioè tutti, tranne Fdi). Si registrano già le prime ritorsioni: cancellate le ospitate di esponenti del partito della Meloni da Zona bianca di Giuseppe Brindisi e Dritto e rovescio di Paolo Del Debbio…".
Dagonews il 2 febbraio 2022.
Si vocifera che l'ospitata di Giorgia Meloni a "Quarta Repubblica" su Rete 4, lo scorso 31 gennaio, abbia innescato parecchi mal di pancia a Mediaset. A masticare amarissimo sono state due "zarine": Siria Magri condirettore di Videonews, la testata giornalistica di Mediaset, nonché moglie di Giovanni Toti, e la "badante" di Berlusconi e grande amica di Salvini, Licia Ronzulli.
Le parole della "Ducetta", che ha infilzato il leader della Lega per i suoi errori nella partita del Quirinale e ha rintuzzato il Cav ("Non gli devo nulla"), hanno innescato la contraerea.
Gli "addetti ai livori" sostengono che il tandem Magri-Ronzulli stia spingendo per tenere fuori da Mediaset gli esponenti di Fratelli d'Italia, con il pretesto di voler dare voce soprattutto ai partiti di governo (cioè tutti, tranne Fdi). Si registrano già le prime ritorsioni: cancellate le ospitate di esponenti del partito della Meloni da "Zona bianca" di Giuseppe Brindisi e "Dritto e rovescio" di Paolo Del Debbio…
Estratto dell'articolo di Alessandro Di Matteo per “La Stampa” il 2 febbraio 2022.
[…] Raccontano che Silvio Berlusconi si sia molto irritato, lunedì sera, sentendo la Meloni che sulla sua Rete 4 ha detto di non «dovere niente» al leader di Fora Italia. Antonio Tajani ieri, non a caso ha fatto un Tweet citando Aristotele sulla «gratitudine».
La Russa replica: «Il primo ingrato è Tajani.Che forse nella sua testa pensava di poter fare il presidente della Repubblica. Ce lo ha detto lui, non lo dico io».
Di certo, la Meloni non intende più aspettare gli alleati, come dimostra il sostegno annunciato per il bis di Nello Musumeci in Sicilia quando ancora Lega e Fora Italia non hanno deciso cosa fare.
Giorgia Meloni, "cancellata da Mediaset si consola così". Dagospia, la bomba: si dice che Crosetto...Libero Quotidiano l'08 febbraio 2022.
Fratelli d'Italia "oscurati" a Mediaset? "E Giorgia Meloni si consola con Massimo Giletti a La7". Dagospia conferma le indiscrezioni degli ultimi giorni sulla "vendetta" delle reti del Biscione dopo le durissime dichiarazioni della leader di FdI lunedì scorso, ospite di Quarta repubblica da Nicola Porro su Rete 4. Accuse a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini che avrebbero provocato una certa irritazione ai piani alti di Cologno Monzese. Secondo Dago, così sarebbe partita la "rappresaglia" guidata da Lincia Ronzulli e da Siria Magri, moglie di Giovanni Toti, che avrebbe portato al "siluramento degli esponenti di Fratelli d'Italia dalle trasmissioni del Biscione" e al "cancellamento di tutte le ospitate previste a Zona Bianca di Giuseppe Brindisi e Dritto e Rovescio di Paolo Del Debbio". I diretti interessati hanno smentito qualsiasi intervento "dall'alto" ma Dago tira dritto.
E il Fatto quotidiano parla anche di una certa sorpresa dentro Forza Italia per la telefonata partita dalla stessa Ronzulli (che però si dice estranea nella maniera più assoluta) e "accettata" da Fedele Confalonieri. In ogni caso, i retroscena parlano di presenze saltate all'ultimo del meloniano Galeazzo Bignami a Zona Bianca, di Elisabetta Gardini a Diritto e Rovescio e di Guido Crosetto a Stasera Italia. Motivazione ufficiale? La "contemporaneità con il Festival di Sanremo". Per Crosetto si prospetta un ritorno mercoledì sera a Stasera Italia perché, spiega il Fatto, "non viene considerato un esponente politico di FdI, ma in quota 'commentatori e giornalisti'". D'altronde, non è più parlamentare dal 2018.
La Meloni però non sta ferma e probabilmente si prenderà la sua rivincita bombardando Mediaset via La7, l'altra grande tv generalista con talk politici in prima serata. Domenica sera è sta da Massimo Giletti a Non è l'arena, tornata alla sua collocazione originale dopo aver saltato il mercoledì proprio per colpa di Sanremo. E ora si attendono nuovi interventi, anche per interposta persona, a L'aria che tira da Myrta Merlino, la mattina, Otto e mezzo da Lilli Gruber, DiMartedì da Giovanni Floris. Più difficile ipotizzare una presenza a Piazzapulita, visti gli scontri violentissimi con Corrado Formigli dopo l'inchiesta "a martello" sulla Lobby nera.
Estratto dell'articolo di Gianluca Roselli e Giacomo Salvini per “il Fatto quotidiano” il 7 febbraio 2022.
(…) A prendere una decisione del genere, a Cologno Monzese, può essere solo Mauro Crippa , direttore generale dell'informazione Mediaset che con Ronzulli ha ottimi rapporti. Secondo alcuni la telefonata è stata ispirata proprio da Berlusconi, ma in Forza Italia accusano Ronzulli di essere stata "più realista del re". La senatrice azzurra, contattata dal fattoquotidiano.it, ha negato che sia stata lei l'autrice della chiamata (…) ma a quanto risulta al Fatto, sarebbe stata proprio lei ad alzare la cornetta. Una decisione che non è piaciuta per niente a Gianni Letta - che ha pessimi rapporti con il cerchio magico di Arcore - e che Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, "ha accettato". Ma tant' è, restano i fatti: in poche ore salta la partecipazione del deputato meloniano Galeazzo Bignami a Zona Bianca condotto da Giuseppe Brindisi (mercoledì) e di Elisabetta Gardini a Diritto e Rovescio di Paolo Del Debbio (giovedì), entrambi su Rete 4. Il conduttore lucchese però ha smentito che sia arrivato un ordine dall'alto di questo genere. Venerdì sera invece viene annullata la presenza di Guido Crosetto a Stasera Italia, talk di Barbara Palombelli. Il motivo ufficiale delle tre esclusioni sarebbe la "contemporaneità con il festival di Sanremo" e le ospitate vengono rinviate: "Ci risentiamo presto", si sono sentiti dire gli addetti stampa di Fratelli d'Italia. Crosetto tornerà già mercoledì a Stasera Italia ma con una motivazione singolare: non viene considerato un esponente politico di FdI, ma in quota "commentatori e giornalisti" in quanto non è più parlamentare dal 2018. Insomma, il diktat di escludere esponenti meloniani dai talk Mediaset resta. Se l'esclusione andrà avanti anche la prossima settimana lo si scoprirà solo vivendo. (…)
Il dopo Quirinale e i luoghi comune. Chi sono i peones, i deputati simbolo di nullafacenza cui dobbiamo la rielezione di Mattarella. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.
Salvate il soldato peone. Per un’intera settimana i “grandi elettori” anonimi hanno ricevuto i più acuminati strali dell’antipolitica, sono stati proposti all’opinione pubblica come dei nullafacenti che gozzovigliavano per i ristoranti vicini alla Ztl del potere, senza riuscire a svolgere il loro compito: eleggere un nuovo capo dello Stato. Mancava poco a che nei talk show si proponesse la decimazione. Come se fossimo tutti nati ieri, si sono sentite, nelle maratone dei passi perduti, frasi prive di senso come questa: “Hanno avuto sette anni per pensarci, si sono ridotti a farlo all’ultimo momento?”; come se non fosse sempre stato così e non ci si rendesse conto di quanto sia stata scombinata la XVIII legislatura, proprio per responsabilità primaria di quanti hanno esercitato, il 4 marzo 2018, il diritto di elettorato attivo.
Che cosa altro avrebbe potuto fare un esercito sbandato, consapevole dell’inadeguatezza degli stati maggiori, privo di ordini che non fossero la diserzione dal seggio o la scheda bianca? Anzi, se non fosse stato la modalità di queste espressioni di voto rischiava di essere eletta una signora Bianca Scheda, purché cinquantenne. Qualche grande elettore si è concesso un po’ di cazzeggio goliardico. Eppure tra i suffragi per Amadeus o per qualche attrice o per il vicino di banco (nessuno ha definito “nano maledetto” un candidato non gradito), vi è stato chi ha dato un voto che denotava un bel po’ di consapevole perfidia. Mi riferisco a chi ha scritto “Nitto Palma” sulla sua scheda quando era in corso la “spallata” (con relativa lussazione) a favore della presidente Elisabetta Casellati, essendo noti i dissapori che esistono tra la personalità che ricopre la seconda carica dello Stato e il suo capo di gabinetto.
A pensarci bene, la “congiura dei peones” non ha sbagliato una sola mossa, sia pure con protagonisti diversi ma tenuti insieme dalla medesima intelligenza strategica. I congiurati hanno agito al momento giusto, approfittando lucidamente degli errori dei loro capobastone. Nel caso della canditura della presidente Casellati non si sono soltanto limitati a non aggiungere quel pacchetto di suffragi in più che Matteo Salvini aveva garantito agli alleati, ma hanno fatto chiaramente capire che sarebbe stato inutile insistere o provare con altre proposte simili. In quella votazione non era in ballo solo il profilo della candidata, ma la tenuta della maggioranza (quello di Salvini era stato veramente un sgarbo nei confronti degli altri gruppi) e la continuità del governo e della legislatura. E a questo punto è doveroso fare i conti con un altro luogo comune più volte ribadito anche nell’ultima settimana: “Costoro pensano solo a salvarsi il posto ancora per qualche per riscuotere lo stipendio e la pensione”.
Sarà anche vero; ma non vi è stato, in questa vicenda, alcun conflitto tra interesse dei parlamentari attaccati alla poltrona e quello del Paese. Non sarebbe stata sicuramente una prospettiva migliore quella di sfasciare tutto nell’anno in cui – cosa che non è ancora avvenuta – il Pnrr deve “atterrare” nella realtà, il ciclo economico potrebbe invertirsi determinando il superamento di una politica monetaria e di bilancio espansiva, la pandemia potrebbe riservare altre sorprese, soffiano venti di guerra nel cuore dell’Europa. Ma il vero capolavoro è emerso nella sesta votazione, quando, dopo il flop della presidente Casellati in quella precedente, Sergio Mattarella ha ottenuto una valanga di voti (336) benché gli ordini di scuderia, di vari gruppi, fossero diversi. Poi nell’ottava votazione si è verificata un’incomprensibile discrepanza tra gli stati maggiori e il collegio elettorale. Le aperture dei telegiornali, mentre erano in corso le operazioni di spoglio, annunciavano che si era trovata l’intesa su di una presidente e lanciavano – con orgogliosa sicurezza – il nome di Elisabetta Belloni, ne tracciavano il profilo e ne esaltavano la novità.
Mentre le immagini scorrevano sugli schermi e le parole dei conduttori – a partire dall’infortunio di Enrico Letta che ha azzardato persino una percentuale (il 99%) – continuavano con la solita solfa, compariva in sovraimpressione che Sergio Mattarella aveva ottenuto 386 voti, senza essere portato da nessuno. E a questo punto, sarebbe bastata un po’ di intelligenza per capire che, se qualcuno dei capataz non si fosse assunto la paternità di quella candidatura, Mattarella i peones lo avrebbero eletto da soli. Nulla da fare. I leader hanno trascorso un’intera notte a gettare nel tritacarne altri nomi (le cronache hanno riportato quelli di Casini, Cartabia, Severino, sui quali non si è trovata l’intesa) fino a quando non hanno deciso di arrendersi e di mettere l’operazione nelle mani di Mario Draghi. Pierfurby è uscito dalla trappola con eleganza. Il resto lo conosciamo. Magari è il caso di cominciare a riflettere sulle conseguenze della “settimana del loro scontento”; che poi è finita bene, perché lassù qualcuno ci ama. In primo luogo i leader dei partiti devono assumersi le loro responsabilità senza gettare la palla sulle gradinate.
Non ha alcun senso prendersela con il metodo di elezione e proporre di passare al suffragio popolare diretto. Su quest’argomento ha ragione il neo presidente della Consulta (altro ottimo evento la sua elezione) Giuliano Amato: «Non può essere vista come qualcosa che da sola si innesta in un sistema lasciandolo così com’è. I sistemi costituzionali sono come orologi. Le rotelle sono tutte collegate e l’orologio funziona se gli ingranaggi si incastrano. L’elezione diretta del capo dello Stato presenta benefici perché avviene in un giorno. Ma non puoi trasferirla così com’è in un sistema”. In sostanza, smettiamo di trattare la Costituzione come un Frankestein di norme purchessia. Come quando si è ritenuto di passare dalla Prima alla Seconda Repubblica grazie a una nuova legge elettorale. Se il presidente deve rappresentare l’unità nazionale – e non una parte politica – è molto meglio un processo di mediazione tra i partiti, come poi è sempre avvenuto, a volte anche in modo più complesso che con l’elezione del tredicesimo capo dello Stato. Poi è bene convincersi che le istituzioni sono organismi vitali, e come tali evolvono nel tempo, senza perdere la loro natura.
Il secondo mandato di Mattarella è pienamente legittimo, ma introduce un elemento di forte novità; perché è chiaro che il neo presidente ha davanti a sé altri sette anni durante i quali intende svolgere le funzioni a cui è stato chiamato. Prosegue dunque una fase politica che è iniziata con un sodalizio (Matterella-Draghi) che potrebbe essere definito come un semipresidenzialismo biunivoco, caratterizzato da una linea politica comune, in grado di mettere in sicurezza, a lungo, il Paese. Mario Draghi resta a Palazzo Chigi, ma ha le spalle coperte dal Quirinale. In queste condizioni il premier dovrebbe fare un pensierino in vista delle prossime elezioni, soprattutto se si tornerà finalmente a un sistema proporzionale dopo decenni sprecati con un bipolarismo innaturale in un paese come l’Italia. Perché non una lista Draghi? Giuliano Cazzola
(ANSA il 4 febbraio 2022) - Quanto sia arrivato inatteso per Sergio Mattarella il suo secondo mandato da presidente della Repubblica emerge anche da un suo breve dialogo con il presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato e il premier Mario Draghi, prima del giuramento alla Camera.
"Hai visto che è finita come dicevamo noi. Non come dicevi tu. E va be' succede, insomma", si sente dire Amato nella scena ripresa dalle telecamere, mentre Mattarella risponde: "È una cosa piuttosto... che altera programmi e prospettive".
La cattiva coscienza delle Camere. Paolo Armaroli il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Sergio Mattarella a Montecitorio si è trovato dinanzi ai suoi grandi elettori nelle stesse condizioni di Giorgio Napolitano non appena accettato il bis.
Ieri Sergio Mattarella a Montecitorio si è trovato dinanzi ai suoi grandi elettori nelle stesse condizioni di Giorgio Napolitano non appena accettato il bis. Ma ognuno ha la propria personalità e il proprio stile. Di qui comportamenti se non diametralmente opposti, di sicuro diversi. Nella seduta del Parlamento del 22 aprile 2013 Napolitano ha accenti degni di un Giovanni Gronchi. Così enfatizza la fiducia e l'affetto che ha visto in quegli anni crescere verso di lui e verso l'istituzione. Al pari di Mattarella, anche il suo predecessore non prevedeva di tornare nell'aula di Montecitorio per pronunciare un nuovo giuramento. E non ha difficoltà a riconoscere che la non rielezione al termine del settennato è l'alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale.
Ma poi Napolitano si arma di un nodoso bastone e non ha pietà per nessuno. Denuncia, con accenti degni di un Sandro Pertini, l'inconcludenza e l'impotenza di un'intera classe politica. Così come mette il dito sulla piaga delle omissioni e dei guasti, delle chiusure e delle irresponsabilità. La cosa stupefacente è che più lui picchia duro, più è sommerso dagli applausi. Una scena sadomasochistica in piena regola. Come se le paternali di Napolitano non riguardassero proprio loro.
Mattarella no, anziché il bastone ha usato la carota. Più che prendere di petto l'uditorio in malo modo, cose che non sono da lui, ha preferito mettersi sulla stessa lunghezza d'onda delle dichiarazioni programmatiche dei presidenti del Consiglio, considerate da Giovanni Malagodi niente più che brevi considerazioni sull'universo. In effetti, di cose Mattarella ne ha dette tante. Si è fatto portatore di quell'indirizzo politico costituzionale del quale era solito parlare un giurista del valore di Paolo Barile. Musica per le orecchie degli astanti.
È arcinoto che Mattarella, per usare termini scolastici, rende meglio nello scritto che nell'orale. È tutt'altro che un fine dicitore. Ma pochi sanno comunicare con i silenzi come lui. Quegli scatoloni pronti a partire. Quelle cose care prese dalla casa di Palermo. Quell'affitto dell'abitazione nei pressi di Piazza Ungheria. Quei commiati che non finivano mai. Tutti silenzi cantatori. Come quelli dinanzi all'Altare della Patria e fianco a fianco del suo omologo sloveno davanti alla foiba di Basovizza. Eppure, ieri a Montecitorio è accaduta una cosa straordinaria. Il capo dello Stato è stato subissato dagli applausi qualsiasi cosa dicesse. La verità è che gli applausi non erano tanto per le sue parole ma per lui, la leopardiana quiete dopo la tempesta dei giorni scorsi.
Un tifo da stadio. Applausi scroscianti. Standing ovation a ripetizione. Applausi liberatori. Segno diciamocela tutta di cattiva coscienza. Paolo Armaroli
Si dice dignità, si legge umanità. Stefano Zecchi il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Mattarella nel suo discorso ha toccato tutti i temi sensibili del momento, dall'economia alla sanità, al ruolo del Parlamento ed ha ringraziato le istituzioni dello Stato.
La dignitas è la base dell'humanitas. Così spiega il filosofo latino Seneca a Lucilio, governatore della Sicilia, a cui dedica 124 lettere dove sono trattati i temi fondamentali dell'educazione morale. Mattarella come Seneca? Ho contato che nel suo discorso di insediamento la parola «dignità» è stata ripetuta 18 volte, ma la cosa interessante non è soltanto il numero, pur considerevole, in cui è pronunciata la parola, ma l'ordine concettuale in cui è inserita nel discorso e la struttura sintattica con cui la parola dignità costruisce le singole frasi dove essa appare.
La dignità è una qualità morale con la quale la persona chiede rispetto per sé e, a sua volta, rispetta gli altri. Essa ha una relazione determinante con il concetto espresso dal verbo rispettare. Questa relazione è il fondamento dell'humanitas.
Mattarella nel suo discorso ha toccato tutti i temi sensibili del momento, dall'economia alla sanità, al ruolo del Parlamento e della politica, alla scuola e agli studenti, ha salutato e ringraziato le istituzioni dello Stato... E poteva finire qui, non avendo trascurato niente e nessuno. E invece no. Come se si fosse accorto che mancava l'architrave al suo discorso, ecco lo scarto filosofico, profondamente etico.
Possiamo anche essere d'accordo su tutto quello che ho affermato - sembra dirci Mattarella - ma nulla resta vero se non si comprende «la dimensione della dignità; c'è un significato etico e culturale che riguarda il valore delle persone e chiama in causa l'intera società. La dignità». E così il suo discorso, finora imperniato in una burocratica attenzione alle componenti del Paese e alle sue problematiche, prende il volo. Con una sintesi sferzante, degna di un grande moralista della scuola stoica, attacca l'immoralità di una società che trascura la dignità verso se stessa, ignorando i bisogni e le fragilità di chi fa parte di questa stessa società.
Allora si potranno prendere in una considerazione politica, amministrativa, giuridica i problemi relativi alle morti sul lavoro, al razzismo e all'antisemitismo, alla violenza sulle donne, alle migrazioni, alla tratta e alla schiavitù degli esseri umani, al diritto allo studio, al rispetto degli anziani, al contrasto della povertà, all'obbligo dell'ignobile scelta tra lavoro e maternità, alle carceri sovraffollate, al rispetto delle disabilità, al contrasto di mafia e criminalità, alla necessità di un'informazione libera. Dunque, si potrà prendere in considerazione tutto ciò (ho citato tutte le declinazioni dei problemi sollevati da Mattarella in cui appare la parola dignità), ma se non si comprende che la loro esistenza rappresenta un vulnus alla dignità della società e del singolo cittadino, tali problemi non verranno mai risolti e resteranno una ferita sanguinosa al senso di humanitas di una civiltà. Stefano Zecchi
Applausi record: più di uno al minuto Salvini assente, è positivo al Covid. Pasquale Napolitano il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Clima da primo giorno di scuola, volano le Frecce tricolori su Montecitorio. Saluto di benvenuto della Casellati: è la prima volta.
Cinquantatrè, 55, 52: l'applausometro va in tilt. L'unica certezza: il discorso, che apre ufficialmente il bis del presidente Sergio Mattarella, centra il record di applausi e alzate in piedi da parte dei grandi elettori riuniti a Montecitorio per il giuramento. Gli applausi sono stati più di 50 nei 37 minuti di discorso. Più di uno ogni minuto. Un record per le cronache quirinalizie. Una dura prova di «ginnastica» per i parlamentari, che già in mattinata sono stati costretti al tampone per presenziare al giuramento del capo dello Stato. Per 19 volte i grandi elettori si alzano in piedi per una standing ovation. Il tripudio per Mattarella è quasi unanime. L'unico partito, Fratelli d'Italia, che non ha votato per la rielezione, si associa ai festeggiamenti solo in due circostanze: nel momento in cui il Presidente Mattarella varca l'ingresso dell'Aula e durante il discorso, quando richiama la centralità del Parlamento e i diritti da garantire alle opposizioni. Nelle altre circostanze Fdi si astiene dagli applausi. Nell'Aula è un continuo spellarsi le mani. Gli applausi più rumorosi arrivano dai banchi del Pd e da quel M5s che aveva iniziato la legislatura con la richiesta di impeachment per il Capo dello Stato. La legislatura si chiude con l'estasi grillina per il Mattarella bis. Miracoli della politica. Il presidente batte tutti gli ex inquilini del Colle sugli applausi: 6 erano stati per Sandro Pertini, 29 per Giorgio Napolitano. L'Aula riserva un applauso anche al premier Mario Draghi nel momento dell'ingresso tra i banchi del governo. Rispetto alla tabella di marcia, l'entrata di Mattarella in Aula avviene con qualche minuto di ritardo. La chiusura del discorso è salutata da 5 minuti di applausi. I leader sono tutti presenti. Tutti tranne uno: Matteo Salvini. Il capo del Carroccio risulta positivo al Covid ed è costretto a disertare il giuramento: «Ai 10 milioni di italiani positivi e poi guariti, da oggi mi aggiungo io».
Il protocollo è rigido. Per la sfilata di Mattarella, la buvette di Montecitorio è chiusa. Il picchetto accoglie l'ingresso in Aula del Capo dello Stato. Clima da primo giorno di scuola per i parlamentari grillini che cercano di imbucarsi nei corridoi di Montecitorio per assistere da vicino al passaggio del nuovo Capo dello Stato. Il presidente della Camera controlla che non vi siano falle nell'organizzazione. Prima dell'inizio della cerimonia Fico effettua un sopralluogo e posta su Twitter la foto dell'Aula con un commento: «Sopralluogo in Aula e ultimi preparativi per il giuramento del Presidente della Repubblica Mattarella davanti al Parlamento in seduta comune». L'attesa è tanta.
Una curiosità: per la prima volta nella storia della Repubblica al Quirinale è la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati a rivolgere il saluto di benvenuto al capo dello Stato, Sergio Mattarella. Di solito è il presidente uscente e anche nel caso di Napolitano il saluto fu solo abolito. Dopo il discorso, Mattarella continua il suo tour istituzionale fino al Quirinale. Sul cielo di Montecitorio volano le frecce tricolori. La corsa è sui terrazzi della Camera per video e foto da riversare sui social. E su Facebook, Twitter e Instagram finiscono anche le foto dei parlamentari che ricevono l'esito (negativo): il pass per il Mattarella party. Pasquale Napolitano
Intervento in stile Dc che accontenta tutti. Ma senza scadenza: resterà sette anni. Paolo Bracalini il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Toccati i temi cari a ciascun partito. Non ci sono le stoccate che riservò Napolitano.
Per i parlamentari una giornata di festa per lo scampato pericolo: una crisi di governo con probabili elezioni alle porte e, per molti di loro, addio per sempre al seggio parlamentare. Guardando Mattarella invece vedono la prosecuzione dello status quo, altri dodici mesi di stipendi e futura pensione (la maturano il prossimo 24 settembre), perciò si spellano le mani dagli applausi, più di uno al minuto - 55 applausi in 40 minuti per la precisione - durante il discorso del presidente. E anche lui del resto non sembra afflitto dal secondo gravoso incarico, di durata settennale, che pure aveva in tutti i modi spiegato di non voler fare. Dalle sue parole, e dal suo tono, invece traspare la gratificazione per essere stato richiamato per acclamazione più che il sacrificio, che invece era stato palese e dichiarato nel discorso del bis di Giorgio Napolitano (un vero atto di accusa alle forze politiche per l'incapacità di trovare un successore). Nel caso di Mattarella bis invece nessun rimprovero ai partiti che l'hanno costretto a restare al Quirinale mentre aveva «altri piani», il presidente è sorridente, sereno. Il capo dello Stato ha una buona parola per tutti i partiti, dosa con sapienza democristiana i passaggi del discorso e i temi per conquistare tutto l'arco costituzionale, da destra a sinistra (e persino, sembrerebbe, le frange complottiste del Misto quando dice che «poteri economici sovranazionali, tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico»).
Con una architrave retorica fatta di richiami talmente universali da non scontentare nessuno: il diritto allo studio, il «rispetto per gli anziani che non possono essere lasciati alla solitudine», il «sostegno ai processi di pace», la cultura «elemento costitutivo dell'identità italiana», il problema dei giovani «costretti in lavori precari e malpagati», il compito di costruire «un'Italia più moderna», la riconoscenza a medici e operatori sanitari.
Mattarella si fa presidente di tutti i partiti, nel senso che li accontenta uno per uno, toccando tutti i tasti del pianoforte politico. Le ali più giustizialiste del Parlamento (soprattutto il M5s) si uniscono al saluto che Mattarella invia alle «nostre Magistrature, elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della nostra società». Ma subito dopo, rassicurando quelle più critiche sulla magistratura italiana (centrodestra ma anche renziani), Mattarella ricorda che «un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia. Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività» e che le correnti del Csm «devono rimanere estranee all'Ordine giudiziario». Applausi a sinistra quando ammonisce che «la nostra dignità è interrogata dalle migrazioni, soprattutto quando non siamo capaci di difendere il diritto alla vita», ma è contenta anche la destra quando sottolinea che «la nostra dignità ci impone di combattere, senza tregua, la tratta e la schiavitù degli esseri umani» (infatti Giorgia Meloni apprezza, osservando con ironia la «significativa discontinuità con il presidente precedente»). Viene ringraziato il governo Draghi, che sta «ponendo le basi di una nuova stagione di crescita sostenibile del Paese e dell'Europa». Ma con riguardo anche ai critici del governo per l'eccessivo ricorso ai decreti legge, perchè «è cruciale il ruolo del Parlamento, come luogo della partecipazione». La sinistra applaude per i passaggi sulla «lotta alle diseguaglianze e alle povertà» e sull'«ambiente», a destra fa breccia l'apprezzamento per le forze dell'ordine «garanzia di libertà nella sicurezza». Una lunga serie di impegni per «costruire, in questi prossimi anni, l'Italia del dopo emergenza». Altro che mandato a termine, l'orizzonte del presidente è lungo sette anni. Paolo Bracalini
Il discorso del Presidente della Repubblica. Mattarella bacchetta politici (che lo applaudono) e magistrati: “Manca progettualità, la giustizia così perde credibilità”. Redazione su Il Riformista il 3 Febbraio 2022.
Sergio Mattarella inizia il suo mandato bis alla guida del Colle bacchettando politici e magistrati, colpevoli da una parte di mancata progettualità dall’altra di aver dato vita a “un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività” mettendo in secondo piano le “pressanti esigenze di efficienza e di credibilità”. Il Presidente, completo scuro e cravatta blu, ha giurato “di essere fedele alla Repubblica e di osservare lealmente la Costituzione” alle 15.30 alla Camera, tra gli applausi dei Grandi Elettori, protagonisti della scellerata settimana politica appena trascorsa. Settimana che lo stesso Mattarella, interrotto più volte da lunghi applausi, soprattutto quando ha affrontato il tema della riforma della Giustizia, ha definito “travagliata” anche per lui.
Mattarella, salutato dal presidente della Camera Roberto Fico e dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati (che ha coltivato per qualche ora il sogno di sostituirlo al Colle), ricorda gli ultimi sette giorni della politica italiana, quelli che hanno portato nuovamente alla sua elezione, sottolineando che mentre gli italiani “si attendono dalle istituzioni della Repubblica garanzia di diritti, rassicurazione, sostegno e risposte concrete al loro disagio”, le stesse attese “sarebbero state fortemente compromesse dal prolungarsi di uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni, le cui conseguenze avrebbero potuto mettere a rischio anche risorse decisive e le prospettive di rilancio del Paese impegnato a uscire da una condizione di grandi difficoltà”. Poi la mazzata ai partiti e alle divisioni croniche: “Leggo questa consapevolezza nel voto del Parlamento che ha concluso i giorni travagliati della scorsa settimana. E’ questa stessa consapevolezza la ragione del mio sì e sarà al centro del mio impegno di Presidente della nostra Repubblica nell’assolvimento di questo nuovo mandato”.
Poi l’attacco, più che appello, al potere giudiziario italiano che da anni è chiamato a un “profondo processo riformatore”. Parole durissime quelle del capo dello Stato e presidente del Consiglio Superiore della Magistratura: “Rivolgo un saluto rispettoso alla Corte Costituzionale, presidio di garanzia dei principi della nostra Carta. Nell’inviare un saluto alle nostre Magistrature – elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della nostra società –mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia”.
“Per troppo tempo – incalza Mattarella – è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività. Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della Magistratura – uno dei cardini della nostra Costituzione – l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini”.
“È indispensabile – aggiunge il capo dello Stato – che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’Ordine giudiziario. Occorre per questo che venga recuperato un profondo rigore”.
Mattarella ha ricordato che “in sede di Consiglio Superiore ho sottolineato, a suo tempo, che indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza. I cittadini – ha concluso – devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone. Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati. La Magistratura e l’Avvocatura sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia, allineandola agli standard europei”.
Il discorso integrale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella
"Signori Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica,
Signori parlamentari e delegati regionali,
il Parlamento e i rappresentanti delle Regioni hanno fatto la loro scelta.
E’ per me una nuova chiamata – inattesa – alla responsabilità; alla quale tuttavia non posso e non ho inteso sottrarmi.
Ritorno dunque di fronte a questa Assemblea, nel luogo più alto della rappresentanza democratica, dove la volontà popolare trova la sua massima espressione.
Vi ringrazio per la fiducia che mi avete manifestato chiamandomi per la seconda volta a rappresentare l’unità della Repubblica.
Adempirò al mio dovere secondo i principi e le norme della Costituzione, cui ho appena rinnovato il giuramento di fedeltà, e a cui ho cercato di attenermi in ogni momento nei sette anni trascorsi.
La lettera e lo spirito della nostra Carta continueranno a essere il punto di riferimento della mia azione.
Il mio pensiero, in questo momento, è rivolto a tutte le italiane e a tutti gli italiani: di ogni età, di ogni Regione, di ogni condizione sociale, di ogni orientamento politico. E, in particolare, a quelli più in sofferenza, che si attendono dalle istituzioni della Repubblica garanzia di diritti, rassicurazione, sostegno e risposte concrete al loro disagio.
Queste attese sarebbero state fortemente compromesse dal prolungarsi di uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni, le cui conseguenze avrebbero potuto mettere a rischio anche risorse decisive e le prospettive di rilancio del Paese impegnato a uscire da una condizione di grandi difficoltà.
Leggo questa consapevolezza nel voto del Parlamento che ha concluso i giorni travagliati della scorsa settimana.
E’ questa stessa consapevolezza la ragione del mio sì e sarà al centro del mio impegno di Presidente della nostra Repubblica nell’assolvimento di questo nuovo mandato.
Nel momento in cui i Presidenti di Camera e Senato mi hanno comunicato l’esito della votazione, ho parlato delle urgenze – sanitaria, economica e sociale – che ci interpellano. Non possiamo permetterci ritardi, né incertezze.
La lotta contro il virus non è conclusa, la campagna di vaccinazione ha molto ridotto i rischi ma non ci sono consentite disattenzioni.
E’ di piena evidenza come la ripresa di ogni attività sia legata alla diffusione dei vaccini che aiutano a proteggere noi stessi e gli altri.
Questo impegno si unisce a quello per la ripresa, per la costruzione del nostro futuro.
L’Italia è un grande Paese.
Lo spirito di iniziativa degli italiani, la loro creatività e solidarietà, lo straordinario impegno delle nostre imprese, le scelte delle istituzioni ci hanno consentito di ripartire. Hanno permesso all’economia di raggiungere risultati che adesso ci collocano nel gruppo di testa dell’Unione. Ma questa ripresa, per consolidarsi e non risultare effimera, ha bisogno di progettualità, di innovazione, di investimenti nel capitale sociale, di un vero e proprio salto di efficienza del sistema-Paese.
Nuove difficoltà si presentano. Le famiglie e le imprese dovranno fare i conti con gli aumenti del prezzo dell’energia. Preoccupa la scarsità e l’aumento del prezzo di alcuni beni di importanza fondamentale per i settori produttivi.
Viviamo in una fase straordinaria in cui l’agenda politica è in gran parte definita dalla strategia condivisa in sede europea.
L’Italia è al centro dell’impegno di ripresa dell’Europa. Siamo i maggiori beneficiari del programma Next Generation e dobbiamo rilanciare l’economia all’insegna della sostenibilità e dell’innovazione, nell’ambito della transizione ecologica e digitale.
La stabilità di cui si avverte l’esigenza è, quindi, fatta di dinamismo, di lavoro, di sforzo comune.
I tempi duri che siamo stati costretti a vivere ci hanno lasciato una lezione: dobbiamo dotarci di strumenti nuovi per prevenire futuri possibili pericoli globali, per gestirne le conseguenze, per mettere in sicurezza i nostri concittadini.
L’impresa alla quale si sta ponendo mano richiede il concorso di ciascuno.
Forze politiche e sociali, istituzioni locali e centrali, imprese e sindacati, amministrazione pubblica e libere professioni, giovani e anziani, città e zone interne, comunità insulari e montane. Vi siamo tutti chiamati.
L’esempio ci è stato dato da medici, operatori sanitari, volontari, da chi ha garantito i servizi essenziali nei momenti più critici, dai sindaci, dalle Forze Armate e dalle Forze dell’ordine, impegnate a sostenere la campagna vaccinale: a tutti va riaffermata la nostra riconoscenza.
Questo è l’orizzonte che abbiamo davanti.
Dobbiamo disegnare e iniziare a costruire, in questi prossimi anni, l’Italia del dopo emergenza.
E’ ancora tempo di un impegno comune per rendere più forte l’Italia, ben oltre le difficoltà del momento.
Un’Italia più giusta, più moderna, intensamente legata ai popoli amici che ci attorniano.
Un Paese che cresca in unità.
In cui le disuguaglianze – territoriali e sociali – che attraversano le nostre comunità vengano meno.
Un’Italia che offra ai suoi giovani percorsi di vita nello studio e nel lavoro per garantire la coesione del nostro popolo.
Un’Italia che sappia superare il declino demografico a cui l’Europa sembra condannata.
Un’Italia che tragga vantaggio dalla valorizzazione delle sue bellezze, offrendo il proprio modello di vita a quanti, nel mondo, guardano ad essa con ammirazione.
Un’Italia impegnata nella tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi, consapevole della responsabilità nei confronti delle future generazioni.
Una Repubblica capace di riannodare il patto costituzionale tra gli italiani e le loro istituzioni libere e democratiche.
Rafforzare l’Italia significa anche, metterla in grado di orientare il processo per rilanciare l’Europa, affinché questa divenga più efficiente e giusta; rendendo stabile e strutturale la svolta che è stata compiuta nei giorni più impegnativi della pandemia.
L’apporto dell’Italia non può mancare: servono idee, proposte, coerenza negli impegni assunti.
La Conferenza sul futuro dell’Europa non può risolversi in un grigio passaggio privo di visione storica ma deve essere l’occasione per definire, con coraggio, una Unione protagonista nella comunità internazionale.
In aderenza alle scelte della nostra Costituzione, la Repubblica ha sempre perseguito una politica di pace. In essa, con ferma adesione ai principi che ispirano l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Trattato dell’Atlantico del Nord, l’Unione Europea, abbiamo costantemente promosso il dialogo reciprocamente rispettoso fra le diverse parti affinché prevalessero i principi della cooperazione e della giustizia.
Da molti decenni i Paesi europei possono godere del dividendo di pace, concretizzato nell’integrazione europea e accresciuto dal venir meno della Guerra fredda.
Non possiamo accettare che ora, senza neppure il pretesto della competizione tra sistemi politici ed economici differenti, si alzi nuovamente il vento dello scontro; in un continente che ha conosciuto le tragedie della Prima e della Seconda guerra mondiale.
Dobbiamo fare appello alle nostre risorse e a quelle dei paesi alleati e amici affinché le esibizioni di forza lascino il posto al reciproco intendersi, affinché nessun popolo debba temere l’aggressione da parte dei suoi vicini.
I popoli dell’Unione Europea devono esser consapevoli che ad essi tocca un ruolo di sostegno ai processi di stabilizzazione e di pace nel martoriato panorama mediterraneo e medio-orientale. Non si può sfuggire alle sfide della storia e alle relative responsabilità.
Su tutti questi temi – all’interno e nella dimensione internazionale – è intensamente impegnato il Governo guidato dal Presidente Draghi; nato, con ampio sostegno parlamentare, nel pieno dell’emergenza e ora proiettato a superarla, ponendo le basi di una nuova stagione di crescita sostenibile del Paese e dell’Europa. Al Governo esprimo un convinto ringraziamento e gli auguri di buon lavoro.
I grandi cambiamenti che stiamo vivendo a livello mondiale impongono soluzioni rapide, innovative, lungimiranti, che guardino alla complessità dei problemi e non soltanto agli interessi particolari.
Una riflessione si propone anche sul funzionamento della nostra democrazia, a tutti i livelli.
Proprio la velocità dei cambiamenti richiama, ancora una volta, il bisogno di costante inveramento della democrazia.
Un’autentica democrazia prevede il doveroso rispetto delle regole di formazione delle decisioni, discussione, partecipazione. L’esigenza di governare i cambiamenti sempre più rapidi richiede risposte tempestive. Tempestività che va comunque sorretta da quell’indispensabile approfondimento dei temi che consente puntualità di scelte.
Occorre evitare che i problemi trovino soluzione senza l’intervento delle istituzioni a tutela dell’interesse generale: questa eventualità si traduce sempre a vantaggio di chi è in condizioni di maggior forza.
Poteri economici sovranazionali, tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico.
Su un altro piano, i regimi autoritari o autocratici rischiano ingannevolmente di apparire, a occhi superficiali, più efficienti di quelli democratici, le cui decisioni, basate sul libero consenso e sul coinvolgimento sociale, sono, invece, ben più solide ed efficaci.
La sfida – che si presenta a livello mondiale – per la salvaguardia della democrazia riguarda tutti e anzitutto le istituzioni.
Dipenderà, in primo luogo, dalla forza del Parlamento, dalla elevata qualità della attività che vi si svolge, dai necessari adeguamenti procedurali.
Vanno tenute unite due esigenze irrinunziabili: rispetto dei percorsi di garanzia democratica e, insieme, tempestività delle decisioni.
Per questo è cruciale il ruolo del Parlamento, come luogo della partecipazione. Il luogo dove si costruisce il consenso attorno alle decisioni che si assumono. Il luogo dove la politica riconosce, valorizza e immette nelle istituzioni ciò che di vivo cresce nella società civile.
Così come è decisivo il ruolo e lo spazio delle autonomie. Il pluralismo delle istituzioni, vissuto con spirito di collaborazione – come abbiamo visto nel corso dell’emergenza pandemica – rafforza la democrazia e la società.
Non compete a me indicare percorsi riformatori da seguire. Ma dobbiamo sapere che dalle risposte che saranno date a questi temi dipenderà la qualità della nostra democrazia.
Quel che appare comunque necessario – nell’indispensabile dialogo collaborativo tra Governo e Parlamento è che – particolarmente sugli atti fondamentali di governo del Paese – il Parlamento sia sempre posto in condizione di poterli esaminare e valutare con tempi adeguati. La forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi.
Appare anche necessario un ricorso ordinato alle diverse fonti normative, rispettoso dei limiti posti dalla Costituzione.
La qualità stessa e il prestigio della rappresentanza dipendono, in misura non marginale, dalla capacità dei partiti di esprimere ciò che emerge nei diversi ambiti della vita economica e sociale, di favorire la partecipazione, di allenare al confronto.
I partiti sono chiamati a rispondere alle domande di apertura che provengono dai cittadini e dalle forze sociali.
Senza partiti coinvolgenti, così come senza corpi sociali intermedi, il cittadino si scopre solo e più indifeso. Deve poter far affidamento sulla politica come modalità civile per esprimere le proprie idee e, insieme, la propria appartenenza alla Repubblica.
Il Parlamento ha davanti a sé un compito di grande importanza perché, attraverso nuove regole, può favorire una stagione di partecipazione.
Anche sul piano etico e culturale, è necessario – proprio nel momento della difficoltà – sollecitare quella passione che in tanti modi si esprime nella nostra comunità. Occorre che tutti, i giovani in primo luogo, sentano su di loro la responsabilità di prendere il futuro sulle loro spalle, portando nella politica e nelle istituzioni novità ed entusiasmo.
Rivolgo un saluto rispettoso alla Corte Costituzionale, presidio di garanzia dei principi della nostra Carta.
Nell’inviare un saluto alle nostre Magistrature – elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della nostra società –mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia.
Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività.
Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della Magistratura – uno dei cardini della nostra Costituzione – l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini.
È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’Ordine giudiziario.
Occorre per questo che venga recuperato un profondo rigore.
In sede di Consiglio Superiore ho sottolineato, a suo tempo, che indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza.
I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone.
Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati.
La Magistratura e l’Avvocatura sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia, allineandola agli standard europei.
Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace, elemento significativo nella politica internazionale della Repubblica, alle Forze dell’ordine, garanzia di libertà nella sicurezza, manifesto il mio apprezzamento, unitamente al rinnovo del cordoglio per quanti hanno perduto la vita nell’ assolvimento del dovere.
Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato, ringrazio per l’amicizia e la collaborazione espressa nei confronti del nostro Paese.
Ai numerosi connazionali presenti nelle più diverse parti del globo va il mio saluto affettuoso, insieme al riconoscimento per il contributo che danno alla comprensione dell’identità italiana nel mondo
A Papa Francesco, al cui magistero l’Italia guarda con grande rispetto, rivolgo i sentimenti di gratitudine del popolo italiano.
Un messaggio di amicizia invio alle numerose comunità straniere presenti in Italia: la loro affezione nei confronti del nostro Paese in cui hanno scelto di vivere e il loro apporto alla vita della nostra società sono preziosi.
L’Italia è, per antonomasia, il Paese della bellezza, delle arti, della cultura. Così nel resto del mondo guardano, fondatamente, verso di noi.
La cultura non è il superfluo: è un elemento costitutivo dell’identità italiana.
Facciamo in modo che questo patrimonio di ingegno e di realizzazioni – da preservare e sostenere – divenga ancor più una risorsa capace di generare conoscenza, accrescimento morale e un fattore di sviluppo economico. Risorsa importante particolarmente per quei giovani che vedono nelle università, nell’editoria, nelle arti, nel teatro, nella musica, nel cinema un approdo professionale in linea con le proprie aspirazioni.
Sosteniamo una scuola che sappia accogliere e trasmettere preparazione e cultura, come complesso dei valori e dei principi che fondano le ragioni del nostro stare insieme; volta ad assicurare parità di condizioni e di opportunità.
Costruire un’Italia più moderna è il nostro compito.
Ma affinché la modernità sorregga la qualità della vita e un modello sociale aperto, animato da libertà, diritti e solidarietà, è necessario assumere la lotta alle diseguaglianze e alle povertà come asse portante delle politiche pubbliche.
Nell’ultimo periodo gli indici di occupazione sono saliti – ed è un dato importante – ma ancora tante donne sono escluse dal lavoro, e la marginalità femminile costituisce uno dei fattori di rallentamento del nostro sviluppo, oltre che un segno di ritardo civile, culturale, umano.
Tanti, troppi giovani sono sovente costretti in lavori precari e malpagati, quando non confinati in periferie esistenziali.
E’ doveroso ascoltare la voce degli studenti, che avvertono tutte le difficoltà del loro domani e cercano di esprimere esigenze, domande volte a superare squilibri e contraddizioni.
La pari dignità sociale è un caposaldo di uno sviluppo giusto ed effettivo.
Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita.
Nostro compito – come prescrive la Costituzione – è rimuovere gli ostacoli.
Accanto alla dimensione sociale della dignità, c’è un suo significato etico e culturale che riguarda il valore delle persone e chiama in causa l’intera società.
La dignità.
Dignità è azzerare le morti sul lavoro, che feriscono la società e la coscienza di ciascuno di noi. Perché la sicurezza del lavoro, di ogni lavoratore, riguarda il valore che attribuiamo alla vita.
Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro.
Quasi ogni giorno veniamo richiamati drammaticamente a questo primario dovere della nostra società.
Dignità è opporsi al razzismo e all’antisemitismo, aggressioni intollerabili, non soltanto alle minoranze fatte oggetto di violenza, fisica o verbale, ma alla coscienza di ciascuno di noi.
Dignità è impedire la violenza sulle donne, profonda, inaccettabile piaga che deve essere contrastata con vigore e sanata con la forza della cultura, dell’educazione, dell’esempio.
La nostra dignità è interrogata dalle migrazioni, soprattutto quando non siamo capaci di difendere il diritto alla vita, quando neghiamo nei fatti la dignità umana degli altri.
E’ anzitutto la nostra dignità che ci impone di combattere, senza tregua, la tratta e la schiavitù degli esseri umani.
Dignità è diritto allo studio, lotta all’abbandono scolastico, annullamento del divario tecnologico e digitale.
Dignità è rispetto per gli anziani che non possono essere lasciati alla solitudine, privi di un ruolo che li coinvolga.
Dignità è contrastare le povertà, la precarietà disperata e senza orizzonte che purtroppo mortifica le speranze di tante persone.
Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità.
Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza.
Dignità è un Paese non distratto di fronte ai problemi quotidiani che le persone con disabilità devono affrontare, e capace di rimuovere gli ostacoli che immotivatamente incontrano nella loro vita.
Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, dalla complicità di chi fa finta di non vedere.
Dignità è garantire e assicurare il diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente.
La dignità, dunque, come pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile.
A questo riguardo – concludendo – desidero ricordare in quest’aula il Presidente di un’altra Assemblea parlamentare, quella europea, David Sassoli.
La sua testimonianza di uomo mite e coraggioso, sempre aperto al dialogo e capace di rappresentare le istituzioni democratiche ai livelli più alti, è entrata nell’animo degli italiani.
“Auguri alla nostra speranza” sono state le sue ultime parole in pubblico.
Aveva appena detto: “La speranza siamo noi”.
Ecco, noi, insieme, responsabili del futuro della nostra Repubblica.
Viva la Repubblica, viva l’Italia!"
Giustizia, sono finiti gli anni "timidi": Mattarella vuole subito la riforma. Nel suo intervento il capo dello Stato fa la voce grossa per ottenere la revisione di un sistema che non solo è il più lento d’Europa, ma negli ultimi anni si è anche rivelato arbitrario e corrotto. VITTORIO FERLA Il Quotidiano del Sud il 5 Febbraio 2022.
Le abbiamo contate: sono 278 le parole che Sergio Mattarella ha dedicato alla riforma della Giustizia nel suo discorso. Un’inezia rispetto alla vastità e puntualità dei temi toccati. Eppure, la parte del messaggio del Presidente dedicata alla giustizia è pari a circa il 10% del totale. Perché, tra tutti gli argomenti citati, Mattarella ha insistito così a lungo sul ruolo della magistratura? Lo capiremo meglio nei prossimi mesi, quando potremo verificare se, all’appello del Presidente, corrisponderà un suo concreto impulso per le riforme.
DAGLI ANNI ‘90 LA DERIVA
Negli ultimi anni, il peso della magistratura sulla vita pubblica italiana è cresciuto in maniera spropositata. Il fenomeno affonda le sue radici nel crollo della Prima Repubblica e nel trauma di Tangentopoli. Fu allora che la magistratura sferrò il colpo di grazia al sistema dei partiti del dopoguerra, superato storicamente dalla fine del bipolarismo Est-Ovest (e dalla caduta del Muro di Berlino) e guastato dalla corruzione diffusa. Proprio in questo mese si celebrano i 30 anni dall’inizio di Tangentopoli: sarebbe l’occasione buona per una rilettura spassionata di quella stagione.
Nel corso di questo trentennio, la magistratura si è sempre più autoeletta tutore univoco della Costituzione, supplendo al progressivo declino dei partiti. I giudici sono spesso entrati pesantemente nella vita pubblica: decine e decine di politici e amministratori pubblici sono caduti sotto la pressione di indagini che hanno interrotto la loro vita politica e distrutto la loro reputazione personale. Spesso, i processi si sono risolti in un nulla di fatto, con un numero elevato di assoluzioni. Ma la fine del tormento è avvenuto sempre dopo un tempo lunghissimo, spesso ultradecennale, tale da impedire la riabilitazione tempestiva degli imputati.
Questi casi non sono isolati, bensì sono il frutto di un’ondata giustizialista che affonda le sue radici culturali negli anni di Tangentopoli, si consolida nella lotta politico-giudiziaria contro Silvio Berlusconi, si alimenta con la trasformazione dell’antipolitica delle origini in un movimento populista organizzato che, alla fine, è sbarcato nelle aule parlamentari.
L’argomento della certezza della pena si è fatto strada a scapito dell’argomento della certezza del diritto: il ministro grillino Alfonso Bonafede è stato il campione di questa linea che salda la pervasività del potere della magistratura all’aspettativa di una crescente severità delle pene. In questo clima, le antiche deficienze del sistema giudiziario resistono o, perfino, si aggravano.
L’EUROPA E LA SPINTA DEL COLLE
Secondo i dati del Consiglio d’Europa, la giustizia italiana è la più lenta nel confronto con gli altri Paesi europei. La durata media di un processo civile è pari a sette anni e tre mesi circa. In confronto, i processi durano circa la metà in Francia e in Spagna, mentre circa un terzo in Germania.
In generale, per i cittadini italiani avere a che fare con il sistema giudiziario è come fare una gita all’inferno. Le cronache degli ultimi anni – ivi comprese le confessioni di Luca Palamara, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati – rivelano numerosi casi di abusi della magistratura, un sistema di autogoverno arbitrario e corrotto, la moltiplicazione delle faide tra le correnti dei giudici: il potere giudiziario appare irrimediabilmente autoreferenziale e sempre più intossicato. A quanti hanno denunciato le derive di questi anni, l’azione di Sergio Mattarella – che, in qualità di capo dello Stato, è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura – è apparsa troppo timida, se non addirittura subalterna alla magistratura e al cosiddetto “partito dei Pm”.
Forse è per questo che, l’altroieri Mattarella ha scelto di fare la voce grossa. I principi di autonomia e di indipendenza – il cui presidio, avverte il presidente «risiede nella coscienza dei cittadini» – vanno rispettati, certo. Ma «l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini», aggiunge il capo dello Stato.
Mattarella chiede «che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento» e che siano superate «le logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’ordine giudiziario».
Per Mattarella il potere giudiziario è vincolato al rispetto dei diritti dei cittadini. I quali «devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’ordine giudiziario» e non «devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone».
Al Parlamento, investito di questo appello, resta appena un anno di lavoro. Ma le resistenze dei magistrati, unite all’insufficienza della riforma Cartabia, allontanano ancora la soluzione del problema.
Il discorso di insediamento del Presidente. La forza del presidente Mattarella e le critiche di Travaglio e del Fatto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 6 Febbraio 2022.
Il ruolo del Presidente della Repubblica nel nostro sistema costituzionale – ruolo di garanzia e di orientamento costituzionale dell’autonoma attività parlamentare e di governo – condanna tradizionalmente il Capo dello Stato a discorsi, come dire, di alto profilo istituzionale ma di prudente genericità contenutistica (fatto salvo il peculiare ed eccezionale strumento del messaggio alle Camere, naturalmente). Dunque sappiamo da sempre cosa sia lecito attendersi dai discorsi ufficiali del Presidente, anche dai più solenni quali quello di insediamento, o quelli consueti di fine anno: richiami ai principi costituzionali, sollecitazioni nella scala delle priorità valoriali, moniti sull’etica pubblica e sulla doverosa nobiltà della politica, solidarietà ed attenzione verso i più deboli.
Ferme queste premesse, è difficile non cogliere nelle parole che il Presidente Mattarella ha rivolto alle Camere riunite in occasione del suo secondo insediamento al Quirinale, un segnale di novità proprio sullo specifico tema della riforma della giustizia. Non fosse altro perché, al contrario, sul tema questo Presidente è stato sempre molto parco. Salvo errori, non ho ricordo di significativi interventi del Presidente Mattarella, in questi primi sette anni, che ponessero al centro della sua attenzione i principi costituzionali del giusto processo, della presunzione di non colpevolezza, della eccezionalità della privazione della libertà personale prima di una definitiva sentenza di condanna, della finalità rieducativa della pena. Sulla stessa riforma dell’ordinamento giudiziario egli, pur presiedendo il Consiglio Superiore della Magistratura nel periodo certamente di più grave crisi nella storia repubblicana, non è in realtà mai andato oltre generici richiami di principio ad un riscatto etico e morale del potere giudiziario.
Anche per contrasto con questo suo consolidato atteggiamento, le parole sulla riforma della giustizia spese in questa seconda cerimonia di insediamento, pur sempre costrette nella cornice istituzionale propria del ruolo, colpiscono per la loro inedita forza. Le sollecitazioni circa la necessità che la magistratura recuperi credibilità agli occhi dei cittadini (“sentimento fortemente indebolito”) non sono certo nuove. Lo è molto di più, invece, la riflessione successiva, per la quale i cittadini «neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie e imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone». Una riflessione secca, dura e chiara che considera finalmente la giustizia penale anche dal punto di vista di chi ne subisce l’esercizio. Se rimanete scettici rispetto a questa mia riflessione, vi invito a leggere il Fatto Quotidiano di oggi: “Mattarella bis: 55 applausi, soprattutto contro i giudici”. E di lato, il direttore Travaglio riserva nel suo editoriale commenti astiosi esattamente alle stesse parole che vi ho ora riportato.
Mattarella bacchetta politici (che lo applaudono) e magistrati: “Manca progettualità, la giustizia così perde credibilità”
Non solo: per la prima volta il Presidente sottolinea come «Magistratura ed Avvocatura sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia». È un richiamo esplicito al ruolo cruciale dell’Avvocatura in ogni serio percorso di riforma della giustizia, che sarebbe sciocco non apprezzare e valorizzare. Soprattutto considerando che proprio sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, diversamente che in tema di riforma del processo penale, Governo e Parlamento hanno scelto di escluderci da ogni tavolo di discussione, percorrendo la strada, sterile e pericolosa, del confronto esclusivo con la magistratura associata, chiamata dunque, contro ogni logica, a riformare sé stessa.
Se infine consideriamo il richiamo al sovraffollamento carcerario come intollerabile offesa alla dignità umana, possiamo a buona ragione salutare con vivo apprezzamento nelle parole del Presidente della Repubblica il segno di una nuova attenzione ai temi della giustizia penale, declinata anche sul versante di chi ne subisce i morsi, e non più solo delle virtù di chi l’amministra. Il tempo ci dirà se si tratta di una rinnovata sensibilità del supremo garante della nostra Costituzione, come la solennità dell’occasione ci autorizza a credere, e comunque a sperare.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Giustizialisti in lutto. Mattarella lancia l’allarme sulle carceri e scatena la furia di Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Febbraio 2022.
Il fronte giustizialista, dopo la gaffe dell’altro ieri in Parlamento, è stato preso per le orecchie e richiamato all’ordine da Marco Travaglio. Il quale in questi giorni ha un bel da fare a tenere uniti i suoi che scappano da tutte le parti: cinquestellati indisciplinati, dimaisti diventati liberal, Conte che sbaglia le dichiarazioni, magistrati che ci capiscono poco e vanno appresso alla corrente esultando invece di fischiare. Un vero casino. Adesso, sembra, il fronte si è ricompattato (salvo i traditori” come Di Maio, che quello è più infido di Galeazzo Ciano…), ed è sceso in trincea contro il trio delle streghe: Mattarella-Draghi-Cartabia.
Travaglio è stato molto rude sul suo giornale: si è disperato per l’insipienza di un bel drappello di 5 Stelle, anzi di tutti, che si son spellati le mani senza accorgersi che Mattarella stava attaccando i magistrati. Il povero direttore, che ormai ha assunto stabilmente la direzione di quel che resta del grillismo, li ha bastonati. Deve aver pensato che se gli tocca andare avanti con questi qua non va molto lontano. Nel suo richiamo all’ordine, anche per farsi capire dalle teste dure del suo seguito, ha menato fendenti contro Mattarella, accusandolo anche di avere tradito la Costituzione. Come? Non accettando la nomina di Paolo Savona a ministro dell’economia e poi accettando le dimissioni di Conte e conferendo l’incarico a Draghi. Travaglio ritiene che la Costituzione su questo punto sia moto chiara: il premier deve essere Conte. Comunque il grande equivoco dell’altro giorno è stato assai divertente. Vedere mezzo fronte giustizialista (molto più di mezzo) battere le mani a Mattarella che picconava la magistratura, è stato abbastanza spassoso. E certo non si può dare torto a Travaglio e alla sua furia. Pensate che persino Gratteri ha omaggiato Mattarella, e che oltretutto il suo omaggio è stato valorizzato proprio dal Fatto, probabilmente all’insaputa del direttore.
Quindi oggi si festeggia? No, per una semplice ragione. Quel Parlamento che ha passato il pomeriggio ad applaudire Mattarella è lo stesso parlamento di conigli che negli anni scorsi si è sempre piegato ai diktat della magistratura. Voi conoscete molti parlamentari che si sono battuti contro lo strapotere dei Pm e per il ritorno allo stato di diritto (invocato da Mattarella)? Io al massimo una decina. Tutti gli altri sono sempre rimasti zitti, non hanno speso un centesimo del loro tempo per occuparsi dei problemi della giustizia. Molti hanno fatto silenzio persino difronte agli orrori di Bonafede, alle leggi borboniche, alle spazzacorrotti e spazza diritto, alla consacrazione dell’eternità dei processi con l’abolizione della prescrizione, all’affossamento della riforma carceraria, alla liberalizzazione dei trojan tedesco-orientali, alle autorizzazioni ai processi politici ai ministri; i più anziani di loro non si erano opposti all’arresto del senatore Caridi (dichiarato dopo alcuni di carcere del tutto innocente), né all’espulsione dal Senato di Augusto Minzolini (condannato da un giudice ex sottosegretario del partito avversario) né di Berlusconi, avevano votato la legge Severino, che è una mostruosità, e avevano in tutti i modi contribuito al disfacimento del nostro sistema giudiziario, trasformato in una casamatta del potere senza controllo di un gruppetto di magistrati.
Perché allora applaudivano quando Mattarella denunciava questi misfatti? Certo, i misfatti più gravi sono da attribuire alla magistratura, ma i parlamentari erano stati complici convinti. Perchè erano stati complici? Solo per paura, per codardia? Può darsi. E può darsi che ascoltando il “capo” che dava via libera a una riforma moderna del catafalco giustizia, abbiano pensato: ma allora si può!. Sarà anche così, ma proprio per questo: c’è da fidarsi? Io non mi fido. Non c’è bisogno di un Parlamento che faccia piccole riforme. Occorrono colpi d’ascia con l’obiettivo di riportare sotto controllo un potere assoluto che ha maturato una degenerazione correntizia e soprattutto sovversiva. Servono molte leggi che spezzino questa capacità di sopraffazione che inquina la modernità e la civiltà e la libertà.
Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, fine del controllo del Csm da parte della corporazione e delle correnti, prescrizione, introduzione di elementi che stabiliscano la reale parità tra difesa e accusa, divieto di porte girevoli tra politica e magistratura, fine dell’ergastolo e dell’inumano 41 bis, e molto altro ancora. Ma soprattutto serve una riforma che tolga ai Pm e ai Gip (spessissimo loro sodali taciturni) il potere quasi fisico di esercitare una inaudita violenza sugli indiziati, sequestrandoli e sottoponendoli a ricatto, paura, demolizione psicologica, talvolta vera e propria tortura. E privandoli di ogni diritto umano e civile. Oggi nelle nostre carceri ci sono più di 15 mila detenuti in attesa di giudizio. Cioè mai condannati. Cioè innocenti. Più della metà di loro sarà assolta in primo grado, dicono le statistiche, un altro 20 o 30 per cento in appello o in Cassazione; resta una piccola minoranza che in gran parte sarà condannata a piccole pene.
Capite l’enormità di questa ingiustizia? E voi lo sapete perché sopravvive questa ingiustizia medievale? Perché senza questo potere i Pm e i Gip diventerebbero dei semplicissimi inquirenti, costretti a trovare gli indizi e le prove, i riscontri, a lavorare duro, a cercare i delitti e non a mettere nel mirino i sospetti (questa cosa la dice addirittura Antonio Di Pietro). Proibire la carcerazione preventiva se non nei casi estremi di violenza (poche centinaia all’anno) sarebbe davvero il primo passo. E sarebbe la prova che Mattarella parlava sul serio. Se non si fa neanche questo vuol dire che quel discorso era una messa in scena, erano una messa in scena gli applausi, ed è spiegabile la reazione cauta di molti magistrati: indispettiti, sì, ma sicuri che alla fine la spuntano loro, come sempre. Gli ha fatto un baffo il clamoroso scandalo Palamara, figuratevi un discorsetto del Presidente…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
L’agenda Mattarella, un memorandum destinato a proiettarsi oltre l’emergenza. Marzio Breda su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 2022.
Le parole vanno al di là del governo Draghi e guardano ai sette anni. I richiami sulla giustizia e sui vantaggi della «stabilità operosa».
Non dà lezioni e non assesta frustate, ma non cauziona o compiace nessuno, Sergio Mattarella. Neanche le Camere che lo hanno rieletto il 29 gennaio, e che adesso lo applaudono con sollievo per ben 55 volte. Battimani che non sembrano distrarlo minimamente. Serio e senza sorrisi, lo sguardo che a tratti si perde forse all’idea di come la sua vita sta per cambiare contro i propri progetti, si lancia in un discorso che è un’agenda per il Paese. Un memorandum destinato a proiettarsi oltre l’emergenza di questo momento e anche oltre Draghi, sull’Italia che verrà.
Un testo dall’impianto sofisticato e da leggere in filigrana , nel quale mette pure il Parlamento con le spalle al muro, comunque elogiandolo — assieme alle autonomie — per il ruolo di perno del sistema e cuore di ogni legittimazione politica. Spetta infatti in primo luogo a Montecitorio e a Palazzo Madama sostenere l’opera del governo Draghi, «nato con ampio sostegno parlamentare nel pieno dell’emergenza e proiettato a superarla», ponendo le basi di una nuova fase «di crescita». Il che si traduce in un richiamo al valore della «stabilità operosa». E dunque, per estensione, alla responsabilità e alla lealtà verso l’esecutivo (inventato da lui), ma soprattutto verso gli italiani. Che restano purtroppo «in difficoltà» su tanti fronti.
È una riflessione che va considerata su un orizzonte lungo almeno per i canonici sette anni, quella del presidente, ciò che smentisce qualsiasi ipotesi di un mandato più breve. Perché certe esigenze, compresa quella di un «indispensabile» adeguamento di pezzi decisivi dello Stato, non possono essere affrontate e risolte in poco tempo. Tuttavia, il presidente lascia intendere chiaramente che il cantiere va inaugurato al più presto. Ed esorta ad aprirlo, forte dell’energia istituzionale offertagli dalla larghissima maggioranza che lo ha confermato sul Colle.
Il capitolo sul quale Mattarella non si preoccupa di mostrarsi ansiogeno per qualcuno (in questo caso le toghe) è quello della giustizia, «terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività», e nel quale lui stesso è stato a più riprese chiamato in causa. Lo affronta, dopo aver glissato un po’ altri temi delicati («non spetta a me indicare percorsi riformatori da seguire»), mettendosi — come altre volte in suoi interventi del passato — nei panni dei cittadini. E rivendicando nel contempo il ruolo di capo del Consiglio superiore della magistratura, con una allusione alla riforma annunciata dal governo, che chiede sia completata «subito».
Ricorda che, fermi restando i principi di «autonomia e indipendenza della magistratura», l’ordinamento giudiziario deve «corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità» richieste dalla gente comune. Il che troppo spesso non accade, e questa non è una percezione distorta per un riflesso politico condizionato, ma una realtà fattuale. Basta riandare alle vicende che hanno visto di recente il Csm coinvolto in clamorose e delegittimanti polemiche per il mercato delle carriere, favorito anche da perverse influenze delle correnti.
Ne fa esplicito riferimento, il presidente, specificando che «le logiche di appartenenza, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’ordine giudiziario». E premendo affinché sia «recuperato un profondo rigore», condizione indispensabile anche per riconquistare «fiducia e non diffidenza» verso la giustizia, da parte dei cittadini. È una questione di «credibilità», insiste con nettezza. Non è un ammonimento di poco conto, in una fase storica in cui si affacciano nuovi poteri (per esempio quelli che rimandano alla sfera del digitale), verso i quali la funzione equilibratrice di una magistratura efficiente potrà risultare essenziale.
Altro snodo, quello del Parlamento, di cui sempre più spesso si lamenta la mortificazione durante il processo di formazione delle leggi. Critica che Mattarella, dopo aver confermato la centralità delle Camere, condivide, con una critica ad alcune prassi adottate anche dal governo Draghi, e che va invece informato e coinvolto di più e meglio. Perché «non è accettabile la forzata compressione dei tempi parlamentari», ciò che rende necessarie «nuove regole» anche per favorire «una stagione di partecipazione». Ragionamenti prescrittivi, quasi un programma, come quelli sollevati da Mattarella per rendere «più moderna» e «più giusta» l’Italia — che «è un grande Paese», sottolinea, come per dare coraggio a tutti — combattendo grazie ai vaccini la lotta, «non ancora conclusa», contro il virus e impegnandoci per la ripresa economica «con il concorso di ciascuno». Perno di questo passaggio cui «siamo tutti chiamati», deve essere una «stabilità fatta di dinamismo, lavoro, sforzo comune».
C’è molto da fare, dopo che abbiamo attraversato la fase più acuta, luttuosa ed economicamente destabilizzante dell’emergenza. A partire dalla conferma del nostro ancoraggio all’Europa, della quale dobbiamo orientare «il processo di rilancio» dell’Unione, in modo di rendere «stabile e strutturale la svolta compiuta con la pandemia» e che ci vede nella veste di maggiori beneficiari del programma Next generation. Serve quindi un nostro ruolo attivo, su tale fronte. E l’inevitabile sottinteso è che nessuno meglio di Draghi può garantirlo. Come pure servono idee chiare nella delicatissima partita in corso sull’Ucraina, dove non possiamo permetterci un clima da nuova guerra fredda.
Per il resto, il discorso d’insediamento è carico di cenni a una società in sofferenza e a troppi diritti negati. Così è fatale che «la pietra angolare» della riflessione del presidente sia riassunta dalla parola «dignità», ripetuta per 18 volte.
Dignità nel mondo del lavoro e per i giovani sempre più sospinti verso «le periferie esistenziali», contro le morti bianche, le disuguaglianze di genere, il razzismo e l’antisemitismo, la violenza sulle donne, la povertà, le carceri sovraffollate, le mafie. Insomma, un appello di matrice progressista che contempla la sua sensibilità e cultura di cattolico sociale.
Mattarella bacchetta il premier sulla riforma del Csm. GIULIA MERLO su Il Domani il 03 febbraio 2022.
Il testo è fermo perchè mai calendarizzato in cdm da palazzo Chigi. Ora, però, è corsa contro il tempo per approvarlo in tempo per le elezioni del prossimo Csm a luglio 2022.
«Un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia», ha detto Mattarella, aggiungendo che «è indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria».
La piramide di responsabilità, infatti, arriva fino a Draghi e Mattarella ne è al corrente. Lì, infatti, è da cercare la ragione del fatto che il ddl non abbia ancora cominciato il suo iter di commissione vero e proprio.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Riccardo Barenghi per “TPI - The Post Internazionale” il 4 febbraio 2022.
Rino Formica e un uomo, un socialista, che ha vissuto da protagonista tutta la nostra storia politica, dal dopoguerra in poi. E’ stato un dirigente del Psi di primo piano, più volte ministro, con sei presidenti del Consiglio (allora non si chiamavano premier): Cossiga, Spadolini, Andreotti, Craxi, Goria e De Mita, deputato e senatore per decenni. Oggi che ha 95 anni segue quotidianamente le vicende italiane, politiche e non solo. E ha qualcosa da dire.
Allora Formica, e contento della rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale?
«Contentezza e felicita sono sentimenti che attengono alla sfera personale, non alla politica. Politicamente sono soddisfatto che sia stato rieletto un uomo che appartiene alla storia, la cultura e la tradizione del cattolicesimo democratico, una storia che e stata fondamentale per la costruzione della democrazia italiana. Con Mattarella al Quirinale e stato bloccato un tentativo di involuzione democratica».
Addirittura?
«Certo, anzi dico di più: abbiamo rischiato la disgregazione del sistema politico, sociale ed economico del Paese, che avrebbe portato a uno sbocco autoritario. Causato dalla concentrazione dei poteri nelle mani di un solo uomo».
Sta parlando di Mario Draghi?
«Esattamente. Non nutro un’ostilità personale verso il premier, ma se fosse stato eletto, avremmo rischiato di smentire nei fatti l’essenza della democrazia, che e pluralità, equilibrio e divisione dei poteri sotto la guida del Presidente della Repubblica, da una parte, e della Corte costituzionale (oggi presieduta da uno serio e bravo come Giuliano Amato) dall’altra, che vigila sulla costituzionalità degli atti legislativi».
Invece con Draghi?
«Intanto c’è da notare con rammarico che tutto il governo, tutti i ministri si sono trasformati in un partito politico, appunto il partito di Draghi. Indipendentemente dalla loro appartenenza originaria.
Si sono perfettamente amalgamati con la componente tecnocratica del governo, composta da Draghi e dagli altri ministri tecnici. Si tratta di una degenerazione profonda: il governo che si fa partito, palazzo Chigi che diventa un centro politico della gestione dell’elezione del Presidente della Repubblica.
Prima con la candidatura dello stesso premier e poi con quella di Elisabetta Belloni: ma quando mai si e visto un capo dei servizi segreti che diventa Capo dello Stato?».
Pero tutti la stimano, tutti hanno detto che è una persona adatta a quel ruolo.
«Non la conosco e non dubito che sia una persona straordinaria. Tuttavia chi dirige i Servizi deve garantire la neutralità, deve tutelare il Paese da interventi esterni. Non può e non deve diventare parte del gioco politico. Magari poi si sarebbe comportata benissimo, ma e l’origine che conta».
E mai capitato nella nostra storia qualcosa di analogo?
«Per fortuna no. Vi immaginate cosa sarebbe successo, dopo la malattia di Segni, se il generale De Lorenzo si fosse presentato in Parlamento chiedendo di essere eletto al Quirinale? Ecco, pochi giorni fa stava per succedere che la Belloni incontrasse i gruppi parlamentari per discutere della sua candidatura.
Se non ci fossero stati Renzi, Forza Italia e qualche giornalista, avremmo visto tutta la politica in ginocchio di fronte alla responsabile dei Servizi segreti, pronta a eleggerla al Quirinale. E dopo quasi 80 anni di vita democratica...
Io sono di una generazione che sa cosa vogliono dire la perdita della democrazia e la sua riconquista. La perdita avviene in un attimo e ha un effetto immediato, la riconquista invece e difficile, lunga e spesso sanguinosa. La nostra storia sta li a ricordarcelo».
La democrazia, almeno quella italiana, si basa anche sui partiti politici, che oggi sono in profonda crisi. E una crisi irreversibile?
«No no, nulla e irreversibile, perchè quando la politica si trova faccia a faccia con la società la reazione arriva.
Almeno si spera. Ma la crisi più grave e quella delle nomenklature dei partiti, basta vedere come si sono comportate durante la settimana di passione per l’elezione del Presidente. Ed e una crisi che porterà ad abbattere simboli e frontiere, nulla insomma sarà come prima».
Ma cosa intende quando parla di “società”?
«Intendo la questione sociale. La crisi colpisce tutti, tranne i profittatori piccoli e grandi, e quando parlo dei grandi mi riferisco agli istituti finanziari mondiali. Ma il resto della società e in sofferenza, il lavoro e le imprese operose.
Costrette a ricorrere a sussidi pubblici, nonostante si siano sempre dichiarate contrarie a questa forma di aiuto pubblico. Il potere politico non e stato in grado di gestire questa situazione, ma si e limitato al paternalismo fatto di ristori e bonus oppure all’imposizione antidemocratica che rischia di sfociare nella limitazione della libertà di tutti».
Insomma, per citare una sua frase famosa, la politica oggi e più merda che sangue?
«Io intendevo dire sangue e passione, ma oggi non vedo passione nelle classi dirigenti, che non sono capaci di capire quanto sia grave la sofferenza delle masse popolari».
Invece in passato ne sono state capaci?
«Direi di sì, quando uscimmo dalla guerra le forze repubblicane sono state in grado di accompagnare le masse popolari, che provenivano da un regime monarchico-fascista, nella nuova era democratica, di farle partecipare alla costruzione dello Stato nella cornice della Costituzione.
Ovviamente non sono mancati i conflitti politici e sociali, ma erano conflitti che si autoregolavano. Smussando gli angoli più acuti che avrebbero potuto portare a esiti imprevedibili e molto pericolosi. Invece negli ultimi trent’anni questo ruolo delle classi dirigenti e totalmente mancato».
Perchè trent’anni?
«Perchè abbiamo assistito a una dissociazione tra sviluppo politico e sviluppo sociale. Perchè lo Stato non si è organizzato per intervenire nei conflitti sociali attraverso altri mezzi che non fossero la promozione o la punizione».
Può spiegarcelo meglio?
«Negli ultimi trent’anni e stato abolito l’intervento pubblico nell’economia, drasticamente smantellato il rapporto virtuoso tra il mondo delle imprese, quello del lavoro e quello della politica. E proprio quando siamo di fronte a una crisi globale, e le aziende liberalizzano i loro capitali investendoli dove vogliono, nella finanza o nei paesi nei quali il costo del lavoro e molto più basso che da noi, la politica non fa da argine. Ma le lascia fare».
Neanche questo governo di unità nazionale sarà in grado di risolvere una situazione così critica? «Si tratta di un governo anomalo, mai esistito in Italia...».
Nella seconda metà degli anni Settanta c’è stato un governo simile.
«Neanche per sogno, a quell’epoca c’era una maggioranza parlamentare di unità nazionale, che sosteneva il governo. Ma il governo era comunque di parte. Non c’erano ministri comunisti per fare un esempio. La differenza con quello di oggi e sostanziale».
Insomma, non sembra così radicale questa differenza.
«Invece lo e, eccome. Perchè nel governo di unità nazionale la partecipazione degli avversari politici richiede una grande fusione di intenti e di comportamenti per sostenerlo.
Qualsiasi ministro, da qualsiasi partito provenga, diventa automaticamente responsabile di tutti gli atti dell’esecutivo. La maggioranza e un’altra cosa, uno può votare la fiducia al governo ma poi dissentire su questo o quel decreto. In quel caso i partiti mantengono la loro autonomia politica, cosi come fece il Pci 45 anni fa».
E secondo lei questo governo riuscirà a reggere nei prossimi mesi?
«Mah, non saprei prevederlo. Certamente sconterà la presenza di ministri che appartengono a partiti diversi e tra loro conflittuali. Vedrete cosa accadrà quando in primavera si andrà a votare per i referendum e l’anno prossimo per le elezioni politiche. Con alcuni ministri che sono stati mobilitati nel partito di Draghi, il quale poi pero non e riuscito a prendere il potere».
Palazzo Chigi durante il voto per il Colle si è trasformato in un centro politico per la candidatura del premier. Mai vista una degenerazione così profonda guardato, e ancora riguarda, la legge elettorale. Lei preferisce il proporzionale o il maggioritario?
«Possiamo anche adottare il maggioritario, che pero rischia di diventare una semplice aggregazione tra diversi, che subito dopo le elezioni si spacca come e già successo in passato».
Meglio il proporzionale?
«Certo, in teoria e virtuoso. Ma se poi finisce che in Parlamento entrano cento partiti dell’un per cento ognuno, allora...».
Siamo bloccati allora?
«Bisogna tornare al pensiero politico: i nostri attuali leader ce l’hanno un pensiero politico? A me non pare siano all’altezza, così come non lo e la società civile che loro rappresentano. Sono tutti svogliati e inadeguati. Ma almeno loro si sono sottoposti al voto degli elettori.
I tecnici invece ci propongono la loro spocchia elitaria senza neanche chiedere un giudizio alla società che governano, dimostrando un razzismo imbarazzante. Sono la casta non eletta».
Veramente e ancora il capo del governo...
«Certo, ma Draghi sta a palazzo Chigi, che dipende dal Parlamento e che può sfiduciarlo quando vuole. Se fosse riuscito a farsi eleggere al Quirinale invece, sarebbe stato inamovibile per sette anni».
A proposito, lei e favorevole a un cambio radicale del nostro sistema istituzionale, pensa che dovremmo diventare una Repubblica presidenziale?
«Prima mi devono spiegare bene, possibilmente utilizzando un pensiero politico, le ragioni per superare la democrazia parlamentare. Che non e un abito, oggi lo metto e domani lo cambio. Ma e la nostra struttura ossea. E allora se un osso si spezza, puoi mettere una protesi, ma mi devono dire che si e spezzato. Altrimenti, se l’osso e sano, non si mette una protesi».
Ed e sano?
«E’ ovvio che c’è una degenerazione del sistema, ma bisogna capire quali sono stati i fattori che l’hanno provocata. Invece nessuno si cimenta nell’analisi della crisi, si va avanti per tentativi tecnici senza riflettere sul motivo per cui qualcosa non ha funzionato».
Uno dei tanti tentativi tecnici ha riguardato, e ancora riguarda, la legge elettorale. Lei preferisce il proporzionale o il maggioritario?
«Possiamo anche adottare il maggioritario, che pero rischia di diventare una semplice aggregazione tra diversi, che subito dopo le elezioni si spacca come e già successo in passato».
Meglio il proporzionale?
«Certo, in teoria e virtuoso. Ma se poi finisce che in Parlamento entrano cento partiti dell’un per cento ognuno, allora...».
Siamo bloccati allora?
«Bisogna tornare al pensiero politico: i nostri attuali leader ce l’hanno un pensiero politico? A me non pare siano all’altezza, così come non lo e la società civile che loro rappresentano.
Sono tutti svogliati e inadeguati. Ma almeno loro si sono sottoposti al voto degli elettori. I tecnici invece ci propongono la loro spocchia elitaria senza neanche chiedere un giudizio alla società che governano, dimostrando un razzismo imbarazzante. Sono la casta non eletta».
Giulio Gambino per “TPI - The Post Internazionale” il 4 febbraio 2022.
Hic sunt peones, femminicidio politico, da SuperMario a SuperSergio. Copyright: Roberto D’Agostino, fondatore di Dagospia, che ha seguito l’elezione del Quirinale da vicino anticipando sul suo sito notizie e indiscrezioni, sempre con un taglio critico e originale.
Lo abbiamo incontrato per conoscere il suo punto di vista sulla settimana che ha aperto la peggiore crisi istituzionale della Repubblica.
Roberto, come va?
«Sempre a corre’... comunque guarda, ho appena titolato un pezzo del Financial Times: “Meno male che l’ambizione sbagliata di Draghi e fallita”».
Cosi netto?
«Altro che “Gattopardismo” (“Se vogliamo che tutto rimanga come e, bisogna che tutto cambi”): i sei giorni della elezione del Quirinale hanno cambiato il Paese».
Ecco, partiamo da qui...
«Non c’era altra via percorribile che la rielezione di Mattarella, sono stato tra i primi a dirlo, e a scrivere “Salutamm’ a Draghi’’, in barba all’opinionismo a la carte dei Mieli e dei Giannini. Non aveva i numeri, ma ha dato i numeri, quelli dell’arroganza».
Perchè no?
«Intanto dovremmo chiederci: come nasce questa sua ambizione? Uno pensa che dietro ci siano chissà quali progetti, strategie poteri forti... invece essendo Draghi un soldato del Sistema con la S maiuscola, di alto grado se vuoi, ma pur sempre un soldato, questa autocandidatura al Colle durante la conferenza stampa di Natale ha lasciato tutti a bocca aperta e con i capelli dritti».
Disse che la sua missione era compiuta e che era «un nonno al servizio delle istituzioni»...
«Peggio: disse “ho lasciato tutto a posto, le riforme sono state fatte, il Pnrr partirà, basterà spingere un bottone”.
Intanto, finora, non e stato aperto nemmeno un cantiere per le riforme chieste dall’Europa in cambio dei 209 miliardi del Pnrr.
Abbiamo solo fogli di carta, ben scritti, ma fatti zero. Secondo: lo stato rissaiolo dell’alleanza governativa non avrebbe mai permesso un premier di parte.
Quindi un Daniele Franco al suo posto avrebbe rimboccato la lapide alla democrazia parlamentare fondata sui partiti: due tecnici ai vertici dello Stato. Cosa mai vista».
Eppure, fino a qualche settimana fa, pareva che Draghi potesse fare e dire tutto, anche auto-candidarsi al Quirinale...
«Ma se n’e fregato bellamente di seguire i canoni istituzionali. Perchè come tutti sanno non ci si può candidare alla presidenza della Repubblica, non e previsto dalla nostra Costituzione. Come giustamente ha detto Sabino Cassese: “Le cariche pubbliche non si sollecitano, nè si rifiutano”».
E come mai ha creduto di poterlo fare?
«Intanto partiamo col dire che la più grande sponsor della autocandidatura di Draghi al Colle e stata Serenella, sua moglie.
In tutti gli anni in cui il premier era presidente della Bce a Francoforte non ha mai convissuto con il marito, andava solo per gli incontri importanti, e nel weekend era lui a scendere a Roma.
Ora lei era decisissima a far si che il suo Mario restasse in Italia. E cosa c’è di meglio di sette anni al Quirinale?».
Non posso credere che sia stata solo la moglie...
«Quando il Governo Conte Bis stava per implodere e ci fu il colloquio risolutore tra Mattarella e Draghi in cui quest’ultimo accetto di fare “l’Uomo della Provvidenza”, di prendere in mano patria e governo dopo la cacciata di Conte, in quella circostanza ci fu - raccontano - una sorta di patto.
Sergione (Mattarella, ndr) avrebbe proposto a Draghi: “Stai un anno e mezzo a Chigi, metti sulla retta via questo disgraziato Paese, e poi io ti lascerò il mio posto”. Ma non avevano fatto i conti con i partiti».
E poi?
«Nel pieno dell’emergenza Covid e della gestione del Pnrr, davanti all’inadeguatezza e all’inaffidabilità del governo Conte, Merkel e compagni telefonano a Mattarella, il capo dello Stato interviene in maniera assertiva e Draghi diventa premier, eccitato anche dal “patto” con trasloco al Colle».
Il peccato originale per la candidatura al Colle di Draghi origino in quel momento?
«Durante il mio apprendistato politico con Cossiga, ho sempre fatto tesoro di questa lezione: il potere non e quello che vedi. E invisibile. Sta dietro, tira i fili, e dà i suoi input».
Eppure c’era chi sosteneva che non ci voleva molto perchè nascesse un Conte ter, bastavano una decina di parlamentari “responsabili”...
«Può darsi ma qualcuno dall’alto, immagino dal Quirinale e dal Deep State, ha chiamato i vari Tabacci (che poi e stato non a caso premiato, diventando sottosegretario), i vari Cesa, i vari Rotondi, coloro che tengono le fila del Gruppo misto, e ha detto ‘’Alt!”, dando l’ordine di stare a cuccia».
Spiegati meglio.
«Se tu ti ricordi, in quei giorni era attesa una conferenza stampa della moglie di Mastella (Sandra Lonardo, ndr) a favore della nascita del Conte ter. C’erano già i giornalisti seduti col taccuino in mano, ma lei non si presento mai. Chiedete a Mastella per quale motivo. Semplicemente dall’alto arrivo un input diverso».
Alcuni dissero che fu un complotto internazionale...
«Ma no, quale complotto! La politica si fa anche in base a quello che dicevo prima, a quel “potere invisibile”, a quel Deep State che tira i suoi fili. E cosi accadono o meno certi eventi, certe strategie, certi governi».
C’entrano anche gli Usa?
«C’entrano sempre. La fine di Conte e l’arrivo di Draghi e avvenuto soprattutto perchè arrivo un nuovo inquilino alla Casa Bianca.
Il soprannome ‘’Giuseppi’’ nasce da un tweet di Trump dedicato alla gloria di Conte. Il cambiamento politico che avviene negli Usa e un cambiamento che non può non rimbalzare anche in Italia.
Siamo un piccolo paese ma come “espressione geografica” ha una sua importanza essendo piazzato dalla mano di Dio in mezzo al Mediterraneo».
Quel cambio di Governo fu il risultato anche di un sostegno eccessivamente sbilanciato da parte di Conte a favore della Cina?
«La parola che conta in politica e una sola: affidabilità. Se lo sei, puoi permetterti di avere un colloquio o di fare una trattativa o un’alleanza. Se non lo sei, il discorso si chiude e devi cambiare mestiere.
Il governo Berlusconi, a dispetto di quello che raccontavano i giornaloni, cadde per i rapporti d’affari che il Cavaliere aveva all’epoca con Putin, più che per le sue prodezze sessuali. Non era affidabile e a colpi di spread e stato accompagnato all’uscita di Palazzo Chigi...».
Il Sistema vince sempre e su tutto. E cosi?
«Sempre. Magari in seconda battuta, ma alla fine prevale. Del resto, ogni potere e costruito su una rete di rapporti e alleanze dotata di regole ferree. Prendi Roma, nel suo piccolo e “fondata” sui circoli cosiddetti sportivi: al Circolo del Tiro a Volo trovi la nomenclatura massonica del Deep State, al Circolo Aniene troneggia la borghesia Malago - Vanziniana, il Circolo degli Scacchi e in mano ad alti esponenti dello Stato, eccetera. E tutto si regge sull’affidabilità e rispetto delle regole».
E succede mai che il Sistema perda?
«No. E lo hai visto in questi giorni quirinalizi. Colpito da un leggero attacco di follia (mollare il governo e traslocare nel palazzo dei Papi), pur essendo lui “uno di loro”, uno del Sistema per intenderci, l’ambizione sbagliata di Draghi e stata legnata e cancellata dai giornali del Sistema: dal Financial Times a The Economist.
L’elite finanziaria aveva già deciso che il loro soldatino dovesse restare a Chigi a governare la stabilita finanziaria-economica del Paese».
Certo che l’immagine di Draghi che legge The Economist - il settimanale liberista per eccellenza - e si vede bocciato dagli “amici di casa” fa impressione...
«Poverino, dopo anni di salamelecchi e pigiamini di saliva, e dura... Pero lui si e giocato davvero tutto con quella idiozia dell’auto-candidatura. Se continuava a fare il Draghi decisionista, del “Whatever it takes” dei primi mesi, andava bene, perchè aveva la liberta di dire no a chi voleva.
Quando, calzata la maschera del Marchese del Grillo, gli e presa la stoltezza di decidere da solo che avrebbe fatto il capo dello Stato e caduto dal pero...».
E la politica si e ribellata.
«Dopo che i partiti avevano preso calci e schicchere, a cui lui rispondeva con un ghigno sprezzante dicendo loro “parlate col mio capo di gabinetto”, quando poi e stato lui a bussare ai leader per avere i voti del Colle, il re appare improvvisamente nudo e loro l’hanno mazzolato».
Ma politicamente qual e il giudizio che possiamo trarre su questo anno di Draghi?
«E emerso un grosso problema, tipico dei tecnici prestati al potere politico: i Dini, i Monti, i Draghi sono abituati a dare ordini ai loro dipendenti di Bankitalia o della Bce.
Nella politica invece non funziona per niente cosi. Se i tecnici ubbidiscono, con i politici devi trattare».
Comunque il Sistema, come lo chiami tu, alla fine ha fermato persino Draghi.
«Lo ha fermato, in maniera anche netta. Già durante il G20 a Roma, da Biden a Macron, tutti gli avevano chiesto di restare a Chigi. Poi e stata la volta dei mercati. E le cancellerie hanno iniziato a telefonare... e a muoversi»
Qualcosa era evidentemente cambiato.
«E stata una bella botta... ma Draghi e un tipino talmente pieno di se che può stare tre mesi senza mangiare...
Quella arroganza tipica di chi non e abituato alla mediazione, alla trattativa, a quello che io chiamo “attovagliamento” in modalità Andreotti: della serie, questa e la torta, una fetta per uno e siamo tutti felici e contenti.
Mariopio non ha l’attitudine e la capacita politica di poter trattare con questi scappati di casa, alcuni anche fuggiti dal T.S.O...».
Pero gli scappati di casa sono stati gli unici, ben più dei loro leader di partito, a trovare una soluzione politica che ha portato alla ri-elezione di Mattarella...
«Attenzione: e stato rieletto a furor di peones... i leader di partito, anche quelli che non volevano farlo, sono stati obbligati fisicamente a votare Mattarella da una massa di parlamentari che una volta veniva schifata e identificata come “i franchi tiratori”.
Non si era mai visto in tante elezioni del Quirinale, per di piu senza una precisa indicazione politica, che un nome ricevesse cosi tanti voti, come e stato nel caso di Mattarella. E non solo per continuare a prendere lo stipendio e per raggiungere il settembrino vitalizio della legislatura...».
E quindi ora e tutto di nuovo come prima?
Per nulla! Anzi, nulla sarà come prima. Se Draghi e azzoppato, non c’è un partito – a parte quello della Meloni – che non sia spaccato o alla deriva come Lega e 5Stelle. Si sono salvati solo grazie al ritorno in forze della Prima Repubblica: Amato alla Corte Costituzionale, Mattarella al Quirinale, Draghi a palazzo Chigi. La Democrazia Cristiana, grazie al cielo, non muore mai».
Formigli nella sua PiazzaPulita ha mostrato altri due esponenti della Prima Repubblica, Mastella e Cirino Pomicino, che per questa elezione al Quirinale sono tornati sul ring a combattere...
«E hanno annichilito Mieli e Calabresi. Una capacita di ragionare sul potere, che oggi pochissimi hanno, ha nanificato l’attuale classe politica. Le terribili interviste rilasciate dal socialista craxiano Rino Formica, i vari Salvini e Conte e Letta dovrebbero ritagliarle e studiarle. Te l’ho detto... e la rivincita della Prima Repubblica.
“Mastella il mozzarellaro”, com’era liquidato all’epoca mia, e sembrato un gigante. E dobbiamo ringraziare quella tanto vituperata democristianeria se oggi sul Colle c’è il mattarello di Mattarella».
Chi ha mostrato il peggio di se?
«Salvini ha sbagliato di tutto, di più. Un uomo-sola- al comando. Era un ubriaco, senza la scusa dei mojitos del Papeete (“Voglio i pieni poteri”). Ha bruciato un nome dopo l’altro.
Non puoi mandare a sbattere cosi la seconda carica dello Stato, come avvenuto con la Casellati. E non lo dico certo per simpatia personale verso la presidente del Senato, ma per rispetto delle istituzioni».
Forse lei pero si sarebbe dovuta tirare indietro anzichè inviare messaggini a raffica per chiedere di ritentare il voto su di lei...
«Quella e la vanita, l’inferno di ogni persona, uccide chiunque. Non c’è niente da fare. La delusione che ho avuto quando Draghi si e messo in testa di salire al Quirinale...guarda, credimi, avevo rispetto e ammirazione, e invece anche lui... siamo tutti fragili».
A questa confusione generale hanno contribuito anche quelli che noi abbiamo chiamato i signori della Draghicrazia.
«Pensa a Paolino Mieli... ha detto tutto e il contrario di tutto. Ogni giorno ne sparava una. Fino all’ultimo giorno utile giurava che Draghi sarebbe diventato capo dello Stato. Chi tifava per Belloni, chi per il premier...».
I 5 Stelle tifavano proprio per la numero uno dei servizi segreti.
«Di che meravigliarsi? I grillini sono stati capaci di prendere un avvocato che camminava per strada e l’hanno incoronato premier.
A Conte chiederei: “Era consapevole che con la Belloni sul Colle, Draghi si sarebbe ovviamente dimesso con le conseguenti elezioni anticipate?”.
A parte che la Belloni era stata nominata a capo del Dis da Draghi per poi ritrovarsela superiore di grado, ma nessun Paese mette il capo dei servizi a fare il Presidente della Repubblica, nemmeno in Sud America. In realtà, Conte voleva andare al voto».
Si ma prendeva poco mi sa...
«Ma nelle liste avrebbe piazzato i suoi fedeli contiani, levandosi di torno tutti i Di Maiani. Conte, comunque, avrebbe dovuto fare il suo partito, subito dopo l’uscita da palazzo Chigi. Aveva ragione Casalino».
E oggi da SuperMario siamo arrivati a SuperSergio.
«Con Draghi azzoppato, chi ha il coltello dalla parte del manico oggi e Mattarella. Lui terra per le palle i partiti. A ogni rissa e screzio dira: “Siete venuti in ginocchio a chiedermi di rimanere, ora fate come dico io”. Chi sarà davvero importante affinchè Draghi possa andare avanti col suo governo fino alla fine della legislatura 2023 sarà proprio il capo dello Stato».
Diamo i voti anche agli altri. Enrico Letta?
«E riuscito a fare il miracolo di far cadere quella king-pippa di Salvini. Dopo la penosa rinuncia di Berlusconi, Salvini ha preso in mano il centrodestra e Sotti-Letta, giocando di rimessa (“Hai la maggioranza dei voti, devi essere tu a proporre un nome”) ha vinto a meta, perchè il candidato di Enrichetto, altro soldatino del Sistema, era appunto Draghi.
Ma era inviso all’altra metà del Pd: Franceschini, Base Riformista di Lotti e Guerini, e i “Giovani turchi” di Orfini».
Giorgia Meloni diventerà la prima donna premier del Paese?
«Se per caso lo diventa, può durare un quarto d’ora, credo. La Gigiona nella stanza dei bottoni a Palazzo Chigi ha fatto ridere pure Berlusconi. A parte dire no-no-no, ha mai fatto un governo ombra? Con quale classe dirigente? E poi, con le sue alleanze sovraniste, e massimamente invisa all’Unione Europea...».
Guido Crosetto?
«Uno stipendiato dal governo, tramite la Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza (Aiad) di cui e presidente, e che pero al contempo fa l’ideologo d’opposizione e il consigliere-tutor della Meloni minando lo stesso governo che lo paga».
Luigi Di Maio?
«Ha cambiato sesso tante di quelle volte... Era il fratello gemello di Di Battista, voleva l’impeachment di Mattarella, incontrava i Gilet gialli. Poi improvvisamente, da buon napoletano tendenza Gava, ha capito com’e il sistema del potere.
Ha passato il suo tirocinio alla Farnesina ed ora e un ottimo pompiere (non a caso tifava Draghi). Comunque mi sembra che nel M5s la scissione sia ormai nell’ordine delle cose...».
Giancarlo Giorgetti?
«Non vuole più essere il burattino di Salvini. Il Truce ha due opzioni: o cambia cervello o verrà messo da parte prima o poi...».
Goffredo Bettini?
«Consigliere segreto di Giuseppe Conte, anello di congiunzione tra “vecchia sinistra” post-comunista e post-cattolica e “nuovi progressisti” post-populisti, Bettini ha toccato il climax quando, insieme a Zingaretti, ha incoronato Conte “punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”. Conte capisce di politica meno del mio labrador Zen».
Ma esiste oggi un buon politico?
«E una brutta domanda. Uno che io stimo, dai tempi di Cossiga, e Luigi Zanda...».
L’elezione del Quirinale e stata un flop non solo per i partiti ma anche per alcuni talk show e dirette tv...
«Quando la mattina vedo i dati televisivi della sera prima e leggo di trasmissioni con share al 7-8 per cento mi domando: ma nessuno di questi si chiede dove sta l’altro 92 per cento degli italiani?
Perche i cittadini non sono interessati in un momento cosi sacro per il Paese? Fanno il 5 per cento e stappano lo champagne.. Ma hanno ragione i telespettatori perche i talk oggi sono pieni di opinionisti senza opinione, ma bravissimi a far scomparire le notizie».
Cosa ti rimane di questa partita per il Quirinale?
«Oggi non stiamo assistendo a un collasso improvviso: trattasi di una lunga malattia che viene da lontano, epoca Tangentopoli. E se oggi ad averla vinta e un democristiano c’e da riflettere su questo sistema di potere giunto alla frutta. Moriremo democristiani? Mille volte meglio di salviniani, meloniani o contiani: quella si che sarebbe una brutta morte».
Francesco Verderami per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2022.
«C'è una ragion di Stato che impone di chiudere subito la vicenda». Parlò di «ragion di Stato» il ministro della Difesa la notte in cui prese quota la candidatura di Elisabetta Belloni al Colle. Era l'ultima notte di quei «giorni travagliati». A colloquio con il leader del Pd Enrico Letta, Lorenzo Guerini urlò come mai gli era capitato prima, perché «non si doveva arrivare dove si è arrivati», perché «non si doveva inserire il nome del capo del Dis nella rosa per il Quirinale», perché «va tenuto conto della delicatezza del suo ruolo», perché «non si possono tenere in fibrillazione gli apparati della sicurezza».
E per quanto sorpreso dalla «coda bislacca» della trattativa sul capo dello Stato, il ministro dem pose soprattutto l'accento sulla «ragion di Stato». Ed è proprio seguendo la logica della «ragion di Stato» che ieri il Copasir ha dato prova di un ritrovato senso delle istituzioni, se è vero che - durante l'audizione della responsabile dei Servizi segreti - i membri del Comitato per la sicurezza della Repubblica si sono concentrati sulla crisi ucraina e non hanno posto domande sulla questione quirinalizia che l'ha coinvolta.
Lo avevano fatto anche il giorno prima con il ministro degli Esteri, che pure era stato parte dell'affaire opponendosi alle modalità con cui la Belloni era stata infilata nel tritacarne dei quirinabili. È stato un segno di resipiscenza (quasi di riscatto) del Parlamento, dopo la sbornia di una settimana surreale che - per effetto di mediazioni senza soluzioni - avrebbe infine portato alla rielezione di Sergio Mattarella.
In quei giorni, a detta di Matteo Salvini, il nome della Belloni «mi venne proposto da Enrico Letta e Giuseppe Conte», che a sua volta inserì tra i promotori della candidatura «anche Roberto Speranza». Nel Palazzo non sono ancora certi su chi sia stata la mente del progetto, diciamo, ma è agli atti la reazione immediata di quanti lo hanno combattuto: dalla maggioranza del Pd a Forza Italia, da un pezzo di M5S ai centristi di ogni latitudine, dalla senatrice di sinistra Loredana De Petris a Matteo Renzi che disse «l'Italia non è l'Egitto».
E tutti insieme, per «ragion di Stato», evitarono di dar corso a una polemica che - come rileva Guerini - sarebbe stata «dannosa verso l'immagine di strutture così importanti e delicate»: «L'improvvisazione di quei giorni ha già fatto abbastanza danni. La politica deve avere l'intelligenza di non trascinare nell'agone persone e istituzioni che vanno tutelate nell'interesse del Paese».
Una risposta indiretta a chi ha continuato a sostenere che sia stata «un'occasione persa non portare una donna al Colle», o a chi ha provato a giustificarsi spiegando come non ci fossero «norme di legge» che ne impedissero l'elezione. Ma ci sarà un motivo se il sottosegretario con delega ai Servizi è dovuto intervenire due volte in pochi giorni, per dire che «su certe cose non si può giocare».
Anche ieri, e sempre per «ragion di Stato», Franco Gabrielli è stato costretto a rompere il riserbo che pure attiene al suo incarico: un fatto senza precedenti, perché non ha precedenti quanto è avvenuto. Preoccupato di preservare il Dis, oltre che la persona posta al suo vertice, si è presentato a Porta a Porta per ribadire «la mia fiducia personale e quella di Mario Draghi» verso Belloni.
E siccome in Transatlantico si erano sparse voci sul fatto che il capo del Dis avesse messo a disposizione il suo mandato, ha affermato che «non è mai stata in discussione la sua rimozione». Di più. Gabrielli ha offerto una ricostruzione dell'ultima notte della corsa al Colle.
Ha raccontato di essere stato «informato» dalla responsabile dei Servizi e di aver seguito «passo passo» la storia, rivelando che «l'ambasciatrice da grande servitrice dello Stato» ha vissuto gli eventi «con molto fastidio e con particolare partecipazione emotiva»: «Lei è stata vittima di questa vicenda. E ora bisogna imparare dagli errori».
Per decrittare l'ultimo passaggio, viene utile l'intervista che Gabrielli aveva concesso giorni fa a Zapping : per il futuro «credo sia opportuna una limitazione dell'elettorato passivo per tutte le cariche che hanno un ruolo così importante». Era una regola non scritta della politica, che un gioco irresponsabile costringerà a trasformare in norma di legge. Per «ragion di Stato».
Yoda per “il Giornale” il 4 febbraio 2022.
Il sogno di Pier Ferdinando Casini di salire sul Colle più alto di Roma, il Quirinale, è tramontato per colpa di una cioccolata calda. Di prodotti culinari che hanno caratterizzato i momenti politici nodali della storia recente ce ne son stati tanti: dal celeberrimo patto della crostata a casa di Gianni Letta sulle riforme tra Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema; a quello delle sardine in cui Umberto Bossi e «Baffino» organizzarono il ribaltone contro il primo governo del Cavaliere; all'ultimo delle «pere cotte» a Villa Grande, sulla candidatura di Berlusconi al Quirinale.
Ora è venuto il turno della cioccolata calda. Venerdì 28 gennaio, in un appartamento di via Veneto, dépendance del ministero per lo Sviluppo Economico, padrone di casa Giancarlo Giorgetti, Mario Draghi ha incontrato Matteo Salvini e - sorseggiando appunto una cioccolata calda - gli ha spiegato perché per lui Casini non poteva andare bene come capo dello Stato.
«Un conto è la conferma di Mattarella - gli ha spiegato -, un altro è avere un politico sopra di me al Colle». E il leader della Lega che fino ad allora aveva dato un mezzo assenso su Casini, o, comunque, non aveva detto di «no» a quella candidatura a Silvio Berlusconi, a Matteo Renzi e, addirittura, a qualche esponente del Pd dell'area vicina a Dario Franceschini, ci ha ripensato.
Così quella cioccolata è diventata estremamente amara per l'ex presidente della Camera. È stata proprio quella riserva sul nome «politico» espressa dal premier a permettere che entrassero in pista due donne, anche se solo per dodici ore: prima Elisabetta Belloni, eppoi, durante la notte tra venerdì e sabato, Marta Cartabia.
Fuochi di paglia, certo, ma che sono serviti ad archiviare il nome di Casini. E pensare che qualche giorno prima quest' ultimo aveva chiamato il premier per chiedergli: «Caro Mario, ma tu sei contro la mia candidatura?». Ricevendo da Draghi una risposta in tipico stile gesuita, secondo i preziosi insegnamenti ricevuti in collegio: «Ma ti pare? Certo io preferirei il bis di Mattarella o un nome come quello di Giuliano Amato, ma non pongo veti su nessuno».
Invece, il veto è arrivato eccome. Accompagnato dalle pressioni di Giorgetti e di alcuni governatori, la vera corrente draghiana dentro la Lega. E pensare che Casini aveva dato una serie di rassicurazioni a Salvini: sull'incarico di formare un governo in caso di vittoria del centrodestra alle elezioni («Lo darei a te, non certo alla Meloni»); e, ancora, sulla giustizia, argomento su cui il leader della Lega è estremamente sensibile. Salvini, però, non si aspettava un'opposizione così ferma da parte di Draghi. E nemmeno la sua capacità di manovrare dentro i partiti con i ministri del suo governo.
In più, non aveva calcolato a dovere il particolare anagrafico: Casini è troppo giovane per un premier che in futuro potrebbe anche essere tentato di riprovarci. E ha ceduto di fronte alla cioccolata. Certo il «siluramento» della candidatura Casini non ha giovato più di tanto al premier. A parte gli endorsement di nove decimi della stampa nazionale a favore del suo trasloco al Quirinale, per molti il suo fallimento era segnato.
In un sms inviato ad un amico di vecchia data il 24 gennaio, cinque giorni prima della conferma di Sergio Mattarella, il neo presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, si era lasciato andare ad una previsione secca: «Draghi non andrà neppure in votazione». Più preciso di Nostradamus.
Otto e mezzo, Beppe Severgnini smonta gli applausi a Mattarella: "Solo per il posto". Lilli Gruber scoppia a ridere. Giada Oricchio su Il Tempo il 03 febbraio 2022
Mattarella rockstar? E Lilli Gruber scoppia a ridere. Sergio Mattarella è di nuovo presidente della Repubblica. Con un discorso di 38 minuti è rientrato al Quirinale per un secondo mandato di 7 anni. Parlamento entusiasta (per non dire genuflesso), leader politici al settimo cielo. Un atteggiamento che Beppe Severgnini, giornalista del “Corriere della Sera” ha messo alla berlina. Ospite di “Otto e Mezzo”, giovedì 3 febbraio, la conduttrice Lilli Gruber gli ha chiesto: “C’era più ipocrisia o sollievo nei parlamentari che si sono alzati ad applaudire il presidente interrompendo ben 55 volte il discorso di insediamento? Un record assoluto” e lo scrittore con la tipica ironia: “Beh, c’è un’inflazione anche negli applausi. C’era il sollievo di chi ha mantenuto il posto che è stato un elemento importante di questa scelta, c’era il sollievo di chi non ha visto l’odiato rivale in quel posto. Ad esempio c’erano dei 5 Stelle strafelici di non vedere lì Draghi. E poi Mattarella ha detto una cosa importante: il Parlamento deve avere tempo di vedere le leggi, questa è stata una sgridata la governo, sulla legge di bilancio non hanno avuto tempo di guardare niente”.
Severgnini ha concluso con una battuta fulminante: “Mattarella è la rockstar della politica e davanti aveva persone che a un concerto al massimo possono suonare un triangolo!”. E Gruber ha riso di cuore.
Gli applausi meritati e quelli fuori tempo. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 5 febbraio 2022.
A scena aperta. Alla fine, Sergio Mattarella è stato , mai così tanti nella storia della Repubblica per un discorso presidenziale. Tutti meritati, sia chiaro, tuttavia è la prima volta che un evento istituzionale ottiene un consenso caloroso a tal punto. Ormai si applaude dappertutto, in ogni situazione, tanto da far nascere il dubbio che stia cambiando il concetto stesso di applauso come se i talk show (dove si applaude di continuo e a comando) ci avessero inculcato un format comportamentale. Abbiamo preso l’abitudine di applaudire fuori luogo, fuori tempo, fuori scena. Applaudiamo in chiesa, applaudiamo ai funerali (l’orchestrazione funebre del battimano è diventata un’indecorosa usanza), applaudiamo durante il minuto di silenzio, applaudiamo per paura del silenzio, applaudiamo per i famosi 92 minuti fantozziani. Un applauso non lo si nega a nessuno, proprio perché il gesto è stato svuotato di senso: può anche trasformare una tragedia in commedia. Aveva capito tutto Carmelo Bene quando sosteneva che l’applauso è una specie di arroganza mascherata, «nella convinzione che, con un po’ di prove, quelli in platea farebbero meglio di quelli in scena». La fine del mondo sarà accolta da grandi applausi credendo si tratti di un colpo di teatro.
La rielezione di Sergio Mattarella è stata pianificata a tavolino. Benedetta Frucci su Il Tempo il 07 febbraio 2022.
Era il 28 agosto del 1998 e, avvicinandosi le votazioni per rieleggere il nuovo capo dello Stato, Francesco Verderami intervistava sul Corriere della Sera l'allora capogruppo del Ppi. La proposta che ne scaturiva era: perché non rieleggiamo Scalfaro per un secondo mandato? Il cronista chiedeva: una figura come lui? L'intervistato rispondeva: «No, io penso proprio a Scalfaro». Il politico intervistato rispondeva al nome di Sergio Mattarella. Ventitre anni dopo, da Presidente della Repubblica, sembra aver cambiato idea e, nell'ultimo anno del suo mandato, fa trapelare con fermezza di non essere disponibile a un eventuale bis. Niente di male, passano gli anni, cambiano le posizioni, come è normale che sia. E, senz' altro, la contingenza del quadro politico. Eppure, qualcosa fa sorgere il dubbio che il racconto dell'uomo mite, quasi naïf, costretto al sacrificio di un secondo mandato a causa dell'insipienza della scolaresca che popola l'aula parlamentare, non sia esattamente corrispondente al vero. Mancano pochi giorni a Natale e, nei corridoi di Palazzo Madama semideserti, un senatore dem si lascia andare a una confessione: «Per me, il prossimo capo dello Stato sarà Sergio Mattarella».
L'interlocutore è dubbioso: «Ma come, ha chiaramente escluso la sua rielezione!». Protesta. Il senatore abbassa la voce e racconta: «Hai presente quella proposta di legge depositata dal Pd, che vieta il doppio mandato presidenziale? Ebbene, sappi che è stata suggerita dall'entourage di Mattarella». L'interlocutore non capisce ed esclama: «A maggior ragione, a conferma che il Presidente è assolutamente contrario alla rielezione». Il senatore sorride con l'aria di chi la sa lunga: «Eh no, è proprio questo il punto. Il deposito di quella proposta di legge è la condizione che dal Quirinale chiedono perché Mattarella possa aprire al bis». L'interlocutore è confuso, il senatore perde la pazienza ed esclama: «È chiaro no? È la logica dei vecchi democristiani di sinistra, sopravvissuti a Tangentopoli prima e alla seconda Repubblica poi. In questo modo l'accettazione di un secondo mandato sarebbe vista come l'ultima forzatura, il sacrificio finale». «E tu che fai, la firmi?», chiede l'interlocutore. «Non la firmerò, ma vedrai come andrà a finire... voi, Mattarella, non l'avete proprio capito», risponde il senatore. E in effetti, i firmatari di quella proposta di legge, Zanda, Parrini e Bressa, coincidono anche con quell'ala dem che da sempre e a carte scoperte aveva tifato per un bis di Mattarella. Insomma, con il senno di poi qualche altro indizio c'era stato.
Pensiamo alla comunicazione. Il Quirinale non ha mai optato per una comunicazione che non fosse ultraistituzionale, eccezion fatta per la scelta di mostrare il volto umano del Presidente, che come tutti gli italiani, non può andare dal barbiere. All'improvviso però, alla scadenza del mandato, inizia a trapelare di tutto: dagli scatoloni segno dell'imminente trasloco, alla ricerca dell'appartamento ai Parioli. Per poi passare, durante le prime votazioni dove inizia ad emergere il nome di Mattarella, al silenzio. Un silenzio eloquente perché, se davvero il Presidente non avesse voluto il suo nome in lizza, siamo certi che avrebbe trovato il modo per fermare le matite dei senatori. Infine, a distruggere del tutto il racconto dell'uomo politico che subisce gli eventi, il discorso di insediamento. Mattarella non sferza come fece Napolitano il Parlamento: anzi, rivendica la centralità di quello stesso organo che l'ha portato per la seconda volta alla guida del Paese. Traccia le linee guida e il percorso per l'Italia dei prossimi anni e, spiazzando anche i più critici, mena fendenti alla magistratura. Parla della necessità di un «profondo processo riformatore» che deve interessare la magistratura, di efficienza e credibilità. Soprattutto, sferza le correnti, dicendo esplicitamente che occorre superare le «logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all'Ordine giudiziario». Si preoccupa del sentimento dei cittadini nei confronti della magistratura e della sua credibilità. Parole inedite nel settennato precedente, chiuso senza neppure un accenno alla questione giudiziaria durante il discorso di fine anno. La sensazione insomma, è che il Mattarella fine politico, rimasto nascosto tanto da dipingerlo come un mite «nonno delle istituzioni», utilizzando le parole che usò Draghi per lanciarsi nella corsa quirinalizia, sempre alle prese coni partiti discoli, sia venuto a galla e che questo settennato non abbia alcuna intenzione di svolgerlo nel ruolo di notaio, come è stato essenzialmente quello precedente, dove anche l'avvento di Draghi è stato determinato dalle mosse della politica, dall'attivismo di Renzi e dalla decisione di appoggiarlo di Salvini e Berlusconi, processo che Mattarella ha senz'altro agevolato ma non guidato come la narrativa sembra suggerire.
A giudicare dalla partenza però, la sensazione è che in questo secondo mandato vedremo più il Mattarella del niet a Paolo Savona, che resiste nelle sue volontà anche alle richieste di impeachement e alla campagna social scatenata dal M5S contro di lui, che il volto benevolo e taciturno a cui siamo stati abituati. Non sarà forse mai un Giorgio Napolitano, sovrano assoluto che trasforma la Repubblica parlamentare in una presidenziale senza passare dall'investitura popolare, ma, probabilmente, un arbitro ben deciso a far rispettare le proprie volontà.
Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 5 Febbraio 2022.
Il tono fa subito molto agente immobiliare: «Sono l'uomo del momento? Sono sempre l'uomo del momento». Risata. Francesco De Micheli, dirigente romano di Forza Italia e amministratore della Gregoriana Immobiliare, è l'uomo della trattativa Mattarella-Parioli: ha trovato casa al presidente della Repubblica, prima che il Parlamento votasse il bis, bloccando il trasloco dal Quirinale. Il presidente ora ha scelto il Colle, ma, da quanto trapela, passerà un po' di tempo nell'alloggio preso in affitto.
«La caparra - racconta De Micheli - è già stata versata e incassata dalla proprietà, ormai il presidente si è trasferito. C'è un contratto. Quindi non ha senso parlare di restituzione. Poi lo voglio dire: per me uno vale uno».
Berlusconi sognava il Quirinale. E invece un berlusconiano ha trovato casa a Mattarella
«È il mio lavoro, a prescindere da Berlusconi e Mattarella. Diciamo che è stato anche un modo di servire le istituzioni. Ormai peraltro non mi sento più molto un dirigente di Forza Italia».
Non è il coordinatore del partito nel Centro di Roma?
«Sì, ma lo faccio per aiutarli».
Parliamo del tema che scalda i social: che fine fa la caparra di Mattarella?
«Ho visto tante ironie, la vignetta di Osho, molto divertente. Ma ho capito che in Italia non c'è molta chiarezza su cosa sia una caparra. E cosa comporti».
Quindi dica, come stanno le cose?
«La caparra viene data al momento dell'offerta e in caso di accettazione della proposta viene trattenuta dal proprietario. Ormai il contratto con il presidente è stato firmato, quindi la caparra è stata incassata. Fine. Il presidente è anche entrato nell'appartamento. Ora ci sono i depositi cauzionali, le garanzie che si possono chiedere».
Insomma ormai i proprietari la caparra se la sono presa.
«Sì».
Si è mai parlato, nella fase delle trattative, di una disdetta causa rielezione?
«No. In genere se si viene a sapere che il nuovo affittuario vuole lasciare casa, ma comunque prima dell'inizio della locazione, il proprietario può decidere di restituire la caparra. Ma anche in questi casi si dà mandato a un'agenzia immobiliare, serve tempo, 2-3 mesi di affitto sono comunque persi».
Com' è trattare per una casa col presidente della Repubblica?
«È stata la trattativa più facile della mia vita. Oltre che un onore. La figlia è venuta a vedere l'appartamento. Poi è tornata con il papà. E hanno subito trovato un accordo con la proprietà. Tutti molto carini, niente lungaggini».
Si vocifera di 2.500 euro di affitto.
«Posso dire che ho fatto un contratto tradizionale. Tutto quello che è stato proposto dall'agenzia, gli è andato benissimo. Ci tengo ad aggiungere una cosa: per me tutti i clienti sono importanti, che sia il presidente della Repubblica o la vecchietta che vende la nuda proprietà a Capannelle. È un trascorso che mi porto dalla politica: uno vale uno».
L’agente immobiliare che ha affittato casa a Mattarella: “Caparra ormai incassata”. Giampiero Casoni il 05/02/2022 su Notizie.it.
Parla e parla molto chiaro l’agente immobiliare che ha affittato casa a Mattarella: “La caparra ormai è stata incassata dai proprietari dell'immobile"
Su Repubblica parla l’agente immobiliare che ha affittato casa a Sergio Mattarella quando il rieletto Presidente della Repubblica non pensava ancora di dover accettare un bis al Quirinale: “La caparra ormai è stata incassata”. Insomma, Francesco De Micheli, coordinatore di Forza Italia di Roma centro ed intemediario del locatore di Sergio Mattarella ai Parioli, spiega che “uno vale uno” e che il contratto ormai è stato firmato.
Che significa?
Sergio Mattarella e la caparra ormai incassata ai Parioli, incassata e persa
Che mentre il presidente ha fatto sapere che passerà un po’ di tempo nell’appartamento ma che la sua residenza sarà fissata al Colle c’è un dato che vale per utti, capi di Stato inclusi. Eccolo: “La caparra è già stata versata e incassata dalla proprietà, ormai il presidente si è trasferito. C’è un contratto. Quindi non ha senso parlare di restituzione.
Poi lo voglio dire: per me uno vale uno”.
Contratto firmato e chi si è visto si è visto, la regola che vale per tutti, anche per il Presidente
E il prezzo? Si era parlato di 2500 euro al mese ma in merito non ci sono conferme ufficiali. Ha spiegato ancora De Micheli: “La caparra viene data al momento dell’offerta e in caso di accettazione della proposta viene trattenuta dal proprietario.
Ormai il contratto con il presidente è stato firmato, quindi la caparra è stata incassata. Fine”. Anzi No: “Il presidente è anche entrato nell’appartamento. Ora ci sono i depositi cauzionali, le garanzie che si possono chiedere”. Tradotto: i proprietari la caparra se la terranno.
Cosa può decidere il proprietario in caso di mancata locazione
Poi la chiosa: “In genere se si viene a sapere che il nuovo affittuario vuole lasciare casa, ma comunque prima dell’inizio della locazione, il proprietario può decidere di restituire la caparra.
Ma anche in questi casi si dà mandato a un’agenzia immobiliare, serve tempo, 2-3 mesi di affitto sono comunque persi”.
Gli audio segreti del grande elettore nelle mani delle Iene. REDAZIONE su Il Domani il 14 febbraio 2022
Domani ha rivelato che un grande elettore, impegnato nell’elezione del presidente della Repubblica, ha registrato i giorni concitati del voto, munito di un dispositivo introdotto senza autorizzazioni all’interno dell’aula della Camera dei deputati.
A Domani risulta che le registrazioni ci sono e sono state consegnate alle Iene, la trasmissione della berlusconiana Mediaset. Abbiamo chiamato la redazione che ha confermato l’indiscrezione.
Dalle Iene oltre a confermare non rivelano altri particolari, ma soprattutto non è chiaro quando e se andrà in onda il servizio.
Domani ha rivelato che un grande elettore, impegnato nell’elezione del presidente della Repubblica, ha registrato i giorni concitati del voto, munito di un dispositivo introdotto senza autorizzazioni all’interno dell’aula della Camera dei deputati.
A Domani risulta che le registrazioni ci sono e sono state consegnate alle Iene, la trasmissione della berlusconiana Mediaset. Abbiamo chiamato la redazione che ha confermato l’indiscrezione. Il servizio, che al momento non è andato ancora in onda, è curato dall’inviato Ismaele La Vardera. Quegli audio documentano i momenti concitati che hanno portato alla riconferma di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica.
Dalle Iene non rivelano altri particolari, ma soprattutto non è chiaro quando e se andrà in onda il servizio. Di certo c’è solo una cosa. Un grande elettore è andato in giro per un’intera settimana con un registratore nascosto sotto la giacca d’ordinanza mentre bisbiglia ora con questo deputato ora con un senatore incrociando anche personalità di primo piano della politica.
Mentre i capi dei partiti cercavano l’intesa sfogliando improbabili rose di nomi, tutti gli altri onorevoli “semplici” aspettavano le indicazioni dall’alto, ma intanto parlavano e tanto. Negli audio segreti di quei giorni ci sono di certo le ore concitate che hanno preceduto la prima votazione quando era ancora in corso l’operazione scoiattolo, poi tramontata.
Si tratta del tentativo di Silvio Berlusconi di diventare presidente della Repubblica. Il deputato e critico d’arte, Vittorio Sgarbi, ha chiamato personalmente decine di grandi elettori per convincerli della bontà dell’operazione con l’obiettivo di allargare il fronte a sostegno dell’ex primo ministro, pregiudicato per frode fiscale.
SCOIATTOLO E FUGHE
Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno archiviato l’opzione, ma di passaggi, telefonate e cambi di casacca si sarà discusso tra la buvette e il transatlantico di Montecitorio. Non c’è solo quella fase, subito dopo arriva l’attivismo di Matteo Salvini che cerca una soluzione.
L’ex ministro dell’Interno prometteva di dare al paese il primo presidente della Repubblica di centrodestra, attività conclusasi con un fallimento totale e la riedizione invernale del Papeete, quando mezzo nudo in spiaggia diede l’estrema unzione al governo Conte.
Dai malumori del centrodestra alle strategie del Partito democratico, dalla guerra tra bande nel M5s al sogno di una donna al Quirinale. Sono tanti i temi che potrebbe aver trovato spazio negli incontri del grande elettore munito di registratore.
L’elezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è arrivata all’ottava votazione con tanti applausi liberatori, nel giorno del messaggio alle camere per l’insediamento. Quello che non sapevano deputati e senatori è che quel capitolo non si è ancora chiuso. Ci sono gli audio segreti e il dietro le quinte del secondo storico bis ora nelle mani delle Iene.
Nello Trocchia per editorialedomani.it il 14 febbraio 2022.
In parlamento corre una voce in modo insistente che getta nel panico deputati e senatori. Un grande elettore, impegnato nell’elezione del presidente della Repubblica, avrebbe registrato i giorni concitati del voto, munito di un dispositivo introdotto senza autorizzazioni all’interno dell’aula della Camera dei deputati.
Domani può confermare quelle voci, le registrazioni ci sono e sarebbero state consegnate a una troupe televisiva impegnata nella realizzazione di un servizio sui giorni concitati che hanno portato alla riconferma di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica.
Ma quel servizio non è andato in onda, perché? Sarà stato bloccato oppure solo rimandato? Si tratta di un grande elettore in giro per un’intera settimana con registratore nascosto sotto la giacca d’ordinanza che si ferma a parlare, bisbiglia ora con questo deputato ora con un senatore incrociando anche personalità di primo piano della politica.
Mentre i capi dei partiti cercavano l’intesa sfogliando improbabili rose di nomi, tutti gli altri onorevoli “semplici” aspettavano le indicazioni dall’alto, ma intanto parlavano e tanto. Negli audio segreti di quei giorni ci sono di certo le ore concitate che hanno preceduto la prima votazione quando era ancora in corso l’operazione scoiattolo, poi tramontata.
È stata ribattezzata dalle cronache politiche “operazione scoiattolo” il tentativo di Silvio Berlusconi di diventare presidente della Repubblica. Il deputato e critico d’arte, Vittorio Sgarbi, ha chiamato personalmente decine di grandi elettori per convincerli della bontà dell’operazione con l’obiettivo di allargare il fronte a sostegno dell’ex primo ministro, pregiudicato per frode fiscale.
Operazione svanita per la contrarietà di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma della quale si sarà discusso tra la buvette e il transatlantico di Montecitorio. In quei giorni dal popoloso gruppo Misto, dove stazionano molti ex del Movimento 5 Stelle, ci sono stati movimenti verso altri partiti, spostamenti che potrebbe aver generato voci e tensioni.
I giorni successivi sono stati caratterizzati, invece, dall’attivismo di Matteo Salvini con il leader leghista alla ricerca di una soluzione. L’ex ministro prometteva di dare al paese il primo presidente della Repubblica di centrodestra, attività conclusasi con un fallimento totale e la riedizione invernale del Papeete, quando mezzo nudo in spiaggia diede l’estrema unzione al governo Conte.
Sono tante le questioni politiche che si sono concentrate in quei giorni: i malumori del centrodestra, le strategie del Partito democratico, la guerra tra bande nel M5s, quella fedele a Giuseppe Conte e quella cara a Luigi Di Maio e il tema dell’opzione donna.
La presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, la numero uno dei servizi segreti Elisabetta Belloni, la ministra della Giustizia Marta Cartabia hanno sfiorato il sogno quirinalizio, poi svanito. In quegli audio ci sarà il racconto di quelle ore concitate, ma anche le attese, le illusioni, i litigi e, di certo, le parole in libertà dei peones, i senatori e deputati semplici.
Alla fine è arrivata l’elezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’ottava votazione. Un bis che ha salvato il paese, la pensione dei parlamentari, ma li ha anche liberati dalla stressante attesa durata otto votazioni e chiusasi di sabato con parziale compromissione del fine settimana.
Poi è arrivato il discorso di Mattarella che ha parlato di dignità ed è stato lungamente interrotto e applaudito, ma il capitolo ‘elezione del presidente della Repubblica’ non è ancora chiuso. Ci sono gli audio segreti e il dietro le quinte del secondo storico bis.
Da leggo.it il 3 marzo 2022.
Sergio Mattarella si riduce lo stipendio. Il presidente della Repubblica, infatti, ha chiesto al Mef di ridurre il suo assegno personale, stabilito per legge, in misura pari al trattamento pensionistico che riceve dall'Inps per i suoi anni da professore universitario.
Per cui la prevista somma annuale di 239.182 euro lordi viene ridotta di circa 60 mila euro, portando l'importo lordo annuo da percepire a 179.835,84 euro. Lo si legge in un comunicato del Quirinale.
Contestualmente, continua il comunicato, il presidente Mattarella ha confermato la rinuncia anche per il nuovo settennato all'adeguamento dell'assegno personale all'indice dei prezzi al consumo (adeguamento Istat) che avrebbe comportato un aumento di circa 16 mila euro. Infine, in base alle norme vigenti, il Presidente della Repubblica non percepisce (né percepirà in futuro) il pagamento della pensione (vitalizio) come ex parlamentare.
Presidenti della Repubblica. Da Einaudi a Mattarella bis quanti terremoti sotto il Quirinale. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 9 Marzo 2022.
Paolo Armaroli non ci delude neanche stavolta e con la sua consueta prosa brillante, in cui scioglie anche i tecnicismi del diritto, ci porta tra Montecitorio e il Quirinale. L’inizio è sulla prima elezione di Mattarella per iniziativa di Matteo Renzi sette anni fa e lo svolgimento ha come momento più teso, forse anche più drammatico, il veto alla nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia nel governo Conte 1, autore di un piano per l’uscita surrettizia dall’Euro. Sembra un racconto di un secolo fa, visto che attualmente Lega e M5s sostengono un governo guidato da Mario Draghi e che i parlamentari M5s sono stati obiettivamente tra i protagonisti della rielezione del Presidente. Eppure Armaroli ricorda molto bene e con pignoleria a pagina 28.
Mentre Conte e Salvini subiscono la decisione del Presidente egli mette in atto la “manovra diversiva” dell’incarico a Cottarelli (p. 28) che li costringe a una precipitosa marcia indietro, tornando indietro anche rispetto alla reazione emotiva e insensata del M5s di chiedere addirittura la messa in stato di accusa del Presidente (p. 29). Relativamente più tranquilli, ma fino a un certo punto, i passaggi gestiti da Mattarella tra Conte 1 e 2 e, infine, a Draghi. Armaroli passa quindi a raccontarci il bis di Mattarella e la congiunzione astrale con l’elezione simultanea alla presidenza della Corte costituzionale di Giuliano Amato che, insieme a Mario Draghi alla guida del Governo, formano un trittico fondamentale per la tenuta del Paese. La rielezione di Mattarella, per una spinta dal basso dei parlamentari recepita solo dopo dai vertici, come puntualmente spiegato, specie a pag. 47 (ma anche a p. 64 con la notazione che da Mattarella vanno solo i capigruppo parlamentari e non anche i segretari) consente la continuità dell’azione di Draghi. L’autore ha qualche momento di sincero stupore per la totale approssimazione con cui il centrodestra gestisce l’operazione Casellati, il cui esito è appunto definito “catastrofico” (p. 52). Di suo Armaroli ci aggiunge qualche elemento di stupore per il fatto che la Casellati, pur potendo, non abbia mai votato (p. 53).
Obiettivo polemico dell’autore è soprattutto il confuso e scriteriato movimentismo di Salvini (p. 57). Bilancio positivo, invece, per Draghi, che avrebbe potuto rischiare altrimenti un ombrello “meno solido per ripararsi dalla pioggia” (p. 63) di partiti così diversi uniti nella maggioranza. Finita la parte di stretta attualità Armaroli torna indietro nella storia repubblicana e ci propone un ritratto dei vari Presidenti che si sono succeduti. Si passa quindi dalla tendenza di De Nicola a presentare spesso dimissioni, il monarchico alla guida della repubblica per unire il Paese (p. 80) a Einaudi, facitore del primo Governo del Presidente, quello di Pella nel momento di difficoltà del centrismo dopo le elezioni del 1953 (p. 88), a Gronchi “uomo del Parlamento per eccellenza” (p. 94) e che finisce per avere rapporti “altalenanti” coi governi che si succedono finché non matura pienamente il centro-sinistra (p. 97) e allora esso va accompagnato da un bilanciamento moderato al Quirinale individuato in Segni (p. 101). Si passa quindi a Saragat che salva la formula di centrosinistra (p. 116), a Leone, il cui mandato invece inizia con una flessione verso il centrodestra dell’equilibrio politico (p. 131) ma che rapidamente vede il quadro politico maturare verso la solidarietà nazionale col Pci.
Ritratti azzeccati nella sintesi anche quelli di Pertini , il primo ad accompagnare la nascita di esecutivi non a guida dc, di Cossiga che accresce il proprio interventismo solo dopo la fine obiettiva del primo sistema dei partiti del 1989 che però tenta invano di sopravvivere nell’immobilismo, nonostante l’invito al cambiamento nel messaggio presidenziale del 1991, rivalutato giustamente solo ma solo di recente (p. 165). Infine Scalfaro, eletto per riaffermare con forza il primato del Parlamento ma che poi si trova a espandere ben oltre Cossiga la fisarmonica dei poteri presidenziali (p. 172), Ciampi, con un’elezione da unità nazionale per molti versi inaspettata e Napolitano, il primo ad avere un bis a causa dell’impotenza del sistema dei partiti. Non sarebbe stato l’ultimo. Il problema, ma qui andiamo oltre Armaroli, è se il Governo Draghi, anche con l’ombrello di Mattarella, si rivelerà solo una cronicizzazione dell’emergenza, con inamovibilità dei tecnici e della stampella presidenziale o avremo poi una nuova fisiologia dell’alternanza in cui le forze politiche, una volta messi in sicurezza i fondamentali, potrebbero finalmente alternarsi con riforme coerenti con l’Eurozona e senza dinamiche stagnanti o distruttive.
Paolo Armaroli, “Mattarella 1 e 2. L’ombrello di Draghi. Ritratto a matita di 12 Presidenti”, La Vela, Lucca 2022 Stefano Ceccanti
Quando il Quirinale era la corte dei Papi. Andrea Muratore il 25 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il Quirinale è simbolo del potere da prima della Repubblica italiana. Da quando, cioè, i Papi lo usarono per ricordare al mondo di essere sovrani, non solo pontefici.
Il Quirinale è luogo fisico associato alla continuità del potere di Roma. Non mera metonimia, contenente per il contenuto indicato a simboleggiare il suo inquilino, il presidente della Repubblica italiana, ma centro nevralgico dell'autorità che nei secoli si è irradiata dall'Urbe. Sede nell'ultimo settantennio dei capi dello Stato dell'attuale Repubblica, per settantacinque anni (dal 1871 al 1946) residenza dei Re d'Italia, nei secoli precedenti il Quirinale ha ospitato le autorità che più a lungo, dopo la caduta dell'Impero, hanno avuto il controllo della Città Eterna, i Papi.
Il Vaticano è, naturalmente, associato al governo della Chiesa cattolica, all'istituzione pontificia, all'autorità dei Vescovi di Roma e Primati d'Italia. Ma per diversi secoli, dall'era carolingia alla breccia di Porta Pia (1870), i Papi sono stati anche, e in certe fasi soprattutto, sovrani. E a partire dal ritorno dei Papi da Avignone dopo il Grande scisma d'Occidente e la "cattività" in terra francese tennero a ribadire questa loro caratteristica nell'Urbe e nei suoi domini.
Per legittimarsi di fronte all'influenza delle famiglie romane, per inserirsi nel quadro della tendenza europea a consolidare corti e seguiti importanti per i sovrani, per mostrare un volto chiaro della loro importanza i Papi iniziarono a incentivare la straordinaria fase di creatività architettonica e artistica che fu carburante fondamentale per il Rinascimento. E soprattutto i grandi pontificati del Cinquecento furono i più attivi a incentivare la corsa allo sviluppo architettonico che culminò proprio nell'edificazione del Palazzo del Quirinale, inaugurato nel 1573 per fungere tanto da epicentro della corte politica del Papa quanto per grande struttura amministrativa.
Il compianto storico Antonio Menniti Ippolito (1960-2016) ha lasciato prima della sua precoce scomparsa in eredità un'importante opera sulle motivazioni che diedero, di fatto, al Quirinale la sua valenza politica attuale. Il libro I papi al Quirinale: Il sovrano pontefice e la ricerca di una residenza racconta di come i Sommi Pontefici, focalizzati sulla necessità di dare strutturazione a un apparato amministrativo sempre più ampio e ipertrofico, ebbero nel corso degli anni sempre maggior agio nell'identificare col Palazzo del Quirinale e i suoi 110mila metri quadrati di estensione (sesto palazzo più grande al mondo ancora oggi) il cuore pulsante dello Stato Pontificio.
Con la distinzione tra Quirinale e Sacri Palazzi il Papa poté affermare la sua natura complementare ma distinta delle due figure che ricopriva, quella del pontefice della Chiesa universale e quella del sovrano di uno Stato posto al centro dell'Italia. "Il Papa è al vertice di due strutture completamente distinte", ha scritto Menniti Ippolito. "La prima e più antica è quella che vede impegnati nella gestione di Roma, dello Stato e della Chiesa universale il Papa e il Concistoro", l'assemblea dei cardinali. La seconda, affermatasi dal Cinquecento in forma concorrenziale e in via sempre più sostitutiva della prima, è quella fondata su una "più strutturata rete in cui il Papa, che conserva piena e assoluta autorità sulla gestione degli affari", delega competenze e responsabilità "alla rete delle congregazioni e a altri uffici e magistrature" come il Sant'Uffizio, aventi nel Quirinale il loro centro politico, amministrativo, geografico.
Il Quirinale si sviluppò quale palazzo secolare, quasi senza simboli religiosi visibili e soprattutto (unico tra i palazzi apostolici con questa particolarità) senza una Chiesa aperta al pubblico. E se il Palazzo Apostolico rimase la residenza ufficiale del papa a lungo, a partire dal pontificato di Paolo V Borghese il Quirinale emerse come residenza stabile dei papi. Esso ha ospitato complessivamente una trentina di papi, da papa Gregorio XIII a papa Pio IX, ultimo pontefice-Re, distinguendosi in tal senso da tenute come Castel Gandolfo rimaste semplici residenze di villeggiatura.
All'inizio del Seicento col pugnace Paolo V, tra i maggiori propugnatori della Controriforma e del rilancio politico del papato "il Quirinale cessò di essere un luogo di rifugio dalla calura estiva" e "diveniva un funzionale luogo di lavoro per il pontefice". Luogo che condensò l'esercizio del potere sistemico della corte papale nel palazzo nel cuore della nuova Roma, a tre chilometri di distanza dalle Mura Leonine e dal Vaticano. Nel Quirinale ci fu l'epicentro di un potere amministrativo che mirava a pulire la tendenza al nepotismo, alla simonia, alla corruzione che infestava le corti papali. Per una strana eterogenesi dei fini, la Roma opulenta dei Papi rinascimentali generò la macchina che ne emendò le conseguenze più problematiche per l'immagine della Chiesa. Elevando il Quirinale a luogo prediletto del potere romano. Tanto importante per i pontefici che rimase l'ultimo presidio del potere papalino nella Roma non "sacra" dopo l'ingresso delle truppe italiane. Il palazzo, anche dopo la breccia di Porta Pia, restò occupato dalle guardie svizzere al servizio di Pio IX fino al 1º ottobre 1870, finché il generale Raffaele Cadorna, comandante del corpo di spedizione italiano, le fece allontanare con la forza.
I Re d'Italia prima e i presidenti della Repubblica poi, risiedendo al Quirinale, ne valorizzarono il peso sistemico agli occhi dell'Italia e del mondo. Confermando la felice intuizione dei Papi dei secoli precedenti di individuare un luogo simbolo del potere nella Città Eterna, nella metropoli che col potere più era stata impastata e identificata nella storia. Ieri come oggi, il Quirinale è stato centro dello Stato e cuore degli Stati profondi. Garanzia della continuità istituzionale. E del ruolo di Roma come capitale, come città inevitabilmente posta al centro, crocevia dei destini d'Italia.
Andrea Muratore.Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.
«Il Colle più alto»: in mostra le fotografie dei dodici Presidenti. Federica Manzitti su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2022.
Da De Nicola a Mattarella: nello Spazio 5 di via Crescenzio le immagini dei capi dello Stato che si sono avvicendati dal 1946 a oggi, provenienti dall’archivio Riccardi.
Sandro Pertini e l’iconica pipa, l’incontro tra Michail Gorbaciov e Francesco Cossiga, quello tra Oscar Luigi Scalfaro e Yasser Arafat, Luigi Einaudi e il suo bastone, ma anche Antonio Segni al balcone insieme a Paolo VI oppure Saragat che premia una luminosa Sophia Loren. In una settimana cruciale per la storia della Repubblica, quella dell’elezione del nuovo Presidente, l’archivio Riccardi propone una ricognizione fotografica sui dodici capi dello Stato che si sono avvicendati dal 1946 ad oggi.
Il Colle più alto è una selezione di cinquanta scatti, tutti realizzati da Carlo e Maurizio Riccardi, allestita allo Spazio 5 di via Crescenzio 99/d e aperta al pubblico fino al 31 gennaio, salvo prolungamenti delle votazioni. Carlo Riccardi, classe 1926, è stato tra i primi paparazzi della «Dolce Vita». Amico di Ennio Flaiano, Federico Fellini e Totò, ha raccontato settant’anni di vita italiana con scatti esposti in mostre permanenti a Pechino o San Pietroburgo. Il figlio Maurizio, nato nel 1960, è direttore dell’Agenzia di documentazione fotografica Agr e ha pubblicato diversi libri, il più recente dei quali è L’Europa unita e i suoi protagonisti (2020). Nella storia professionale di questi esponenti del foto giornalismo italiano, gli inquilini del Quirinale sono stati protagonisti di molte occasioni alcune delle quali, immortalate prima e dopo il digitale, restituiscono dettagli, umanità, ufficialità e contesti con cui leggere passato e presente del nostro paese.
Cominciando da Enrico De Nicola, eletto capo provvisorio dello Stato nel giugno 1946 e promulgatore della Costituzione, arrivando a Sergio Mattarella il cui settennato è cominciato nel 2015 dopo il doppio mandato di Giorgio Napolitano, la mostra racconta il lungo percorso della democrazia. Ai ritratti presidenziali si aggiunge uno scatto realizzato dall’astrofisico Gianluca Masi che raffigura un plenilunio sul tricolore e sul Palazzo del Quirinale, foto che sarà donata a Mattarella a esposizione conclusa.
Sul Colle più alto d'Italia. Segreti, veti e aneddoti. Federico Bini il 14 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Il libro di Valdo Spini fa rivivere storie, regole e segreti dell'elezione di tutti i capi di Stato del nostro paese.
L’elezione del presidente della Repubblica italiana, negli anni ha assunto un significato sempre più importante per la stabilità e la tenuta delle istituzioni a seguito della crisi del sistema politico-parlamentare. La storia repubblicana, o più precisamente “quirinalizia”, ci ricorda fin dal suo esordio, la presenza di capi di Stato controversi, carismatici, interventisti, decisi ad andare oltre la semplice “moral suasion”. Per comprendere questa delicata e sottile partita a scacchi, giocata più nelle retrovie del palazzo, ecco che Valdo Spini, docente, fine intellettuale, ex vicesegretario e ministro socialista, racconta vita, storie e segreti dell’elezione più attesa e seguita del paese. Sul Colle più alto è infatti il suo nuovo libro (Solferino) che esce in concomitanza con l’elezione del successore del presidente Mattarella. Una delle novità più interessanti che si colgono nel libro è l’aver inserito in apertura un capitolo su De Gasperi. Valdo Spini, citando il Prof. Giuseppe Tognon inserisce lo storico presidente del Consiglio come primo presidente della Repubblica. All’indomani dell’esito referendario vi fu uno scontro durissimo tra il governo e la casa reale (si racconta che il marchese Falcone Lucifero avesse addirittura tirato gli occhiali al leader democristiano).
De Gasperi il 12 giugno 1946 convocò un urgente Consiglio dei Ministri, proclamò la Repubblica e “allora come prescriveva il decreto luogotenenziale”, in quanto presidente del Consiglio assunse anche la carica di capo provvisorio dello Stato che rimise il 28 giugno nelle mani di De Nicola. Nel 1948, dopo le elezioni, vissute come uno scontro civile, il governo De Gasperi, su indicazione del presidente del Consiglio, decise per la prima volta di nominare un capo di Stato votato non più a larga maggioranza – come accaduto per De Nicola – ma con voto politico delle forze governative, con l’esclusione delle sinistre. L’elezione premiò Einaudi, ma De Gasperi inizialmente aveva puntato sul conte Sforza, fermato dalla comparsa per la prima volta dei famosi “franchi tiratori”, si suppone la sinistra DC dossettiana. Einaudi fu il primo a fare uso dell’articolo 59 della Costituzione nominando cinque senatori a vita tra cui Toscanini e Trilussa. Antonio Segni, fu voluto da Moro per bilanciare l’ “apertura a sinistra” della DC e fu eletto al nono scrutinio con i voti anche del MSI. La nomina di un terzo presidente della Repubblica di area democristiana si scontrò con i veti su Leone e Fanfani.
Pare che quest’ultimo fosse stato fermato da Papa Montini tanto che un folto gruppo di DC contestò l’accaduto scrivendo sulla scheda “Montini”, cognome riconducibile anche al fratello del Santo Padre, essendo parlamentare (DC). Al ventunesimo scrutinio, il 29 dicembre 1964 con 646 voti su 963 veniva eletto il socialdemocratico Saragat. Atlantista, rispettoso della volontà parlamentare, nominò senatore a vita il suo storico rivale Nenni. In uno dei suoi personali incontri, Valdo Spini racconta che l’ex presidente gli parlò di Carlo Rosselli, con il quale aveva trascorso l’esilio a Parigi, e gli aveva donato una copia del celebre Socialismo liberale con una dedica del tutto particolare: “Il più marxista dei liberali al più liberale dei marxisti”. Se ventuno scrutini sembrano tanti, ancora più dura fu la successiva elezione, quella di Leone che raggiunse le ventitré votazioni. Leone riesce a vincere il dualismo della DC in cui si erano manifestate due candidature forti, quella vera di Fanfani e quella più nascosta di Moro che avrebbe ottenuto sicuramente un largo consenso nelle sinistre.
Decisivo fu il voto del MSI tanto che scrive Spini, Ugo La Malfa aveva consigliato a Berlinguer di non mettere in difficoltà la DC che rischiava una profonda crisi interna. Risposta del segretario comunista: “Ma se la DC va in crisi, io mi devo mettere la cravatta nera?”. Il candidato ideale per succedere a Leone doveva essere Ugo La Malfa, storico leader dei repubblicani. I partiti, tra cui la DC, fortemente scossa dall’uccisione di Moro, giocano ognuno una propria partita e ad approfittare di tutto ciò è lo scalpitante nuovo leader socialista Bettino Craxi, deciso a portare un socialista al Quirinale. Strada impervia che tuttavia portò a termine. Ovviamente non fece il nome di Pertini ma presentò una terna di nomi tra cui Vassalli e Giolitti. Ma alla fine lo storico combattente socialista acquistava quota e l’8 luglio 1978 al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995 divenne presidente. Il MSI di Almirante votò scheda bianca, ma dopo il messaggio presidenziale il leader missino disse: “Ci ha costretti ad applaudirlo”. L’elezione di Pertini è la prima vera vittoria politica di Craxi. Sotto la presidenza Pertini nacque il primo governo a guida non DC con il repubblicano Spadolini e socialista con Craxi. Al termine del settennato, Pertini aveva ottantanove anni, e De Mita, segretario della DC, voleva rompere l’asse socialista tra Quirinale e Palazzo Chigi, tanto che come racconta Spini alla fine Craxi sostenne Cossiga e l’anziano presidente incontrando De Mita alla buvette disse: “De Mita, hai vinto. Offrimi almeno un cappuccino!”. C’è spazio ancora per tanti ricordi, come la “bella collaborazione” con Scalfaro e l’amicizia con Carlo Azeglio Ciampi di cui fu anche ministro. Spini rivela un piccolo segreto che caratterizzava Ciampi e il suo impegnativo lavoro. Ovvero una pennichella breve dopo pranzo per ricaricarsi. Dall’ampia convergenza su Ciampi, i partiti si spaccheranno (la prima volta) sul nome di Napolitano, unico presidente a essere rieletto due volte, nonché primo post-comunista a salire al Quirinale. Quindi il ritorno di un “democristiano”, Sergio Mattarella, di cui Spini apprezza la saggezza con cui ha sciolto le tante crisi che si sono succedute sotto la sua presidenza. Il libro di Spini è dunque uno spaccato di storia e ricordi personali di chi ha vissuto da dentro il palazzo, con serietà e passione, una parte importante della vita politica e istituzionale italiana che culmina appunto Sul Colle più alto d’Italia.
Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando
Quirinale, da Sofia Loren a Rocco Siffredi e Francesco Totti: storia semiseria dei voti-burla. Concetto Vecchio su La Repubblica il 23 Gennaio 2022.
Ad ogni occasione spuntano nell'urna i nomi provocatori scelti da Grandi elettori che si fanno beffa del rito quirinalizio. Ma nella Prima Repubblica non succedeva.
L’ultima volta, con Giancarlo Magalli, fu una delusione. Su Twitter pareva che dovesse diventare lui il prossimo presidente della Repubblica. Fece pure un flash mob al Colle. Poi, nel segreto dell’urna, venne fuori l’amara realtà: due voti. Gli stessi di Ezio Greggio. Meno di quelli che presero Claudio Sabelli Fioretti (otto) e Francesco Guccini (quattro). Una preferenza la ottennero Il Capitano, Francesco Totti, che però non aveva l’età, e Sofia Loren.
Quirinale e i trucchi al voto segreto per eleggere il presidente della Repubblica. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 17 Gennaio 2022.
Nel Parlamento italiano c’è una lunga tradizione di tecniche per aggirare la norma costituzionale che impone di mantenere segrete le preferenze dei grandi elettori, ma ci sono anche escamotage si possono mettere in pratica per evitare che accada
La Costituzione italiana stabilisce all'articolo 83 che l’elezione del presidente della Repubblica avviene con voto segreto, così da garantire a ciascun elettore la possibilità di esprimersi in libertà, senza dover temere le conseguenze di votare in maniera differente rispetto alle indicazioni del suo partito.
A una settimana esatta dall’inizio delle votazioni per sceglie il successore di Sergio Mattarella, si parla sempre più spesso delle tecniche per “aggirare” questa regola, quello che in gergo si chiama “segnare le schede”.
I partiti, infatti, hanno tutto l’interesse a sapere come votano i propri elettori. Questo giro, è Silvio Berlusconi il più preoccupato di tutti e quello che, raccontano i giornali, è più impegnato a escogitare metodi per tenere i suoi alleati sotto controllo. Ma allo stesso tempo si parla anche delle contromisure che la presidenza della Camera potrebbe escogitare per bloccare questi tentativi.
COME SEGNARE LE SCHEDE
La consuetudine prevede che l'elezione del presidente della Repubblica avvenga con voto “a chiamata”. Il presidente della Camera fa l’appello, i deputati, senatori o delegati regionali chiamati si recano in un “catafalco”, una struttura chiusa da tendine posizionata sotto lo scranno del presidente della Camera (la storica struttura questa volta sarà sostituita da una nuova cabina con dispositivi di areazione anti Covid).
Qui, al riparo da sguardi indiscreti, scrivono su un foglio il nome del loro candidato e all’uscita lo depositano in un’apposita urna, chiamata in gergo “insalatiera”. Al momento dello scrutinio, il presidente della Camera pesca uno a uno i biglietti e legge ad alta voce i vari nomi indicati.
Il metodo più semplice per “segnare le schede” sfrutta proprio quest’ultimo passaggio, la lettura dei nomi indicati nel biglietto. Dando indicazioni sulla formula con cui scrivere il nome, i capi partito possono aggirare il sistema del voto segreto.
Immaginiamo una coalizione che si accorda per votare il candidato Mario Rossi. I due partiti che la compongono, però, non si fidano l’uno dell’altro e temono che nel segreto dell’urna qualcuno possa cercare di sabotare il candidato.
Per sapere se qualcuno tradisce, quindi, si posso dare indicazioni come ad esempio: il partito A scriverà “Mario Rossi” il partito B “Rossi Mario”. Quando le votazioni saranno lette ad alta voce diventa quindi possibile, contando le formulazioni diverse del nome, verificare se quanti elettori di un partito hanno votato il candidato in questione e chi invece tradito.
Durante le prime votazioni, quelle in genere considerate interlocutorie, in cui partiti e schieramenti sono più che altro impegnati a contare le forze su cui possono contare si può applicare un’altra tecnica: dare ai propri elettori l’indicazione di votare un candidato simbolico. Ad esempio, un gruppo di elettori potrebbe decidere di votare Mario Rossi anche se non c’è alcun Mario Rossi con possibilità di essere eletto. Così facendo però può dimostrare di disporre di un certo numero di voti e su questa base trattare con gli altri schieramenti.
Questo giro, sembra che il più interessato a questi trucchi sia Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia sta seriamente pensando di candidarsi ufficialmente e gli altri due leader del centrodestra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, spergiurano che il suo è l’unico nome che il centrodestra intende presentare.
Ma persino i più stretti collaboratori di Berlusconi, come il critico d’arte Vittorio Sgarbi, uno degli “esploratori” incaricati di assicurarsi i voti necessari all’elezione, temono defezioni tra gli alleati e nella stessa Forza Italia.
Ascolta “Il grande gioco del Quiriale”, il podcast di Giulia Merlo sull’elezione del presidente della Repubblica
L’idea di Berlusconi e del suo staff sarebbe quindi quella di assegnare un modo differente di indicare il suo nome a ciascuno dei partiti della coalizione. Ad esempio: Silvio Berlusconi alla Lega, Berlusconi Silvio a Fratelli d’Italia, presidente Berlusconi a Forza Italia e così via.
In questo modo, al momento dello spoglio, sarebbe possibile individuare quale partito sta facendo mancare i voti e tentare quindi delle contromisure. Naturalmente questa tecnica non assicura la disciplina degli elettori, ma è la cosa che ci si avvicina di più.
LE CONTROMISURE
Così come si parla delle tecniche per aggirare il voto segreto, nei corridoi del parlamento si parla anche degli escamotage che il presidente della Camera Roberto Fico e i suoi funzionari potrebbero adottare per bloccarli.
Secondo quanto scritto oggi da Repubblica, lo staff del presidente della Camera avrebbe presentato tre precedenti che contengono ognuno una soluzione diversa. Il primo è non fare niente. Limitarsi a leggere per intero quanto scritto sulla scheda durante lo scrutinio e lasciare quindi libertà ai partiti di utilizzare tutti i trucchi che desiderano. Si tratta della soluzione adottata dalla presidente Laura Boldrini nel 2015, quando è stato eletto Sergio Mattarella.
Altrimenti, per bloccare ogni giochino, è possibile limitarsi a leggere il solo cognome del candidato, come aveva fatto l’allora presidente della Camera Luciano Violante quando nel 1999 venne eletto Carlo Azeglio Ciampi.
Infine, c’è una soluzione “mediana”, utilizzata ad esempio in occasione dell’elezione del presidente della Camera nel 2018 (un’altra carica che viene scelta con voto segreto). All’epoca, il vicepresidente Roberto Giachetti che presiedeva la seduta aveva deciso di leggere soltanto il nome e cognome presente sulla scheda, senza includere altri appellativi. Questa tecnica elimina alcuni trucchi (ad esempio indicare “presidente Berlusconi”), ma ne consente altri: come l’inversione di nome e cognome, la scrittura del solo cognome o l’inclusione anche del nome. Fico dovrebbe comunicare la sua decisione il 24 gennaio, prima dell’inizio delle votazioni.
Fabio Martini per “La Stampa” il 17 gennaio 2022.
È l'unica, vera ansia che in queste ore assilla tutti i leader, ma proprio tutti. Matteo Salvini ha dovuto chiedere bruscamente al Cavaliere: «Silvio scusami: io garantisco sui voti della Lega ma tu li controlli tutti i tuoi?».
Dall'altra parte della barricata, la stessa angustia dei franchi tiratori preoccupa Enrico Letta, che per le prime votazioni previste per il capo dello Stato ha ipotizzato: «Decideremo più avanti, ma sinché i giochi non sono chiari, potremmo restare fuori dall'aula». Il che, detto con altre parole, è l'unico modo per controllare i propri "grandi elettori" e impedirgli di fare di testa propria.
Come la giri, sempre lì si torna: il terrore del nemico in casa, che ti colpisce dalla tua stessa trincea. Già, perché persino in anni di memoria corta, i leader si ricordano che in 76 anni di elezioni presidenziali, quasi tutti i Capi dello Stato sono stati "fatti" non dai leader di partito, ma dai franchi tiratori. Mica per modo dire: dal 1948 i candidati-Presidente voluti dai più importanti leader sono stati bocciati in prima battuta dai grandi elettori grazie all'arma concessa dalla Costituzione: «L'elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto».
Ed ecco il paradosso della storia: il franco tiratore è sempre stato associato (spesso a ragione) col tradimento, ma i tanti voti segreti per il Quirinale hanno finito per temperare lo strapotere dei partiti e della partitocrazia, portando al Quirinale outsider che hanno poi costruito sul Colle il proprio carisma.
La legge del voto segreto ha costretto al ripensamento, se non alla resa, fior di leader, da Alcide De Gasperi fino a Giulio Andreotti. La prima volta risale al 1948. De Gasperi aveva appena vinto contro il Fronte popolare la sfida più importante nella storia repubblicana e dunque spettava a lui scegliere il primo candidato alla presidenza della Repubblica. De Gasperi indica il suo ministro degli Esteri Carlo Sforza, un laico poco amato dai peones Dc.
Non piace ai "professorini" della sinistra, perché Sforza è un tombeur de femmes e d'altra parte per la sua altezzosità non piace neppure ai deputati della destra di cultura provinciale. Morale della storia: alla prime votazioni Sforza ottiene meno voti (353) rispetto ad Enrico De Nicola, candidato dello sconfittissimo Fronte popolare. Uno smacco per De Gasperi che però tiene su Sforza.
Ma niente da fare: non sfonda neppure al secondo giro. De Gasperi capisce l'antifona: fa ritirare Sforza e il candidato del centrismo vincente diventa Luigi Einaudi. L'esito della "prima" è chiaro: persino il gigante De Gasperi è stato costretto ad arrendersi ai franchi tiratori. Sette anni dopo il leader emergente della Dc, Amintore Fanfani, scommette su un altro laico: Cesare Merzagora, presidente del Senato, benvisto dal mondo imprenditoriale, ma assai meno dentro la Dc.
Il primo scrutino ha esiti disastrosi: Merzagora ottiene 228 voti, nientedimeno che 80 in meno del candidato delle sinistre, Ferruccio Parri. La fronda Dc è stata imponente. Si insiste su Merzagora ma con effetti disastrosi: il candidato "ufficioso" di mezza Dc, Giovanni Gronchi ottiene più voti (281) rispetto ai 245 di quello "ufficiale". Morale della storia: Merzagora è costretto a ritirarsi e viene eletto Gronchi, il candidato dei "cecchini" Dc. Imparata la lezione? Per nulla. Nel 1964 la maggioranza della Dc è schierata al fianco di Giovanni Leone, che però è osteggiato da Fanfani, che guiderà i franchi tiratori ad una guerra di logoramento memorabile.
Una battaglia raccontata dal numero di voti ottenuti da Leone nelle varie votazioni, un'altalena che diventerà memorabile e (da quel momento) irripetibile. Una striscia che merita di essere ripercorsa. Leone ottiene 319 voti al primo scrutinio e poi 304, 298, 290, 294, 278, 313, 312, 305, 299, 382, 401, 393, 406 e 386. Sfinito dai franchi tiratori, Leone si ritira e viene eletto Giuseppe Saragat.
Per il professor Paolo Armaroli, costituzionalista e storico del Quirinale, «il voto segreto ha consentito di consumare la "vendetta" delle istituzioni sui leader e sui partiti, che in Costituzioni sono citati una volta sola». Imparata la lezione? Non dal Pd. Nel 2013 il segretario Pierluigi Bersani, d'accordo con Berlusconi, mette in campo Franco Marini: più di 100 franchi tiratori dem non lo votano e il Pd lo fa ritirare precipitosamente, nonostante l'ex presidente del Senato abbia ottenuto 521 voti, che alla quarta votazione, se ripetuti, sarebbero stati sufficienti per essere eletto.
Marini commenta amaro: «Una cosa volgare e ingiusta». Ma il Pd in poche ore fa il bis: calcola di nuovo male le forze in campo e lancia Romano Prodi, che ottiene addirittura 126 voti in meno di Marini. Da quel momento, col Napolitano-bis e con Mattarella, ai franchi tiratori non sarà più consentito di toccar palla. Ma dal 24 gennaio si riaprono le danze e loro sono pronti.
Quirinale. L’elezione a Colle sempre sfumata per le donne. Il Corriere del Giorno il 17 Gennaio 2022.
“Il paese ormai è maturo” per un presidente donna, si sente ripetere a ogni cambio di presidenza. Nei giorni scorsi un gruppo di intellettuali, tutte donne, hanno lanciato un appello per l’elezione di una donna alla guida dell’istituzione più alta: “Vogliamo dirlo con chiarezza: è arrivato il tempo di eleggere una donna” al Colle hanno scritto . Soltanto quando si riunirà il Parlamento in seduta comune si capirà se l’appello verrà raccolto.
di Redazione Politica
Le prime donne a essere votate seppure senza esito durante uno scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica sono state Camilla Cederna, Eleonora Moro e Ines Boffardi, in una corsa che si è svolta finora sempre tutta tra uomini, nonostante il solito ritornello che ormai da anni precede ogni cambio di presidenza: “il Paese ormai è maturo” si sente ripetere, anche in questa elezione un gruppo di intellettuali ha lanciato un appello per l’elezione di una donna. Ma il Parlamento sembra sordo.
Era l’anno 1978, Giovanni Leone si era appena dimesso dopo l’infuriare della campagna di stampa del settimanale l’Espresso con articoli di Camilla Cederna sullo scandalo Lockheed, dopo che l’Italia aveva vissuto un mese e mezzo prima il dramma del rapimento iniziale durato 55 giorni e successivo assassinio di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse.
L’elezione avrebbe portato Sandro Pertini al Quirinale, dopo sedici scrutini, e alla prima votazione nell’urna comparvero 4 voti per la giornalista dell’Espresso, tre per Eleonora Moro, moglie dello statista Dc, due per Ines Boffardi, partigiana democristiana, prima donna nominata sottosegretario alla Presidenza della Repubblica. Il voto alla politica democristiana scatenò qualche risata nell’emiciclo e toccò proprio a Sandro Pertini, che in quel momento era ancora Presidente della Camera, redarguire e zittire i propri colleghi: “non c’è nulla da ridere, anche una donna può essere eletta”.
Alle successive elezioni, che con un solo scrutinio portarono Francesco Cossiga al Quirinale, oltre a Camilla Cederna, raccolse tre voti anche Tina Anselmi, partigiana ed esponente politica della Democrazia Cristiana, prima donna a diventare ministro della Repubblica. Nel 1992 Tina Anselmi venne nuovamente votata, ottenendo fino a 19 voti.
Ma soprattutto per molti scrutini (ce ne vollero sedici per eleggere Oscar Luigi Scalfaro), il Pds indicò come sua candidata, per la prima volta, una donna, Nilde Iotti che giunse a raccogliere il massimo di 256 voti, ovviamente insufficienti per superare il quorum. Dall’undicesima votazione le verranno preferiti come candidati di bandiera Francesco De Martino e Giovanni Conso e infine il Pds decide di convergere su Scalfaro.
Alle elezioni del 1999 che incoronarono con un solo scrutinio Carlo Azeglio Ciampi , furono depositate nell’urna 16 schede per Rosa Russo Iervolino e 15 per Emma Bonino. Quest’ultima era stata protagonista di una campagna di opinione ‘Emma for president‘, che aveva raccolto molti consensi nei sondaggi ma che non si concretizzò in uno speculare consenso in Parlamento. Nel 2006 circolarono i nomi di Emma Bonino ed Anna Finocchiaro come candidate; Antonio Di Pietro, all’epoca leader di Italia dei Valori candida Franca Rame, che ottenne 24 voti. Due voti andarono a Lidia Menapace. Il Parlamento votò ed elesse Giorgio Napolitano.
Nel 2013, all’indomani di elezioni politiche che non avevano espresso alcuna maggioranza autosufficiente, il Parlamento in seduta comune si riunì e in rapida successione impallinò prima Franco Martini e poi Romano Prodi. Al di fuori dalle aule parlamentari il M5s aveva organizzato le “quirinarie” per scegliere il suo candidato: la più votata era stata Milena Gabanelli, la quale molto intelligentemente e sopratutto eticamente però si rese indisponibile.
Il M5s a quel punto virò su Stefano Rodotà, anche perchè Gino Strada, secondo più votato dagli iscritti grillini, si era ritirato. Al primo scrutinio Emma Bonino ottenne 13 voti e Anna Finocchiaro 7. Nei successivi scrutini raccolsero una manciata di voti anche Rosy Bindi, Paola Severino, Alessandra Mussolini, Daniela Santanchè. Al quarto scrutinio Scelta civica candida Annamaria Cancellieri, ministro dell’Interno, che ottenne 78 voti. Al sesto scrutinio, dopo aver rischiato una crisi istituzionale oltre che politica, i partiti rieleggono Giorgio Napolitano.
Nel 2015 le acque si erano calmate, la legislatura procedeva con il governo Renzi. Al primo scrutinio Emma Bonino ottenne 25 voti, Luciana Castellina, candidata da BI, ne ottenne 37.
Nei giorni scorsi un gruppo di intellettuali, tutte donne, Dacia Maraini, Edith Bruck, Liliana Cavani, Michela Murgia, Luciana Littizzetto, Silvia Avallone, Melania Mazzucco, Lia Levi, Andrèe Ruth Shammah, Mirella Serri, Stefania Auci, Sabina Guzzanti, Mariolina Coppola, Serena Dandini, Fiorella Mannoia hanno lanciato un appello per l’elezione di una donna alla guida dell’istituzione più alta: “Vogliamo dirlo con chiarezza: è arrivato il tempo di eleggere una donna” al Colle hanno scritto . Soltanto quando si riunirà il Parlamento in seduta comune si capirà se l’appello verrà raccolto.
In realtà la prima donna votata dai grandi elettori era stata Ottavia Penna di Buscemi , candidata nel 1946 dal Movimento dell’Uomo Qualunque, guidato dal commediografo Guglielmo Giannini. Politica, eletta all’Assemblea costituente con sole altre 20 colleghe, di nobili origini, fu sempre chiamata ‘la baronessa’. Il 28 giugno del ’46 ottenne 34 voti, ma si trattava delle elezioni del Capo provvisorio dello Stato, fu eletto Enrico De Nicola e l’idea di votare una donna non fu più accarezzata da nessuno per 32 anni.
I veleni postumi di Craxi sul candidato Amato. "Le menzogne dell'opportunista Amatissimo". Fabrizio Boschi il 17 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Le carte segrete dell'ex premier: critiche anche a Scalfaro e Napolitano.
Parlando di Mino Martinazzoli, lo definì «un becchino». Antonio Di Pietro veniva deriso per il modo di parlare: «Fa talmente a botte con i congiuntivi che non può neanche essere chiamato al processo di Biscardi». E di Giulio Andreotti diceva: «È una volpe. Ma prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria».
È il Bettino Craxi che abbiamo imparato a conoscere, tagliente come la lama di un rasoio, acuto osservatore degli altri, avendo incrociato la sua vita politica e personale con i principali personaggi del suo tempo.
Proprio in questi giorni precedenti all'elezione del nuovo presidente della Repubblica spuntano appunti inediti dell'ex leader socialista datati 1999, conservati presso la Fondazione Craxi, in cui parla di sé in terza persona, visionati da AdnKronos, nei quali analizza vizi e virtù proprio di chi poi finì al Colle, come il socialista Sandro Pertini (al Quirinale dal 1978 al 1985), il democristiano Oscar Luigi Scalfaro ('92-'99) il comunista Giorgio Napolitano (2006-2015). E di chi negli ultimi 20 anni quasi ogni volta è stato in pole per finirci (anche questa volta), ma senza successo, ovvero il suo ex delfino Giuliano Amato, che oggi ha 83 anni.
Napolitano «non poteva non sapere» dei soldi arrivati al partito comunista dai regimi di oltre-cortina. Scalfaro che cerca in tutti i modi di nascondere un assegno elargito «da industriali per la sua campagna elettorale», che vanta pure appoggi nei servizi «che gli mettono a disposizione pure un aereo della Cai». Poi Pertini («socialista della migliore specie»), che disse subito, appena eletto capo dello Stato, che sarebbe divenuto «il presidente di tutti».
E poi Amato, che lui chiama, «Amatissimo». Craxi è un uomo malato, depresso, lontano dall'Italia che può solo vedere dall'altra parte del Mediterraneo, dalle sponde tunisine. «Amato è un genio elettronico di opportunismo. A differenza di altri della sua generazione che sono sempre rimasti più o meno al loro posto senza girovagare per i labirinti politici Amato se ne andò un bel giorno dal Psi per finire nel Psiup. Scomparso il Psiup Amato tornò con altri nel Psi», dice Craxi, descrivendo il dottor Sottile come un voltagabbana per interesse.
Sulla vicenda che travolge il Paese, e il Psi, all'inizio degli anni '90 scrive che dicendo che non ne sapeva nulla «mente spudoratamente. Viveva sulle nuvole anzi sulla luna».
Poi l'amarezza personale «perché - scrive Craxi - questi anni, e ne sono passati ben cinque da quando Craxi vive come un esiliato, il signor Amato non si è mai fatto vivo una sola volta anche quando risalivano verso l'Italia le voci inequivocabili riguardanti le precarie condizioni di salute del leader socialista. Si faceva vivo semmai ogni qualvolta girava per l'aria la sua candidatura ad alte cariche dello Stato e sempre per interposti e semi ufficiali messaggeri per vedere di che umore Craxi era verso di lui». E anche un anno prima di morire il leader del garofano rosso tacciava Amato circa la «sua ennesima prova di opportunismo e di vigliaccheria». Una voce dall'oltretomba dispensa consigli anche alla politica di oggi. Fabrizio Boschi
21 maggio 1992. L'ultima intervista a Falcone: "La mafia non è una piovra, ma una pantera agile, feroce. E non dimentica". La Repubblica il 17 gennaio 2022.
Questa è l'ultima testimonianza ufficiale del giudice antimafia. Uscì nell'inserto di Repubblica Napoli "La galleria del giovedì" nel quale si parlava delle mafie. Due giorni dopo, il 23 maggio 1992, Falcone sarà ucciso. Il colloquio, pubblicato il giorno seguente alla strage sull'edizione nazionale di Repubblica, è stato poi ripreso dal Wall Street Journal, da altre testate e in seguito in alcuni volumi come Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi (Paul Ginsborg, Einaudi). Giovanni Marino su La Repubblica il 15 gennaio 2022.
"Cosa nostra non dimentica. Non l'ho mai concretamente vista come una piovra. La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante. Per questo bisogna fare in fretta e mettersi d'accordo sulla Superprocura, uno strumento essenziale per arginare l'espansione dei boss. Il nemico è sempre lì, in attesa, pronto a colpire. Ma noi non riusciamo neppure a metterci d'accordo sull'elezione del presidente della Repubblica...".
Un'altra vigilia di tutti contro tutti. E ricorda l'Italia del 1978 e del '92. Concetto Vecchio su La Repubblica il 21 Gennaio 2022.
Tra i partiti prevale lo stallo. È accaduto spesso. I precedenti rivelano che poi si è andati incontro a lunghe votazioni: per eleggere Leone furono necessari sedici giorni, dieci per Pertini e tredici per Scalfaro. E stavolta?
"Sono tutti contro tutti" campeggia sulla prima pagina di Repubblica il 13 maggio 1992. Un mercoledì. È la vigilia del primo scrutinio per il nuovo Capo dello Stato. Le elezioni del 5 aprile hanno fatto scendere la Dc sotto il trenta per cento. Il sistema sta per crollare, dopo oltre quarant'anni. I partiti si presentano in ordine sparso al gran ballo del Quirinale, Norberto Bobbio ha rifiutato la candidatura avanzata da Mario Segni, il Pds voterà per Nilde Iotti.
Il Quirinale, lo stallo, l'esplosione. 1992: la strage di Capaci e l'elezione di Scalfaro. Concetto Vecchio su La Repubblica il 15 gennaio 2022.
Oscar Luigi Scalfaro percorre i Fori imperiali sulla Flaminia presidenziale al termine di un'elezione tra le più drammatiche della Repubblica. Era il 25 maggio 1992, due giorni dopo la strage di Capaci. Il Paese viveva giorni sconvolgenti e i partiti di massa sentivano vicina la loro fine. A febbraio, con l'arresto del socialista Mario Chiesa, era scoppiata Tangentopoli. Il 5 aprile le elezioni politiche avevano rivelato una protesta profonda. La Dc arretrava e irrompeva la Lega di Umberto Bossi a incrinare i tradizionali equilibri parlamentari. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga si era dimesso anzitempo, il 23 aprile, con qualche settimana d'anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato, aggiungendo un ulteriore elemento di incertezza. Quindi si andò alla conta per il Quirinale senza una bussola. La Dc e il Psi erano la somma di due debolezze. La Dc, divisa al suo interno in tre fazioni, era indecisa se suggerire Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, poi ai blocchi di partenza ogni partito scelse un candidato di bandiera: la Dc Giorgio De Giuseppe, Pds e Rifondazione Nilde Iotti, i Verdi Norberto Bobbio, il Psi Giuliano Vassalli, la Lega Gianfranco Miglio, i radicali Oscar Luigi Scalfaro, La Rete di Leoluca Orlando votò Tina Anselmi. Al quarto scrutinio la Dc puntò su Forlani, che si ritirò però al sesto dopo aver ottenuto soltanto 479 preferenze. Lo stallo proseguì così per altri dieci giorni. La svolta sotto l'urgenza per l'uccisione di Giovanni Falcone e della sua scorta, il 23 maggio. "Non un giorno in più può durare la ricerca del nuovo Capo dello Stato" scrisse Eugenio Scalfari su Repubblica. Vennero fatti i nomi di Scalfaro, che il mese prima era stato eletto presidente della Camera, e di Giovanni Spadolini. La spuntò Scalfaro, un galantuomo dal profilo morale specchiato, ciò che serviva in quell'Italia corrosa dagli scandali. Alla fine, sostenuto dalla maggioranza (Dc, Psi, Psdi, Pli) e dall'opposizione, dal Pds alla Rete, dai Verdi a Pannella, venne eletto al sedicesimo scrutinio.
Giuseppe Salvaggiulo per lastampa.it l'11 febbraio 2022.
Semel presidente, sempre presidente. Variante repubblicana della regola benedettina. «Presidente!», si sente chiamare nel centro di Roma. «Si girano in quindici», esordisce Michele Ainis, costituzionalista pop, nel saggio Presidenti d’Italia. Atlante di un vizio nazionale (La nave di Teseo, 224 pp). Non solo in quindici.
Non solo a Roma. L’Italia è una Repubblica di presidenti, «della più varia risma: ogni autorità pubblica ne ha uno, spesso più di uno». E come la dignità di abate, anche il titolo di presidente resta a vita, a decenni di distanza dalla cessazione della carica. Tanto che, per distinzione, è ormai invalso il «supertitolo» di presidente emerito, sebbene mandasse su tutte le furie il dimissionario presidente della Repubblica Giovanni Leone. «Sapete come si dice a Napoli? Emerito stronzo!», protestava con gli addetti al cerimoniale.
La regola ruffiana della nomina
Il saggio di Ainis dalla dottrina giuridica e dalla politologia sconfina nell’antropologia. La famelica antropologia dei «posti da presidente, tanti come gli appetiti perché c’è un’intera nazione da sfamare». Senza concorso: per le presidenze vale la regola ruffiana della nomina, del circuito ristretto, delle conventicole come denunciava un inorridito Sergio Castellitto nel film di Virzì Caterina va in città (Roma, ça va sans dire). E dire che «la malattia presidenziale non accompagna la storia italiana dai suoi albori. È un fenomeno più tardo, un disturbo dell’età senile».
Nell’antica Roma il presidente del Senato era chiamato Princeps senatus. Di presidenti se ne trova traccia per la prima volta in Boccaccio, nel XIV secolo, ma con eccezione di leadership di gruppo. Oggi «il culto del presidente è diventato una religione nazionale». Frutto (degenerato?) della democrazia pluralistica. Molte istituzioni, molti incarichi, un potere diviso e quindi reciprocamente controllato. Ma anche fabbrica di competenze sovrapposte, ambiguamente deresponsabilizzanti. Tutti generali senza truppe, in un paese in cui qualche anno fa la Corte dei conti stimava quasi 240mila dirigenti pubblici, quanto l’intera popolazione di Venezia.
Almeno 70714 presidenti
Quanti sono dunque gli italiani che possono a buon diritto girarsi di scatto sentendo chiamare «Presidente!» in via del Corso? La ricerca di Ainis, condotta con Andrea Carboni, Antonello Schettino e Silvia Silverio, arriva a contarne 70174 «ma è un numero approssimato per difetto giacché il censimento non comprende una miriade di istituzioni minori, che altrimenti l’avrebbero trasformato in una biblioteca di Babele, senza inizio e senza fine». In questo «paesaggio multiforme, spesso abitato da creature eccentriche e bislacche», Ainis sguazza come un bambino il primo giorno di mare, incasellando i presidenti in una galleria di profili (comprensivi di poteri, staff e stipendi) non di rado simile a un bestiario repubblicano che costa al contribuente 390 milioni di euro l’anno. Dagli 11,36 euro di indennità mensile lorda del presidente del tribunale regionale delle acque pubbliche ai 432mila euro annui del presidente della Corte costituzionale. Troppi soldi, troppi posti, troppe leggi: è la malattia del troppo, della superfetazione che incrina la solidità delle istituzioni.
Dall’Aeroclub al Colle
Altro che Quirinale: l’Italia dei presidenti non si staglia sugli alti colli, ma sopravvive negli interstizi del potere. Negli anfratti meno illuminati si scrive quotidianamente un’autobiografia nazionale. Aero Club d’Italia, prima voce del dizionario presidenziale di Ainis: ente di promozione delle attività aeronautiche a carattere turistico-sportico, istituito nel 1911, ente morale sotto il fascismo, dal 1954 ente pubblico.
Primo presidente Ludovico Spada Veralli Potenziani, futuro governatore di Roma e senatore del Regno. Mandato presidenziale di 4 anni, rinnovabile due volte. Quindi in tutto massimo 12 anni. Nel 2018 Giuseppe Leoni, ex presidente ed ex commissario che aveva cumulato ben 17 anni di mandato, fu commissariato (il commissario commissariato!) dal governo.
Ne seguì una polemica furibonda, con inevitabile strascico giudiziario fino al Consiglio di Stato. E dire che l’incarico di presidente è a titolo gratuito, mentre quello di direttore generale (indicato dal presidente) vale 128 mila euro annui. Bizzarria? No, sovente regola.
Con paradossi come quello dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa, negli ultimi due anni diventata centrale nella lotta al Covid), dove il presidente non riceve emolumenti, trattandosi di un professore universitario in pensione, mentre il direttore generale nel 2016 aveva percepito la bellezza di 647mila euro.
La Repubblica presidenziale (nel senso patologico di Ainis) è anche una immaginifica fucina di acronimi: Ales, Ansv, Anvur, Arera, insieme ai più noti Anac, Anpal, Anas, Anci, Apt, Aran e Art per citare solo quelli di una pagina del libro. Sarebbe interessante un quiz tra i parlamentari: quanti saprebbero indicarne l’esatto significato? Eppure ogni sigla ha una storia, una struttura, un perimetro di competenze, una carta intestata, un usciere e naturalmente un presidente.
Luca Monticelli per "la Stampa" il 18 febbraio 2022.
Lo scontro tra Mario Draghi e la maggioranza rischia di ripercuotersi sulle nomine pubbliche. Il risiko prenderà il via a primavera, ma le grandi manovre sono già iniziate.
E il premier sembra deciso ad andare avanti con il suo «metodo» sempre che i partiti non si mettano di traverso.
Secondo un report appena diffuso da Inrete ci sono 350 persone da individuare per le posizioni nei consigli d'amministrazione di 49 società e di 41 collegi sindacali.
Uno degli obiettivi politicamente più ambiti riguarda la governance di Invitalia, l'agenzia nazionale per lo sviluppo, controllata al 100% dal Mef.
L'amministratore delegato è Domenico Arcuri, portato da Romano Prodi nel 2007.
Sotto la sua gestione sono passati per Invitalia i dossier più delicati, e Arcuri ha vissuto l'apice della sua carriera con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Con l'appoggio dell'allora presidente del Consiglio, il manager calabrese è stato il protagonista della trattativa sull'Ilva e della gestione dell'emergenza Covid.
Per lui sembravano aprirsi le porte del vertice di Cassa depositi e prestiti, ma poi tutto è cambiato molto rapidamente: la caduta di Conte, l'inchiesta per peculato sulle mascherine cinesi e un progressivo allontanamento dai riflettori. Il rinnovo del consiglio dell'agenzia è fissato entro il 30 giugno, ma al momento è difficile trovare qualcuno dentro i palazzi che scommetta sulla permanenza di Arcuri.
Pesa l'indagine della magistratura e in più i suoi sponsor politici non sono forti come un paio d'anni fa, sia tra i pentastellati che nel Partito democratico.
Il manager calabrese è dato in uscita da Invitalia pure per le pressioni che arrivano dal centrodestra che l'ha sempre criticato aspramente, Matteo Salvini per primo.
In questo scenario, cresce trasversalmente la candidatura di Bernardo Mattarella, numero uno di Mediocredito Centrale e nipote del presidente della Repubblica, molto apprezzato per il lavoro fatto a sostegno delle imprese durante la fase più acuta della pandemia. Presidente di Invitalia è Andrea Viero, uomo legato al Pd, arrivato nel 2019, con un passato nelle multiutility quotate.
Il Tesoro ha già cominciato il domino delle partecipate silurando Guido Bastianini dal Monte dei Paschi di Siena, sostituendolo con Luigi Lovaglio.
Le prime scadenze sono stabilite entro il 30 aprile se si considerano, ad esempio, Consip, Eni, Sogin, PagoPa, Enav, Banca del Mezzogiorno. Poi ci sono Snam, Italgas e Fincantieri.
Le nomine verranno realizzate osservando la legge sul rispetto della parità di genere, che prevede almeno i due quinti dei posti nei cda riservati alle donne. La competizione è apertissima e c'è ancora tempo prima della presentazione delle liste, eppure qualcosa si sta muovendo.
Sace, la società che si occupa del settore finanziario delle realtà imprenditoriali, è passata dal perimetro di Cassa depositi e prestiti al Mef, e attualmente vede amministratore e presidente rispettivamente Pierfrancesco Latini e Mario Giro.
Per sostituire il primo si fa il nome di Federico Merola, componente indipendente del consiglio, al posto del secondo un alto dirigente del ministero dell'Economia, ma non sarà il direttore generale Alessandro Rivera. Probabile la riconferma per Pasquale Salzano e Mauro Alfonso a Simest, così come per l'ad di Snam, Marco Alverà.
Stesso discorso per Giuseppe Virgone alla guida di PagoPa. Su Fincantieri, impresa leader nella cantieristica navale, la partita appare molto complessa. Giuseppe Bono è destinato a rimanere in azienda, ma come presidente del gruppo, poltrona attualmente occupata da Giampiero Massolo, ex direttore del Dis comparso anche nelle rose del centrodestra per il Quirinale.
Diversi i profili sul tavolo come capo azienda: Fabrizio Palermo (già rimosso da Draghi da Cdp), Fabio Gallia (ora direttore generale), Claudio Gemme (manager del gruppo ed ex Anas).
Dopo la tornata del 2021 che ha portato alla nomina dei nuovi vertici delle big di Stato come Fs e Cdp, anche quest' anno il premier, affiancato dal consigliere Francesco Giavazzi, sembra intenzionato a proseguire sulla linea dell'indipendenza dalla politica, ma dovrà fare i conti con gli appetiti dei partiti, a un anno dalle elezioni.
Da true-news.it il 18 febbraio 2022.
Parità di genere e “metodo Draghi”. È la partita delle nomine 2022: sono circa 350 i nomi da individuare complessivamente per le posizioni nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali delle società pubbliche e partecipate dallo Stato, a cui vanno aggiunti quelli per le posizioni di amministratori delegati e presidenti dei consigli di amministrazione.
È quanto emerge da “Il domino delle nomine – Il rinnovo delle cariche nelle società partecipate dallo Stato nel 2022”, dossier a cura del Centro Studi Inrete rilasciato il 17 febbraio che offre un prospetto delle cariche scadute al 31 dicembre 2021 e ancora da rinnovare.
Nomine 2022: Poste, Enel, Eni, Leonardo, Sace, Consip
Da Invitalia a Sogin, da Poste Italiane a Eni passando per Monte dei Paschi, Enav, Leonardo, Enel, Sace, Consip, Sport & Salute e tante altre. È ripartita anche quest’anno la stagione cruciale delle nomine per le società partecipate dallo Stato, suddivise fra società di 1° livello, partecipate direttamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (o, raramente, da un altro Dicastero) e le società di 2° e 3° livello, di matrice indiretta, le cui quote sono possedute da una società partecipata a sua volta da uno dei Ministeri.
Nei primi mesi del 2022 – entro la metà dell’anno – saranno da individuare i nomi per quelle cariche scadute nel 2021 non ancora rinnovate. Successivamente, il focus passerà alle nomine per le cariche in scadenza il 31 dicembre 2022.
Nomine 2022: parità di genere e “metodo Draghi”
A livello di approccio probabile una riedizione di quanto già avvenuto nel 2021. Per le nuove nomine verrà osservato il criterio stabilito dalla Legge 12 luglio, n. 120 sul rispetto della parità di genere, la quale prevede che almeno i 2/5 delle nomine dei consiglieri di amministrazione e dei sindaci delle società quotate vengano riservati a donne.
C’è anche chi parla di alternanza di genere fra presidenti e amministratori delegati dove possibile, con un metodo già sperimentato in alcune società pubbliche. A farla da padrone resterà comunque il cosiddetto “metodo Draghi”, ispirato alla discontinuità gestionale lasciando meno spazio alle manovre dei partiti.
Lo strano caso di Bonomi, presidente di tutto imprenditore di niente. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 19 febbraio 2022
Che lavoro fa Carlo Bonomi? Qualcuno inizia a chiederselo, considerando la candidatura offertagli su un piatto d’argento dal presidente del Milan, Paolo Scaroni, alla presidenza della Lega calcio di Serie A e subito sfumata.
Negli ultimi anni l’assetto delle sue partecipazioni è cambiato molto, la sola cosa che non è cambiata è che Bonomi continua a non avere ruoli operativi, ma solo a sommare incarichi di presidenza.
Nel 2020 Marsupium srl una delle società di cui Bonomi è presidente ha registrato utili per 3,9 milioni. Come? Cedendo una partecipazione e comprandone un’altra sempre all’interno della galassia delle sue partecipate.
GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43.
Giovanna Fagionato per “Domani” il 20 febbraio 2022.
Che lavoro fa Carlo Bonomi? Qualcuno inizia a chiederselo, considerando la candidatura offertagli su un piatto d’argento dal presidente del Milan, Paolo Scaroni, alla presidenza della Lega calcio di Serie A e subito sfumata, poche settimane dopo che Il Sole 24 Ore aveva dato spazio agli appelli al governo per evitare il fallimento.
Un caso davvero particolare, considerando che né Bonomi ha commentato, com’è noto il presidente si trovava alle Maldive, né alcun commento è arrivato da Confindustria, nemmeno quando è stato chiesto direttamente.
I precedenti crearono molte più polemiche: Giorgio Fossa, nominato nel consiglio di amministrazione della Sea, la società degli aeroporti di Milano, dal sindaco, Gabriele Albertini, a sua volta imprenditore, per privatizzare la società pubblica, fu investito di accuse di conflitto di interessi.
Fossa fu nominato quando già il suo mandato era in scadenza, Bonomi è appena a metà del suo e intanto ha già un altro incarico, quello di presidente della Fiera di Milano, circa 100mila euro di compenso, su cui ancora una volta non si sono levate particolari contestazioni.
La sua nomina all’ente fieristico è arrivata quasi contemporaneamente al balzo alla presidenza di Confindustria e agli inizi del mandato solitamente il clima è da luna di miele: un mese dopo la nomina, la Sidam, società di forniture biomedicali di cui Bonomi è presidente, fu anche premiata dalla Confindustria di Bonomi, con il premio Pininfarina per l’innovazione.
La sua elezione nel 2020 rispondeva alla voglia dei grandi elettori del nord di riportare il timone della organizzazione degli industriali al settentrione e un presidente di Assolombarda ambizioso, ipercomunicatore, dalla battuta pronta e puntuta, faceva al caso loro.
Pochi mesi dopo le industrie dell’alimentare si sarebbero ricredute, con la maggioranza delle federazioni che forti dei proventi portati da pandemia e lockdown firmavano i rinnovi dei contratti coi sindacati, disubbidendo alla linea di Bonomi che considerava quei rinnovi aumenti troppo alti rispetto all’inflazione. Una frattura amplissima tra la teoria e i proclami politici del presidente e la pratica delle aziende che negoziavano coi lavoratori.
Le battute di Bonomi sugli scioperi «sbagliato», «mi rattrista», è «un rito identitario», hanno segnato il tempo della sua permanenza alla presidenza, più di altri risultati di sorta.
Le battute, però, non le fa solo Bonomi. Quelle sulla sua reale consistenza imprenditoriale sono frequenti, anche all’interno degli ambienti confindustriali. Per diversi anni Bonomi è stato a capo di una filiera di scatole cinesi che controllavano una piccola società di forniture biomedicali.
Ma negli ultimi anni l’assetto è cambiato molto, la sola cosa che non è cambiata è che Bonomi continua a non avere ruoli operativi, ma solo a sommare incarichi di presidenza. Attualmente oltre alla presidenza di Fiera e Confindustria, infatti, Bonomi è presidente di Sidam la società di forniture biomedicali la cui quota di maggioranza nel settembre 2020 è stata acquisita dal fondo Mandarin Capital di Alberto Forchielli.
A vendere era stata la Synopo, sempre riconducibile a Bonomi. Il presidente di Confindustria è rimasto però socio della Sidam tramite la Marsupium srl: in Marsupium Bonomi è presidente e detiene il 40 per cento del capitale tramite un’altra società, la Ocean srl. Della Ocean, di cui è ancora una volta presidente, Bonomi detiene un terzo del capitale, gli altri due terzi sono divisi equamente tra due dirigenti della Sidam.
Marsupium nel 2020 ha registrato un utile di 3,9 milioni di euro rispetto alla perdita di 4910 euro di fine 2019. Un ottimo risultato di cui però si spiegano le origini nel resoconto dell’assemblea 2021 riportata nei documenti di bilancio: «Il presidente (Bonomi, ndr) evidenzia che l’ottimo risultato raggiunto è da ricondurre principalmente alla vendita a favore di Stanislao srl della propria partecipazione in New Horizon srl – pari al 34 per cento del capitale di New Horizon srl – ed al conseguente investimento fatto in Medtech holding Spa rappresentative del 20,4 per cento del capitale».
Si dirà che è un ottima cosa lasciare una partecipazione poco redditizia e investire in una maggiormente redditizia, sono cose per cui ci vuole fiuto. Peccato che si tratti di giri di quote in società di cui sempre Bonomi gioca un ruolo: New Horizon srl è stata incorporata in Sidam nel marzo del 2021 e per questo la sua partecipazione nella stessa Sidam è stata annullata e data in capo al socio della Sidam che è appunto la Medtech holding Spa.
E chi è il presidente di Medtech holding Spa che controlla Sidam? Sempre Bonomi che ne è socio sia attraverso la Marsupium che in persona, l’altra socia è Annalisa Azzolini che è l’amministratrice delegata di Sidam, con una lunga tradizione di imprenditoria alle spalle visto che è la figlia del fondatore dell’azienda.
Nell’anno della pandemia il valore della produzione di Sidam è aumentato di 3,6 milioni da 14,2 milioni a 17,8 e i dipendenti cresciuti da 87 a 102. In più dal 17 gennaio 2022 Sidam ha incorporato la Btc medical europe srl che aveva acquisito nel 2016 e a dicembre di quest’anno ha acquisito anche la Emotec: il fatturato così sale a 26 milioni e i dipendenti a 130.
Secondo il comunicato di Mandarin Capital Partners, Emotec mantiene il suo storico amministratore delegato, Francesco Schittini, mentre Bonomi ne occupa la presidenza. Prima di essere acquisita da Sidam, secondo le visure camerali Emotec era controllata dalla microimpresa L’impronta srl, 5 dipendenti, e un presidente: indovinate chi?
Tra microimprese e giochi di partecipazioni, Bonomi è più un frequentatore di cda che un imprenditore. Forse è per questo che gli industriali di fronte all’incarico della Lega di serie A non hanno trovato niente da ridire.
Todos caballeros. La specialità dell’Italia è produrre presidenti. Michele Ainis su L'Inkiesta il 15 gennaio 2022.
Sono tantissimi, hanno funzioni diverse, paghe variabili e poteri che cambiano a seconda del ruolo. Il titolo, però, rimane lo stesso. Nel suo ultimo libro (pubblicato da La Nave di Teseo) Michele Ainis si impegna del compito gravoso di metterli in fila, indicando per ciascuno ruoli e prerogative.
Ma che mestiere svolge il presidente? C’è un potere, una funzione, una prerogativa che lo distingua rispetto a tutte le altre cariche? Su frasicelebri.it si trova la risposta: «Il lavoro di un presidente è quello di presiedere». Definizione ineccepibile, ma forse un po’ elusiva. Qual è infatti il significato di “presiedere”, in quale attività consiste? Risponde, questa volta, la Treccani online: «Presiedere è essere a capo in qualità di presidente».
Insomma, un circolo vizioso. Però la colpa non è delle parole, è della cosa. Dipende dall’ambiguità della figura, dalla grande varietà di modi con cui viene disegnata nei singoli settori.
In via generale, potremmo anche fissarne taluni attributi ricorrenti: per solito, ogni presidente ha infatti il potere di convocazione del collegio; di stabilire l’ordine del giorno e dirigerne i lavori; di rappresentanza esterna, spesso anche in giudizio, dell’ente che presiede. Tuttavia è molto di più ciò che li divide, che distingue l’uno dall’altro i vari presidenti. E il censimento offerto in questo libro ne offre la prova. Viaggiando fra i 57 presidenti dei Consorzi Bim e i 17 presidenti dei Teatri stabili, fra gli scranni presidenziali in un municipio o in un’azienda di Stato, s’incontra una fauna variegata: i nostri presidenti avranno in comune la poltrona, ma sono diversi per criteri di nomina, per durata dell’incarico, per retribuzioni, per regime d’incompatibilità, per somma di poteri.
Cominciamo da qui, dai loro poteri. Talvolta formali, da maestro di cerimonie o poco più; talvolta simili ai poteri d’un re. Così, in vari casi il presidente può sostituirsi al collegio che presiede, adottando provvedimenti monocratici da sottoporre poi a ratifica. Accade nei tribunali, ma accade altresì presso varie autorità amministrative, dall’Agcom all’Anpal, dalle Camere di commercio agli Enti parco, e poi nei Consorzi interuniversitari di ricerca, in Federculture, Ismea, Inrim, Inaf, e via elencando. In altri casi ancora, a parità di voti il suo voto vale doppio: un potere che accomuna il presidente della Corte costituzionale, quello dell’Antitrust, quello della Commissione sullo sciopero. Il presidente dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, può proporre al prefetto il commissariamento di un’impresa. Il presidente dell’Istituto superiore di sanità ha una quantità di uffici alle sue dirette dipendenze, dalla Segreteria al “Servizio conoscenza” (qualunque cosa voglia dire), dall’Unità di bioetica all’Ufficio stampa, per finire con le Relazioni esterne e i Rapporti internazionali. Il presidente della Corte dei conti è un presidente al cubo, giacché presiede pure il Consiglio di presidenza e le Sezioni riunite. Ma il presidente più presidenzialista è quello dell’Invalsi: conferisce deleghe, adotta tutti i provvedimenti urgenti, reclama pareri dalle authority e dal Consiglio di Stato, ci manca solo che benedica le folle a piazza San Pietro.
Anche il regime giuridico dei nostri presidenti appare ondivago come una libellula. Il presidente dell’Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente), per esempio, non può esercitare alcuna attività professionale, né ricoprire uffici pubblici di qualsiasi natura; e l’incompatibilità si estende ai due anni successivi alla cessazione dell’incarico. Come lui altri presidenti, ma i più non soffrono di limitazioni. E la riconferma? Qualche volta è ammessa, qualche volta no. Puoi fare il presidente dell’Art (Autorità di regolazione dei trasporti) una volta sola nella vita; quello di Federbim (Federazione nazionale dei consorzi di bacino imbrifero montano) anche vita natural durante, tanto che nel 2020 il suo presidente ha ricevuto il quinto mandato consecutivo, un’avventura cominciata nel 2000. Mentre rimangono presidenti fino alla pensione i vertici della Corte dei conti e del Consiglio di Stato.
Sulla durata della carica, infatti, il nostro ordinamento gioca i numeri al lotto: 3 anni per l’Agenzia italiana del farmaco; 4 anni per l’Autorità di sistema portuale; 5 anni per il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro; 6 anni per l’Ufficio parlamentare di bilancio; 7 anni per la Privacy; fino a 12 anni per il Coni, il Comitato olimpico nazionale. Sempre che il presidente non venga revocato anzitempo, quando la legge lo consente. È il caso dell’Istituto per la finanza e l’economia locale, il cui presidente può venire destituito in ogni momento dal presidente dell’Anci, senza necessità di motivare la decisione.
Invece il presidente della Camera dei deputati non può mai ricevere un voto di sfiducia, come mostra la vicenda di cui fu protagonista Gianfranco Fini durante la XVI legislatura, in seguito allo scontro con il presidente del Consiglio Berlusconi. Si dirà: ma questa garanzia discende dal suo ruolo, giacché chi presiede un’assemblea legislativa è come un arbitro, staremmo freschi se i giocatori potessero cacciarlo dal campo di gioco. Vero, ma allora non si spiega perché mai in Toscana il presidente del Consiglio regionale possa subire una mozione di sfiducia, a norma di statuto. Misteri statutari.
Insomma, s’incontrano presidenze effimere e presidenze fin troppo durature. Questa carica ha una doppia valenza, e d’altronde sono doppie le stesse forme del verbo presiedere (si può dire “presiederono” ma anche “presiedettero”). Sicché diventa un po’ come un elastico, si lascia stirare o restringere a piacere. Presso la Consulta, per esempio: la presidenza più lunga venne incarnata da Gaspare Ambrosini (5 anni, 1 mese e 25 giorni), la più breve da Vincenzo Caianiello (44 giorni). O a Palazzo Chigi, dove siede il presidente del Consiglio. Qui la palma della longevità spetta al secondo Governo Berlusconi, che sopravvisse per 1412 giorni, quasi 4 anni (2001-2005). Mentre il record negativo di durata risale al primo Governo Andreotti, nel 1972: 8 giorni appena. Un’esperienza che rievoca l’epistate dei pritani, antica istituzione della democrazia ateniese; era una sorta di capo dello Stato, ma durava un solo giorno, e si poteva ricoprire questo ruolo un’unica volta nella vita. Giulio Andreotti, viceversa, guidò sette governi; e come lui Alcide De Gasperi.
E c’è poi la retribuzione che spetta al presidente, ammesso che gli spetti. Giacché in vari casi la sua funzione viene svolta gratis, senza ricevere il becco d’un quattrino. Accade, fra l’altro, nei Consorzi fra enti locali, alle Camere di commercio, presso la Conferenza Stato-Regioni, all’Aero Club d’Italia come all’Upi e all’Uncem. Contravvenendo alla regola costituzionale secondo cui chi lavora va pagato, sempre che quello del presidente sia un lavoro. Ma i dubbi restano, a giudicare dalla diversità di trattamento.
Si viaggia così dai 165 euro al mese che spettano al presidente d’un Consiglio comunale nei piccoli paesi, fino ai 295.000 euro l’anno per il presidente della Cassa depositi e prestiti, ai 400.000 euro per il presidente dell’Ivass, ai 432.000 euro versati a chi presiede la Consulta. Nel 2014 il Governo Renzi stabilì un tetto di 240.000 euro per gli stipendi pubblici, ma il tetto dev’essersi bucato. D’altronde il nostro legislatore è un cacadubbi, come mostra l’indennità del presidente della Provincia: prima corrisposta, poi negata, poi introdotta di nuovo (nel 2020). Sarà per questo, sarà per una forma di pudore, che la loro retribuzione viene spesso calcolata in gettoni di presenza (11.115 euro, all’Azienda regionale per il diritto allo studio universitario di Padova). E dopotutto, meglio poco che niente. Ne sa qualcosa il presidente del Tribunale regionale delle acque pubbliche, cui spetta un’indennità mensile di 11,36 euro, naturalmente al lordo delle tasse.
Infine: come si diventa presidenti? Dipende dai costumi locali; in America il presidente è eletto, in Italia viene nominato. Da chi? Sovente dal ministro: è il caso di Enea, Inapp, Aran, Inl, Formez, Cnr, e delle molte altre sigle dettate da un legislatore balbuziente. Per converso, ogni ministro viene a sua volta nominato da un presidente, quello del Consiglio.
E qualche ministro è a sua volta presidente, recitando due parti in commedia. È il caso, per esempio, del ministro della Cultura, che presiede l’Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio; o di quello per le Disabilità, che presiede un altro Osservatorio. Ma si dà pure il caso opposto, quando è il presidente a trasformarsi in un ministro. Succede ai presidenti delle Regioni a statuto speciale che partecipano al Consiglio dei ministri, se si decide su materie di loro competenza. Doppia qualifica, doppia divisa. Come quella che indossa il sindaco, al contempo presidente della Giunta comunale; o il direttore generale della Banca d’Italia, che diventa in automatico presidente dell’Ivass, l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni.
In altri casi, tuttavia, la legge reclama l’uso del concorso, come avviene per i presidenti di tribunale e per varie altre figure. Ma i requisiti per concorrere non sono affatto uguali. Se vuoi presiedere un Consiglio d’istituto devi essere un papà o una mamma, devi dar prova, insomma, delle tue capacità riproduttive. Se ti candidi a un ente di ricerca dovrai esibire qualità di competenza, esperienza, indipendenza. Requisiti stringenti, benché non sempre applicati in modo restrittivo. Nel 2012, per esempio, un professore di ginnastica divenne direttore generale dell’Istituto nazionale di geofisica; e in quel caso il direttore conta più del presidente. Sennonché, talvolta, il requisito stesso è inapplicabile. Accade alla Consip, il cui presidente dev’essere scelto “nel rispetto dell’equilibrio di genere”. E come si fa, se la poltrona è una? Cercasi candidati ermafroditi.
Per evitare abusi, resta però una via d’uscita: far nominare il presidente dal presidente. Di chi altri dovremmo mai fidarci? E infatti questa soluzione si pratica in Sicilia, dove il presidente dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni viene scelto personalmente dal presidente della Regione. Si pratica, altresì, in Campania, rispetto al presidente dell’Osservatorio regionale sulla gestione dei rifiuti, indicato anch’esso dal presidente della Regione. E qualche volta il presidente è costretto ad autonominarsi, a designare sé medesimo. Succede nei Consigli comunali, dov’è ammessa la formazione di gruppi costituiti da un unico membro. Succede nel Consiglio provinciale di Trento, dove nel 2021 si contavano 13 gruppi consiliari, di cui 7 con un solo componente, presidente di se stesso. Condizione invidiabile: nessun dibattito, nessun contrasto sulle decisioni. Ma diventerà presto la regola, dato che in Italia i presidenti sono ormai più dei presieduti.
da “Presidenti d’Italia. Atlante di un vizio nazionale”, di Michele Ainis, con Andrea Carboni, Antonello Schettino, Silvia Silverio, La Nave di Teseo, 2021, pagine 224, euro 19
La figura del capo dello Stato in un saggio illuminante. Il discreto fascino del Quirinale, storia dei nostri Presidenti della Repubblica. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.
Il libro di Gianluca Passarelli Presidenti della Repubblica, appena edito da Giappichelli, si compone soprattutto di una serie di ritratti ben elaborati, secondo i filtri metodologici della scienza della politica, degli inquilini che si sono succeduti al Quirinale. La competizione per il Colle è tradizionalmente caratterizzata da lotte fratricide e candidature dissimulate, premette in modo giornalisticamente brillante Eva Giovannini, a partire dall’episodio del 2013, con la bocciatura di Marini e Prodi e col discorso di Napolitano rieletto che i parlamentari applaudivano senza capirlo fino in fondo o, forse, facendo finta di non capirlo.
I singoli ritratti sono preceduti da una parte introduttiva dell’Autore che inquadra la figura del capo dello Stato a partire dalle particolari modalità di elezione. In particolare Passarelli richiama l’importanza decisiva del voto segreto, a cui non siamo più di tanto abituati perché nell’ordinaria vita parlamentare, almeno dal 1988, siamo soliti confrontarci con prevedibili votazioni di tipo palese. Anche dopo quella riforma regolamentare, però, il voto segreto è rimasto obbligatorio per l’elezione di persone, rispetto alle quali massima deve essere la libertà dell’elettore, soprattutto per le istituzioni di garanzia, presidente della Repubblica e giudici costituzionali. La larghissima convergenza sull’elezione indiretta, come ben spiega l’Autore, non era scontata all’inizio della Costituente, ma lo divenne, in forma di garanzia reciproca, dopo la crisi di governo della primavera 1947 lungo la linea di frattura della Guerra fredda, con un ruolo decisivo del presidente del Consiglio De Gasperi (p. 3), a testimonianza di come sia palesemente erronea l’immagine di un governo distante dai lavori della Costituente, pur costruita con l’intento positivo di sedimentare il consenso sulla Carta.
Tutte le principali decisioni della Costituente sulla Seconda parte furono rigorosamente e altamente politiche, e derivanti da una lettura puntuale del contesto lacerato di allora. Passarelli passa quindi alle caratteristiche che portano all’elezione, indagando sulle regolarità e sulle discontinuità tra i vari inquilini del Quirinale. Quale la sintesi? Che si tratta di uomini, per lo più anziani, non leader politici di primo piano in termini di Governo, con cariche istituzionali importanti e prestigio internazionale (p. 12). Non si può però non rilevare uno scarto tra i ritratti dei primi Presidenti, interventisti in fasi limitate e comunque reversibili, col periodo che segna lo spartiacque del sistema dei partiti, il 1989, e che ricompone la frattura del 1947. Non a caso Passarelli ci descrive la presidenza Cossiga come segnata da una discontinuità interna pre e post-1989, come se si trattasse di due persone diverse perché, al netto di caratteristiche personali, erano state messe in discussione le fratture del sistema dei partiti ed era immaginabile una ricomposizione su basi diverse (p. 56 e ancor più p. 58).
Anche per questo, forse, si trattò di un Presidenza non del tutto compresa allora in alcuni sui slanci positivi, come il messaggio sulle riforme costituzionali del 1991. Che quello sia stato il punto di passaggio chiave, con un indebolimento strutturale del sistema dei partiti, solo debolmente arginato sul piano nazionale dalla riforma elettorale a Costituzione invariata, e quindi con un Presidente stabilmente più interventista, lo dimostra il suo successore Scalfaro, che pur l’aveva ampiamente criticato. Interventismo significa anche, almeno potenzialmente, entrare in scelte opinabili, in particolar modo sul potere di scioglimento anticipato, ed esporsi di più alla polemica politica di chi se ne senta danneggiato, come accadde appunto a Scalfaro col centrodestra (p. 65).
Ancor più dopo il fallimento del referendum costituzionale del 2016, che puntava a chiudere la transizione lungo l’asse maggioranza parlamentare (ed elettorale)-Governo-Presidente del Consiglio, questa linea di tendenza è stata ampiamente confermata, come dimostrato in particolare da uno dei momenti chiave del settennato, il rifiuto della nomina di Paolo Savona all’Economia nel Conte I in quanto autore di un piano di uscita surrettizia dall’Euro (p. 84). Nella parte finale, dopo i ritratti, Passarelli affronta la questione della possibile rielezione e anche qui la collega in modo stretto alla forza del sistema dei partiti: quando esso era strutturato i vertici delle forze politiche riuscivano a escluderla nonostante che tutti gli uscenti abbiano provato a perseguire quella strada; una volta imboccata la strada della destrutturazione sono essi che invece finiscono per chiederla a capi di Stato riluttanti (pp. 96-97). Con Napolitano la ottennero, vedremo stavolta. Stefano Ceccanti
Congiure, bugie e dossier: la spietata commedia del potere chiamata corsa al Quirinale. Bruno Manfellotto su L'Espresso il 10 Gennaio 2022.
La battaglia intorno all’elezione del Presidente della Repubblica non si è mai svolta secondo le regole che da una così alta liturgia ci si aspetterebbe. Lo racconta il libro di Marco Damilano “Il Presidente” in edicola da domenica 16 gennaio con L’Espresso e Repubblica.
Mettiamola così. Il Parlamento ha perso la sua centralità; i governi nascono e muoiono deboli; la giustizia è in piena «crisi di fiducia»; la stampa è accusata di «conformismo e faziosità»; perfino il Papa è contestato… In questa generale caduta degli dei, resiste invece il presidente della Repubblica, l’istituzione alla quale si continua a guardare come ultimo punto di equilibrio e stabilità.
Sarà anche per questo che ogni sette anni intorno all’elezione del Capo dello Stato cresce la curiosità e spasmodica si fa l’attesa che il rito si compia. Stavolta, poi, la corsa è cominciata mesi prima, forse nel momento stesso in cui Sergio Mattarella, un anno fa, ha affidato il governo a Mario Draghi con tanto di larga maggioranza. Solo che in 76 anni e dodici corse presidenziali (magari tredici considerando il bis di Giorgio Napolitano, così il destino di chi verrà non sarà segnato dal fatidico numero), la battaglia non si è mai svolta secondo le regole che da una così alta liturgia ci si aspetterebbe. Mai. Piuttosto è stata contrappuntata da congiure, bugie, dossier, dispetti, bocciature, «pugnale e veleno» (copyright Carlo Donat Cattin).
Una spietata commedia del potere che, come si dice, si alimenta del suo stesso racconto. Fino a diventare romanzo. Bene, se volete partecipare al sabba, o almeno assistervi da un punto d’osservazione privilegiato, allora leggete il libro di Marco Damilano “Il Presidente” che troverete in edicola domenica 16 gennaio con “L’Espresso” e “la Repubblica” (a 12,90 euro più il prezzo del giornale).
Pagina dopo pagina, un cronista attento e acuto che mastica politica da sempre - quando seguì la sua prima elezione presidenziale, quella di Francesco Cossiga, aveva 16 anni - svela i segreti, i protagonisti e le misteriose alchimìe del Grande Evento: da De Nicola a Mattarella, da Gronchi a Pertini, da Leone a Scalfaro, da Einaudi a Ciampi.
Il rituale, in fondo, non è mai stato del tutto uguale a se stesso. Certo, qualche regola c’era, ma si è dissolta con la Prima Repubblica. Allora lo schema prevedeva il coinvolgimento del Pci; l’alternanza tra un laico e un cattolico; il no ai capi partito, meglio le seconde file (tranne che nel caso di Segni, potente leader della corrente più potente della Dc, i dorotei, e di Saragat, segretario del Psdi).
I presidenti, poi, non sono stati tutti uguali: Damilano li divide in “rispettosi dei confini” (De Nicola, Einaudi, Leone, Ciampi); “impositivi” (Gronchi, Segni, Saragat, Scalfaro); “antagonisti” (Pertini, Cossiga) e per ciascuno ci regala retroscena, aneddoti, carte segrete. In quanto a Napolitano e Mattarella, figli della crisi dei partiti, sono stati costretti ad aprire al massimo la fisarmonica dei loro poteri, fino a praticare quel semipresidenzialismo di fatto che sbuca ogni tanto in questa storia.
Damilano non può certo dirci come il romanzo Quirinale andrà a finire, ma oltre a fornirci un manuale di memoria e testimonianza indispensabile per comprendere la cerimonia misterica che sta per compiersi, dedica qualche pagina al candidato più accreditato (nel capitolo “Drag King”, titolo espressese), ma anche il più condizionato, dall’eccezionalità (mai finora un premier ha traslocato al Quirinale) e, per paradosso, dal suo stesso carisma: «Al Quirinale arriverebbe per la prima volta il massimo esponente dell’Italia politica, il punto di equilibrio del governo di unità nazionale, il riferimento europeo atlantico e internazionale», scrive Damilano; «il presidente della Repubblica diverrebbe il garante dell’indirizzo politico e il presidente del Consiglio avrebbe una funzione puramente esecutiva di questo indirizzo»; sul Colle si realizzerebbe «la coincidenza tra potere formale e potere sostanziale». Una stagione nuova nella quale il Presidente prevarrebbe sull’Istituzione.
Per comprenderla, per prepararsi a viverla o, al contrario, per ricordare ciò che non è stato e sarebbe potuto essere, prendete in mano questa guida. In attesa che la storia si concluda.
Il grande gioco del Quirinale: “Le maledizioni delle donne e dei segretari Dc”. GIULIA MERLO su Il Domani il 13 Gennaio 2022.
Per dodici presidenti che sono stati eletti al Quirinale, molti altri ci hanno provato senza riuscirci, anche più di una volta. La maledizione si è accanita soprattutto sui segretari della Dc. Non solo loro: nessun nome femminile è mai riuscito a sfondare il tetto della maggioranza assoluta
“Nano maledetto, non verrai mai eletto”, c’era scritto su una delle tante schede nulle votate dai grandi elettori durante le 23 votazioni dell’elezione al Quirinale, nel 1971.
Il nano maledetto si riferisce Amintore Fanfani. Basso di statura, il segretario della Dc e presidente del Senato è candidato ufficiale del suo partito al Colle.
Durante lo scrutinio è seduto accanto al presidente della Camera, Sandro Pertini e fa in tempo a leggere la scheda. Quel distico perfido sarebbe stato scritto da uno dei franchi tiratori democristiani aizzati da Giulio Andreotti.
Amintore Fanfani è uno dei grandi delusi del Quirinale, che per lui è stato una vera maledizione. Nato ad Arezzo nel 1908, Fanfani fa parte della corrente sinistra della dc, prende il potere del partito nel congresso del 1954. Il suo amico e compagno di corrente, Giuseppe Dossetti, lo definisce “un uomo nato sotto il segno del comando” e la carriera di Fanfani lo conferma: 6 volte presidente del consiglio, 5 volte presidente del senato, due volte segretario della dc, undici volte ministro e l’unico presidente italiano dell’assemblea generale Onu. Tanto da venire soprannominato dal giornalista Indro Montanelli “il rieccolo”.
Al Quirinale, però, non c’è mai arrivato. E non perché non ci abbia provato.
La prima occasione arriva nel 1964: l’assemblea dei parlamentari della Dc si è riunita e ha votato il suo candidato ufficiale. è Giovanni Leone, ma già dalle prime votazioni il suo nome non decolla: i franchi tiratori hanno colpito e sta prendendo quota il nome di Fanfani. Quando però si rende conto che comunque non avrà i voti dei comunisti, Fanfani telefona a Leone e gli comunica che si ritira. I voti non bastano comunque e al Quirinale viene eletto Giuseppe Saragat.
L’occasione si ripresenta, sette anni dopo. Nel 1971 è lui il candidato ufficiale della Dc ed è convinto di venire eletto. Glielo dice anche il suo avversario politico di sempre all’interno della Dc, Giulio Andreotti. Le cronache raccontano che la frase sia stata “Ti abbiamo scelto e verrai eletto, perché non ci sarai più tu a manovrare i franchi tiratori”. Fanfani, infastidito, avrebbe detto ad Andreotti di occuparsi dei voti degli altri partiti, lui si sarebbe assicurato di avere quelli della Dc.
Proprio l’arroganza, però, gli ha fatto perdere il Colle.
Un’altra delle regole non scritte è quella di non inimicarsi la stampa, durante i delicati giorni del voto. Invece, Fanfani accusa uno dei più importanti giornalisti politici del tempo, Vittorio Gorresio, di averlo rappresentato scorrettamente nei suoi articoli sulla Stampa. In Transatlantico, davanti a tutti, gli dice che i suoi articoli vengono tagliati dai suoi padroni. Gorresio, d’accordo con il direttore, scrive il dialogo sul giornale insieme a una nota di tre righe”Il linguaggio del senatore fanfani non si addice a un presidente, anche solo del Senato.
Il giorno dopo si conclude la corsa di Fanfani al Colle, sotto i colpi della stampa e dei franchi tiratori Dc.
ANDREOTTI E FORLANI
I franchi tiratori sono sempre stati uno degli incubi della democrazia cristiana, che ha sempre avuto una disciplina di partito meno rigida rispetto a quella del partito comunista e la divisione in correnti ha fatto maturare vendette e agguati. Non è un caso che nessuno dei segretari del partito siano mai stati eletti: sempre espressioni di parte, è stato il loro partito a non garantirgli il consenso necessario.
Il fenomeno si è acuito a mano a mano che ci si avvicina alla fine della prima repubblica. Per il quirinale come per il paese, l’anno maledetto è il 1992.
Dopo le dimissioni del presidente Cossiga, la Democrazia cristiana è ancora il partito più numeroso nonostante il crollo di cinque punti alle elezioni politiche. Quell’anno, ad aspirare al quirinale sono due personaggi di primo piano: il primo è l’attuale segretario della Dc, Arnaldo Forlani. Il secondo è Giulio Andreotti, il Divo giulio come era già soprannominato, ex segretario democristiano e abile manovratore di franchi tiratori. Entrato in parlamento nel 1946, nell’assemblea costituente, è stato artefice di cinquant’anni di storia della repubblica e ha ha giocato una parte nell’elezione di tutti i presidenti della repubblica, da Luigi Einaudi in poi.
Tra Forlani e Andreotti la spunta Forlani, che sembra avere l’appoggio dei socialisti guidati da Bettino Craxi.
Nell’aula del parlamento, però, mancano all’appello più di cinquanta voti. I franchi tiratori hanno colpito di nuovo.
Sembra allora arrivato il tempo di Andreotti, che si mette al lavoro per trovare interlocutori tra i socialisti. Ma la sua candidatura, mai nemmeno annunciata, muore il 23 maggio 1992.
La strage mafiosa di capaci, in cui muore il giudice istruttore Giovanni Falcone, invade anche l’assemblea in seduta comune. La strage viene letta anche come un colpo contro la candidatura Andreotti. I fatti dicono che gli ex comunisti del Pds chiudono ogni trattativa e avvertono la Dc: bisogna andare su un nome istituzionale.
E’ così che prende forma la candidatura del presidente della Camera democristiano, Oscar Luigi Scalfaro.
NILDE IOTTI
L’elezione di Scalfaro, però, è un passaggio nevralgico nella storia della repubblica anche per un’altra ragione. E’ il momento in cui una donna va più vicina all’elezione e quella donna è Leonilde Iotti, detta Nilde, la prima donna e la più longeva presidente della Camera.
Originaria di Reggio Emilia, eletta in assemblea costituente con il Pci, è stata deputata ininterrottamente dal 1948 al 1999. Per tredici anni e tre legislature ha presieduto Montecitorio.
Nella sua lunga carriera politica, è anche la prima donna a ottenere il mandato esplorativo per costituire un governo. Glielo assegna nel 1987 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga e fa di lei la prima esponente del partito comunista ad arrivare vicino alla presidenza del consiglio.
Nel 1992, il nome di Iotti è nella rosa dei nomi per salire al Quirinale e lei è pronta alla sfida. Eppure non è lei la candidata ufficiale degli ex comunisti, che scelgono invece il candidato di bandiera Giorgio Amendola.
Nel IV scrutinio ottenne 256 voti, ancora oggi il più alto numero di consensi ottenuti da una donna nel collegio elettorale. Oltre non andrà e al ventiseiesimo scrutinio viene eletto Scalfaro.
Nilde Iotti muore nel 1999 ed è stata sepolta, come da suo desiderio, nel cimitero del Verano a Roma, nella tomba del Pci, accanto Palmiro Togliatti, morto trentacinque anni prima.
Iotti è stata si compagna di vita del segretario del Pci, ma non si è mai fatta oscurare dal Migliore. Anzi, nonostante le iniziali maldicenze è stata capace di essere orgogliosamente entrambe le cose: la compagna di togliatti e una dirigente comunista capace di guadagnarsi spazio in un partito e in parlamento ancora a prevalenza maschile.
Dopo di lei, nessuna donna è arrivata così in alto nel cursus delle cariche istituzionali, né così vicina alla presidenza della repubblica. Chissà per quanto il suo primato rimarrà ineguagliato: speriamo ancora per poco.
Si conclude così il mio racconto sulla storia, i segreti e le strategie che ruotano intorno al colle più alto di Roma.
Ogni elezione è stata una storia politica a se e racchiude un pezzo della nostra Repubblica. Se esiste però una regola generale, che vale per tutti i presidenti, è quella enunciata da uno dei grandi sconfitti. Diceva Giulio Andreotti che non c’è nessun metodo che garantisca la vittoria, ci sono solo errori da non commettere.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Tommaso Labate per il Corriere della Sera il 13 gennaio 2022.
«Nano maledetto, non sarai mai eletto», impresso con inchiostro nero su carta intestata bianca del Parlamento in seduta comune e timbri di autenticità di Camera e Senato. Il messaggio si materializza per primo davanti agli occhi del presidente dell'Aula di Montecitorio Sandro Pertini, che sgrana gli occhi.
Il reale destinatario è il presidente del Senato, che sta seduto al suo fianco. E così, in una fredda giornata del dicembre 1971, Amintore Fanfani scopre sulla sua pelle quanto può essere sottile, fino a diventare di fatto inesistente, il confine tra la più vile delle lettere anonime e la più solenne delle schede, quella che serve a eleggere il presidente della Repubblica.
«Nulla!», cioè scheda nulla, gridò Pertini. Ma visto che attorno era pieno di testimoni, la più celebre delle schede non valide dell'elezione per il Colle - un messaggio rivolto a Fanfani con tanto di insulti - è rimasta impressa nella memoria collettiva dei cultori del Palazzo. A distanza di oltre mezzo secolo, il Parlamento si prepara al rito settennale della scheda pazza, con quelle bizzarrie dialettiche che servono a «segnare» il voto e a verificare quanto l'accordo su un nome può «reggere» oppure no. In vista della quarta votazione, se ci si arriverà, tutti coloro che hanno sottoscritto il patto per «Silvio Berlusconi al Quirinale» misureranno la tenuta delle truppe attribuendo al soldato di ciascuna divisione un modo diverso per votare.
Magari sarà «Berlusconi» per gli elettori di Forza Italia, «Berlusconi Silvio» per i leghisti, «Silvio Berlusconi» per Fratelli d'Italia e «Berlusconi presidente Silvio» per i centristi. Ma attenzione. Quest' ultima formula, di fronte a una presidenza - diciamo così - inflessibile, potrebbe non passare, visto che Berlusconi non ricopre alcuna carica istituzionale. Durante l'elezione del presidente del Senato, anno 2006, Oscar Luigi Scalfaro - che presiedeva la seduta in quanto senatore anziano - annullò i voti «Francesco Marini» semplicemente perché Franco Marini si chiamava per l'appunto «Franco» e non «Francesco». Per gli amanti del dettaglio, «Francesco Marini» era la firma degli elettori dell'Udeur di Clemente Mastella; nella votazione successiva, l'unico «Francesco Marini» fu considerato voto valido, nonostante anagraficamente non corretto.
Perché all'interno di ogni elezione del Parlamento, in seduta comune e non, ogni scrutinio fa storia a sé. Sempre Scalfaro, nel bel mezzo della votazione del presidente della Repubblica del 1992, fece montare il catafalco che nei primi scrutini non c'era. Un trucco per facilitare la scrittura dei franchi tiratori? Arnaldo Forlani, che era in campo, la intese così. E infatti si ritirò. «La presidenza ha sempre margini di manovra molto ampi durante il voto», ricorda il costituzionalista e deputato pd Stefano Ceccanti.
Potrebbe, per esempio, diramare delle prescrizioni sulla modalità di espressione del voto, limitando alla sola indicazione del cognome, inapplicabile all'epoca di Franco Marini (che aveva degli omonimi tra i parlamentari); oppure il presidente della Camera, in sede di spoglio, potrebbe limitarsi a enunciare la preferenza espressa senza entrare nel dettaglio di com' è stata scritta, mettendo così a rischio ogni controllo preventivo. Laura Boldrini, sette anni fa, lesse le schede per intero, «Mattarella», «Sergio Mattarella», «Mattarella esse puntato». E così si è fatto quasi sempre anche per le schede nulle. «Nani maledetti» esclusi, ovviamente.
Presidenti della Repubblica: tutti i Capi di Stato dal 1948 a oggi. Carlo Musilli il 15 Gennaio 2022 su firstonline.info. Da Einaudi a Saragat, da Pertini a Ciampi e Napolitano: mentre sale l’attesa per l’elezione del tredicesimo presidente italiano (la procedura inizierà il 24 gennaio), ecco un breve ritratto dei primi 12.
In 74 anni di storia l’Italia ha avuto 12 presidenti della Repubblica e a breve – il 24 gennaio – parlamentari e delegati regionali si riuniranno per eleggere il tredicesimo. Prima di scoprire chi salirà al Colle dopo Sergio Mattarella, volgiamo lo sguardo all’indietro e ripercorriamo (in sintesi) la strada che ci ha portati fin qui.
Dal primo presidente provvisorio, De Nicola, al grande economista Einaudi, dal primo democristiano Gronchi al primo socialdemocratico Saragat, passando per la malattia di Segni. E ancora Leone, forse il presidente più controverso, Pertini, di sicuro il più amato, e poi Cossiga “il Picconatore”, per arrivare infine ai nomi più recenti: Scalfaro, Ciampi, Napolitano (1 e 2). Ecco chi sono stati, fino a oggi, i presidenti della Repubblica italiana.
1) ENRICO DE NICOLA 1946-1948
Giurista liberale, Enrico De Nicola fu eletto capo provvisorio dello Stato il 28 giugno 1946 dall’Assemblea costituente, grazie all’accordo fra democristiani, socialisti e comunisti.
Il primo gennaio 1948 assunse il titolo di Presidente della Repubblica Italiana, mantenendolo fino al successivo 12 maggio.
Nella storia del nostro Paese, De Nicola è stata l’unica persona ad aver ricoperto quattro delle cinque maggiori cariche dello Stato, avendo ottenuto in carriera anche le presidenze del Senato, della Camera e della Corte costituzionale.
2) LUIGI EINAUDI 1948-1955
Economista, di estrazione liberale come il suo predecessore, Luigi Einaudi fu ministro del Bilancio nel quarto governo De Gasperi (1947-1948), il primo da cui furono estromesse le sinistre. In quei mesi realizzò una manovra economica durissima, che agì su tre livelli: inasprimento fiscale, svalutazione della lira e restrizione del credito. In questo modo furono raggiunti diversi obiettivi – calo dell’inflazione, recupero della stabilità monetaria, risanamento del bilancio statale – ma l’operazione ebbe forti costi sociali, soprattutto sul fronte della disoccupazione.
Dopo l’anno passato al Tesoro, Einaudi fu eletto Presidente della Repubblica, carica che ricoprì nella prima fase del centrismo, quando i democristiani governarono con liberali, repubblicani e socialdemocratici. Furono gli anni della riforma agraria (per l’esproprio e il frazionamento di una parte delle grandi proprietà terriere), della Cassa per il Mezzogiorno, della legge Fanfani sul finanziamento delle case popolari e della riforma Vanoni, che introdusse l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi.
3) GIOVANNI GRONCHI 1955-1962
Già sottosegretario all’Industria nel governo Mussolini, Giovanni Gronchi fu ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio nei governi Bonomi II, Bonomi III e De Gasperi I, per poi diventare il primo democristiano a essere eletto Presidente della Repubblica. In quanto esponente della sinistra Dc, fu sostenuto da una parte del partito contro le indicazioni della segreteria e ottenne anche l’appoggio di socialisti e comunisti.
La presidenza Gronchi coincise quasi perfettamente con gli anni del miracolo economico italiano, fase culminante del processo di crescita iniziato dopo il 1950. Nello stesso settennato, però, ebbe luogo anche la crisi prodotta dal governo Tambroni, che – sostenuto dal Movimento Sociale Italiano – nel 1960 autorizzò i missini a tenere a Genova il loro congresso nazionale, innescando una serie di rivolte popolari che causarono una decina di morti. Tambroni si dimise dopo essere stato sconfessato dalla Dc, che formò un nuovo governo (Fanfani III) grazie all’astensione del Psi, inaugurando così la stagione del centrosinistra.
4) ANTONIO SEGNI 1962-1964
La presidenza Segni durò solamente due anni e mezzo e fu la seconda più breve nella storia della Repubblica dopo quella di De Nicola. Le dimissioni arrivarono il 6 dicembre del 1964 per ragioni di salute: quattro mesi prima, infatti, Segni era stato colpito da trombosi cerebrale durante una discussione concitata con Saragat e Moro. I contenuti del colloquio rimasero segreti.
Quell’estate si erano diffuse voci di un progetto di colpo di Stato (Piano Solo) promosso dal numero uno dell’Arma dei Carabinieri, il generale De Lorenzo, che era particolarmente vicino a Segni. Secondo Giorgio Galli e Indro Montanelli, tuttavia, il Capo dello Stato non puntava a mettere in atto un golpe, ma solo ad agitarne lo spauracchio a fini politici.
5) GIUSEPPE SARAGAT 1964-1971
Giuseppe Saragat fu il primo Presidente della Repubblica socialdemocratico e per la sua elezione furono determinanti i voti dei comunisti. Leader storico del Partito Socialista Democratico Italiano, prima di salire al Colle Saragat era stato presidente dell’Assemblea costituente, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Il suo settennato si inserì nella cornice del “centrosinistra organico” (Dc, Pri, Psdi e Psi), conobbe la contestazione giovanile del 1968 e l’autunno caldo del 1969, ma anche le grandi riforme del 1970: l’istituzione delle Regioni, il varo dello statuto dei lavoratori e il via libera alla legge sul divorzio, poi confermata dal referendum del 1974.
Sempre nel 1970 si svolse il tentativo di colpo di Stato organizzato da Junio Valerio Borghese. Il piano – annullato dallo stesso Borghese mentre era in esecuzione, per motivi mai chiariti – prevedeva la cattura e il rapimento di Saragat, operazione da portare a termine sotto la cura di Licio Gelli, maestro venerabile della Loggia massonica P2.
6) GIOVANNI LEONE 1971-1978
Dopo aver guidato due governi monocolore e “balneari” a marca Dc (1963 e 1968), nel 1971 Giovanni Leone fu eletto al Quirinale da una maggioranza di centrodestra, al termine della procedura più lunga di sempre (23 scrutini in 15 giorni). La sua presidenza attraversò in larga parte una delle pagine più buie della storia repubblicana, quella degli anni di piombo, con gli attentati del 1974 (a Brescia, in Piazza della Loggia, e sul treno Italicus), la stagione della solidarietà nazionale, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro.
Accusato di comportamenti opachi sotto il profilo fiscale e di connivenze con gruppi affaristici (anche se il suo coinvolgimento nello scandalo Lockheed non fu mai provato), Leone si dimise nel giugno del 1978, a poco più di sei mesi dalla fine del mandato.
7) SANDRO PERTINI 1978-1985
Antifascista perseguitato dal Regime e figura di primo piano della Resistenza, a 82 anni l’ex partigiano Sandro Pertini fu eletto con i voti di tutto l’arco costituzionale. Incassò l’82,3% delle preferenze, un record ancora imbattuto, e divenne così il primo socialista a ricoprire la carica di presidente della Repubblica. Il suo mandato fu caratterizzato da un’impronta personale che gli procurò in poco tempo una vasta popolarità, tanto che in molti lo ricordano ancora come il “presidente più amato dagli italiani”.
Diversi i momenti del suo settennato che hanno lasciato traccia nella memoria collettiva: la commozione per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, l’indignazione per i ritardi dei soccorsi dopo il terremoto in Irpinia del 23 novembre dello stesso anno, ma anche l’esultanza al Santiago Bernabeu nel 1982, quando l’Italia sconfisse la Germania Ovest nella finale dei Mondiali di calcio.
8) FRANCESCO COSSIGA 1985-1992
Il democristiano Francesco Cossiga fu eletto a larghissima maggioranza nel pieno dell’epoca del pentapartito (Dc, Pri, Pli, Psi e Psdi), diventando il Capo di Stato più giovane di sempre (58 anni).
Nel 1991 cambiò improvvisamente lo stile di comportamento seguito nei primi cinque anni del mandato e si rese protagonista di una serie di polemiche sia con i partiti (compresa la Dc) sia con altri organi dello Stato (soprattutto il Consiglio superiore della magistratura, accusato da Cossiga di arrogarsi poteri che non gli spettavano). La veemenza delle sue esternazioni gli valse il soprannome di “Picconatore”. In realtà non si riprese mai dallo shock del rapimento di Aldo Moro durante la sua gestione del Ministero dell’Interno.
Nel febbraio 1992 sciolse le Camere con lieve anticipo rispetto alla scadenza della legislatura. Si dimise il 28 aprile di quello stesso anno, due mesi prima della fine del settennato.
9) OSCAR LUIGI SCALFARO 1992-1999
Magistrato, parlamentare dagli anni dell’Assemblea costituente, Oscar Luigi Scalfaro fu chiamato a rappresentare la tradizione positiva di una classe politica gravemente screditata dallo scandalo Tangentopoli, scoppiato alcuni mesi prima. Non solo: mentre erano in corso le votazioni per il Quirinale, il Paese fu sconvolto dalla strage di Capaci, in cui perse la vita il magistrato Giovanni Falcone. Meno di due mesi dopo, la mafia uccise anche Paolo Borsellino. Quello stesso anno Scalfaro affidò il governo a Giuliano Amato, che evitò la bancarotta dello Stato con una delle manovre più severe della storia repubblicana (quella del prelievo forzoso sui conti correnti). Oltre alla nascita della Seconda Repubblica e alla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, con il quale si scontrò ai tempi del primo governo dell’ex Cavaliere (1994-1995), Scalfaro vide anche l’ingresso dell’Italia nell’euro.
10) CARLO AZEGLIO CIAMPI 1999-2006
Il nome più legato alla moneta unica è però quello di Carlo Azeglio Ciampi, che – dopo essere stato governatore di Bankitalia dal 79 al 93 e presidente del Consiglio nel 93-94 – fu anche ministro del Tesoro nel primo governo Prodi. In quella veste firmò la manovra del 1997, che in un anno abbatté il deficit dal 7 al 2,7% del Pil, permettendo all’Italia di rispettare i parametri di Maastricht e di entrare così nel gruppo di testa dei Paesi aderenti all’euro. Ciampi approdò al Quirinale su proposta di Walter Veltroni e la sua elezione avvenne al primo scrutinio. Da Capo dello Stato, si oppose all’idea che l’Italia potesse partecipare alla guerra in Iraq al di fuori di una cornice di cooperazione internazionale: una posizione diversa da quella del capo del governo, Silvio Berlusconi, favorevole a un’alleanza totale con gli Usa. In quegli anni, altri motivi di attrito fra il Colle e Palazzo Chigi furono la legge Gasparri sulle telecomunicazioni e la riforma dell’ordinamento giudiziario del ministro Castelli, entrambe rinviate da Ciampi alle Camere.
11) GIORGIO NAPOLITANO 2006-2013 E 2013-2015
Giorgio Napolitano è stato finora l’unico presidente della Repubblica a ottenere un secondo mandato, che però è durato meno di due anni. Esponente della corrente “migliorista” del Pci, nel 1978 fu il primo dirigente comunista italiano a ricevere un visto per andare negli Stati Uniti. Ha ricoperto gli incarichi di presidente della Camera durante la crisi del 1992 e di ministro dell’Interno nel primo governo Prodi, quando promosse una legge per la regolamentazione dei flussi migratori.
Da Capo dello Stato ha affrontato prima la crisi finanziaria globale del 2008-2009, poi quella del debito sovrano europeo iniziata nel 2010. Nell’aprile del 2013, alla Camera, Napolitano rimproverò con voce rotta dall’emozione i parlamentari e i delegati regionali che non erano stati in grado di scegliere il suo successore.
12) SERGIO MATTARELLA 2015-2022
Fratello di Piersanti, presidente della Regione siciliana ucciso dalla mafia nel 1980, Sergio Mattarella ha ricoperto più volte la carica di ministro e, tra il 2011 e il 2015, quella di giudice della Corte costituzionale.
È stato il relatore della riforma elettorale che, recependo l’esito del referendum del 1993, introdusse il maggioritario per il 75% dei seggi. La legge, ribattezzata Mattarellum dal politologo Giovanni Sartori, fu impiegata per le elezioni politiche del 1994, del 1996 e del 2001. Da Presidente della Repubblica ha nominato una senatrice a vita: Liliana Segre, superstite di Aushwitz e testimone della Shoah. Carlo Musilli
DA MERZAGORA A PRODI, I GRANDI SCONFITTI ILLUSI E CADUTI SOTTO IL TIRO DEI CECCHINI. Filippo Ceccarelli su La Repubblica l'11 gennaio 2022.
Il vero bello, la grazia sublime e il fascino segreto delle elezioni presidenziali è che non vi sono sconfitti, ma sempre Grandi Sconfitti; là dove il racconto e la leggenda della fatale caduta segnano e insegnano, più che la fine di ogni ambizione, un monito e una definitiva verità sul potere.
Poco o nulla indagata è la componente sadica del giornalismo politico, che pure mai come nelle cronache della corsa per il Quirinale incontra la suspense e l'apprezzamento del pubblico, pure a sua volta assetato di crolli, disfatte e rovine. Di qui il goloso compiacimento nel soffermarsi e nel ricordare ogni volta quali, quanti, come e perché sono stati feriti, poi uccisi e comunque travolti dal contropotere dei franchi tiratori o “deputati-lupara”, come li chiamava Montanelli.
Ecco dunque, 1948: il Conte Sforza, che “portava la sua testa come in processione il Santissimo”, che al momento del congedo viene sorpreso nottetempo a declamare il discorso che non terrà mai; oppure, 1955, ecco Merzagora, uomo di grande ricchezza e fama, appeso a una vetrata del Transatlantico, lo sguardo perduto in quel vuoto che nessuno osava varcare con una parola di conforto. Rispettivamente illusi e mandati allo sbaraglio da De Gasperi e da Fanfani.
Riconoscerà poi il politico e banchiere: “Mi feci giocare come un bimbo a mosca cieca”. Là dove, impietosa e memorabile, la figuraccia va al cuore dell'immaginario nazionale: nel paese dei furbi, chi perde è due volte che viene fatto fesso; non solo, ma solo in quel caso si capisce che forse lo è sempre stato, comunque proprio per questo non meritava di ascendere alla Suprema Magistratura dell'Astuzia.
Così' si comprendono meglio, 1992, gli occhi al cielo di Forlani posto sui carboni ardenti dalle “spinte dispersive”, preziosa perla politichese per dissimulare “le perduranti defezioni”, idem, insomma i cecchini, i sicari, i pugnalatori, i massacratori del Mattatoio Montecitorio. E qualche giorno dopo pare di rivedere su un divano, col suo bastone, Leo Valiani, insieme esterrefatto e rassegnato dinanzi a quello che al giovane cronista definì un “vecchietticidio”, mentre nel catafalco veniva ricomposta la salma della Prima Repubblica. E così via, di sconfitto in sconfitto, fino alle cicatrici di Prodi per i 110, “che poi erano molti di più”.
In italiano non esiste una parola per esprimere, come in tedesco “Schaudenfreude”, la gioia malevola per l'altrui disgrazia. Ma il concetto esiste, eccome, e nell'acquario dei piranha delle presidenziali ampiamente e di cuore si esercita anche nei confronti dei vinti di secondo grado, gli aspiranti nascosti che con tutte le loro forze agognano il Colle, tutti lo sanno, amici e nemici: ma poi nemmeno arrivano al giudizio dell'aula, bruciati prima della battaglia: Nenni nel 1964, Moro nel 1971, Giolitti e La Malfa nel 1978, Andreotti e Spadolini nel 1992 o D'Alema nel 2006; di quest'ultimo malignamente Cossiga a lungo si divertì a enfatizzare la “sofferta rinuncia”, a vantaggio di Napolitano, che pure i giovanotti del Pds avevano anzitempo – ebbene sì: - rottamato.
Tanto più crudele la soddisfazione quanto più rinomate le figure dei Grandi Sconfitti e vendicativi. Così nel 1971 Fanfani - “Maledetto nanetto non sarai mai eletto – schiumava di rabbia, faceva il diavolo a quattro, tempestava di minacce giornalisti ed editori; così come ancora oggi rimane esemplare nel linguaggio politico “la fine di Prodi”, e non c'è volta, non c'è intervista in cui non gliela ricordino e gliela facciano ricordare, mentre pochi rammentano che due o tre giorni prima quella fine fu preceduta da quell'altra di Franco Marini, che già l'abito da cerimonia si era fatto confezionare, povero “Scintillone” (vedi il noir di Concita De Gregorio, Nella notte, Feltrinelli, 2019).
Sin dagli albori della Repubblica, sui cadaveri dei quirinabili, si registra in effetti un gusto tutto italiano, quindi teatrale, un feroce miscuglio di commedia e melodramma, equivoci, lacrime, intrighi e sghignazzi, che rende appetibile la cerimonia cannibale e sacrificale. Sfrondati gli allori e arrotolate le guide rosse sui marmi dei palazzi, è qui che meglio il potere si rivela per quello che è: non solo una spada affilata sulla testa, ma anche una meraviglia quando cala sulla vittima designata le cui insegne del dominio, ormai inutili, rovinano anch'esse nella polvere.
Che poi quest'ultima sia la materia di cui tutti siamo fatti – presidenti eletti, politici trombati, parlamentari fedeli e omicidi, giornalisti più o meno efferati, spettatori debitamente rifornitosi di popcorn – è materia narrativa che nel gran rodeo lascia un po' il tempo che trova. Più ansiogeno e perciò degno di audience quel misterioso flusso o influsso che si avverte stracco nelle estenuanti votazioni e concentrato e infernale al momento della resa dei conti. “Nei conclavi le ambizioni e i calcoli sono strumentalizzati dallo Spirito Santo – fu l'argomento con cui nel 1964 il cardinal Dell'Acqua cercò di far desistere Fanfani - a Montecitorio dal diavolo”. Con tale premessa si riattiva il brivido allorché, nel 2013, Alessandra Mussolini ascese alla maxi tribuna della presidenza ostentando una t-shirt su cui anche da lontano si poteva leggere: “Il diavolo veste Prodi”.
A distanza di qualche anno sarebbe ingiusto pensare che il Signore delle Mosche sia andato in prepensionamento. Ci faccia un pensierino Berlusconi, che al grande spettacolo italiano ha già dato più di ogni altro.
LE CLASSIFICHE (fonte: Quirinale.it)
Quante votazioni sono state necessarie per eleggere Leone? Su quanti voti ha potuto contare Cossiga? E chi è stato il presidente più giovane? Ecco alcune curiosità sulle passate elezioni al Quirinale
DA NORD A SUD. I TORINESI, I NAPOLETANI E I DUE SASSARESI: DA DOVE VENIVANO I CAPI DELLO STATO
Giuseppe Saragat 1964 - 1971: nato a Torino
Oscar Luigi Scalfaro 1992 – 1999: nato a Novara
Luigi Einaudi 1948 – 1955: nato a Cuneo
Carlo Azeglio Ciampi 1999 – 2006: nato a Livorno
Giovanni Gronchi 1955 – 1962: nato a Pontedera (Pisa)
Sandro Pertini 1978 – 1985: nato a Stella (Savona)
Enrico Di Nicola 1948: nato a Napoli
Giorgio Napolitano 2006 – 2013: nato a Napoli
Giovanni Leone 1971 – 1978: nato a Napoli
Francesco Cossiga 1985 -1992: nato a Sassari
Antonio Segni 1962 – 1964: nato a Sassari
Sergio Mattarella 2015 – 2022: nato a Palermo
57 ANNI IL PIÙ GIOVANE, 88 IL PIÙ ANZIANO: LE ETÀ DEI PRESIDENTI APPENA ELETTI
Giorgio Napolitano 2006 – 2013: nato a Napoli 81 – 88 anni 29 – 06 - 1925
Sandro Pertini 1978 – 1985: nato a Stella (Savona) 82 anni 25 – 09 - 1896
Carlo Azeglio Ciampi 1999 – 2006: nato a Livorno 79 anni 9 – 12 - 1928
Luigi Einaudi 1948 – 1955: nato a Cuneo 74 anni 24 – 03 - 1874
Sergio Mattarella 2015 – 2022: nato a Palermo 74 anni 23 – 07 - 1941
Oscar Luigi Scalfaro 1992 – 1999: nato a Novara 74 anni 9 – 09 - 1918
Antonio Segni 1962 – 1964: nato a Sassari 71 anni 2 – 2 1891
Enrico Di Nicola 1948: nato a Napoli 70 anni 9 – 11 - 1877
Giovanni Gronchi 1955 – 1962: nato a Pontedera (pisa) 68 anni 18 – 09 - 1887
Giuseppe Saragat 1964 - 1971: nato a Torino 66 anni 19 – 09 - 1898
Giovanni Leone 1971 – 1978: nato a Napoli 63 anni 3 – 11 -1908
Francesco Cossiga 1985 -1992: nato a Sassari 57 anni 26-07-1928
DAL PRIMO COLPO AL 23ESIMO SCRUTINIO: LE SEDUTE NECESSARIE PER ELEGGERE I PRESIDENTI
Enrico Di Nicola 1948: nato a Napoli 70 anni 9 – 11 – 1877 1
Carlo Azeglio Ciampi 1999 – 2006: nato a Livorno 79 anni 9 – 12 – 1928 1
Francesco Cossiga 1985 -1992: nato a Sassari 57 anni 26-07-1928 1
Luigi Einaudi 1948 – 1955: nato a Cuneo 74 anni 24 – 03 – 1874 3
Giovanni Gronchi 1955 – 1962: nato a Pontedera (pisa) 68 anni 18 – 09 – 1887 3
Giorgio Napolitano 2006 – 2013: nato a Napoli 81 – 88 anni 29 – 06 – 1925 3
Sergio Mattarella 2015 – 2022: nato a Palermo 74 anni 23 – 07 – 1941 3 - 4
Antonio Segni 1962 – 1964: nato a Sassari 71 anni 2 – 2 1891 9
Sandro Pertini 1978 – 1985: nato a Stella (Savona) 82 anni 25 – 09 – 1896 16
Oscar Luigi Scalfaro 1992 – 1999: nato a Novara 74 anni 9 – 09 – 1918 16
Giuseppe Saragat 1964 - 1971: nato a Torino 66 anni 19 – 09 – 1898 21
Giovanni Leone 1971 – 1978: nato a Napoli 63 anni 3 – 11 -1908 23
DAL PLEBISCITO ALLA MAGGIORANZA RISICATA: CON QUANTI VOTI SONO STATI ELETTI I PRESIDENTI
Enrico Di Nicola 1948: nato a Napoli 70 anni 9 – 11 – 1877 1 94%
Sandro Pertini 1978 – 1985: nato a Stella (Savona) 82 anni 25 – 09 – 1896 16 83%
Giorgio Napolitano 2006 – 2013: nato a Napoli 81 – 88 anni 29 – 06 – 1925 3 54 - 74%
Francesco Cossiga 1985 -1992: nato a Sassari 57 anni 26-07-1928 1 76%
Giovanni Gronchi 1955 – 1962: nato a Pontedera (pisa) 68 anni 18 – 09 – 1887 3 79%
Carlo Azeglio Ciampi 1999 – 2006: nato a Livorno 79 anni 9 – 12 – 1928 1 71%
Giuseppe Saragat 1964 - 1971: nato a Torino 66 anni 19 – 09 – 1898 21 67%
Oscar Luigi Scalfaro 1992 – 1999: nato a Novara 74 anni 9 – 09 – 1918 16 67%
Sergio Mattarella 2015 – 2022: nato a Palermo 74 anni 23 – 07 – 1941 3 – 4 66%
Luigi Einaudi 1948 – 1955: nato a Cuneo 74 anni 24 – 03 – 1874 3 59%
Antonio Segni 1962 – 1964: nato a Sassari 71 anni 2 – 2 1891 9 52%
Giovanni Leone 1971 – 1978: nato a Napoli 63 anni 3 – 11 -1908 23 52%
PROGETTO DI Stefano Cappellini, Annalisa D'Aprile, Paolo Festuccia, Emanuele Lauria, Lavinia Rivara, Alessio Sgherza, Daniele
Milena Gabanelli, Simona Ravizza e Alessandro Riggio per il "Corriere della Sera" il 10 gennaio 2022.
Ogni cittadino italiano che ha compiuto i 50 anni di età e che gode dei diritti civili e politici, e non ha subìto nessuna interdizione dai pubblici uffici nei cinque anni precedenti, può essere candidato dai partiti alla Presidenza della Repubblica. Vuol dire che anche Silvio Berlusconi possiede tutti i requisiti di candidabilità, poiché l'11 maggio 2018 ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza la riabilitazione che estingue ogni effetto penale della condanna.
Resta semmai un tema di opportunità, ma in quanto tale non è regolamentata da leggi. Per essere eletto al primo turno ci vogliono 673 voti, ovvero i due terzi del Parlamento, integrato da 58 rappresentanti delle Regioni, che in totale fanno 1.009 votanti: per arrivare a questo numero va coperto con le elezioni suppletive di Roma (in calendario per il 16 gennaio) il posto alla Camera lasciato libero da Roberto Gualtieri, neosindaco della Capitale; e l'Aula del Senato deve convalidare il subentro di Fabio Porta a quello di Adriano Cario, decaduto.
Dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza, cioè 505 voti, che corrisponde alla metà più uno degli aventi diritto. In entrambi i casi indipendentemente dal numero di presenti. La carica dura sette anni, ed è incompatibile con qualsiasi altra.
Nella storia della Repubblica solo Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi sono stati eletti al primo turno con il 70% dei voti grazie a precedenti accordi bipartisan. Per il resto, i nomi dei candidati di bandiera proposti nei primi tre scrutini non sono mai andati a buon fine (tranne per Antonio Segni). In quattro casi si è arrivati alla quarta tornata: Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.
Nelle altre cinque elezioni si è dovuti ricorrere a 6 votazioni per Napolitano bis, 9 per Antonio Segni, 16 per Sandro Pertini e Oscar Luigi Scalfaro, 21 per Giuseppe Saragat e 23 per Giovanni Leone. Gli impallinati dal proprio partito: 46 franchi tiratori hanno impedito nel 1948 l'elezione di Carlo Sforza, nel 1992 sono stati in 29 ad abbattere Arnaldo Forlani e in 101 contro Romano Prodi nel 2013. Soltanto Ciampi sale al Quirinale senza una precedente esperienza alle Camere, ma dopo essere stato premier e governatore della Banca d'Italia. Nessun leader di partito in carica al momento del voto è mai stato eletto presidente.
Sono 19 gli articoli della Costituzione che riguardano il presidente della Repubblica e ne regolamentano i numerosi poteri. Vediamoli. Nomina: il presidente del Consiglio e i ministri proposti dal premier; i senatori a vita; cinque giudici costituzionali; i segretari generali dei ministeri, i prefetti e gli alti gradi militari (anche se in quest'ultimo caso si tratta solo di ratificare decisioni nate in seno alle rispettive amministrazioni).
Convoca e scioglie le Camere; promulga le leggi o le rinvia; comanda le Forze armate; presiede il Csm; rappresenta l'Italia e l'unità nazionale; ha potere di grazia; manda messaggi al Parlamento per rimetterlo in riga. Il suo ruolo può essere interpretato in modo largo o stretto, dipende dalla personalità del singolo e dai partiti: più sono inconsistenti e più i poteri del presidente si estendono.
Li ripercorriamo con l'aiuto dei politologi Luca Verzichelli e Francesco Marangoni (Centro interuniversitario di ricerca sul cambiamento politico dell'Università di Siena) e Alice Cavalieri (Università di Torino).
I primi tre presidenti della Repubblica Einaudi, Gronchi e Segni hanno un ruolo sostanzialmente notarile. Con Pertini e, soprattutto, con Cossiga c'è una fase interventista. Poi inizia quello che gli esperti definiscono il «pro-attivismo presidenziale».
Ci sono presidenti della Repubblica che giocano un ruolo da pilota con i «governi del Presidente», tenendo in piedi una legislatura o rinviando le elezioni anticipate. Oppure opponendosi alla nomina di determinati ministri. Scalfaro rinvia le elezioni anticipate per due volte, sostituendo il governo Amato con quello Ciampi (1993) e il Berlusconi I con quello Dini (1995): le due legislature vengono poi sciolte prima del termine. Per Forza Italia il governo Dini è un ribaltone, motivo per cui il partito minaccia (senza poi dar seguito) la messa in stato di accusa del capo dello Stato.
Sempre nel Berlusconi I Scalfaro stoppa anche la nomina a ministro della Giustizia dell'avvocato Cesare Previti che poi diventa ministro della Difesa. Napolitano allunga la vita del governo Prodi II rinviandolo con decisione propria il 24 febbraio 2007 alle Camere per la fiducia, e poi tenta un ulteriore prolungamento della legislatura con il mandato (fallito) a Marini nel gennaio 2008. Nel novembre 2011, con la crisi del governo Berlusconi IV, Napolitano pilota il lancio del neosenatore a vita Mario Monti e lo porta a diventare premier meritandosi l'appellativo di re Giorgio dall'Economist .
Napolitano mette anche un veto alla nomina del magistrato Nicola Gratteri a ministro della Giustizia (governo Renzi), probabilmente considerandolo una personalità troppo autonoma dalla politica. Mattarella blocca, invece, la nomina di Paolo Savona a ministro dell'Economia (Conte I) per le sue posizioni critiche nei confronti dell'Ue e della moneta unica. Infine, sostituisce il Conte II con Mario Draghi.
Il presidente della Repubblica può scendere in campo con i veti alle leggi e il rinvio motivato al Parlamento per nuove delibere: Einaudi lo fa 4 volte, Gronchi 3, Segni 8, Leone 1, Cossiga 22, Pertini 7, Scalfaro 6, Ciampi 8, Napolitano e Mattarella una, per un totale di 61 veti. Ecco i casi più eclatanti. Nel febbraio 1992 Cossiga rinvia al Parlamento la nuova legge sull'obiezione di coscienza perché a suo avviso è un'alternativa troppo facile al servizio militare. La legge arriverà solo nel 1998 con Scalfaro.
Nel dicembre del 2003 Ciampi rinvia alle Camere la legge Gasparri sulle telecomunicazioni e il passaggio al digitale terrestre, paventando un rischio per il pluralismo dell'informazione. I rilievi sono in parte raccolti dal governo. Il 6 febbraio 2009 Napolitano si rifiuta di firmare il decreto destinato a fermare l'interruzione dell'alimentazione forzata a Eluana Englaro, definendolo incostituzionale, ponendo così fine alla tragedia umana della ragazza in stato vegetativo da 17 anni.
La legge sul biotestamento sarà varata nel 2017.
Dei 12 messaggi politici inviati dai presidenti della Repubblica, alcuni sono particolarmente incisivi. Nel 1975, in tempi di consociativismo, Leone fa un accorato appello sulla necessità che il governo si presenti come un organismo omogeneo e coordinato.
Cossiga ne invia sette, cinque sono dedicati all'indipendenza dei magistrati e alle contraddizioni del pianeta giustizia. Scalfaro interviene sull'importanza dell'Unità nazionale all'indomani di un celebre discorso secessionista del leader della Lega Umberto Bossi. Ciampi preme sulla necessità di pluralismo dell'informazione in piena era Berlusconi. Napolitano dedica il suo unico messaggio alla situazione invivibile delle carceri invitando il Parlamento ad agire.
Negli anni ci sono stati scontri istituzionali anche sulla decisione di concedere la grazia a questo o quel detenuto. Nel 1991 il ministro della Giustizia Claudio Martelli ha minacciato il conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale dopo che Cossiga aveva manifestato l'intenzione di graziare il brigatista Renato Curcio. Cossiga decide di non procedere e Martelli rinuncia al ricorso.
Successivamente è lo stesso presidente della Repubblica Ciampi a sollevare il conflitto di attribuzione nei confronti del ministro della Giustizia Roberto Castelli, contrario alla concessione della grazia a Ovidio Bompressi, condannato in via definitiva a 22 anni di carcere per l'omicidio Calabresi.
Nel maggio 2006 la Consulta dà ragione a Ciampi: il potere di concedere la grazia spetta al presidente della Repubblica e il ministro della Giustizia deve solo attestare la regolarità dell'istruttoria. In sostanza il ruolo del presidente è quello di garante estremo, per questo la sua nomina non può mai prescindere da un alto grado di reputazione e indipendenza, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Paolo Conti per il “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2022. In Italia può capitare di ritrovarsi votati per la Presidenza della Repubblica, con un’espressione passata alla storia del nostro costume nazionale, “a propria insaputa”. E’ successo nel 2006 al professor Giuseppe De Rita, storica colonna del Censis ed ex presidente del Cnel.
Professor De Rita, torniamo al 9 maggio 2006, secondo scrutinio di un’elezione che al quarto avrebbe portato, il 10 maggio, Giorgio Napolitano al Quirinale….
“Si, ricordo benissimo. Improvvisamente mi ritrovai quel giorno 19 voti. Non c’era alcuna ragione possibile perché accadesse, non ne sapevo nulla, nessuno mi aveva detto alcunché, l’ho saputo seguendo lo scrutinio come tutti e domandai in giro cosa fosse successo”
E’ riuscito a saperlo? Napolitano era già il candidato dell’Unione e ovviamente dei Democratici di Sinistra: per votarlo si aspettava il quarto scrutinio, era già deciso….
“Guardi, ho saputo con precisione che Napolitano, vedendo quei 19 voti che nessuno aveva previsto, si era arrabbiato con Piero Fassino, il segretario dei Ds. E che Fassino aveva risposto a Napolitano di non saperne assolutamente niente nemmeno lui e che avrebbe cercato di capire”.
Lei non apparteneva certo alla lista di quei voti attribuiti un po’ per sorridere, come i tre voti per Maria Gabriella di Savoia, la figlia dell’ex re Umberto I. E Fassino cosa scoprì?
“A forza di chiedere, scoprì di cosa si trattasse: di Clemente Mastella…”
Ai tempi leader dell’Uder.
“Certo. Mastella lo disse con la massima serenità a Fassino: “ho scelto il nome di De Rita per contare i voti di cui dispongo in questa partita per il Quirinale, così posso capire il peso che ho… tutto qui, non vi dovete assolutamente preoccupare”. Clemente Mastella, che è vivo e vegeto, può sicuramente testimoniare in proposito”
E lei cosa ha pensato sapendo tutto questo?
“Beh, lo ammetto, è stato un po’ umiliante per me scoprire di essere stato votato non per meriti ma per permettere a Mastella e ai suoi di contarsi. Qualsiasi nome sarebbe andato bene”
Ma lei è non è un nome qualsiasi…
“Diciamo che per l’elettorato mastelliano non creavo alcun problema, per procedere a questa conta di votI: quanti siamo veramente? votiamo De Rita per capirlo!”
Magari, chissà, ci sarà un bis per lei nel 2022.
“Ma no, è stata una sorta di congiunzione astrale irripetibile. Piuttosto penso che saranno in tanti, con questo Parlamento, a immaginare un metodo Mastella. Chi è sicuro dei propri voti in questo momento?”
Deluso per non essere stato davvero eletto, magari per caso?
“A ciascuno il proprio lavoro...”
L’addio al Quirinale. Il bastone, la canzone e gli abbracci: così saluta un presidente. Marzio Breda su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.
Cossiga scelse un pezzo di Burt Bacharach, Scalfaro fece un commento in latino. Il «no» di Franca Ciampi al bis del marito Carlo Azeglio.
Quando Luigi Einaudi entrò al Quirinale, il 12 maggio 1948, disse che nella sua vita sarebbe cambiata solo una cosa: «Poiché ora dovrò sempre salutare, dovrò passare il bastone dalla mano destra alla mano sinistra». Sette anni dopo, tornando a Dogliani, il gesto con cui segnalò che il mestiere di presidente era finito per lui fu di riportare il bastone nella destra, battendolo energicamente sul suolo «come per dominare uno stato d’animo che minacciava di commuoverlo fino alle lacrime». Un cedimento che non voleva permettersi. Fu Alberto Cavallari a raccontare questo dettaglio sul Corriere. Un piccolo segno e nessuna frase da affidare alla storia. Nulla di plateale, tranne la dignità. Che era impossibile non cogliere.
Anche il teatro lo insegna: uscire di scena è un’arte difficile. E lo è ancora di più se si tratta di dare l’addio a un potere, magari il più alto che la Costituzione preveda. Quello di chi è inquilino del Colle e, almeno per dovere d’ufficio se non per indole, dovrebbe sentirsi vincolato a comportamenti misurati come li ebbe Einaudi, che anche per questo rimane sempre il paradigma del buon capo dello Stato.
I fuochi d’artficio del finale cossighiano
Per stare ai presidenti degli ultimi trent’anni, il finale di partita di Francesco Cossiga è incendiato da un crescendo di effetti speciali. Uno spettacolo politico-mediatico che tramortisce gli italiani. Visto che il Quirinale è un palazzo chiuso e al quale la stampa è ammessa soltanto su inviti mirati, anticipa il proprio congedo con una serie di viaggi. Un “farewell trip”, così lo chiama, con civetteria anglofila, durante il quale imbarca i giornalisti sui voli dell’aeronautica militare, in modo che raccolgano — e rilancino — la «profezia della catastrofe» con cui bombarda i partiti, in particolare il suo, la Dc, che voleva spodestarlo in anticipo. In tre mesi fa tappa a Washington, Londra, Lisbona, Parigi, Mosca, Zagabria e Bruxelles, dove parla sempre e unicamente di politica interna. Al momento di lasciare, Cossiga s’impone il silenzio, incrociando le dita sulla bocca davanti alle telecamere. Ma resiste pochi giorni. Fuggito in Irlanda come per un esilio, quando i cronisti lo raggiungono a casa del nostro ambasciatore a Dublino, li accoglie accendendo un giradischi e proponendo un indovinello: «Parlerò a patto che indoviniate il titolo di questo brano di Burt Bacharach».
Come un attore shakespeariano
È facile azzeccare le note di Raindrops keep falling on my head e innescare così, in un sottofondo di fasulla allegria, nuove picconate. «Forza, fatemi domande, dico tutto», ripete, ed è l’immagine della disperazione. Ha un crollo nervoso e intanto rilancia anatemi sui leader della partitocrazia che «non hanno capito niente» e saranno «presi a pietrate per le strade». Ricorda la tragedia di Moro (e sua), piange e si colpisce la bocca con il pugno fino a farla sanguinare. Infine, lascia la stanza come un attore shakespeariano. Il clima irlandese è troppo deprimente, per lui. Non passa neppure una settimana e si sposta in Costa Azzurra, ospite nella villa del segretario liberale Renato Altissimo. Alcuni quirinalisti suonano il campanello, ingolositi all’idea di seguire assieme a lui in tv il voto della Camera per il suo successore. Stavolta non li riceve.
Poco male, perché recuperano un’esternazione per interposta persona: un ristoratore napoletano di Cap Ferrat al quale il presidente ha consegnato aspri giudizi sui «capipartito mariuoli» messi sotto inchiesta dai magistrati di Milano. E all’oste raccomanda: «Mi chiami professore, con la politica ho chiuso». Una bugia. Infatti, di quella passione non si libererà mai e lo dimostra dopo pochi anni l’iniziativa di fondare una nuova formazione parlamentare, l’Udr, per consentire la nascita del governo D’Alema ed essere ancora un jolly risolutivo. Altro che serena quiescenza da «emerito». Per Cossiga, diventare un ex qualsiasi dopo essere stato il numero uno, è insopportabile. E, a parte la patologia bipolare che lo tiene in bilico tra euforie e cupezze, a spingere il suo ondivago protagonismo in quel passaggio politico c’è la speranza di essere rieletto.
Nessuno chiese a Scalfaro «mane nobiscum»
È quello che capita pure a Oscar Luigi Scalfaro, negli ultimi mesi sul Colle, mentre l’ennesima commissione bicamerale tenta di cambiare la Carta costituzionale prevedendo, tra l’altro, l’elezione diretta del capo dello Stato. Lui non si dichiara contrario e sono in parecchi — come oggi con Mattarella — a ipotizzare di prolungargli il mandato «per un altro po’ di tempo». Il Pds adduce «esigenze di continuità», in attesa che le norme siano perfezionate e varate. E perfino il sempre ostile Berlusconi concede che il bis «non sarebbe un dramma né un problema». Quando la riforma naufragherà, Scalfaro usa una visita in Cina per filosofeggiare sul tema, evocando l’espressione chiave della parabola evangelica dei discepoli di Emmaus: advesperascit. Insomma, scende la sera sul suo incarico e nessuno più gli chiede mane nobiscum, resta con noi. «Meglio così», sbotta agrodolce. «Ogni giorno che passa è uno di meno da trascorrere lì». Bada molto a contenersi in una sfera riservata, il presidente, quando abbandona il Quirinale. Tuttavia, anch’egli rifiuta il pensionamento. Si fa sentire spesso in Senato e nelle piazze, perché lo scelgono per coordinare le forze politiche e sociali che si oppongono al «capovolgimento della nostra Costituzione». Cioè la nuova riforma, proposta da Berlusconi nel suo terzo governo. Alla vigilia del referendum che la boccerà, Scalfaro diventa un idolo dei girotondini, ai quali confessa: «Tra voi ritrovo gli ideali della giovinezza», e aveva quasi novant’anni.
La moglie di Ciampi: non potete pretendere altro
Un viaggio dentro se stesso, tra il presente e la memoria remota, è anche quello di Carlo Azeglio Ciampi nel periodo in cui si prepara a far ritorno a casa. Ma senza crisi d’identità e senza residue ambizioni. A chi lo incita ad accettare una rielezione (pure a lui tocca questa lusinga), la moglie Franca sillaba, rovesciandone il significato, i versi di Orazio: «Dulce et decorum est pro patria mori». Come a dire basta, dopo 47 anni a Bankitalia e sette sul Colle, senza contare quelli da premier e ministro, non si può pretendere altro da lui. «Volete farlo morire?». L’ex banchiere ed ex presidente cambia vita con umiltà. Accetta la condizione di semianonimato, senza mostrare un visibile senso di perdita. Non rincorre gli omaggi che vengono offerti alle glorie nazionali. Soffre di vecchi guai e anche di Parkinson, quindi si muove pochissimo. Mette in ordine i propri diari. Incontra gli amici e chi gli parla scopre che il suo carisma non si è appannato. Solo l’umore è virato in una cifra di avvilita malinconia, per la deriva presa dall’Italia. Guarda caso, uno dei suoi ultimi libri s’intitola Non è il Paese che sognavo.
Napolitano obbligato a due diversi addii
Un po’ diversa la sorte di Giorgio Napolitano, obbligato a due diversi addii al Colle, essendo l’unico capo dello Stato rieletto nella storia repubblicana. Almeno finora. Per lui, che ha fama di essere freddo e saper governare le passioni («sono un atarassico», conferma), il giorno dei saluti coincide con un inaspettato disgelo dei sentimenti. «Ho sorriso poco, mi dispiace», si scusa con i consiglieri, lasciandoli sbigottiti con abbracci e baci che non si era mai permesso. Qualcuno suggerisce il concetto di “grazia di Stato” per spiegare il senso di compostezza, autocontrollo e mediazione che assume colui che ricopre un incarico come quello presidenziale. Atteggiamenti che sono l’esatto contrario di certe melodrammatiche e sgangherate “ubriacature” in cui il potere può sfociare. Napolitano queste doti le possiede naturalmente, quasi per via ereditaria, anche se non escludono scatti caratteriali. Perciò, quando molla definitivamente la carica, non fa nulla di pirotecnico. Si limita a prendere possesso dello studio da senatore a vita a Palazzo Giustiniani, dove si reca ogni mattina, lavorando ai dossier che gli stanno più a cuore: la politica italiana e le riforme, oltre alla rotta dell’Unione europea. C’è da scommettere che altrettanto farà Sergio Mattarella dal prossimo 3 febbraio.
30 anni fa l’addio di Cossiga al Quirinale: “Mi dimetto per servire la Repubblica”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Aprile 2022.
Non a caso di lì a breve si parlerà di "picconate" e di "picconatore" per descrivere gli interventi del Presidente della Repubblica, proprio per i suoi toni forti, nella forma e nella sostanza, che in certi casi diventano accorati, tanta è la volontà di far capire che nuovi assetti politico-istituzionali debbono sostituire quelli che per oltre 40 anni si sono fondati sugli equilibri prodottisi dopo la fine della seconda guerra mondiale
Sono le 18.38 del 25 aprile del 1992 e Francesco Cossiga, rivolgendosi a “cittadine e cittadini di questo meraviglioso Paese”, con un discorso televisivo a rete unificate che durerà complessivamente 45 minuti, annuncia la scelta di lasciare il Quirinale, in anticipo rispetto alla scadenza naturale fissata per il successivo 3 luglio: “Ho preso la decisione di dimettermi da Presidente della Repubblica, spero che tutti lo consideriate un gesto onesto, di servizio alla Repubblica“.
È il momento culminante di due anni che hanno visto il Capo dello Stato uscire dal suo tradizionale riserbo che aveva caratterizzato i primi cinque del mandato e rendersi protagonista di una serie di esternazioni, per spingere la classe politica ad attuare riforme radicali non più rinviabili, dopo i cambiamenti epocali verificatisi alla fine degli anni Ottanta, a partire dalla caduta del Muro di Berlino.
Assegnare l’ultimo periodo del suo mandato è il “caso Gladio”: nel 1990 Cossiga rivendica con orgoglio di aver organizzato negli anni ‘60 la struttura paramilitare “Gladio“, facente parte della rete “Stay Behind” varata dalla Nato. Si trattava di un’organizzazione clandestina pensata per salvaguardare la sicurezza nazionale da possibili attacchi ma soprattutto dalla presa di potere della sinistra.
“Talvolta ho gridato ma se ho gridato è perchè soltanto temevo di non farmi sentire” ricordava Cossiga nel suo messaggio agli italiani. Non a caso di lì a breve si parlerà di “picconate” e di “picconatore” per descrivere gli interventi del Presidente della Repubblica, proprio per i suoi toni forti, nella forma e nella sostanza, che in certi casi diventano accorati, tanta è la volontà di far capire che nuovi assetti politico-istituzionali debbono sostituire quelli che per oltre 40 anni si sono fondati sugli equilibri prodottisi dopo la fine della seconda guerra mondiale.
“Dalle elezioni aprile 1992 conferma forte domanda cambiamento”
“Superata una serie di ostacoli, interni ed internazionali, che avevano fortemente caratterizzato e condizionato, nei decenni trascorsi, il funzionamento del sistema italiano, si è giunti ad una fase della nostra vicenda – ad esempio Cossiga aveva scritto nel suo messaggio sulle riforme istituzionali inviato il 26 giugno del 1991 alle Camere – che al Capo dello Stato appare particolarmente propizia per coagulare intorno alla questione delle riforme un vasto e costruttivo consenso, un vero e proprio nuovo patto nazionale che permetta di raccogliere, attraverso una profonda trasformazione del modo di fare politica del nostro Paese, la richiesta di cambiamento che sale dalla società civile“.
Una domanda, ribadirà il Presidente nel suo discorso del 25 aprile del 1992, confermata dai risultati delle elezioni svoltesi il 4 e il 5 aprile di quello stesso anno: Democrazia cristiana e Partito comunista, “simbolo di un tipo di società politica, sono stati fortemente penalizzati con il voto e con questo voto credo si sia voluto aprire uno spazio al rinnovamento del nostro sistema politico. Le elezioni hanno posto una forte domanda di governo, di cambiamento e di riforme“.
Da qui un’analisi spietata sulla situazione del Paese, con “gravi ed importanti problemi da affrontare e da risolvere: i nostri appuntamenti con l’Europa, perché Maastricht non è soltanto il nome di una bella cittadina dei Paesi Bassi, non è solo il nome di un Trattato, Maastricht non è qualcosa che noi abbiamo raggiunto, un risultato che noi abbiamo conseguito, è un obiettivo che dobbiamo guadagnare e che non è facile guadagnare, non un esame superato, un esame solo rimandato e che ci sarà fatto secondo prove sicure e prove difficili”.
“Chiare resistenze a cambiare e tentazioni forti di conservazione”
Cossiga elenca poi la necessità di “evitare il disastro della finanza pubblica, la tutela del risparmio, anche nelle forme del debito pubblico che sono la ricchezza, certo anche delle banche, ma sono soprattutto la ricchezza dei poveri, dei piccoli, di voi che avete fiducia nello Stato e poco sapete di azioni e di obbligazioni. Il rilancio della produzione interna e sui mercati internazionali, difendere l’occupazione, promuoverla, il risanamento dei servizi pubblici, la guerra dura ma intransigente alla criminalità organizzata, con la vittoria definitiva, perché il diritto sconfigga la mala società“.
Questioni che rendono “necessario e urgente risolvere la crisi di governo, chiamare i partiti alla loro responsabilità, promuovere la formazione di un Governo che impegni il Parlamento sulle cose serie”. Esigenze che si scontrano, denuncia Cossiga, con “chiare resistenze a cambiare, tentazioni forti di conservazione, incertezze gravi nelle forze politiche, incognite sulla probabilità di formare in Parlamento maggioranze vere, omogenee, responsabili, soprattutto se le se ricerchi con i vecchi sistemi: con le armate Brancaleone si possono anche eleggere oneste persone, persone capaci, persone per bene, ma non si governa il Paese e soprattutto non si può cambiare“.
Ma c’è soprattutto una contingenza istituzionale che preoccupava il Capo dello Stato: “per promuovere la formazione di un Governo nuovo e forte -spiega- occorre un Presidente forte, occorre un Presidente forte politicamente e forte istituzionalmente. Ed allora io non è che abbia il diritto, ho il dovere di pormi davanti a voi, e pongo alla mia coscienza, se voglio essere fedele al giuramento che ho prestato sette anni fa, un interrogativo: posso essere io questo Presidente?”.
“Per risolvere crisi governo c’è bisogno di un nuovo Presidente forte’
“Il mio mandato scade il 3 luglio, dal 3 giugno il presidente della Camera può convocare il Parlamento in seduta comune per l’elezione del mio successore, dal 3 giugno o almeno dal giorno in cui il presidente della Camera convocherà il Parlamento, un elementare dovere di correttezza mi imporrebbe di astenermi da ogni attività di rilievo politico e istituzionale“.
Quindi, sottolinea Cossiga, “io non sono un Presidente forte” e “ho un dovere, quello di permettere che venga qui un Presidente forte, che sia almeno forte perché eletto dal nuovo Parlamento. E quindi la mia scelta dovrebbe essere quella per le mie dimissioni anticipate e per permettere al nuovo Parlamento di dare al Paese un Presidente che forte per la sua elezione e per l’ampiezza temporale e di contenuti del suo mandato, possa affrontare questa grave crisi politica e istituzionale e promuovere la formazione di quel Governo che voi con il vostro voto avete voluto”.
“Allora ho preso la decisione di dimettermi da Presidente della Repubblica. – questo l’annuncio di Cossiga – C’è chi approverà il mio gesto, c’è chi questo gesto non approverà. Spero che tutti lo consideriate un gesto onesto, di servizio alla Repubblica“. L’addio al Quirinale, “per assicurare un ordinato trapasso di poteri” avverrà formalmente il 28 aprile successivo con la firma dell”atto di dimissioni”.
“Giovani amate la Patria, siamo un Paese con grandi energie”
Commosso fino alle lacrime e costretto a bere per stemperare la tensione, il Capo dello Stato quando si rivolge ai giovani, ai quali “voglio dire di amare la Patria, di onorare la Nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese“. Quindi un ultimo accorato appello: “questo è un Paese che non sarà una grande potenza politica, che non sarà una grande potenza militare, forse questa è una benedizione di Dio, ma che è un Paese di grande cultura, di grande storia, è un Paese di immense energie morali, civili, religiose e materiali“
“Si tratta di saperle mettere assieme e si tratta di fondare delle istituzioni che facciano sì che lo sforzo di ognuno vada a vantaggio di tutti. Che Dio protegga l’Italia, viva l’Italia, viva la Repubblica”.
Francesco Cossiga ci ha lasciato nel 2010, a venticinque anni dalla sua elezione a Presidente. E continuiamo a non dimenticarlo. Redazione CdG 1947
Un presidente molto discusso. Il 17 agosto 2010 la morte di Cossiga. Annabella De Robertis il 18 Agosto 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
«Addio a Cossiga, il picconatore»: così «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 18 agosto 2010 annuncia la scomparsa dell’ottavo presidente della Repubblica italiana. Nato a Sassari nel 1928, cugino di Enrico Berlinguer, fu deputato e senatore della Democrazia Cristiana. Ricoprì le cariche di ministro, presidente del Consiglio dei ministri e presidente del Senato: nel 1985 venne eletto capo dello Stato, succedendo a Sandro Pertini. «Cossiga ha lasciato quattro lettere destinate al presidente della Repubblica Napolitano, ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio», si legge sul quotidiano. «Non lettere personali, quanto un testamento politico consegnato alle istituzioni, per chiedere tra l’altro che i funerali si svolgano in forma privata. Giallo su quella indirizzata a Silvio Berlusconi: il premier non ne ha autorizzato la divulgazione. Il contenuto ricalcherebbe quella inviata a Schifani, se non per qualche dettaglio relativo alle ultime volontà.
«Due» Cossiga hanno attraversato la storia del Paese. Il primo si è occupato di servizi segreti ed è stato tra i propugnatori di Gladio, la rete militare segreta legata alla Nato e destinata a guidare forme di resistenza armata in caso di invasione di una potenza comunista. Ministro degli Interni durante la tragica vicenda Moro, combatté il terrorismo negli anni di piombo. I militanti del movimento studentesco scrivevano negli anni ‘70 il suo nome sui muri con il «K» e le due «s» runiche dei nazisti. Un secondo Cossiga prese il sopravvento negli ultimi due anni al Quirinale e da allora divenne «un implacabile fustigatore del quieto vivere politico». Era il 1990, infatti, quando Cossiga, fino ad allora potente ma silenzioso uomo politico, si trasformò di punto in bianco nel «picconatore».
«Intendo togliermi qualche sassolino dalla scarpa», fu la frase-manifesto con cui annunciò il cambio di passo. I suoi bersagli furono la Corte costituzionale, il Csm, i democristiani, i comunisti, il sistema istituzionale, i magistrati. Per la vicenda Gladio fu messo in stato d’accusa su proposta del Partito democratico della sinistra, unico capo di Stato a dover affrontare la richiesta di impeachment nella storia dell’Italia repubblicana: autodenunciatosi alla magistratura ordinaria, fu poi prosciolto nel 1994. Intanto, nel 1992 aveva rassegnato le dimissioni con un lieve anticipo sulla scadenza naturale del settennato.
Dopo alcuni anni fuori dalle vicende partitiche, nel 1998 promosse la costituzione dell’Unione democratica per la repubblica (Udr), formazione autonoma di centro sorta con l’obiettivo di aggregare una vasta area di forze moderate, con cui sostenne il primo governo D’Alema.
"Quando Cossiga telefonava dal Quirinale alle sei del mattino". Paolo Armaroli l'8 Gennaio 2022 su Il Giornale. Enrico Mattei sosteneva che la storia d'Italia poteva apparire noiosa ma le storielle d'Italia sono chicche imperdibili. Enrico Mattei sosteneva che la storia d'Italia poteva apparire noiosa ma le storielle d'Italia sono chicche imperdibili. Il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda ha avuto dimestichezza con gli ultimi cinque presidenti della Repubblica. E nel libro Capi senza Stato (Marsilio, pp. 223, 18 euro), tanto per fare il paio con i capi senza partito, ne racconta davvero di belle. Dopo tutto, i primi cittadini della Repubblica non differiscono dagli uomini politici che si muovono a valle. Come le banche, non ce ne voglia Antonio Patuelli, ti offrono l'ombrello quando il sole spacca le pietre e immancabilmente te lo tolgono quando piove a catinelle.
La cornice di Breda è inappuntabile. Valgano le citazioni di Carlo Esposito di Giuseppe Ugo Rescigno e di altri ancora. Spiega perché la fisarmonica del Quirinale, secondo l'indovinata metafora di Giuliano Amato, si restringe o si allarga.
Ma a ingolosire sono soprattutto i retroscena e le storielle raccontati da par suo da Breda. Imperdibile la telefonata di Cossiga alle 6 del mattino. Vuole sapere se il Corriere ha montato a regola d'arte l'intervista che Breda gli aveva fatto il giorno prima. Ma a quell'ora Breda non ha ancora sotto mano il giornale. Signore com'è, non lo manda al diavolo. S'infila le pantofole, si mette qualcosa indosso, va nello studio, accende il computer e legge le sue domande e le risposte del Picconatore. Che, soddisfatto, si frega le mani. Un modo come un altro per dargli un bel trenta e lode. Una medaglia.
Oscar Luigi Scalfaro ne fa una grossa. Per non comparire di persona, incarica il fedele Tanino Scelta di informare la direzione del Corriere che Breda non è gradito perché ha avuto la colpa di «coprire» il settennato di Cossiga. E il direttore, onore al merito, fa spallucce. Scalfaro, da uomo del Parlamento si trasforma in un presidenzialista senza se e senza ma, al punto di sciogliere le Camere nel 1994 motu proprio. Cose da far rizzare i capelli.
Carlo Azeglio Ciampi è sì un «pacificatore nazionale» ma è percepito anche come «presidente di opposizione». Di Napolitano, è Breda a sottolinearlo, ce ne sono ben due. L'uno dice e l'altro si contraddice. Su tutto: sull'invasione dell'Ungheria, sulle foibe, sulla contestazione giovanile, perfino sulla Resistenza. Della quale non nasconde le zone d'ombra. Nella nomina dei senatori a vita non ha la mano felice. Implorato per il bis, nel suo messaggio d'insediamento del 2013 più fustiga i suoi elettori e più costoro si spellano le mani per gli applausi. Una seduta sadomasochistica. Una presidenza in chiaroscuro.
Dulcis in fundo, Mattarella. Del dodicesimo presidente Breda scrive: «Ha tenuto a battesimo governi fondati su maggioranze fragilissime e di opposto segno, gialloverdi e giallorosse, pur di assicurare la tenuta di un paese entrato anche in una crisi di rappresentanza». Né manca qualche pennellata sui predecessori. Per esempio su Giovanni Gronchi, al quale il Quirinale sta stretto e si sente un leone in gabbia. Quella gabbia della presidenza di Montecitorio nella quale Alcide De Gasperi lo aveva rinchiuso nel 1948 perché lo considerava una fastidiosa mosca tze-tze. Ma lui la utilizzò come pedana di lancio per il Colle. Paolo Armaroli
Come è diventato presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, sgattaiolato tra i big nel furioso 1964. David Romoli su Il Riformista il 5 Gennaio 2022. Con questo articolo iniziamo un breve racconto di alcune delle elezioni presidenziali più complesse o combattute della storia della Repubblica.
Quando il 16 dicembre 1964, appena due anni e mezzo dopo l’elezione del precedente capo dello Stato, le Camere si riunirono per eleggere il quinto presidente della Repubblica, tutti sapevano che, chiunque fosse stato, l’eletto avrebbe avuto il compito di agevolare con vera convinzione la marcia della neonata formula del centrosinistra: l’alleanza appena pochi anni prima neppure immaginabile tra il Psi e la Dc. L’alchimia bizzarra tentata due anni prima dalla stessa Dc, eleggendo al Quirinale un rappresentante della sua ala di destra ostile a quell’esperimento politico per “controbilanciarlo”, si era dimostrata un pericoloso disastro, anche se gli italiani ne erano ancora all’oscuro. Come erano all’oscuro della drammaticità degli eventi che si erano conclusi, il 7 agosto , con la trombosi cerebrale che aveva colpito il presidente in carica, Antonio Segni.
Solo anni dopo gli italiani avrebbero saputo che nel luglio 1964 il capo dello Stato appoggiato da altissimi esponenti dell’arma dei carabinieri avevano minacciato un colpo di Stato, non è mai stato chiarito se con l’intenzione di tentarlo davvero o, come è più probabile, solo con quella di condizionare pesantemente le scelte del governo di centrosinistra. Non è e non sarà invece mai noto nei dettagli cosa avvenne nel corso del tempestoso colloquio al Quirinale del 7 agosto tra Segni, il presidente del consiglio Moro e il ministro degli Esteri e segretario del Psdi, Partito Socialdemocratico Italiano, Giuseppe Saragat. Di certo avevano parlato di quella manovra golpista, il Piano Solo. Di certo i toni si erano alzati di parecchi decibel. I due esponenti di governo, secondo la sola ricostruzione del colloquio esistente, quella a propria volta de relato del direttore generale della Rai di allora Ettore Bernabei, avevano minacciato di denunciare il presidente per aver attentato alla Costituzione.
Di fatto, nel corso del concitato colloquio, Segni stramazzò colpito da trombosi. Fu subito chiaro che non si sarebbe ripreso ma le forze politiche decisero di nascondere l’ “impedimento permanente” che avrebbe reso obbligatoria l’immediata nomina di un nuovo presidente. Per darsi tempo di trattare sulla successione scelsero la formula dell’“impedimento temporaneo”. Le funzioni presidenziali furono assunte dal presidente del Senato Cesare Merzagora fino a che, il 6 dicembre, non arrivarono le “dimissioni volontarie” di Segni. Nel dicembre 1964 era chiaro che il nuovo presidente avrebbe dovuto essere politicamente collocato all’opposto di Segni: un garante del centrosinistra e dunque, quasi certamente, un socialista come il segretario del Psi Nenni o un socialdemocratico come Saragat. Torinese, 66 anni, socialista negli anni ‘20, antifascista ed esule in Francia dal 1926 al 1943, dirigente della Resistenza, Saragat era andato a un passo dal Colle già nel 1962. Partito come “candidato di bandiera” aveva ottenuto i voti del Psi dalla seconda votazione e quelli del Pci dalla terza. Per spuntarla Segni aveva dovuto chiedere e ottenere i voti dell’estrema destra monarchica e neofascista.
Il sostegno del Psi e del Pci chiudeva la ferita apertasi nel 1948, quando Saragat, atlantista e anticomunista convinto, aveva capeggiato la scissione del Psi di palazzo Barberini e poi aveva schierato la sua neonata formazione, che all’inizio si chiamava Psli, Partito socialista dei lavoratori italiani, contro il Fronte popolare nelle storiche elezioni del 1948. Nell’aula della Camera il comunista Giancarlo Pajetta non aveva usato mezzi termini, lo aveva apostrofato direttamente nel suo intervento dopo l’attentato a Togliatti (luglio 1948): “Tu, traditore del socialismo, tu, traditore”. Saragat però non aveva mai perso di vista l’obiettivo della riunificazione socialista, che si realizzò effettivamente nel corso della sua presidenza della Repubblica, con la nascita del Psu, Partito socialista unificato, nel 1966. Successo effimero: appena 3 anni dopo i due partiti si divisero di nuovo.
I socialisti, in quel dicembre del 64, aprirono la corsa al Colle candidando proprio Saragat, mentre la Dc puntava nella fase iniziale su Leone e il Pci su Terracini. Saragat, sapendo di non avere in quel momento possibilità reali, restò però defilato in attesa che si consumasse lo scontro interno nella Dc. Fanfani, che nel ‘63 aveva guidato un governo “anticamera” del centrosinistra, scese infatti in campo, i suoi consensi aumentarono progressivamente di votazione in votazione erodendo quelli di Leone. Era anche lui uno dei principali registi del centrosinistra, aveva guidato nel ‘63 il governo che doveva aprire la strada a quella formula e che si rivelò a conti fatti molto più ardito e riformatore dei successivi esecutivi appoggiati dal Psi. Ma la sua linea, in politica estera, si collocava all’estremo opposto di quella del leader socialdemocratico. Saragat era il rappresentate dell’ala più atlantista del centro italiano. Fanfani era un autonomista che sosteneva la politica energetica e filo araba indirizzata sino alla sua morte, due anni prima, da Enrico Mattei.
I partiti della sinistra, però, non volevano che la presidenza andasse di nuovo a un Dc, diffidavano della tendenza a centralizzare e del carattere autoritario di Fanfani. Al decimo scrutinio, quando era ormai chiaro che la battaglia sarebbe stata di inaudita (fino a quel momento) lunghezza, il Psi candidò Nenni. Alla tredicesima votazione Pci e Psdi fecero convergere i loro voti sul leader socialista. Arrivati al quindicesimo scrutinio la Dc, estenuata, ritirò Leone e dopo altre tre votazioni a vuoto accettò di votare per Saragat. Pci e Psi puntarono i piedi. Insistettero su Nenni. Persino il Pci, in quella circostanza si divise, per la prima volta dopo la morte di Togliatti, avvenuta in agosto, pochi giorni dopo la trombosi di Segni. L’ala sinistra del Pci, cioè Ingrao, preferiva Fanfani. L’ala riformista (ma all’epoca certo non poteva chiamarsi così), cioè Amendola e Napolitano stava con Saragat.
La battaglia del Colle più dura nella storia repubblicana sino a quel momento lacerava così sia il nascente centrosinistra che l’area socialista. Nenni sbloccò la situazione dopo la ventesima prova fallita, ritirandosi e invitando il Psi a votare Saragat che fu eletto il 28 dicembre, con 646 voti su 963, alla ventunesima votazione. Il record fu superato sette anni dopo, con l’elezione del successore di Saragat, ma quella del 1964 resta a tutt’oggi la seconda elezione più combattuta nella storia della Repubblica. L’esito della presidenza Saragat però non fu affatto all’altezza della tensione con cui era cominciata. Il centrosinistra di Moro navigò sotto costa facendo pochissimo. Il dualismo in politica estera proseguì, con Fanfani ministro degli Esteri. Negli anni delle bombe e del maggior conflitto sociale nell’occidente post-bellico, il presidente socialdemocratico fu scialbo e poco consistente. Molto rumore per (quasi) nulla. David Romoli
Storia delle presidenziali. Come fu eletto presidente Giovanni Leone, che sconfisse Moro coi voti fascisti. David Romoli su Il Riformista il 9 Gennaio 2022.
Furono le elezioni della grande guerra interna alla Dc, la sagra dei franchi tiratori scudocrociati. Toccarono il record a tutt’oggi insuperato di 23 votazioni necessarie per eleggere il sesto presidente della Repubblica italiana. Elezione di strettissima misura, arrivata il 24 dicembre quando le tavole erano quasi già apparecchiate per il cenone. Sulla carta doveva trattarsi di una partita facile. Dopo i 7 anni passati sul Colle dal socialdemocratico Saragat il posto spettava di diritto, sia pur diritto informale, alla Dc e tutte le correnti sostenevano ufficialmente la candidatura del presidente del Senato Amintore Fanfani, il “cavallo di razza” della balena bianca alla pari di Aldo Moro.
Accentratore come pochi, dinamico come nessuno, l’ex presidente del Consiglio, ex segretario della Dc, ex ministro degli Esteri (tutto insieme, mica una carica per volta come usa e usava…) al Quirinale teneva moltissimo. L’handicap era l’ostilità ferrea del Pci e del Psi e a segnalargli il problemino fu il leader Dc che meno lo amava, Giulio Andreotti. Era implicitamente l’ “amichevole” consiglio di ritirarsi per evitare la mazzata. Va da sé che nei decenni successivi Andreotti avrebbe poi sempre negato di aver organizzato la fronda democristiana destinata a rendere la sua fosca profezia realtà. Fanfani, battagliero, al passo indietro non ci pensò per niente. Le danze si aprirono il 9 dicembre 1971. Gli scricchiolii, nelle truppe dello scudo crociato, era tanto forti che il segretario Forlani commentò subito: “Se passa è un miracolo”. Non ci furono miracoli. Alla prima votazione il candidato della sinistra, il socialista De Martino, superò il cavallo di razza con 397 voti contro 384. Alla seconda votazione andò anche peggio. De Martino migliorò di un voto la posizione di testa, Fanfani perse altri 18 voti.
A voler fucilare l’ingombrante Amintore sono i franchi tiratori democristiani. Forlani lo sa e con il suo vicesegretario Gullotti si inventa un escamotage ai confini del dettato costituzionale. I rappresentanti delle varie correnti si scambieranno le schede, dopo aver votato ma prima di deporle nell’urna, con i colleghi delle altri correnti. Minuetto codificato: ai rumoriani tocca il valzer con gli andreottiani, i colombiani fanno a cambio con i piccoliani, morotei e rappresentanti della destra si passano le schede. Come se non bastasse, parecchi democristiani depongono nell’urna la scheda aperta, sventolandola platealmente, finché il presidente di turno, Sandro Pertini, sbotta ricordando a tutti che il voto è segreto. La girandola di trovate non basta. Fanfani resta impietosamente sotto De Martino fino alla sesta votazione. Tra le schede che al suo fianco Pertini proclama nulle non sfugge agli occhi del diretto interessato la più esplicita di tutte: “Nano maledetto non sarai mai eletto”, con poco garbata allusione alla statura fisica del candidato, gigante politico ma alto poco più di un metro e mezzo.
Dopo il sesto buco nell’acqua Forlani tenta di congelare la situazione spostando il partito di maggioranza relativa sulla scheda bianca, nella speranza di raccogliere nella pausa i consensi necessari a eleggere Fanfani. La prova arriva all’XI votazione e ancora una volta il candidato della Dc viene impallinato dal suo stesso partito. Tocca il vertice di 393 voti e resta sotto De Martino che ne vanta 407. “Era oltre il 90% del partito. Più di così non si poteva fare”, dirà anni dopo Andreotti, intervistato da Bruno Vespa, rivendicando il merito di aver spinto verso Fanfani quanti più democristiani possibile. Pochi. Neppure sufficienti a proseguire la battaglia. Nella notte, una delle tante passate poi alla storia come “dei lunghi coltelli”, Forlani riunì la direzione per quella che non poteva che essere una rissa violenta. Sul tavolo c’era la resa di Fanfani, i cui fedelissimi, al grido di “Fanfani o morte”, non intendevano mollare la presa anche a costo di imporre votazioni all’infinito. Il segretario, a sua volta un fanfaniano, si schierò con il partito della resa. Dopo una notte allucinante, la candidatura Fanfani fu ritirata e la Dc si trincerò dietro la scheda bianca mandando a vuoto le dieci votazioni successive.
Dopo la XXI votazione, Forlani riunì l’assemblea dei grandi elettori Dc e affidò a loro la scelta tra Aldo Moro e Giovanni Leone, principe del foro napoletano con all’attivo l’assoluzione dei responsabili della strage del Vajont, docente universitario, due volte presidente del consiglio ma in entrambi i casi alla guida di governi balneari, rimasti tutti e due in carica, nel 1963 e nel 1968, da giugno a dicembre, senatore a vita. Di misura prevalse Leone. Pci e Psi, in extremis, tentarono di innescare un nuovo agguato dei franchi tiratori dc, stavolta allettando i morotei, già imbufaliti per la sconfitta del loro leader, con la candidatura di Nenni al posto di De Martino. Era una mossa disperata e tuttavia alla XXII votazione, a record della maratona più lunga per il Colle già superato, anche Leone mancò il colpo per un solo voto, nonostante l’appoggio anche dei partiti tradizionalmente alleati della Dc: i repubblicani, i liberali, i socialdemocratici. Si fermò a 503 voti.
Per consentire ai Grandi Elettori di correre a casa giusto in tempo per festeggiare la vigilia fu necessario ciò che sin dalla VI votazione Forlani aveva cercato di evitare: il voto determinante di alcuni parlamentari del Msi. Arrivarono, portarono i consensi di Leone a quota 518, comunque la percentuale più bassa mai raggranellata da un capo dello Stato. Nata sotto una cattiva stella, la presidenza Leone finì peggio. Accusato ingiustamente di corruzione, massacrato da una campagna stampa ingiusta per la quale avrebbe ricevuto le scuse solo in occasione del novantesimo compleanno, nel 1998, fu costretto a dimettersi alla vigilia del semestre bianco, il 15 giugno 1978. Poco più di un mese dopo l’uccisione di Aldo Moro, nei giorni più terribili e pericolosi della storia della repubblica. Gli successe, dopo un’altra grande battaglia in Parlamento, il Presidente più popolare di tutti: Sandro Pertini. David Romoli
L’Italia si sveglia col nuovo presidente. Svolta dopo una lunga trattativa tra i partiti. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2022
È il 9 luglio 1978: l’Italia si sveglia con un nuovo presidente della Repubblica. «La Gazzetta del Mezzogiorno» titola «Una unità nuova sul nome di Pertini». Al sedicesimo scrutinio, Sandro Pertini è stato finalmente eletto capo dello Stato, il settimo della storia del nostro Paese. Nato in provincia di Savona nel 1896, combatté nella Grande Guerra e fu tra gli animatori dell’antifascismo ligure. Perseguitato dal regime, condannato a 11 anni di carcere (trascorse anche alcuni mesi a Turi), fu confinato a Ponza e Ventotene. Con la caduta del fascismo ricostituì il Partito socialista e fu protagonista della lotta di liberazione nazionale. Segretario del Psi, direttore dell’Avanti, per diverse legislature senatore e deputato (a partire dalla Costituente), nel 1968 fu eletto Presidente della Camera.
Nel giugno 1978 il capo dello Stato Giovanni Leone, travolto dallo scandalo Lockheed e dalla tragedia del rapimento e della morte di Aldo Moro, si dimette. Si apre, così, la corsa al Quirinale, ma non c’è accordo tra i partiti. Finalmente, l’8 luglio 1978, la svolta: l’inviato della Gazzetta Antonio Rossano racconta: «Quota 506 era stata raggiunta dal nome di Sandro Pertini. È stato un applauso lungo, intenso, senza isterismi: un applauso che ha accomunato democristiani, socialisti, comunisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali, radicale e demoproletari. Gli elettori si sono levati in piedi: seduti soltanto missini e parlamentari di Democrazia nazionale».
Rossano non può risparmiare ai lettori un tocco di colore sull’umanità del nuovo Presidente: «La giornata di Pertini era cominciata alle 8.40 quando è uscito dal palazzo di piazza Trevi, davanti alla famosa e fotografatissima fontana. Una scorta discreta ma per lui inconsueta: si è fermato guardandosi alle spalle ed ha chiesto al giovane agente “Lei ce l’ha la fidanzata?” “Sì” ha risposto l’agente “E allora ascolti me, vada a fare una passeggiata con lei. Io dirò che è stato tutto il tempo con me”!».
Pertini è eletto con l’83,6% dei consensi: ancora oggi, è il presidente più votato della storia della Repubblica. «L’eccezionale linea dritta della sua vita morale, politica ed umana, la sua ineguagliabile fiera ed eroica coerenza, sono alla stesso tempo il suo straordinario biglietto da visita e un patrimonio acquisito per la storia della nuova Italia, un patrimonio che gratifica anche tutti noi, un punto di orientamento e di garanzia del nostro riscatto», scrive Oronzo Valentini. Pertini rimarrà in carica fino al 1985: alla guida del Paese, affronterà una delle fasi più complesse della seconda metà del Novecento, riuscendo ugualmente a riavvicinare gli Italiani alle istituzioni.
Come fu eletto Sandro Petrini, nell’anno della lotta armata un partigiano al Quirinale. David Romoli su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.
Il 15 giugno 1978 Giovanni Leone, presidente della Repubblica massacrato da mesi da una campagna di stampa che lo accusava ingiustamente di essere il misterioso leader politico che aveva intascato una cospicua tangente dall’americana Lockheed, decise di difendersi con un’intervista all’agenzia Ansa. Ne inviò copia al presidente del consiglio Giulio Andreotti, al segretario della Dc, il suo stesso partito, Benigno Zaccagnini e, per conoscenza, al segretario del Pci, in quel momento parte della maggioranza di unità nazionale, Enrico Berlinguer. Il verdetto di tutti fu unanime: quell’intervista non doveva uscire. Infatti non vide mai la luce. Non bastava. Era ora che Leone traesse i partiti della maggioranza fuori dall’imbarazzo andandosene. Lo fece. Si dimise con un messaggio in tv nel quale ribadiva la propria innocenza la sera stessa. Il semestre bianco sarebbe iniziato 15 giorni dopo. Il 29 giugno, invece, i Grandi Elettori si ritrovarono in una Montecitorio assediata e in assetto da guerra per eleggere il settimo presidente della Repubblica.
Con le dimissioni di Leone, il terremoto che squassava l’intera Italia era arrivato a travolgere la massima istituzione della Repubblica. Poche settimane prima, il 9 maggio, il cadavere di Aldo Moro era stato fatto ritrovare dalle Brigate rosse in via Caetani, nel centro di Roma, vicino alle sedi della Dc e del pci, dopo i 55 giorni più lunghi e tragici della storia dell’Italia del dopoguerra. L’inflazione martellava, l’economia crollava, la stabilità politica, basata sul fragile accordo fra Dc e Pci, era appesa a un filo sottile. Sino a due mesi prima il candidato naturale per la presidenza era stato proprio Moro, il regista dell’unità nazionale. Le Br avevano sgombrato il campo crivellando la sua scorta e poi il presidente della Dc sequestrato. Il candidato numero uno socialista, l’ex segretario Francesco De Martino, era stato anche lui azzoppato da un sequestro, quello del figlio, nel 1977. Il riscatto fu pagato e quel pagamento mise De Martino fuori gioco. In campo c’era un nuovo giocatore, il giovane segretario del Psi Bettino Craxi, 43 anni, che aveva tutte le intenzioni di farsi valere e dimostrare con le cattive che la musica nei rapporti col Psi era cambiata.
La partita iniziò, senza esclusione di colpi, già nei 10 giorni precedenti lo sparo d’inizio. La Dc e il Pci puntavano su Zaccagnini, già vicinissimo a Moro. L’ “onesto Zac”, come comunemente veniva definito all’epoca, era pronto. Craxi lo abbattè subito, spalleggiato dall’area moderata e più anticomunista della Dc, guidata da Flaminio Piccoli. Il socialista Giacomo Mancini, bruciando i tempi, candidò Sandro Pertini, ex presidente della Camera. Craxi fece finta di appoggiare la candidatura, in realtà mirando a bruciarla. L’handicap di Pertini, ufficialmente, era l’età, 82 anni, meno di quanti ne contano oggi candidati eccellenti come Silvio Berlusconi e Giuliano Amato. “Va bene, il presidente deve avere un grande passato ma è bene che abbia anche un po’ di futuro”, ironizzò il deputato Dc Zucconi. L’anagrafe, in realtà, era il problema minore. Sandro Pertini, ligure sanguigno e fumantino, ex detenuto ed ex confinato durante il fascismo, tra i massimi dirigenti della Resistenza, non presentava nessuna delle doti diplomatiche che si richiedevano allora a un presidente. Aveva innescato di persona la più violenta rissa nella storia del Parlamento, nel 1953, il giorno dell’approvazione della legge elettorale detta “legge truffa”.
Si era piazzato di fronte all’appena nominato presidente del Senato Meuccio Ruini, destinato a restare in carica solo per quel giorno fatale, e aveva scandito a pieni polmoni: “Lei è un porco”. Nelle ore seguenti parecchi senatori si sarebbero ritrovati con la testa spaccata, incluso il presunto suino. Sette anni dopo era stato di nuovo l’incendiario comizio di Pertini a scatenare la rivolta di Genova contro il governo Tambroni, sostenuto dal Msi. Inoltre era un socialista poco favorevole al nuovo corso craxiano: e durante i 55 giorni del sequestro Moro si era schierato decisamente contro la trattativa e dunque contro il nuovo segretario. Finì nel bussolotto tritacarne anche il repubblicano Ugo La Malfa, padre della patria e gradito al Pci. Craxi lo fulminò prima ancora che si aprissero i battenti: “Non può essere il punto di equilibrio”. La Malfa, uomo dell’unità nazionale, non poteva andare, ma su un punto Craxi era tassativo: il nuovo presidente non doveva avere in tasca la tessera della Dc.
Cominciò con i candidati di bandiera, essendo chiaro che nessuno avrebbe potuto farcela nella prime tre votazioni, quindi la Dc si barricò dietro l’astensione. Poi, il 2 luglio, Craxi candidò ufficialmente Pertini. L’anziano socialista poteva avere una certa età ma non era uno sciocco né un ingenuo. Colse al volo la manovra per sacrificarlo e rispose con una lettera rovente, nella quale si diceva pronto ad accettare la candidatura ma solo se appoggiata da tutta la maggioranza e non solo dalla sinistra. Una mossa che sembrava averlo messo definitivamente fuori gioco. Craxi, a quel punto, giocò la carta di Antonio Giolitti, l’ex comunista che aveva abbandonato il Pci dopo l’invasione dell’Ungheria, nel 1956. Era una mossa calcolata.
Il leader del Psi sapeva che il Pci avrebbe affossato Giolitti e intendeva tirare fuori solo a quel punto il vero candidato, Giuliano Vassalli, principe del foro come era stato, prima di lui, Leone, ma, a differenza di Leone e come Pertini, dirigente importante della Resistenza, torturato in via Tasso. Il Pci bocciò anche lui: troppo critico con Berlinguer nei giorni del sequestro Moro. Lo stallo precipitava così verso il vicolo cieco. Le votazioni si susseguivano a vuoto e non era certo la prima volta. Ma con il cadavere di Moro ancora fresco e il Paese travolto dal terrorismo e dall’inflazione le cose erano cambiate. I partiti capivano che la delegittimazione li avrebbe travolti. La notte tra il 6 e il 7 luglio si svolse un del tutto inusuale vertice tra i segretari di maggioranza che si ridusse a una sagra dei veti incrociati. Così riemerse il nome del candidato già trombato, Sandro Pertini. Aveva dato lui stesso la partita per persa. Il 7 luglio aveva già in tasca il biglietto per raggiungere, dopo tre giorni, la moglie in un Paese vicino Mentone, per le vacanze.
La Malfa accettò di sostenerlo ma solo con garanzia che nella postazione chiave di segretario generale, al Quirinale, sarebbe andato un uomo di sua completa fiducia, Antonio Maccanico. La Dc si rassegnò. Craxi fece buon viso a cattivo gioco: stava per essere eletto un socialista, ma il più anticraxiano di tutti. Giampaolo Pansa, scarcastico, lo ribattezzò dopo la battaglia “Pirrino Craxi”. Sandro Pertini fu eletto l’8 luglio con una maggioranza schiacciante, 832 voti su 995. Lo bocciarono solo Msi e monarchici ma il leader del Msi Giorgio Almirante ci tenne a manifestare comunque il suo rispetto. Pertini fu il primo presidente a non traslocare al Quirinale: la moglie, Carla Voltolina, non volle neppure sentirne parlare. Rimase nel suo appartamento a Fontana di Trevi, spostandosi la mattina in ufficio, sul Colle. La scelta si dimostrò azzeccata. Proprio in virtù delle sue caratteristiche più sospette Pertini, che non la mandava a dire, si esponeva senza peli sulla lingua, adorava i media e si prestava volentieri al loro gioco, restituì lustro all’istituzione ormai opaca. David Romoli
Storia delle presidenziali. Storia dell’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale: un garante che remava per affossare i partiti. David Romoli su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.
Votavano sul ponte del Titanic ma non lo sapevano. I segnali dell’imminente naufragio della Prima Repubblica si moltiplicavano ma i partiti, ingessati e inamovibili, non riuscirono a coglierli: l’ascesa che pareva inarrestabile della Lega, le picconate sempre più micidiali del presidente Cossiga e le sue dimissioni anticipate, sia pur lievemente, la vittoria a sorpresa di Mario Segni nel referendum sulla preferenza unica, la batosta elettorale subìta dai partiti di governo nelle elezioni politiche, il referendum contro il proporzionale che era dietro l’angolo, l’iceberg-killer di tangentopoli che era già entrato in attrito anche se nessuno credeva ancora che avrebbe non solo danneggiato ma affondato la nave della Prima Repubblica.
Cominciò con una sagra delle cineserie democristiane. Invitati a cena dall’ancora presidente Cossiga i due papabili della Dc, il premier Andreotti e il segretario del partito Forlani, si lanciarono in un minuetto senza precedenti: “Tocca a te”, “Ma figurati, l’uomo adatto sei tu”. Spazientito Cossiga li lasciò soli a scambiarsi sdolcinate e ipocrite cortesie. Il Picconatore, che voleva Forlani come suo successore, insistette con le cenette sul Colle, mettendo intorno al tavolo il segretario della Dc e quello del Psi Bettino Craxi, anche lui forlaniano perché convinto che con Forlani al Colle a palazzo Chigi sarebbe rientrato lui. Con le due teste di serie impegnate nel giochino del “Passi prima Lei”, “Ma si figuri” la Dc se la cavò nella prima votazione, il 13 maggio 1992 e poi nelle due successive con il classico candidato di bandiera, il capo dei senatori Giorgio Di Giuseppe.
Il futuro presidente, Oscar Luigi Scalfaro, “lanciato” da Marco Pannella in virtù delle sue fermissime prese di posizione contro il piccone di Cossiga, prese 6 voti. Nessuno lo considerava in corsa. Per i socialisti poteva essere una seconda scelta dopo Forlani. Il Pds proprio non lo voleva. Cattolico sì, ma con misura. Scalfaro se lo ricordavano tutti per la piazzata fatta in pubblico a una signora troppo scollata, entrata poi nella leggenda come schiaffone in realtà mai affibbiato. “In Italia un’importante autorità religiosa c’è già. Non ne serve un’altra”, ironizzava il giovane Fabio Mussi solo al sentirlo nominare. Su Scalfaro, poi, pesava la Fatwah di Botteghe Oscure per aver scippato, poche settimane prima, a Giorgio Napolitano il seggio di presidente della Camera. Un gioco quirinalizio anche quello: per insediare Napolitano, Craxi chiedeva l’impegno del Pds a votare Forlani nelle imminenti presidenziali. Occhetto rifiutò lo scambio. Craxi e la Dc elessero Scalfaro, che a Bettino del resto piaceva essendo stato il suo ministro degli Interni.
Dopo la quarta votazione, andata anch’essa a vuoto con l’astensione della Dc, Forlani si recò di persona nello studio di Andreotti per offrirgli di nuovo la candidatura e stavolta l’astutissimo cedette alle insistenze, si presume di buon anzi ottimo grado. La sua candidatura fu meteorica. Poche ore dopo arrivò la notizia che i dorotei di Gava non la accettavano e i socialisti neppure. Volevano Forlani e Forlani fu. Candidato ufficiale della Dc. Trombato con 39 voti mancanti alla quinta votazione, 29 alla sesta. A fucilarlo fu un eterogeneo plotone di franchi tiratori: socialisti anticraxiani, un po’ di sinistra Dc, molti andreottiani. Restava in campo, in via rigorosamente ufficiosa, Andreotti. I suoi colonnelli erano attivissimi, Cirino Pomicino macinava incontri. Ma il blocco composto dai dorotei e da Craxi era inamovibile. Per una settimana fu il caos. Candidature in libertà affossate una dopo l’altra, come quella del socialista Vassalli proposto da Craxi, accettato da Forlani, affondato dai cecchini democristiani o di Leo Valiani. Scalfaro, il futuro presidente, aveva raggiunto il picco di 25 voti ma svettava come presidente della Camera fornendo prove di carattere una via l’altra. S’inventò il “catafalco”, l’urna chiusa al centro dell’aula che rendeva impossibile sbirciare chi andava in bianco. Bastonò parlamentari riottosi con la dovuta dose d’ironia.
Alcuni parlamentari che strillavano “Imbecille” rivolti a un onorevole collega si sentirono invitare a non pronunciare il proprio cognome a voce tanto alto. Un ribelle che rifiutava di sedersi sbandierando il regolamento che non citava detto obbligo fu abbattuto con una battuta fulminante: “In effetti non c’è neppure una norma che obblighi a ragionare. È facoltativo”. Andreotti puntava proprio sul vicolo cieco. Sarebbe uscito allo scoperto solo quando fosse stato certo dei numeri. Bossi gli aveva promesso l’appoggio della Lega ma il divo Giulio, che non era un pollastro, subodorava il trappolone. Il 23 maggio il numero 2 del Psi era nello studio del premier, invitato dal divo per discutere la richiesta rivolta a Craxi di votarlo. La notizia della strage di Capaci, della bomba, dell’uccisione di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta, rimbombò nel bel mezzo del colloquio. Chiuse i giochi. Impossibile tergiversare oltre: il Paese non lo avrebbe accettato. Impossibile anche uscire dalla palude con Andreotti presidente: neppure quello sarebbe stato accettabile.
Restava solo una soluzione, quella istituzionale. Dovevano essere eletti o il presidente del Senato Giovanni Spadolini o quello della Camera Oscar Scalfaro. Spadolini era convinto di farcela. Ai funerali di Falcone arrivò con il discorso da presidente già scritto. Nel corso delle esequie gli fu data la poco lieta novella: presidente della Repubblica sarebbe stato Oscar Scalfaro. I dubbi del Pds, dovuti soprattutto all’aura di integralismo che circondava il papabile, furono dissolti in un colloquio diretto tra Occhetto e lo stesso Scalfaro, che anticipò ogni eventuale appunto: “Io sono degasperiano. La Chiesa è la Chiesa, lo Stato è lo Stato”. Il 25 maggio fu eletto con 672 voti. Lo bocciarono solo Lega, Msi e Rifondazione comunista. Doveva essere il ritorno alla normalità dopo il pirotecnico mandato di Cossiga, almeno nella sua ultima e dinamitarda fase: un presidente discreto, poco invadente, opaco. Le circostanze e il carattere dell’uomo lo resero, con Giorgio Napolitano, il presidente più interventista nella storia della Repubblica.
È un luogo comune dire che Scalfaro “fu eletto dalla mafia”. Non è solo una boutade. Senza la bomba di Capaci probabilmente quel democristiano di seconda fila non sarebbe mai asceso al Colle. Ma ancora prima della strage l’elezione di Scalfaro fu il prodotto dello stallo nel quale si erano infilati partiti lontanissimi dall’aver capito la gravità della situazione nella quale si trovavano. Avessero saputo cogliere i segnali evidenti che arrivavano ormai da ogni parte avrebbero eletto subito un loro garante, quale era Arnaldo Forlani e quale invece non era e non fu Oscar Luigi Scalfaro. David Romoli
L’addio sei anni fa al presidente Ciampi. Fu il 10º presidente della Repubblica. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Settembre 2022.
«Addio a Ciampi, l’uomo delle due Repubbliche vicino al Sud e alla Puglia»: così su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 17 settembre 2016 si rende omaggio al decimo Presidente della Repubblica Italiana. Nato a Livorno nel 1920, umanista di formazione – si laurea in Lettere classiche alla Normale di Pisa –, diventerà uno dei più prestigiosi economisti della storia del nostro Paese. Ha ricoperto, infatti, la carica di Governatore della Banca d’Italia per quattordici anni, dal 1979 al 1993. Subito dopo, in una delicata fase di transizione istituzionale ed economica, è stato nominato presidente del Consiglio.
Dal 1996 al 1999 ha ricoperto diversi incarichi politici: ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica nei governi Prodi e D’Alema, con il risanamento dei conti pubblici ha contribuito fortemente all’adesione dell’Italia all’euro sin dalla sua creazione. Al primo scrutinio, con 707 voti su 990, il 13 maggio 1999 Carlo Azeglio Ciampi è stato eletto capo dello Stato: durante il suo settennato ha ribadito più volte l’importanza di salvaguardare i principi fondamentali della Costituzione e la necessità di consolidare le fondamenta dell’Unione Europea, non solo in senso economico, ma soprattutto politico. «La scelta europeista e la grande partita per far entrare l’Italia nel gruppo di testa tra i paesi che hanno adottato l’Euro, fu una costante, un punto fermo, un radicamento della sua vita politica prima e durante il suo settennato. Era il “padre della moneta unica” e lo ricordava costantemente insieme alla sua vocazione europea».», si legge sulla «Gazzetta».
C’è anche un elemento biografico che lega Ciampi alla nostra terra. All’indomani dell’armistizio, da giovane sottotenente dell’esercito italiano di stanza in Albania, rifiuta di aderire alla Repubblica di Salò e si rifugia in Abruzzo. Da qui, nel marzo 1944, arriva a Bari, che in quel momento è uno dei maggiori centri dell’Italia liberata. In tasca ha un dattiloscritto sul liberalsocialismo che il suo maestro dell’Università di Pisa, Guido Calogero, gli ha affidato: il suo compito è consegnarlo al meridionalista Tommaso Fiore. In quei mesi trascorsi a Bari, Ciampi entra in contatto con gli antifascisti e giovani intellettuali che ruotano attorno alla casa editrice Laterza, all’ambiente del neonato Partito d’Azione, alla redazione di Radio Bari. Con alcuni di loro, tra cui Vittore Fiore e Paolo Laterza, instaura legami che dureranno tutta la vita; spesso ha ricordato, nelle sue non poche visite istituzionali in Puglia, quanto importanti siano stati, per la sua formazione politica e personale, quei mesi trascorsi a Bari nel 1944.
Storia delle presidenziali. Elezione del presidente della Repubblica: i 101 traditori che favorirono il bis di Giorgio Napolitano. David Romoli su Il Riformista il 21 Gennaio 2022.
Lo chiamavano re Giorgio. Nessuno più di lui, Giorgio Napolitano, primo e unico presidente della Repubblica ex comunista, aveva inteso il mandato presidenziale come una sorta di monarchia costituzionale. Eletto nel 2006 alla quarta votazione, dunque la prima a maggioranza semplice, con i voti dell’Unione, la vasta coalizione di centrosinistra, e la scheda bianca del centrodestra, Napolitano aveva dichiarato una guerra, sostituito imperiosamente un governo, orientato l’intera vita politica del Paese. Nessuno aveva saputo dirgli di no. I Ds trasformatisi nel corso de mandato di re Giorgio in Pd obbedivano puntualmente.
Persino Fini, mentre si giocava l’intero futuro politico con una mozione di sfiducia contro l’alleato di sempre Berlusconi, accettò di posporre di un mese il voto di fiducia su richiesta del presidente-monarca. Una scelta suicida che diede a Berlusconi, che sul momento sarebbe stato in minoranza, il tempo necessario per acquistare consensi e capovolger l’esito della conta. Napolitano, tuttavia, non mirava a una conferma del mandato. Dopo aver condizionato e quasi orchestrato le alleanze del Pd in vista delle elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013 era pronto a passare la mano alla scadenza del suo settennato, in aprile. L’esito delle elezioni politiche complicò tutto. La buona affermazione del M5S aveva rotto il bipolarismo. Nessuno dei tre poli in campo aveva i numeri per governare, né Italia bene comune, la coalizione di centrosinistra che aveva candidato alla premiership il segretario del Pd Bersani e conquistato la maggioranza relativa, né il centrodestra ancora guidato da Berlusconi, né la folta pattuglia dei nuovi arrivati di Beppe Grillo.
Bersani rifiutava l’ipotesi di una maggioranza di unità nazionale con la destra, sponsorizzata invece dal presidente uscente della Repubblica. Mirava a un’alleanza con i 5S, che però non erano disponibili e anzi, nell’incontro tra Grillo e Bersani in diretta streaming lo umiliarono pubblicamente. Lo stallo era destinato inevitabilmente a riflettersi sulla corsa al Colle. La guerra nel Pd era un ulteriore elemento che rendeva a massimo rischio l’elezione del nuovo presidente. Nelle primarie per indicare il candidato premier della coalizione svoltesi in due turni, il 25 novembre 2012 con ballottaggio il 2 dicembre, il rampante sindaco di Firenze Matteo Renzi aveva sfidato Bersani. Era stato sconfitto con il 39,1% dei voti contro il 60,9% del segretario ma la mancata vittoria alle politiche aveva di fatto riaperto la sfida e reso più che traballante la posizione di Bersani. Anche la battaglia nel Pd si sarebbe dunque combattuta nell’arena delle elezioni presidenziali. Bersani preparò una rosa di cinque nomi da sottoporre alla destra. Spiccava la mancanza di Romano Prodi. Per Berlusconi sarebbe stato inaccettabile e il leader del Pd mirava a una soluzione unitaria. Si mise in moto l’eterno ciambellano Gianni Letta. Organizzò una faccia a faccia tra il signore d’Arcore e Marini. Berlusconi gli diede il via libera: “Di te mi fido”.
Marini, ex segretario storico della Cisl, ex ministro, ex segretario del Ppi, nell’ultima legislatura presidente del Senato, era uno dei principali padri del Pd. Era stato lui, nel 1995, dalla postazione di responsabile dell’Organizzazione, a determinare la sconfitta di Rocco Buttiglione che proponeva l’alleanza con Berlusconi: un passaggio determinante, senza il quale l’intera vicenda italiana alla fine del secolo scorso avrebbe preso tutt’altro percorso. Eppure la scelta di candidarlo a capo dello Stato provocò una rivolta tanto tra i parlamentari quanto nella base. L’accusa era quella di “essere stato scelto da Berlusconi”. Il sospetto, probabilmente infondato, era che l’accordo con la destra sul Colle preludesse a quello sul governo. Renzi soffiava sul fuoco con l’intento di far saltare gli equilibri nel partito. I prodiani pure, per rimettere in gioco il Professore. L’assemblea dei Grandi Elettori approvò comunque la candidatura ma i segnali erano minacciosi. La componente Sel abbandonò l’assemblea. I renziani annunciarono il voto per Sergio Chiamparino, sindaco di Torino. Marini non raggiunse il quorum alla prima votazione. Si fermò a quota 521. Una parte dei voti del Pd era confluita sul candidato del M5S e di Sel, Stefano Rodotà, un’altra quota era andata a Chiamparino.
Alla quarta votazione, con la maggioranza semplice, i voti presi da Marini sarebbero stati più che sufficienti. Erano poco meno di quelli che aveva ottenuto 7 anni prima Napolitano, più di quelli con i quali erano stati eletti in passato Einaudi, Segni e Leone. Sembrava dunque naturale insistere sino a quella votazione e questo intendeva fare Marini. Nella speranza di salvare l’unità del Pd Bersani decise invece di mollarlo. La sera stessa, 18 aprile, Marini fu costretto a ritirarsi. La mattina dopo l’assembla degli grandi elettori accettò per acclamazione la candidatura di Prodi, che in quel momento si trovava nel Mali. Prodi fu messo in campo alla quarta votazione, nel pomeriggio del 19 aprile, dopo aver fatto passare la terza con l’astensione. Non andò oltre i 395 voti, molti meno di quanti ne aveva raccolti Marini. Mancavano ufficialmente all’appello 101 elettori del Pd: non sarebbero bastati comunque. In realtà erano probabilmente di più, intorno ai 120 perché molti nel piccolo partito di Mario Monti, Scelta civica, avevano votato per il professore. Il terremoto travolse non solo Prodi. La presidente del Pd Rosi Bindi e il segretario Bersani si dimisero. La sola alternativa al caos era convincere il re a mantenere ancora per un po’ la corona. Ci provò per primo Gianni Letta, con il pieno consenso del dimissionario Bersani.
Bussò alle porte del Quirinale tre volte in quel 19 aprile di caos e per tre volte re Giorgio rifiutò il secondo mandato. Il giorno dopo fu un corteo. Lo implorò Bersani, scortato da Enrico Letta. Lo pregò Berlusconi, con zio Gianni al fianco. Insistette Mario Monti, ancora premier. Si presentò Vasco Errani, presidente della Conferenza Stato-Regioni, a nome di tutti i governatori. Napolitano non poté negare “l’assunzione di responsabilità verso la nazione”. Con una condizione però: chi lo pregava di salvare la situazione s’impegnava anche a seguire le sue sovrane direttive. Subito un governo “del dialogo” con Berlusconi e a guidarlo, invece di Giuliano Amato come da indicazione del Pd, Enrico Letta. Nessuno osò opporre la pur minima resistenza. David Romoli
INTERVISTA A GIOVANNI MATTEOLI, PORTAVOCE DEL PRESIDENTE EMERITO. «Il bis Napolitano durò due anni perché era stanco e provato». DANIELA PREZIOSI ROMA su Il Domani il 05 febbraio 2022.
«La situazione del 2013 non era meno complessa di quella odierna, che almeno vede una nuova, positiva iniziativa europea per la crescita e il sostegno alle situazioni di difficoltà e disagio sociale».
«La decadenza di Berlusconi dal mandato parlamentare avvenne per una legge approvata a larga maggioranza dal Parlamento precedente, non per effetto di uno dei fantomatici complotti dei quali Napolitano avrebbe tenuto le fila».
«Nel 2010 la legge di stabilità ebbe la precedenza sulla discussione di una mozione di sfiducia al governo Berlusconi,. Ma per una necessità oggettiva, di fronte alla difficile situazione finanziaria internazionale, e si muoveva nel solco di una decisione simile presa alla fine del 1994 da Scalfaro».
DANIELA PREZIOSI ROMA. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.
Quirinale, per Berlusconi Mattarella fu eletto a tradimento dal Pd. Riccardo Mazzoni su Il Tempo il 22 gennaio 2022.
L’elezione di Mattarella è passata alla storia come la causa della rottura del Patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, ma in realtà ne è stata più precisamente l’effetto, perché gli scricchiolii si erano manifestati da mesi, con una parte della classe dirigente di Forza Italia che contestava in modo sempre più netto quello che spregiativamente veniva definito un “inciucio a perdere”, al quale veniva peraltro attribuita la perdita di consensi del partito.
Dopo una luna di miele quasi stupefacente, che aveva portato per la prima volta Berlusconi a entrare con tutti gli onori nella sede del Pd, insomma, il rapporto fiduciario tra i due leader era entrato in crisi, tra incomprensioni, colpi bassi e sospetti crescenti, e nelle settimane che precedettero il voto per il Quirinale – gennaio 2015 – si era preferito parlare più di metodo che di nomi, in linea con la tradizione per cui le trattative per il Colle devono essere sempre ammantate da una sorta di mistero. Dal punto di vista politico, la situazione era per certi versi simile a quella di oggi: senza un accordo sul Presidente, infatti, il Patto del Nazareno saltò, così come sarebbe impensabile che l’unità nazionale ora reggesse se dall’urna presidenziale uscisse un nome non concordato da tutta la maggioranza.
C’era però, allora, una sottintesa base di partenza che avrebbe potuto indirizzare il percorso verso una figura condivisa: Berlusconi infatti in più occasioni, nei numerosi incontri intercorsi, non aveva fatto mistero di preferire Giuliano Amato, politico ma anche giurista, nominato nel 2013 giudice della Consulta da Napolitano, un personaggio autorevole in grado di ottenere consensi anche nel Pd, partito peraltro a cui aveva a suo tempo aderito. Un nome quindi su cui Renzi non avrebbe potuto porre veti, mentre Berlusconi il suo no a Mattarella nei colloqui riservati lo aveva lasciato trapelare, eccome.
Ma il segretario-premier, con la consueta abilità manovriera tenne coperte fino all’ultimo le sue carte, pur dando prova di grande attivismo incontrando le delegazioni di tutte le forze politiche: un’ammuina, perché in realtà il suo vero candidato lo aveva in testa da tempo. La data cruciale segnata sul calendario quirinalizio, comunque, fu quella del 28 gennaio, all’immediata vigilia del primo voto a Camere riunite, quando era in agenda il vertice decisivo tra Rottamatore e Cavaliere. Un incontro finito malissimo, e per comprendere la fumata nera di quel duro faccia a faccia bisogna fare un passo indietro di qualche giorno, rileggendo i retroscena raccolti e pubblicati nei loro libri da Luigi Bisignani e Massimo Parisi.
Renzi non aveva preso affatto bene i contatti intercorsi tra Berlusconi e Alfano – di cui era stato tenuto all’oscuro - per vagliare l’ipotesi di appoggiare la candidatura di Pierferdinando Casini. Ma conseguenze ancora peggiori ebbe poi la conferma, datagli candidamente dallo stesso Cavaliere, degli abboccamenti da lui avuti con la minoranza del Pd, nella persona - sgraditissima all’interlocutore - di Massimo D’Alema, l’arcinemico per eccellenza che covava da anni propositi di vendetta contro il leader che lo aveva messo al primo posto nella lista dei rottamandi. Un’ammissione dunque che, agli occhi di Renzi, faceva rima con provocazione. Per cui se Berlusconi e D’Alema avevano convenuto che Amato era il miglior candidato bipartisan, per lui quello diventava un nome irricevibile, da depennare senza se e senza ma: “Non metto la faccia su un accordo fatto contro di me” - sibilò.
In realtà, come si evince dalla ricostruzione dei fatti, la scelta su Mattarella l’aveva già fatta, e l’incidente D’Alema non fu altro che un ghiotto pretesto per buttare all’aria il tavolo e stravincere la partita. Renzi rinfacciò al centrodestra di saper dire solo no: quello a Prodi era comprensibile, ma perché no a Cantone, e soprattutto no a Mattarella? Un lontano ma concreto motivo, in effetti, il Cavaliere ce l’aveva eccome: nel luglio del’90 Mattarella si era infatti dimesso dal governo Andreotti insieme agli altri quattro ministri della sinistra dc per contestare il varo della legge Mammì sull’emittenza televisiva, ritenuta troppo sbilanciata a favore delle tv di Berlusconi. Uno sgarbo che Sua Emittenza non aveva per nulla dimenticato.
A quel punto era chiaro che si sarebbe andati al voto senza alcun accordo: alla riunione dei grandi elettori di Forza Italia, il 28 pomeriggio, Berlusconi ammise che il nome ancora non c’era, mentre la mattina dopo Renzi avrebbe proposto ufficialmente Mattarella ai suoi gruppi parlamentari. Il tentativo di contromossa per ricompattare il centrodestra e sabotare così una candidatura sgradita, sperando in una rivolta a scrutinio segreto dei grandi elettori del Pd come era accaduto due anni prima per Prodi, si risolse in una pantomima che durò solo poche ore. Se non avesse votato Mattarella, infatti, l’Ncd sarebbe dovuto uscire dal governo, un’ipotesi che, grazie anche alla immediata controffensiva di Renzi, avrebbe messo in gravissima difficoltà Alfano. Il contrordine arrivò quindi quasi in tempo reale, e il giorno successivo, al quarto scrutinio, Mattarella fu eletto con 665 voti, raccogliendo non solo il consenso dei centristi, ma anche qualche decina di voti forzisti, nonostante l’indicazione di votare scheda bianca dimostrandolo con un rapido passaggio dal catafalco elettorale.
“È stato il Pd - avrebbe poi commentato amaramente Berlusconi - a cambiare le carte in tavola. Avevamo avviato una collaborazione per cambiare lo Stato, garantire al Paese una legge elettorale efficace, scegliere insieme gli elementi di garanzia del sistema, come il Presidente della Repubblica. Non tutto in questo percorso ci convinceva, ma il progetto era di tale importanza, da farci accettare anche alcune forzature e alcuni sacrifici, anche dolorosi. Purtroppo il Pd ha mostrato il suo vero volto, confermando di considerare le istituzioni un patrimonio da usare a proprio esclusivo vantaggio”.
"Vi racconto l'operazione Pertini. Fu amato perché rimase se stesso". Federico Bini il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.
La liturgia della Prima Repubblica, l'elezione di Pertini, il ricordo di Lombardi e la presidenza che verrà.
Claudio Signorile, vicesegretario e ministro del Psi, è stato una delle figure più influenti e importanti della Prima Repubblica. Assieme a Bettino Craxi è stato protagonista della creazione di una sinistra socialista di governo e soprattutto dell'elezione di Sandro Pertini al Quirinale che segnò l'ascesa del primo socialista al vertice della presidenza della Repubblica.
Come avveniva ai tempi della Prima Repubblica la scelta del candidato presidente?
“C’erano sostanzialmente due livelli. Quello partitico, il livello classico, cioè gli incontri avvenivano nelle segreterie mentre il secondo quello degli incontri trasversali avveniva in altri luoghi. Ad esempio per l’elezione di Pertini fu lo studio di Andreotti. Però il momento cruciale era Montecitorio ovvero il “Corridoio dei passi perduti” e il Transatlantico. Quelli erano luoghi dove le passeggiate diventavano poi incontri, scambio d’informazioni ecc…
E l’operazione Pertini dove nacque?
“Nel Transatlantico, perché era il mondo in cui tutti i grandi elettori erano compresenti nello stesso ambito fisico. E i miei interlocutori, ero vicesegretario del partito socialista - facevo l’attività di “funivia” come si diceva allora - in quel passaggio delicatissimo erano Antonio Bisaglia (leader della corrente di maggioranza della Dc) e Alessandro Natta (capogruppo alla Camera del Pci). Fu in quel momento in cui ci parlavamo che venne fuori la necessità di dare un nome comune”.
I socialisti non avevano una rosa di nomi?
“Il candidato dei socialisti era Antonio Giolitti, ma Pertini dopo aver ricevuto un buon numero di voti, scrisse una lettera, che tutti noi concordavamo nella quale si dichiarava disponibile solo per soluzioni di unità nazionale. Questa fu l’occasione per dire che “Pertini era il candidato di tutti”. E Pertini venne votato. Tanto che lui stava ritornando a Nizza. Io lo fermai a Montecitorio preannunciandogli un esito favorevole della sua candidatura”.
De Martino nelle elezioni del ’78 era un nome forte per la presidenza della Repubblica. Su di lui pesò molto il rapimento del figlio?
“Non c’è dubbio che lo indebolì molto. Lui poteva essere un candidato forte, aveva solo un elemento che poteva danneggiarlo, il fatto di essere un leader, ma non lo era più, nel ’78 ormai lui era una grande figura socialista, aveva perso anche la maggioranza del partito. Il rapimento del figlio lo danneggiò perché lo rese una figura con delle ombre”.
Come era il clima con cui andaste a votare?
“Difficile. Era la prima elezione dopo che Moro era stato assassinato due mesi prima, eravamo ancora con il governo di 'unità nazionale', il paese era in emergenza e la risposta doveva essere di convergenza, di solidarietà nazionale. E questo venne fatto”.
Pertini nel partito non apparteneva a correnti e non aveva poteri forti alle spalle. Questa fu la sua forza?
“Sicuramente anche questo fu un elemento importante. Nei momenti di grande convergenza non è il leader politico che diventa punto di unificazione è la figura la cui debolezza organizzativa si accompagna al prestigio personale e alla credibilità politica. Faccio un esempio: Moro che era il naturale candidato alla presidenza della Repubblica se non fosse stato ammazzato, era un uomo debolissimo dal punto di vista organizzativo nella Dc, la sua corrente era minoritaria, però rappresentava il punto di convergenza di tutta una serie di equilibri. Questa cosa vale anche per Pertini. Pertini si è sempre considerato l’erede di Moro, noi ne parlammo, lui conveniva che doveva adempiere la strategia politica di Moro e così venne eletto con la convergenza di tutti”.
Montanelli di Pertini scrisse: “Un brav’uomo, pittoresco e un po’ folcloristico”.
“Montanelli come al solito aveva il gusto toscano della battuta! Pertini era una persona dalla finezza politica non comune. Non è stata una figura folcloristica era una persona estroversa questo si può dire, questo è corretto, che si affidava alla comunicazione”.
Ebbe modo di rivederlo al Quirinale?
“Certamente. Io tra l’altro sono la prima persona che vide il giorno dopo l’elezione, come vicesegretario del partito e come portatore da parte sua di tutto quell’insieme di notizie, informazioni di cui aveva bisogno. Io con Pertini avevo un rapporto personale buono”.
È vero l’aneddoto che una volta Lei e Craxi vi siete presentati al Quirinale in jeans e Pertini vi ha “cacciato”?
“Ci fece notare che non era corretto il modo in cui eravamo vestiti. C’è molto di folclore in questo episodio, però una piccola parte di verità esiste”.
“Dall’83 all’87 è ministro dei Trasporti con Craxi. Quali erano i vostri rapporti?
“I miei rapporti personali con lui sono sempre stati molto buoni. Noi avevamo avuto occasione di scontri politici aspri ma abbiamo avuto sempre un rapporto molto intenso anche perché siamo cresciuti insieme nonostante lui avesse qualche anno in più di me. Tra l’altro noi eravamo due esponenti di minoranze. Craxi era autonomista e numero due di Nenni, mentre io ero lombardiano e numero due di Lombardi. Eravamo minoranza che poi divenne maggioranza al Midas nel ‘76”.
Che ricordo ha di Riccardo Lombardi?
“Persona affascinante. Una figura il cui senso della politica aveva caratteristiche di alta nobiltà. Lombardi veniva dal Partito d’Azione, non dimentichiamo mai che la sinistra socialista aveva il suo cuore azionista. Perché c’era un altro pezzo di sinistra che poi fece la scissione, che diede vita al PSIUP che era invece massimalista, incompatibile con ciò che il PSI era diventato ovvero una grande sinistra di governo”.
In che modo Pertini riuscì a farsi così amare dal popolo italiano?
“Essendo se stesso. Dando l’impressione vera di essere autentico in tutte le cose che faceva”.
Qual è il segreto della longevità al potere di Giuliano Amato?
“Giuliano non è mai stato uno della vecchia guardia socialista. È sempre stato una figura di grande spessore culturale, un grande tecnico, ma nel partito non è mai stato avvertito come un leader di riferimento. Lui è uno che sarebbe un naturale presidente della Repubblica in altre condizioni, non in questa”.
Previsioni per l’apertura delle votazioni da lunedì?
“La vicenda di Pertini è quella più simile. Anche questa volta l’elezione del presidente della Repubblica deve essere il risultato di un progetto politico importante. Una volta che questo sia chiaro il passo successivo deve essere l’indicazione del nome”.
Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando avevo quindici anni un’intesa attività pubblicistica e di studio in ambito politico, giornalistico e storico. Collaboro con diverse riviste d’informazione e approfondimento culturale. Tra le mie pubblicazioni si ricorda: Montanelli e il suo Giornale (Albatros editore), Roberto Gervaso. L’ultimo dandy (L’Universale) assieme a Giancarlo Mazzuca, Un passo dietro Craxi (Edizioni We) e Una democrazia difficile. Partiti, leader e governi dell’Italia repubblicana (Albatros editore). Sono stato condirettore del settimanale Il Caffè.
De Nicola, il presidente provvisorio. Fu lui a promulgare la Costituzione. Orlando Sacchelli il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Avvocato penalista con il pallino per il giornalismo, non volle mai essere chiamato “presidente”, ma a tutti ricordò sempre il suo essere “provvisorio”. Dopo il Colle fu presidente del Senato e poi presidente della neonata Corte costituzionale.
Contrariamente a tutti gli altri il primo Presidente della Repubblica italiana, Enrico De Nicola, ebbe nuovi importanti incarichi dopo l'esperienza al Colle. In seguito, infatti, fu presidente del Senato (1951-1952) e poi presidente della Corte costituzionale appena istituita (1956-1957).
Nato a Napoli nel 1877, De Nicola fu eletto presidente provvisorio della Repubblica dall’Assemblea Costituente il 28 giugno 1946 e ricoprì la carica di capo provvisorio dello Stato dal 1° luglio 1946 fino al 31 dicembre 1947. Successivamente, dal 1° gennaio 1948 (data che segna l’entrata in vigore della Costituzione italiana) fino al 12 maggio dello stesso anno, fu il primo presidente della Repubblica, cui succedette Luigi Einaudi.
Studente brillante, entrato all’università a 16 anni, due anni dopo iniziò a scrivere come cronista giudiziario per il giornale “Don Marzio”, considerato vicino a Crispi. Diviso tra due grandi passioni, il giornalismo e la Legge, alla fine dopo la laurea in Giurisprudenza aveva scelto la toga avvocato, divenendo ben presto un penalista di fama nazionale, noto per aver abbandonato la pomposità tipicamente napoletana preferendo uno stile più concreto e asciutto. Si avvicinò alla politica dopo aver superato i trent’anni ed essersi appassionato, fin da giovane, ascoltando i discorsi dello storico meridionalista Giustino Fortunato e del giovane promettente politico Francesco Saverio Nitti.
Vicino alle posizioni liberali di Antonio Giolitti, nel 1909 Orlando fu eletto alla Camera e confermato nel 1913. Sottosegretario (alle Colonie e al Tesoro) nei governi Giolitti IV e Orlando, De Nicola proseguì la propria ascesa presentandosi come capolista nel Partito democratico costituzionale alle elezioni politiche del 1919. Nel 1920, dopo le dimissioni di Vittorio Emanuele Orlando, fu eletto presidente della Camera. Rieletto nel 1921, confermato alla guida di Montecitorio, fu vicino alle trattative più importanti per la formazione di un nuovo governo, nel pieno della crisi dell’Italia liberale.
Presiedeva la Camera quando Mussolini si insediò alla guida del Governo, fino a quando fu sciolta la legislatura (25 gennaio 1924). Molti lo rimproverarono per non aver saputo (o voluto) tenere testa a Mussolini, quando il capo del fascismo pronunciò il suo discorso sprezzante contro il parlamento. Alle elezioni del 1924 si candidò nel listone fascista e fu eletto, nella sua Napoli. Ma non prestò giuramento e si allontanò dalla politica. Nel 1929, però, il Re lo nominò senatore. Mai vicino al fascismo, con la caduta del regime seppe muoversi abilmente per disegnare il futuro politico e istituzionale del Paese.
Il 28 giugno 1946 l’Assemblea Costituente lo elesse capo provvisorio dello Stato con 396 voti su 501, dopo diversi scrutini andati a vuoto. De Gasperi avrebbe voluto Vittorio Emanuele Orlando, Nenni vedeva bene Croce, il Pci era favorevole a un accordo ma di certo non stravedeva per De Nicola. La sua elezione ebbe luogo come frutto di un compromesso tra le varie forze politiche e alla luce di due dati di fatto incontrovertibili: era un fiero monarchico (e ciò serviva a non spaccare il Paese in una fase di trapasso estremamente delicata), era un esponente politico del Sud Italia, particolare non secondario visto che diversi leader politici erano del Nord. Rifiutò di risiedere al Quirinale con la motivazione che la sua era solo una carica provvisoria: rimase in un appartamento all’interno di Palazzo Giustiniani, dove già aveva sede la presidenza del Senato.
Non volle mai essere chiamato “presidente”, ma a tutti ricordò sempre il suo essere “provvisorio”. Ma pochi giorni dopo la promulgazione della Costituzione, avvenuta nella Biblioteca del Quirinale il 27 dicembre gennaio 1947, per ovvi motivi di forma (e di sostanza) De Nicola divenne, a tutti gli effetti, Presidente della Repubblica. Il primo presidente.
Nei suoi due anni al vertice dello Stato ebbe alcuni screzi con il capo del governo, Alcide De Gasperi, che in un caso fecero pensare a un vero e proprio conflitto tra poteri con la possibile nascita di un esecutivo del presidente. Alla fine a vincere il braccio di ferro di De Gasperi, che quando si trattò di discutere sulla possibile conferma di De Nicola si guardò bene dal farlo. De Gasperi, infatti, mai gli perdonò di aver tentato di scavalcare i partiti cercando di formare un governo (presieduto dall’amico Francesco Saverio Nitti) aperto ai comunisti. Fallito il tentativo il presidente ci provò ancora affidando un incarico esplorativo a Vittorio Emanuele Orlando, ma il “colpo di mano” non ebbe fortuna. E il pallino tornò nelle mani, ben salde, di De Gasperi.
Il primo discorso da capo provvisorio dello Stato
"Per l'Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All'opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe. Dobbiamo avere la coscienza dell'unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s'ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell'abisso per non risollevarci mai più" (Enrico De Nicola, 15 luglio 1946).
Parsimonioso e austero
Molto parsimonioso e umile, il giorno dell'insediamento De Nicola arrivò a Roma con la propria auto, da Torre del Greco (Napoli), dove abitava. Non volle mai abitare al Quirinale, ripetendo di continuo che gli pareva il caso essendo, lui, un presidente provvisorio. Preferì la sistemazione di Palazzo Giustiniani. Fedele alla propria linea di austerità rifiutò l'appannaggio previsto e pagò moltissime spese di tasca sua.
Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana
Giovanni Gronchi, equidistante tra i due blocchi in cui era diviso il mondo. Orlando Sacchelli il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Sottosegretario del primo governo Mussolini, fondatore della Dc nonché leader della corrente di sinistra, fu tra i primi e più convinti sostenitori dell'apertura al Partito socialista italiano di Nenni, superando la politica centrista.
Quando fu eletto alla massima carica dello Stato Giovanni Gronchi, 68enne, aveva ricoperto già importanti incarichi politici: sottosegretario all’Industria nel governo Mussolini, e successivamente ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, rispettivamente nei governi Bonomi (II e III) e De Gasperi. Insomma, aveva un curriculum politico di tutto rispetto e fu il primo esponente della Democrazia cristiana a diventare Presidente della Repubblica.
Nato a Pontedera (Pisa) nel 1887, figlio del contabile di un panificio, fin da ragazzo fu attivo e impegnato nelle organizzazioni giovanili cattoliche. Dopo il liceo classico si iscrisse all’università e, allievo di Giovanni Pascoli, si laureò in lettere alla Scuola Normale di Pisa. Insegnante di filosofia nei licei, andò a combattere da volontario nella Prima guerra mondiale, come ufficiale di fanteria, conquistando una medaglia di argento e una di bronzo al valor militare.
Il ritorno alla vita civile, dopo la Grande guerra, lo vide molto impegnato in politica. Nel gennaio 1919 partecipò alla fondazione del Partito Popolare Italiano, entrando a far parte, dopo alcuni mesi, della direzione e venendo eletto deputato. L’anno successivo fu chiamato a guidare la Confederazione italiana dei lavoratori (progenitrice della Cisl), venendo rieletto alla Camera nel 1921.
Entrato a far parte del governo Mussolini, come sottosegretario all’Industria, si dimise quando il Ppi uscì dalla maggioranza (1923). Dopo le dimissioni di Luigi Sturzo, nel 1924, con altri due esponenti fece parte del triumvirato che guidò il partito, e nel ’24 fu rieletto deputato. Contro il fascismo aderì alla protesta dell’Aventino e, dopo le leggi fascistissime, fu dichiarato decaduto dal parlamento. Ritiratosi a vita privata, svolse il lavoro di agente di commercio e industriale, rientrando in politica nel 1942, quando con alcuni altri esponenti cattolici, tra i quali De Gasperi, pose le basi per la nascita della Democrazia cristiana. Nel 1946 fu eletto all’Assemblea costituente. Eletto alla Camera nel 1948 e nel 1953, fu uno dei più autorevoli esponenti della sinistra Dc, insieme a Dossetti, La Pira e Fanfani.
L’elezione al Quirinale, nel 1955, arrivò nonostante gli sforzi del segretario del suo partito, Fanfani, di far eleggere Cesare Merzagora. Lo “scherzetto” che Fanfani aveva fatto qualche anno prima a De Gasperi questa volta gli si ritorse contro. Gronchi fu eletto grazie ai voti della sinistra Dc e delle forze della sinistra (più alcuni settori della destra), nonostante gli sforzi contrari portati avanti dal capo del governo, il democristiano di destra Mario Scelba. Fin dall’inizio, con il suo discorso di insediamento, si capì subito che Gronchi sarebbe stato un presidente scomodo, sicuramente autonomo e non legato agli interessi di un partito. La sua elezione fece storcere la bocca agli Stati Uniti, che lo consideravano troppo poco atlantico, ma paradossalmente anche l’Unione sovietica non lo avrebbe amato. Tra i suoi sostenitori, inoltre, Gronchi ebbe Enrico Mattei, potentissimo presidente della neonata Eni, che giocherà un ruolo sempre più importante nella politica italiana, con forti influenze nelle questioni estere.
Fortemente critico della partitocrazia (in alcuni discorsi parlava apertamente di dittatura dei partiti), Gronchi era stato eletto al Colle proprio in virtù di un gesto di ribellione che, in occasione del voto a camere riunite, aveva fatto saltare le discipline di partito. E sfidò il suo stesso partito, la Dc, nell’affidare alcuni incarichi per formare il governo (ad Antonio Segni), sia volendo dettare la linea in politica estera, ma anche in quella interna, spingendo verso un’effettiva apertura alle masse (di fatto il via libera all’asse Dc-Psi). Senza ombra di dubbio la presidenza Gronchi fu, ideologicamente, agli antipodi rispetto a quella di Einaudi, con ampie aperture al mondo sindacale e persino al Pci.
Nel suo settennato Gronchi scatenò due crisi diplomatiche. La prima quando, poco prima di una visita di Stato a Washington, rilasciò un’intervista in cui propose la riunificazione delle due Germanie e la loro neutralità per 20 anni. Comunicò poi questa sua proposta all’ambasciatore dell’Urss, che a nome di Mosca mostrò interesse. Peccato che quella sua idea non fosse stata minimamente concordata con il governo italiano, mandando su tutte le furie il presidente del consiglio Antonio Segni, il suo vice Giuseppe Saragat e il ministro degli Esteri Gaetano Martino. Gronchi fu costretto dall’esecutivo, proprio prima di partire per gli Usa, a correggere le sue posizioni.
Un’altra crisi derivò da una lettera che Gronchi scrisse, nel 1957, al presidente Usa Dwight Eisenhower: il presidente della Repubblica vi espresse diversi obiettivi di politica estera, senza però aver minimamente consultato il ministro degli Esteri. Questa mossa indusse il capo della Farnesina, Martino, dopo essersi consultato con il presidente del Consiglio Segni, a bloccare la missiva non inviandola negli Stati Uniti. In punta di diritto ciò avvenne per non aprire la strada a una repubblica di tipo presidenziale, cosa non prevista dalla Costituzione.
Nonostante questi inciampi Gronchi non rinunciò mai alle proprie iniziative personali, molte delle quali in politica estera, ponendosi come “mediatore” tra l’Occidente europeo e i paesi arabi, dopo la grave crisi del canale di Suez. Linea politica, ancora una volta, personale, in perfetta sintonia con l’Eni di Mattei.
Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana
Luigi Einaudi, l'economista liberale con il pallino per il giornalismo. Orlando Sacchelli il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nel 1948 per il Quirinale De Gasperi aveva puntato su Carlo Sforza, ministro degli Esteri, ma l'azione dei "franchi tiratori" vicini a Fanfani, esponente della corrente di sinistra della Dc, fece sfumare il piano. La scelta ricadde sul liberale Einaudi, uno dei padri della Repubblica.
Intellettuale ed economista di fama internazionale, Luigi Einaudi è considerato uno dei padri della Repubblica. Secondo presidente, fu il primo eletto dal Parlamento riunito in seduta comune, come previsto dalla Costituzione. Carta che, come membro dell’Assemblea Costituente, contribuì a scrivere.
Fu eletto l’11 maggio 1948 alla quarta votazione, ottenendo 518 voti, contro i 320 di Vittorio Emanuele Orlando che aveva il sostegno dei partiti di sinistra. De Gasperi, capo del governo, avrebbe voluto Carlo Sforza, ministro degli Esteri, ma non riuscì a trovare i numeri necessari, dovendo poi convergere su Einaudi. Cosa che gli pesò non poco, visto che il capo del governo sapeva bene che non avrebbe più potuto contare sulla collaborazione del professore piemontese nella delicatissima gestione dei conti pubblici della neonata Repubblica, dopo la sua salita sul Colle.
L’elezione di Einaudi avvenne in un clima politico infiammato dalla rottura della vecchia coesione figlia dell’unità antifascista: ormai i tempi erano cambiati, con Pci e Psi estromessi dal governo e la guerra fredda che divideva il mondo in due blocchi contrapposti. Le elezioni Politiche del 18 aprile 1948 erano avvenute in un clima infuocato dallo scontro ideologico, con i due fronti contrapposti (blocco sovietico e Stati Uniti) pronti a darsi battaglia senza esclusione di colpi. Se Einaudi tutto sommato era stato scelto in un clima politico abbastanza sereno, con qualche divisione ma senza che vi fossero aspre battaglie ideologiche in corso, l’elezione del 1948 avvenne, per usare una metafora, su un vero e proprio campo di battaglia. Basti pensare che, poco prima, il segretario di Stato americano George Marshall aveva detto a chiare lettere che gli aiuti per l’Italia sarebbero stati congelati se le elezioni le avesse vinte il Fronte Popolare formato dall’alleanza Pci-Psi.
I candidati in lizza, nel 1948, erano diversi: oltre al presidente provvisorio e uscente, De Nicola, vi erano Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando (sostenuto dalle sinistre), Francesco Saverio Nitti e, come dicevamo prima, il nome forte voluto da De Gasperi, il ministro degli Esteri Sforza, sostenuto anche dai repubblicani. A far fallire il progetto del leader della Dc fu l’azione, per la prima volta nella storia della neonata Repubblica, dei “franchi tiratori”, organizzati da un giovane emergente leader della sinistra Dc, Amintore Fanfani. Fu lui, infatti, a rompere la disciplina di partita e ad organizzare una fronda che, di fatto, fece saltare l’elezione di Sforza. Più tardi, per i corsi e ricorsi della storia, da segretario della Dc Fanfani subì la stessa sorte, vedendosi stoppare l’elezione al Colle del presidente del Senato Cesare Merzagora.
Nato a Carrù (Cuneo) nel 1874, rimase orfano di padre a quattordici anni e si trasferì a Dogliani, paese della madre. Studiò dai padri Scopoli di Savona e poi si trasferì a Torino, dove si diplomò al Liceo classico. Si iscrisse a Giurisprudenza, iniziando a interessarsi con vivo interesse ai temi economici, politici e sociali. Iniziò a scrivere per Critica Sociale, la rivista fondata da Filippo Turati, andando avanti per circa dieci anni. Spostato su posizioni più vicine al liberismo economico, continuò poi a scrivere su La Stampa. Nel 1895 si laureò in Giurisprudenza, iniziò a insegnare alla scuola media e poi all’istituto tecnico, coltivando parallelamente la sua grande passione per il giornalismo. A solo 27 anni ottenne una cattedra di Scienza delle finanze all’università di Torino. Da La Stampa passò al Corriere della sera, dove continuò a collaborare finché rimase alla guida il direttore Albertini, allontanato dal fascismo. Tornò a scrivervi dopo la caduta del regime.
Nominato senatore del Regno, nel 1919, con Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe e altri intellettuali aderì al Gruppo Nazionale Liberale, che propugnava uno stato forte, con ampie autonomie regionali e comunali, in grado di combattere mali atavici quali la burocrazia e i protezionismi, oltre che a contrastare il “radicalismo democratico”. In quegli anni, inoltre, scrisse diversi articoli (poi raccolti in un volume) in cui propose una federazione europea.
Pur apprezzando le iniziali aperture del fascismo al mercato e ai privati (rispetto al dirigismo economico giolittiano), Einaudi si distaccò progressivamente dal governo mussoliniano, soprattutto per la deriva autoritaria. Firmò, nel 1925, il manifesto degli intellettuali antifascisti, scritto da Benedetto Croce, e pose fine alla sua collaborazione con il Corriere della sera, dopo l’allontanamento del direttore Albertini. In rotta con il regime, ascoltò il consiglio di Croce e, giurando fedeltà al regime, conservò la cattedra all’università di Torino, “per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà”. Rimase tuttavia sempre contrario al fascismo, come dimostrato dai suoi voti al Senato: contro la lista unica elettorale (1928), contro l’ordine del giorno favorevole alla guerra in Etiopia e contro le leggi razziali (1938).
Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale Einaudi era stato vicepresidente del Consiglio, ministro del Tesoro e del Bilancio nel governo De Gasperi. Mentre tra il 1945 e il 1948 il Paese aveva affidato a lui l’onore e l’onere di guidare la Banca d’Italia.
Così come De Nicola anche Einaudi era un monarchico. Nel referendum del 1946 si schierò apertamente per la corona, anche se ripetè sempre, con insistenza, che qualunque fosse stato il risultato gli italiani avrebbero dovuto accettarlo, in nome della democrazia.
Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana
Che ne è dei presidenti una volta ex? Vanno a palazzo Giustiniani, dotato di uffici tanto bui da essere soprannominato “la tomba”. Ma, a seconda dei casi, fanno anche molto, molto altro. Carrellata. La Repubblica il 20 gennaio 2022.
Sempre che vada nel modo in cui si è detto e ridetto, è comunque difficile immaginare la vita pubblica e privata di Sergio Mattarella fuori dal Quirinale. La nuova casa, d'accordo, i nipoti, qualche lieta lettura a lungo rinviata, una sospirata libertà da incombenze e cerimoniali, anche se quella carica lascia un bel vuoto. Lo aspetta un vasto ufficio a Palazzo Giustiniani, tanto rinomato per essere il più buio di Roma che già Enrico De Nicola l'aveva soprannominato "la Tomba".
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni. E se un Parlamento è composto da coglioni, si sforneranno Leggi del cazzo.
Filosofia giuridica. Il pensiero di Antonin Scalia e la forza del testualismo. Giuseppe Portonera su L'Inkiesta il 25 Luglio 2022.
Come spiega Giuseppe Portonera nella monografia pubblicata dall’Istituto Bruno Leoni, lo scomparso giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti per 30 anni ha corroborato l’idea che le leggi devono essere interpretate secondo il significato che un cittadino avrebbe assegnato al loro tenore letterale quando sono state promulgate
Per quasi trent’anni giudice della Corte suprema statunitense, Antonin Scalia (1936-2016) è stato tra i giuristi più noti e influenti al mondo. Così influente che secondo molti commentatori la sua impostazione e il suo pensiero sarebbero maggioritari all’interno dell’attuale Corte. Alla figura di Scalia è dedicato il nuovo libro dell’Istituto Bruno Leoni, scritto da Giuseppe Portonera e uscito nella collana dei Classici Contemporanei, agili monografie sui pensatori più significativi dei nostri giorni.
Antonin Scalia è stato uno dei giuristi più importanti della storia recente statunitense. Egli è noto al nostro pubblico nazionale, o quantomeno alla sezione di esso che sta all’incrocio fra giuristi interessati alla comparazione o alla teoria generale e cittadini appassionati di cose americane. Tuttavia, mentre in lingua italiana possono leggersi pregevoli studi sui metodi interpretativi che egli ha difeso per tutta la sua vita (originalismo e testualismo), sono state finora assenti biografie intellettuali del giudice statunitense presentate in forma monografica. Probabilmente anche per tale ragione, è diffuso l’equivoco che vuole Scalia come una sorta di difensore del conservatorismo politico: è indubbio che Scalia fosse politicamente un conservatore, ma da ciò non segue che l’originalismo e il testualismo siano metodi «politicamente» conservatori, come confermato dal fatto che diversi intellettuali americani, sia libertari che progressisti, si considerano originalisti e testualisti.
Scalia ha legato il proprio nome all’idea che le leggi, compresa la Costituzione, devono essere interpretate secondo il significato che un cittadino, al tempo della promulgazione, avrebbe assegnato al loro tenore letterale. Questa idea ha, come suo corollario, non la «mitizzazione» della legge, bensì il suo rovescio. Scalia non è come il Volonté protagonista del capolavoro di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), il quale vuole la legge «immutabile, scolpita nel tempo»; di contro, egli è perfettamente conscio del fatto che leggi, prodotto umano e storicamente condizionato, possono risultare, con il passare degli anni, non più in linea con il sentire sociale: tuttavia, ed è questo il nocciolo del suo pensiero, spetta al popolo – la cui volontà «originaria» è stata fissata nell’enunciato legislativo – farsi carico della responsabilità della riforma normativa. Come ha scritto in uno dei suoi ultimi e più appassionati dissents, «Permettere che [una] questione politica […] sia considerata e risolta da un gruppo ristretto, aristocratico, del tutto non rappresentativo, di nove individui significa violare un principio ancor più fondamentale del no taxation without representation: no social transformation without representation».
L’importanza di Scalia non è dovuta, però, soltanto all’elaborazione di una teoria. Egli non è stato solo, o principalmente, un uomo di pensiero, bensì uno di azione, come si conviene al giurista che opera non nelle aule universitarie, bensì in quelle giudiziarie. Proprio i trent’anni trascorsi alla Corte suprema gli hanno consentito di rendere «popolare» la sua judicial philosophy. Eppure, se è vero che essere stato primariamente giudice ha consentito a Scalia di difendere nel modo più efficace possibile la propria teoria, è altrettanto vero che ciò lo ha costretto alle volte a vivere al di sotto delle proprie aspettative, commettendo – consapevolmente o meno – «errori», ossia mancando in alcune occasioni di impiegare correttamente la propria metodologia «originalista» e «testualista». E Scalia è stato il primo a riconoscere la propria umana fallibilità, nonché le limitazioni della stessa judicial philosophy che ha difeso per tutta la sua vita.
Ciò appare, nel modo più chiaro possibile, in una certa ambivalenza che egli ha mostrato nei confronti di Brown v. Board of Education of Topeka, 347 U.S. 483 (1954), la celebre sentenza con cui la Corte suprema ha dichiarato incostituzionale la segregazione razziale. La giustificabilità del decisum di quella sentenza alla stregua del significato originario del XIV emendamento è dibattuta, eppure Scalia si è spinto ad affermare che, anche nel caso in cui si fosse dimostrato che il significato storico del XIV emendamento non avrebbe escluso l’illegittimità della segregazione, ciò non sarebbe stato sufficiente per fargli cambiare idea sulla necessità di essere un originalista. Questo non faceva di lui né un segregazionista, né un apologeta della Costituzione come originariamente redatta: per Scalia, al netto di certi principi «eterni» (su tutti, la separazione dei poteri), il resto della Costituzione si sarebbe potuto e dovuto cambiare nel caso in cui fosse entrato in tale rotta di collisione con gli orientamenti maggioritari da risultare intollerabile.
È indubbio che, a seconda dei punti di vista, la posizione di Scalia verrà intesa o come una filosofia
dell’umiltà o come un atteggiamento pilatesco. Senza avere l’ingenuità (o l’ipocrisia) di rimuovere completamente dal quadro il peso morale che grava sul giudice chiamato a compiere «scelte tragiche», il tratto di realismo che connota questa impostazione ha il pregio di renderla, ai nostri occhi, preferibile all’alternativa, ossia alla pretesa di un giudice «erculeo», non solo sempre in grado di compiere la scelta giusta, ma quasi unico soggetto, nel contesto istituzionale, in grado di farlo.
Per dirla con Alexander Bickel, se dovessimo avere a che fare «non con problemi di disuguaglianza e di ingiustizia sociale, ma con un colpo di stato, con un tentativo da parte di una maggioranza esaltata o di una potente élite, sciolta da altri vincoli, di proscrivere e mettere fuori legge uno o un altro gruppo, o di montare un assalto fondamentale contro un governo democratico», la speranza è che «i giudici possano richiamare alla ragione [questa] società lacerata». Ma questa speranza – questa estrema e tenue speranza – può valere in tempi eccezionali solo se, in tempi ordinari, l’ordine giudiziario rifiuti il «complesso del salvatore», agendo con cautela, umiltà e rispetto del progredire, libero e disordinato, delle forze sociali.
· Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
La Magistocrazia. Così il potere giudiziario è diventato potere di governo. Il magistrato: «Le parole del Senatore Scarpinato ma anche passaggi non secondari dell'intervento del presidente Meloni sulla mafia, si muovono nell'alveo di stereotipi culturali consolidati, ma non riqualificati». Alberto Cisterna su Il Dubbio il 3 novembre 2022.
La torsione del processo penale verso obiettivi securitari rappresenta, probabilmente, uno dei più vistosi disallineamenti dello ordinamento dello Stato rispetto ai principi enunciati dalla Costituzione. In verità, tutto il modo con cui si sono concretamente costruite le relazioni tra giudice e pubblico ministero, si sono intrecciati i rapporti tra procure della Repubblica e polizia giudiziaria, si sono alterate le correlazioni tra la pena e la sua espiazione, si sono allineati le interlocuzioni tra stampa e magistratura si colloca ai margini, se non fuori dal perimetro della Carta fondamentale e di tutti gli statuti internazionali di garanzia. Si è costruito una sorta di regime franco, di condizione anomica che nessuna legge riesce davvero a riportare all’ordine, di ginepraio che nessun intervento riesce a dipanare.
E’ stata una silente eversione, o almeno un’elusione, che ha lasciato sempre ( o quasi) intatta la forma – sia chiaro, quella è sempre stata apparentemente rispettata – ma che ha favorito il proliferare di un sottobosco nelle prassi, nella costruzione delle carriere, nelle interlocuzioni del deep state tra magistratura inquirente ed enti governativi della sicurezza che contraddice qualsivoglia separazione dei poteri e rappresenta, a ogni effetto, la più potente minaccia all’autonomia della politica e alla sua indipendenza dagli altri poteri della Repubblica. Una provocazione? Sicuro, ma necessaria visti i decenni in cui si è sempre recitato il mantra di una cittadella delle toghe assediata dalla politica e minacciata nelle sue guarentigie. Ma o la riflessione collettiva ribalta i piani d’analisi e tenta almeno di percorrere sentieri perigliosi e inesplorati, o altrimenti ci si arrende alla constatazione che la spada di Brenno è sulla bilancia e, quindi, “vae victis”. Guarda caso: una spada e una bilancia, la metafora millenaria della giustizia, scolpita in ogni anfratto giudiziario dell’occidente.
Nei giorni scorsi, prima, Giorgio Spangher e, poi, Giovanni Fiandaca e Alessandro Barbano hanno da par loro analizzato sulle pagine del Dubbio i contorcimenti del processo e del diritto penale che da circa quaranta anni affliggono la giustizia italiana, in nome di perenni stati d’eccezione, rendendola un Moloch aggressivo e, talvolta, pericoloso. Luciano Violante, in un’intervista di un paio d’anni or sono, ha ricapitolato efficacemente i termini politici e istituzionali di questa condizione accusando il potere giudiziario di essere divenuto un «potere di governo» .
Una frase che pesa come un macigno e che, quindi, merita ancora oggi alcune ulteriori considerazioni: ogni riflessione sul processo penale, e in generale sugli statuti di irrogazione delle sanzioni (misure di prevenzione e misure interdittive antimafia incluse) non dovrebbe prescindere dalla considerazione che proprio la giurisdizione – e non certo da sola – ha elaborato negli anni una propria Weltanschauung, una propria precisa visione e rappresentazione del mondo, che vive e si nutre di interviste, di libri, di convegni, di relazioni ufficiali, di un’immane pubblicistica, di serie televisive di successo; tutto questo plesso culturale e ideologico – nelle declinazioni ben evidenziate da Spangher e Fiandaca) – vive e si espande in modo del tutto autosufficiente, ossia senza la necessità che la politica abbia saputo far altro che assecondarne la traiettoria e assoggettarvisi; sino a idolatrare i medesimi totem e ad ammiccare ai sommi sacerdoti officianti i riti di quella ideologia.
Questo sedime ha generato una precisa antropologia criminale, ha agevolato la lettura della stessa storia repubblicana, ha spalancato la strada a una interpretazione delle relazioni politiche, sociali, finanziarie sostanzialmente totalitaria, ossia poco o per nulla incline a tollerare obiezioni o eccezioni e a marchiare il dissenso come una sorta di eresia o di strisciante collaborazionismo con il nemico. Tutto questo è stato ricapitolato dal compianto Filippo Sgubbi in un pamphlet di ineguagliabile nitore: Il diritto penale totale (Il Mulino, 2019); un caposaldo esegetico alla cui lettura occorre necessariamente rinviare.
Una cultura egemone, quindi, esattamente nel senso gramsciano del termine, provvista di una straordinaria capacità espansiva e in grado di aggredire e metabolizzare qualunque declinazione della vita pubblica dall’economia alla scuola, dal lavoro allo sport, dalla sanità all’arte, dalla politica alla agricoltura, indicati tutti come potenziali o reali luoghi del contagio mafioso da sottoporre a controllo; per giungere a stigmatizzare finanche i capisaldi della cultura nazionale con le polemiche durissime che ancora lambiscono la figura di Leonardo Sciascia dopo il profetico articolo sui professionisti dell’antimafia.
Partita dagli angusti anfratti della mafia e da una lettura regionalistica, se non localistica, di quella drammatica realtà, la decodifica del mondo è divenuta la Stele di Rosetta con cui poter decifrare le oscure trame delle organizzazioni criminali e della politica, interpretare il reticolo dei poteri occulti, rileggere la stessa storia del paese nei suoi paurosi e, spesso, colpevoli vuoti di verità.
Non esiste settore della vita della nazione che possa e, quindi, non debba nel ministero sacerdotale che discende dal “controllo di legalità” – sottrarsi al crivello dell’indagine penale; l’inquisitio generalis è prima che un modello d’indagine onnivoro, un paradigma culturale, una vocazione intellettuale che muove e sollecita settori cospicui della giustizia penale e, si badi bene, il più delle volte in assoluta buona fede; ovvero nell’assoluta convinzione che occorra bonificare, se non purificare, la società dai mali che l’affliggono e che, per attendere a questo compito immane, sia necessario «sorvegliare e punire», prendendo a prestito la famosa endiadi di Foucault.
Né è estranea al consolidarsi – anzi alla stessa originaria, rapida legittimazione di questa impostazione – la mera trasposizione dal versante della denuncia politica a quello giudiziario della “questione morale” additata da Enrico Berlinguer nella celebre intervista rilasciata ad Alfredo Reichlin, sull’Unità, il 7 dicembre 1980; se è vero, come era vero, che i «partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia», la condivisione dell’analisi imponeva una coerente chiamata alle armi della magistratura, già impegnata contro terrorismo e mafia in quegli anni, per dare risposta al grido di dolore della parte migliore del paese.
Questa cultura interventista è divenuta la precondizione, lo strumento della precomprensione delle prove e degli indizi e del loro peso dimostrativo, la forza trainante che giustifica finanche le opzioni più discutibili e controverse, come quella sull’ergastolo ostativo che ha a proprio fondamento non la realtà concreta del trattamento penitenziario, ma l’affermazione totalitaria di un modello antropologico sottratto a qualunque discussione e imposto come indefettibile; nessuno è davvero in grado di poter affermare che solo il pentimento attesti l’abbandono di un’organizzazione criminale, almeno che questa prova non sia sostituita da un sintagma inespugnabile, dalla presunzione invincibile che non esista la mafia, ma esista la mafiosità come stimmate incancellabili dell’anima.
E così, dopo le sanguinose battaglie per abbandonare la visione ottocentesca e del primo novecento della mafia come mero atteggiamento interiore, per sconfiggere la visione antropologica di Giuseppe Pitrè («Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano», 1889), il pendolo della storia è tornato indietro e non mancano provvedimenti di irrogazione del regime speciale di 41-bis o di applicazione della sorveglianza speciale o di applicazione di un’interdittiva antimafia in cui non spiri, nell’ideologia e nell’impostazione sociologica che li giustifica, la convinzione, condivisa con Pitrè, che «anche senza conoscere la persona di cui si serve ed a cui si affida, il solo muover degli occhi e delle labbra, mezza parola basta perché egli si faccia intendere, e possa andar sicuro della riparazione dell’offesa o, per lo meno, della rivincita».
Suggestioni, deduzioni, stereotipi, massime d’esperienza, decodifiche unilaterali sono il sostrato profondo, il collante ideologico delle torsioni che Spangher e Fiandaca hanno, non da ora, sempre denunciato e stigmatizzato, con l’aggiunta che una cultura giudiziaria così sedimentata corre il rischio della sclerosi o dell’ischemia, ossia il pericolo di perdere di vista le attuali e moderne connotazioni dell’avversario e di smarrirne la prossemica criminale; in fondo le celebrazioni, gli anniversari, le commemorazioni si atteggiano quasi sempre a rievocazioni prive di un aggiornamento di quei capoversi interpretativi della realtà che pur sono stati indispensabili prima del 1982 per dare ingresso al reato di associazione mafiosa nel codice penale.
Le parole del senatore Scarpinato nel dibattito sulla fiducia, ma anche passaggi non secondari dell’intervento del presidente Meloni sulla mafia, si muovono nell’alveo di stereotipi culturali consolidati, ma non riqualificati; e, quindi, privi di concreti e riscontrabili elementi di verifica che sono indispensabili al fine essenziale di stabilire quale sia l’opzione strategica migliore per rintracciare un nemico scomparso da almeno un decennio dagli orizzonti delle indagini penali.
L’ortodossia e il conformismo culturale sono, al momento, la minaccia più grave nel contrasto ai fenomeni criminali organizzati; la dilatazione del doppio binario ( pena/ misure di prevenzione) verso fattispecie sideralmente lontane dalla mafia ( persino lo stalking), non rappresenta la dimostrazione dell’espansione inevitabile di uno strumentario ritenuto efficiente, quanto la prova della preoccupante incapacità di procedere a elaborazioni alternative, alla costruzione di modelli di investigazione che sappiano davvero leggere il moderno poliformismo della minaccia criminale per poterlo intercettare in modo non velleitario.
In fondo la debacle giudiziaria di “Mafia Capitale” dovrebbe pararsi a monito; rapidamente riposta nello scantinato della storia giudiziaria per la sua ingombrante e imbarazzante miscellanea di modelli sociologici inadeguati, presupposizioni sfocate e scoppiettanti campagne mediatiche, si dovrebbe – invece – ergere a riprova dell’insufficienza dei canoni interpretativi applicati e dell’inadeguatezza di approcci meramente e meccanicamente trasposti in un punto di caduta lontano dal loro perimetro di elaborazione.
E, giunti a questo punto, la parabola espositiva volge necessariamente al termine, ma si non può chiudere senza evocare gli scenari melmosi e mefitici, i miasmi del potere raccontati da Il Sistema; in quelle pagine (e nelle molte, molte altre non scritte e che mai si scriveranno) v’è il riflesso che quell’egemonia ha esercitato sulla costruzione delle carriere in magistratura, v’è la prova del triangolo d’oro tra pubblici ministeri disinvolti/ polizia giudiziaria compiacente/ giornalisti embedded nel carrozzone giudiziario; v’è la dimostrazione che un approccio al contrasto alla criminalità, concepito in modo geniale e profetico e a costo della vita, si sia trasformato in uno strumento di potere anzi, come diceva Violante, di governo della società, in una clava da far roteare sulle teste più o meno coronate dell’establishment e non solo.
Quando l’indagine sui politici scatta per pura “coincidenza” a ridosso del voto. Da De Luca a Fontana, da Comi a Morisi: storie di campagne elettorali giudiziarie. Simona Musco su Il Dubbio il 06 settembre 2022
Qualcuno la chiama “campagna elettorale a mezzo procura”. Si tratta degli avvisi di garanzia piombati sulla testa di candidati più o meno quotati a ridosso degli appuntamenti con le urne. Qualunque sia il livello della contesa – dalle Comunali alle Regionali, fino alle Politiche e alle Europee – nessuna competizione, in Italia, è stata risparmiata dalle entrate a gamba tesa delle procure. Che in alcuni casi, chiuse le urne con l’indagato di turno magari rimasto a casa perché ritenuto “impresentabile”, hanno poi fatto clamorosi passi indietro.
Anche l’attuale campagna elettorale, che vede Giorgia Meloni lanciatissima verso Palazzo Chigi, si è aperta con un’inchiesta, da subito definita dai membri di Fratelli d’Italia «giustizia ad orologeria» . È il caso dello tsunami giudiziario che a luglio ha decapitato la giunta di Terracina, facendo finire ai domiciliari la sindaca di FdI Roberta Tintari, accusata di reati di turbata libertà degli incanti e falso nella gestione dell’arenile comunale, poi tornata in libertà ad agosto in quanto la misura sarebbe stata «illegittima». Si tratterebbe di un piccolo assaggio, secondo chi si rifiuta di vedere nelle iniziative delle procure delle semplici coincidenze, di quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane. Anche perché la richiesta dei pm al gip era stata presentata il 23 febbraio del 2021, con la preghiera di applicare in via «urgente» le «misure cautelari coercitive» per «interrompere le condotte criminose».
Ma gli arresti sono arrivati due anni dopo, due giorni prima della caduta del governo Draghi. «Il modello Terracina evocato più volte da Giorgia Meloni come esempio di riscatto ed efficienza è stato infangato mentre il partito è in testa ai sondaggi, l’obiettivo era quello di sporcare un simbolo e di sporcare anche me, che in passato sono stato portavoce della leader di Fratelli d’Italia. È un’inchiesta ad orologeria? Le prove non le avremo mai, ma i fatti parlano chiaro», aveva commentato Nicola Procaccini, eurodeputato di Fratelli d’Italia coinvolto nella stessa inchiesta.
I casi sono tanti e molti anche eclatanti. E poco importa se il nome del personaggio destinatario di un avviso di garanzia – a volte a mezzo stampa, prima che per mano di un ufficiale giudiziario – sia o meno presente nelle liste dei candidati. Basta anche un fedelissimo, come Luca Morisi, creatore della “bestia” social che ha fatto la fortuna del leader della Lega Matteo Salvini, all’epoca affaccendatissimo con le Amministrative. Il guru della comunicazione del Carroccio era infatti finito nel mirino della Procura di Verona a settembre dello scorso anno, a pochi giorni dall’appuntamento alle urne, con l’accusa di cessione di stupefacenti. L’indagine finì con un’archiviazione «per particolare tenuità del fatto», ma quella tornata elettorale fu una stangata per la Lega, secondo cui il caso Morisi, reso pubblico dalla stampa, fu un modo per affondare Salvini. «È una vicenda meschina, attaccano lui per attaccare me», tuonò il leader del Carroccio.
Fu più fortunato Vincenzo De Luca, governatore della Campania riconfermato alla guida della Regione a febbraio 2021. La grana, casualmente, era scoppiata a due settimane dal voto, in programma a settembre 2020, un’elezione che i sondaggisti davano già in mano allo stesso De Luca, superfavorito con più di 10 punti di vantaggio sullo sfidante di centrodestra, Stefano Caldoro. La procura di Napoli gli contestava l’ipotesi di abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa, ipotesi che, a pochi mesi dalla rivelazione di Repubblica – nonostante la notizia fosse ancora coperta da segreto -, venne archiviata. L’indagine era in corso da tre anni ma «lo straordinario scoop giornalistico», ironizzò il governatore su Facebook, venne reso pubblico solo a pochi giorni dal voto. «Nel frattempo si comunica che l’organizzazione dell’Ufficio di segreteria della Presidenza attuale, rispetto a quella precedente, ha comportato un risparmio di 84.000 euro l’anno – aveva evidenziato il governatore col solito piglio -. Buon lavoro a tutti. E per il resto, non perdere tempo e non farsi distrarre» .
A giugno scorso a finire nei guai era stato un altro candidato di centrodestra, in lizza come consigliere comunale a Palermo: si tratta di Francesco Lombardo, accusato di scambio elettorale politico- mafioso, arrestato a pochi giorni dalle elezioni per aver chiesto appoggio a Vincenzo Vella, boss di Brancaccio, già condannato tre volte per associazione mafiosa. L’arresto fu annullato pochi giorni dopo e l’accusa derubricata a corruzione elettorale, ma Meloni non perse tempo a scaricarlo: «Ha fatto una cosa che per me è intollerabile in campagna elettorale – aveva commentato – per cui è giusto intanto che sia stata arrestato e poi ovviamente è giusto che noi lo sappiamo. Ci stiamo già costituendo come parte lesa perché chiaramente impatta molto su di noi l’ultimo giorno di campagna elettorale».
A maggio 2019 era toccato invece a Lara Comi, candidata di Forza Italia alle Europee e accusata di finanziamento illecito, accusa poi archiviata. «Su di lei un grande equivoco», la difese Silvio Berlusconi. Ma l’inchiesta aveva colpito anche altri esponenti del partito dell’ex presidente del Consiglio, come Pietro Tatarella, vicecoordinatore regionale lombardo di Forza Italia e candidato alle elezioni europee. A venti giorni dal voto, toccò anche il governatore leghista Attilio Fontana, accusato di abuso d’ufficio per un incarico al socio di studio Luca Marsico, rimasto senza posto in consiglio regionale. «Vergognosi attacchi all’uomo, all’avvocato, a un sindaco e a un governatore la cui onestà e trasparenza non sono mai state messe in discussione in tanti anni, né mai potranno esserlo oggi o in futuro», aveva tuonato Salvini. E anche nel caso del governatore l’inchiesta si chiuse con un’archiviazione, arrivata a marzo del 2020.
L’elenco è lunghissimo. E a volte la magistratura è intervenuta anche in momenti delicati per le compagini governative: è quanto accaduto nel 2021 con l’indagine su Lorenzo Cesa, all’epoca dei fatti segretario nazionale dell’Udc, accusa dalla procura di Catanzaro di aver favorito le cosche di ‘ndrangheta. L’inchiesta si abbatté sulle trattative allora in corso per salvare il governo guidato da Giuseppe Conte. Il M5S, all’epoca, era a caccia dei cosiddetti “responsabili”, tentando di fare entrare in maggioranza anche i colleghi dell’Udc per non far naufragare l’esecutivo del capo politico grillino.
L’allora presidente del Consiglio, per sopperire all’uscita dalla maggioranza dei renziani di Italia viva, aveva trovato un accordo con i tre senatori democristiani Antonio De Poli, Antonio Saccone e Paola Binetti, con il benestare del segretario Cesa. Che una volta ricevuto l’avviso di garanzia si ritirò da qualsiasi trattativa, facendo naufragare quel tentativo e spianando la strada al governo Draghi. «Ho ricevuto un avviso di garanzia su fatti risalenti al 2017 – disse Cesa –. Data la particolare fase in cui vive il nostro Paese rassegno le mie dimissioni da segretario nazionale con effetto immediato». Mesi dopo, l’accusa finì nel cestino, su richiesta della stessa procura, e Cesa fu scagionato. Ma ormai tutto era cambiato.
Con Panorama la voce delle eminenze grigie, gli aiutanti del potere. Lorenzo Castellani su Panorama il 27 Febbraio 2022.
C’è sempre una via che conduce al potere, ma questa via non è sempre illuminata. Di fronte o dietro ogni trono, c’è un corridoio da percorrere, una porta da aprire, un’anticamera in cui sostare. E’ in questi cunicoli che spesso i più vitali gangli del potere politico si snodano e connettono. Nella storia c’è ciò che si vede - re, dittatori, condottieri, leader politici - e ciò che non si vede - consiglieri, burocrati, banchieri, diplomatici, scienziati, santoni e spin doctor. E’ di questo potere invisibile che nel podcast ci occuperemo, con un lungo viaggio nella storia. Lontani dai riflettori, misteriosi, riservati questi personaggi si muovono con disinvoltura nei corridoi semi bui dei palazzi, delle corti, delle istituzioni. Se i loro capi sono potenti, questi uomini sono influenti. E spesso le loro decisioni, i loro consigli, i loro calcoli sono stati più importanti per la storia di quelli dei grandi protagonisti che tutti conoscono. All’ombra del potere si muovono figure che spesso sono l’emblema dell’enigma che circonda il potere stesso e che si nutrono di mistero, inaccessibilità, cinismo, spregiudicatezza. A volte sono personaggi eccentrici ed eccessivi; altre uomini frugali ed invisibili; tra di essi ci sono degli intellettuali e dei tecnici, ma anche uomini pragmatici e brutali; in alcuni casi sono amati dal popolo e in molti altri detestati; a volte sono parte ufficiale della macchina statale mentre altre agiscono come confidenti o confessori del potente. Come in un’opera teatrale, il potere può assumere mille volti e sfumature. Si può materializzare e smaterializzare. La complessità estrema del carattere di questi personaggi - spesso difficili da analizzare psicologicamente e ancor più da giudicare sul piano morale - sono forse l’oggetto di studio più interessante per chi si appassiona con la storia e la politica. Perché ciò che c’è dietro, che non si vede affatto o si vede sfocato, è sempre più interessante di ciò che c’è davanti. Si tratti di antichi regni, democrazie nascenti, stati liberali, vecchi totalitarismi, nuovi regimi autoritari c’è sempre una eminenza grigia pronta a consigliare e indirizzare i vertici del potere. Ma chi sia davvero il capo e chi sia lo strumento del potere è spesso una distinzione sfumata e complessa quando si affronta il caso delle eminenze grigie.
Molto si è riflettuto sulla leadership e sulla comunicazione negli ultimi anni, ma molto meno si è guardato agli “aiutanti” del potere politico. Una mancanza grave in un tempo come quello che viviamo, caratterizzato da istituzioni multilivello che intrecciano rappresentanza, economia e amministrazione. Le carriere di questi grandi suggeritori sono state molto diverse tra loro, a volte fatte di ascese rapide e fulminee, altre di costanza e di gradualità; alcune sono finite in gloria, altre in tragedia, altre ancora nell’anonimato. Ci sono stati uomini che hanno lavorato per una sola patria, altri per più d’una e infine ci sono quelli che si sono mossi sul piano globale. Più in generale, questo podcast vuole mostrare come il potere politico sia tutt’altro che verticale, sistema in cui decide uno soltanto oppure l’autorità ufficiale. Esso è piuttosto concepibile come una grande rete al cui centro stanno dei punti nodali che contano più di altri e che si connettono con vaste ramificazioni. È in questa posizione che vivono, prosperano e decidono le eminenze grigie.
Luca Telese per “TPI - The Post Internazionale” il 25 febbraio 2022.
Sergio Rizzo, l’autore del “La Casta”, scrive un libro su un’altra Casta.
«Quella parola e troppo spesso pronunciata a sproposito. Ma forse non in questo caso. Questa e la Casta somma: quella che oggi comanda l’Italia».
Un potere che tuttavia quasi nessuno conosce. Quello dei consiglieri di Stato. «Sono 130 in tutto: un centinaio di loro sono magistrati, gli altri consiglieri a tutti gli effetti, nominati dal governo».
Perchè sono così importanti?
«Semplice: hanno in mano le leve strategiche della giustizia e dell’economia».
Come?
«Sono al governo del Paese, si giudicano da soli con il proprio organismo di autogoverno, sono attraversati da decine di conflitti di interessi. Capita perfino che giudichino ricorsi su leggi e decreti che magari hanno scritto loro stessi.
Cose di importanza decisiva per tutti noi e, caso unico, senza possibilità di ricorrere al grado di giudizio successivo. Tuttavia nessuno ne parla, pochi ne scrivono, nessuno li controlla. Ti basta questa sintesi?».
E come può accadere?
«I politici hanno tanti difetti, ma non è mai mancata in questi anni la vigilanza pubblica sui loro errori».
Sicuro.
«Sono sotto i nostri occhi. Abbiamo potuto vedere e raccontare i loro pregi, i loro peccati, e soprattutto i loro misfatti».
Tutti conoscono la faccia di chi si vota, ma pochi conoscono i volti degli uomini di cui parli nel tuo libro.
«Questo e un primo problema. Sono funzionari dello Stato, invisibili, discreti, molto spesso anonimi. Eppure scrivono le leggi che regolano le nostre vite, e, come ti dimostrerò, spesso decidono loro anche come applicarle. Questo conflitto di interessi e un secondo problema».
Il tuo e un libro contro la magistratura?
«Al contrario, io credo che a fine intervista i lettori si renderanno conto che è un libro a sua tutela».
Addirittura.
«I consiglieri di Stato fra l’altro, come abbiamo visto, non sono solo magistrati, e per giunta non devono seguire le regole di incompatibilità che invece valgono per tutti gli altri togati».
Fammi un esempio.
«Il governo Draghi».
Perche?
«Oggi, collocati in diversi ruoli, ci sono ben 11 consiglieri di Stato. Piu Luciana Lamorgese, che guida uno dei ministeri più importanti, l’Interno. Un record».
Molti di loro sono “solo” capi di gabinetto o consiglieri. Ma tu scrivi che sono potenti come i ministri.
«Sono molto più potenti dei ministri, anche se scelti e nominati da loro. Piu influenti, anche se apparentemente li servono».
Perchè?
«Occupano i posti chiave, del potere e del sottopotere: guidano i processi».
Fammi un altro esempio.
«Partiamo dal vertice dello Stato, ovvero da Palazzo Chigi, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio?».
Ruolo rivestito oggi da Roberto Garofoli.
«E la figura politica più importante, in un governo: il vero braccio operativo del presidente del Consiglio. Anche lui e, ovviamente, un consigliere di Stato».
Un altro esempio.
«Il segretario generale di Palazzo Chigi, cioè il capo dell’amministrazione più potente del Paese? E Roberto Chieppa, figlio dell’ex presidente della Corte costituzionale Riccardo Chieppa. Anche lui e un consigliere di Stato».
E seguendo la scala gerarchica, chi c’è?
«Il capo del dipartimento degli Affari giuridici di Palazzo Chigi, Carlo Deodato. Anche lui un consigliere di Stato: svolgeva la stessa funzione nel governo Letta».
Un ruolo delicatissimo.
«Fai tu: da quell’ufficio della presidenza escono tutti i disegni di legge e tutti i decreti del governo. E c’è quasi sempre stato un consigliere di Stato».
Continuiamo.
«C’e un consigliere di Stato anche nel ministero più importante, quello che ha i cordoni della borsa dello Stato: e il capo di gabinetto del ministero dell’Economia, si chiama Giuseppe Chine».
E poi?
«Gli uffici legislativi di quel ministero sono affidati ad Alfredo Storto e Glauco Zaccardi».
Che non e consigliere di Stato!
«E magistrato ordinario, ma figlio di Goffredo Zaccardi, già consigliere di Stato, capo di gabinetto del ministero della Salute fino al settembre 2021».
E negli altri ministeri?
«Raffaello Sestini e vicecapo di gabinetto di Roberto Cingolani, alla Transizione ecologica. Nello stesso ministero il responsabile legislativo fino a novembre era il presidente di sezione del Consiglio di Stato Claudio Contessa».
E poi?
«Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha come capo di gabinetto Luigi Fiorentino. Anche lui consigliere di Stato».
Altri?
«Certo. Al ministero della Salute, alla stesura dei testi di legge c’è Luca Monteferrante. Anche lui consigliere di Stato».
E infine?
«Il capo dell’ufficio legislativo del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, e Roberto Proietti. Anche lui e un consigliere di Stato».
E ancora?
«Antonella Manzione e consigliere giuridico della ministra della Famiglia Elena Bonetti. Prima della sua nomina a consigliere di Stato era a capo dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi con Matteo Renzi».
Prima che Renzi la portasse a Palazzo era capa dei vigili urbani di Firenze e prima ancora di Marina di Pietrasanta: ne ha fatta di strada. Ma perchè dici che loro contano più di un ministro?
«Basta indagare i loro curriculum, come faccio nel mio libro, per capirlo».
Ovvero?
«I ministri passano, loro restano. I ministri hanno diversi colori politici, loro invece transitano indifferentemente da amministrazioni di destra e di sinistra senza rendere conto a nessuno delle loro scelte».
Fammi un altro esempio.
«Uno clamoroso, di questi giorni: le concessioni balneari. Su questo tema – giusto o sbagliato – il Governo gialloverde aveva deciso, allungandole fino al 2032».
E il Consiglio di Stato ha annullato quella scelta.
«Imponendo le gare, e avvisando il Governo che non può più intervenire con un decreto».
Il Consiglio sostiene di aver interpretato una direttiva europea.
«Si, e in questo caso ha ragione da vendere. Ma a me interessa un altro aspetto: un consigliere può partecipare alla stesura di un decreto o di una legge, e poi, nella sua attività, abrogarla?».
Per questo dici, per paradosso, che contano più dei ministri.
«Non e un paradosso. I ministri spesso si limitano a dare gli indirizzi politici, loro scrivono le norme e poi determinano i processi reali».
Anche i consiglieri, come i politici, cambiano ruolo.
«La maggior parte di loro, pero, come si vede, non resta mai a terra. Il 10% dell’attuale Consiglio di Stato e al governo. Sono i veri padroni della macchina amministrativa, conoscono informazioni a cui talvolta nemmeno i ministri accedono».
Pure certi politici hanno carriere lunghe.
«Se ci fai caso, soprattutto nella seconda Repubblica, la “mortalità” negli incarichi di governo e altissima. Ora ti racconto delle storie che stupiranno i lettori di TPI».
Prima di scrivere il suo libro Sergio Rizzo ha lavorato due anni. Ha consultato dossier, organigrammi, carte processuali, visure catastali e camerali. Poi ha dato alle stampe “Potere assoluto”, un libro che – appena uscito – e andato esaurito (e stato ristampato nella prima settimana) e che racconta vita morte e miracoli su «cento magistrati che comandano in Italia».
Rizzo e stato giornalista sia al Corriere della Sera che di Repubblica, scrive da anni di norme e leggi. Il tuo ragionamento e affascinante, ma si potrebbe dire: non e normale che un consigliere dello Stato serva lo Stato?
«In linea teorica sì. Ma vuoi un esempio illuminante? Il monumentale curriculum di Garofoli, uno dei migliori e più influenti consiglieri di Stato. Espertissimo».
Da quando ricopre incarichi di governo?
«Ecco qui: capo dell’ufficio legislativo agli Esteri con D’Alema, per due anni».
Ottimo esordio.
«Poi capo di gabinetto di Patroni Griffi – altro consigliere di Stato, fra l’altro – quando questi era ministro. Un anno e mezzo. Poi segretario generale della presidenza con Enrico Letta. Un altro anno».
Quindi?
«Capo di gabinetto al Tesoro con Padoan nei governi Renzi, Gentiloni e un pezzo del Conte uno. E fanno quasi cinque anni. Ora – come abbiamo visto – e sottosegretario alla presidenza, con Draghi, e devi aggiungere un altro anno».
Vuoi dire che ha ricoperto incarichi in governi di sinistra di destra, istituzionali e tecnici per un decennio almeno?
«Esatto, ed e un paradosso del nostro sistema. Garofoli e stato al governo più tempo di Berlusconi. E molto più di Letta, Renzi, Monti e Draghi messi insieme. Per me il potere reale in Italia e questo. I politici passano, i grand commis restano».
Quando inizia quella che chiami l’ultracasta del potere?
«L’ultracasta non è un termine mio: era del bravo Stefano Livadiotti, autore nel 2009 di un magnifico libro sulla magistratura. Ma per rispondere alla tua domanda: il Consiglio di Stato nasce prima del Regno d’Italia».
Addirittura?
«Sono i Savoia a crearlo, su suggerimento diretto di Metternich a Carlo Alberto».
Parliamo dello Stato sabaudo.
«Esatto: quello pre-unitario, non c’è stato neppure il 1848».
E poi?
«Importiamo il modello francese, accrescendo le funzioni di questo organismo. Poi, nel tempo, i consiglieri si separano da- gli altri magistrati, diventando un mondo a se stante. I problemi iniziano qui».
Si potrebbe obiettare che il Consiglio e un organismo costituzionale.
«Ma la Costituzione specifica che la magistratura deve essere indipendente».
E i consiglieri di Stato non sono uguali agli altri magistrati, in questo?
«Per nulla. Un magistrato non può avere altri incarichi, un consigliere di Stato si. E talvolta grazie a questi incrementa un bel po’ lo stipendio».
Possibile?
«Nel piccolo, visto che tanti di loro ad esempio insegnano, basta sommare al limite di 220mila euro i 50-60mila di una cattedra in una scuola di formazione».
E in grande?
«Immagina quanto si guadagnava un tempo con gli arbitrati. Li avevano praticamente aboliti, oggi sono riapparsi in altre forme».
Fino a quanto possono guadagnare?
«Ecco il punto. Un tetto non c’è. I guadagni privati, per esempio quelli dalle scuole private dove insegnano, non si calcolano nel limite dei 240mila euro lordi annui».
Non ci credo.
«Ma quando gli arbitrati andavano alla grande era una pacchia. Fino a una quindicina d’anni fa c’era chi portava a casa anche un milione e mezzo di euro».
Incredibile.
«Ma e cosi. E c’è un altro capitolo importante di quello che io chiamo il potenziale conflitto d’interessi permanente».
Quale?
«La giustizia sportiva. Milioni di italiani appassionati di calcio sono rimasti appesi alla diatriba tra Juve e Napoli in piena pandemia, su una delicatissima gara da disputare o meno».
E c’entra il Consiglio di Stato?
«A decidere tutto sono stati gli organi della giustizia sportiva, che pero non sono parte di una categoria autonoma. E che sono tutti costituiti da una particolare categoria di magistrati. Indovina quali?».
I consiglieri di Stato?
«Inizi a capire. Ora ti faccio un altro esempio, quello che ritengo un conflitto di interessi politico. Che il protagonista ovviamente negherà».
Ovvero?
«Goffredo Zaccardi, bravissimo consigliere di Stato: per una vita lavora nei gabinetti dei governi della sinistra. E poi diventa presidente del Tar del Molise».
Cosa vuoi dire?
«In quel ruolo si ritrova ad annullare l’elezione di un governatore di centrodestra, Michele Iorio».
Era in conflitto di interessi?
«Un ex funzionario vicino al centrosinistra che azzera l’elezione di un esponente di centrodestra: magari in punto di diritto ha ragione. Ma se fossi in lui un po’ d’imbarazzo lo proverei».
Esistono anche casi opposti?
«Il caso dei casi: Franco Frattini».
Ex ministro con Berlusconi.
«Esatto: ministro degli Esteri di Forza Italia, promosso presidente di sezione del Consiglio di Stato mentre era ministro e parlamentare, in aspettativa».
Ma era legale.
«Diranno cosi. Ma per me e incredibile. La politica diventa la prosecuzione della carriera con altri mezzi».
Ma poi accade altro?
«Certo. Frattini, anche in virtù di quell’avanzamento, diventa presidente del Consiglio di Stato, superando un concorrente che lamenta di avere più anzianità di lui».
Si parlava di lui per il Quirinale.
«Sarebbe diventato capo della magistratura, cioè di se stesso. Ma sai chi sarà a giudicare il ricorso del suo rivale?».
Non me lo dire.
«Si arriverà al Consiglio di Stato».
Quindi Frattini giudicherà sul ricorso contro Frattini?
«La ministra Dadone aveva meritoriamente proposto una legge per fermare gli avanzamenti di carriera durante gli incarichi politici».
E che fine ha fatto?
«Scomparsa in qualche cassetto».
Sui ricorsi in primo grado decide il Tar.
«Ma in appello rispetto al Tar c’è il Consiglio di Stato. Tecnicamente inappellabile, perchè non esiste un terzo grado. Ora immagina che il Tar, e dunque il Consiglio di Stato, hanno giurisdizione su tutti i contenziosi economico-legislativi del Paese. Potere vero».
E un conflitto d’interessi?
«Io credo che chi ha scritto le leggi non dovrebbe mai decidere sui contenziosi che le riguardano».
Mi dicevi dello sport. «I magistrati ordinari non possono fare i giudici sportivi».
Mentre i consiglieri di Stato? (Sorriso).
«Loro sì».
Un esempio?
«Gerardo Mastrandrea, giudice sportivo, ma anche coordinatore legislativo del Tesoro. Io mi chiedo: ma come fa?».
Parliamo di quel famoso Juve-Napoli?
«Il Napoli non si presenta alla partita: 3-0 a tavolino e un punto di penalizzazione decisivo per la corsa allo scudetto».
De Laurentis ricorre alla Corte federale.
«E chi decide? Mario Torsello. Consigliere di Stato».
E poi?
«Vanno alla Cassazione sportiva: e il presidente chi e? Sempre Franco Frattini».
Improprio, ma non grave.
«Dipende. In questi organismi di giustizia ci sono anche gli avvocati amministrativi. Tu ti trovi al fianco di uno in una Corte sportiva, e poi come controparte in un procedimento ordinario. Capisci? Poi succedono pasticci come quello di Chine».
Sempre lui?
«Si è trovato a giudicare sulla Lazio. Ed e successo un macello: c’è stata anche una interrogazione parlamentare, perchè il figlio giocava nella Lazio!».
Un altro caso?
«Pasquale De Lise. Da presidente del Tar Lazio, si trova a giudicare un ricorso di Lotito contro la Consob. E giudica a favore di Lotito. Ma poi magari gli sarebbe capitato di avere a che fare come presidente della Cassazione sportiva con la squadra di Lotito. Una commistione di ruoli che non va».
Siamo alla fine, chiudi con una perla.
«Le scuole per diventare magistrati o avvocati, come puoi immaginare, sono molto ambite».
E ti credo.
«Bene, tra le tante società che si occupano di formazione, che fanno soldi, ci sono alcune società, che hanno sede a Bari».
Non ci vedo nulla di strano.
«Nemmeno io. Se alcune di loro non facessero capo alle consorti di consiglieri di Stato».
Curioso. Piccole società didattiche? «Insomma. I bilanci che ho controllato dicono che dal 2008 la prima ha fatturato 30 di milioni di euro, e la seconda 14».
Incredibile.
«Fidati. Relazioni, intrecci, incarichi, porte girevoli. Nel vuoto degli altri poteri, nella crisi della politica, questa e la casta delle caste».
Quei cento giudici che fanno casta: agli amministrativi è permesso tutto. Luca Fazzo il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il saggio punta i riflettori su un gruppo ristretto di magistrati, dai Tar al Consiglio di Stato. Rizzo: "Sono legati alla politica, spesso sono nei posti chiave dei ministeri e ricevono incarichi extra".
Un potere dentro il potere, una Casta con la toga impelagata in profondità col mondo della politica e degli affari in un viluppo di clamorosi conflitti di interesse: è il sistema della giustizia amministrativa, poche centinaia di magistrati che - dai Tar regionali fino al Consiglio di Stato - dettano legge fuori da ogni controllo. È questo il quadro desolante che ne traccia Sergio Rizzo in Potere assoluto, il saggio in uscita in questi giorni per Solferino. E che dal marcio nella giustizia penale, dal degrado nelle correnti e nelle Procure raccontato dal caso Palamara, sposta l'attenzione verso un mondo di cui invece si è sempre parlato poco.
«L'idea del libro - racconta Rizzo - nasce proprio dalle percezioni che di questo mondo si sappia pochissimo. Eppure è un crocevia decisivo. Da una parte i giudici amministrativi si muovono al di fuori di ogni controllo, rendendo conto solo a se stessi; dall'altra sono però legati da un cordone ombelicale al mondo della politica». A fare di questi magistrati poco noti dei personaggi decisivi c'è anche il fatto che sono spesso loro a costituire l'ossatura del potere esecutivo. «Forse non tutti lo sanno - dice ancora Rizzo - ma in buona parte dei posti chiave dei ministeri e del governo ci sono giudici amministrativi: persino l'attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, una delle figure chiave dell'esecutivo, è un giudice del Consiglio di Stato. Sono dentro gli uffici legislativi dei ministeri, scrivono le norme che loro stessi poi sono chiamati ad applicare. Le loro carriere incrociano quelle della politica e ovviamente ne vengono condizionate. La cosa incredibile è che mentre lavorano nei ministeri continuano a maturare anzianità come magistrati e ad avere avanzamenti di carriera».
Tra i privilegi dei magistrati amministrativi c'è la possibilità di svolgere incarichi stragiudiziari: possono insegnare nelle scuole, possono fare arbitrati. Quasi grottesco è il quadro che in Potere assoluto viene tracciato del funzionamento della giustizia sportiva, anch'essa affidata in buona parte a giudici amministrativi. Sono incarichi quasi sempre non retribuiti, si dirà. Ma nei tribunali del Coni e delle federazioni i giudici siedono insieme agli avvocati, si crea una contiguità, una colleganza tra figure che il giorno dopo, in una udienza davanti al Tar o al Consiglio di Stato, dovrebbero essere ben distanti. «Si tenga presente - chiosa Rizzo - che il mondo della giustizia amministrativa è un microcosmo dove tutti conoscono tutti e tenere i ruoli separati sarebbe decisivo. Quanti sanno che il presidente del comitato di sorveglianza di Alitalia è anche segretario del Consiglio di Stato?».
Consigliere di Stato era il giudice Francesco Bellomo, diventato famoso per come gestiva le scuole per aspiranti magistrati. «Ma non è un caso isolato, a Bari mogli di giudici amministrativi hanno partecipazioni in case editrici che stampano i libri... Avere frequentato i corsi di un giudice importante è un titolo che i regoli non prevedono ma che pesa comunque».
Il libro punta il dito contro il funzionamento del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Csm dei giudici amministrativi, che sembra condividere - nella sostanza se non nella forma - le storture del Csm ordinario. E ad accomunare le due categorie di giudici è anche il sistema delle «porte girevoli», con giudici che vanno in politica, poi rimettono la toga e danno torto alla parte avversa. Rizzo racconta il caso di Goffredo Zaccardi, che dopo aver lavorato per i governi Prodi e D'Alema tornò in servizio e annullò le elezioni in Molise vinte dal centrodestra. Caso non dissimile, ricorda, da quello del giudice Giancarlo Sinisi che dopo tre legislature in Parlamento per la sinistra tornò in magistratura. E condannò Augusto Minzolini, allora senatore di Forza Italia. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Goffredo Buccini per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022.
Il fantasma di Attilio Brunialti non ha mai smesso, in fondo, di turbare i sonni dei suoi successori. Con la sua aura di astuzia e competenza, certo, qualità principali anche delle generazioni di consiglieri dopo di lui: le stesse doti che lo portarono a dirimere magistralmente, nel lontano 1907 (ancora in tempi di Non expedit e mangiapreti), una questione esplosiva sui crocefissi, da rimuovere o meno nelle scuole, grazie a un memorabile «escamotage evasivo» (il crocefisso, come la lavagna, «è suppellettile essenziale» in aula); ma anche col suo fardello di spregiudicatezza, che lo trascinò nel 1913 sotto accusa davanti ai suoi colleghi, per arbitrati opachi.
La medesima spregiudicatezza che, nella sua ultima fatica saggistica, Sergio Rizzo pare attribuire a una parte non proprio minore di chi riempie oggi (e ha riempito in tempi recenti) le stanze ovattate di Palazzo Spada, nella Roma antica del rione Regola. Un edificio cinquecentesco ignoto a tanti, eppure sede di un vero gnommero di poteri e sottopoteri incrociati in modo quasi mai illegale ma spesso e volentieri incestuoso, tra coincidenze di controllori e controllati, generose prebende e dorate remunerazioni: il Consiglio di Stato, organo decisivo nella risoluzione dei rapporti, talora assai conflittuali, tra Stato, amministrazioni pubbliche e privati.
Potere Assoluto, in uscita per Solferino in questi giorni, mette così a fuoco (e sul fuoco, nel senso di... graticola) « i cento magistrati che comandano in Italia »: e, comandando davvero, lontano dai riflettori della pubblica vanità, sono dunque spesso sconosciuti, tranne che agli addetti ai lavori. Rizzo ce li svela nella loro umanissima natura.
A quindici anni da La Casta che, scritto con Gian Antonio Stella, gli valse la notorietà (denunciando come certa politica caricaturale fosse diventata oligarchia insaziabile) e, forse non casualmente, nel trentennale di Mani pulite, ci racconta come chi decide sul serio nel Belpaese non siano né i politici né i pubblici ministeri, tanto spesso in conflitto tra loro, ma quei dotti mandarini che alla politica sono assai prossimi e rappresentano «la scheggia più autoreferenziale della magistratura».
Quelli che scrivono leggi e decretano come applicarle. Hanno «in mano i ministeri», «che i ministri gli danno volentieri in gestione chiamandoli a fare i capi di gabinetto» grazie agli «incarichi fuori ruolo». Quelli che possono cambiare con una sentenza il destino di interi settori dell'economia nazionale, far decadere un presidente di Regione, annullare la nomina di un procuratore. Che arbitrano lucrosi arbitrati. E governano persino l'insopprimibile passione italica del calcio, tramite incarichi nelle corti federali. «Il Consiglio di Stato», sostiene Rizzo, «è il nocciolo duro del potere».
Intendiamoci: in sé non c'è nulla di esecrabile nell'essere un fuoriclasse della dottrina e nello scalare, perciò, più in fretta i gradini che conducono a uno status di grand commis e perfino di riserva della Repubblica. E sarebbe puerile descrivere un ganglio essenziale dello Stato come una compatta consorteria di colendissimi furbacchioni.
Dunque, si tratta di capire e distinguere. Più ancora che in altri saggi di denuncia, Rizzo pare affrontare qui la questione soprattutto in termini di inopportunità e cortocircuito del potere: «La giustizia italiana ha un problema grande come una casa e fa finta di non vederlo... L'autoreferenzialità, è questo il problema, ha infettato in profondità tutte le magistrature mortificando l'efficienza e il merito. Con il paradosso che è la degenerazione di un principio sano, quello della separazione dei poteri e dell'autonomia dei magistrati».
E i più autoreferenziali di tutti (anche grazie al loro «Csm» ad hoc, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa) ci appaiono qui gli illustri inquilini di Palazzo Spada. Nel sostenerlo, Rizzo concede come di consueto pochissimo alla seduzione narrativa e offre invece al lettore tanta sostanza di cifre, sentenze e circostanze che, se pazientemente seguite, disegnano un ordito di grande efficacia. Senza rinunciare a qualche target maggiore, s' intende.
Come nel caso di Franco Frattini, già enfant prodige di lunghissimo corso della politica nazionale, fresco presidente del Consiglio di Stato e soprattutto fresco «quirinabile» caduto nella settimana rovente della rielezione di Mattarella soprattutto a causa di qualche vecchia dichiarazione russofila (piuttosto improvvida se riletta in costanza di crisi dell'Ucraina).
Rizzo ne viviseziona carriera, promozioni e arbitrati, ponendo in questione il criterio stesso di anzianità alla base della progressione di ruolo: «Dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato () ne ha passati decisamente più della metà in aspettativa, a fare politica».
E che politica: già celebrato ispiratore di quella «pistola caricata a salve» che fu nel 2004 la legge sul conflitto d'interessi così sensibile per Berlusconi, il nostro ottiene «la promozione in magistratura» (nel 2009, a presidente di sezione del Consiglio di Stato), mentre ne è fuori, essendo deputato del Popolo della Libertà e ministro degli Esteri nell'ultimo governo del Cavaliere. Con buona pace «per la separazione dei poteri».
Non si pensi tuttavia che tanta attenzione sul dottor Sottile del berlusconismo sia dettata da malanimo. Sarà opportuno rammentare che Frattini sconta a Palazzo Spada il successo (che, come sempre predica Berlusconi, attira «invidia sociale», spesso tra colleghi e ricorrenti) e la notorietà, in una confraternita di potenti quasi sempre senza volto. Ma Rizzo è bipartisan, ne ha per tutti e per tante tristi vicende della nostra Italia.
Dallo scandalo della P2, coi suoi diciotto magistrati irretiti da Gelli (di cui uno del Consiglio di Stato), alle più recenti imprese dell'avvocato Amara (pietra dello scandalo di innumerevoli fascicoli giudiziari); dalle cene di qualche giureconsulto rampante con l'immancabile Luca Palamara e col lobbista Fabrizio Centofanti, alle relazioni pericolose tra il penale e l'inopportuno che s' infilano nella carne viva di Palazzo Spada, fino (poteva mancare?) alla gara Consip che è una specie di sacro Graal dei trafficanti d'influenze italici.
Poiché non tutto può essere indignazione, non manca un sorriso triste, infine, di fronte all'impresa da maratoneta di quel consigliere che corre la Roma-Ostia in un'ora e quaranta poco dopo aver proposto causa di servizio per un'ernia del disco provocata, a suo dire, «dall'aver sollevato pesanti fascicoli processuali». Fra tanti scranni occupati da terga autorevoli, uno strapuntino per Totò non poteva mancare.
“I magistrati sono la vera casta”. Parola di Sergio Rizzo. L'autore che con la "Casta" contribuì a cambiare le sorti del paese, ora in un altro libro ammette: "L'autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi". Valentina Stella Il Dubbio il 4 febbraio 2022.
“Potere assoluto – I cento magistrati che comandano in Italia”, è il titolo del nuovo saggio del giornalista Sergio Rizzo (Solferino Editore, pagine 256, euro 17), in cui svela storie, protagonisti, conflitti d’interesse e retroscena inediti della casta più nascosta e potente del Paese: «i consiglieri di Stato. Ovvero, il nocciolo duro del potere in Italia».
Il libro, di cui discuteremo con l’autore venerdì 4 febbraio alle 19 sulla pagina Facebook del Dubbio, cade a fagiolo, considerato che solo poche settimane fa il Consiglio di Stato è stato al centro della cronaca giudiziaria per aver decapitato i vertici della Cassazione. Quest’ultimo aspetto è ritenuto talmente problematico che si torna a parlare seriamente di un’Alta Corte: Rizzo riprende l’idea di Luciano Violante preoccupato del «rischio che “la magistratura amministrativa diventi il soggetto che, al di là della Costituzione, decide delle promozioni e delle sanzioni dei magistrati“. Al di là della Costituzione. Vero. Ma questo può accadere – prosegue Rizzo – perché, “al di là della Costituzione”, l’autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi».
Fra tutti i 10 mila e passa magistrati italiani i Consiglieri di Stato sono quelli più vicini alla politica. «Al punto da indirizzarne talvolta le scelte importanti. Gli spetta per legge – scrive Rizzo – il compito di esprimere pareri e suggerimenti sulle iniziative del governo. Pareri e suggerimenti, si badi bene, talvolta vincolanti». Ma il vero asso nella manica di questi magistrati è la possibilità di assumere incarichi diversi da quelli strettamente giudiziari, andando «fuori ruolo».
Hanno in mano i ministeri, come capi di gabinetto, e «perfino il processo legislativo della nostra democrazia, visto che, come esperti giuridici dei ministri, scrivono le leggi e ne gestiscono il funzionamento attraverso decreti attuativi predisposti da loro stessi», trasformandosi così negli uomini più potenti del Paese. «Nel governo di Mario Draghi ce ne sono undici: il 10 per cento dell’intero Consiglio di Stato».
Rizzo fa i nomi, individua i strani giri che fanno non uscendo mai da quelli che contano, e anche le preziose parentele: chi sono, lo scoprirete leggendo il libro. Il testo è ricco di storie realmente accadute, come si suol dire: a cominciare dalla partita non giocata tra Juventus e Napoli durante la pandemia e che divise l’Italia a metà. Il giudice sportivo e «consigliere di Stato Gerardo Mastrandrea infligge alla squadra di De Laurentiis non soltanto la sconfitta a tavolino per 3-0, ma la condisce per sovrapprezzo con la penalizzazione di un punto in classifica. […] Si può sempre fare ricorso alla Corte federale d’appello. E chi è lì il presidente? Manco a dirlo, un altro consigliere di Stato. Resta tuttavia ancora una chance estrema. Il Collegio di garanzia dello sport del Coni».
E chi è il presidente? «Un terzo consigliere di Stato che spunta in questa assurda vicenda: Franco Frattini», ora divenuto Presidente del CdS. Ma nel saggio si fanno anche i conti in tasca alla magistratura amministrativa, con esiti sconcertanti: le spese per l’informatica sono passate dagli 8,3 milioni del 2013 per schizzare a 23 milioni nel 2020, per poi leggere, nel bilancio di previsione, che la spesa sarebbe salita in soli tre anni a 52 milioni e mezzo. «La botta è così pesante che uno dei quattro membri laici, Salvatore Sica, chiede lumi. Fa mettere a verbale che vuole vederci chiaro lamentando “l’assenza di un’adeguata e dettagliata indicazione dei costi e della ratio sottesa alla spesa”. Ma poi la sua uscita non sortisce effetti. Gli spiegano che a fare le gare è la Consip e che l’aumento deriva anche da questo (!)».
Ma non finiscono qui le bizzarrie per Rizzo. Nel mirino del suo racconto entra pure Frattini e la sua nomina nell’aprile 2021 a Presidente aggiunto del CdS, contro la quale fa ricorso il consigliere di Stato Giuseppe Severini: «dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato alla nomina come numero due di Palazzo Spada, Frattini ne ha passati decisamente più della metà a fare politica, in aspettativa. Esattamente, precisa il ricorso di Severini, diciotto anni e mezzo». Ma non c’è nulla da fare, tutto regolare perché con una motivazione che «assomiglia a un triplo salto mortale con doppio carpiato del maestro di sci Frattini» si dice che «l’aspettativa presa per ragioni “extra istituzionali”, come quelle politiche, si può equiparare al cosiddetto “fuori ruolo”. Che cosa significa? In sostanza, un consigliere di Stato che va in aspettativa perché viene eletto alla Camera con un partito, e perciò non prende lo stipendio, è come se andasse a fare il capo di gabinetto di un ministero conservando la busta paga». La vicenda di cui parliamo per Rizzo «sta a dimostrare quanto sia robusto il cordone ombelicale di certa magistratura con la politica. E quanto l’indipendenza del potere giudiziario possa rivelarsi in determinate circostanze un concetto abbastanza vacuo».
Da "la Verità" il 4 febbraio 2022.
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo stralci da Potere assoluto, ultimo libro di Sergio Rizzo in vendita da oggi (Solferino libri, 256 pagine, 17 euro). Il popolare giornalista si concentra su influenza e soldi attorno ai magistrati più potenti d’Italia: Csm, consiglieri di Stato, procuratori. Il brano proposto tocca il tema dei corsi di formazione dei magistrati, assurto alle cronache per il «caso Bellomo».
Ma, al di là delle vicende pecorecce, Rizzo dà conto dell’intreccio di società decise a difendere fatturati pazzeschi: sono quelle che organizzano appunto le docenze per preparare le future toghe agli esami. Tra i protagonisti di queste società occupa un posto di primo piano Maria Elena Mancini, moglie di Roberto Garofoli, potente uomo di Stato che, a seguito di un lunghissimo cursus honorum, è oggi sottosegretario di Mario Draghi a Palazzo Chigi.
L'epicentro delle scuole di formazione è in Puglia, fra Bari e il circondario. Prendiamo la storia della Dike Giuridica Editrice. Tutto comincia l'11 dicembre 2006, quando una giovane e intraprendente signora barese, Sandra Della Valle, va dal notaio per costituire una società, la Dea immobiliare. Quel nome però sopravvive pochi mesi. Il 24 maggio 2007, infatti, Sandra Della Valle ci ripensa. Si reca da un altro notaio, questa volta a Palombara Sabina, nei pressi di Roma, e cambia tutto. La sua società non si chiama più Dea immobiliare bensì Ildirittopericoncorsi.it.
E non si occupa di case e terreni ma di corsi di formazione per i concorsi pubblici che deve sostenere chi vuole fare, per esempio, il magistrato. Una metamorfosi assolutamente singolare, dettata da chissà che cosa. Ma contestualmente alla modifica della denominazione sociale e dello statuto arriva anche un secondo azionista, che rileva l'1%. Si tratta di Nicola Campione. [...] Ancora pochi mesi e l'irrequieta imprenditrice Sandra Della Valle torna dal medesimo notaio di Palombara Sabina per cambiare di nuovo il nome della società. Che il 4 febbraio 2008 viene così battezzata con il nome, si spera definitivo, di Dike Giuridica Editrice.
Scopo sociale: «Pubblicazione e commercializzazione di opere prevalentemente in materia economico-giuridica» e «l'organizzazione di corsi per la preparazione a esami universitari e concorsi statali». Il rapporto d'affari fra la signora Della Valle e Nicola Campione prosegue per anni evidentemente in modo prolifico, se il 4 dicembre 2017 i due costituiscono un'altra società, stavolta in accomandita. Si chiama Training & Law di Nicola Campione sas.
Oggetto, la «formazione professionale, nonché la preparazione a esami universitari e concorsi pubblici» e «la pubblicazione di opere editoriali prevalentemente in materie economico-giuridiche». Praticamente la fotocopia dello statuto Dike. E stavolta compare anche un terzo socio, appena diciottenne: Antonio Caringella, il figlio di Sandra Della Valle e di suo marito Francesco Caringella. Proprio lui. Perché la proprietaria della società Dike nonché socia dell'attivissimo Campione è la consorte di uno dei consiglieri di Stato più noti e stimati nel circuito della magistratura amministrativa. Francesco Caringella, nato, come la moglie, a Bari, è dal 1998 al Consiglio di Stato, dove ha scalato i gradini più impervi raggiungendo l'invidiabile posizione di presidente di sezione. [...]
Caringella è diventato fra i consiglieri di Stato una specie di recordman degli incarichi «extragiudiziali» di insegnamento. A dire la verità ha fatto anche una puntatina nel mondo degli arbitrati, come presidente del collegio che doveva decidere la controversia da 15 milioni fra la Fiat e la Tav. Ma niente al confronto dell'attività didattica, regolarmente autorizzata dal Csm del Consiglio di Stato: in una decina d'anni ha superato agevolmente 300.000 euro di compensi per le sue lezioni.
Pagate anche 800 euro l'una. Dal 2008 ha collezionato quasi una ventina di incarichi, tutti in società private di corsi di formazione e preparazione per concorsi da magistrato o esperto giuridico. Legate, all'apparenza, da uno stesso filo rosso barese. Nella lista non poteva mancare la Dike di sua moglie, presso cui il Consiglio di giustizia amministrativa lo ha autorizzato nel 2019 a tenere un corso che gli ha fruttato 60.000 euro lordi. Poi c'è l'Accademia Juris Diritto Per Concorsi, una srl di Bari di proprietà del barese Carlo Giampaolo.
Ha un indirizzo di posta elettronica certificata curiosamente identico alla penultima denominazione sociale assunta dalla Dike: ildirittopericoncorsi@pec.it. Talmente identico che assai difficilmente ci può essere un caso di omonimia. Soprattutto ci sono la Lexfor e la Corsolexfor, da cui Caringella ha avuto una dozzina di incarichi di docenza. Si tratta di società che fanno capo al socio della consorte, Nicola Campione, barese, classe 1964: il quale risulta in entrambe azionista di minoranza con altri due soci baresi, ma è amministratore unico. [...]
Per la serie poi «le coincidenze non esistono», la Corsolexfor di Campione, socio della moglie di Caringella, ha sede a Molfetta, trenta chilometri da Bari. E in via San Francesco d'Assisi al numero 51. Dove si trova una sorpresa. Lo stesso indirizzo ospita anche tre società operative nello stesso campo dei corsi di formazione per esami e concorsi pubblici e dell'editoria giuridica. Neldiritto Editore srl, Nld Concorsi e Omniaforma sas, queste le tre sigle, hanno anche la medesima proprietaria originaria di Bisceglie, altra città sempre vicino a Bari: Maria Elena Mancini.
Un'altra moglie. Maria Elena Mancini è infatti la consorte di Roberto Garofoli. Consigliere di Stato fra i più conosciuti e influenti, già capo di gabinetto del ministro della Pubblica amministrazione e poi presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, nonché dei ministri dell'Economia Pier Carlo Padoan e Giovanni Tria. Fino all'incarico più prestigioso e politico: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, braccio destro del capo del governo Mario Draghi. Garofoli, pugliese di Taranto, mostra una tale passione per l'insegnamento al punto da tallonare da vicino per numero di incarichi «extragiudiziali» didattici autorizzati il suo collega e amico Caringella.
Un paio li ha svolti presso la società Neldiritto di sua moglie Maria Elena Mancini. Ma la stragrande maggioranza commissionati sempre da Lexfor e Corsolexfor di Nicola Campione: talvolta in parallelo con Caringella. [...] Le società di formazione dal pedigree barese (una decina), ruotano intorno alle figure di alcuni magistrati. Tutte o quasi sono diventate operative a cavallo del 2007-2008, quando è iniziato il boom delle scuole private per i concorsi di giustizia. Da allora e fino alla fine del 2019, secondo quanto è stato possibile calcolare, hanno incassato 66,1 milioni.
Con utili netti per 7,8. Il tutto ampiamente per difetto perché i bilanci delle società in accomandita semplice non sono reperibili nelle banche dati delle imprese di capitali. Il solo fatturato delle due srl di Maria Elena Mancini, la moglie di Garofoli, ha quasi raggiunto 30 milioni: 29 milioni 937.000 euro. E gli utili netti sono ammontati a 2 milioni 248.000 euro. La Dike di Sandra Della Valle, moglie di Caringella, ha registrato un giro d'affari di 14 milioni 251.000 euro, per 410.444 euro di utili netti.
Nel 2019 Sandra Della Valle ha poi venduto la propria quota, allora del 94%, all'avvocato di Bari Marco Giustiniani per 115.000 euro. Nei soli anni successivi al 2015, quando Corsolexfor e Lexfor hanno abbandonato lo status di accomandite per trasformarsi in srl, le attività di Nicola Campione e degli altri azionisti hanno sommato ricavi pari a 7 milioni 513.000 euro, e profitti netti per 1 milione 684.000 euro. Ancora. Alla Accademia Juris, società di Carlo Giampaolo, i corsi hanno fruttato 622.000 euro di utili netti, su un fatturato di 6 milioni e mezzo. E poi dicono che in Italia la giustizia non funziona.
Caiazza: «Che assurdità le toghe che scrivono leggi per riformare se stesse». Il presidente dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza: «Una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani con l'Anm». Simona Musco Il Dubbio il 3 febbraio 2022.
Altro che svolta: la nuova riforma del Csm «sarà scritta dai magistrati, con un metodo parasindacale». A dirlo è Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, secondo cui per affrontare la crisi della magistratura sarebbe stato necessario affrontare il problema delle valutazioni di professionalità – positive quasi nel 100% dei casi – e dei fuori ruolo. Temi sui quali è proprio l’Ucpi a lavorare per una riforma di iniziativa popolare. «In questo progetto di riforma – spiega Caiazza al Dubbio – si parla solo di sistema elettorale. E francamente non è questa la soluzione alla crisi».
La nuova riforma del Csm è attesa come una svolta. Ma a conti fatti saranno gli stessi magistrati a decidere quale sarà il loro futuro, col rischio che tutto cambi affinché nulla cambi.
Questa riforma, diversamente da quella sul processo penale, che ha coinvolto molti più soggetti, tra cui noi, è in corso di definizione tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati, secondo una logica parasindacale. Ma una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani con l’Anm. Mentre noi penalisti siamo stati, credo proficuamente, coinvolti nella riforma del processo penale, qui siamo stati tenuti fuori, come chiunque altro. Ed è significativo. Questa è la prima osservazione di metodo.
Il dibattito si sta concentrando essenzialmente sul sistema elettorale, come se fosse l’antidoto ultimo alla crisi. Basta?
No. È un aspetto che consideriamo marginale rispetto alle ragioni della crisi della magistratura. Immaginare che si possa riformare l’ordinamento giudiziario modificando il sistema elettorale del Csm è una sorprendente illusione, che ha colpito anche la politica, negli anni. Non crediamo che ci saranno grandi differenze, qualunque modifica si riuscirà a fare.
Sorteggio compreso?
Il sorteggio avrebbe certamente un impatto molto forte. Anche se comprendiamo che si arrivi a questa idea per disperazione, da parte di chi vuole riformare, a noi penalisti l’idea del sorteggio non piace. È e rimane una sgrammaticatura democratica, una soluzione disperante e disperata. Se siamo a un livello di crisi così ingovernabile da avere il bisogno sorteggiare i componenti di un organismo costituzionale di quell’importanza siamo veramente alla frutta. Se poi dobbiamo prendere atto che siamo alla frutta va bene.
Quali sono i problemi da affrontare con priorità?
In primo luogo il problema della progressione delle carriere. Il motivo per il quale il sistema delle nomine non funziona, con le sue derive correntizie, è che le carriere procedono automaticamente, come è noto, con valutazioni positive oltre il 99%. Così, quando si deve scegliere un procuratore capo o il presidente di una Corte d’Appello, si troveranno sempre cinque o sei magistrati che avranno lo stesso curriculum e saranno considerati equivalenti. È naturale, con questo appiattimento.
La grande riforma della magistratura passa dunque, prima di tutto, dalla riforma dei meccanismi di progressione di carriera e quindi della valutazione di professionalità, che avrebbe anche il pregio di responsabilizzare il magistrato per ciò che fa. Se il magistrato non risponderà mai a nessuno della qualità del proprio lavoro, come succede adesso, sarà totalmente deresponsabilizzato, perché tanto andrà avanti ugualmente. Di tutto questo, nel progetto di riforma, non c’è nulla, se non l’introduzione di un ulteriore livello di giudizio. Ma è una cosa assurda.
La vicenda dei vertici della Cassazione ne è un esempio?
I ricorsi al Tar riguardano un’enorme quantità di nomine di magistrati, in tutta Italia. Dovrebbe essere la magistratura a capire, per amor proprio, che deve recuperare dei meccanismi di merito nell’avanzamento delle carriere, in modo da non dover vedere sindacare ogni cinque minuti le proprie scelte e le proprie stesse regole. Sa, le circolari sulle valutazioni quadriennali sono severissime e presuppongono un’analisi veramente approfondita per far andare avanti chi merita e lasciare indietro chi non merita. Ma è carta straccia.
Questa valutazione è stata annientata, in nome di principi di autonomia e indipendenza, con la conseguenza che non si sa più chi sia capace e chi no. E lo decide il Consiglio di Stato, il che crea un problema di tensione istituzionale molto forte tra magistratura ordinaria e amministrativa. Quest’ultima vicenda è clamorosa perché colpisce i vertici della magistratura, e grave perché queste decisioni non possono intervenire dopo due anni che si esercitano le funzioni. Ma non è una cosa nuova: è la conseguenza di quella gravissima disfunzione. È proprio per questo che noi stiamo lavorando a due grandi leggi di iniziativa popolare su distacchi dei magistrati e valutazioni professionali. Lavorandoci posso dire che non è facile costruire un’alternativa. Quindi non banalizzo, ma bisogna farlo.
L’altro tema è, appunto, quello dei fuori ruolo, sul quale più volte l’Unione delle Camere penali ha posto l’accento.
Abbiamo appreso con soddisfazione dell’inserimento di una delega che prevede, molto genericamente, una riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo. È un piccolo segnale di attenzione nei riguardi di una tematica cruciale, perché questa è una cosa unica al mondo. Ma dovrebbe essere una riduzione prossima all’azzeramento: non si capisce per quale ragione un magistrato che vince un concorso dovrebbe andare a fare una cosa diversa dal concorso che ha vinto, laddove poi c’è una carenza di giudici e di magistrati. E non è solo un problema di percentuale, ma anche di ruoli apicali, cioè politici, che dovrebbero essere preclusi al magistrato, per evitare la commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo. Ci vadano i funzionari di carriera, i professori universitari: perché ci deve andare un magistrato? Noi pensiamo che le leggi le facciano il Parlamento e il governo e che la magistratura le applichi. Questa cosa che la magistratura debba scrivere le leggi e soprattutto su se stessa e sulla riforma di se stessa a noi pare un’assurdità.
Altro punto è la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari.
E si torna al grande tema della valutazione professionale. Nel momento in cui diciamo che bisogna far saltare in aria questo sistema ipocrita delle valutazioni quadriennali, un ruolo importantissimo sarebbe proprio quello degli avvocati. La loro è la voce del foro. Guardi, capisco la delicatezza, perché il diritto di voto dell’avvocatura nei consigli giudiziari diventa un’assunzione di responsabilità enorme ed esige una indipendenza di giudizio veramente straordinaria, perché l’avvocato dovrà esprimere un giudizio sui magistrati con i quali deve lavorare tutti i giorni. Siamo consapevoli che si tratti di qualcosa che richiede un impegno formidabile, anche eticamente. Ma come si può immaginare che la voce dell’avvocatura non debba avere peso nel giudizio dell’operato di un magistrato?
Giovanni Bazoli: «La P2 non finì con Calvi e cercò di ostacolarmi. Convinsi Berlusconi a comprare il Milan». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l’11 dicembre 2022.
I 90 anni dell’avvocato e banchiere: «Da bimbo fui nascosto in una casa di Paolo VI. Vidi Moro, ebbi un presagio»
Giovanni Bazoli, qual è il suo primo ricordo?
«Una passeggiata con mio padre Stefano e mio fratello Luigi, sui monti sopra il Tonale. Una fatica improba; ma non potevo arrendermi. A dire il vero, mi sembra di ricordare pure mia madre; anche se è impossibile».
Perché?
«Morì che avevo tre mesi».
Per le conseguenze del parto?
«No. Si ferì alla guancia con una rosa, nel giardino di casa, a Brescia. Con gli antibiotici o almeno i sulfamidici sarebbe guarita in sette giorni. Invece in sette giorni morì. Papà ci ha lasciato un diario dell’agonia, per raccontarci chi fosse nostra madre, Beatrice Folonari. Ancora adesso non riesco ad aprirlo senza emozione».
Suo padre si risposò?
«No. Era un uomo esuberante e aveva solo 32 anni. Ci andò vicino alcune volte, ma rinunciò: non voleva darci una “matrigna”, come si diceva allora. “Tutto è morto con Bice” scrisse. Da allora visse ogni cosa con un distacco di fondo: un suo amico osservò che gli eventi gli giungevano come un “ronzio di api”. L’unica ragione di vita eravamo noi figli. Papa Paolo VI mi disse una volta di aver conosciuto mia mamma, descrivendola come una donna “bella, intelligente, buona”. In quest’ordine».
Paolo VI per lei era una figura di famiglia.
«Suo fratello Ludovico Montini era socio nello studio legale di papà; poi si aggiunse Gianni Martinazzoli, il fratello di Mino. Durante l’occupazione nazista eravamo nascosti a casa di Vittorio Montini, il cugino del futuro Papa».
Come andò?
«Mio padre era legato agli ambienti antifascisti di Brescia. Quando doveva vestirci da balilla, recitavamo una giaculatoria da lui coniata contro il Duce. Durante la guerra fu arrestato e scarcerato. Quando stavano per tornare a prenderlo e deportarlo in Germania, fuggì con me e Luigi in Val Trompia, sopra Concesio, in un rifugio quasi inaccessibile, dove si arrivava solo a piedi».
Concesio è il paese natale di Paolo VI.
«Infatti il rifugio apparteneva alla sua famiglia. Quando non ce la faceva più a stare chiuso, papà saliva la montagna con la gerla da contadino sulle spalle. La domenica, mentre lui restava nascosto, mio fratello e io scendevamo in paese per la messa e il pranzo a casa Montini, dove il Papa era nato e che ora è sede dell’istituto Paolo VI. Un giorno vidi un rastrellamento: i militi fascisti e le SS gettavano gli uomini a forza sui camion, le donne piangevano disperate, una scena terribile... Andavo in bici a lezione dal parroco di un paese vicino, una volta mi buttai in un fosso per sfuggire a un mitragliamento. Arrivavano notizie terribili: conoscenti impiccati o morti nei lager. Ma Radio Londra assicurava che la fine della guerra era vicina».
Com’era il vostro rifugio?
«Una casupola abbandonata, con una stanza al pianterreno, un’altra di sopra, e il bagno fuori. La notte bisognava stare al buio per non attirare le bombe di Pippo, l’aereo inglese. Sotto le coperte, alla luce di una lampadina senza pila che tenevo accesa muovendo di continuo la mano, lessi un intero libro d’avventure, “La tragedia di Mountheron”. Ogni sera nostro padre ci leggeva un capitolo del Don Chisciotte. Spesso, in risposta a una mia domanda ingenua — a cosa serve la poesia? —, recitava Dante e Manzoni».
Come ricorda la liberazione?
«Ricordo una fila di autocarri che scendono dalla valle verso la città, pieni di partigiani che sventolano bandiere, e la gente ai lati della strada, felice, festante. Recitai a mio padre: dagli atri muscosi dai fori cadenti... Lui rispose: lo vedi a cosa serve la poesia?».
E la battaglia elettorale del 1948?
«Andai ad ascoltare il comizio di De Gasperi a Brescia. Non era un grande oratore, oggi forse avrebbe difficoltà a imporsi come leader; ma all’epoca conquistava la folla con le buone ragioni. Andai anche al comizio di Togliatti, ma con sospetto: era il nostro avversario».
Suo padre, già eletto nel ’46 alla Costituente, divenne deputato.
«Però nel ’53 la Dc bresciana non lo ricandidò. Anche mio nonno Luigi, tra i fondatori del partito popolare, nel 1919 era rimasto fuori dal Parlamento, ma per sua scelta. “Roma è pericolosa” ammoniva».
Non c’erano donne nella sua vita?
«A parte la balia, mi fece da mamma zia Anita: una ragazza figlia di un setaiolo della Val Trompia, fallito dopo la stretta monetaria di Mussolini, che aveva messo fuori mercato la filiera della seta. Anita si era adeguata a fare lavori umili per mantenere il papà, che viveva una vita poverissima. Una santa. È morta in casa nostra a 93 anni».
Aldo Moro l’ha mai conosciuto?
«L’ho visto. Una volta accompagnai mio padre a salutarlo, a messa, a Ortisei. Un’altra volta andai a sentire una sua conferenza in un teatro di Brescia, all’uscita lo attendevano alcuni contestatori. Quando Moro passò, ebbi netta la sensazione di una tragedia incombente sul suo capo: come se fosse una vittima designata. Ho sempre avuto presentimenti».
Questi presentimenti l’hanno mai guidata nelle decisioni cruciali della sua vita?
«No. Non vengono a comando. Spesso sono futili. E divertenti».
Ad esempio?
«Amo il bel calcio, e quest’anno ho seguito il Napoli, che finora ha perso una sola partita, a Liverpool. Su una punizione ho sentito chiaramente che il Napoli avrebbe segnato, ma poi avrebbe subito due gol. È finita così, anzi peggio perché poi il gol del Napoli l’hanno annullato per un fuorigioco millimetrico».
Dopo la laurea lei andò a vivere a Milano con Nino Andreatta.
«Mi ospitò in un piccolo appartamento in via Durini. Un giorno ci trovammo chiusi in casa, perché la porta aveva una serratura particolare: anche per uscire ci voleva la chiave, e Nino, genio distratto, ovviamente l’aveva persa. Allora lui si mise a cavalcioni sul davanzale della finestra, per richiamare l’attenzione dei passanti che venissero a liberarci...».
Nel 1982 fu Andreatta, con Ciampi, ad affidarle l’Ambrosiano dopo il drammatico fallimento.
«Era una sera di fine luglio. Nel salone delle assemblee della Banca d’Italia, con il governatore e il direttorio, c’erano i rappresentanti delle sette banche che avevano accettato la proposta respinta dalle grandi banche milanesi: farsi carico dell’Ambrosiano dopo il crac e la morte di Calvi. Quando fu annunciato che il nuovo presidente era Bazoli, tutti si guardarono attorno: non mi conosceva nessuno».
E lei?
«Mi alzai in piedi e dissi: Bazoli sono io. Ma non ho ancora accettato, anzi ho molte riserve».
Chi la convinse?
«Ciampi e Andreatta mi presero sottobraccio e mi portarono in giro nei corridoi della Banca d’Italia. “Non posso accettare, sono un giurista non un economista” dicevo. “Se è per questo io sono laureato in lettere” rispose Ciampi. “E poi per il lavoro che l’attende la sua preparazione giuridica tornerà utilissima”. Ma la frase che mi convinse fu un’altra».
Quale?
«Andreatta disse, con aria delusa: “Pensavo che fosse venuto anche per te il momento di uscire dalla tua vita riservata e tranquilla, di fare qualcosa per il tuo Paese. Ma se non ti senti di assumere questa responsabilità, non insisto”. Ci rimuginai per ore. E accettai».
Per Ciampi e Andreatta.
«Non solo. Allora si parlava di Sindona e di Calvi come di “banchieri cattolici”. Mi proponevo di dimostrare che un cattolico si può occupare di finanza in modo corretto. All’epoca ero più ingenuo di oggi, più convinto che gli esempi servissero. E volevo dare un esempio non solo di legalità, ma anche di non avidità».
Qualcosa avrà pur guadagnato.
«Certo, quanto mi permette di vivere bene. Ma ho rinunciato all’avvocatura, e in alcuni decenni ai vertici del sistema non mi sono arricchito. Le disuguaglianze eccessive stanno distruggendo la democrazia».
Nella costruzione di quella che sarebbe diventata la più grande banca d’Italia, lei si scontrò con Cuccia. La Comit voleva comprare la sua Ambroveneto; alla lunga ha comprato lei la Comit. Come andò?
«Dopo l’aggressione fallita della Comit nel 1994, tra me e Cuccia erano iniziati colloqui riservati. Venne anche a casa mia a Brescia. Due anni dopo, nell’ottobre del ‘96, fu messa in vendita la Cariplo. L’acquisto si presentava molto interessante sia per noi sia per la Comit. Ma erano passate poche settimane dalla morte improvvisa di mio fratello, e non me la sentivo di affrontare un’altra battaglia con Comit e Mediobanca. Così pensai di chiedere a Cuccia se sarebbe rimasto neutrale».
E lui?
«Gli confidai subito il mio stato d’animo, così angosciato da farmi pensare di ritirarmi dalla banca. Cuccia mi interruppe: “La posso comprendere, Bazoli. Due giorni fa, dopo sessant’anni di vita insieme, ho perso mia moglie”. La notizia era stata tenuta riservata; e lui non aveva disdetto l’appuntamento. Profondamente commosso, mi alzai. Ci abbracciammo».
Con Berlusconi che rapporto ha avuto?
«Non ci siamo mai scontrati, nonostante le mie idee politiche, che notoriamente non coincidono con le sue, e l’amicizia con Prodi. Conosco Berlusconi da quando era soltanto un imprenditore di successo. Lo incoraggiai a comprare il Milan».
Berlusconi non voleva?
«Temeva, comprando una squadra, di perdere la simpatia dei tifosi delle altre; e lui voleva piacere a tutti. Gli feci notare che, come dimostrava Agnelli, possedere una squadra non impediva di essere ammirato, anzi».
È vero che Agnelli le affidò il Corriere in punto di morte?
«Lo vidi per l’ultima volta quando era molto grave e sofferente. Era il giorno in cui si presero a Torino decisioni drammatiche per la Fiat: fu respinta l’idea di Mediobanca, che voleva affidarla a Bondi e ridimensionarla. Parlammo per più di mezz’ora. Agnelli mi disse: “In Rizzoli abbiamo fatto un buon lavoro. Ho detto al mio avvocato di non prendere nessuna decisione senza parlare con lei”».
L’avvocato dell’Avvocato era Franzo Grande Stevens.
«E Grande Stevens mi riferì di aver capito che la raccomandazione fosse più vasta: parlare con me non solo di Rizzoli, ma di tutto».
Perché, secondo lei?
«Perché Agnelli mi trovava diverso dagli uomini che frequentava. Curiosissimo com’era, voleva sapere cosa fosse mai questo mondo che non conosceva, le banche cattoliche...».
Con Berlusconi lei rischiò di incrociare le armi nella campagna elettorale del 2001. Andreatta la indicò in un’assemblea dei parlamentari del centrosinistra come candidato premier ideale. E tentò di convincerla.
«Era il 7 dicembre 1999. Andammo alla prima della Scala, Muti diresse magistralmente il Fidelio, ricordo Nino in piedi che non smetteva di applaudire. Il mattino dopo le mogli uscirono a passeggio, e lui mi parlò per due ore, nel tentativo di persuadermi. Poi andammo insieme a messa in Duomo. Io non gli dissi di sì, anzi, obiettai che dovevo occuparmi della fusione tra Comit e Cariplo. Ma lui tenne lo stesso quel discorso ai parlamentari; anche se non fece il mio nome, parlò genericamente di un federatore...».
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, Andreatta entrò in coma. Sarebbe riuscito a convincerla a sfidare Berlusconi?
«Non lo so. Certo quel discorso di Nino sulla responsabilità aveva avuto su di me una certa presa… Comunque alla fine dissi no a Prodi, a Bruxelles, dove presiedeva la Commissione europea».
Andreatta morì oltre sette anni dopo, senza aver mai ripreso conoscenza.
«Sua moglie Giana e i figli furono straordinari. Io andavo regolarmente a trovarlo. Non saprò mai se mi riconoscesse. Mi piace pensarlo felice, come quando andavamo insieme in vacanza al mare, in Grecia o in Turchia. Nino non sapeva nuotare, ma volle imparare: legato alla barca, con il salvagente, si compiaceva dei suoi progressi, come un gigantesco bambino. Dopo la morte di Luigi, era diventato per me come un fratello».
Luigi Bazoli morì in un incidente stradale.
«Dopo aver perso la moglie Giulietta nella strage fascista di piazza della Loggia. Lasciarono tre figli. Confesso che per molto tempo non sono riuscito ad accettare la sua morte».
Eppure lei una volta ha detto: «Senza la Provvidenza, non avrei fatto nulla». Quindi crede alla Provvidenza.
«Sì. La Provvidenza è la risposta di Dio alle preghiere degli uomini. Ed è meraviglioso pensare che ciò possa avvenire attraverso i santi, le persone morte che ci hanno amato. L’intero Vangelo non è che un invito a pregare: “Chiedete e vi sarà dato”. La liturgia è preghiera: la Chiesa non fa altro che pregare. Ma la fede del credente incontra sempre momenti di prova: perché resta da spiegare la preghiera non esaudita. Il male, la sofferenza, l’ingiustizia. E oggi, per la prima volta nella storia, la scienza offre risposte alternative, sino a mettere in crisi l’idea stessa di creazione. Anche per questo il mondo ha sempre meno fede».
Com’era il suo rapporto con il cardinal Martini?
«All’inizio mi accolse con freddezza. Calvi finanziava la Biblioteca Ambrosiana, e l’arcivescovo temeva che il rapporto si interrompesse. Dovevamo vederci per un primo incontro di cortesia; restai con lui un’ora e mezza. Nacque una consuetudine. Una volta gli dissi che alla Chiesa occorreva un nuovo Tommaso, una nuova Summa. La volta successiva mi mise ko. Si era presentato con un tomo gigantesco di un gesuita sul metodo: “Cominci da qui!”».
Poi però non deve offendersi se Dagospia la chiama Abramo Bazoli.
«Infatti non mi offendo. Non sono particolarmente suscettibile».
Com’è morto Calvi?
«Ormai è provato che sia stato ucciso. Sulla banca la sua figura è rimasta a lungo come un’ombra. Molti anni dopo la sua morte, al ritorno da una riunione del Fondo monetario a Washington vennero a prendermi all’aeroporto e mi portarono di corsa da Passera, allora amministratore delegato, che mi informò con grande allarme e cautela, temendo di essere spiato, che era stata rinvenuta una cassetta di sicurezza intestata a Calvi...».
E cosa c’era in quella cassetta?
«Niente. Dei giornali. E un mattone. Non si è mai saputo che cosa significassero. Certo, quando fu ucciso, aveva dei mattoni al collo».
Che idea si è fatto della P2?
«Era strettamente intrecciata al mondo di Sindona e Calvi. Sopravvissuta a loro, ha cercato in tanti modi e in diversi tempi di ostacolare il cammino del Nuovo Banco, l’operazione di pulizia affidatami da Ciampi e Andreatta».
Pensa che ci fosse lo zampino della P2 pure nel processo di Bergamo, quello per la Banca Ubi, da cui lei è stato assolto in primo grado?
«Sarò ingenuo, ma non lo credo. A mio parere, il processo è originato da gravi contrasti nel mondo bergamasco. Non ne posso parlare perché il pm ha fatto ricorso, non è ancora finita. Certo, si è trattato di un’esperienza terribile: sono stato intercettato, mi hanno pedinato come un malfattore. E ancora oggi mi pare paradossale, incredibile, essere stato imputato di ostacolo alla vigilanza».
Perché?
«Perché tutto quello che ho fatto è stato appoggiato dalla Banca d’Italia. Legga cosa mi scrisse Ciampi alla fine della mia presidenza: “Il Paese, caro Bazoli, deve esserti grato per il servizio reso in trent’anni di attività, prestato con spirito disinteressato e con grade signorilità...”».
Come giudica il governo Meloni?
«Mi sono imposto di mettere da parte ogni pregiudizio ideologico. Riconosco l’alto significato democratico dell’ascesa al potere di una giovane donna, senza nulla alle spalle che l’abbia favorita, guidata soltanto dalla sua intelligenza e volontà. Concita De Gregorio l’ha definita una fuoriclasse. Lo sarebbe se alzasse il livello della politica riportando l’Italia a un ruolo di primo piano in Europa, come era riuscito a Draghi. Altrimenti, il suo successo sarà effimero e di breve durata, come è accaduto ai suoi predecessori».
C’è un leader che può salvare il centrosinistra?
«Il problema non è il leader; è l’anima del partito. A Enrico Letta, più che la colpa di non aver realizzato una missione impossibile, dovrebbe essere riconosciuto il merito di aver schierato il Pd sulla linea atlantica».
E il suo quasi-genero Beppe Sala?
«Ha fatto bene a resistere alle tante sollecitazioni che ha ricevuto. E a ribadire che si sente impegnato a fare il sindaco, dopo appena un anno dalla fiducia che i milanesi gli hanno confermato».
In Lombardia il Pd avrebbe dovuto sostenere la Moratti?
«Come molti elettori del Pd, non mi sono per nulla ritrovato nella posizione presa dagli organi regionali. Un partito di minoranza che, per dirla con Carlo De Benedetti, fa lo schizzinoso con chi proviene dalla maggioranza, sceglie di restare minoranza».
Alla soglia dei novant’anni, la morte le fa paura?
«Mi fa paura l’idea del tempo che scompare. Vorrei avere ancora una stagione da vivere per le tante cose incompiute. Nonostante la speranza, il passaggio è traumatico».
Come immagina l’Aldilà?
«Va ripensato il concetto di anima, che fa parte della nostra educazione tradizionale, ma è di derivazione platonica. Il Vangelo promette molto più dell’immortalità dell’anima; promette la resurrezione della carne. L’Aldilà sarà la ripresa di questa nostra vita umana, ma del tutto rinnovata: senza più affanni, perché liberata dal male. Sarà il ristoro dell’ingiustizia. Sarà illuminato il grande mistero in cui siamo immersi».
Emma Marcegaglia: «Quando papà fu rapito andai da un santone. So essere aggressiva». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 2 settembre 2022.
«Le donne in azienda fanno casino». Alla battuta di Steno Marcegaglia, la figlia Emma ribatteva: «Anche io papà sono una donna». «No, tu Emma non sei una donna». C’era già tutto il percorso futuro di Emma Marcegaglia in quello scambio di battute tra un padre capitano d’industria, fondatore della Marcegaglia Spa, e una figlia promettente che avrebbe conquistato un incarico dietro l’altro, alcuni ricoperti per la prima volta proprio da una donna.
Presidente di Confindustria dal 2008 al 2012, presidente della Luiss dal 2010 al 2019, presidente di Eni dal 2014 al 2020. In qualche modo ha smentito suo padre? «Mio padre ha avuto sempre molta fiducia in me, dandomi le pari opportunità di mio fratello Antonio: era un sostenitore delle donne e ha sempre lavorato a fianco di mia madre».
Era orgoglioso del percorso fuori dall’azienda? «Molto, ma mi riportava sempre con i piedi a terra. Ricevevo i complimenti di Angela Merkel e il giorno dopo lui mi ricordava “sì, va bene, ma ora risolviamo quella questione con la banca”. Una volta gli dissero: “Ah, lei è il papà di Emma”. E lui: “No, Emma è mia figlia».
Altre battute che oggi parrebbero strane? «Per mio padre un uomo in gamba era un “ragazzo da marciapiede”. Un giorno per elogiarmi pubblicamente disse: “Emma è una ragazza da marciapiede”...»
La sua infanzia. «Sono cresciuta a Gazoldo degli Ippoliti, 1500 abitanti in provincia di Mantova. Le compagne di classe erano le figlie degli operai di mio padre. Un’infanzia serena, dove l’uomo nero era il comunismo: io e mio fratello orecchiando in casa i discorsi tra i miei genitori quando giocavamo proteggevamo le mie bambole dall’arrivo dei comunisti».
Dove si sono conosciuti i suoi genitori? «In paese. Il parroco disse a mio padre: “Sposala, questa è una brava ragazza”. Lui che era un mezzo genio scapestrato, nato poverissimo, ha ascoltato il consiglio».
Un ricordo di suo padre. «Avendo sofferto la fame quando ti vedeva lasciare qualcosa nel piatto ti invitava a finirlo. Gli piaceva il diritto, ha cominciato a difendere i contadini dai latifondisti: da ragazzo diceva che avrebbe voluto fare il Papa. Lavorava 20 ore al giorno e fumava 4 pacchetti di sigarette».
Un ricordo di sua madre. «Un’alleata di ferro per mio padre: quando papà venne rapito, neppure cinque minuti dopo aver appreso la notizia, chiamò il direttore della banca per andare a prelevare i soldi. All’epoca c’era il blocco dei beni. L’unica cosa che papà non ha mai davvero superato è stata la malattia di mia mamma».
Che ricordi ha del sequestro? «Avevamo un’azienda ad Arzano, in provincia di Napoli: venne rapito di sera. In famiglia c’era una autentica disperazione: io e mia madre, due persone parecchio razionali, andammo persino da un santone».
Avete mai pensato di non rivederlo? «Il rischio fu concreto. I sequestratori erano dei ragazzotti, papà diceva loro: “Se mi fate uscire di qui vi insegno a diventare ricchi in Borsa”. Avevano abbassato la guardia e lui riuscì a fuggire. Venne però ripreso e sarebbe stato ucciso se quel giorno un elicottero fosse stato in volo sopra l’Aspromonte. In quel preciso posto c’era mio padre, che venne salvato».
Il momento del ritorno in famiglia? «Prima di venire a casa è andato in azienda per vedere che tutto fosse a posto e per rassicurare gli operai. Diceva che grazie al rapimento aveva scoperto la fede».
L’imprenditore Steno Marcegaglia (1930-2013) con il figlio Antonio (a sinistra) e la secondogenita Emma
Lei è nata il 24 dicembre. In famiglia si festeggiava più il Natale o il suo compleanno? «A Mantova in realtà il Natale coincide con Santa Lucia, il 13 dicembre. La sfortuna è che il regalo era uno solo: ma ho sempre puntato sulla qualità. Mio padre aveva l’abitudine di viaggiare durante quei giorni: partivamo per la Malesia, la Persia e Bali con la nonna materna e gli zii. Nove persone in viaggio, dei Natali non tradizionali».
Una donna internazionale ma con Mantova nel cuore. «Ho fatto le scuole a Mantova, poi mi sono trasferita a Milano per frequentare la Bocconi e in seguito a New York, dove ho trascorso gli anni più formativi. Ma tra una tappa e l’altra tornare in una città piccola mi rassicurava».
Gli Stati Uniti. «Otto mesi intensi, bellissimi, con la tentazione forte, ogni tanto, di non tornare più. Studiavo alla New York University a Wall Street ma abitavo ad Harlem alla International House. Andavamo a ballare al Limelight o al Club 54. Mio padre mi chiamava di sera e mi chiedeva: “Emma, ma tu torni, vero?”».
Il rientro in Italia. «Mia mamma mi venne a prendere a Malpensa. Per me tornare in pianta stabile nel paesino fu uno shock. Ho trascorso una settimana a letto, mi hanno fatta vedere persino dai dottori, pensavano che in America mi avessero dato chi sa che cosa».
È sempre stato chiaro che lei avrebbe lavorato nella azienda di famiglia? «Per tanti anni ho studiato danza classica. Però ho sempre respirato l’aria della fabbrica».
Una giovane Emma Marcegaglia mentre si esercita alla sbarra
Il suo ingresso alla Marcegaglia Spa. «Non facile. Arrivavo per terza, dopo papà e mio fratello, ed ero donna. Mio padre ebbe una intuizione felice: mi mandò a lavorare ad Albarella, l’isola turistica nel Delta del Po dove il gruppo aveva concentrato investimenti turistici e immobiliari. Un bel banco di prova».
Confindustria. «Dopo il Consiglio direttivo dei giovani imprenditori di Mantova, mi venne proposto di ricoprire l’incarico di vicepresidente nazionale. A 42 anni sono diventata presidente. Mi piaceva mettermi alla prova su cose diverse».
È stata la prima donna a ricoprire quell’incarico. «Anche in Luiss sono stata la prima donna».
Continui primati. «Sono stata anche la prima presidente di Business Europe, la prima italiana dopo Guido Carli. Sono stati i tedeschi i miei grandi sostenitori: mi dicevano che avevo un carattere tedesco dentro a un corpo italiano».
Essere donna destava perplessità? «Sedevo nei direttivi con Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti, Cesare Romiti: ero l’unica donna e avevo l’età dei loro nipoti. All’inizio mi guardavano con l’aria “come è gentile e carina Emma”. Per un periodo ho ascoltato senza intervenire troppo, poi a un certo punto ho alzato la mano e hanno apprezzare anche le idee».
Un commento sul genere che l’ha offesa? «Atteggiamenti. Del tipo: “Siamo sicuri che sei in grado di fare questa cosa? “. Ho imparato ad essere umile, ma anche aggressiva: se qualcuno ti sta per fare del male devi sbranare».
In cosa vengono più attaccate le donne? «Nel loro essere donne: se una si fa sentire è subito un’isterica o con gli ormoni sottosopra. Oggi va meglio, ma c’è ancora tanto da fare. Per questo mi piace aiutare le donne più giovani a non fare i miei errori. Sono una tutor».
Le quote rosa. «Se servono per avere più donne al comando vanno bene: c’è il rischio che qualcuna non sia così brava, ma pensiamo a quanti uomini poco competenti hanno avuto ruoli di potere».
Ha mai pianto sul posto di lavoro? «Sì, ma più per emozione che per rabbia. Quando mi arrabbio mi concentro, è più facile che pianga per gioia».
Il dress code di una donna al comando? «Non mi sono maschilizzata, ho deciso che dovevo essere me stessa. La divisa da lavoro mi ha sempre intristita, mi sento più a mio agio con un bell’abito. Ma certamente un look “conforme” ti mette più al riparo».
Emma Marcegaglia ricevuta da Papa Benedetto XVI nel 2009, quando ricopriva la carica di presidentessa di Confindustria
Da ex Presidente dell’Eni come vede la situazione energetica che si sta profilando in seguito al conflitto in Ucraina? «Insostenibile. Il rischio che parecchie imprese decidano di fermare la produzione o di chiudere è reale. E se un’azienda si ferma, si fermano anche i lavoratori: il che vuol dire cassa integrazione e un inasprimento del clima sociale, povertà per le famiglie e per il Paese. Non possiamo permettercelo. L’Europa deve intervenire, ogni giorno che passa è tardi».
Lei conosce bene i protagonisti della vita politica italiana: cosa si aspetta che facciano per il Paese in un momento così delicato? «Che continuino ad agire e a reagire con la stessa tempra di responsabilità, resilienza e dinamismo con cui nel corso della nostra storia, abbiamo superato altre prove difficili, sovvertendo tutti i pronostici e dimostrando al mondo che siamo un grande Paese».
Gli imprenditori che le piace ricordare? «Primo tra tutti Vittorio Merloni: straordinario. Poi Giorgio Squinzi, mio successore in Confindustria: una persona speciale».
I suoi predecessori in Confindustria: Luca Cordero di Montezemolo «Un grande team maker. Ha un’incredibile abilità nel saper scegliere le persone giuste per creare la squadra vincente.
. «Il padre nobile di Confindustria».
Eni. «Un anno dopo che è morto mio padre, Matteo Renzi mi ha cercata. Ho chiesto a mio fratello e a mio marito. Entrambi mi hanno detto di poter contare su di loro. È il luogo dove ho imparato di più».
Sposata da 20 anni con l’ingegnere Roberto Vancini e mamma di Gaia, 19 anni. «Con mia figlia ho un rapporto meraviglioso. Da piccola ha sofferto la mia esposizione: la imbarazzava una mamma con la guardia del corpo e spesso al tg. Quando la andavo a prendere alle gite faceva finta di non conoscermi».
Un segreto del successo? «Essere tranquilli anche a casa, con qualcuno su cui poter contare sempre».
Montezemolo: «Io figlio di Agnelli? Con mia mamma ci ridevamo su. Ma fu come un padre». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.
L’ex presidente della Ferrari e fondatore di Ntv: «Marchionne voleva diventare primo azionista dell’azienda e mi ferì per il modo in cui mi mandò via»
Luca di Montezemolo, qual è il suo primo ricordo?
«Il vestito della domenica. E le gite fuori porta in Vespa, attraversando una Bologna ancora semidistrutta dalla guerra: papà alla guida, mamma dietro, io in mezzo, ovviamente tutti senza casco».
Com’era la sua famiglia?
«Vengo da due famiglie molte diverse. I Montezemolo sono piemontesi, aristocratici, militari. Mio nonno era il comandante di Bologna. Suo fratello, mio prozio Giuseppe, fu un eroe della Resistenza, ucciso alle Ardeatine».
Tacque sotto le torture.
«Gli strapparono le unghie. Ma non tradì i suoi uomini. Sono sempre stato molto vicino a sua moglie Iuccia e a suo figlio Andrea, che divenne cardinale e fece gli accordi tra la Santa Sede e Israele».
E la famiglia di sua madre?
«Sono legatissimo a Bologna, dai nonni ho preso i valori degli emiliani: gente di passione, con facilità di rapporti umani, e capacità di inventarsi mestieri nuovi. Ho sempre avuto molti amici veri, e diffidato delle persone senza amici. La mia formazione è stata diversa da quella, che trovo un po’ provinciale, dei giovani della borghesia romana: sempre insieme, all’Argentario e a Cortina... A me interessava conoscere il mondo e frequentare tutti gli ambienti, il figlio di Susanna Agnelli e il figlio del portiere; e mi è stato utile».
Preferibilmente il figlio di Susanna Agnelli.
«Innanzitutto Susanna Agnelli è stata una donna di grande impegno sociale, che ha fatto moltissimo per i bisognosi e i malati. Una delle cose di cui sono più orgoglioso nella vita è aver ereditato da lei l’impegno di Telethon. E poi, sì, il mio primo amico è stato suo figlio, Cristiano Rattazzi. Siamo anche stati insieme al collegio navale Morosini di Venezia».
Lei però rimase solo un anno. Perché?
«Perché la carriera militare non faceva per me. Tornai a Roma e studiai al Massimo, dai gesuiti».
Dove trovò Mario Draghi. Com’era?
«Ero in classe con Gianni De Gennaro, il futuro capo della polizia. Draghi era in un’altra sezione. Un ragazzo molto serio, con la passione della pallacanestro. I gesuiti furono un’ottima scuola. Anche di fede».
Lei ha fede?
«Molta. Quando mi sento sfiduciato, mi chiudo tre giorni nel santuario della Verna, dove san Francesco ricevette le stimmate; e quando ne esco sono un altro uomo».
Lei è considerato un uomo di comunicazione, di pubbliche relazioni.
«La verità è che io nella vita mi sono fatto veramente il culo. Ho lavorato tantissimo. Di sabato, di domenica. Alla Ferrari ho rivoluzionato la gamma dei modelli, rifatto la fabbrica, decuplicato il fatturato, vinto 19 mondiali tra costruttori e piloti...».
Come conobbe Enzo Ferrari?
«Quando nel ’68 le università erano occupate, Cristiano e io ne approfittammo per correre i rally. Eravamo bravini, fui preso dalla Lancia. Un giorno ero ospite in radio: “Chiamate Roma 3131”, condotta da Boncompagni. Chiamò un ragazzo per dire che l’automobilismo era uno sport per ricchi; io risposi che non era vero, che Bandini era figlio di un meccanico... Il caso volle che Ferrari stesse ascoltando. Telefonò: “Lei ragazzo ha gli attributi, venga a trovarmi».
E lei?
«Io mi ero laureato in giurisprudenza e volevo fare l’avvocato penalista. Ero entrato nel carcere di Porto Azzurro per intervistare Fenaroli, quello del delitto. Poi avevo vinto una borsa di studio alla Columbia. Ma nei primi giorni del gennaio 1973 andai a trovare Enzo Ferrari; e lui mi chiese di fargli da assistente. I miei ci rimasero malissimo: “Ti metti a giocare con le macchinine?”».
Di Ferrari raccontano fosse un uomo molto duro.
«Aveva le sue manie: non è mai venuto a Roma in vita sua, non ha mai preso un aereo o un ascensore, quando cedette la Ferrari all’Avvocato la firma si fece al pianterreno di corso Marconi. Ma era un uomo straordinario. Mi ha insegnato due cose: non arrendersi quando le cose vanno male; chiedere sempre di più, a se stessi e ai collaboratori, quando le cose vanno bene. Aveva un talento naturale per il marketing: il cavallino di Baracca, le auto tutte rosse, l’accortezza di far aspettare anche se la macchina era pronta. Ogni tanto arrivava in treno da Roma il decano dei concessionari, e ripartiva con l’auto per il cliente. Era Vincenzo Malagò, il papà di Giovanni; una volta andò via con una Rossa per Mastroianni. La Ferrari per Enzo era come una donna bellissima, che si fa desiderare».
Luca Cordero di Montezemolo con Gianni Agnelli (Fotogramma)
Ma non vinceva da tempo.
«Luglio 1973, Brands Hatch, il mio primo Gran Premio. Qualifiche: Jacky Ickx sedicesimo, Arturo Merzario diciottesimo. Telefona Ferrari: “Ci ritiriamo. Caricate le macchine sui camion e tornate a casa”».
E lei?
«Lo convinsi a correre. Ma poi ci fermammo davvero, per due gare. Cominciò la ricostruzione. Ci consigliarono Jean-Pierre Jarier, ma io volevo prendere Niki Lauda, che aveva fatto bene con la Brm. Mi sparò una cifra in scellini austriaci, dovetti andare in edicola a comprare il giornale per sapere quanto chiedesse...».
Nei quattro anni successivi, Niki Lauda vinse due Mondiali, ne perse altri due all’ultima corsa, e rischiò di morire bruciato.
«Dopo il rogo del Nurburgring andai in clinica a parlare con il medico. Mi disse che la notte sarebbe stata decisiva: bisognava tenerlo sveglio, perché aveva respirato gas velenosi, e doveva muovere i polmoni. Niki sentì tutto. E restò sveglio. Quaranta giorni dopo era già in pista a Monza. Quando indossò il casco si riaprirono le ferite, grondava sangue».
Ma al Fuji, in Giappone, sotto la pioggia, si ritirò.
«Forghieri gli propose: diciamo che hai un problema alla macchina. Replicò: no, diciamo la verità; correre in queste condizioni è una follia».
L’anno prima Lauda aveva vinto il Mondiale proprio a Monza.
«Era il 7 settembre 1975: uno dei due giorni più belli della mia vita, a parte quando sono nati i miei cinque figli. Clay Regazzoni vince il Gran Premio d’Italia, e Lauda è campione del mondo. Telefono a Enzo Ferrari, e intuisco che è commosso. Non l’avevo mai sentito piangere».
E l’altro giorno più bello?
«8 ottobre 2000. Michael Schumacher sta per conquistare il titolo dopo 21 anni. L’Avvocato mi telefona quando mancano due giri alla fine: “È fatta, grazie, grazie...”. Io sono superstizioso, e gli dico: “Avvocato, aspettiamo...”. Ma sento che lui, come Ferrari, è commosso».
I festeggiamenti per la vittoria della Ferrari al Mondiale in Malesia del 2000
Anche l’Avvocato non l’aveva mai sentito piangere?
«Una volta, a Roma, all’ultimo concerto di Frank Sinatra, ebbi l’impressione che si fosse emozionato, ascoltando My way».
Com’era l’Avvocato?
«Diverso da come lo raccontano. Ad esempio era molto italiano».
Cosa intende?
«Amava il calcio, le auto. Non era affatto disinteressato al cibo: la prima volta che da ragazzo andai a trovarlo all’Argentario parlammo dell’olio toscano, quando veniva a Roma andavamo a Fregene a mangiare il pesce. Era anche lui un po’ superstizioso. Soprattutto, era legatissimo a Torino, al Piemonte. E voleva essere il primo promoter dell’Italia in America, nel mondo».
Nacque la leggenda che lei fosse suo figlio.
«In famiglia ne sorridevamo: “Mamma, cos’hai combinato?”. È vero però che per me è stato come un padre. Mi ha trasmesso la curiosità per gli uomini, per il mondo, per l’arte contemporanea: la pop art e l’arte povera, Lichtenstein e Alighiero Boetti, Warhol e Pistoletto... A Torino abitavo sulla sua stessa collina, qualche tornante sotto. Ogni tanto mi chiamava: “Vieni a vedere il secondo tempo di un film?”. Avvocato, ma perché il secondo tempo? “Va bene, vediamo il primo, poi andiamo a dormire”».
Dopo la Ferrari la chiamò in Fiat.
«A riorganizzare le relazioni esterne. Poi a dirigere la Cinzano. E a lanciare l’operazione Azzurra: un caso incredibile di marketing nazionale».
Ma lei entrò in urto con Romiti, che non era certo un suo estimatore.
«Abbiamo avuto alti e bassi. Romiti non era una persona facile, come hanno sperimentato anche uomini del calibro di Ghidella e De Benedetti. Io poi ho dovuto pagare il rapporto stretto che avevo con l’Avvocato. Però fu Romiti, su suo input, a telefonarmi nel 1991 per propormi di tornare in Ferrari. Temevo mi volesse come direttore sportivo, e mentre parlava pensavo a una scusa per dire no».
Invece la fecero presidente e amministratore delegato.
«I dipendenti erano in cassa integrazione. Venne a trovarmi uno dei tre grandi che mi hanno sempre ispirato, Ralph Lauren, un genio del marketing...».
Chi sono gli altri due?
«Michele Ferrero. Un genio del prodotto. Un inventore: due giorni dopo che ero diventato presidente della Fiat, venne a propormi una sua invenzione per coprire la 500 per quelli che non avevano il garage... L’altro è Achille Maramotti, il fondatore di Max Mara».
Cosa le disse Ralph Lauren in Ferrari?
«Che si aspettava una fabbrica più high-tech. Cambiammo tutto. Renzo Piano fece la galleria del vento. Chiamai Fuksas e Jean Nouvel. Inventammo la Formula Uomo, mettendo al centro la qualità della vita degli operai. Fummo i primi ad autoprodurre l’energia. Vincemmo il premio “The best place to work in Europe”. Andammo in Cina. E rifacemmo la gamma dei prodotti. Compresa la prima auto ibrida italiana».
Alla presidenza della Juventus non era andata altrettanto bene.
«Fu un errore dire di sì. Dopo l’avventura bellissima di Italia ‘90, non ne potevo più del calcio, di stadi, partite, arbitri... Ma non potevo rifiutare. E poi l’Avvocato si era infatuato di Maifredi. Era il tempo del Milan di Sacchi, e lui in fondo aveva sempre amato il bel gioco: Sivori, Platini, Maradona, Baggio».
Nel 2000 l’Avvocato fu il testimone delle sue seconde nozze.
«Arrivò un bellissimo piatto d’argento, lo chiamai per ringraziarlo. Rise: “Quello sarà il regalo di Marella. Il mio lo trovi dal concessionario Ferrari di Bologna”. Era una 360 barchetta, senza tetto e senza vetro, disegnata apposta da Pininfarina. Lascerò scritto che non si potrà mai vendere».
Lei a Torino ritornò da presidente della Fiat, in circostanze drammatiche.
«In sedici mesi erano morti i due leader, prima l’Avvocato, poi Umberto Agnelli. John Elkann era un bambino. La Fiat era nelle mani delle banche. Ero stato eletto presidente di Confindustria il giovedì mattina; Umberto morì la sera stessa. Due giorni dopo mi chiamò Susanna Agnelli, con lei c’era tutta la famiglia. Passai una notte insonne. Poi capii che non potevo dire di no».
Perché?
«Perché ho il senso della riconoscenza. E lo pretendo. Tanti l’hanno avuto. Qualcuno no».
Calenda l’ha avuto?
«Sì. E ora in politica può fare bene. Non è vero che gli manchi il senso del sociale, è per il salario minimo. Rappresenta un’Italia repubblicana, perbene, seria».
Elkann l’ha avuto?
«Suo nonno era un uomo generoso d’animo, pieno di interessi, con un grande senso dell’amicizia, che mi è sempre stato vicino nei momenti difficili. Non mi faccia dire altro».
Anche con Marchionne lei ha avuto un rapporto difficile.
«Eravamo seduti vicini in consiglio d’amministrazione, e ci stavamo simpatici. Insieme bloccammo Morchio quando voleva cancellare il marchio Panda, una follia. Dopo Morchio, la scelta dell’amministratore delegato era tra Marchionne e Bondi, grande ristrutturatore. Scegliemmo Marchionne».
Sergio Marchionne, John Elkann e Luca di Montezemolo (Ansa)
Prima di morire, disse a Bianca Carretto che «si vergognava come un ladro» per come l’aveva mandato via dalla Ferrari.
«Marchionne era un assoluto dittatore, ma a me stava bene, avevo altre cose da seguire. Era naturale che nel tempo dovessi lasciare, anche perché non avrei mai portato la Ferrari in Borsa; la Borsa vive di annunci, e la Ferrari va gestita diversamente. Inoltre credo che della Ferrari Marchionne volesse diventare il numero 1: non solo gestore, ma azionista. Ci rimasi molto male per il modo. Ma non dimenticherò mai l’addio a sorpresa di Maranello».
Come andò?
«Mi invitarono per un piccolo brindisi con i dirigenti; in realtà c’erano tutti gli operai in tuta. Applaudivano e piangevano, sulle note di Una lunga storia d’amore di Gino Paoli».
Cos’è oggi la Fiat?
«Una proprietà francese. E anche la Magneti Marelli è stata una grave perdita per l’industria italiana».
Berlusconi nel 2001 la voleva ministro.
«Lo disse a Porta a Porta, ovviamente senza avvertirmi. L’Avvocato mi consigliò di accettare; ma quella volta non gli diedi retta. Agli Esteri andò Renato Ruggiero; resistette sei mesi».
Nel 2006 in Confindustria ci fu la contestazione di Vicenza.
«Berlusconi era invitato, ma disse che non sarebbe venuto. Poi si presentò a sorpresa, con il sostegno delle truppe cammellate di Galan, allora presidente del Veneto. Diego Della Valle lo affrontò, gli diede del buffone... Per fortuna Andrea Pininfarina fece cenno a de Bortoli di chiudere il convegno».
Il 2006 è anche l’anno di Italo.
«Da un foglio bianco è nata un’azienda da 25 milioni di passeggeri e 1500 dipendenti, quasi tutti giovani. Dopo le tv, la più grande privatizzazione nella storia italiana. Ma a differenza di Berlusconi noi non abbiamo avuto aiuti, anzi ci hanno ostacolato in tutti i modi possibili».
Addirittura?
«Trenitalia controllava pure la rete ferroviaria. Moretti ci faceva partire i treni alle 4 del mattino. Ci negarono la stazione Termini, e andammo a Ostiense; il giorno del primo viaggio la fecero trovare chiusa da una grata...».
La sua presidenza di Alitalia non andò altrettanto bene, anzi.
«Accettarla fu un errore, commesso per generosità. Prima Letta, poi Renzi mi chiesero di far di tutto per convincere Etihad a prendere Alitalia. Gli sceicchi dissero sì, ma poi vollero che facessi il presidente. Sbagliai, proprio perché non sono un uomo di rappresentanza, ma uno abituato a fare, a decidere».
E nell’editoria, non pensa di aver commesso errori?
«L’editoria è una delle mie grandi passioni, sono stato anche presidente della Federazione editori. Nelle varie epoche ho puntato sugli uomini giusti. Marco Benedetto, amministratore della Stampa, dove portai Bernardo Valli e Forattini. Giulio Anselmi: un grande direttore, un uomo dalla schiena dritta. Con lo stesso criterio, quando c’era da scegliere il direttore del Sole24Ore chiamai Ferruccio de Bortoli, che con Berlusconi, allora premier, non aveva un gran rapporto. Sono orgoglioso di aver contribuito a portare due volte Paolo Mieli alla guida del Corriere. E ho un ricordo meraviglioso di Montanelli».
Era amico pure di Montanelli?
«Gli facevo scherzi crudeli. Lui era schivo, a volte burbero, non amava essere importunato per strada, e quando andavamo a passeggio a Cortina giocavo a precederlo di qualche metro sussurrando ai passanti: c’è Montanelli, c’è Montanelli... Così tutti lo fermavano, e lui si infuriava: “Colpa tua!”».
Amici tra gli artisti?
«Soprattutto Lucio Dalla, che mi manca, e Gino Paoli, cui voglio molto bene. Con Lucio cenavamo spesso insieme a Bologna. Una sera venne anche un altro amico, Paolo Borgomanero: aveva lo stesso profumo che sentivo a mio nonno. Gli chiesi: cos’è? Rispose: una cosa che non si usa più, si chiama Acqua di Parma. Gli dissi: perché non lo compriamo? La sera stessa chiamai Diego Della Valle. Pagammo Acqua di Parma 50 milioni di lire, e fu un successo clamoroso».
E Gino Paoli?
«Veniva a trovarmi a Torino. Una sera aveva un concerto al festival dell’Unità, era in ritardo e gli diedi un passaggio. Gli uomini della sicurezza del Pci si stupirono: “Gino, ma lo sai che il tuo autista è identico a quella testa di cazzo di Montezemolo?”».
Pare la scena di un film dei Vanzina.
«Siamo amici fraterni da quando avevo dieci anni. La prima volta che andai allo stadio ero con loro: sapevano che tifavo Bologna, e il loro papà, Steno, ci portò a vedere Lazio-Bologna. Espugnammo l’Olimpico con gol dell’uruguagio Di Marco. Con Enrico e Carlo Vanzina abbiamo pure fondato una società di produzione cinematografica...».
Il suo primo matrimonio fu annullato dalla Sacra Rota. Come mai?
«Perché avevo sposato una signora in parte di origini americane, con una mentalità divorzista: vediamo come va, al limite ci separiamo. Ci separammo. Ma non mi faccia parlare di cose familiari».
Tra meno di un mese si vota, e vincerà la destra. È un pericolo per l’Italia?
«Sono molto più preoccupato per il dopo elezioni, con una politica che non perde occasioni per aumentare il distacco con famiglie, giovani, imprese anche in questa campagna elettorale fatta di parole, promesse irrealizzabili, politici nominati dai partiti, pochissimo spazio alla società civile».
È così pessimista?
«Spero con tutto il cuore di non esserlo troppo. Purtroppo non vedo le condizioni per ricostruire una politica decente. Sentiremo molto la mancanza dell’autorevolezza di Draghi, non solo in Europa».
Franco Tatò. Giulia Cerasoli per “Chi” il 24 agosto 2022.
Un giorno, quando selezionavo il personale in Olivetti, mi si presentò una ragazza di una bellezza conturbante per un posto di segretaria. Appena entrata nel mio ufficio si sedette accavallando le gambe. Severo, le chiesi: “Bene, mi dica che cosa sa fare”. E lei: “ Perché, non si vede?”. Un’altra volta invece si presentò un super laureato in Fisica. Ottimi voti, grandi capacità, interessi... Pensai di aver selezionato un vero genio. Beh, finito il colloquio, il genio si alzò infilandosi direttamente nell’armadio, invece di uscire dalla porta dell’ufficio...».
Kaiser Franz (al secolo Franco Tatò) - uno dei top manager più famosi, filosofo, scrittore, germanista, celebre per aver risanato decine di aziende tra cui Olivetti, Mondadori, Enel, Enciclopedia Treccani e per aver licenziato, pur stimandolo, uno come Urbano Cairo - ha compiuto 90 anni (il 12 agosto) e si racconta. Al suo compleanno, con gli amici più cari e la sua famiglia, tutti raccolti nella masseria che possiede vicino a Fasano (Brindisi), in Puglia, ha voluto solo noi di “Chi”. E ha deciso di raccontarci particolari della sua vita da romanzo che non ha mai svelato a nessuno.
Domanda. Partiamo dall’inizio: l’infanzia.
Risposta. «Poverissima. Papà era un militare, mamma faceva la sarta. A casa non avevamo il telefono né il bagno. Papà era di Barletta e mamma di Lodi. Abitavamo a Torino, fare la spesa a volte per mia madre era un problema. Al posto della carne ci rifilava il sanguinaccio chiamandolo fegato sterilizzato. Ma da questa famiglia ho imparato che nella vita bisogna darsi da fare. Educazione sabauda».
D. E lei ha cominciato subito. È riuscito a laurearsi nelle migliori università con una sola borsa di studio e lavava i piatti per mantenersi.
R. «Al Collegio Ghislieri di Pavia si entrava solo per concorso. Un orgoglio farne parte. Anche lo scrittore ed editore Gian Arturo Ferrari è fra gli ex alunni che incontro spesso. Negli Stati Uniti per mantenermi ho fatto il lavapiatti, ho pulito le scale e servito a tavola. Cose da cui ho imparato tanto, come quando sono entrato in Olivetti come operaio, nonostante la laurea in Filosofia e le borse di studio ad Harvard».
D. Poi ha fatto carriera. Ed è diventato anche un po’ cattivo. Talmente temuto come tagliatore di teste che è rimasta celebre la frase di Silvio Berlusconi, che in Mondadori confessò di camminare rasente i muri nel timore di incontrarla e che considerasse anche lui “un costo da abbattere”.
R. «Non sono mai stato cattivo. Ho sempre applicato la regola del cancelliere Bismarck del “rigore compassionevole”. Non si risanano le aziende licenziando, ma adeguando le risorse e aumentando la produttività. A volte ho dovuto ridurre il personale, come all’Enel, ma non ho avuto un’ora di sciopero. Berlusconi però aveva ragione! In Mondadori il risanamento più veloce della mia vita».
D. A proposito di Mondadori: perché ha licenziato Urbano Cairo?
R. «Ho dovuto farlo anche se lo stimo. Berlusconi me lo ha chiesto perché Cairo lavorava per se stesso invece che per la Mondadori, infatti con la buonuscita s’è fatto la sua azienda. Non me l’ha mai perdonato però».
D. Chi licenzierebbe oggi?
R. «Un bel po’ di persone. Ma terrei di certo Mario Draghi. Ho sentito il dibattito al Senato dopo il suo discorso e mi sono vergognato».
D. Cambiamo argomento: Tatò e le donne.
R. «Da ragazzo ero sfortunatissimo. Non mi sono mai sentito attraente. Non mi filava nessuno e non avevo nemmeno la disponibilità per far colpo. Poi la mia prima moglie si innamorò di me e lasciò il lavoro per seguirmi in giro per il mondo. Ancora adesso ci sentiamo spesso e ci vogliamo bene».
D. Da lei ha avuto due figli. Poi il matrimonio è finito.
R. «Mia moglie era giustamente stanca di seguirmi ovunque e superati i 60 anni mi prospettò una sorta di pensionamento anticipato. Per vivere in maniera più tranquilla. Di fronte alla prospettiva dei giardinetti o della crociera per pensionati benestanti ho reagito. Volevo continuare a lavorare, avevo altre sfide davanti e ancora molta energia da spendere per le aziende, mi sono ribellato al suo progetto, lo confesso».
D. Poi ha conosciuto la sua seconda moglie, Sonia.
R. «Avevo 64 anni e Sonia 30 di meno. Ho dovuto superare barriere morali ed etiche molto impegnative, cambiare la mia vita. Ho capito che però non avrei potuto condurre una doppia vita (e lei non avrebbe mai accettato). Percepivo che era una cosa seria, un amore profondo. Quindi ho fatto la mia scelta. Sofferta, ma con una spinta travolgente».
D. Lei è un eterno primo della classe?
R. «Macché. Per un periodo della mia vita sono stato insicuro, con un’autostima traballante. Sono una persona modesta, senza esplosioni di autoritarismo. Ho scoperto solo lavorando di avere un talento da manager. A scuola studiavo tanto perché non ero mai sicuro di essere promosso».
D. Qual è la persona che l’ha influenzata maggiormente?
R. «Il mio allenatore di rugby, l’ingegner Ardizzone. Ci educava con il credo del rugbista: “Andare avanti, placcare l’avversario e sostenere il compagno”».
D. Carolina, la sua figlia ventenne, studia a Londra, ha una ciocca viola tra i capelli e lancerà una linea di pasti vegani. Che rapporto ha con lei?
R. «È la mia fotocopia. Serissima. Ha carattere e dedizione. Ha lavorato sodo a Londra e si è pure divertita. Parliamo molto. Una ragazza matura».
D. È vero che a 90 anni si è scoperto poeta?
R. «Su consiglio dell’analista, entusiasta dei miei versi, ho cominciato a scrivere poesie. Ho scritto quattro saggi tra Economia e Filosofia, ma ho scoperto che la poesia letta ad alta voce nel cielo della Puglia aiuta a vivere».
Gianfranco Pasquino, il politologo con la spider: «L’Ulivo di Prodi? Benemerito ho lottato contro Renzi». Ferruccio de Bortoli su Il Corriere della Sera il 5 marzo 2022.
Docente di Scienze Politiche ed ex parlamentare, ha girato il mondo studiando e insegnando. Quella volta che chiese a Bob Kennedy cosa pensasse del rapporto Warren sull’omicidio del fratello John (e lui non rispose)
Gianfranco Pasquino, 79 anni, ex parlamentare, è docente emerito di Scienze Politiche a Bologna (foto Imagoeconomica)
Ho incontrato Gianfranco Pasquino, qualche settimana fa, su un Frecciarossa diretto a Roma. Lui era salito a Bologna, la sua città d’adozione. Ci siamo salutati con grande cordialità. Pasquino è simpatico, alla mano. Era seduto, nella mia stessa fila, dall’altra parte della carrozza. Aveva di fronte una giovane ragazza, puntualmente rapita dal proprio smartphone. Assente. Il professore la guardava incuriosito e cominciò a rivolgerle qualche domanda. Non è educato ascoltare i discorsi degli altri, ma la tentazione è sempre irresistibile. Non se ne può fare a meno. A un certo punto, la ragazza, non più distratta dal suo cellulare ma certamente affascinata dalla conversazione con l’anziano e sconosciuto viaggiatore, gli chiese: «Ma lei come fa a sapere tutte queste cose?». «Semplice, sono colto», rispose Pasquino con un mezzo sorriso, divertito, guardandomi. L’intromissione fu spontanea. «Confermo», dissi io.
Maestri e avversari L’ ultimo libro di Pasquino «Tra scienza e politica» (Utet)
Ecco, l’episodio è illuminante per descrivere il carattere gioviale e disincantato, non privo di un compiaciuto egocentrismo, del professore. Il buon umore, autoironico, dell’intelligenza, potremmo definirlo. Un sottotitolo consigliabile alla sua autobiografia ( Tra scienza e politica, Utet) che esce in libreria in questi giorni. E leggendola - proprio perché ricca di episodi curiosi - avremmo voluto assistere, allo stesso modo, a un altro incontro. Tanti anni fa. Quando Pasquino era agli esordi come scienziato della politica e docente universitario. Un colloquio con il dottor Giovanni Evangelisti, austero intellettuale e imprenditore della cultura, che doveva esaminarlo, candidato redattore del Dizionario di Politica , all’Istituto Cattaneo, su suggerimento di Nicola Matteucci che lo dirigeva. Il condirettore della pubblicazione era nientemeno che Norberto Bobbio. L’incontro avvenne a Ferragosto del 1969 a Firenze al celebre caffé Paszkowski in piazza della Repubblica.
Gianfranco Pasquino da giovane quando praticava il salto in alto
Con la Giulietta azzurra decapottabile
Pasquino era in vacanza a Castiglione della Pescaia e si presentò a un appuntamento fondamentale per la sua carriera a bordo di una Giulietta «spider azzurra decapottabile in mocassini senza calze, pantaloni bianchi, camicia a righine bianco-azzurre, abbronzato». Per sua stessa definizione un beach boy . «Non avevo proprio l’aspetto di un intellettuale del Mulino», confessa divertito nel libro. E chissà come avrebbe reagito la sua casuale compagna di viaggio se avesse potuto godere di questo frammento della vita di uno dei più affermati, anche a livello internazionale, scienziati italiani della politica. Nel ripercorrere la propria vita e i propri studi, Pasquino è generoso di riconoscimenti ai suoi maestri, in particolare Bobbio che fu relatore della sua tesi («deludente e mediocre» confessa ora con civetteria) e Giovanni Sartori. E si ritiene fortunato per i tanti incroci, le numerose occasioni, che lo hanno portato a contatto con colleghi e personaggi straordinari, da Nicola Abbagnano a Luigi Firpo, da Siro Lombardini a Francesco Forte, a Leopoldo Elia.
DURANTE I 5 MESI A CAMBRIDGE FACEVA QUALCHE PARTITA DI PALLONE CON ALTRI ITALIANI: «C’ERA UN GIOCATORE LENTO E POCO GRINTOSO». ERA MARIO DRAGHI
Il tucano della saggezza
Torinese e granata (forse l’unica vera fede di un laico impenitente), Pasquino ama la vita in tutti i suoi aspetti ed è forse questo il talismano della sua perdurante giovinezza di spirito. O meglio il tucano, come quello che domina la sua scrivania. Il tucano della saggezza. Partecipò anche lui, come alcuni politici dei quali oggi non condivide assolutamente nulla (Matteo Salvini e Matteo Renzi) ad un quiz televisivo, vincendo una discreta somma (700 mila lire). Frequenta, grazie a una delle più ambite borse di studio, un corso universitario negli Stati Uniti e incontra addirittura Bob Kennedy al quale chiede con grande candore che cosa pensi del rapporto Warren sull’uccisione del fratello, non ricevendo ovviamente alcuna risposta. Tornerà poi negli Stati Uniti, negli anni seguenti, quando è già da tempo in cattedra, per ricoprire, ad Harvard, la De Bosio chair di Gaetano Salvemini. Prima di lui un giovane e ugualmente sconosciuto Romano Prodi. Ha il privilegio di essere ospite, nelle domeniche del thé, del futuro premio Nobel dell’Economia Franco Modigliani. E in quei cinque memorabili mesi che trascorre a Cambridge gioca di tanto in tanto a pallone con i suoi connazionali. Tra questi c’è «un giocatore piuttosto lento e poco grintoso». Nome: Mario Draghi.
I peggiori bestiari parlamentari
Uno dei nostri maggiori politologi mai avrebbe pensato che il timido economista, un po’ schivo, si sarebbe trovato alle prese con uno dei peggiori bestiari parlamentari della storia repubblicana. La politica non è una scienza esatta, tantomeno nel tracciare i profili dei suoi protagonisti. Ma i politologi, spesso, come «cacciatori di teste» non ci prendono. Nell’estate calda e umida del New England, gli dicono che è esplosa una bomba a Bologna. È il due agosto del 1980. Giovanni Sartori, grande firma del Corriere, è celebrato in questo libro come un maestro, inarrivabile anche per il suo carattere, autenticamente toscano. Gli scontri non mancano, per esempio sulla linea e sulle scelte della Rivista italiana di scienza politica. Non c’è solo affetto ma anche molta riconoscenza. Soprattutto per aver trasmesso a Pasquino la passione, e insieme la bellezza, dell’insegnamento. La consapevolezza di poter allargare l’orizzonte della conoscenza insieme ai propri studenti, vedendo accendersi, nei loro occhi, la scintilla critica della curiosità. Come quella scattata nella giovane, studentessa per caso, incontrata sul Frecciarossa.
Gianfranco Pasquino con Achille Occhetto (Imagoeconomica)
Bologna, Scienze politiche e i prof in parlamento
Alla sua prima lezione all’Università di Bologna, il professore ha quattro studenti. Uno di questi è Angelo Panebianco, un’altra grande firma del Corriere. Sarà relatore della sua tesi. E Panebianco parteciperà anche all’ultima lezione del professore, una volta «messo a riposo», anche se ormai tra i due le idee divergeranno e non poco. Tra i suoi colleghi c’è Giuliano Urbani, bravissimo nell’imitare il leader liberale Giovanni Malagodi. Dice a uno scettico Pasquino che farà politica. Sarà l’architetto di Forza Italia, formazione che al professore non è mai piaciuta, ma nella quale confluirono molti ex socialisti come lui. Prima di votare Pci, nel ‘79, il professore era convintamente socialista. Ma non amò Craxi, né il Berlinguer del compromesso storico. Il partito comunista lo propose alle elezioni del 1983 come indipendente di sinistra. Un vero trionfo per la facoltà di Scienze politiche dell’università di Bologna che si trovò (ogni raffronto con l’attualità è sconsigliabile) ad avere in Parlamento quasi tutti i suoi professori: Beniamino Andreatta e Roberto Ruffilli (poi ucciso dalle Brigate Rosse) per la Dc; Franco Piro per il Psi; Filippo Cavazzuti e lo stesso Pasquino per la Sinistra indipendente. Poi, dal 1996 al 2001, Ettore Rotelli di Forza Italia. «Competenza e pluralismo politico», sintetizza orgoglioso il nostro autore. Quando lo eleggono, sta insegnando alla Summer school di Harvard. Tra i messaggi di congratulazione quello di un altro allievo di Sartori, Domenico Fisichella, di Alleanza Nazionale, che giudica «riprovevole» la scelta del partito comunista.
«SONO GIUNTO ALLA CONCLUSIONE CHE LA LEGGE ELETTORALE PREFERIBILE PER L’ITALIA È IL SISTEMA A DOPPIO TURNO FRANCESE APPLICATO IN COLLEGI UNINOMINALI»
Marco Pannella a Bologna nel maggio 2009 per sostenere la candidatura a sindaco di Gianfranco Pasquino (foto Tecnavia)
Protagonista della stagione referendaria
Leggendo il libro di Pasquino sorge spontanea una domanda sul perché un Paese con così tanti maestri della politica, distribuiti lungo un arco ben più vasto di quello costituzionale, abbia avuto allievi così scarsi. Mistero. Pasquino è tra i protagonisti della stagione referendaria, in particolare del dibattito sulla preferenza unica. Stigmatizza le troppe leggi elettorali, ma salva il Mattarellum, il meno peggio. «Giunsi, però, alla conclusione, che non ho più abbandonato, che la legge elettorale preferibile per l’Italia sia il sistema a doppio turno francese applicato in collegi uninominali. Nel 1995 scrissi un disegno di legge apposito sul quale raccolsi quasi cinquanta firme dei senatori del gruppo progressista, molto più di un terzo che consente la richiesta di inserire il disegno di legge all’ordine del giorno. Non pochi di quei firmatari furono poi convinti (costretti?) a ritirare la loro adesione dal capogruppo Cesare Salvi». L’Ulivo è un esperimento appassionante. «Fu il benemerito tentativo di rinnovare il ceto politico aprendosi alla società (sì, civile). Riuscì solo parzialmente». Non così il partito democratico, una delusione. Un amalgama mal riuscito, per citare una frase sfuggita a Massimo D’Alema.
«Mettere fine all’obbrobrio delle pluricandidature»
«Continuo ad augurarmi di sentire alte e forti le voci di Prodi, di Veltroni e, naturalmente, di Parisi, che chiedono si metta fine all’obbrobrio delle pluricandidature e delle liste bloccate. O la qualità del ceto parlamentare è una variabile irrilevante?». Pasquino però è stato nelle diverse esperienze paracadutato anche lui in collegi sicuri (quando c’era il Pci) o meno certi, in luoghi nei quali non era nemmeno mai stato. «Da Harvard a Rivabella» (una delle spiagge di Rimini) era scritto in un manifesto elettorale per la sua candidatura. «Quei luoghi di vacanze, da Rimini a Riccione a Cattolica fino alla discoteca Baia Imperiale di Gabicce che Wikipedia colloca tra le dieci discoteche più belle al mondo, furono lo sfondo di una (mia) vittoria mai in discussione».
Contro Matteo Renzi: salutare fallimento
Un capitolo estremamente interessante del libro è dedicato alle riforme costituzionali di Renzi e al loro salutare fallimento. Le ragioni di quel no sono ancora più forti oggi nel marasma di proposte senza senso. Pasquino guidò quel fronte, individuando pericoli, torsioni e pasticci, nonostante non sia mai stato affascinato dalla retorica della «Costituzione più bella del mondo». Non è tenero con gli avversari, specie se colleghi, trova intollerante l’abuso della qualifica di politologo in un Paese in declino anche morale. Detesta, con poche eccezioni, i giornalisti. Si ritiene un Wanderredner , un predicatore errante. E siamo convinti che se la sconosciuta viaggiatrice incontrata in treno, studentessa per caso, avesse saputo (ma forse sì) lo spagnolo si sarebbe indirizzata a lui come una sua allieva dopo una delle molte conferenze tenute in America Latina: Profesor, Usted es un lujo , lei è un vero e proprio lusso. «Troppo?» si schermisce, neanche tanto, Pasquino «ma non fatelo dire a me».