Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

IL GOVERNO

TERZA PARTE

 

LE VOTAZIONI ED IL GOVERNO

  

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia d’Italia.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per Nome e Cognome.

L’Unione Europea.

Il Piano Marshall.

Bella Ciao al 25 aprile.

Fondi Europei: il tafazzismo italiano.

Gli Arraffoni.

Educazione civica e disservizi.

Quello che siamo per gli stranieri.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Italioti antifascisti.

Italioti vacanzieri.

Italioti esploratori.

Italioti misteriosi.

Italioti Ignoranti.

Italioti giocatori d’azzardo.

Italioti truffatori.

Italiani Cafoni.

Italioti corrotti e corruttori.

Italioti ladrosi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Potere dà alla testa.

Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

Un popolo di Spie.

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Il Capitalismo.

I Liberali.

Il Realismo.

Il Sovranismo - Nazionalismo.

I Conservatori. Cos’è la Destra?  Cos’è la Sinistra?  

Il Riformismo progressista.

Il Populismo.

Il solito assistenzialismo.

La Globalizzazione.

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.

Le Politiche Economiche.

Il Finanziamento ai partiti.

Ignoranti.

I voltagabbana.

La chimera della semplificazione nel paese statalista.

Il Voto.

Mafiosi: il voto di scambio.

Il Voto dei Giovani.

Il Voto Ignorante.

Il Tecnicismo.

L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…

La Rabbia.

I Brogli.

I Referendum.

Il Draghicidio.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

La Campagna Elettorale.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

Le Votazioni ed il Governo.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Costituzione fascio-catto-comunista.

Quelli che…La Prima Repubblica.

Le Presidenziali.

Storia delle presidenziali.

La Legge.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

I Top Manager.

I Politologi.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Traffico d’influenze.

La malapianta della Spazzacorrotti.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Impuniti.

Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.

Concorso truccato nella sanità.

Concorso scuola truccato.

Concorsi ed esami truccati all’università.

Ignoranti e Magistrati.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti ed avvocati.

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.

I Commissari…

Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.

Spreco a 5 Stelle.

Le ali italiane.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Bancopoli.

La Nascita dell’Euro.

Il Costo del Denaro.

Il Debito. Pagherò.

ConTanti Saluti.

Il Leasing.

I Bitcoin.

I Bonus.

Evasori fiscali!

L'Ingiunzione di Pagamento.

Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.

La Telefonia.

Le furbate delle Assicurazioni.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

 

IL GOVERNO

TERZA PARTE

LE VOTAZIONI ED IL GOVERNO

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

Il Sistema elettorale.

Il sistema introdotto con la legge elettorale Rosatellum. Cos’è il tagliando antifrode: il meccanismo valido per le elezioni politiche, polemiche per le code ai seggi. Redazione su Il Riformista il 25 Settembre 2022 

Per la seconda volta alle elezioni politiche fa la sua comparsa il tagliando antifrode: è una novità introdotta con la legge elettorale Rosatellum. Si tratta di un meccanismo che ha esordito nel 2018 per evitare distorsioni nelle operazioni di voto, ovvero sostituzioni della scheda elettorale all’atto del voto, valido soltanto per le edizioni politiche. Già la prima volta ci furono rallentamenti ai seggi, con code, che in parte si sono riproposti anche oggi.

La parte inferiore della scheda è perforata, di forma rettangolare e rimovibile. Ha un codice alfanumerico e il presidente o lo scrutatore lo staccano prima di inserire la scheda nell’urna. Gli addetti al seggio, prima di consegnare la scheda all’elettore annotano il relativo codice del tagliando antifrode sulla lista sezionale in corrispondenza all’elettore stesso o nella colonna delle annotazioni.

Quando l’elettore esce dalla cabina e ha espresso il suo voto, il presidente o un delegato del seggio staccano il tagliando antifrode e mettono la scheda nell’urna. L’operazione prevede anche la conservazione in buste distinte dei due tagliandi di colore diverso, e che anche in questo caso può prendere del tempo in più rispetto al passato. L’elettore non mette quindi direttamente la scheda nell’urna, come succedeva prima, ma deve riconsegnarla ripiegata al presidente che controlla tramite il tagliando che il numero riportato sia corrispondente a quello annotato in precedenza sul registro.

Qualora il presidente dovesse notare un codice diverso da quello segnato precedentemente, il voto si considererà annullato e l’elettore non potrà esprimere di nuovo la sua preferenza.

ELEZIONI DEL 25 SETTEMBRE. Come si vota? La guida completa per le elezioni (e per non farsi invalidare il voto). GIULIA MORETTI su Il Domani il 21 settembre 2022

Dalla ripartizione dei seggi alle modalità di voto, dai colori delle schede agli orari, Domani ti accompagna alle urne

Alle sette di domenica 25 settembre si apriranno le porte dei seggi elettorali sparsi per tutta Italia e si chiuderanno alle 23 dello stesso giorno. Alla chiusura del seggio potranno comunque votare le persone che sono già in coda. In quelle quattordici ore gli italiani si recheranno alle urne per eleggere il prossimo parlamento, il primo con un numero di seggi ridotto dopo la riforma costituzionale approvata con il referendum del 2021. Ma non è l’unica novità. Per la prima volta i diciottenni potranno votare non solo per la Camera, ma anche per il Senato, come previsto dalla riforma dell’articolo 58 della Costituzione. 

IL ROSATELLUM

La legge elettorale, il Rosatellum (dal nome del suo relatore Ettore Rosato), è in vigore dal 2017 e si basa su un sistema misto di ripartizione dei seggi.

Un terzo del parlamento, infatti, viene eletto con sistema maggioritario, nei collegi uninominali il candidato espressione del partito che prende più voti vince.

I due terzi dei seggi, invece, vengono assegnati con sistema proporzionale, nei collegi plurinominali gli eletti sono divisi in modo proporzionale in base alle preferenze ottenute.

Nei collegi plurinominali sono candidate quattro persone per ogni partito e vengono elette in ordine di lista, calcolando la proporzione di voti che la loro lista ha ottenuto nel collegio in cui sono candidati. 

COME SONO FATTE LE SCHEDE E QUANDO IL VOTO È VALIDO

La scheda per l’elezione dei membri della Camera è rosa, mentre quella per i rappresentanti al senato è gialla. Per ogni coalizione o partito, nella parte alta è indicato il nome della candidata o del candidato al collegio uninominale, nella parte bassa la lista dei candidati nei collegi plurinominali con a fianco il simbolo del partito o della lista che li sostiene.

Si può apporre la propria preferenza: 

solo sul nome della candidata o del candidato al collegio uninominale

in questo caso il voto si estenderà e sarà ripartito anche tra le liste sotto quel nome in proporzione ai voti ottenuti.

Si può anche scegliere di indicare il simbolo di una lista posizionata nei riquadri del proporzionale

il voto sarà automaticamente assegnato anche alla candidata o al candidato del collegio uninominale sostenuto da quella lista.

Si può, inoltre, segnalare la preferenza sia per il candidato all’uninominale sia per la lista o una delle liste che lo sostengono

Infine, è considerato valido il voto anche qualora si faccia una “x” sia sul simbolo sia sulla lista di nomi candidati ai collegi plurinominali.

In questo caso il voto viene assegnato anche al candidato dell’uninominale.  

QUANDO IL VOTO NON È VALIDO

Il Rosatellum non ammette il voto disgiunto, ciò significa che non è possibile esprimere la propria preferenza per un candidato all’uninominale e per una lista diversa da quelle che lo sostengono. Il voto in questo caso non è valido come non lo è se si esprime la propria preferenza per un candidato specifico di una delle liste al collegio plurinominale scrivendo il nome a fianco.

La scheda, inoltre, non è valida se ci si scrive sopra, ci si disegna o si usa una penna o una matita diversa da quella copiativa fornita dai presidenti e gli scrutatori. 

COSA SERVE PER POTER VOTARE

Per votare è necessario recarsi al seggio muniti di tessera elettorale e documento d’identità (patente, passaporto o carta d’identità). Nel caso in cui si abbia una carta d’identità scaduta è comunque possibile votare, purché la foto presente sul documento permetta il riconoscimento dell’elettore.

Se, invece, si è in possesso di una tessera elettorale scaduta, deteriorata o piena sarà possibile rinnovarla recandosi presso l’anagrafe del proprio comune che sarà aperto e obbligato a rilasciarla durante tutto il lasso temporale utile per il voto (dalle 7 alle 23). Lo stesso vale anche nel caso in cui la tessera elettorale sia stata persa.  

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Vademecum per il voto: tutto quello che bisogna sapere. Come sono fatte le schede, come si può esprimere il voto, cosa bisogna portare con sé al seggio e che succede se si sbaglia. Orlando Sacchelli il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.

Un breve riepilogo per ricordare a tutti come si esercita il diritto di voto. Prima di tutto ricordiamo che è venuto meno il limite di età e che anche i più giovani (dai 18 ai 25 anni di età) voteranno per il Senato. Pertanto tutti gli elettori riceveranno due schede: una rosa, per la Camera, ed una gialla per il Senato.

L'Italia è suddivisa in 146 collegi uninominali per eleggere i membri della Camera dei deputati e 67 collegi uninominali per l’elezione del Senato della Repubblica. In più abbiamo i collegi plurinominali (49 per la Camera, 26 per il Senato) che servono per l'assegnazione proporzionale dei seggi. Il sistema elettorale, infatti, è misto (maggioritario più proporzionale).

Ricordiamo che a seguito dell'ultima riforma della Costituzione, che ha ridotto il numero dei parlamentari, si eleggono 400 deputati e 200 senatori. I seggi saranno aperti domenica 25 settembre dalle 7.00 alle 23.00.

VADEMECUM PER IL VOTO

Le schede che ciascun elettore riceverà includono i nomi dei candidati nel collegio uninominale e, per il collegio plurinominale, il simbolo di ciascuna lista o i contrassegni delle liste in coalizione ad esso collegate. Accanto ai contrassegni delle liste sono indicati anche i nomi dei relativi candidati nel collegio plurinominale.

COME SI PUO' VOTARE

L'elettore deve tracciare una croce sul rettangolo che contiene il contrassegno della lista e i nominativi dei candidati nel collegio plurinominale. In questo modo il voto vale sia per il candidato nel collegio uninominale che per la lista nel collegio plurinominale. Se il segno è tracciato solo sul nome del candidato nell'uninominale, è comunque valido anche per la lista collegata (se le liste sono più di una il voto è ripartito tra le varie liste). Se la croce viene apposta solo sul simbolo vale anche per il candidato uninominale collegato. Attenzione, il voto disgiunto non è ammesso: in altre parole non si può scegliere un candidato nel collegio uninominale e una lista che non sia ad esso collegato. Qualora dovesse optare per questa soluzione il voto sarà nullo. 

COSA OCCORRE PORTARE AL SEGGIO

Come sempre per andare a votare bisogna portare con sé il documento di identità (va bene anche se scaduto) e la tessera elettorale del proprio comune di residenza. Se gli spazi dei timbri sono esauriti occorre farsi dare dal Comune una nuova tessera. Si raccomanda di farlo per tempo senza aspettare l'ultimo momento, anche se gli uffici comunali preposti a tale scopo rimarranno aperti dalle ore 9 alle ore 18 il 23 e il 24 settembre e, nel giorno della votazione, per tutta la durata delle operazioni di votazione, e quindi dalle ore 7 alle ore 23.

CHI SI TROVA FUORI DAL PROPRIO COMUNE

Il voto in un Comune diverso da quello della propria residenza è consentito solo ad alcune persone: i ricoverati in ospedale e/o case di cura, militari, naviganti, componenti dell'Ufficio elettorale di sezione e le forze dell'ordine, rappresentanti di lista designati dai partiti. Tutti gli altri dovranno raggiungere la propria residenza.

COME SI VOTA ALL'ESTERO

Chi per motivi di studio o di lavoro si trovi all'estero può chiedere la scheda elettorale e votare per corrispondenza. Ma in questo caso oltre alle schede bisognerà spedire al Consolato competente il tagliando staccato dal certificato elettorale, il tutto in buste diverse.

IL VOTO ASSISTITO

Gli elettori che abbiano disabilità gravi e non possano votare da soli potranno farsi aiutare da un assistente, ma in questi casi occorre un codice speciale apposto sulla tessera elettorale che attesti la particolare condizione in cui si trovano.

CHE SUCCEDE SE SI SBAGLIA A VOTARE?

Chi dovesse rendersi conto di aver sbagliato nell'esprimere il proprio voto può farlo presente al presidente di seggio e avere una nuova scheda, con cui esprimere nuovamente il proprio voto. Il presidente gli consegnerà una nuova scheda inserendo quella sostituita tra le schede deteriorate. Il tutto, ovviamente, verrà messo a verbale.

SABINO CASSESE per il Corriere della Sera il 18 settembre 2022.

Ultimi giorni di lavoro per il Parlamento eletto nel 2018. Si chiude la diciottesima legislatura dell'Italia repubblicana.

Con quale bilancio? 

I parlamentari uscenti furono eletti con la legge Rosato del 2017, la stessa con la quale si voterà il 25 settembre prossimo. Una legge che ha introdotto una formula elettorale sbagliata, che costringe le forze politiche sia a competere, sia a cooperare, con i risultati schizofrenici che sono sotto gli occhi di tutti. Una legge che ha prodotto una legislatura con tre governi diversi, maggioranze diverse, orientamenti politici diversi.

Ma c'è di peggio. Il Parlamento-legislatore, in questo quinquennio, è stato pressoché assente: solo un quinto della legislazione è stato di iniziativa parlamentare e la metà degli atti con forza di legge è stata costituita da decreti - legge, cioè da provvedimenti governativi, che il Parlamento deve esaminare in tempi ristretti, perché dettati da necessità e urgenza. I numeri dell'attività legislativa del Parlamento diminuiscono ulteriormente se si considera che una buona parte delle altre leggi è costituita da atti «dovuti», quali le leggi di bilancio e quelle di ratifica di trattati internazionali. Inoltre, i governi hanno posto la questione di fiducia su decreti-legge 107 volte. A un governo la fiducia basterebbe, secondo la Costituzione, una volta sola, subito dopo la nomina. 

Quindi, sei volte nei cinque anni passati, nei due rami del Parlamento, per i tre governi che si sono succeduti. Ma se il governo pone la questione di fiducia su una norma e ottiene un voto favorevole, il testo è approvato e tutti gli emendamenti parlamentari respinti. La questione di fiducia viene usata per compattare la maggioranza di governo, evitare l'ostruzionismo e i «franchi tiratori», e quindi accelerare l'approvazione delle proposte del governo.

Un numero così alto di questioni di fiducia è il sintomo di una disfunzione del sistema parlamentare: il governo funziona sempre meno come comitato direttivo della maggioranza parlamentare o non sa «negoziare» con la sua maggioranza, e deve quindi ricorrere alla questione di fiducia per far cessare le voci dissenzienti. 

Dunque, il governo è diventato legislatore e strozza sempre più la discussione parlamentare, nel corso della conversione in legge dei decreti-legge, con il ricorso alla questione di fiducia. 

Questo non vuol dire, però, che il Parlamento resti afono. Bisogna pagare un costo di questo vistoso spostamento dei poteri dalle assemblee all'esecutivo: i decreti-legge crescono di due terzi durante il tragitto parlamentare. 

Se le leggi le fa il governo, bisogna pur dare un contentino al Parlamento, lasciando che i parlamentari, ridotti a fare un mestiere diverso, gonfino i decreti-legge con disposizioni settoriali o microsettoriali, che rispondono alle richieste delle loro «constituencies» e preservano il loro potere negoziale.

Il quadro delle disfunzioni non termina qui. Si aggiungono altri protagonisti, i gabinetti ministeriali e le amministrazioni pubbliche. Questi si muovono in due diverse direzioni. Da un lato, cercano di spostare alla sede parlamentare decisioni che dovrebbero essere prese dalle burocrazie. Queste sono intimorite dalle originali e spesso eccessive iniziative di procure, penali e contabili, e mirano a trovare uno scudo nella legge (di conversione di decreti-legge). Dall'altro, anche le amministrazioni pubbliche sono composte da donne e uomini con le loro debolezze, aspirazioni, esigenze, e non è difficile per esse trovare una voce in uno o più parlamentari ben disposti.

L'ultimo tratto di questo circolo vizioso è stato segnalato dal senatore Andrea Cangini in un documentato ed appassionato discorso parlamentare, in occasione della conversione del decreto-legge 36 del 2022 per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ha osservato: l'interlocutore del Parlamento sono le strutture tecnico-amministrative che appoggiano o dovrebbero appoggiare le azioni del governo, gli «apparati burocratici e le alte burocrazie che rappresentano un potere in sé». «L'impressione è che l'interlocutore del Parlamento sia, per esempio, la Ragioneria generale dello Stato». Cangini ha aggiunto: è vero che la politica è in crisi, ma l'autocefalia amministrativa è «un limite enorme all'esercizio democratico del potere da parte del Parlamento della Repubblica», uno squilibrio costituzionale, una «intollerabile umiliazione al potere legislativo».

Dunque, governo legislatore, Parlamento-legislatore interstiziale (in sede di conversione dei decreti-legge), ricorso alla fiducia per strozzare i tempi e i poteri parlamentari, registi fuori del Parlamento. 

È un gioco in cui tutti perdono. Il governo che legifera, invece di indirizzare. Il Parlamento-legislatore interstiziale. L'amministrazione sempre più vincolata da troppe norme. I guardiani dello Stato distolti dalla loro autentica funzione. La collettività che paga un costo complessivo altissimo in termini di conoscibilità delle norme, di vincoli da esse disposti, di costi. I guasti che ho cercato di descrivere non sono cominciati dal 2018, ma si sono accentuati nell'ultima legislatura.

Dipendono da incuria per le istituzioni. Anche queste richiedono manutenzione. I governi dovrebbero rafforzare i loro legami con le maggioranze parlamentari che li sostengono. I parlamentari dovrebbero pianificare la loro attività legislativa, ridurre invece di aumentare il numero delle norme (se ogni nuova legge ne abrogasse almeno cinquanta, si potrebbe forse uscire dal labirinto legislativo), scoprire la codificazione a diritto costante, che tanto successo ha avuto in Francia, su iniziativa del Consiglio di Stato, che in Italia rema invece nella direzione opposta. Le procure dovrebbero applicare le leggi, non riscriverle con interpretazioni creative. I guardiani dell'amministrazione ritornare nei ranghi, aiutando una classe politica complessivamente debole a migliorarsi, piuttosto che tenerla sotto il giogo.

 Mezze verità sulla legge elettorale. I giallorossi litigano sul Rosatellum. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 07 settembre 2022

A sinistra volano stracci anche sulla riforma, ormai senza padri. Iv nega responsabilità. M5s contro Letta, anche Calenda attribuisce al Pd le scelte di Matteo Renzi.

Gli atti parlamentari diventano un’opinione, e un’occasione di fare volare gli stracci. Nel litigio si perdono le impronte e sul Rosatellum, che ha il nome, questo almeno è incontestabile, di Ettore Rosato, deputato e coordinatore di Italia viva. 

Durante il governo Draghi furono gli sherpa del Pd a provare a convincere Lega e Forza Italia alla riforma. In un primo momento gli emissari di Salvini – e cioè il senatore Calderoli – lasciarono intendere una disponibilità. Che poi fu ritirata.

Gli dei accecano quelli che vogliono perdere e nell’area opposta allo schieramento delle destre, dato per favoritissimo dai sondaggi – che per legge dal 10 settembre non potranno essere più pubblicati – siamo ormai al tutti contro tutti. Pd, M5s e terzo polo stavolta litigano sulla legge elettorale. Gli atti parlamentari, che certificano chi ha fatto cosa in parlamento, dunque di chi sono le impronte sul Rosatellum – dal nome, questo almeno è incontestabile, di Ettore Rosato, deputato e coordinatore di Italia viva - diventano un’opinione. E l’occasione per far volare gli stracci.

La polemica nasce dall’«allarme per la democrazia» lanciato da Enrico Letta martedì all’avvio della campagna elettorale Pd. Il segretario ci torna da radio Rtl 102.5: «La democrazia non è a rischio se vince la destra, ovviamente. Il nostro sistema regge, reggerà, vinca la destra o vinca la sinistra», spiega meglio, l’allarme è perché «il sistema elettorale che ha voluto Renzi alcuni anni fa, il Rosatellum, può consentire alla destra un risultato sotto il 50 per cento dei consensi» ma una vittoria «con il 70 per cento della rappresentanza parlamentare».

Per Letta il Rosatellum è una «pessima legge», e su questo è d’accordo con Giorgia Meloni: «Renzi lo impose pensando a se stesso. Pensava di avere il 40 per cento e di prendersi il 70 del parlamento». Letta spinge sul tasto del maggioritario, «vuol dire che nei collegi uninominali chi vota per il terzo Polo o M5S sostanzialmente favorisce la vittoria della destra».

A questo punto prende la parola Giuseppe Brescia, il grillino presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera. «Teatrino ridicolo», quello di Letta, dice, «All’inizio del 2020, d’intesa coi partiti dell’allora maggioranza e dopo un confronto con le opposizioni, ho presentato una riforma semplice, di stampo proporzionale», «un testo aperto alla discussione su cui il Pd ha voluto accelerare durante la campagna referendaria per la riduzione del numero dei parlamentari.

Dopo la vittoria del sì, invece, fu il nulla cosmico». Brescia omette di dire che a fermare quel testo fu Iv, che cambiò il voto dal sì, in commissione, alla minaccia del no in aula.

Si scatena la contraerea del Pd, nella solitamente mite persona di Andrea De Giorgis, responsabile riforme. Ricostruzione «incredibile», Brescia dimentica «con quanta determinazione abbiamo cercato di far maturare le condizioni per una riforma condivisa», il M5s «dimostra un’incomprensibile coazione a ripetere scorrettezza e falsità».

Entra in ballo Iv, il cui fondatore aveva ideato quell’Italicum poi abbattuto dalla Consulta. Parla Maria Elena Boschi, a sua volta indimenticabile madre della riforma costituzionale bocciata dal referendum del 2016 (il padre era l’allora premier Renzi): Letta «mente», attacca, «la legge su cui il governo Renzi ha messo la fiducia era l’Italicum. Il Rosatellum fu frutto di un accordo di Pd, Forza Italia e Lega e la fiducia fu messa dal governo Gentiloni».

A confondere ancora di più le acque ci si mette Carlo Calenda: tutta colpa del Pd che non ha fatto rispettare le condizioni per il sì al taglio dei parlamentari, alla nascita del governo giallorosso: «Il taglio dei parlamentari lo avete votato per sudditanza morale e culturale ai Cinque stelle, e poi non avete fatto nulla. Non prendere in giro gli elettori.

Dopo due anni di giuramenti di fedeltà ai Cinque stelle non ho ancora sentito una parola di scuse per i danni fatti».

Peccato che il primo sì, pubblico, e clamoroso, a fine agosto 2019, nel pieno delle trattative per la nascita del governo giallorosso, fu del suo sodale Renzi.

LE MEZZE VERITÀ DI TUTTI

Basterebbe appunto sfogliarsi gli atti parlamentari, e qualche giornale, per ricostruire com’è davvero andata. Il proporzionale su cui c’era un accordo giallorosso fu stoppato da Iv alla camera. Né di proporzionale parlavano i patti stretti da Pd e M5s e Leu come merce di scambio per l’indigesto sì al taglio dei parlamentari, che Di Maio e Conte misero sul tavolo come condizione irrinunciabile per la nascita del governo. Nel marzo del ‘21 Enrico Letta arrivò alla segreteria Pd e iniziò una lenta conversione al proporzionale: sarebbe stato un cambio radicale per il Pd maggioritarista (e con molti maggioritaristi sommergibili all’interno).

Durante il governo Draghi furono proprio gli sherpa del Pd a provare a convincere Lega e Forza Italia alla riforma. In un primo momento gli emissari di Salvini – e cioè il senatore Roberto Calderoli – lasciarono intendere una disponibilità. Che poi fu ritirata quando si accorsero che la competizione con Fdi, con il proporzionale, sarebbe stata mortale.

Nel novembre del ‘21 i retroscena però riferivano di un asse Letta-Meloni contro il proporzionale. Sul primo non erano precisi. Sulla seconda sì: Lega e Fi erano al governo, e la presidente Fdi fiutava che, senza una coalizione, davanti a lei la porta di palazzo Chigi non si sarebbe mai aperta.

DANIELA PREZIOSI

Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

(ANSA il 12 agosto 2022) - Sono il Partito liberale Italiano, il Maie (Movimento associativo italiani all'estero) e il Sacro Romano Impero cattolico "e pacifista" i primi tre a depositare i simboli al Viminale per la tornata elettorale del 25 settembre. Ora entreranno per gruppi di 5.

Emanuela Minucci per “La Stampa” il 12 agosto 2022.  

Mentre è il crepitio della fiamma tricolore (che ancora campeggia accanto alla scritta Fratelli d’Italia) ad accendere la querelle sui simboli che finiranno sulla scheda elettorale c’è chi si impegna a fondo per non passare inosservato. E ci riesce, a costo di far parlare di sé, anche solo per lo spazio di una battuta. Insomma, il «famolo strano» anche sulla scheda – almeno il giorno del debutto – funziona. 

Oggi, 12 agosto è la giornata in cui parte la presentazione ufficiale dei simboli al Viminale. E cominciano davvero a vedersene di ogni: dai contrari alle armi, a favore della pace e della cristianità al Movimento dei Gilet Arancioni sino al Sacro Romano Impero Cattolico. 

Vietato ironizzare: «Siamo un partito per la fratellanza e per la pace. Il nostro riferimento è il Cristo ma ci rivolgiamo anche agli atei e ai laici. Siamo contro l'invio di armi in Ucraina e contro tutte le guerre» spiega la fondatrice del Sacro Romano Impero Cattolico Mirella Cece.  E aggiunge: «Il nostro simbolo richiama il fatto che l’Italia è il Paese della pace, la cui capitale - Roma - è il centro della cristianità». 

C’è una buona dose di pacifismo anche nel partito dei Gilet arancioni: «Siamo contro ogni guerra e per la pace, non possiamo mandare le armi in Ucraina e vogliamo anzi proclamare Roma città santa» ha detto il leader Antonio Pappalardo. Massima fantasia grafica: nella lista «Free» compare un uomo stilizzato dare un calcio a una testa di Pinocchio, mentre nella lista «Movimento Poeti d'Azione» spiccano una spada e una penna. 

In fila per il deposito del simbolo, al Viminale, non solo funzionari ma anche esponenti di partito. Per la Lega, a esempio, il senatore Roberto Calderoli e il deputato Andrea Crippa. Poi Clemente Mastella che presenta il suo contrassegno «Noi di Centro» europeisti. Per Azione e Italia Viva direttamente il vicesegretario del partito di Carlo Calenda. 

Poi l’ex M5s Dino Giarrusso con il suo simbolo che ricorda gli speciali tg degli anni 70 «Sud chiama nord». Tra i più audaci «Il partito della follia», con il leader vestito da santone che distribuisce santini inneggianti alla folie au pouvoir.

I primi a depositare il simbolo sono stati i Liberali del Pli guidati da Stefano De Luca, seguiti da Maie e lista Sacro Romano Impero. Fra i maggiori partiti, la Lega si è piazzata nona: l’uomo delle questioni elettorali del Carroccio, Roberto Calderoli si è messo in coda un po’ prima delle 8 quando l’Ufficio elettorale ha aperto le porte. 

Niente di nuovo sotto la scritta Pd, rassicurante e uguale a se stessa da decenni, mentre la Lega ha scelto di mettere nel cerchiolino magico, scritto bello grosso, il nome del suo «special one» Matteo Salvini.

Da ansa.it il 14 agosto 2022.

Sono in tutto 101 i contrassegni depositati al Viminale per concorrere alle elezioni politiche in programma il 25 settembre. 

Il tempo utile per presentare i simboli è terminato alle ore 16 di oggi. 

I simboli sono stati presentati da 98 soggetti politici. 

Per la scorsa tornata elettorale del 2018 il ministero dell'Interno esaminò 103 contrassegni depositati e ne ammise 75.

Ora parte l'attività istruttoria del Viminale. Entro 48 ore, ovvero entro la mezzanotte del 16 agosto, verranno notificati gli ammessi e i ricusati, poi saranno concesse altre 48 ore per presentare le eventuali integrazioni, modifiche richieste, o ricorsi. La partita dei simboli al Viminale dunque si chiuderà definitivamente il 18 agosto. Poi la Cassazione avrà quindi altri due giorni per decidere sugli eventuali ricorsi: dunque il ministero dell'Interno entro il 20 agosto comunicherà alle Corti di Appello i nomi dei rappresentati per le liste. Dopodiché i partiti promossi dovranno presentare, il 21 e 22 agosto, la lista dei candidati nei tribunali e nelle Corti d'appello dei capoluoghi.

Tra gli ultimi simboli depositati arriva anche Italiani con Draghi - Rinascimento, unico logo con il nome del presidente del consiglio: oltre alla scritta Italiani con Draghi il simbolo è corredato da una striscia tricolore. 

Il premier Mario Draghi non era al corrente del simbolo Italiani con Draghi, fa sapere Palazzo Chigi in riferimento ai requisiti di trasparenza del simbolo che, a questo punto, potrebbero non essere soddisfatti portando anche all'annullamento.

L'ultimo contrassegno presentato è il simbolo di Italia dei Diritti, mentre stamani il primo simbolo affisso in bacheca è stato quello della lista 'Peretti-Democrazia Cattolica liberale', sempre con lo scudo crociato. Il secondo contrassegno depositato oggi è invece quello dell'ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, 'Unione Popolare con de Magistris'. Affisso al Viminale anche un secondo simbolo di de Magistris, 'Up con De Magistris': dentro i loghi di Dema, Manifesta, Rifondazione Comunista e Potere al Popolo.

Marco Rizzo, Antonio Ingroia ed Emanuele Dessì hanno depositato al Viminale il contrassegno elettorale della lista 'Italia Sovrana e Popolare'. "Vogliamo un'Italia sovrana e popolare, come dice il nostro simbolo. Il capo politico è Giovanna Colone, una lavoratrice della scuola che è stata sospesa per la vicenda del vaccino. Abbiamo voluto impersonificare quello che noi vogliamo rappresentare: una del popolo che ha sofferto", ha detto Rizzo. Toscano ha invece assicurato che completeranno "a breve la raccolta firme.

C'è un entusiasmo incredibile. Possiamo contare sul sostegno di tantissima gente che in tutta Italia ha preso d'assalto i nostri banchetti", annunciando che "tutti e quattro" i presenti al Viminale "saranno candidati".  Dessì infatti si presenterà al Senato, mentre Rizzo, Ingroia e Toscano alla Camera. Perché votare Italia Sovrana e Popolare e non Italexit? "Paragone - dice Toscano - ha sempre espresso una posizione atlantista, non ho mai sentito da lui esprimere la necessità di aprire una stagione multipolare. Il nostro nemico comunque è Draghi - ha ribadito il presidente di Italia sovrana - e il sistema che ha chiuso gli italiani in casa".

Depositato oggi anche il simbolo di +Europa, che alle prossime elezioni si vedrà in coalizione con Pd, Alleanza Verdi Sinistra e Impegno civico. Nel contrassegno, come nel 2018, depositato dalla tesoriera Maria Saeli, si legge '+Europa con Emma Bonino', indicata come capo politico del partito. 

Se fossero rimasti con Calenda "sarebbe stato simile", con i nomi dei leader dei due partiti. Da quanto si è appreso, tra +Europa e il Pd è rimasto valido l'accordo siglato quando ancora si era in coalizione con Carlo Calenda. "Per quanto riguarda i collegi uninominali di fascia alta, quelli dove l'elezione è più probabile con il Pd resta l'accordo" già siglato, "ovvero il partito di Bonino esprimerà il 30% dei candidati", ha ricordato la tesoriera del partito. 

Saeli inoltre ha ribadito che Bonino, Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi saranno sicuramente candidati. "Abbiamo presentato anche il nostro programma - ha detto Saeli - frutto sia dei nostri tavoli tematici e del lavoro sul territorio, sia del 'programma con l'Italia' fatto da Carlo Cottarelli", ha detto la tesoriera aggiungendo: "Cottarelli ha scritto gran parte del nostro programma si candiderà sicuramente nell'uninominale e forse anche nel proporzionale", ha detto Saeli, che alla domanda se sarà anche lei candidata nella lista, ha risposto: "Vediamo"

Marco Cappato ha depositato e affisso al Viminale il simbolo per le elezioni politiche: Referendum democrazia con Cappato. Il tesoriere dell'associazione Luca Coscioni, leader della lista ha ribadito che intende raccogliere le firme solo con modalità digitale. "Siamo partiti con una marcia dal Quirinale e ci appelliamo al presidente del Consiglio Mario Draghi perchè le elezioni non siano antidemocratiche.

Servono 60mila firme per poter partecipare alle elezioni e chiediamo di poter utilizzare quelle digitali per rivitalizzare la democrazia. Come già accade per i referendum, le firme digitali devono essere valide per partecipare alle elezioni politiche", ha detto Cappato dopo il deposito sottolineando che raccoglierà le firme "solo in modalità digitale", chiedendo a Draghi di "equiparare referendum ed elezioni politiche".

La raccolta firme digitali o con spid potrà essere effettuata sul sito listareferendumedemocrazia.it. "Per togliere ogni dubbio" e far ammettere le firme raccolte Cappato ha poi aggiunto: "Chiediamo al presidente Draghi una interpretazione della norma. Se dovesse accadere che le firme non vengano riconosciute abbiamo già pronti i ricorsi che presenteremo in tutte le sedi nazionali e internazionali", ha annunciato Cappato. "Evidentemente il problema non è raccogliere le firme ma sono le condizioni e gli ostacoli che vanno rimossi all'esercizio della democrazia del nostro paese", ha concluso. 

Elezioni politiche, depositati 101 simboli. Spunta anche "Italiani con Draghi". Il Tempo il 14 agosto 2022

Si è chiusa la corsa per la presentazione dei simboli al Viminale: in tutto in vista del voto del 25 settembre sono stati depositati 101 contrassegni. Oggi è stata la giornata di +Europa con Emma Bonino, di Peretti-Democrazia Cattolica liberale (primo a varcare la soglia del ministero dell'Interno in mattinata), a seguire Unione Popolare con De Magistris e Referendum e democrazia di Marco Cappato. È tuttavia il simbolo con Italiani con Draghi-Rinascimento a rendere "interessante" l'ultimo tabellone che espone i contrassegni a chiusura.

Un'iniziativa, filtra da palazzo Chigi, del tutto personale che non ha ricevuto "l'avallo del presidente del Consiglio" il quale "non era stato informato tantomeno ne era a conoscenza". Insomma la popolarità dell'ex capo della Bce - che ora si attesta al 56% secondo solo al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (60%) - si è concretizzata in un simbolo elettorale, ma non avendo l'autorizzazione del diretto interessato, molto probabilmente non sarà ammesso. Il verdetto del ministero, infatti, è atteso per il 16 agosto e ci sarà tempo fino al 17 per presentare ricorso.

Completato il primo adempimento di deposito di simboli, programmi e dichiarazioni di apparentamento, ora i partiti sono concentrati per la formazione delle liste. Domani dovrebbe svolgersi la direzione del Partito democratico, convocata dal segretario Enrico Letta alle 11, ma diverse voci "ipotizzano" uno slittamento di un giorno, forse due. Al Nazareno si starebbe ancora discutendo e il processo dell'assegnazione dei collegi deve riuscire a mettere d'accordo le richieste interne al partito con gli accordi presi con gli alleati di coalizione.

Un clima frizzante che ha registrato la prima porta sbattuta. Dario Stefàno, in un post sui social al vetriolo, ha infatti lasciato i dem accusando il partito di aver commesso una "serie di errori di valutazione che sta continuando ad inanellare". Tra conferme e uscite di scena - più o meno consensuali - (tra i nomi ormai confermati ci sono Elly Schlein, Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carlo Cottarelli), sembrerebbe chiusa la partita per il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che correrà nel proporzionale, collegio Lazio 1. Ancora da decidere se alla Camera o al Senato. Sotto l'ala della lista 'Democratici e progressisti', certa ormai la presenza dei big Roberto Speranza, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, mentre fanno discutere le probabili collocazioni di Federico D'Incà (Veneto) e Davide Crippa (Campania).

Nel Terzo polo ormai certa la corsa di Matteo Renzi in Senato (in diversi listini) e Carlo Calenda a Roma per la Camera. Giuseppe Conte invece si è candidato nel collegio Lazio 1 alla Camera. Proprio dalla galassia 5Stelle è stato reso noto il programma, accompagnato da un video sui social del leader pentastellato: "Questo è un momento cruciale, bisogna scegliere da quale parte stare. Se dalla parte dei pochi, pochissimi che comandano l'Italia. Sono i potentati economici, sociali e politici che controllano da tempo il Paese e che non vogliono il cambiamento. Oppure stare dall'altra parte", scandisce l'avvocato pugliese parlando direttamente agli elettori. Di nove punti la proposta del Movimento (gli stessi che erano presenti nel documento della discordia presentato a Mario Draghi).

Si va dalle ricette sul fisco con Cashback fiscale; cancellazione definitiva dell'Irap; il taglio del cuneo fiscale per imprese e lavoratori; la cessione dei crediti fiscali strutturale (stabilizzando l'innovativo meccanismo che ha decretato il successo del Superbonus) alla maxirateazione delle cartelle esattoriali. Tra le misure per i lavoratori e il welfare il salario minimo e lo stop a stage e tirocini gratuiti.

Nel centrodestra, invece, il silenzio è quasi tombale. Le liste sono tutte da completare e si utilizzerà fino all'ultimo giorno utile (il 22 agosto alle 20) per comporre il puzzle. Tra le fila del Carroccio nomi noti come quello di Maria Giovanna Maglie e Annalisa Chirico dovrebbero essere presentati in una conferenza stampa a Roma in settimana, mentre da Fratelli d'Italia non sono ancora confermate le candidature dei due giornalisti Gennaro Sangiuliano e Clemente Mimun, e dell'ex pm Carlo Nordio. E in Forza Italia? Per ora la certezza si ha solo su Adriano Galliani e Renato Schifani, fuori dalla corsa per le prossime elezioni. Berlusconi dirà l'ultima parola sulle liste, come ha sempre fatto, per ora la sua preoccupazione è quella di sfatare qualsiasi malignità che lo vedrebbe architettare le dimissioni di Mattarella per favorire lui stesso. "Io al Quirinale? È assolutamente fuori dalla mia testa", assicura. Almeno fino alla prossima 'pillola' elettorale.

La carica dei 101 contrassegni. In corsa pure un (finto) Draghi. Palazzo Chigi disconosce le formazioni col nome del premier. Sono 98 i soggetti in corsa, 48 ore per i controlli. Lodovica Bulian il 14 agosto 2022 su Il Giornale.  

La carica dei 101 simboli e dei 98 soggetti politici aspiranti candidati alle elezioni del 25 settembre. Sono stati depositati tra venerdì e ieri al Viminale che entro 48 ore dovrà vagliare l'elenco e accendere il semaforo verde o rosso per decidere così chi potrà correre alle Politiche. Ci saranno ulteriori due giorni per presentare eventuali integrazioni, modifiche o ricorsi. Dopo l'agenda Draghi, il nome del premier continua a essere protagonista della campagna elettorale, ma più che tirato per a giacchetta, usato come slogan pro o contro. Tra gli ultimi simboli depositati c'è «Italiani con Draghi - Rinascimento», unico logo con il nome del presidente del consiglio, accompagnato da una striscia tricolore. Un'iniziativa che «non ha nessun avallo» da parte di Draghi che «non era al corrente», fanno sapere da Palazzo Chigi. Motivo per cui potrebbe non essere ammesso, dato che le regole non consentono di presentare nel simbolo un nome senza il consenso del diretto interessato. «Il nostro nemico è Draghi e il sistema che ha chiuso gli italiani in casa», dicono invece Marco Rizzo, Antonio Ingroia ed Emanuele Dessì a scanso di equivoci, spiegando il loro simbolo «Italia sovrana e popolare». Sembra essere tornata tanta voglia di Dc al centro: da Libertas allo scudo crociato di «Noi moderati» al «Noi di Centro» di Clemente Mastella che rivendica di essere «l'ultimo erede, ancora presente nelle istituzioni democratiche, dei valori della Democrazia Cristiana».

«Quest'anno ci sono stati meno personaggi curiosi che hanno presentato il simbolo: alcuni di questi sono effettivamente nuovi, altri invece sono già consolidati, come Mirella Cece, depositaria e fondatrice del Sacro Romano Impero Cattolico», spiega all'Adnkronos Gabriele Maestri, giurista ed esperto di simboli, che nota anche una «discreta simbologia della Prima Repubblica che resiste, come il Partito Repubblicano Italiano con il suo simbolo storico, l'edera, o chi la reinterpreta, come il Partito Comunista Italiano o il Partito Liberale Italiano il cui simbolo è presente due volte. Ci sono poi dei simboli ufficiali collettivi - continua Maestri - che correranno alle elezioni legati alla possibilità dell'esenzione dal raccogliere firme o per cercare di raggiungere il 3% come Noi Popolari, ma anche Centro Democratico di Tabacci che ha permesso di non raccogliere firme a Impegno Civico di Di Maio, oppure Azione di Calenda che può presentarsi alle elezioni grazie a Italia Viva».

Molti sono rimasti gli stessi dell'ultima corsa, con piccole variazioni. Più Europa ha il contrassegno uguale a quello del 2018, col nome di Emma Bonino, indicata anche come capo politico. I big invece hanno confermato i simboli tradizionali, con la leader di Fratelli d'Italia che dopo le polemiche si dice fiera di mantenere la fiamma nel logo. Poi ci sono il M5s, con il suo solito «rosso», ma senza il nome di Conte, e il Pd che stavolta aggiunge al simbolo di sempre la scritta «Italia democratica e progressista». Stesso logo delle ultime elezioni anche per la Lega, «con Salvini Premier», a chiarire le ambizioni del leader. Non cambia neanche Forza Italia con Berlusconi presidente, ma aggiunge il riferimento al "partito popolare europeo" nel simbolo: è la prima volta di un rimando alla famiglia europea in una competizione nazionale. Il terzo polo di Calenda e Renzi, porta, come da accordi tra i due, il nome del leader di Azione nel contrassegno.

Ci sono poi i simboli dell'ex magistrato Luca Palamara, che non ha nascosto negli ultimi tempi l'aspirazione politica, e quelli di vecchie conoscenze come Adinolfi e l'ex Casapound Di Stefano. Tra le stravaganze di ogni elezione si registrano il Partito della Follia del sedicente sessuologo dottor Seduction, la Rivoluzione Sanitaria di Panzironi, quello della presunta dieta-curativa, i Gilet Arancioni e i Forconi, Vita della no vax Sara Cunial, il Partito delle Buone Maniere.

Filippo Ceccarelli per “Venerdì – la Repubblica” il 29 agosto 2022.

Eccola di nuovo, la follia: inconfondibilmente italiana, ma stavolta accettata e vidimata. Nel gran teatro dei contrassegni elettorali allestito l'altra settimana davanti al ministero dell'Interno un posticino di riguardo neurovisivo se l'è ritagliato senz' altro il "Partito della follia", scritto in grande, e sotto, minuscolo, "creativa", nel cui simbolo compare la caricatura del fondatore, il dottor Giuseppe Cirillo da Caserta, avvinghiato a una sirena. 

Noto ai maniaci della micropolitica fin dal secolo scorso con l'auto-nomignolo di "Dottor Mandrillo", Cirillo è un accorto performer già inventore del "Partito delle buone maniere", poi alla testa di un certo numero di liste di ordinaria sessuomania dedite alla distribuzione gratuita di preservativi poi trasformatesi nel partito degli "Impotenti esistenziali". Fuori dal Viminale ha inscenato una specie di matrimonio con una creatura in abito da sposa, incarnazione della suddetta sirena, che però il cappellaccio e la mascherina rendevano un po' sinistra. 

Chi voglia saperne di più, di Cirillo e degli altri eccentrici demiurghi dei più assurdi partitini, può utilmente consultare il ricchissimo blog e le diramazioni social del massimo curioso e studioso dell'effervescente materia, Gabriele Maestri (isimbolidelladiscordia.it), che da anni con spirito di lieto sacrificio partecipa a quel mondo di effervescente eccentricità. 

Quest' anno ha contato quattro Dc e sei scudi crociati; ha ritrovato l'estetica cotonata di Mirella Cece e del suo Sacro Romano Impero Liberale e Cattolico, pure beandosi del formidabile acronimo "Pa.pa.ri.n.i" che s' è attribuito una formazione neorisorgimentale, pure notando come nel confuso accumulo di scritte che saturano l'emblema del Movimento per l'Instaurazione del Socialismo Scientifico Cristiano compaia l'appello "Better call Pierluca", inteso come l'avvocato Pierluca Dal Canto, presidente e ideologo.

Ora, tutto ciò può essere etichettato come follia, ma a patto di considerare quest' ultima, specie in politica, come qualcosa che porta alla luce gli umori, i sommovimenti e le fermentazioni dell'inconscio sociale e individuale. Con spirito di rassegnata curiosità e uno sguardo di allegra comprensione per il dottor Cirillo e il suo elogio della pazzia, vale dunque osservare sotto questa luce, oltre alla caduta del governo Draghi sull'inceneritore di Santa Palomba: il bacio di Calenda a Letta, il carteggio Morgan-Meloni, le finte nozze di Berlusconi, le peripezie statutarie e i criptici post di Grillo, il dialogo social tra Salvini e le mucche, l'appoggio del Psdi a Di Maio, la disputa sullo Xanax fra le ministre di Forza Italia. «Nel più pazo laberintho», sosteneva Francesco Guicciardini, ora e sempre sotto quel segno tutto nostro.

Elezioni, 14 partiti esclusi: ecco quali sono. Federico Garau il 16 Agosto 2022 su Il Giornale.

Comunicate i simboli che non potranno partecipare alle elezioni perché non sono ritenuti idonei. Fra queste, il movimento di Palamara e il simbolo in cui veniva menzionato il nome di Mario Draghi.

È corsa alle elezioni politiche del sempre più vicino 25 settembre 2022, ma per alcune compagini l'avventura finisce già qui. Domenica 14 agosto sono state presentate al Ministero dell'Interno gli ultimi simboli dei movimenti politici, ma non tutti potranno partecipare alla competizione politica. Ad oggi si apprende che 14 contrassegni depositati al Viminale non sono stati ritenuti idonei, e per tali ragioni non saranno ammessi alle elezioni di settembre.

Come c'era da aspettarsi, fra i simboli eliminati c'è "Italiani con Draghi-Rinascimento", la lista in cui è stato inserito il nome dell'ex presidente del Consiglio senza però il suo avvallo. La presentazione di un simbolo che riporta un nome senza il consenso del diretto interessato viola la regolamentazione di trasparenza, pertanto la decisione del ministero dell'Interno non giunge inattesa.

Presentati i simboli. E in uno spunta il nome di Draghi...

Eliminata dall'agone politico anche la lista dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, che aveva il nome di "Palamara Oltre il Sistema". Seguono poi Partito Liberale Italiano, Movimento Politico Libertas, Sud chiama Nord (in questo caso la lista è stata ritirata), Partito Pensionati al Centro, Democrazia Cristiana, Pensiero e Azione Ppa, L'Italia s'è desta, Lega per l'Italia, Partito Federalista Italiano, Movimento per l'instaurazione del socialismo scientifico cristiano - No alla cassa forense, Democrazia Cattolica Liberale e Up con De Magistris.

Sono 14, dunque, le liste eliminate, anche se nel corso di questa settimana sarà comunque possibile presentare dei ricorsi. Entro sabato 20 agosto, in ogni caso, tutti i nomi correlati di firme saranno comunicati alle Corti di Appello e da sabato scatteranno i canonici 30 giorni di campagna elettorale.

Francesco Boezi per “il Giornale” l'11 agosto 2022.

Il cosiddetto effetto flipper è un pensiero in grado di accompagnare le segreterie di partito durante la composizione delle liste. I dirigenti delle formazioni politiche che volessero la certezza di poter controllare la natura blindata di un seggio dovrebbero prendere in considerazione questa possibilità: un rimbalzo imprevisto, una sorta di variabile dipendente che può sconvolgere qualche piano. Certo: qualcosa può sfuggire, magari più di qualcosa, anche ai più preparati.

Il professor Alfonso Celotto, costituzionalista e ordinario di Diritto costituzionale, chiarisce in cosa consista il fenomeno in questione: «L'effetto flipper - spiega al Giornale - è uno degli aspetti di dettaglio del Rosatellum. Come sappiamo, il cuore della legge è l'uninominale. Poi, però, c'è anche il proporzionale, rispetto al quale bisogna tenere conto dei famosi listini, quelli bloccati da due-quattro persone. Cosa può accadere? Che uno di questi listini - annota - non copra il numero di eletti previsti in base al numero di voti ottenuti. Se il listino non è sufficiente a coprire il numero di eletti previsto, i seggi vengono assegnati nei collegi vicini. Un fenomeno che è accaduto con il M5S». E ancora: «E ci furono anche parecchi ricorsi. Al netto di tutto - conclude Celotto - , voglio dire che l'Italia avrebbe bisogno di una legge elettorale semplice, com'era il proporzionale puro». 

Il dibattito sulla legge elettorale - come sappiamo ha interessato la fase finale della legislatura, che è tuttavia poi volta al termine con le dimissioni del governo Draghi. La possibilità che l'effetto flipper si inneschi riguarda soprattutto la Camera dei deputati ma può interessare, anche se non allo stesso modo, il Senato, dove - come spiegato da YouTrend - l'effetto flipper può intervenire per le circoscrizioni che prevedono collegi plurinominali. 

Non è semplice calcolare quanti e quali effetti avrà l'effetto flipper sulle imminenti elezioni politiche. Salvatore Vassallo, presidente dell'Istituto Cattaneo e professore di Scienza Politica, fa una previsione condita da una premessa: «Va detto che l'effetto flipper - esordisce - non è una carognata di chi ha scritto la legge. È inevitabile per contemperare da un lato la ripartizione proporzionale dei seggi tra le liste su base nazionale (Camera) o regionale (Senato) e dall'altro l'assegnazione di un numero di rappresentanti ad ogni territorio proporzionale alla popolazione». E ancora: «Alla fine, in caso di contrasto, la legge deve dire quale dei due principi deve prevalere e la Rosato fa prevalere il principio della proporzionalità tra le liste».

Poi anche Vassallo spiega il meccanismo, con tanto di ulteriori aspetti: «Se dopo aver distribuito i seggi proporzionalmente tra le liste all'interno di ciascun collegio plurinominale ci sia accorge che, nel totale, un partito ne ha ottenuti più del dovuto, glieli si deve togliere in quei collegi in cui li aveva presi pagandoli con meno voti, per darli ai partiti che, in prima battuta, ne avevano presi meno del dovuto. Se lo scambio non si può fare dentro la stessa circoscrizione - ha fatto presente - , si deve andare in altre, anche alterando il numero dei seggi assegnato a ciascun territorio».

Ma quale sarà il peso effettivo su queste elezioni? «Questo - chiosa - rende imprevedibile e bizzosa l'assegnazione di alcuni seggi, crea comprensibili nevrosi tra i diretti interessati, ma è inevitabile, se si vuole mantenere la proporzionalità del sistema, e gli effetti politici a essere onesti sono marginali». Dunque l'effetto flipper non sconvolgerà il risultato dell'appuntamento elettorale del prossimo 25 settembre ma farà sì che qualche «diretto interessato» debba attendere prima di conoscere il futuro del suo cammino politico

Bocciata la lista di Cappato consegnata su chiavetta. Il Domani il 23 agosto 2022.

Cappato ha già annunciato ricorso e spera che sulla questione intervenga anche il premier Draghi. A favore delle firme raccolte con Spid si sono espressi il responsabile Innovazione di Fratelli d'Italia Federico Mollicone e la senatrice Pd Valeria Valente, capogruppo in commissione Affari Costituzionali

«Le Corti d’Appello dove ieri sono state depositate le firme digitali a sostegno delle candidature della lista Referendum e Democrazia hanno deciso di escludere la nostra presenza alle elezioni del 25 settembre». È quanto afferma Marco Cappato dopo che ieri sera, poco prima della scadenza per la consegna delle liste elettorali, Referendum e democrazia con Cappato si è presentata con una chiavetta in cui erano contenute le centinaia di firme per sostenere le candidature.

È un caso unico, la prima volta nella storia italiana che le firme per la candidatura vengono consegnate in formato elettronico. Quelle raccolte sono firme digitali, «tutte certificate con Spid e quindi più sicure delle altre e già verificate», spiegano gli attivisti. Ma ora la procedura non è stata accettata e Marco Cappato ha già annunciato ricorso.

LE MOTIVAZIONI

«Le motivazioni – si legge nel comunicato – differiscono ma, in tutte le circoscrizioni, non si è tenuto conto delle modificazioni legislative sopravvenute dall’adozione delle legge elettorale e dall’introduzione della firma digitale certificata per sottoscrivere documenti ufficiali». Ora Cappato spera che nelle prossime 48 ore intervenga il governo Draghi con un decreto.

LA BATTAGLIA

Questa mattina, ospite del talk show politico Omnibus su La7 Cappato in attesa del riscontro sulla validità o meno delle firme aveva già annunciato che in caso di opposizione, «ricorreremo anche a livello internazionale contro una discriminazione che privilegia chi già presente in parlamento, esonerato dal raccogliere le firme cartacee, mentre chi non lo è come noi, in nemmeno un mese era chiamato alla raccolta delle sottoscrizioni nelle piazze, da far certificare da comuni, con il coinvolgimento di notai, il tutto nella settimana di Ferragosto». E ha ricordato che «a nostre spese abbiamo raccolto circa 30mila firme digitali».

FDI E PD SOSTENGONO L’INIZIATIVA

Sulla raccolta di firme digitali c’è stata un’approvazione trasversale. Dopo che PiùEuropa aveva dimostrato il suo appoggio a inizio agosto, il responsabile Innovazione di Fratelli d’Italia Federico Mollicone si è detto «totalmente d’accordo sul tema della Spid, perché mai una certificazione digitale unica non debba essere riconosciuta in un contesto in cui l’obiettivo è l’identificazione dell’individuo che sottoscrive una firma? L’attuale metodo è farraginoso».

Anche la senatrice Pd Valeria Valente, capogruppo in commissione Affari Costituzionali si è espressa in questo senso: «Democrazia digitale significa allargare spazi della democrazia, siamo a favore di questa istanza giusta, bisogna affrontare il tema in vista di queste politiche e poi porlo al centro di una necessaria riforma della legge elettorale».

Il costituzionalista Alfonso Celotto ha chiarito le possibilità di intervento del governo Draghi: «È evidente, sul tema, la presenza di un buco nel testo di legge vigente. Solo il governo può intervenire per colmarlo con un decreto ad hoc».

Disobbedire costa. Nessun partito ha candidato Marco Cappato: al Parlamento non interessano questioni di vita e di morte. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

Se la politica è agire trasformando, allora c’è molta più politica nella giusta causa assunta da Marco Cappato che in questo caotico avvio di campagna elettorale: la scelta, cioè, di farsi compagno di strada di Elena, malata oncologica terminale, fino alla città elvetica di Basilea dove ha potuto darsi la morte il 3 agosto scorso. Da questa esperienza umana integrale – di vita e morte, di diritti e divieti, di coraggio e infelicità, vissuta fino alla fine – scaturisce quello che Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 5 agosto) ha chiamato un «caso Cappato-bis», dagli inediti risvolti giudiziari, costituzionali, normativi, finanche elettorali. Provo a metterli in fila.

Gli sviluppi giudiziari ruotano attorno all’art. 580 c.p. che – dopo la nota sentenza costituzionale n. 242/2019 sorta dal precedente “caso Cappato” – punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio, salvo si tratti di persona 1) affetta da patologia irreversibile, 2) fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili, 3) dipendente da trattamenti di sostegno vitale, 4) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Qui, a mancare, è la terza condizione. Nonostante la diagnosi infausta e senza scampo, la vita di Elena non dipendeva (ancora) da alcun supporto meccanico o terapeutico: il che non consente di scriminare penalmente la condotta di Cappato. È da escludersi l’istigazione. I quattro minuti videoregistrati dove Elena dichiara la sua volontà, le sue ragioni, il suo j’accuse verso l’Italia che la condanna a morire in esilio, attestano un proposito suicidario autonomamente determinato. Elena non viveva una condizione di abbandono terapeutico o affettivo: era curata, amava riamata, ma ha scelto di morire. Sulla sua volontà Cappato non ha influito.

Potrebbe configurarsi, invece, l’agevolazione al suicidio che l’art. 580 c.p. punisce «in qualsiasi modo» sia prestata. Autodenunciandosi, Cappato ha qualificato come «indispensabile» il suo aiuto alla scelta di Elena. Spetterà all’autorità giudiziaria accertare se, davvero, si è trattato di condotta materiale direttamente e strumentalmente connessa all’atto suicidario di una persona autosufficiente e non ancora in punto di morte. E saranno sempre i magistrati a valutare se ricorrano gli estremi per una misura cautelare nei confronti di Cappato, che ha già dichiarato la volontà di aiutare, anche in futuro, altri malati italiani che intendessero recarsi in Svizzera dove ottenere assistenza medica alla loro morte volontaria. Qui e ora questo solo si può ipotizzare: l’imputazione per un reato punito con la reclusione da cinque a dodici anni, e un possibile provvedimento cautelare per evitarne il pericolo di reiterazione.

Autodenunciandosi, Cappato non ha chiesto di chiudere un occhio, semmai di spalancarli su quanto ha fatto. Obbedendo a un diffuso tic linguistico spinto fino all’abuso, Giovanni Maria Flick (Avvenire, 3 agosto) lo definisce un «atto provocatorio», intendendo così ridimensionarlo per meglio accantonarlo, perché le provocazioni – come usa dire – non vanno raccolte, sono ostentazioni fini a sé stesse, non dettano legge. È un’etichetta sbagliata. Non si tratta nemmeno di un gesto sacrificale, deriva estranea a chi possiede una cultura politica liberale e libertaria. Né di una mera testimonianza simbolica, come l’obiezione di coscienza del medico all’aborto: un’esenzione per legge a costo zero è facile; la violazione pubblica della legge, comportando il rischio del carcere, è tutt’altro che una passeggiata.

Quella messa in atto è una pratica nonviolenta di lotta politica che ha un nome proprio, disobbedienza civile, il cui obiettivo non è trasgredire le regole, semmai cambiarle. «Disobbedire (civilmente) è lo strumento indispensabile per chi vuole andare alla radice dei problemi senza sradicare la pianta della democrazia»; è una praxis essenziale «per ogni tipo di società aperta che voglia autocorreggersi e innovare»: così scrive Marco Cappato in un suo libro – titolato come un manifesto politico – Credere, disobbedire, combattere (Rizzoli, 2017). Cappato è un visionario pragmatico, Considero la sua condotta un atto di civismo, non di cinismo. Un’autentica lezione di diritto costituzionale, laddove insegna come ribellarsi a una legge irragionevole che le Camere non intendono cambiare o abrogare: pubblicamente disobbedendo e accettandone le conseguenze, si va a processo per chiederne l’impugnazione davanti al Giudice delle leggi. Così, in nome della legalità costituzionale, sarà possibile per la Consulta annullare o rimodulare la norma impugnata.

Dipendere da trattamenti salvavita – meccanici o terapeutici – per poter accedere al suicidio medicalmente assistito rappresenta, nel panorama comparato, un unicum legislativo e giurisprudenziale. La strada che porta a una nuova questione di legittimità può rivelarsi tutta in salita. A Palazzo della Consulta non si contesterebbe una norma (l’art. 580 c.p.) per il suo anacronismo rispetto all’avanzare del sapere scientifico e allo sviluppo delle nuove tecnologie. Né si chiederebbe di aggiungervi un’ulteriore eccezione alla regola che punisce l’aiuto al suicidio. Ad essere impugnato direttamente sarebbe, semmai, il giudicato costituzionale della sent. n. 242/2019, per aver introdotto la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale tra le quattro condizioni necessarie a “depenalizzare” il reato. Qui sta il problema. «Contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione» (art. 137, comma 3, Cost.) mentre la quaestio mira proprio a sindacare la soluzione adottata dalla Consulta.

Ecco perché simili impugnazioni sono dichiarate inammissibili di default, rappresentando – in forma surrettizia – un sindacato di merito di una decisione d’incostituzionalità della quale si cerca di eludere la forza vincolante (art. 136 Cost.). Così, almeno fino ad oggi, hanno ragionato i giudici costituzionali: serviranno argomenti giuridici di segno opposto – che pure non mancano – per rovesciare tale giurisprudenza. A questo ostacolo processuale se ne aggiunge un altro, squisitamente di politica del diritto. La nostra Corte costituzionale – diversamente da altri tribunali costituzionali – tiene a distanza di sicurezza le scelte di fine vita dal principio di autodeterminazione.

La verità (o qualcosa che molto le assomiglia) è che a Palazzo della Consulta, quando sono in gioco i “diritti infelici”, sembra prevalere un riflesso automatico: proteggere le persone da scelte individuali ritenute contrarie al loro bene e guidarle nel loro stesso interesse, anche al prezzo di limitarne l’autonomo volere.

Si chiama paternalismo giuridico: una categoria che dovrebbe essere estranea a una democrazia liberale, di cui contraddice il pluralismo etico e la pari dignità sociale tra le persone. Servirebbe una legge facoltizzante, aperta dunque all’opzione individuale, che guardi all’eutanasia non come a un reato, a un peccato o a una pulsione malata. Si tratta, però, di un’aspettativa tradita da troppo tempo, nonostante i tanti moniti e le tentate iniziative legislative, anche popolari. Per svegliare le nuove Camere da questo letargo servirà un interpello quotidiano e Marco Cappato, da parlamentare, avrebbe potuto incarnarlo al meglio.

La sua sarebbe stata una candidatura indipendente (e non per modo di dire), capace di intercettare un elettorato reattivo che non vota per appartenenza. Avrebbe limitato il danno reputazionale di un Parlamento incapace di affrontare questioni (letteralmente) di vita e di morte, di cui tantissimi elettori hanno fatto o fanno esperienza diretta o per interposta persona. Eppure, nessun partito si è mostrato così generoso e lungimirante da assicurare a Marco Cappato un diritto di tribuna. Per il Parlamento che verrà, è un pessimo abbrivio. Andrea Pugiotto

Luca Palamara non raccoglie le firme: la sua lista “Oltre il sistema” non sarà sulla scheda. Lui: “Questa legge privilegia i grandi partiti”.

"Raccogliere le firme de visu, collegio per collegio, in tempi così stretti e nel periodo estivo, ci ha impedito nei fatti di poter concorrere", lamenta l'ex pm. In questo modo, scrive, è "impedita la rappresentanza di tutto quel consenso e quell'entusiasmo manifestato da tanti cittadini". In realtà anche soggetti di piccole dimensioni o appena formati, come Unione popolare o Italexit di Gianluigi Paragone, hanno completato con successo la raccolta firme. Il Fatto Quotidiano il 22 agosto 2022.

“La lista “Palamara Oltre il sistema” non concorrerà alle elezioni politiche del 25 settembre, ma l’impegno sul grande tema della giustizia ovviamente continua”. Lo rende noto Luca Palamara, l’ex pm radiato dalla magistratura dopo lo scandalo delle nomine pilotate al Csm, comunicando di non aver raggiunto il numero di firme necessarie per presentare il simbolo della sua associazione (depositato nei giorni scorsi al Viminale). “L’enorme entusiasmo e la grande partecipazione che hanno animato i numerosi incontri di questi mesi sono un patrimonio che non andrà assolutamente disperso e rappresentano soltanto l’inizio di un grande progetto che ha preso forma e che continuerà a crescere nei prossimi mesi per far valere la sua voce e portare avanti il suo impegno civile e politico”, afferma Palamara.

“Purtroppo raccogliere le firme de visu, collegio per collegio, in tempi così stretti e nel periodo estivo, senza avere la possibilità di farlo via pec con la firma digitale, ci ha impedito nei fatti di poter concorrere”, lamenta l’ex pm. In questo modo, scrive, è “impedita la rappresentanza di tutto quel consenso e quell’entusiasmo manifestato da tanti cittadini in occasione dei numerosi incontri pubblici che sul tema della giustizia sono stati affrontati negli ultimi due anni e che proseguiranno nei prossimi mesi con tanti incontri pubblici già fissati. È indubbio che il sistema elettorale così come è tenda a privilegiare i partiti grandi e coloro che sono riusciti ad utilizzare un emendamento per assicurarsi la possibilità di non raccogliere le firme, precluso invece alle nuove forze politiche”. In realtà anche soggetti di piccole dimensioni o appena formati, come Unione popolare o Italexit di Gianluigi Paragone, hanno completato con successo la raccolta firme.

Ecco i 14 partiti esclusi dalle elezioni per il simbolo: anche quelli di Giarrusso, Palamara e de Magistris. Dei 101 simboli di partiti depositati presso il ministero dell'Interno, solo 70 saranno presenti con certezza sulle schede elettorali del 25 settembre. Mirko Ledda il 16-08-2022 su notizie.virgilio.it.

Il ministero dell’Interno ha ammesso solo 70 dei 101 simboli depositati da partiti e movimenti per correre alle elezioni anticipate del 25 settembre. Si tratta della prima scrematura prima della presentazione delle liste e delle firme necessarie per presentarsi alle urne.

Quali partiti sono stati esclusi dalle elezioni a causa dei simboli

Dei 101 contrassegni depositati, 14 non hanno passato il vaglio o sono stati ritirati. Per altri 17, invece, sono necessarie delle integrazioni, in quanto “non consentono la presentazione di liste”.

Di seguito i nomi dei simboli non ammessi dopo l’esame ministeriale.

Democrazia Cattolica Liberale.

Democrazia Cristiana.

Italiani con Draghi Rinascimento (presentato all’insaputa dell’ex premier Mario Draghi).

L’italia Sè Desta (scritto in questo modo).

Lega per l’Italia.

Movimento per l’instaurazione del socialismo scientifico cristiano – No alla cassa forense.

Movimento Politico Libertas.

Palamara oltre il Sistema, dell’ex pm Luca Palamara.

Partito Federalista Italiano.

Partito Liberale Italiano.

Partito Pensionati al Centro.

Pensiero e Azione – PPA, Popolo delle Partite Iva.

Sud chiama Nord, di Dino Giarrusso, ex Movimento 5 Stelle (il simbolo è stato ritirato).

Up con de Magistris (si tratta del secondo simbolo di Luigi de Magistris, ex sindaco di Napoli. Il primo, Unione Popolare con de Magistris, è invece passato).

Altri partiti rischiano di rimanere esclusi a causa della raccolta firme

Non saranno gli unici partiti esclusi. Il 21 e il 22 agosto, infatti, presso le cancellerie delle Corti di Appello, andranno presentate le liste. E contestualmente le sottoscrizioni degli elettori.

I prossimi saranno gli ultimi giorni utili per completare la raccolta delle firme e raggiungere il quantum di 56.250 sottoscrizioni, di cui 36.750 per la Camera dei Deputati e 19.500 per il Senato.

Chiaramente basterà intercettare almeno 36.750 elettori e farli firmare per entrambe le Camere.

Il numero è calcolato sui 49 collegi plurinominali della Camera dei Deputati e sui 26 del Senato. Per ognuno vanno raccolte tra le 1.500 e le 2 mila firme. Si arriva così a circa 73.500. Il numero è però dimezzato per lo scioglimento anticipato del Parlamento.

Le sottoscrizioni devono essere autenticate da funzionari pubblici, o notai e avvocati. Ma non tutti i partiti sono tenuti a presentarle.

Quali partiti non sono tenuti a presentare la lista di firme degli elettori.

Sono esentati infatti quelli già presenti in Parlamento, con una platea ulteriormente allargata con l’ultimo decreto Elezioni, varato dal Governo il 5 maggio.

L’articolo 6 bis stabilisce infatti che tutti quelli costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021 potranno presentare le liste senza raccogliere le firme. Qua l’elenco completo dei partiti esentati.

Elezioni, alcuni partiti rischiano di essere esclusi a causa della raccolta firme: chi è esentato e perché. Non tutti i partiti sono tenuti a presentare 36 mila firme per candidarsi ufficialmente alle elezioni anticipate del 25 settembre 2022: ecco perché. Mirko Ledda l'8-08-2022 su notizie.virgilio.it.

Non tutti i partiti che hanno già iniziato a fare campagna elettorale riusciranno a presentarsi alle elezioni anticipate del 25 settembre. Per poter presentare le liste dei candidati sarà infatti necessario per ogni formazione raccogliere 36 mila firme tra gli elettori.

Dal 12 al 14 agosto i leader dei partiti depositeranno i contrassegni elettorali, cioè i loghi dei rispettivi schieramenti, presso il ministero dell’Interno.

Successivamente, dalle 8 del 20 agosto alle 20 del 21 agosto, dovranno essere depositate le firme presso le cancellerie delle Corti di Appello, come prevede il decreto del presidente della Repubblica numero 361 del 20 marzo 1957.

Quante firme servono ai partiti: cosa prevede la legge

Prima del 2020, cioè della riforma costituzionale che ha tagliato il numero dei parlamentari, e quindi ridimensionato anche il numero dei collegi, erano necessarie almeno 1.500 e non più di 2.000 sottoscrizioni per ogni collegio plurinominale, per un totale di 94.500 firme per la Camera e 49.500 per il Senato.

In realtà chi firma per la prima firma anche per il secondo, quindi non bisogna incorrere nell’errore di sommare queste due cifre.

Con le nuove leggi i collegi plurinominali per la Camera sono scesi a 49 e quelli per il Senato a 26. In condizioni ordinarie sarebbero dunque necessarie circa 73.500 firme.

Tuttavia le norme prevedono che in caso di scioglimento anticipato delle Camere, come è avvenuto dopo la crisi di governo, il numero delle sottoscrizioni debba essere ridotto della metà.

I partiti dovranno dunque arrivare a circa 36.750 firme, autenticate da funzionari pubblici o da notai e avvocati, degli elettori per poter correre alle elezioni il 25 settembre. Ma non per tutti gli schieramenti valgono le stesse regole.

Quali partiti sono esentati dalla raccolta delle firme

Il decreto elezioni del 5 maggio 2022 prevede infatti delle esenzioni. Viene infatti chiarito che non sono tenuti alla raccolta delle firme i partiti e i gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere entro il 31 dicembre 2022.

Si tratta dunque dei seguenti schieramenti.

Coraggio Italia.

Forza Italia.

Fratelli d’Italia.

Italia Viva.

Lega.

Liberi e uguali.

Movimento 5 Stelle.

Partito Democratico.

Sono esonerati dalla raccolta delle firme anche i partiti che hanno presentato candidature con il proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei Deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo.

A patto che l’abbiano fatto in almeno due terzi delle circoscrizioni, ottenendo almeno un seggio con il proporzionale o concorso alla determinazione della cifra elettorale nazionale di coalizione con più dell’1% dei voti validi. È il caso dei seguenti partiti.

+Europa.

Centro Democratico.

Noi con l’Italia.

Tra gli esentati c’è anche Impegno Civico di Luigi Di Maio, che si appoggia a Centro Democratico di Bruno Tabacci. Stesso discorso per Azione di Carlo Calenda, in caso di alleanza con +Europa (che sembra essere destinata a non concretizzarsi) o Matteo Renzi.

In base alle norme dovrebbero dunque chiedere le firme, tra gli altri, i seguenti partiti.

Alternativa di Pino Cabras.

Italexit di Gianluigi Paragone.

Unione Popolare di Luigi de Magistris.

Proprio il movimento no vax e anti europeista di Gianluigi Paragone, ex giornalista passato da simpatie leghiste alle fila del Movimento 5 Stelle e poi al Gruppo Misto, sta portando avanti una battaglia per chiedere a Sergio Mattarella di cambiare la norma che prevede la raccolta delle firme.

La nuova legge elettorale. Tutti i trucchi del Rosatellum, la legge semi-autoritaria che decide tutto prima del voto. Massimo Teodori su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

Che la legge elettorale con cui si vota il 25 settembre sia una autentica porcheria l’hanno detto in molti tra cui alcuni di coloro che la votarono. Il mio giudizio, tuttavia, tenta di andare al di là dell’invettiva per indicare il carattere del meccanismo politico-istituzionale che traduce la volontà dei cittadini in rappresentanza della nazione, la cosiddetta “sovranità popolare”. A me pare che l’attuale sistema non sia solo “una porcheria” ma che abbia un inedito carattere semi-autoritario. Spiego il perché.

Il votante non ha la possibilità di scegliere il suo rappresentante, ma solo il simbolo della lista che preferisce. Nel sistema elettorale a due facce per la Camera (400 membri) e Senato (200 membri), i due terzi dei membri sono eletti in modo proporzionale su listini plurinominali bloccati (circa 4 candidati), e un terzo in collegi uninominali-maggioritari in cui vince il candidato che ha più voti. Il trucco sta nel fatto che non è possibile esercitare il “voto disgiunto” vale a dire votare, per esempio, all’uninominale giallo e al proporzionale verde. Che lo si voglia o no, il voto dato al candidato uninominale si trasferisce alle liste che lo sostengono e, reciprocamente, il voto per una lista in coalizione con altre si trasferisce al candidato uninominale. Esempio: se voto la coalizione di sinistra facendo nel proporzionale una croce sul simbolo di +Europa (Bonino) il voto si trasferisce anche al candidato uninominale che probabilmente non è di +Europa ma della coalizione di cui fa parte. e viceversa.

I listini della parte proporzionale sono bloccati senza preferenze. Sia nei partiti piccoli che in quelli grandi l’unico candidato che ha possibilità di essere eletto è colui/colei che è stato piazzato al n.1. Gli altri fanno tappezzeria. Il dominus dei possibili eletti è il potente capo-partito che ha fatto le liste piazzando in testa ai listini i suoi amici, compagni di corrente e simili. Ogni persona può essere candidata i 6 posizioni diverse, in 1 collegio uninominale e 5 listini proporzionali della stessa regione o di regioni diverse. Ciò significa che dalla lettura delle liste si conosce già in gran parte chi sarà eletto e chi no. La bagarre dentro i partiti per la posizione significa proprio questo: essere candidato/a per essere eletto oppure per fare solo scena.

L’alternanza prevista dalla legge tra i due sessi (40/60) è un inganno del femminismo che ignora come funzionano i sistemi elettorali. Nel caso del “Rosatellum”, anche se in tutti i listini vi sono il 60% di presenze femminili che però occupano il primo posto solo nel 30% di collegi non favorevoli, è probabile che le elette saranno poche. La rivendicazione demagogica femminista è formalmente soddisfatta e sostanzialmente ingannata. Con la pluralità delle candidature della stessa persona – cosa praticata da tutti gli esponenti di primo piano in tutti i partiti – questi non solo si assicurano la propria elezione anche se la lista ha preso pochissimi voti ma condizionano anche la scelta degli eventuali subentranti (amici, parenti, fedeli di corrente etc.) nel caso di una doppia o tripla elezione.

Per questi ed altri marchingegni nascosti nelle pieghe della legge mi pare appropriata la definizione di sistema semi-autoritario.

Cinquestelle, +Europa, e gruppuscoli a destra come a sinistra: l’uso furbesco delle coalizioni. Se una lista prende nazionalmente meno del 3% dei voti non elegge parlamentari. Se, però fa parte di una coalizione che ha raggiunto il 10% elegge comunque deputati e senatori anche con l’1%. Non stupisce perciò che la legge elettorale venga usata come un gioco dell’oca proprio da quei partiti che hanno rivendicato ad alta voce il loro ruolo di “servizio ai cittadini” e di orgogliosa autonomia dalla partitocrazia. Il caso più clamoroso è quello dei Cinquestelle osservanza Conte. Il quale in barba alle proclamazioni, ha decretato dalla sede apostolica M5S che lui, e solo lui, decide chi dovrà essere eletto e chi no. Ed ecco, in fila ordinata, il proprio notaio (a scanso sorprese) e i fedelissimi personali che sono andati a formare i magnifici 15 dall’avvocato con candidature plurime tutte al n.1 dei listini proporzionali. Gli altri fratelli, sorelle e congiunti di Cinquestelle non prescelti dall’avvocato fanno tappezzeria.

Caso diverso ma non meno sorprendente è quello del gruppo di +Europa. Dopo la dichiarazione di Emma Bonino di voler seguire la massima pannelliana secondo cui per un radicale a candidarsi sotto il Pci (e i post-comunisti) si diventa “dipendente” e non “indipendente di sinistra”, è parsa singolare la scelta di restare in coalizione oltre che con Enrico Letta, anche con Fratoianni, Bonelli e gli ex stellati di Di Maio piuttosto che seguire la difficile ma coraggiosa scelta autonoma di Calenda. Tale collocazione, anche se non è stata dettata da un tale spirito, potrebbe apparire come utilitaristica al fine di ottenere una elezione più sicura per la leader di +Europa e il suo gruppetto sotto il largo cappello del Pd che con la coalizione può garantire alcuni posti sicuri in testa ai listini proporzionali e nei buoni collegi maggioritari.

Altre vicende furbesche e strumentali sono quelle dei gruppuscoli che avendo scarse probabilità di superare la soglia del 3% si sono rintanati sotto le coalizioni della mamma di destra (Fratelli d’Italia) o del padre di sinistra (Partito Democratico) in modo tale da avere comunque degli eletti più o meno garantiti. Questo vale per alcuni simboli gruppuscolari: a destra “Noi democratici” comprendente lo scudo crociato di Cesa, e i sotto-simboli di Lupi e Brugnaro, e a sinistra, oltre a +Europa, “Impegno civico”, “Europa verde” e “Sinistra italiana”. A pensare che per mezzo secolo si è seriamente dibattuto di come eliminare la frantumazione proporzionale dei partiti inventati da singoli personaggi. Per tutta la prima repubblica, alla Camera, è rimasta in vigore una legge proporzionale di lista con preferenze in collegi regionali o subregionali.

Nella legge per la Costituente i voti non utilizzati nelle circoscrizioni per un quoziente intero (i resti) andavano al Collegio unico nazionale (Cun) dove si eleggevano i candidati del listino prefissato. Sistema chiaro che, in sostanza, prevedeva una specie di diritto di tribuna in cui anche i piccoli partiti potevano avere alcuni rappresentanti. Il Partito d’Azione ebbe 7 seggi tutti al Cun (tra cui Calamandrei, Valiani e Foa) e i Cristiano-sociali un seggio al Cun (Gerardo Bruni). Dal 1948 i resti non andavano al Cun ma venivano utilizzati nelle circoscrizioni. Nel 1953 i partiti del centrismo degasperiano (Dc, Psdi, Pli, Pri) proposero una legge maggioritaria: la lista o la coalizione delle liste apparentate che ottenevano il 50%+1 dei voti ottenevano il 65% dei seggi. Legge onestissima che indicava agli elettori quali erano le forze che potevano formare un governo stabile e in esse i candidati a cui dare la preferenza.

Ma la sinistra (Pci e Psi) e la destra (Msi) fecero una battaglia forsennata contro la “legge truffa”, come demagogicamente la definirono le sinistre. Si trattava invece di tutt’altro che truffa bensì di una seria proposta per legare il voto dei cittadini alla governabilità oltre che alla rappresentatività. Nel 1993 il referendum abrogativo Segni-radicali pose fine alla proporzionale. Sergio Mattarella inventò il “Mattarellum”, una legge che prevedeva per Camera e Senato il 75% dei seggi da eleggere nei collegi uninominali (chi ha più voti, vince) e il 25% da eleggere in listini proporzionali su scala regionale o subregionale. Una buona legge che conciliava le esigenze di rappresentatività (recupero con i listini proporzionali) e governabilità (collegi uninominali maggioritari). Ma la fantasia partitocratica è sempre in agguato dietro l’angolo. Come fare per distruggere la possibilità di scelta politica e individuale dell’elettore?

Il leghista Calderoli inventò nel 2005 un sistema da lui stesso definito “porcellum”, talmente ingarbugliato (liste proporzionali bloccate, premio di maggioranza, e soglia oscillante tra il 2% e il 4%) che solo pochi maghi elettorali riuscirono a capirne il significato. Dopo un paio di elezioni si capì che l’obiettivo vero era quello rendere impotente l’elettore e consegnare la chiave delle elezioni a chi aveva il potere di fare le liste. Ed ecco nel 2013 arriva” l’Italicum” pudicamente battezzato “Rosatellum” dal suo ideatore on. Ettore Rosato. Quando i Cinquestelle guidati da quel genio costituzionale di Luigi Di Maio si presentarono davanti a Montecitorio con un cartonato di poltrone e di enormi forbici, i Cinquestelle acutamente spiegarono che con la riduzione dei parlamentari (Camera, da 630 a 400 – Senato, da 315 a 200) si stava facendo una rivoluzione che avrebbe fatto risparmiare miliardi agli italiani.

In realtà gli autori pensavano che la proposta non sarebbe passata e quindi che avrebbero potuto fare una campagna contro i malvagi partiti e corrotti dalle poltrone. Accadde inaspettatamente che tutte le forze politiche maggiori, a cominciare dal Pd, votarono prontamente la legge costituzionale sottoponendosi al diktat demagogico dei Cinquestelle pur cercando di alleviare il danno con la promessa di riformare la legge elettorale, i regolamenti parlamentari e una serie di altre norme costituzionali connesse. Nulla di tutto ciò è accaduto.

Ed oggi tutti i partiti – Cinquestelle in testa, Partito democratico, Forza Italia etc – piangono perché non riescono a piazzare in buona posizione tutti gli aspiranti deputati e senatori. L’eterogenesi dei fini si è compiuta. Invece di affrettarsi a proporre una nuova legge elettorale, proporzionale, maggioritaria o mista che fosse, ma onesta e rispettosa delle scelte degli elettori di cui vi sono alcuni esempi nella Repubblica, si sono moltiplicate le risse, gli attacchi tra compagni e amici, gli scandali per bruciare qualcuno e via di seguito. Il declino della Repubblica è davvero inarrestabile? Massimo Teodori

Collegio uninominale o plurinominale: cosa significa e come funziona la legge elettorale. Redazione CdG 1947  su Il Corriere del Giorno il 23 Agosto 2022.  

Con le elezioni politiche, i cittadini rinnovano i due rami del Parlamento, la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica.  Saranno i parlamentari eletti a dover votare successivamente la fiducia al nuovo Presidente del Consiglio dei ministri, che viene scelto dal Presidente della Repubblica sulla base dei risultati elettorali e della maggioranza in Parlamento.

La legge approvata del 2018 chiamata “Rosatellum” è rimasta la stessa, modificata dalla riforma costituzionale del 2020 che ha ridotto il numero dei parlamentari da eleggere, passati da 630 a 400 per la Camera e da 315 a 200 per il Senato, ma sono cambiati i collegi, ovvero le aree geografiche in cui il territorio è diviso. Il 25 settembre gli italiani andranno al voto per le elezioni politiche, per il rinnovo della Camera dei Deputati e per il Senato della Repubblica con la legge elettorale precedentemente usata nel 2018.

Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad un vero e proprio delirio di parole per raccontare gli scontri tra i partiti, i contrasti per i candida nei collegi uninominali e quelli nei collegi plurinominali beneficiari dei posti garantiti dai rispettivi leader . Per molti cittadini però si tratta di un linguaggio “tecnico” poco comprensibile alla stragrande maggioranza degli elettori. 

Elezioni Politiche 2022: che cosa si elegge

Con le elezioni politiche, i cittadini rinnovano i due rami del Parlamento, la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica.  Saranno i parlamentari eletti a dover votare successivamente la fiducia al nuovo Presidente del Consiglio dei ministri, che viene scelto dal Presidente della Repubblica sulla base dei risultati elettorali e della maggioranza in Parlamento. Questo per chiarire i meccanismi elettorali a chi pensa che in Italia il Presidente del Consiglio dei ministri sia eletto direttamente dai cittadini. 

La legge elettorale per Camera e Senato è sostanzialmente uguale, quindi per comodità da qui in avanti parliamo solo della Camera, dove i numeri sono più ampi. Allora come scegliamo i nostri 400 deputati?

Legge elettorale: la scheda elettorale

L’Italia viene divisa in 147 zone (chiamati collegi). Uno di questi collegi – per fare un esempio concreto –  è la città di Bologna. Nel collegio di Bologna ci sarà un numero ancora non definito di candidati. Qui di seguito vedete com’era una scheda elettorale nel 2018, quando i candidati erano 11.  I candidati, indicati con nome e cognome nella parte alta di ogni riquadro, saranno associati ai partiti che li sostengono. 

I cittadini di Bologna ad esempio, che andranno a votare dovranno scegliere il candidato e lo potranno fare o mettendo una croce sul nome che scelgono oppure sul simbolo di una delle liste. Agli effetti pratici della scelta del candidato, barrare il nome in alto o il simbolo è la stessa cosa.  Sulla scheda facsimile come si vede ci sono anche altri nomi. Quelli sono i candidati del cosiddetto “listino bloccato”: cosa succede loro lo vedremo dopo. 

Chi viene eletto? Quello che prende più voti

Viene eletto il candidato che ottiene più voti in questo collegio (esempio: la città di Bologna) . Basta anche un solo voto in più degli avversari per essere eletto deputato. Nel 2018 i circa 145mila elettori che sono andati a votare avevano eletto De Maria con 54mila voti, quattordicimila in più di Scarano. De Maria è stato eletto con il 37.2% dei consensi ma sarebbe bastata qualsiasi percentuale, purché fosse più alta di quella dei suoi avversari.  

Questo è il sistema maggioritario, tipico dei Paesi anglosassoni, cioè il primo che arriva viene eletto. La parola “maggioritario” viene sentita spesso associata al termine “uninominale”, perché vanno a braccetto: uninominale vuol dire che ogni partito o ogni coalizione presentano un solo nome, come in questo caso. E vince solo uno (quello che ha la maggioranza relativa).

Questo è il primo motivo per cui esistono le coalizioni: per mettere insieme i voti di più partiti dietro a un singolo candidato. 

Si elegge così un deputato per ognuna delle 147 zone in cui è divisa l’Italia. Ma cosa succede per i restanti 253? Otto sono eletti all’estero ma per ora possiamo lasciarli da parte. Restano quindi 245 deputati da eleggere. 

Cerchiamo quindi di spiegare ai nostri lettori nella maniera più semplice possibile il significato e la differenza fra collegio “uninominale” e “plurinominale”, e poi come funzionano con la legge “Rosatellum“.

Come funziona il “Rosatellum“

Di seguito vi offriamo una spiegazione completa , adesso concentriamoci sull’aspetto dei collegi.

Il “Rosatellum” è una legge elettorale che non sposa né il sistema maggioritario né il sistema proporzionale, ma li unisce e fonde insieme in una maniera molto particolare.

Ogni collegio plurinominale rappresenta un territorio che è la somma di collegi uninominali più piccoli. I candidati uninominali sono strettamente legati ai partiti che li sostengono. Non esiste la possibilità che di solito viene consentita, di votare per un candidato uninominale e un partito diverso nel proporzionale. cioè il cosiddetto voto disgiunto, che è vietato nel Rosatellum .

Conseguentemente ogni elettore può scegliere ed indicare solo un tandem inscindibile tra partito (con la sua lista bloccata) e candidato uninominale che quel partito e la sua eventuale coalizione sostengono.

Il collegio elettorale è una parte di territorio che racchiude più comuni o più quartieri nelle città più popolose confinanti. E’ la base di riferimento sulla quale la legge agisce per interpretare milioni di voti e “trasformarli” in 200 senatori e 400 deputati.

Collegi elettorali uninominali e plurinominali

I collegi si dividono in due tipi:

Collegio uninominale – In questo genere di collegi si presentano singoli candidati per partito, uno contro l’altro. L’ elezione è sempre associata al concetto di elezione maggioritaria, cioè viene eletto il più votato tra i singoli candidati .

Collegio plurinominale – In questo tipo di collegi si presentano liste di candidati, e viene associato (in parole più semplici) al concetto di elezione proporzionale, ovvero gli eletti vengono scelti in proporzione ai voti ricevuti dalle singole liste.

Facciamo un esempio facile da capire per tutti: nel collegio plurinominale “X” si presentano tre partiti (A, B e C). In questo collegio bisogna eleggere 10 deputati. Ognuno dei tre partiti presenta un “listino” composto da 10 nominativi. Se il partito “A” prende il 50% dei voti conquisterà il 50% dei seggi, cioè 5 candidati eletti. Se il partito “B“ prende il 30%, avrà 3 eletti, e il partito “C“ con il 20% i restanti 2.

L’esempio appena fatto è un sistema proporzionale “puro” e molto semplice. Come è facile dedurre, i numeri non sono mai così esatti e chiari, quindi esistono complesse formule e regole per la sua applicazione, ma il “senso” di applicazione è quello che abbiamo indicato nella maniera più semplice possibile.

Come si eleggono due terzi dei deputati

Qui entra in gioco l’altra parola chiave delle elezioni: proporzionale. Vediamo come.  La prima cosa da fare a questo punto è sommare tutti i voti di tutti i partiti in tutta Italia. Nel 2018 la ‘classifica’ appariva così: Movimento 5 Stelle: 10.697.994 voti, Partito Democratico: 6.134.727 voti, Lega: 5.691.921 voti e così via. In percentuale: i 10.697.994 di voti del M5s erano pari al 32,7% di tutti voti. Il Partito Democratico aveva ricevuto il 18,7% e i voti della Lega corrispondevano al 17,4%.  “Proporzionale” è autoesplicativo: i 245 deputati restanti vengono eletti in proporzione ai voti ricevuti dai singoli partiti.  Con alcune semplificazioni che non inficiano questo ragionamento, con queste percentuali 80 senatori andrebbero al M5s, 45 al Pd e 42 alla Lega.

Dal voto al nazionale, dal nazionale al territorio

Non è finita qui, perché ovviamente vanno scelti i singoli senatori: chi sono quei 45 che si attribuiscono al Pd? Con un complicato sistema di ripartizione territoriale, si torna sul territorio, anche se a un livello superiore a quello delle 147 zone iniziali.  Il territorio nazionale a questo scopo è diviso in zone più ampie dei collegi uninominali, che in molti casi corrispondono a intere regioni – quelle con meno abitanti, dalla Calabria in giù – in altre accorpano solo due o più collegi. Anche questi – in quanto ‘parti del territorio’ – si chiamano collegi, ma sono plurinominali. 

Come potete immaginare, se “uninominale” vuol dire che si presenta un solo candidato,  “plurinominale” vuol dire che si presentano più candidati. E qui torniamo agli altri nomi presenti – accanto al simbolo dei partiti – sulla scheda elettorale. Il cosiddetto “listino bloccato“.  Il calcolo complicato di cui sopra arriva a definire in quali collegi plurinominali i 45 senatori del Pd devono essere eletti. Ad esempio: 3 nel collegio che include Bologna, 1 a Milano e zero in Sicilia. La distribuzione è difficile, piena di controlli e correttivi, ma il totale deve fare 22 e rappresentare la distribuzione dei voti nazionali dei partiti. 

Legge elettorale: cos’è il listino bloccato e come funziona

Ultimo passaggio. Per scegliere i 3 deputati eletti a Bologna a questo punto si va a guardare la lista dei nomi e si prendono i primi 3. L’ordine del listino definisce l’ordine di elezione: per questo si dice “bloccato”. L’alternativa – che la legge elettorale non prevede – è quella delle preferenze: quando ci sono le preferenze, l’ordine è stabilito dal numero di quelle ricevute, come nelle elezioni comunali. 

A questo punto abbiamo anche gli altri 245 deputati eletti, che si sommano ai 147 uninominali e agli 8 eletti all’estero. E la nuova Camera è pronta per essere convocata. 

Al Senato il meccanismo è molto simile, con numeri dimezzati: 74 senatori eletti nei collegi uninominali, 122 nei collegi plurinominali e 4 all’estero. In più, al Senato la distribuzione dei seggi non avviene a livello nazionale, perché la Costituzione prevede che il Senato sia eletto su base regionale. 

Ne consegue che Camera e Senato sono eletti con una legge elettorale simile, in parte maggioritaria-uninominale (un terzo) e in parte proporzionale-plurinominale (due terzi). L’elettore ha però un solo voto, con cui contribuisce a definire le parti. 

Legge elettorale: le soglie di sbarramento

Aggiungiamo un’ultima cosa, di cui non abbiamo parlato finora: le soglie di sbarramento. Per ottenere dei seggi, i partiti devono superare un certo numero di voti minimi, altrimenti avranno zero seggi in Parlamento.  Un partito deve avere almeno il 3% dei voti oppure presentarsi in una coalizione di partiti che ottengono insieme il 10%, con delle eccezioni per i partiti forti in singole regioni o per le rappresentanze delle minoranze linguistiche. E’ questo il secondo motivo per cui esistono le coalizioni. In ogni caso, i partiti che non raggiungono l’1% non accedono al riparto dei seggi.

Il sistema elettorale all’estero

Alcune parole su quei 12 seggi (8 alla Camera e 4 al Senato) che saranno eletti dai cittadini italiani nel mondo. I cittadini eletti all’estero vengono divisi in 4 collegi: Europa, America meridionale, America settentrionale e centrale, Africa, Asia, Oceania e Antartide 

Come funziona la legge elettorale attuale, il 25 settembre si vota con il Rosatellum. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Luglio 2022. 

Dovevano cambiarla, dicevano in tanti, e in diverse occasioni, ma il prossimo 25 settembre si voterà ancora una volta con la legge elettorale denominata “Rosatellum”. Dopo la crisi di governo, le dimissioni del Presidente del Consiglio Mario Draghi, le comunicazioni in Senato del premier che hanno portato alla fine definitiva dell’esecutivo di “Unità Nazionale”, la data delle elezioni fissata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si tornerà alle urne con lo stesso sistema che venne usato alle ultime politiche, quelle del 2018.

Il nome della legge elettorale prende il nome dal suo relatore. Ettore Rosato nel 2017, quando la legge fu approvata, era deputato del Partito Democratico. Dopo la scissione e la creazione dell’ex premier ed ex segretario dem Matteo Renzi Rosato è passato a Italia Viva. Il Rosatellum prevede un sistema misto: circa un terzo dei seggi del Parlamento viene eletto con il sistema maggioritario, in scontri diretti nei collegi uninominali, i restanti due terzi con un sistema proporzionale.

Il Rosatellum non prevede il voto disgiunto. La soglia di sbarramento è fissata al 3% per i partiti e al 10% per le coalizioni. Il 37% dei seggi alla Camera e al Senato sarà eletto tramite collegi uninominali: in cui ogni partito o coalizione presenterà un solo candidato, verrà eletto il candidato che prenderà almeno un voto in più degli altri. Il 61% dei seggi viene poi assegnato con il proporzionale dalle liste “bloccate” (non si può esprimere la preferenza per un candidato) compilate dai partiti o dalle coalizioni. Il resto dei seggi (otto alla Camera e quattro al Senato) è assegnato nelle circoscrizioni estere. Alla Camera i seggi sono assegnati a livello nazionale, al Senato a livello regionale.

Le circoscrizioni sono 28 alla Camera e 20 al Senato. La legge prevede un massimo di 5 pluricandidature nei listini proporzionali, che non sono previste nei collegi uninominali. Possibile invece una stessa candidatura in un collegio uninominale e nei plurinominali fino a un massimo di cinque: in caso di elezione, il candidato varrà per il collegio uninominale. Al candidato in più collegi plurinominali che dovesse essere eletto in diversi listini, sarà assegnato il collegio plurinominale in cui la lista a lui collegata ha ottenuto il minor numero di voti. In caso di pareggio tra due candidati, sarà eletto il candidato più giovane.

L’elettore avrà un’unica scheda per il maggioritario e il proporzionale, una per la Camera e una per il Senato. Per le coalizioni non vengono computati i voti dei partiti che non hanno superato la soglia dell’1%. Nessuno dei generi maschio e femmina, sia nei collegi uninominali che in quelli plurinominali, può essere rappresentato in misura superiore al 60%.  La novità più rilevante che riguarderà le prossime elezioni consiste nel nuovo Parlamento che il voto andrà ad eleggere: dopo il referendum del 2021 i deputati passeranno da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. La legge elettorale non verrà modificata in virtù di questa novità. Alle due aule saranno applicate le percentuali previste dalla norma.

I numeri delle proporzioni diventeranno quindi 148 collegi uninominali, 244 proporzionali e 8 circoscrizioni estere alla Camera, 74 seggi uninominali, 122 proporzionali e 4 circoscrizioni estere alla Camera. Al Senato saranno ammesse alla ripartizione di seggi anche le liste che otterranno almeno il 20% dei voti su base regionale. Il Rosatellum favorisce la formazione di coalizione e penalizza i partiti che si presentano da soli alle urne. I simboli dovranno essere presentati entro metà agosto.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Come funziona la legge elettorale Rosatellum: come sono ripartiti i collegi e quali sono i “vantaggi” delle coalizioni. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 30 Luglio 2022. 

La breve campagna elettorale che porterà al rinnovo del Parlamento il 25 settembre deve far riflettere su tre aspetti che sono connessi fra di loro. Il primo sono i programmi che i partiti (o i loro leader) devono proporre agli elettori. Questi non dovrebbero ridursi a slogan o a bandierine e non basterà nemmeno prendere vaghe posizioni su questioni di politica internazionale come il rapporto con l’Ue e con gli Stati Uniti. Oggi nessuno (ad eccezione di Paragone) è ostile all’Unione Europea. Ma in Europa ci sono la Germania di Scholz e la Ungheria di Orban che hanno opinioni non solo diverse, ma talvolta opposte sul destino comune del vecchio continente e i partiti politici italiani dovrebbero prendere posizioni esplicite su questa questione.

Il tema del programma Draghi è anch’esso poco più di uno slogan, non solo perché un programma Draghi senza Draghi non può essere la stessa cosa – viste le competenze, oltre che il prestigio e la reputazione internazionale del presidente del consiglio che è stato messo in condizione di non poter più governare. Si tratta, dunque di entrare nel merito delle politiche che i candidati alla guida del paese propongono di perseguire, e questi devono esporle, evitando che si riducano a irresponsabilità fiscale e crescita del debito pubblico, il che ci metterebbe, come è già accaduto in passato, in contrasto con gli impegni sottoscritti con i partners europei. Tanto più che dell’aiuto economico e della loro fiducia nei confronti dell’Italia abbiamo assolutamente bisogno. I nostri politici dicono tutti che lavorano negli interessi degli italiani, ma queste dichiarazioni suonano spesso come retorica vuota, che non dice molto e finisce per allontanare gli elettori dalla politica, cioè dai partiti, senza il cui buon funzionamento e reputazione la democrazia rappresentativa non può essere governante.

Intorno ai programmi dovrebbero articolarsi gli schieramenti. La legge elettorale, di cui fra poco, spinge a coalizioni in competizione fra di loro. La fine del governo Draghi ha intanto destabilizzato il quadro politico. L’alleanza fra il Pd ed i 5S, che negli ultimi mesi sembrava poter rappresentare uno dei poli della competizione, si è spezzata prima di concretizzarsi. Il Movimento creato da Grillo e Casaleggio invece di diventare un partito vero si è trasformato in un pluriversum sfibrato da diaspore. Il suo presidente attuale cerca una collocazione politica che Giuseppe Conte sostiene vi sia, ma quale sia per ora nessun lo sa. I tre partiti che compongono quello che tradizionalmente era chiamato centrodestra hanno problemi legati alla leadership ma anche ai programmi. La crescita esponenziale del partito di Giorgia Meloni, salito dal 4% del 2018 a potenziali intenzioni di voto circa sei volte maggiori, destabilizza i rapporti fra i partner del cartello elettorale di cui per più di 20 anni Silvio Berlusconi è stato il leader indiscusso e più di recente Salvini il socio di maggioranza, mentre ora è decisamente quasi alla metà del sostegno popolare ottenuto in passato, sempre secondo i sondaggi sulle intenzioni di voto. Il problema della leadership è di difficile soluzione e verrà probabilmente sciolto solo dopo il 25 settembre, se questo cartello elettorale dovesse vincere. Intanto c’è da trovare accordi, con fatica sui collegi uninominali, e questa decisione non può essere posposta.

Dall’altra parte, il Pd, rotta al quanto pare l’alleanza con il dimezzato partito di Conte e dopo la scissione di Di Maio, deve cercare alleati nell’aria fra se stesso e la coalizione di centrodestra dove emerge il partito di Calenda, che spera poter accogliere i dissidenti della svolta salviniana di FI. Il tempo è poco e anche in questo caso l’accordo sui candidati nei collegi uninominali è tutt’altro che agevole. Venendo al terzo punto, la legge elettorale che aggregherà le preferenze degli elettori, si possono fare le osservazioni che seguono. Nei sistemi elettorali con formula proporzionale, ogni partito corre da solo cercando di espandere, se può, il numero dei suoi elettori. Il governo si formerà a partire da possibili alleanze dopo il voto. Eccezionalmente questo è accaduto anche con la legge Rosato nel 2018 quando questa non ha prodotto alcun vincitore e i partiti hanno provato alleanze diverse e a priori improbabili, che sono sopravvissute per un breve periodo di tempo. Questa volta, però, è molto probabile che una coalizione riesca ad ottenere una maggioranza sufficiente per provare a governare.

Ciò dipende dal fatto che circa un terzo dei seggi di un Parlamento, ridotto di un terzo dei rappresentanti, viene assegnato ai vincitori dei collegi uninominali, che sono più facili da conquistare da parte di una coalizione piuttosto che di un singolo partito, tenuto conto della grande frammentazione del nostro sistema dei partiti. Quello oggi stimato più popolare è FdI che non raggiunge un quarto del voto potenziale del corpo elettorale. Se andasse da solo rischierebbe di essere superato nei collegi uninominali dal Pd se questo si coalizzasse con il partito di Calenda. Esiste dunque un forte incentivo per i partiti del centrodestra a presentarsi insieme con candidati comuni nei collegi, nonostante i conflitti interni a questo cartello elettorale e le conseguenti difficoltà a trovare un accordo sui nomi e la provenienza partitica dei candidati.

Quanto appena detto ha come conseguenza che il Pd deve cercare a sua volta alleati e costruire un cartello alternativo se vuole provare a vincere le elezioni. La legge elettorale Rosato, al di là di complessi dettagli tecnici (per una piuttosto chiara presentazione della stessa si possono vedere le osservazioni di Stefano Ceccanti) crea un forte incentivo alla formazione di accordi pre-elettorali fra partiti, che non possono o non vogliono aspirare a più di una testimonianza e ad un diritto di tribuna, che la legge Rosato garantisce loro in qualche misura. Il partito di Conte, isolato e in declino, vale oggi meno di un terzo che nel 2018, può sperare in un diritto di tribuna. La competizione sarà fra i tre partiti della destra e il Pd con i suoi alleati.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Renato Benedetto per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2022.

Tutto è meno che un gioco, anzi, il «flipper» è l'incubo dei candidati. Un effetto nascosto tra le pieghe del Rosatellum, che può scatenare reazioni a catena: un minimo scarto in Piemonte può far saltare un candidato in Calabria o premiarne uno nel Lazio. Come, appunto, una pallina imprevedibile che corre tra i collegi del Paese e sbatte sui listini: tu dentro, tu fuori. Rendendo incerta la sorte dei candidati. Come è possibile? 

Per capirlo bisogna soffermarsi sulla legge elettorale. Il Rosatellum prevede che un terzo degli eletti sia scelto in collegi uninominali: qui è facile, chi prende più voti è eletto. Il resto su base proporzionale: alla Camera 252 deputati su 400 sono scelti con questo metodo. Concentriamoci qui: è solo nella parte proporzionale e soprattutto alla Camera che agisce il flipper.

Il Paese è diviso in circoscrizioni (28, estero escluso) a loro volta suddivise in collegi plurinominali (49) che eleggono da uno a otto deputati: è qui che ciascun partito presenta i candidati, in listini bloccati. La ripartizione dei seggi - per chi supera il 3% - avviene su base nazionale. 

Qui è semplice: alla lista che ottiene il 20% dei voti va circa il 20% dei seggi (circa, perché il meccanismo, con quozienti e resti, è più complesso). Il difficile arriva quando a questi seggi, conquistati dalle liste a livello nazionale, bisogna assegnare un nome. Perché le liste dei candidati sono a livello locale, nei collegi plurinominali. E quindi i voti nazionali sono «proiettati» a livello di circoscrizione e, poi, di collegio, dove si vede chi ce l'ha fatta e chi no nelle liste.

Il problema è che dal dato nazionale a quelli locali le cose possono non coincidere. E cosa succede se a livello di circoscrizione (locale) il risultato non coincide con il numero di seggi che spetterebbero a quel partito su base nazionale? Si toglie un seggio a quel partito che ne ha uno di troppo e si dà a quello che ne ha uno di meno rispetto al dato nazionale. 

Dove? Nella circoscrizione dove quel partito lo ha «pagato» di meno, conquistando il seggio con il numero minore dei voti (con la frazione di quoziente più piccola), e dove l'altro partito ci è «andato più vicino» e non ha spuntato un posto col numero più alto di voti (il «resto» maggiore). 

Se lo scambio non è possibile nella stessa circoscrizione, si va a cercare fuori regione: il risultato locale sarà per forza alterato. Di questi aggiustamenti possono essercene diversi, in diversi posti, così inizia il balletto: difficile per chi corre fare previsioni. 

Effetto rimbalzo

Spiega Emanuele Bracco, professore di Economia politica: «Guardiamo alle elezioni del 2018 utilizzando i nuovi collegi e proviamo a capire cosa succederebbe se gli elettori milanesi della Lega iniziassero a virare verso FdI - è la sua analisi su Lavoce.info -. Sarebbe ragionevole aspettarsi che FdI veda aumentare i propri eletti a Milano a discapito della Lega». E invece flipper! «Se 15.000 leghisti milanesi cambiassero idea e votassero Fratelli d'Italia, FdI otterrebbe un seggio in più a Cagliari togliendolo a FI (i cui voti sono rimasti invariati). FI guadagnerebbe però un seggio in Basilicata, togliendolo alla Lega».

Insomma, un flusso tutto lombardo strariperebbe colpendo «un povero forzista sardo, che ha dovuto lasciare il posto a un collega lucano senza che i voti del suo partito siano cambiati né in Sardegna, né in Basilicata».

Per Salvatore Vassallo, direttore del Cattaneo «è un tentativo arzigogolato di combinare due esigenze: un proporzionale su base nazionale; e il numero di seggi spettanti a ciascun territorio in rapporto alla popolazione». Due principi che «prima o poi entrano in collisione». Ma per Vassallo non è sempre colpa dei sistemi elettorali, «sui quali i politici tendono spesso a scaricare aspettative non soddisfatte».

Apartheid elettorale. L’ostruzionismo amministrativo che impedisce di candidarsi a chi non è già in Parlamento. Carmelo Palma su L'Inkiesta l'1 agosto 2022.

Come denuncia l’Associazione Coscioni, il Rosatellum impone solo alle nuove forze di raccogliere in due mesi le sottoscrizioni da autenticare in via cartacea e senza firma digitale. E, in più, impedisce di fatto “agli intrusi” di entrare in una coalizione

La cosiddetta galassia radicale, cioè l’insieme di sigle e associazioni di cui si componeva l’universo pannelliano e che la morte di Pannella ha privato del suo centro di unità e gravità politica, a queste elezioni marcerà come non mai in ordine sparso.

La componente radicale di +Europa sarà nel raggruppamento di Calenda. Il partito di Radicali Italiani, che è distinto da +Europa, sta studiando una propria collocazione nella compagine progressista. Il gruppo dirigente del Partito Radicale e della Lista Pannella potrebbe invece continuare a coltivare in senso elettorale il rapporto avviato con la Lega di Matteo Salvini sui referendum sulla giustizia.

Di tutte le componenti della galassia radicale, quella ad avere compiuto la scelta più radicale, in senso proprio e figurato, è però l’Associazione Luca Coscioni, che ha promosso la presentazione di una lista “Democrazia e Referendum” con l’obiettivo di sollevare lo scandalo sul carattere deliberatamente discriminatorio della legge elettorale in ordine all’accesso agli istituti di partecipazione politica e alle elezioni.

In un Paese abituato a urlare a sproposito all’allarme democratico, quella che pone l’associazione di Marco Cappato e Filomena Gallo è davvero la questione democratica per eccellenza, visto che l’attuale legge elettorale distingue figli e figliastri e istituisce un regime di sostanziale apartheid elettorale per le forze politiche non presenti nel Parlamento uscente.

In sintesi il problema è questo: sulla base della regola generale prevista dal Rosatellum e di una deroga particolare (in ogni legislatura si allarga in articulo mortis la platea dei beneficiati) una decina di soggetti politici godono dall’esonero dalla raccolta firme. Sono – regola generale – i partiti che si siano costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le camere dall’inizio della legislatura – Pd, M5s, Lega, FI e FdI – come prevede l’articolo 18-bis, comma 2, del dpR 361/57 (Testo unico per la elezione della Camera dei deputati), nonché – regola particolare, introdotta meno di un mese fa: art. 6-bis del decreto legge 41/2022 – i partiti costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere al 31 dicembre 2021, nonché quelli che abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale, o che abbiano concorso alla determinazione della cifra elettorale nazionale di coalizione avendo conseguito, sul piano nazionale, un numero di voti validi superiore all’1 per cento del totale.

Come è evidente dalla lettura, anche disattenta, delle cronache politiche, di queste norme non esiste neppure una interpretazione ufficiale e consolidata – il numero delle liste esonerate sembra crescere di giorno in giorno – e c’è da immaginare che in sede di attuazione si proverà a riconoscere molto estensivamente questo beneficio: gli esoneri per partenogenesi. Ma solo per chi, in un modo o nell’altro, è dentro il Parlamento uscente.

Fuori dal recinto del privilegio, c’è una normalità di fatto impossibile. Le forze politiche non titolari dell’esonero devono infatti raccogliere 36.750 firme per i 49 collegi plurinominali della Camera e 19.500 firme per i 26 collegi plurinominali del Senato (cioè almeno 750 a collegio). Questo numero abnorme di firme è già dimezzato rispetto a quello previsto a regime, perché la legislatura si è sciolta anticipatamente. Ciascuna di queste firme va apposta alla presenza di un autenticatore (tipicamente un notaio, un cancelliere o un consigliere comunale, provinciale e regionale) e va certificata richiedendo al comune di residenza del firmatario il suo documento di iscrizione nelle liste elettorali. I punti di raccolta devono essere ovviamente disseminati nei diversi collegi plurinominali. Non è ammessa la firma digitale.

Quale è la ragione di questo sistema complicatissimo, che non prevede modalità diversa da carta penna e calamaio, prescrive la presenza di un autenticatore o disinteressato (i cancellieri, che dovrebbero farlo gratuitamente) o esoso (i notai, che possono essere pagati ma a tariffa notarile) ovvero ostile a qualunque partito non sia il proprio (gli eletti negli enti locali) e obbliga i promotori a richiedere a una pubblica amministrazione un foglio di carta (il certificato elettorale del firmatario) da consegnare a un’altra pubblica amministrazione?

La ragione è proprio la discriminazione elettorale degli “intrusi”, cioè di quelli che, non stando in Parlamento, non ci devono entrare. Gli handicap che la legge elettorale infligge loro non sono la conseguenza di requisiti di rappresentatività particolarmente esigenti, ma l’obiettivo di meccanismi deliberatamente ostruzionistici, che rendono difficilissimo, in condizioni ordinarie, o impossibile, in condizioni straordinarie presentare al voto una nuova forza politica.

Di fatto i partiti già rappresentati nelle istituzioni sono i soli che non devono raccogliere le firme, ma sono anche gli unici a poterlo fare, avendo a disposizione una rete diffusa di consiglieri comunali e provinciali, cioè di autenticatori di partito.

Alle scorse elezioni, nel 2018, riuscirono a presentarsi solo tre forze non presenti in Parlamento, avendo potuto organizzare la presentazione con mesi di anticipo (Potere al popolo, CasaPound e Popolo della famiglia): e le firme richieste erano circa la metà di quelle chieste oggi. Nel 2013 il M5S, per cui di lì a qualche settimana avrebbe votato un italiano su quattro, fece una notevole fatica a raccogliere le firme, tra vibranti polemiche, malgrado vi si fosse preparato con largo anticipo e le firme da raccogliere fossero state ridotte in extremis a circa 30.000.

Oggi ci troviamo in uno scenario decisamente peggiore. Lo scioglimento delle camere è maturato nel giro di una settimana ed è stato decretato un mese prima della data in cui dovrebbero essere consegnate le firme, per raccogliere le quali teoricamente la legge dà ai partiti fino a sei mesi di tempo.

L’anomalia italiana emerge anche nel confronto con altri Paesi europei. In Francia non sono richieste firme, nel Regno Unito ne bastano 6000, in Germania ne servono un numero analogo a quello richiesto in Italia, ma le firme non vanno autenticate e questo cambia tutto.

Di fronte a questo scenario, l’Associazione Coscioni ha chiesto al Governo un provvedimento urgente per autorizzare l’utilizzo della firma digitale nel procedimento pre-elettorale. La stessa firma “non cartacea” che consente al cittadino di perfezionare ogni sorta di atto con la pubblica amministrazione, tranne, non casualmente, la dichiarazione di presentazione delle liste elettorali. Per dare concretezza a questa richiesta, l’Associazione Luca Coscioni ha annunciato la presentazione di una lista elettorale denominata “Democrazia e Referendum”, insieme alla Associazione Eumans, la cui presidente Virginia Fiume è in sciopero della fame da mercoledì scorso “per sostenere la richiesta al Presidente del Consiglio di autorizzare la sottoscrizione telematica delle liste per le elezioni”.

I promotori dell’iniziativa hanno sottolineato anche un altro paradosso della legge elettorale, che oltre a rendere molto difficile la presentazione delle liste che devono raccogliere le firme, rende per loro impossibile allearsi con partiti che godono dell’esonero dalla raccolta firme, perché – come dice Cappato – «le firme andrebbero raccolte non solo sulle liste di candidati al proporzionale, ma anche sui candidati maggioritari di una eventuale coalizione”, che le liste esonerate decidono solo nell’imminenza della presentazione delle candidature».

Il destino di questa iniziativa dell’Associazione Coscioni nell’immediato pare purtroppo segnato. Potrebbe avere un seguito giudiziario e giungere in via incidentale al giudizio della Corte Costituzionale, che su casi analoghi in passato non ha dimostrato una particolare sensibilità. In ogni caso, che l’accesso al diritto di elettorato passivo sia deliberatamente pregiudicato dalla legge elettorale, per la rendita che essa riconosce agli uscenti e gli ostacoli che frappone ai potenziali entranti, manifesta in modo eloquente il degrado della cultura democratica del nostro sistema politico e istituzionale.

Democrazia e presentazione delle liste. Raccolta firme digitali: il governo ha violato la Carta. Filomena Gallo su Il Riformista il 18 Settembre 2022 

Non è possibile occuparsi di diritti civili in Italia senza occuparsi del (cattivo) funzionamento della democrazia. Le nostre libertà non possono essere soltanto evocate all’interno di logiche di posizione – di partito, di schieramento – ma vanno difese nel concreto, declinate e affermate nella pratica. Tutto ciò è possibile solo quando la democrazia vive, agevola la partecipazione, è alimentata da una classe politica che non ha paura delle libertà dei cittadini che esercitano la sovranità popolare nelle forme e nei limiti della Costituzione: una classe politica che trae forza dalla condivisione, dal coinvolgimento, dalla partecipazione di coloro ai quali chiede fiducia al momento del voto.

Con gli strumenti che abbiamo, con le persone che hanno dato corpo ai loro diritti e ai loro bisogni di vita, in questi vent’anni dalla costituzione dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, abbiamo lavorato affinché vi fosse una quotidiana dichiarazione di diritti che si oppone alla violenza proibizionista da Stato etico e alla pretesa di far decidere tutto solo dal profitto o in base alle disponibilità economiche. Mettiamo al centro la dignità delle persone, facciamo emergere la libertà come diritto individuale e anche come bene comune, guardiamo a un futuro dove la tecnoscienza sta costruendo una diversa immagine della persona umana ed è dunque fondamentale che sia costruita con metodo democratico.

La nostra Costituzione nasce dal lavoro di una commissione di 75 saggi e, dopo il voto dell’Assemblea costituente, entrò in vigore il primo gennaio 1948. Il lavoro condotto in questi vent’anni dall’Associazione ha fatto vivere i fondamenti della nostra Carta costituzionale con una interpretazione che è al passo dei tempi che cambiano. Abbiamo fatto emergere una nuova idea di cittadinanza, di un patrimonio di diritti che accompagna la persona in ogni momento di vita, dall’inizio alla fine. Rileggere i principi costituzionali è fondamentale per cogliere la connessione tra democrazia e libertà: gli articoli 1, 2, 3, 13, 21, 48, 49, 51, 56, 57 e 58 e 117 della nostra Costituzione infatti riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili della persona umana, in tutte le sue declinazioni, affermandone la pari dignità sociale e giuridica. La Costituzione prevede anche che sia compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Il diritto alla partecipazione alla vita politica è garantito anche attraverso il diritto alla manifestazione del pensiero e al voto. Il diritto di voto non può essere limitato se non per i casi indicati dalla legge.

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. L’elezione di ciascuna delle Camere avviene a suffragio universale e diretto. Non solo. La Carta Europea dei Diritti dell’Uomo riconosce il diritto di voto (articolo 3 del primo Protocollo alla Cedu) come cardine per due diritti che sono la doppia faccia della stessa medaglia: il diritto di votare e quello di competere per essere eletti. Questo è il parallelismo dell’elettorato attivo e dell’elettorato passivo, che nella dottrina costituzionale italiana è fatto risalire a due diverse norme: l’articolo 48 (diritto di voto) e l’articolo 51 (accesso alle cariche elettive) della Costituzione. Vivere in un paese dove le nostre libertà sono inviolabili e garantite da una Carta fondante significa vivere in un paese democratico. Ma c’è qualcosa che rompe questo schema di garanzie, di esercizio di libertà di diritti ma anche di responsabilità. Cosa? Gli ostacoli che in alcuni casi si trasformano in una vera e propria impossibilità di poter partecipare pienamente alla vita politica del nostro Paese.

Un esempio concreto: manca di fatto la possibilità di votare un partito che non abbia già una rappresentanza in Parlamento, perché quel partito non parte dallo stesso punto di partenza degli altri che hanno un beneficio che si chiama esenzione dalla raccolta firme. Chi non ha già una rappresentanza in Parlamento dovrà raccogliere in breve tempo le firme su liste già completate, le firme in modalità cartacea prevedono tempi più lunghi e maggiori risorse in un’epoca in cui la tecnologia consente l’utilizzo della firma digitale che può essere già usata per numerosi atti importanti. Mentre gli altri partiti, quelli esentati perché hanno già degli eletti, avranno più tempo per comporre le liste con i candidati e per fare anche accordi politici. Denunciare tale discriminazione non significa chiedere sconti o voler violare il principio alla base della raccolta firme, che ha l’obiettivo di verificare il sostegno popolare. Ma tale verifica deve essere praticabile in condizioni di uguaglianza.

Il legislatore nel 2017 ha individuato la necessità dell’introduzione delle sottoscrizioni digitali come strumento necessario del procedimento elettorale, proprio per contribuire a rimuovere gli ostacoli alla partecipazione politica dei cittadini, e ha emanato la legge 165 che all’articolo 3 comma 7 ha conferito una delega al Governo, stabilendo che “entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, […] sono definite le modalità per consentire in via sperimentale la raccolta con modalità digitale delle sottoscrizioni necessarie per la presentazione delle candidature e delle liste in occasione di consultazioni elettorali, anche attraverso l’utilizzo della firma digitale e della firma elettronica qualificata”. Ma la delega non è mai stata esercitata. Pertanto è stata violata la legge del nostro Paese che prevede che il Governo debba emanare un atto idoneo ad attivare tale principio normativo, come abbiamo richiesto nella lettera inviata il 25 luglio scorso al Presidente del Consiglio Mario Draghi da me firmata con Virginia Fiume, Marco Perduca e Marco Cappato. Il 30 agosto la richiesta è stata reiterata al Ministro degli Interni. Nessuna risposta.

È trascorso poco tempo da quando, proprio a seguito dell’intervento del Comitato diritti umani Onu (caso Staderini-De Lucia v/Italia), è stata evidenziata l’esigenza di semplificare la procedura di raccolta, autenticazione e certificazione delle firme per garantire la partecipazione popolare alla vita del paese. Solo un anno fa la firma digitale qualificata era stata riconosciuta come idonea: infatti il Parlamento approvò l’articolo 38 bis della legge 108 del 2021, introducendo misure di semplificazione per la raccolta di firme digitali tramite una piattaforma per la raccolta delle firme degli elettori per indire i referendum, nonché per le proposte di legge di iniziativa popolare. Firma apposta mediante la modalità prevista dal codice dell’amministrazione digitale. Nel 2021 sono state raccolte e depositate circa un milione di firme con Spid, firme ritenute dall’ufficio Referendum della Cassazione valide per indire un referendum.

Il pieno rispetto dei diritti civili e politici, grazie alla transizione digitale e per adempiere agli obblighi internazionali relativi al godimento del progresso scientifico e delle sue applicazioni, oggi passano da un Decreto che dovrebbe riconoscere finalmente la validità alle firme raccolte con Spid, oggi e per il futuro, e riammettere alla competizione elettorale le liste escluse come la lista “Democrazia e Diritti con Cappato”. Escluse non perché non hanno raccolte le firme necessarie e verificato l’interesse dei cittadini alla presentazione di quella lista, ma perché il Governo dal 2017 ha dimenticato di emanare un atto previsto per legge che dia validità alle firme raccolte con Spid. questa omissione è a danno di chi ha firmato e che manifesta il bisogno di esercizio di diritti e di diritto per garantire che la nostra democrazia viva per noi e per le generazioni future. Il Governo ha violato la Carta costituzionale che è tenuto a osservare, perché la battaglia per la raccolta digitale delle firme è in realtà una battaglia per garantire la partecipazione al processo elettorale così come previsto dalle Carte fondamentali.

Abbiamo il dovere di non arrenderci, di proseguire in tutte le forme legali affinché i diritti di noi tutti siano affermati, perché i nostri nonni hanno già conosciuto cosa ha determinato vivere nella restrizione delle libertà. Noi no, abbiamo goduto di diritti fondamentali, che si sono però costantemente erosi e deteriorati, mettendo in pericolo l’assetto complessivo. Perché l’ordinamento democratico dello Stato è un elemento fondamentale ma non è sufficiente a fondare una democrazia compiuta senza un’effettiva partecipazione popolare. Le democrazie imposte dall’alto si svuotano e diventano democrazie di facciata o si disintegrano e si trasformano in dittature e oligarchie.

Filomena Gallo

Marco Zatterin per “la Stampa” il 26 luglio 2022.

Silvio Berlusconi sa sempre regalare un buon titolo. «Pensione minima a mille euro», ha promesso in caso di vittoria a chi voterà Forza Italia e non si porrà tutta una serie di domande, come «ma davvero?», «lordi o netti?», «a tutti, o solo a chi ne ha bisogno?» e, alla fine, «quanti miliardi costa e chi paga?». Un esperto di cose Inps taglia corto e risponde che «occorre un botto di soldi che non ci sono», ma poi si arrende alla consolidata legge della campagna elettorale: l'impegno di spesa prevale sulla copertura. La lotta per il consenso già in queste prime ore di propaganda feroce pare destinata a creare un pericoloso fronte #ForzaDebito. Non che se ne preoccupino molto, soprattutto alcuni. Si vuole il governo e poi si vedrà. 

Nell'attesa, annotiamo che la pensione a mille euro - spannometricamente, per carità - riguarda il 32% degli ex lavoratori, ovvero 5-6 milioni di uomini e donne. Il che, in numeri, equivale a una spesa previdenziale aggiuntiva tra i 20 e i 27 miliardi l'anno. Cioè 100 miliardi per un'intera legislatura se il cavaliere si afferma e mantiene la parola.

Non che sia tempo di ampliare la voragine del passivo repubblicano che veleggia oltre il 150% del pil. La congiuntura è sfavorevole, ci sono la guerra e la pandemia, l'inflazione rovente e il gas ristretto, i tassi stanno crescendo e, nonostante il lavoro del Tesoro nell'allungare le scadenze, il servizio del debito è destinato a salire rapidamente e presto.

Oltretutto, qualora finissimo in una tempesta da alto spread, la pur mite linea della Bce per aiutarci richiederebbe il rispetto dello status quo, dunque conti aggiogati e rispetto degli impegni del Pnrr. 

Scostamento zero, insomma.

La strada consigliata è questa.

Da Calenda a Salvini Ce l'ha in testa Carlo Calenda quando scrive nel Patto repubblicano che «nessun taglio di tasse può essere fatto ricorrendo a deficit aggiuntivo» e che il bilancio «va tenuto sotto controllo». È un piccolo conforto per chi teme le deviazioni dei conti pubblici e ne immagina gli effetti, una sensibilità che porta il leader di Azione in sintonia con il Pd di Enrico Letta, per il quale la stella polare resta l'agenda virtuosa di Draghi. I dem vogliono il taglio del cuneo fiscale (6,4 miliardi il costo che stimano nel 2023) e lavorano a un salario minimo che combini l'estensione del Tec (Trattamento economico complessivo) e la definizione di soglie minime per le fasce più povere e deboli. A sentire loro, l'equilibrio di cassa è garantito. 

Non è la stessa cosa se si scorre il taccuino di Matteo Salvini. Lo sbarbato leghista, che due settimane fa auspicava 50 miliardi di extradeficit da distribuire agli italiani, si vincola a un azzeramento delle cartelle fiscali. Un condono, a dirla col suo nome. Quanti soldi? Il signore del Carroccio si riferisce almeno ai 34 milioni pratiche congelate causa pandemia che, poco alla volta, hanno ripreso a partire da marzo.

Si tratta di atti che, se cancellati, comporterebbero minori entrate per lo Stato e le amministrazioni locali (cioè noi) pari a 75 miliardi l'anno, con un totale che supera i 110 miliardi visto che la prospettiva è di 18 mesi. Denari svaniti e un segnale preciso per chi le cartelle deve onorarle: ora potrà anche valutare di non farlo e aspettare la sospensione dell'onere. 

Salvini promette poi la riduzione dell'età pensionabile, ponendo "quota 41" per gli anni di contribuzione e caricando un ulteriore fardello sulle spalle dell'Inps. «Costosissimo», assicura l'esperto dell'Ente. Come il vitalizio alle mamme immaginato da Berlusconi. Per poterselo permettere occorrerebbero maggiori entrate, montagne di entrate. Invece il capitano leghista insegue la leadership da sondaggio di Giorgia Meloni rintavolando la Flat Tax, i cui effetti sul bilancio sono noti. Secondo la stima dell'economista Carlo Cottarelli una vera e propria imposta piatta «costerebbe circa 57 miliardi allo Stato di cui 46 andrebbero a favore del Centro-Nord e solo 11 al Sud». Senza contare che i benefici sarebbero percentualmente più ricchi per i redditi alti. Più Sceriffo di Nottingham che Robin Hood, in breve. E Tesoro coi forzieri più leggeri.

I programmi Giorgia Meloni sta scrivendo un programma di migliori intenzioni. Sul sito c'è il vecchio che andrebbe considerato "ufficiale"; eppure, si capisce che non lo è più così tanto. Quello era per l'opposizione, ora si pensa al governo. «Vogliamo concentrarci sulle cose che si possono fare», ha detto alla Stampa, precisando di voler mantenere gli impegni del Pnrr, salvo provare a convogliare risorse dove l'Italia è più competitiva degli altri, cosa che non le pare stia succedendo. Centrali, per FdI, gli aiuti a chi assume, il taglio del cuneo, l'azzeramento del reddito di cittadinanza, una flat tax incrementale oltre i 100 mila euro di reddito. Si ritroverà con Salvini e azzurri nel garantire tassisti e balneari, il che porta voti, ma costa in benefici allo Stato e ai cittadini. Da vedere sarà l'effetto dell'europeismo sovranista. Una tensione con Bruxelles potrebbe colpire il debito. La grammatica dell'euro non è stata chiarita. 

C'è voglia di spesa pure al centro e a sinistra. Inevitabile. 

Il Pd si batte fra l'altro per «rafforzare il potere d'acquisto dei salari» con l'estensione dei bonus per le categorie escluse ( 600 milioni annui). Calenda vuole detassare l'assunzione dei giovani sino a 25 anni e cercare gettito nelle transazioni digitali, per alleggerire il fisco da lavoro e produzione: «Ogni euro recuperato dall'evasione deve essere minor tassazione l'anno successivo». 

 Sul cuneo fiscale converge Giuseppe Conte, guida dei grillini, che però non esclude l'ipotesi di uno scostamento di bilancio. «Valuteremo ogni opzione», ha ammesso "l'avvocato degli Italiani" alla Stampa. Per il resto, i discepoli di Grillo partono dai nove punti proposti a Draghi per restare al governo, collana di auspici tutti piuttosto esosi, come il reddito di cittadinanza, gli aiuti straordinari per famiglie e imprese, il proseguimento del superbonus al 110 per cento e il cashback anche come strumento di lotta all'evasione. Benefici da valutare; spese sicure. In linea con chi lamentava che le promesse elettorali sono come una vendita all'incanto di merce rubata. Non è sempre così, a ben vedere. Ma questa corsa italiana al voto nell'anno rovente del signore 2022, sinora, sembra offrire più conferme che eccezioni alla nefasta regola.

La casta degli esentati. Se Bonino e Tabacci non devono raccogliere le firme, lo stesso esonero vale per Calenda. Carmelo Palma su L'Inkiesta l'8 Agosto 2022

Per fare chiarezza, anche sul piano politico, servirebbe un’interpretazione ufficiale della norma che consente a PiùEuropa e a Tabacci di presentarsi alle elezioni utilizzando la stessa esenzione per due liste 

Sullo sfondo della rottura tra Calenda e il Pd si staglia una domanda che non ha direttamente a che fare con la politica, ma che potrebbe condizionare in modo determinante la campagna elettorale.

Azione può presentarsi alle elezioni senza raccogliere le firme? Il partito di Calenda gode dello stesso esonero di cui vengono pacificamente accreditati partiti come +Europa e Centro Democratico, in base all’articolo 6-bis del decreto legge 41/2022  che prevede, tra le altre cose, che questo privilegio, oltre a partiti costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due camere al 31 dicembre 2021, sia riservato anche a partiti o gruppi politici che abbiano presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri italiani del Parlamento europeo in almeno due terzi delle circoscrizioni e abbiano ottenuto almeno un seggio assegnato in ragione proporzionale?

Chi abbia seguito, anche distrattamente, le cronache politiche di questi giorni, avrà notato come, praticamente ovunque, la possibile presentazione della lista di Azione fosse considerata subordinata  all’abbinamento con +Europa, perché al solo partito di Bonino e Della Vedova era riconosciuto l’esonero dalla raccolta firme. Al contempo, del predetto esonero, per così dire “duplicato”, era considerato titolare anche il Centro Democratico di Bruno Tabacci, dal quale questo privilegio sarà trasferito alla lista Impegno Civico di Di Maio.

Se però si approfondisce la questione, si  capisce che la situazione di +Europa, ai fini dell’esonero dalla raccolta firme, è esattamente identica a quella di Azione e che l’interpretazione (discutibile e estensiva) della norma pretesa da +Europa e Centro Democratico beneficerebbe nella stessa misura anche Azione e non impedirebbe ad essa una presentazione autonoma, senza dovere raccogliere le firme.

Vediamo la questione nel dettaglio. Alle elezioni politiche del 2018 la lista +Europa/Centro Democratico ha conseguito un eletto in ragione proporzionale nella circoscrizione Estero – ripartizione Europa.

La doppia denominazione della lista titolare  dell’esonero, come ha evidenziato in numerosi interventi pubblici il prof. Giovanni Guzzetta, però non sembra proprio, in base a come è scritto l’articolo 6-bis del decreto legge 41/2022, dare diritto a due esoneri disgiunti, utilizzabili per due liste diverse.

Eppure ciò è proprio quanto +Europa e Centro Democratico hanno annunciato e la stampa registrato come una cosa scontata.  Nell’accordo complessivo del campo progressista +Europa avrebbe trasferito  l’esonero alla lista comune con Azione e Centro Democratico alla lista dimaiana di Impegno Civico. Un esonero raddoppiato dunque, in ragione della doppia matrice della lista elettorale che ne aveva conseguito il titolo: uno per il genitore politico A, l’altro per il genitore politico B.

Se però questa interpretazione, diciamo così molto “larga”, della norma vale per +Europa e Centro Democratico, perché non dovrebbe valere per Azione? Il partito di Calenda, con la propria precedente denominazione (Siamo Europei), diede vita alla lista PD-Siamo Europei per le elezioni europee del 2019. Di questa lista furono eletti lo stesso Calenda e altri diciotto deputati europei. Allora, se la lista +Europa/Centro Democratico del 2018 produce due esoneri, perché la lista PD/Azione del 2019 dovrebbe produrne solo uno (per il PD), considerato che la norma speciale introdotta un mese fa vale sia per le candidature per la Camera dei deputati che per quelle del Parlamento europeo?

Il fatto stesso che da settimane la politica e l’informazione italiana girino intorno alla  questione senza che sia stato possibile ottenere di questa norma di favore una interpretazione ufficiale – assolutamente necessaria per rendere le forze politiche consapevoli dei diritti e degli oneri legati alla presentazione delle candidature – dà la misura del degrado del processo democratico nel nostro Paese, che Marco Cappato, Virginia Fiume e l’associazione  Eumans hanno denunciato anche in rapporto alle soglie di accesso ostruzionistiche, opposte a chi debba presentarsi alle elezioni raccogliendo le firme dei cittadini, secondo procedure rese deliberatamente impossibili, e senza possibilità di ricorso alla firma digitale, consentita invece per ogni atto con la pubblica amministrazione.  

A ciò si aggiunge l’impressione, francamente sgradevole, che gli esoneri scontati siano stati considerati in tutto questo periodo, per una sorta di indiretto accreditamento, quelli di liste legate al PD e l’unico ad essere stato considerato insussistente o molto dubbio sia stato l’esonero dell’unico partito recalcitrante a un accordo per il PD: Azione.

Il miracolo della moltiplicazione degli esenti, una pratica fuori legge. Altro che rappresentatività, qui siamo ai trucchi e ai giochi di prestigio: così la matrioska di partiti e partitini aggira lo spirito della lettera della norma. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 3 Agosto 2022

La concitazione della campagna elettorale si arricchisce in queste ore di un nuovo capitolo. Si tratta della questione su quali partiti o movimenti debbano raccogliere le firme per presentare una lista e chi invece sia esentato. Questione, come si comprenderà, fondamentale per almeno due ragioni.

La prima è che la precipitazione degli eventi politici e la caduta di questa fase pre-elettorale in piena estate rende praticamente impossibile la raccolta delle firme per chi non sia “esentato”. Proprio su questo problema si spende in questi giorni Marco Cappato chiedendo che il governo consenta, con un decreto-legge, la raccolta delle firme in forma digitale. Ed è francamente difficile comprendere (comunque la si pensi) per quale motivo tale possibilità, consentita per promuovere un referendum o per presentare una legge di iniziativa popolare, sia invece negata per la presentazione delle candidature al Parlamento. Misteri della (ir-)ragionevolezza del nostro legislatore.

Ma la questione è fondamentale è che gli smottamenti politici avvenuti durante tutta la legislatura (scissioni, trasformismi e transumanze varie) e acceleratisi negli ultimi tempi hanno moltiplicato sigle e partiti, che ovviamente vogliono tentare la sorte nelle prossime elezioni. Evitando possibilmente il bagno di sangue della raccolta delle firme.

E, così, gli aspiranti all’esenzione aumentano. Nell’impossibilità pratica di fare una raccolta in piena estate, aggiudicarsi quel “passi” diventa una questione di vita o di morte. Ma si sa l’Italia è la terra dei miracoli. E allora vediamo che succede.

La questione nasce da lontano, da quando cioè, in tempi, diciamo così, remoti si ritenne di esonerare i grandi partiti che animavano la vita nazionale dalla trafila di dover raccogliere a ogni elezione le firme per la presentazione delle candidature. Si può essere d’accordo o meno, ma quella scelta aveva una sua logica. Raccogliere le firme serve a dimostrare di avere un qualche seguito nel paese, una rappresentatività minima, ed evitare che la competizione elettorale sia inflazionata da centinaia di liste inconsistenti e senza nessun seguito nel paese. Ovviamente per partiti già ampiamente e ripetutamente rappresentati in Parlamento il radicamento nel paese era, per dir così, presunto. Una presunzione di rappresentatività.

Di qui la prima grande esenzione. Come recita lo stesso Rosatellum (l’attuale legge elettorale) “i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura” non devono raccogliere le firme. Alla grande esenzione, però, se ne sono via via aggiunte delle altre, guarda caso proprio nel momento in cui il sistema politico si sfarinava sotto i colpi di scissioni e transumanze. E così, spesso in articulo mortis, cioè verso la fine delle legislature, sono cominciate a fioccare nuove esenzioni. Nel 2008, nel 2018, nel 2022 (tanto per fare qualche esempio). Paradossalmente proprio nel momento in cui quella presunzione di rappresentatività entrava in crisi, sotto i colpi della crisi dei partiti, il sistema politico ha sentito il bisogno di allargare le maglie di quella “presunzione” di rappresentatività (assai più presunta, appunto, che dimostrata). E, come dicevo, anche in questa legislatura l’esenzione ha avuto il suo momento di gloria. Nel convertire il decreto-legge 4 maggio 2022, n. 41, il Parlamento ha, infatti, previsto ulteriori esenzioni. Le ha previste “esclusivamente” per le prossime elezioni. Del resto perché privare il prossimo legislatore di questo passe-part-tout- Al futuro ci penseranno quelli che verranno, a seconda delle circostanze e delle convenienze del momento.

Secondo questa nuova disciplina le esenzioni riguardano non più solo i partiti che abbiano avuto, in entrambe le Camere, un gruppo parlamentare dall’inizio della legislatura, ma adesso anche quelli con un gruppo in un solo ramo del Parlamento e nemmeno all’inizio della legislatura, ma al 31 dicembre 2021. Una consacrazione di scissionismo e trasformismo. Anzi, un vero e proprio premio: se fai un nuovo partito senza esserti mai misurato con il voto degli elettori, ti do anche l’esonero dalla raccolta delle firme. Quella che i giuristi chiamano una presunzione juris et de jure (tradotto: anche se non so se tu rappresenti qualcuno, per legge io presumo che tu sia rappresentativo e quindi ti evito la raccolta).

La seconda esenzione prevista da quell’emendamento di maggio è per chi abbia presentato liste alle scorse elezioni e abbia ottenuto almeno un seggio o addirittura nessuno, se lo hanno comunque votato almeno l’1 % degli aventi diritto. Ma non finisce qui. Anzi, si potrebbe dire, che queste sono scelte politiche, di cui i nostri rappresentanti si assumono la responsabilità. Se vogliono una corsia preferenziale così ampia rispetto al viottolo lasciato agli altri cittadini, questi ultimi hanno tutti gli strumenti per giudicarli. Certo se da un lato si rende la vita più facile a chi è già nelle istituzioni e dall’altro non si interviene per dare una chance dignitosa a chi da fuori voglia legittimamente entrarci (magari anche senza esenzione), non ci si può poi lamentare che il populismo dilaghi, l’astensionismo aumenti e la fiducia nella politica tocchi i minimi storici. La cosa più grave è che a furia di esoneri ed esenzioni, gli interessati ci abbiano preso la mano e stiano tentando di trasformarsi in novelli messia capaci di moltiplicare pani e pesci come fece nostro Signore per sfamare le folle nel deserto dove si era ritirato a seguito della decapitazione di Giovanni il Battista.

Il trucco è semplice. L’esenzione è per il partito o la lista. Ma cosa succede se il partito o la lista sono in realtà un’associazioni di partiti e sigle, che si uniscono per le elezioni, ma rimangono separate giuridicamente? Succede che nel caso in cui alle successive elezioni vadano separati, ciascuna di esse rivendicherà il diritto all’esenzione. Ed ecco fatto il miracolo: la moltiplicazione degli esenti, venuti fuori da una matrioska di partiti e partitini, leader e leaderini, che unendosi e dividendosi dispensano miracoli e creano miracolati.

Fantascienza, si dirà. La scissione dell’atomo. Invece, basta guardarsi intorno, sta accadendo sotto i nostri occhi (ne parla Carmelo Palma su Linkiesta, ad esempio). A meno che le istituzioni preposte al controllo sulla presentazione delle liste non facciano sentire la propria voce. Perché a me sembra una frode bella e buona dello spirito e della lettera della legge. Altro che rappresentatività, qui siamo ai trucchi e ai giochi di prestigio.

Ma la pressione è forte, perché, come dicevo, strappare un’esenzione, di questi tempi, è questione di vita o di morte. Del resto, confessiamolo: chi di noi, nella vita, non ha mai aspirato a una piccola o grande “esenzione”. Che gli evitasse traversie burocratiche, fastidiose lungaggini o la mannaia di un’esclusione imposta dalla legge. Una bella metafora dello spirito nazionale. Che avrebbe meritato una novella di Pirandello. O una urticante battuta di Flaiano. Ma dicono che entrambi, purtroppo, non ci siano più.

Luca Bottura per “La Stampa” il 2 agosto 2022.

Ieri Salvini ha dichiarato a gran voce che la Lega sta con la Nato. Da ora in poi, starei attento a quando beve il tè. 

Grillo ha pubblicato sul blog una lista fotografica di zombie a Cinque Stelle.

Quell'uomo non riesce a non parlare di sé. 

La lista Di Maio ha un'ape nel simbolo. Slogan consigliato: "Il partito che cera". 

Pur di risparmiare sulle tasse, Donald Trump ha fatto seppellire l'ex moglie nel giardino di casa. Alla notizia, Veronica Lario ha lasciato il Paese.

Elenco provvisorio delle principali condizioni poste da Calenda a Letta per allearsi al Pd.

10) Proiezione obbligatoria di tutte le puntate di Cuore entro l'obbligo scolastico. 

9) Installazione di un Gps (Global position Sinistra) su tutti i deputati e senatori per evitare che se ne escano con boutade controproducenti come far pagare le tasse ai più ricchi. 

8) Sì alle centrali nucleari, la prima delle quali da costruire nel tinello di Conte. 

7) No al reddito di cittadinanza, sì alla Lacoste di cittadinanza. 

6) Per non essere disturbato da chi contesta l'agenda Draghi, inserire Sinistra Italiana e i Verdi nel registro delle opposizioni. 

5) Pronunciare ad alta voce, correndo intorno al Nazareno, la formula "Aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglio, 'fammocca e cinche stelle e pure un po' Travaglio". 

4) Prendere atto che il nome di battesimo "Enrico" richiama troppo il Pci e cambiare generalità in "Alcide Letta". 

3) Tenersi Renzi almeno nei week-end e durante le vacanze. 

2) Primo articolo della Costituzione: "L'Italia è una Repubblica fondata su Twitter".

1)Togliere dalla bandiera del Pd il verde perché troppo ambientalista e il rosso per ovvi motivi. Finalmente, il Pd alzerebbe bandiera bianca.

Alessandra Ghisleri per “la Stampa” il 26 luglio 2022.  

La crisi ha un prezzo e il prezzo lo pagano coloro che vengono additati come gli autori della crisi. Questa è la percezione a caldo degli elettori dopo cinque giorni dalla caduta del Governo. Oggi in politica tutto è ciò che appare, e per adesso si addossano solo le colpe non ancora le proposte. Più che una crisi politica appare più come una crisi di sistema. Questo è quanto emerge dall'ultimo report di EuromediaResearch.

Un elettore su tre (27,5%) ha già dichiarato di voler riprendere in considerazione il voto al partito rispetto alle elezioni europee del 2019, tuttavia vedendo gli esiti dei sondaggi degli ultimi anni questo lo sapevamo già. Il 61,8% degli intervistati non si dichiara contento della fine dell'esperienza del governo Draghi, e tra di loro troviamo il 63,2% degli elettori di Forza Italia e il 51,1% di quelli della Lega. E' scontato dire che gli unici appagati siano in maggioranza gli elettori di Fratelli d'Italia e del Movimento Cinque Stelle.

L'immagine rimane scolpita nella memoria, e il desiderio di far ascoltare la propria voce emerge dalla gente in maniera chiara: il 64,6% dei cittadini intervistati dice - a caldo - che terrà conto, nel bene e nel male, di quanto avvenuto nella propria scelta di voto il 25 settembre e tra questi si conferma ben il 60,3% di coloro che si dichiara ancora indeciso se andare a votare e per "chi" votare. E oggi a sessanta giorni dal fatidico richiamo alle urne è necessario comprendere dove sono attribuiti i meriti e le colpe.

Conte (65%), Salvini (58,5%), Grillo (53,5%), Berlusconi (52,9%), Di Maio (46,9%) vengono indicati come i maggiori portatori di "colpe" in questa crisi. Le motivazioni e il grado di responsabilità sono diverse e ognuna con una sua ragione alla base.

Enrico Letta si divide tra l'avere avuto delle colpe e non aver avuto nessun ruolo. 

La sua posizione al Governo è stata garantista e riconoscibile dal suo elettorato. La presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, invece, è palese che ha riscosso il suo successo nell'operazione essendo semplicemente testimone di quanto stava accadendo a suo beneficio e che andava incontro al suo desiderio di sempre: andare al voto il prima possibile.

Oggi è prematuro definire i perimetri ufficiali delle alleanze politiche ancora in fase di costruzione, ad eccezione dei principali partiti del centrodestra. Tuttavia, i segnali di quanto è avvenuto si leggono chiari nelle intenzioni di voto registrate "a caldo" nel post crisi di governo. Fratelli d'Italia incassa con successo un +1,5% nel giro di una settimana, mentre i suoi alleati pagano il prezzo del momento con un -0,9% per Forza Italia e un -0,6% per la Lega. 

Sull'altro fronte il Partito democratico, guidato dal segretario Enrico Letta, guadagna un punto percentuale (22,8%), Azione di Carlo Calenda lo 0,6% (5,1%), e Italia Viva di Matteo Renzi lo 0,5% (3,1%). La memoria è la capacità di ritrovare e custodire le informazioni e le esperienze del passato e nelle scelte di voto in più occasioni gli elettori hanno dimostrato di far pre-valere altre spinte. Memoria da pesciolino rosso? Siamo a sessanta giorni dalle elezioni politiche, così vicine, con una pausa estiva nel mezzo. 

I toni della campagna elettorale iniziano a farsi sentire in tutta la loro pienezza e creatività. Sono impegni generalmente basati su previsioni rosee per il futuro, ma in realtà oggi la situazione presenta delle previsioni basate su scenari molto complicati e difficili da risolvere. Quanta memoria ci sarà per richiedere di mantenere le promesse?

Le elezioni.

Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 9 ottobre 2022.  

Il verbale della Corte suprema di Cassazione è di ieri mattina: cinque magistrati, un segretario verbalizzante, quattro funzionari esperti in statistica, tutti al lavoro per arrivare a una conclusione, due settimane dopo il voto. Ecco quindi arrivato il responso per chi alla Camera era ancora in bilico, appeso a complicati calcoli, ripartizioni, riconteggi e così via. 

Nulla da fare per +Europa

Per +Europa nulla da fare: rimane sotto la soglia del 3 per cento, nessun eletto tranne Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi, passato all'uninominale con il centrosinistra.

In consegna agli eletti i telegrammi ufficiali

In queste ore i carabinieri stanno consegnando il telegramma ufficiale con la proclamazione ai 400 neodeputati e ai 200 neosenatori che da domani potranno presentarsi a Montecitorio e Palazzo Madama per le pratiche di rito, dalle foto alla consegna del badge. 

La legge elettorale, il famigerato Rosatellum, permette le pluricandidature e prevede dei meccanismi automatici per decidere dove vada proclamato un candidato eletto in più collegi. In alcuni casi però questa decisione può dipendere da una manciata di voti e in alcune Corti di Appello sono stati commessi errori materiali nelle somme dei voti. Rivisti tutti i verbali si è proceduto ai calcoli visto il gran ricorso alle pluricandidature.

Le sostituzioni

Tra i 245 eletti con il proporzionale alla Camera, 19 entrano in sostituzione di colleghi già proclamati vincitori nei collegi uninominali, 18 in sostituzione degli eletti in più collegi proporzionali, sei erano i casi più particolari e spinosi da risolvere. 

Ad esempio Giorgia Meloni è stata proclamata eletta nell'uninominale dell'Aquila, facendo subentrare il secondo nelle cinque liste proporzionali che guidava (Lombardia 1, Lazio 1, Sicilia 1, Sicilia 2, Puglia): Lorenzo Malagola, Federico Mollicone, Gianluca Caramanna, Manlio Messina e Marcello Gemmato. Quest'ultimo era stato eletto anche in un'altra lista proporzionale della Puglia, dove anche la seconda è stata a sua volta eletta altrove, quindi a passare è Luigi Maiorano. Solo che in alcune liste proporzionali si erano esauriti i nomi di candidati, perché eletti altrove.

In Veneto orientale FdI ha ottenuto tre seggi del proporzionale ma i primi due della lista di quattro candidati erano stati eletti altrove. Sono entrati alla Camera gli altri due candidati e in base alla legge il terzo sarebbe dovuto essere recuperato in qualche uninominale perso in Regione, dove però il centrodestra ha fatto il pieno. 

Così il seggio veneto è stato recuperato nella circoscrizione dove FdI ha la "maggiore parte decimale del quoziente non utilizzata", nella circoscrizione Lazio 2. Il fortunato è Paolo Pulciani, solo terzo in lista, ma i primi due erano stati già mandati in Parlamento dagli elettori del Lazio. Stesso meccanismo per la Campania 1 (Napoli): l'eletto mancante è stato recuperato in Lombardia 2, con Alessandra Todde. Il M5S aveva liste "incapienti" anche in Calabria, passa Elisa Scutellà eletta in vece di Federico Cafiero de Raho, a sua volta pluricandidato ma proclamato in Emilia. Per l'Alleanza sinistra verdi scatta il seggio di Elisabetta Piccolotti, sono bastati 15 voti persi e ritrovati per azionare il flipper: entra lei ed esce il compagno di partito Giovanni Paglia.

Antonio Fraschilla per “L’Espresso” il 9 ottobre 2022.

Mettere la polvere sotto il tappeto. E di polvere Giorgia Meloni in casa ne ha talmente tanta che sta faticando non poco a nasconderla. Dal 25 settembre, data del trionfo alle urne per Fratelli d’Italia, Meloni si è chiusa al sesto piano della Camera nell’ufficio di presidenza del gruppo, che sarà il più ampio del Parlamento. E un po’ perché ha avuto un abbassamento di voce, un po’ perché di parlare con alcuni volti del suo partito e dei partiti alleati soprattutto non ne ha proprio voglia, insomma parla pochissimo.

E sta facendo saltare i nervi anche a quelli che fino al giorno del voto sembravano essere i suoi fedelissimi in Fdi, da Ignazio La Russa a Guido Crosetto, da Raffaele Fitto (meno fedelissimo) ad Adolfo Urso, per non parlare degli altri leader della coalizione che non riescono nemmeno a scambiarci due chiacchiere vere se non battute di circostanza, da Matteo Salvini a Licia Ronzulli.

Gli unici che hanno accesso alla stanza, e alle parole della leader, sono Giovambattista Fazzolari, che ha in mano tutti i dossier che scottano, dal caro energia alla crisi economica, e il cognato Francesco Lollobrigida. In queste ore è la polvere la vera ossessione di Giorgia Meloni: dove per polvere si intende nostalgici del fascismo che le farebbero fare brutta figura in Europa già all’indomani della formazione del governo, casinisti che prenderebbero i ministeri per fare campagna elettorale permanente, impreparati al ruolo in un momento storico difficilissimo per il Paese e per l’Europa intera, e volti che hanno palesi conflitti di interesse per i loro ruoli recenti nel privato o in istituzioni pubbliche.

La polvere che Meloni vuole nascondere e non mettere in posti di governo e di visibilità, per evitare di essere impallinata dai giornali e fare brutte figure proprio quando deve accreditarsi in cancellerie europee che già non pensano di accoglierla a braccia aperte. 

Così, mentre tutti gli aspiranti ministri parlano con i giornalisti sussurrando che loro sanno qualcosa di quel che pensa Meloni in queste ore, e quindi magari salta fuori il nome di Daniela Santanché per il Turismo (con un lievissimo conflitto di interesse) o quello di Guido Crosetto al Mise o alla Difesa (lui che ha società di consulenza in settori legati a molte aziende di Stato e del settore delle armi) la presidente del Consiglio in pectore cerca di trovare soluzioni non traumatiche per dire a chi ambisce a certi ruoli che no, non è questo il momento.

Si narra in Fratelli d’Italia, a esempio, di una certa tensione di La Russa, uno dei fondatori del partito: prima la storia del fratello che alza il braccio salutando alla fascista con il grido “presente” ai funerali dello storico volto della destra Alberto Stabilini, poi lo stesso ex ministro dei governi Berlusconi che in televisione parla di radici storiche comuni con il fascismo e Mussolini di tutti gli italiani, mentre lei è impegnata a rassicurare il mondo esterno sulla fine della “matrice” nera in Fratelli d’Italia, ribadendo che lei non ha detto nulla quando Gianfranco Fini ha rinnegato il fascismo come «male assoluto».

Fini che, guarda caso, dopo anni di silenzio per gli scandali familiari che lo hanno travolto, è tornato fugacemente sotto i riflettori nella sede della stampa estera per dire che «Giorgia è brava». Per La Russa si deve trovare quindi un altro ruolo, forse la presidenza del Senato se questa non va a Lega o Forza Italia, oppure un dicastero meno influente. 

Un altro volto che si agita molto e che non capisce bene dove Meloni lo voglia piazzare è quello di Crosetto: l’altro fondatore del partito, ex democristiano di destra, ma soprattutto lobbista nel campo delle aziende di armi e con portafoglio ampio di clienti, durante la campagna elettorale è stato uno dei frontman mediatici del partito. Sempre in televisione, decine di interviste per spiegare il Meloni pensiero. 

Certe volte creando più irritazione che altro proprio alla leader: che dicono si sia molto innervosita per l’ultima intervista rilasciata da Crosetto ad Avvenire. Sul giornale della Conferenza episcopale italiana il fondatore di Fdi si è lanciato nel dire che «siamo in guerra, per salvare l’Italia servono tutte le energie. E tutte vuol dire tutte. Giorgia è libera e non ha paura, sa che deve unire». 

Dopo due giorni sullo stesso giornale Meloni rilascia una intervista che smentisce Crosetto e ribadisce: «Stop larghe intese, ora esecutivo con mandato popolare». Ma la vera tensione con Crosetto, come anche con Urso, è dovuta alla linea che la futura presidente del Consiglio (a meno di sorprese clamorose) ha tracciato e che Fazzolari e Lollobrigida ribadiscono ad ogni piè sospinto: «Nel governo non ci devono essere potenziali conflitti di interesse, dobbiamo dimostrare che siamo diversi da chi ci ha governato negli ultimi dieci anni».

Crosetto ha annunciato subito di aver liquidato una delle sue società, Urso ha ribadito da tempo che non ha più partecipazioni nella società, rimasta al figlio, che si occupa di internazionalizzazione delle imprese. Basteranno queste mosse per avere ruoli di peso nel prossimo governo? Meloni è una sfinge, mentre cerca sponde in tecnici che possano rassicurare Europa e mercati che detengono il debito italiano, su tutti Fabio Panetta, ex direttore generale di Banca d’Italia e dal 2019 nel board della Bce, per il ministero dell’Eco- nomia, o Elisabetta Belloni per gli Esteri.

La polvere sotto il tappeto, il mantra di Meloni che teme brutte figure come nessuno in Fratelli d’Italia. Tanto che un altro volto considerato in prima linea per un ruolo nel governo in questo ore vive un po’ di ansia: Raffaele Fitto, uno dei pochi ex centristi e di famiglia democristiana di cui Giorgia si fida, lei che gli ex Dc non li ha mai amati e non li ama. Fitto è il candidato naturale per il ruolo di ministro con la delega agli Affari Europei o al Mezzogiorno. Ma c’è la polvere che rimane: Fitto oggi è copresidente a Bruxelles del gruppo dei conservatori europei. 

Un ruolo delicato per gli equilibri nell’Ue di Meloni. Se Fitto va a fare il ministro, chi potrebbe rimpiazzarlo nel partito in questa poltrona chiave nel Parlamento europeo? Non certo Carlo Fidanza, indagato per corruzione a Milano e già finito su tutti i giornali per le sue spa- rate da nostalgico del fascismo. E nemmeno un moderato come l’ex sindaco di Catania Raffaele Stancanelli, con il quale i rapporti sono tesi per le vicende siciliane sulla scelta del candidato governatore. 

A proposito: a dimostrazione della tanta polvere che ha in casa Meloni, e di mancanza di classe dirigente adeguata in Fratelli d’Italia, per il ruolo di ministro del Sud potrebbe puntare sul governatore uscente si- ciliano Nello Musumeci. Già candidato ed eletto al Senato e perdonato per certe uscite, come quella nel 2018 quando disse di non voler aderire a Fratelli d’Italia perché non entrava in partiti del tre per cento. Recentemente ha cambiato idea e Giorgia lo ha accolto a braccia aperte: per carità, è un ex missino nostalgico del Ventennio ma all’acqua di rose, diciamo. 

Negli anni da governatore, a differenza del collega delle Marche Francesco Acquaroli, non ha mai fatto parlare di sé per pagliacciate fasciste, al massimo ha organizzato mostre sull’architettura degli anni Venti e Trenta, ristrutturato i borghi rurali fascisti, o speso qualche milione di euro per la fiera del cavallo in una tenuta a due passi dal suo paese di origine, Militello. Musumeci è un volto presentabile e potrebbe avere ruoli di peso. 

A differenza di molti suoi neo colleghi nel partito. Ma la leader di Fratelli d’Italia non vuole nemmeno casinisti in ruoli di governo: ogni riferimento a Matteo Salvini non è del tutto casuale. Dietro il braccio di ferro sul ministero dell’Interno si nasconde il timore di Meloni di finire tutti i giorni suoi giornali per le piazzate di Salvini e non magari per altri importanti provvedimenti. Uno scenario subito molto dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e che Meloni non vuole assolutamente rivivere. E non vuole persone che considera non adatte al ruolo in poltrone delicate, ogni riferimento all’ex infermiera Licia Ronzulli alla Sanità anche qui non è del tutto casuale.

Il vero problema è che si può provare a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma se ne hai talmente tanta, come nella coalizione strampalata di questo centrodestra, il compito è difficile. Se non impossibile. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non vede l’ora di ricevere la prima lista dei ministri: sulla scrivania quirinalizia ha già una scorta di bianchetti. E anche un aspirapolvere.

Gli episodi a Caserta e Modena. Tragedia al seggio elettorale: giovane si toglie la vita, pensionato stroncato da malore dopo voto. Redazione su Il Riformista il 25 Settembre 2022 

Tragedia nella scuola seggio elettorale di Mondragone, comune in provincia di Caserta, dove un giovane ragazzo di nazionalità bulgare si è tolto la vita mentre erano in corso le votazioni. L’episodio è avvenuto poco dopo le 13 di oggi, domenica 25 settembre, all’interno della scuola media “Leonardo Da Vinci-Michelangelo Buonarroti” in via Como. Il corpo senza vita del giovane, è stato ritrovato nel cortile dell’edificio dopo essere caduto da una tettoria adiacente.

Dolore e sgomento tra le persone presenti che hanno provato a rianimare il giovane anche prima dell’arrivo del 118. Poi sono stati i sanitari intervenuti poco dopo a constatare il decesso. Sul posto anche i carabinieri del Reparto Territoriale locale, gli agenti della polizia municipale e gli uomini della Digos. Interrotta momentaneamente l’affluenza al seggio per consentire le operazioni del caso.

“Oggi è un giorno di profonda tristezza per la nostra comunità per la morte del giovane ragazzo di nazionalità bulgara nel cortile della scuola media Michelangelo Buonarroti” ha commentato il sindaco di Mondragone Francesco Lavanga. “La mia solidarietà e vicinanza profonda ai familiari della vittima. Al cospetto di una morte non ci sono mai le parole giuste, occorre solo far silenzio e provare a mettersi in discussione poiché ognuno ha il dovere di fare e dare sempre di più”.

In provincia di Modena invece un uomo di 77 anni è stato stroncato da un malore subito dopo aver votato. Il dramma all’apertura dei seggi in una scuola del piccolo comune di Soliera. L’uomo aveva appena inserito le schede nell’urna quando si è accasciato. Così come riporta il Resto del Carlino, i soccorsi sono stati immediati: in attesa dell’arrivo dell’ambulanza, le forze dell’ordine presenti sul luogo e anche un volontario della Croce blu si sono attivati usando il defibrillatore, cercando in tutti i modi di rianimarlo ma per il pensionato non c’è stato nulla da fare. Il seggio è rimasto chiuso per circa un’ora.

Redazione. Le dichiarazioni a urne ancora aperte. Berlusconi fa esplodere il caso nel centrodestra: “Voglio più voti della Lega, Salvini non ha mai lavorato”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Settembre 2022. 

A urne ancora aperte già esplode un caso nel centrodestra. Il quotidiano Repubblica ha diffuso un video in cui il leader di Forza Italia ed ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a tavola, per un aperitivo dopo aver votato a Milano, si lascia andare a commenti e considerazioni sull’alleato Matteo Salvini, segretario della Lega.

“Organizziamo una cena da me ad Arcore se superiamo il 10%”, esordisce Berlusconi. “E per dirvi la verità io sono convinto che lo superiamo. Un’altra cosa, di cui sono abbastanza convinto, non come quella di prima ma abbastanza, è che voglio più voti della Lega. Con la lega noi andiamo d’accordissimo perché io ho nutrito un’amicizia fruttuosa con Matteo (Salvini, ndr), che è una brava persona. Ha bisogno di essere un po’ inquadrato. Anche lui non ha lavorato mai, ha bisogno di essere un po’ inquadrato, eccetera. Per cui io cercherò di fare il regista del governo”.

Solo giovedì scorso, dal palco di Piazza del Popolo a Roma, il centrodestra aveva tenuto l’ultimo comizio unito della campagna elettorale garantendo cinque anni di governo coeso. Berlusconi era stato il primo a parlare. A far discutere erano state però le sue frasi pronunciate a Porta a Porta: una nuova versione sull’esplosione della guerra in Ucraina, con il presidente russo Vladimir Putin, amico di vecchia data di Berlusconi, indotto all’invasione dalle richieste dei filorussi e dalle pressioni interne di media e del partito a Mosca. Le dichiarazioni erano diventate virali, avevano fatto esplodere grandi polemiche e portato l’ex premier a una sorta di rettifica.

Le dichiarazioni all’aperitivo a Milano, nel giorno del voto, con al fianco la fidanzata e parlamentare candidata Marta Fascina, rischiano di turbare l’unità del centrodestra che da tutte le ultime proiezioni di voto era dato in netto vantaggio sul centrosinistra per tornare a Palazzo Chigi, questa volta però guidato da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, saldamente in vetta nei sondaggi. A stretto giro, e tramite social, è arrivata comunque la dichiarazione di Salvini sulla vicenda. “Qualunque cosa dica, io a Silvio Berlusconi vorrò sempre bene lo stesso”. Amen, almeno per il momento.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Fra. Bec. per “il Messaggero” il 25 settembre 2022.

Chi resta a casa per protesta, chi perché, in fondo, non ha scelta. L'astensione si fa e si subisce anche, spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos. 

Saranno urne piene?

«La sensazione è che il partito dell'astensione sia cresciuto. Ma bisogna attendere i dati ufficiali». 

Perché le file del non-voto si ingrossano?

«Per diverse ragioni. In questo caso, c'è una quota di elettori che non ha capito fino in fondo il motivo della caduta del governo Draghi».

A cui è seguita una campagna lampo, in piena estate, e una rincorsa su TikTok. Serve a qualcosa?

«La campagna online serve solo ad accendere la passione dei propri elettori. I leader parlano alla loro bolla e provano a mobilitarla. Difficile spingersi oltre». 

Cosa spinge gli elettori a stare a casa?

«Ci sono diversi tipi di astensione. Una è fisiologica, anzi fisica. Ci sono circa 2 milioni di italiani anziani o con difficoltà motorie che non riescono a recarsi all'urna». 

A cui si aggiungono i fuori-sede.

«Tra i 4 e i 5 milioni. Elettori che vivono a più di 150-200 chilometri di distanza dal comune di residenza e faticano a tornare».

[…] alle prime elezioni politiche nel 1948 gli astenuti erano il 7,8%. L'ondata antipolitica seguita a Tangentopoli ha dato il la. Dal 2013, un'ascesa inesorabile. Fino all'ultimo picco, nel 2018, con il 27,1% di astenuti». […]

Bianche e nulle da includere nell’astensionismo attivo. I dati definitivi del Viminale sugli astenuti: superano gli elettori che hanno voto la coalizione vincitrice. Rec News - Articolo del 29 Settembre 2022 di Redazione

Pubblicato anche il numero di schede bianche.

Il ministero dell’Interno ha pubblicato nel pomeriggio di ieri i nuovi dati relativi alle Elezioni Politiche del 25 settembre. Mentre scriviamo, non sono ancora pervenite 24 sezioni per il Senato e 21 alla Camera ma, come spiegato ieri, la loro inclusione non influisce sui risultati ed è – a questo punto – dato meramente statistico. Avevamo anticipato che il computo delle schede bianche sarebbe arrivato tra ieri e oggi, e infatti sono arrivati a stretto giro rispetto a quanto ci era stato riferito dagli uffici del Viminale, cioè alle 15.30 (Senato) e alle 15.42 (Camera) di ieri.

Stando ai dati che si possono consultare sul portale Eligendo, le schede bianche che sono state registrate sono state 989.439 (492.650 alla Camera e 496.789 al Senato). Il dato potrebbe cambiare di poco nei giorni, quando nel calcolo rientreranno le schede ancora oggetto di contestazione. Le schede nulle sono invece state 806.661 al Senato e 817.251 alla Camera, per un totale di 1.623.912. Al Senato le schede tuttora contestate sono 3.148, alla Camera 2.817.

Ma quello che salta all’occhio è il dato relativo all’Astensione che, non solo è il più alto di sempre, ma è il vero “partito” vincitore delle ultime Politiche. Non è retorica ma un dato di fatto: Al Senato su 45.210.950 potenziali elettori, i votanti sono stati appena 28.795.727. Calcoli alla mano, non si sono recati alle urne 16.415.223 italiani, 4 milioni in più rispetto al numero di elettori che ha votato per la coalizione del centrodestra. In pratica sono state espresse le seguenti preferenze di voto e non voto:

Astensionisti: 16.415.223

Elettori della coalizione di centrodestra: 12.129.547

Elettori della coalizione di centrosinistra: 7.161.688

Elettori Movimento Cinquestelle 2050: 4.285.894

Terzo Polo: 2.131.310

Italexit: 515.294

Unione Popolare: 274.051

ISP: 309.403

De Luca sindaco d’Italia: 271.549

Vita: 196.656

PCI: 70.961

Noi di centro 42.860

APL: 40.371

Partito Animalista: 16.957

Partito Comunista del Lavoratori: 4.484

Destre Unite: 2.412

FDP: 873

Non dissimile il discorso alla Camera:

Astenuti: 16.665.364

Elettori coalizione di centrodestra: 12.300.244

Elettori coalizione di centrosinistra: 7.337.975

Movimento 5 Stelle 2050: 4.333.972

Terzo Polo: 2.186.669

Italexit: 534.579

Unione Popolare: 402.964

Isp: 348.097

De Luca sindaco d’Italia: 212.685

Vita: 201.528

SVP: 117.010

Noi di centro 46.109

PCI: 24.555

Partito animalista: 21.442

APT: 16.882

Partito della follia 1.418

Free: 828

Forza del Popolo: 815

Meloni, già prematuramente battezzata dai media come il nuovo premier, ha poco da festeggiare se si pensa che il numero di italiani che non si è recato alle urne supera il numero di elettori della coalizione vincitrice, con cui deve spartirsi ulteriormente le preferenze. Non serve nominare gli altri partiti, sotterrati dalle scelte impopolari degli ultimi anni che hanno influito sulla libertà di scelta dei cittadini, sulla loro occupazione, sui costi vivi e su quegli energetici. In una parola: sulle loro vite devastate (non migliorate) dall’azione di una politica letteralmente e trasversalmente punita alle urne.

Il nuovo governo che si formerebbe da queste elezioni, dunque, dovrebbe misurarsi con tensioni esterne e con numeri interni davvero risicati. Si tratterebbe in ogni caso di un esecutivo lampo, forse in vita per sei mesi, e a corrente – letteralmente – alternata: sfilati salviniani e berlusconiani, si ridurrebbe subito a un cumulo di macerie, né Meloni potrebbe avere da sola la pretesa di essere sostenuta da chi già sta tentando di salire sul car vincitore (eclatante l’endorsement della Morani – Pd – a ridosso dei primi exit poll).

Una delle strade tuttora considerate è infatti l’intesa innaturale con Enrico Letta, defenestrato dai dem proprio per consentire, nel lungo termine, un avvicinamento alla nemica-amica europeista e atlantista. Forse, di nuovo, nel nome di Mario Draghi o di una figura considerata super partes. Non lo si chiamerebbe, certamente, inciucio, ma unità nazionale”, benedetto dal placet dai colonnelli della Lega che non a caso hanno tentato di giocarsi la carta dell’epurazione di Salvini.

Elezioni. Allarme-astensione: sale al 36%, punte del 50 al Sud (dato definitivo). M.Ias. domenica 25 settembre 2022 su Avvenire

L'affluenza si ferma al 64%, dieci punti meno del 2018. Tutte le Regioni in calo. In Campania Calabria resta a casa un elettore su due.

L'illusione è durata lo spazio di un mattino. Con i dati del Viminale delle 12, era sorta l'illusione che l'astensionismo potesse non dominare le elezioni 2022. E invece, a urne chiuse, la sentenza: ha votato solo il 64% degli italiani, a fronte del 74% delle elezioni per il Parlamento del 2018. In una legislatura, in quattro anni e mezzo, volano via 10 punti di partecipazione. Nessuna Regione regge all'urto, nemmeno quelle del Centro-Nord che in mattinata avevano registrato buone affluenze e code davanti alle sezioni. Il Lazio si ferma al 63%, a 10 punti dal risultato del 2018. La Lombardia arriva al 70, ma cinque anni fa arrivò al 77. Ma a trascinare giù il dato della partecipazione è soprattutto il Sud: la Campania si ferma sotto il 54%, la Calabria e la Sardegna poco sopra il 50, solo Puglia e Sicilia mostrano una qualche tenuta.

L'AFFLUENZA DELLE 19

Con i dati del Viminale riferiti all'affluenza alle 19 già assumeva una forma più sostanziosa il "partito dell'astensione": alle 7 di sera, a sole 4 ore dalla chiusura dei seggi, erano andati a votare il 51% degli aventi diritto, a fronte del 58,40 registrato alle ore 19 del 4 marzo 2018, data delle ultime elezioni per il Parlamento. Una doccia fredda, dato che la rilevazione delle ore 12 aveva aperto a un altro scenario, con una partecipazione stabile a livello nazionale, con picchi di presenze alle urne al Centro-Nord e cali di affluenza concentrati al Sud. Il dato delle 19 fornisce invece un'altra fotografia: tutte le Regioni in calo. Anche Lazio (53-54%, flessione minima rispetto al 2018), Lombardia (58-59%, 4 punti in meno), Emilia Romagna (vicina al 60% ma lontana dalle soglie di cinque anni). Idem Toscana, Veneto, Piemonte, Liguria, che in mattinata avevano fatto registrare una tendenza in aumento rispetto al 2018. Affluenza giù senza eccezioni, dunque. E che assume la forma di una vera e propria diserzione al Sud: in Campania alle 19 ha votato meno del 39% degli aventi diritto rispetto al 54,3 del 2018, in Calabria poco più del 36%, in Sardegna, Sicilia e Puglia il 41-42%. Tengono meglio di altre Regioni le Marche, pur flagellate la settimana scorsa da una tragica alluvione: il dato regionale è quasi al 56% rispetto al 62,2 di cinque anni fa, nella città di Senigallia hanno votato il 54,6% degli aventi diritto, con un calo di quattro punti rispetto alle ultime elezioni parlamentari. Alla luce di questa situazione, in queste ultime ore con le urne aperte fioccano appelli al voto, più o meno ortodossi, di leader e candidati.

L'AFFLUENZA ALLE 12

Alle 12 l'affluenza alle urne è stata del 19,21%, in flessione molto lieve rispetto ad analoga rilevazione svolta per le elezioni del 2018 (19,43% il dato parziale di cinque anni fa). A mezzogiorno la partecipazione era in aumento dall'Emilia Romagna (23,46%) al Lazio (20,81), dalla Toscana (22,33) alla Lombardia (22,40), con il Centro-Nord che in generale aveva dati stabili o in crescita rispetto alle ultime votazioni per il Parlamento. In un quadro generale che sembrava sostanzialmente stabile, ad avere il segno "meno" erano già Regioni del Sud come Campania, Calabria, Molise, Basilicata, con affluenze sul 12-13%. Anche in Sicilia e Sardegna affluenza bassa alle 12, intorno al 15%. In Campania, l'affluenza potrebbe essere stata condizionata da una forte bomba d'acqua che ha reso inaccessibili non pochi seggi per diverse ore della mattinata, con problemi di viabilità che solo in queste ore sono in via di soluzione. La mattinata comunque sembrava promettere bene sul versante della partecipazione alla luce delle code presso le sezioni di Milano, Roma e delle grandi città del Centro e del Nord, con qualche protesta per i tempi delle operazioni allungati dal "tagliando antifrode".

IL VIDEO ALLUSIVO DI MELONI E IL CASO SALVINI-BERLUSCONI: SILENZIO ELUSO

La prassi del silenzio elettorale è stata elusa a più riprese dai leader di centrodestra. Salvini, all'esterno del suo saggio, si è intrattenuto a parlare con i cronisti anche del governo che "ho in testa". Mentre Berlusconi è stato ripreso pare a sua insaputa mentre parlava di Salvini: "Penso che finiremo sopra la Lega. Con Matteo ho nutrito un'amicizia fruttuosa. Ha bisogno di essere un po'

inquadrato, anche lui non ha lavorato mai, per cui cercherò di fare il regista del governo". Ma la trovata-choc è di Giorgia Meloni, che su Tik Tok si lascia andare ad un video allusivo che gioca sul suo cognome e che ha lasciato in tanti sbigottiti, visto i toni che la leader Fdi ha provato a tenere in campagna elettorale.

IL VOTO DI MATTARELLA E DEI BIG

In mattinata quasi tutti i "big" e i vertici istituzionali si sono recati ai seggi. Il primo è stato Sergio Mattarella, che poco dopo le otto e mezzo è andato a votare nel suo seggio di Palermo. Il presidente della Repubblica, dopo avere espresso il proprio voto, ha stretto la mano al presidente di seggio e ha lasciato la scuola media Piazzi, senza rilasciare dichiarazioni. La gente in coda per votare ha rivolto garbatamente un saluto al capo dello Stato. Voto rinviato in serata invece per Giorgia Meloni: la ressa di fotografi e cronisti che la attendevano al seggio romano di via Beata Vergine del Carmelo a Roma ha spinto la leader di Fratelli d'Italia a rimandare il suo voto dopo le 22, rispetto alle 11 previste, per consentire agli elettori del suo seggio un voto sereno.

Ok con il pollice alzato all'uscita dal seggio e foto con alcuni elettori per Enrico Letta. Il segretario Pd è andato a votare stamattina nel suo quartiere a Testaccio a Roma ma non ha rotto il silenzio elettorale. Fuori dalla porta del seggio alcuni elettori lo hanno aspettato e gli hanno chiesto di fare un selfie. "Ciao, buona domenica" ha detto il segretario Pd ai fotografi che lo attendevano. Poi ha postato una foto con la scritta "Buon voto!" sui suoi profili social. Poco dopo le nove, ma a Milano, ha votato Matteo Salvini. Il leader del Carroccio ha risposto a lungo ai giornalisti che lo aspettavano, rompendo di nuovo il silenzio elettorale: "Conto che la Lega sia una forza parlamentare sul podio: prima, seconda o terza al massimo". E a chi gli chiedeva se il quarto posto sarebbe una sconfitta, Salvini ha replicato: "Gioco per vincere, non per partecipare".

Carlo Calenda ha votato al suo seggio di via del Lavatore 38 a Roma. "Votate, votate liberamente, senza condizionamenti e senza paure. L'Italia è sempre più forte di chi la vuole debole" ha poi scritto il leader di Azione e del Terzo polo. "Come vuoi che la passi? Angosciato! No, la passerò con mia moglie Violante e i figli" ha poi risposto ai giornalisti che lo aspettavano davanti al seggio. Voto a Firenze con la moglie Agnese per Matteo Renzi. "Noi abbiamo votato. Fatelo anche voi, qualunque sia la vostra opinione politica. La democrazia si alimenta con l'impegno di tutti", ha poi scritto su Twitter il leader di Italia viva. "Mi sembrava che ci fosse parecchia affluenza. Quindi vuol dire che la democrazia funziona", ha detto Romano Prodi dopo aver votato, in centro a Bologna, al liceo Galvani di via Castiglione. 

Elezioni 2022: il partito più forte è quello dell'astensione. Affluenza crollata al 63,9%. Beatrice Offidani su huffingtonpost.it il 26 Settembre 2022.

È avvenuto quello che si temeva, la partecipazione alle urne è andata molto peggio di quella delle scorse elezioni politiche, quasi nove punti in meno.

Il vero vincitore di queste elezioni, sembrerà banale dirlo, è il partito dell'astensione. I numeri alla chiusura dei seggi danno l'affluenza alle urne poco sotto il 64%, nove punti in meno rispetto alla scorsa volta, il minimo storico.  Alle scorse elezioni politiche, quelle del 4 marzo 2018, l'affluenza infatti era stata del 72,9%.

La scarsa partecipazione per queste elezioni politiche ha conosciuto un drammatico crollo, certo, ma rispecchia un trend iniziato già da diversi anni.

Elogio dell'astensione. So già chi vince: io. Mauro Suttora su huffingtonpost.it il 24 Settembre 2022.  

Storia di un radicale che nella vita ha votato di tutto e stavolta non vuole votare niente, senza sensi di colpa e finalmente in maggioranza. E che propone di tagliare seggi in proporzione al numero di astensionisti

Per la prima volta dopo quasi mezzo secolo vincerò le elezioni. Il mio partito risulterà primo, supererà Meloni e Letta, si installerà ben oltre il 25%. Poi noi astenuti faremo approvare una legge per completare l'opera: il numero degli eletti si ridurrà in proporzione ai votanti. Astensione di un quarto degli elettori? Trecento deputati invece di quattrocento, 150 senatori al posto di 200.

 Perché l’astensione da record deve preoccuparci più della destra al governo. Il crollo della partecipazione al voto di dieci punti percentuali è un dato epocale, molto più della vittoria della destra guidata da Giorgia Meloni. Perché racconta di una rabbia e di una disillusione profondissime nei confronti della politica, con cui tutti i partiti politici dovranno fare i conti. A cura di Francesco Cancellato su Fanpage.it il 26 settembre 2022.

Sì ok, ha vinto la destra più destra che si sia mai vista in Italia. E sì ok, con ogni probabilità avrà una maggioranza importante sia alla Camera sia al Senato, seppur non abbastanza per cambiare da sola la Costituzione. E sì ok, con ogni probabilità per la prima volta in Italia avremo un (anzi una) presidente del Consiglio espressione di un partito post-fascista. Sì ok, dobbiamo preoccuparci. Ma rischia di esserci molto peggio, all'orizzonte.

Perché di epocale, nella vittoria della destra, a ben vedere, c'è soprattutto la simbologia. La coalizione, al netto dell’ennesimo travaso di voti tra i partiti che la compongono – dalla Lega e Fratelli d’Italia, dopo essere passati quattro anni fa da Forza Italia alla Lega – è sempre la stessa che ha governato l’Italia tra il 2001 e il 2006 e tra il 2008 e il 2011. Può non piacervi, ma è una minestra che avete già mangiato. E che buona parte degli italiani già mangia nelle quattordici regioni in cui governa il centrodestra. 

Peraltro, è una coalizione con una legittimazione elettorale molto inferiore che in passato – meno di 10 milioni di voti, contro i 12,4 milioni del 2018 e i 17 milioni del 2008. Allo stesso modo, l’exploit campano dei Cinque Stelle nei collegi uninominali al Senato e le fibrillazioni interne alla coalizione, rendono molto più fragile di quanto sembri la maggioranza della destra a Palazzo Madama, dove una sparuta decina di parlamentari, complice il taglio dei parlamentari, può cambiare i destini della legislatura e rendere impervio il cammino di un governo Meloni prossimo venturo, non bastasse la situazione politica ed economica che attraversa il nostro Paese.

Il vero dato epocale di queste elezioni è un altro, semmai. Ed è l’astensione al voto di un terzo dell’elettorato, un’astensione che cresce di 10 punti in soli quattro anni. È una diserzione dalle urne che apre un vuoto enorme nella politica italiana, come mai si è visto nel nostro Paese, anche nelle fasi drammatiche degli anni di piombo o nel cupio dissolvi della Prima Repubblica, tra il 1992 e il 1994. È un vuoto che racconta la rabbia la disillusione e la disaffezione profondissima nei confronti della politica che nessun partito è stato in grado di attrarre e rappresentare, a differenza di quanto accadde tra il 2013 e il 2018 con l’exploit del Movimento Cinque Stelle e della Lega, o nel 1994 con la nascita di Forza Italia. 

Quel vuoto ci deve spaventare perché racconta lo stato della nostra democrazia più e meglio di qualunque vittoria di qualunque schieramento. Perché racconta quanto capitale politico sia stato dissipato in dieci anni a vellicare la pancia del Paese con promesse impossibili, a chiamare salvatori della patria a prendere decisioni impopolari, a formare grandi coalizioni affinché nessuno se ne prendesse la responsabilità, e a fare la gara a dissociarsene appena s’intravedeva l’inizio di una campagna elettorale.

Con tutto questo, tutti i partiti sono chiamarti a fare i conti, quelli che hanno vinto e quelli che hanno perso. E non c’è sfida più difficile di questa. Perché i vuoti in politica si riempiono in fretta. Ed è da quei vuoti che prendono forma gli incubi peggiori.

L'affluenza alle urne non è mai stata così bassa, alle Politiche. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.  

Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, meno del 70 per cento degli aventi diritto è andato a votare. 

Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, meno del 70 per cento degli aventi diritto è andato a votare per le elezioni Politiche. L'affluenza, alla fine, si è fermata al 63,91%: circa 4 milioni e mezzo di cittadini hanno deciso di disertare le urne.

I risultati delle elezioni 2022 in diretta

Il dato vede un calo del 9 per cento rispetto al 2018, quando a recarsi alle urne fu il 72,9 per cento degli aventi diritto. Anche allora si trattò di un record negativo. 

Cinque anni prima, al voto andarono il 75,2 per cento; prima di quella data, l'affluenza era sempre stata sopra l'80 per cento. 

L'ultima volta in cui l'affluenza aveva superato il 90 per cento era stato il 1979.

Quando mancavano poche decine di seggi per avere i dati definitivi, le regioni dove i dati sull'affluenza risultavano superiori alla media nazionale erano Emilia Romagna, Lombardia e Veneto (sopra il 70%). Le regioni in cui l'affluenza risultava, al contrario, più bassa erano Calabria, Campania e Sardegna.

Dagospia il 25 settembre 2022. LA NUOVA PARROCCHIA POLITICA E' IL "PARTITO DEGLI ARTISTI" (MA QUANTI VOTI SPOSTA?) – CANTANTI, INFLUENCER, ATTORI, DIRETTORI DI ORCHESTRA, DA CHIARA FERRAGNI A PAOLA TURCI FINO A FRANCESCA MICHIELIN E NICOLA PIOVANI, SI SONO MOBILITATI SUI SOCIAL APPELLANDOSI AL SENSO CIVICO DEI CITTADINI PER CONVINCERLI AD ANDARE A VOTARE – PERÒ ATTENZIONE: NON E' UN INVITO A FARE IL PROPRIO DOVERE CIVICO MA UNO SPRONE A VOTARE "BENE" (CIOE' PER CHI DICONO LORO)

Federico Capurso per “la Stampa” il 25 settembre 2022.

Il mondo dello spettacolo si muove per invitare gli italiani al voto. Dai toni seri e accorati, come quello di Chiara Ferragni, a quelli più scherzosi di Alessandro Gassman e Francesca Michielin, fioccano sui social gli inviti di artisti e artiste a recarsi alle urne.

Mette al centro i diritti, Ferragni: «Il voto è uno dei pochi strumenti di cui disponiamo per proteggerli, per crearne di nuovi, per estenderli a chi oggi se li vede negati - scrive l'influencer in una storia pubblicata su Instagram -. E per decidere in che direzione debba andare il nostro Paese: se in avanti o indietro di decenni».  

Sono stati più rari del solito, in questa tornata elettorale, gli inviti a sostenere un partito, ma anche nei semplici appelli al voto, l'orientamento più o meno velato emerge. Come quando dal mondo della musica, la cantante Paola Turci fa eco a Ferragni augurando su Twitter un «buon voto al nostro Paese, democratico, dei diritti, antifascista».

Si limita a porre l'accento sui diritti il collega Marco Mengoni: «Votare è il più grande atto di libertà, è nostro diritto, è un nostro dovere. Io vado a votare. E tu?», chiede ai suoi follower. Si rivolge a loro anche la cantante Francesca Michielin, ma in modo scherzoso: pubblica una sua foto in primo piano e li avverte, «io che guardo se votate domenica».  

Come lei, sceglie l'ironia Alessandro Gassman. Il suo è un meme, ovviamente affidato ai social: «Non votare è come nascondere la testa nella sabbia, ma attenzione... il culo resta fuori». Più mesto, invece, il compositore e direttore d'orchestra Nicola Piovani, che condividendo una vignetta di Altan, si dice «indeciso se dare un voto utile o dilettevole». E aggiunge: «In certi momenti, chissà perché, l'ipotesi del "meno peggio" mi appare come un miraggio di ottimismo e di speranza». 

Capisce l'indecisione degli astensionisti, l'attore Giorgio Pasotti, «ma è importante esprimere un voto e mi rivolgo soprattutto ai giovani, perché si sta parlando del loro futuro. Votare è indispensabile». 

Elezioni 2022: successo per Giorgia Meloni, male gli alleati Lega e Fi. Crollo Pd e ripresa del M5s. Cresce il Terzo Polo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Settembre 2022.  

La leader di Fratelli d’Italia ha detto che attraverso il voto «dagli italiani è arrivata un’indicazione chiara: un governo di centrodestra a guida di Fratelli d’Italia». E ha proseguito, «la campagna elettorale è stata violenta, abbiamo subito». Ha anche espresso il suo rammarico per l’astensionismo. «Questo è il tempo della responsabilità, il tempo in cui se si vuole far parte della storia si deve capire quale responsabilità abbiamo verso decine di milioni di persone perché l'Italia ha scelto noi e non la tradiremo come non l'abbiamo mai tradita». Lo ha detto la leader di Fdi, Giorgia Meloni aggiungendo che «se saremo chiamati a governare la nazione lo faremo per tutti, per unire un popolo esaltando ciò che unisce piuttosto che ciò che divide».

Oltre 50 milioni gli italiani chiamati al voto: tra loro 2.682.094 neo maggiorenni che hanno messo piede, per la prima volta, in un seggio elettorale. Sulla carta sono 50.869.304 gli elettori, di cui 4.741.790 all’estero; dei 46.127.514 elettori in Italia il 51,74% sono donne e il restante 48.26% uomini. Alle 23, dato non ancora definitivo, hanno votato il 64,39% degli aventi diritto al voto. 

L’Italia va a destra e sceglie Giorgia Meloni. I dati delle proiezioni confermano gli exit poll: il centrodestra ha vinto le elezioni politiche, ha la maggioranza sia alla Camera che al Senato, con Fratelli d’Italia primo partito. La leader di FdI verso le 2.30 ha preso la parola e parla di notte di “riscatto, di lacrime, di abbracci, di sogni e di ricordi”. Si dice “rammaricata” per l’astensionismo – “la sfida ora è tornare a far credere nelle istituzioni” – e rimanda “l’analisi più completa del voto a domani“, ma chiarisce che “dagli italiani è arrivata un’indicazione chiara: un governo di centrodestra a guida FdI”. E noi, assicura, “non li tradiremo”. Alla fine di un discorso emozionale cita San Francesco: ”Tu comincia a fare quello che è necessario, poi il possibile e alla fine ti riscoprirai a fare l’impossibile”. È quello che abbiamo fatto noi“. Se per Meloni è stato un successo come previsto, non è stato lo stesso per gli alleati Lega e Forza Italia. Buono il risultato del Terzo Polo, mentre cala il Pd e sale, rispetto ai pronostici, il M5S. L’affluenza crolla di quasi 10 punti: ha votato il 63,91% degli aventi diritto, il dato più basso di sempre. 

Alla chiusura delle urna alle ore 23 ha votato il 64,03% degli aventi diritto per il rinnovo del Senato, (dati relativi a 5.748 Comuni su 7.904), come rende noto Eligendo, il sito del ministero dell’Interno. Per il rinnovo della Camera alla stessa ora ha votato il 64,67% degli aventi diritto (quando i dati sono relativi a 1.457 comuni su 7.904). 

Lo spoglio è proseguito nella notte, con i dati delle proiezioni che questa volta hanno confermato gli exit poll: la coalizione guidata da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ha una netta la maggioranza. Al Senato il centrodestra è oltre il 43% e il centrosinistra al 27. FdI è il primo partito oltre il 26%, la Lega crolla sotto il 9% mentre Forza Italia è poco sotto l’8%. E ancora: il Pd di Enrico Letta è intorno al 20%, Azione-Italia Viva supera il 7%, Alleanza Verdi e Sinistra è oltre il 3%, +Europa 3%, Italexit intorno al 2%, Unione Popolare all’1,5%, Noi Moderati 1,1%. Il Movimento 5 Stelle è intorno al 15%. Alla Camera in testa c’è ancora la coalizione di centrodestra con il 42,7% con FdI 26% (la Lega all’8,6% e Forza Italia sotto al 7,5%,), mentre il centrosinistra è al 27,8% (il Pd al 20%). M5S è al 14,7% e Azione-Italia viva quasi all’8%. 

Con una standing ovation il comitato elettorale di Fdi, allestito all’Hotel Parco dei Principi a Roma, ha accolto l’arrivo della leader Giorgia Meloni. La presidente è stata applaudita dai dirigenti del partito posizionati nelle prime file del salone allestito all’interno dell’albergo che si trova a due passi da Villa Borghese. 

La vittoria di Giorgia Meloni sui siti della stampa internazionale

La vittoria di Meloni campeggia sui siti internazionali. La rete televisiva inglese Bbc è stata la prima testata internazionale appena passate le ore 23 a dare conto sul proprio sito con una breaking news, e su Twitter, degli exit poll delle legislative in Italia: “Giorgia Meloni di estrema destra si appresta a vincere le elezioni ed è in procinto di diventare la prima donna premier“. “Il partito post-fascista di Giorgia Meloni in testa”, è il take dell’agenzia France Presse. L’ultim’ora dello spagnolo El Pais scrive che “i primi sondaggi delle elezioni italiane indicano una netta vittoria del partito di ultradestra Fratelli d’Italia, della romana Giorgia Meloni, con una forbice compresa tra il 22 e il 26% dei voti”, mentre il quotidiano conservatore El Mundo titola con più equilibrio “la destra vince le elezioni in Italia”. Il francese Le Figaro apre il sito con una foto di Meloni alle urne e il titolo “L’unione delle destre ampiamente in testa“. 

Oltreoceano, il New York Times scrive che “con i risultati del voto in Italia, l’Europa si prepara ad un altro spostamento a destra”. “I sondaggi d’opinione suggeriscono che il prossimo premier dell’Italia potrebbe essere Giorgia Meloni, una leader di estrema destra con radici post-fasciste. Sarebbe la prima donna premier del Paese”, sottolinea il prestigioso quotidiano americano. 

Le reazioni politiche dall’ estero

Su Twitter è arrivato il messaggio del premier polacco, Mateusz Morawiecki: “Congratulazioni Giorgia Meloni!”. Meloni e Morawiecki fanno entrambi parte del gruppo Ecr all’Europarlamento 

Balazs Orban, consigliere politico del premier Viktor Orban e deputato ungherese di Fidesz ha fatto i complimenti a Meloni, su Twitter: “Complimenti Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi per le elezioni di oggi! In questi tempi difficili, abbiamo bisogno più che mai di amici che condividano una visione e un approccio comune alle sfide dell’Europa. Lunga vita all’amicizia italo-ungherese“.

A Taranto Fratelli d’ Italia supera il M5S ed il PD. Sconfitto il reddito cittadinanza e l’effetto Melucci. Eletti Iaia alla Camera e Nocco al Senato. Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 26 Settembre 2022.   

Un voto che dovrebbe far riflettere, su come vengono scelti i candidati che si illudono di poter prendere in giro tutta la provincia di Taranto, che vede invece elette persone che hanno fatto della coerenza e stile di vita professionale una sua carriera politica, e dell'umiltà e semplicità di una donna-imprenditore il loro successo elettorale

Erano in pochi a prevederlo, ma scusatemi l’autocitazione, tranne il sottoscritto che ha testimoni e prove di quanto vi sto raccontando. E’ stata la città e la provincia di Taranto a sconfiggere le “promesse” al vento del Movimento 5 Stelle (“chiuderemo l’ Ilva“) ed il “campo largo” con il Pd ispirato da Michele Emiliano ed applicato alla lettera da Rinaldo Melucci, con la complicità di Mario Turco.

il Sen. Mario Turco ed il Sindaco Rinaldo Melucci

Nonostante gli errori fatti in occasione delle ultime elezioni amministrative a Taranto dello scorso giugno, che avevano visto il sindaco uscente “sfiduciato” Melucci (Pd) contrapposto ad un’improbabile grande alleanza fra il centrodestra e faccendieri sotto mentite spoglie di movimenti “civici”… che sembrava in realtà una rivisitazione moderna dell’ “Armata Brancaleone”, per sostenere la candidatura a sindaco di Walter Musillo, ex segretario provinciale del PD, spacciato insieme a Forza Italia e Lega, come “civico”, puntualmente trombato dagli elettori, questa volta Fratelli d’ Italia ha indovinato le proprie candidature presentando alla Camera dei Deputati dell’ avv. Dario Iaia, coordinatore provinciale di FdI a Taranto, ed al Senato Maria Vita Nocco, un imprenditrice alla sua prima esperienza elettorale, caratterizzata da umiltà ed educazione unita alla passione politica.

da sinistra Dario Iaia, Maria Vita Nocco e Giovanni Maiorano

Una sconfitta pesante quella del M5S che ridimensiona il ruolo ed il peso politico del sen. Mario Turco che si illudeva di fare il “miracolo bis” a Taranto e provincia, dopo essersi salvato nel listino “bloccato” del M5S (senza del quale non sarebbe stato rieletto) che ha candidato alla Camera dei Deputati la sua addetta stampa Annagrazia Angolano ed al Senato l’ avv. Roberto Fusco staccato di oltre 10 punti (ed oltre 50.000 preferenze) dalla candidata Maria Vita Nocco di Fratelli d’ Italia !

Altra prevedibile “bocciatura” politica quella dell’avv. Giampiero Mancarelli, un “prezzemolino” della politica tarantina, che ha girovagato fra tutte le correnti del Pd jonico, incapace di farsi eleggere in consiglio comunale a San Marzano di San Giuseppe (dove raccolse 70 voti !) candidatosi alla Camera a Taranto per il Pd, che è stato “doppiato” da Iaia (FdI). Adesso potrà tornare ad occuparsi di spazzatura e rifiuti sulla poltrona alla presidenza dell’ AMIU Taranto, dove si è messo in luce sinora per sprechi ed insuccessi aziendali, con il risultato più basso nella raccolta differenziata e la TARI fra le più alte d’ Italia ! Mancarelli, a caldo, ha attaccato i vertici del partito : “Questo significa che i nostri vertici nazionali stanno troppo chiusi nelle loro stanze invece di stare sul territorio. Un’assenza che pesa“. In realtà i vertici del PD hanno fatto un solo errore: candidare Mancarelli !

Giampiero Mancarelli, candidato del PD alla Camera “trombato” dagli elettori

Un voto che dovrebbe far riflettere, su come vengono scelti i candidati che si illudono di poter prendere in giro tutta la provincia di Taranto, che vede invece elette persone che hanno fatto della coerenza e stile di vita professionale una carriera politica (Iaia) e dell’umiltà e semplicità di una donna-imprenditore (Nocco) il loro successo elettorale. Un segnale importante che fa capire che gli elettori di Taranto e provincia sono stanchi dei proclami, dei “nominati” e “prezzemolini” .

La gente sceglie e vota persone che hanno da dare alla politica e non da chiedere. Ed era ora, finalmente !

Elezioni 2022, risultati in tempo reale: le ultime notizie in diretta. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.  

I risultati delle elezioni politiche 2022, in diretta: lo spoglio dei voti per Camera e Senato, la vittoria di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, l’uscita dal parlamento di Di Maio, i dati definitivi sui partiti e tutte le ultime notizie, in tempo reale 

• Lo spoglio è ancora in corso, ma il risultato delle elezioni è già chiaro: il centrodestra ha vinto e Fratelli d’Italia — intorno al 26 per cento — è nettamente il primo partito. Il centrosinistra non raggiunge il 30% (con il Pd che non supera la soglia del 20%); il M5S sfiora il 15% e raggiunge risultati importanti al Sud.

• Le parole di Giorgia Meloni nella notte: «L'Italia ha scelto noi e non la tradiremo come non l'abbiamo mai tradita».

• Le pagelle ai leader, di Roberto Gressi.

• Da segnalare il dato dell’astensione, il più alto di sempre nella storia repubblicana: ha votato il 64% degli aventi diritto.

Ore 05:22 - L’affluenza definitiva, la più bassa di sempre per le Politiche

L'affluenza, alla fine, si è fermata al 63,91%: circa 4 milioni e mezzo di cittadini hanno deciso di disertare le urne.

Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, meno del 70 per cento degli aventi diritto è andato a votare per le elezioni Politiche.

Ore 05:26 - Il boom del Movimento 5 Stelle al Sud: a Napoli sopra il 40 per cento

(Claudio Bozza) Il Movimento Cinque Stelle ha sì dimezzato i voti rispetto allo storico boom del 2018, quando conquistò il 32,7%. 

Ma al termine di una campagna elettorale molto breve e intensa come questa, il leader Giuseppe Conte riesce a conquistare un’ampia fetta di consensi: tra il 15-16%, con il Sud a fare da traino a livello nazionale e affermandosi come terzo partito dietro a Fratelli d’Italia e Partito democratico. 

Un particolare non da poco per un partito che era finito nell’occhio del ciclone per avere di fatto innescato il vortice che ha poi provocato la caduta del governo Draghi. 

La strategia per il rush finale messa a punto dall’ex presidente del Consiglio ha portato a frutti insperati. La parola chiave è stata «Sud». 

Conte, negli ultimi 15 giorni, aveva infatti programmato ben 25 tappe concentrandosi quasi esclusivamente su Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Sicilia, cioè i territori che nel 2018 avevano contribuito in maniera decisiva al trionfo elettorale puntando tutto, o quasi, sul reddito di cittadinanza. 

A tarda notte, consultando i dettagli dal sito del Viminale, emergono consensi da capogiro in Campania: a Napoli vanno addirittura sopra il 42%. Ma per i Cinque stelle le cose vanno bene anche in Sicilia 1 e 2, rispettivamente con 33 e 29%; mentre in Puglia sono attorno al 30%.

Ore 05:44 - Perché quello del 25 settembre 2022 è un risultato epocale

«Un risultato epocale», destinato a «cambiare profondamente la geografia politica italiana, non solo perché per la prima volta nella storia la destra si proietta a vincere le elezioni e ipotecare Palazzo Chigi con una donna alla guida di un governo di coalizione»: così Francesco Verderami, sul Corriere di oggi, sintetizza il voto del 25 settembre. 

Gli italiani e le italiane che si sono recati alle urne hanno determinato, con le loro scelte, «il tramonto dell’era berlusconiana» e «la fine del progetto salviniano della Lega nazionale». 

Meloni, «che ha cannibalizzato i consensi di Lega e FI, è consapevole che i nuovi rapporti di forza nel centrodestra potrebbero complicare più che la nascita del governo, la sua navigazione. E non a caso nei colloqui riservati prima del voto aveva fatto capire che si sarebbero dovuti privilegiare gli equilibri di coalizione sugli interessi di partito. Perché un conto è vincere, altra cosa è governare, altra cosa ancora è durare. C’è da affrontare una congiuntura nazionale e internazionale molto delicata: nessun governo potrebbe andare avanti a lungo senza una forte coesione interna. E dopo il terremoto nelle urne Meloni intende stabilizzare il quadro politico del centrodestra: si vedrà come, visto che Salvini durante tutta la campagna elettorale ha rivendicato l’obiettivo di tornare al Viminale e Forza Italia aspira alla Farnesina. Senza dimenticare che sulla formazione della squadra ministeriale l’ultima parola spetterà al capo dello Stato». 

Ma i risultati delle politiche fanno anche emergere quella che Verderami chiama «la grave crisi d’identità del Pd», sconfitto dalla sfida con FdI per il primato, ma soprattutto «ridimensionato nel tradizionale ruolo di punto di riferimento del fronte progressista» 

«Il compito di Letta era tutt’altro che facile: un anno e mezzo fa aveva ereditato una segreteria che Zingaretti aveva lasciato dicendo di “vergognarsi” del partito. Il resto lo hanno fatto una serie di errori tattici e strategici che lo hanno consegnato “nudo” alla sfida con Meloni. E ora la politica gli presenta il conto, dentro e fuori il Nazareno. 

Da una parte si trova il leader del Movimento: nonostante M5S abbia dimezzato i voti rispetto a cinque anni fa, Conte avrà la possibilità di fare sponda con quella parte dei democratici desiderosa di aprire una nuova stagione di rapporti con i grillini sul modello Mélenchon. 

Dall’altra i vertici di Azione puntano a diventare il polo riformista per attrarre quella parte dei dem che non è intenzionata ad accettare una deriva radicale. Per Calenda e Renzi il risultato elettorale va letto come il primo atto di un processo che si dispiegherà in Parlamento. Tra Scilla e Cariddi, il Pd rischia invece di spaccarsi».

Ore 05:38 - Ha vinto Giorgia Meloni: che cosa succede adesso?

Giorgia Meloni ha vinto le elezioni del 25 settembre 2022, e potrebbe essere chiamata dal Quirinale per provare a formare un governo con gli altri partiti del centrodestra: sarebbe la prima donna a Palazzo Chigi. 

È questo lo scenario più probabile, dati i risultati lusinghieri conseguiti da Fratelli d'Italia. 

Ma, come scrive Paola Di Caro sul Corriere di oggi, ora a FdI servirà prima di tutto prudenza. Meloni deve far attenzione a «non far pesare troppo agli alleati il ribaltamento di forze, non prendersi vendette». 

Fratelli d’Italia (qui il programma) sembra essere stato premiato per la sua coerenza (in quanto unico partito che è restato fuori dal governo di coalizione guidato da Mario Draghi), ma il voto premia, evidentemente, la leadership di Meloni, che — come ha ricostruito Antonio Polito — nel 2018 alle Politiche aveva ottenuto solo il 4,3%. 

Negli ultimi mesi, la leader ha più volte lavorato per trasmettere ai partner europei e dell’Occidente messaggi di rassicurazione sul ruolo e la collocazione dell’Italia in caso di un suo arrivo a Palazzo Chigi. 

Con la sua posizione filo atlantica è riuscita a rassicurare le cancellerie, ma il suo sovranismo — e segnatamente la sua volontà di ridiscutere il Pnrr — la potrebbero porre in contrasto con l’Europa. 

All’estero, i più sembrano guardare all'affermazione di Meloni con preoccupazione, come dimostra il titolo della Cnn : «Italia verso la premier più a destra dai tempi di Mussolini»

Ore 05:50 - I risultati, ad ora

Lo spoglio non è ancora concluso, ma le proiezioni sono tutte concordi: la coalizione di centrodestra ha vinto le elezioni politiche del 25 settembre 2022, ha conquistato una netta la maggioranza (sopra il 40%) e si avvia ad avere la maggioranza assoluta sia in Senato, sia alla Camera; e, al suo interno, Fratelli d’Italia — il partito di Giorgia Meloni, è saldamente collocato come primo partito, con oltre il 26 per cento dei voti. Meloni potrebbe essere chiamata dal Quirinale, prima donna a Palazzo Chigi, per provare a formare un governo con gli altri partiti del centrodestra. 

Crolla la Lega, che scende sotto il 10%; tiene invece — oltre le previsioni — Forza Italia («il Cavaliere e il suo partito sono ancora politicamente vivi e vegeti», sintetizza Marco Galluzzo). 

Noi moderati di Maurizio Lupi è allo 0,9% (0-4 senatori). L’accordo fra gli alleati era chiaro: chi prende più preferenze sceglie il candidato premier. Salvini deve ridimensionare le proprie ambizioni, mentre Giorgia Meloni può dunque fare rotta su Palazzo Chigi, anche se i giochi sono aperti e bisognerà capire come intende muoversi il presidente Sergio Mattarella per garantire l’interesse nazionale nel complicato quadro internazionale sia sul piano politico sia su quello economico. 

Il Pd oscilla intorno (ma sotto) al 20%, e nel partito, adesso, c'è aria da resa dei conti, come racconta Maria Teresa Meli.

La lista Verdi-Sinistra Italiana ha raccolto il 3,6% al Senato (5-9 seggi) e il 3,7% alla Camera (10-16 deputati), mentre +Europa è sul filo della soglia di sbarramento del 3% al Senato (0-2 senatori) al 2,9% alla Camera e quindi deve i dati ufficiali per il conteggio definitivo. Non pervenuta Impegno civico: la lista di Luigi Di Maio — rimasto fuori dal Parlamento - è allo 0,6%. La somma dei voti del centrosinistra è dunque intorno al 26,6 al Senato e al 26,8 alla Camera. 

Azione-Italia viva è al 7,7% (7-11 senatori e 15-25 deputati): il Terzo polo esiste, Maria Elena Boschi ha parlato di «risultato importante», ma non sono i numeri sognati da Calenda e Renzi. 

Il Movimento 5 Stelle, invece, si colloca intorno al 15%, affermandosi come terzo partito dietro a FdI e Pd e con percentuali altissime al Sud.«Tutti ci volevano fuori dal Parlamento, ci davano a una cifra in picchiata, la rimonta è stata significativa», ha commentato Conte nella notte, per poi promettere: «Saremo una forza di opposizione che esprimerà tantissimo coraggio e tanta determinazione». 

Italexit di Gianluigi Paragone sembrerebbe non essere riuscita a raggiungere lo sbarramento (fissato al 3%).

Ore 06:22 - In Alto Adige lista no vax oltre il 6% dei consensi

In Alto Adige a sorpresa la lista Vita, vicina al mondo no vax, si attesta ben oltre il 6%, con un collegio che sfiora addirittura il 9% dei consensi. Il risultato è comunque in linea con quelli delle ultime tornate elettorali nel mondo di lingua tedesco. Al Senato a Bolzano Hannes Loacker attualmente è al 6,21%, a Merano Susanna Singer al 6,99% e a Bressanone Rudolf Schopf al 5,99%. Alla Camera è andata ancora meglio a Francesco Cesari con il 7,92% a Bressanone e la nota avvocatessa dei no vax Renate Holzeisen che a Bolzano sfiora il 9% (8,94%).

Ore 06:29 - Di Maio sconfitto a Fuorigrotta, è fuori dal parlamento

Gli odiatori da tastiera sono pronti a sfornare vignette feroci contro Luigi Di Maio , il ministro che si sfracellò volando in pizzeria sulle note di Dirty Dancing (vedere video per credere, ndr). «Gigino verso il ritorno al San Paolo», ironizzano sul web quando è ormai notte fonda e per il fondatore di Impegno Civico si profila la disfatta. La sfida testa a testa nel collegio uninominale di Napoli-Fuorigrotta con Sergio Costa e Mariarosaria Rossi è all’ultima scheda, Mara Carfagna è quarta e Di Maio secondo. È lui che ha tutto da perdere, o ha già perso tutto. Con la scissione del M5S voleva salvare il governo Draghi, ma il senno di poi dice che ha contribuito ad affossarlo. Sognava di rendere «irrilevante» Conte e invece, portandogli via mezzo partito, ha fatto la sua parte per resuscitarlo. E adesso, in tandem con Tabacci, rischia di restare fuori dal Parlamento.

Ore 06:42 - Chi è Giorgia Meloni

(Roberto Gressi) Rivoluzione accorta ma non morbida, che qui non si annacqua niente. Presidenzialismo, abiura del fascismo quanto elettoralmente basta, la Fiamma non si tocca. Patria, famiglia e lobby Lgbt da sorvegliare, senza gli eccessi dei comizi in casa Vox. Qualche zampata, dal video sullo stupro alle devianze, che qualche volta la frizione scappa. 

Ma in questa campagna elettorale, dopo aver trovato la ricetta della minestra di Riccioli d’Oro, Giorgia è stata soprattutto lì a guardarla bollire, attenta che non si attaccasse, con camicette bianche, toni bassi e pause sapienti, mentre i sondaggi salivano ogni settimana. 

Bastava non strafare, e soprattutto impedire che sbrodolassero i due simpatici improvvisatori che si porta dietro, Silvio e Matteo, e con un occhio alla lezione di Mario Draghi, che pure non ha mai votato. È, ora, più che probabile che sarà lei la prima donna in Italia a guidare un governo. 

Meloni Giorgia, 45 anni, Capricorno, nata a Roma Nord ma cresciuta alla Garbatella, intorno ai 160 centimetri per poco più di 50 chili, un diploma con Sessanta quando era il voto più alto. Una madre, una sorella, un compagno, una figlia. Un padre, anche, al quale ha fatto ciao ciao quando aveva un anno, mentre lui se ne andava alle Canarie per non tornare più. Nel decennio successivo lei e sua sorella Arianna hanno visto papà Francesco per una, massimo due settimane all’anno. Fino a quando, per Giorgia, anche questi pochi giorni divennero insopportabilmente troppi. Lei gli disse: «Non voglio vederti più». E mantenne la parola. «Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto», ha raccontato a Silvia Toffanin, a Verissimo. 

Alla mamma Anna dice tutto, unica persona di cui teme il giudizio. Quando aspettava Giorgia il suo matrimonio era già in crisi, aveva una bambina piccola e tanti le consigliavano di interrompere la gravidanza. Ci pensò, andò anche, ovviamente a digiuno, a fare le analisi propedeutiche. Anni dopo lo ha raccontato così a sua figlia: «E poi entrai invece in un bar e dissi: cappuccino e cornetto». Complici da sempre con la sorella Arianna, che le raccontava le favole e la consolava quando a scuola la chiamavano cicciona. Insieme accesero una candela in cameretta, per giocare, e poi uscirono lasciandola lì. Bruciò tutto, addio all’appartamento alla Camilluccia, si va alla Garbatella.

Ore 07:06 - A Bologna Casini batte Sgarbi, Bonino e Calenda beffati a Roma

(Claudia Voltattorni) Un solo voto. Tanto basta per essere dentro o fuori al Senato o alla Camera (salvo poi l’eventuale ripescaggio al proporzionale). La sfida nei collegi uninominali prevede una semplice regola: vince chi prende più voti, anche uno solo.

A Bologna, la sfida dentro-fuori era tra l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini (centrosinistra) e Vittorio Sgarbi (centrodestra), battuto dopo un testa a testa fino all’ultimo voto. A Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, la battaglia per il Senato la vince Isabella Rauti, figlia del leader Msi Pino, ex moglie di Gianni Alemanno (ex An) e candidata di Fratelli d’Italia, con oltre il 45%, contro circa il 30% di Emanuele Fiano (Pd), figlio del sopravvissuto ad Auschwitz Nedo. Daniela Santanché (FdI) batte Carlo Cottarelli (centrosinistra) per il Senato a Cremona.

Ore 07:14 - Da chi ha preso tutti quei voti, Meloni? E a chi li ha sottratti Calenda?

(Renato Benedetto) Il balzo in avanti, in poco più di quattro anni, è impressionante: Fratelli d’Italia passa dal 4,4 del 2018 a circa il 25% alla Camera di queste elezioni. 

Dove li ha presi, questi elettori? Soprattutto li ha sottratti alla Lega. 

Secondo l’analisi dei flussi del Consorzio Opinio per la Rai, mostrata da Antonio Noto a Porta a Porta, il 40% di chi adesso ha votato per il partito di Giorgia Meloni era un elettore della Lega. 

Il 22% aveva già scelto Fratelli d’Italia (si può desumere quindi che ha confermato buona parte dei suoi appena 1,4 milioni di elettori del 2018). Un poco FdI ha rubato anche a Forza Italia (13%) e Movimento 5 Stelle (9%). Appena il 3% al Pd, il 10% dall’astensione. 

Anche Forza Italia ha pescato nell’elettorato leghista (il 17% degli elettori di Berlusconi oggi aveva votato per il Carroccio nel 2018). 

Quello di Meloni è il primo partito quasi ovunque, conquista (dati a spoglio in corso) circa il 23% al Nord Ovest, il 26% nel Nord Est, il 27% al Centro. Solo al Sud, con il 20%, è secondo, con il M5S in testa con il 26% delle preferenze. 

La Lega fa un tonfo nel Nord Est: in Friuli-Venezia Giulia è intorno all’11 mentre FdI è oltre il 30%; in Veneto si ferma intorno al 14,5% (Zaia aveva stravinto con il 76% delle preferenze), mentre FdI, intorno tra il 32 e il 33%, la doppia. 

E il partito di Calenda? Secondo il Consorzio Opinio pesca molto tra gli elettori del Pd: il 37% di chi oggi ha votato per Azione-Iv nel 2018 aveva scelto i democratici. 

Prende anche da Lega (11%) e M5S (10%), qualcosa anche da FI (7%) e +Europa (5%). Il Movimento ha pescato anche nell’elettorato dem (11%) e leghista (4%).

Ore 07:31 - La lunga giornata di Giorgia Meloni

(Paola Di Caro) Quel tetto di cristallo che separava una donna, e di destra, dal vertice del potere l’ha rotto, come sperava e credeva. E si gode l’emozione, la gioia — mista ad ansia, ricordi, paure e stanchezza — in famiglia fino a tarda notte, poi tra i suoi fedelissimi, eletti e decine e decine di giornalisti di tutto il mondo che la aspettano al Parco dei Principi da ore. 

Con la voce che a tratti trema, commossa, Giorgia Meloni sale sul palco, scherza, ride, si stringe nella sua giacca bianca, scuote i capelli e avverte che sarà solo un saluto, che oggi approfondirà per bene ogni tema, ma emozionata può finalmente dedicare «questa vittoria, questo riscatto» oltre che alla sua famiglia, mamma, sorella, compagno, figlia, a «tutte le persone che non ci sono più e che meritavano di vedere questa nottata».

Ore 07:39 - Il compagno di Meloni, che potrebbe essere il «first gentleman» d’Italia

(Claudio Bozza) Volto Mediaset, cuore a sinistra, quasi sempre un passo indietro dai riflettori della politica. Andrea Giambruno, 41 anni, conduttore di Studio aperto, è il compagno di Giorgia Meloni (4 anni più grande) e potrebbe essere — visti i risultati di queste elezioni politiche — il primo «first gentleman» della Repubblica italiana. 

Il giornalista e la leader di Fratelli d’Italia si sono appunto conosciuti dietro le quinte di una trasmissione condotta da Paolo Del Debbio, di cui Giambruno era autore. 

Meloni arriva trafelata e fa alla sua portavoce Giovanna: «Non ho mangiato, ho una fame che svengo».... In una pausa pubblicitaria mangia una banana al volo, ma quando si torna in onda, la leader di FdI è ancora lì con il frutto in mano: «Io mi precipito e gliela strappo di mano anche con una certa foga, ci manca la Meloni in diretta con una banana... — ricorda Giambruno dicendo che la leader lo scambiò per un assistente —. Non so dire, i nostri occhi si incrociano in modo strano, è stato un attimo». 

Da quel momento il giornalista inizia un serrato corteggiamento. E qualche tempo dopo, il 16 settembre 2016, è arrivata la piccola Ginevra, chiamata così per via di Lancillotto. 

Il vecchio detto «dietro ad un grande uomo c’è una grande donna» vale al contrario anche per lei? «Certamente sì — ha raccontato Meloni a Sette—. Andrea è un padre fantastico, presentissimo. Passa a Milano una settimana al mese, ma quando è qui lavora quasi sempre di sera e durante il giorno sta molto con Ginevra. Ci alterniamo, ci aiutiamo, ci completiamo». E poi: al suo compagno chiede consigli, pareri? «Lo coinvolgo, sì, ma non troppo. Quando siamo assieme cerco di lasciare fuori la politica, di staccare. Non è facile: lui segue tutti i talk, io passo davanti: “Ancora co’ la politica? Ti prego, cambia, non ne posso più!”».

Ore 08:15 - Gli ultimi dati alla Camera

In base ai dati del Viminale, quando sono state scrutinate 58.840 sezioni su 61.417, alla Camera è in testa la coalizione di centrodestra con il 44,10% mentre quella di centrosinistra è al 26,32%. Il Movimento 5 Stelle è al 15,10% e il terzo polo al 7,74%. Italexit è all’1,91%, Unione Popolare all’1,43%.

Anche al Senato vince nettamente la coalizione di centrodestra, ottenendo il 44,36% dei consensi, quando mancano i risultati di poche centinaia di sezioni sulle 60.399 allestite. Il centrosinistra ha segnato il 26,11%. Il Movimento 5 Stelle ha raggiunto il 15,31% mentre Azione-Italia viva ha raccolto il 7,7%.

Ore 08:02 - Molise, eletti Lotito e Cesa

Vanno al centrodestra tre dei quattro collegi in palio in Molise: bottino pieno al Senato, con il presidente della Lazio Claudio Lotito che si impone nel collegio uninominale con il 43%, davanti all’avvocato isernino Ottavio Balducci del M5S (23,9%) e alla dirigente scolastica Rossella Gianfagna (23,7%), candidata del centrosinistra, e l’esponente di Fratelli d’Italia Costanzo Della Porta, sindaco di San Giacomo degli Schiavoni, che ottiene il seggio disponibile nel proporzionale, prevalendo su Nicola Cavaliere di Fi, Alberto Tramontano della Lega e Mimmo Izzi di Noi Moderati.

Successo di Lorenzo Cesa nel collegio uninominale della Camera, al 43%, davanti ai rivali Riccardo Di Palma (23,68%), del Movimento 5 Stelle e Alessandra Salvatore (23,55%), consigliere comunale a Campobasso del Pd. Per l’assegnazione del seggio determinato dalla corsa nel proporzionale della Camera occorrerà attendere i conteggi imposti dal sistema elettorale.

Ore 08:19 - Rossi batte Rossi in uninominale Camera in Toscana

In Toscana, nel collegio uninominale UO1 (Grosseto) per la Camera, il vicesindaco di Grosseto Fabrizio Rossi, candidato del centrodestra, è stato eletto con il 98.652 dei voti, pari al 40,73%. Sconfitto Enrico Rossi, l’ex governatore toscano che correva per il centrosinistra: ha avuto 82.096 voti, pari al 33,89. Terzo è risultato il candidato del M5s, Luca Giacomelli col 10,37% dei voti, quarto Stefano Scaramelli di Azione-Iv con il 9,13%. Questi i dati diffusi dal ministero dell’Interno.

Lacrime, abbracci e Rino Gaetano: così FdI festeggia la vittoria. Elezioni 2022, i risultati delle politiche: Meloni porta il centrodestra al governo. Le Pen: "Eletto governo sovranista". Letta parlerà in mattinata. Stefano Baldolini su La Repubblica il 26 settembre 2022.  

Trionfo per la leader di Fratelli d'Italia, Forza Italia vicina alla Lega. Male il Pd, attesa per l'intervento di Letta. Bonaccini si complimenta con Meloni. Conte: "Chi tocca il reddito troverà in noi un argine insuperabile".

Il centrodestra vince le elezioni, ma soprattutto vince Giorgia Meloni: a spoglio ancora in corso la coalizione si attesta al 44% con Fratelli d'Italia oltre il 26%, la Lega che crolla al 9% e Forza Italia all'8%. Il centrosinistra non arriva al 27%: il Pd è sotto il 20%, Alleanza Verdi e Sinistra supera la soglia del 3%, obiettivo che non raggiungono +Europa e Impegno Civico di Luigi Di Maio che non arriva neppure all'1%. Bene il MoVimento 5 Stelle che è intorno al 15%. Azione-Italia Viva si ferma sotto l'8%. "Obiettivo fermare la destra non raggiunto", commenta Carlo Calenda. Con questi numeri Meloni non ha timore di essere smentita quando dice che il prossimo governo "sarà a guida FdI". Per Marine Le Pen "il popolo italiano ha eletto un governo sovranista". Fa riflettere il dato dell'affluenza, che crolla di nove punti rispetto al 2018 e scende al 63,95%, nuovo minimo storico.

03:34 Conte: "Il gruppo dirigente del Pd si assuma le responsabilità. Il centrodestra ha vinto"

"Le scelte compiute da questo gruppo dirigente del Pd hanno compromesso un'azione politica che poteva essere competitiva con questo centrodestra che si è presentato unito. Il centrodestra ha vinto, il gruppo dirigente del Pd se ne assuma le responsabilità. Di fatto i cittadini stanno dimostrando, soprattutto al sud, che il voto per contrastare il centrodestra è il voto per il M5S". Lo ha detto il leader del M5S Giuseppe Conte.

04:44 Meloni su Facebook: "Oggi abbiamo scritto la storia"

"Oggi abbiamo scritto la storia. Questa vittoria è dedicata a tutti i militanti, i dirigenti, i simpatizzanti e ad ogni singola persona che - in questi anni - ha contribuito alla realizzazione del nostro sogno, offrendo anima e cuore in modo spontaneo e disinteressato". Lo scrive Giorgia Meloni su Facebook, postando una foto che la ritrae con il cartello mostrato durante il suo intervento di commento al voto ("Grazie Italia"). "A coloro che, nonostante le difficoltà e i momenti più complessi, sono rimasti al loro posto, con convinzione e generosità. Ma, soprattutto, è dedicata a chi crede e ha sempre creduto in noi. Non tradiremo la vostra fiducia. Siamo pronti a risollevare l'Italia. Grazie", conclude la leader di Fratelli d'Italia. 

05:36 Del centrosinistra l'unico senatore "italiano" in Alto Adige

Il Pd-centrosinistra difende l'unico senatore di lingua italiana in Alto Adige. L'ex sindaco di Bolzano Luigi Spagnolli, dopo 143 di 144 sezioni scrutinate, è in testa con il 26,20%. Doveva essere una volta a tre e così è stato: il candidato della Svp Manfred Mayr, che in nottata è stato a lungo in testa, ora è al 25,26% e il candidato leghista del centrodestra Maurizio Bosatra al 24,99%. Spagnolli ha così impedito il 'cappotto' della Svp che conquista tutti gli altri collegi in Provincia di Bolzano, sia al Senato che alla Camera.

05:56 A Roma centro Mennuni (centrodestra) batte Bonino e Calenda

Nel collegio uninominale di Roma centro per il Senato la consigliera comunale Lavinia Mennuni (FdI) ha battuto Emma Bonino e Carlo Calenda con più del 36% dei consensi contro il 33% circa dell'esponente di +Europa e il 14% del leader di Azione.

06:30 In Alto Adige lista no vax oltre il 6% dei consensi

In Alto Adige a sorpresa la lista Vita, vicina al mondo no vax, si attesta ben oltre il 6%, con un collegio che sfiora addirittura il 9% dei consensi. Il risultato è comunque in linea con quelli delle ultime tornate elettorali nel mondo di lingua tedesco. Al Senato a Bolzano Hannes Loacker attualmente è al 6,21%, a Merano Susanna Singer al 6,99% e a Bressanone Rudolf Schopf al 5,99%. Alla Camera è andata ancora meglio a Francesco Cesari con il 7,92% a Bressanone e la nota avvocatessa dei no vax Renate Holzeisen che a Bolzano sfiora il 9% (8,94%).

06:59 Bassa l'affluenza anche per le regionali in Sicilia

Bassa affluenza anche alle Regionali in Sicilia: appena il 48,62%, comunque superiore a quella di cinque anni fa quando era stata del 46,75%. Colpisce la forte differenza rispetto al dato delle Politiche: in questa caso ha votato per Camera e Senato, infatti, il 57,35%: uno scarto di 8,73 punti percentuali, che conferma una disaffezione e una sfiducia per l'istituzione regionale. Lo scrutinio per le regionali inizierà alle 14.

07:07 Lotito eletto senatore in Molise: "Manterrò le promesse"

Claudio Lotito eletto senatore in Molise per il centrodestra. Lotito ha atteso i risultati nell'albergo di Campobasso che nell'ultimo mese è stata la sua residenza molisana poi nel, cuore della notte, ha commentato la vittoria: "Io in questa campagna elettorale ho messo cuore, passione e sentimenti autentici - ha detto - che sono stati recepiti dai molisani. Gli abitanti di questa regione mi sono entrati nel cuore e hanno capito la mia totale disponibilità. Ora porterò lo loro istanze in Parlamento con la stessa determinazione che ho impiegato nella campagna elettorale". Lotito infine ha ribadito che manterrà gli impegni presi nelle ultime settimane: "I molisani non saranno traditi perché lo meritano, questa è una terra fantastica che è stata troppo dimenticata negli ultimi anni e che ha bisogno di una voce in Parlamento".

07:15 Biancofiore vince il testa a testa a Rovereto

La vicepresidente di Coraggio Italia ed deputata uscente Michaela Biancofiore passa al Senato. Nel collegio di Rovereto, in Trentino, con il sostegno di Lega, Fratelli d'Italia, Forza Italia e Noi Moderati si impone in un lungo testa a testa con il 36,79% dei consensi contro la senatrice uscente Donatella Conzatti di Italia Viva (anche lei sostenuta dall'Alleanza democratica per l'autonomia come Patton).

 07:26 Casini eletto a Bologna, battuto Sgarbi

Nella sfida nel collegio di Bologna del Senato viene eletto Pierferdinando Casini del centrosinistra con il 40%. Battuto Vittorio Sgarbi, candidato del centrodestra, fermo al 32,3%.  Distaccato il candidato M5s, Fabio Selleri, al 10,86%.

07:29 Casellati vince in Basilicata

Maria Elisabetta Casellati vince al collegio uninominale della Basilicata per il Senato. L'attuale presidente di Palazzo Madama, quando sono state scrutinate 671 sezioni su 683, ottiene il 36,10% dei voti, distanziando Antonio Materdomini (M5s) al 24,28% e Ignazio Petrone (Centrosinistra) al 21,83%.

07:33 In Lombardia Rauti batte Fiano, Santanché vince su Cottarelli 

Nel collegio per il Senato di Sesto San Giovanni Isabella Rauti batte Emanuele Fiano : la candidata del centrodestra, esponente di FdI,  ha ottenuto il 45,4% dei voti contro il 30,8% dell'ex deputato Pd. Sempre in Lombardia, nel collegio di Cremona la coordinatrice regionale Daniela Santanchè ha ottenuto il 52,17% dei voti contro il 27,3% di Carlo Cottarelli.

07:35 Ilaria Cucchi eletta a Firenze

Vittoria per Ilaria Cucchi, candidata di centrosinistra, al collegio uninominale di Firenze al Senato. Cucchi ha ottenuto il 40,8%, superando nettamente Federica Picchi (centrodestra) al 30,03% e Stefania Saccardi (terzo polo) al 12,23%.

07:45 Ex ministro Terzi al 60%, Gelmini terza a Treviglio

L'ex ministro degli Esteri del governo Monti Giulio Terzi di Sant'Agata, candidato di Fdi, è stato eletto con il 60,28% delle preferenze al Senato nel collegio uninominale di Treviglio, in provincia di Bergamo, dove il ministro uscente Mariastella Gelmini, del Terzo polo, è arrivata terza con l'8,12% dei voti.

Si è fermata al 20,65% Cristina Tedaldi, sindaco di Leno ed esponente del Pd.

07:52 Berlusconi vince a Monza e torna in Senato

Silvio Berlusconi vince nel collegio uninominale di Monza per il Senato. Quando le sezioni scrutinate sono 689 su 739 (93,2%), Berlusconi è al 50,32% delle preferenze. Seguono Federica Perelli (centrosinistra) con il 27,17%, Fabio Albanese (Azione-Iv) con il 10,21% e Bruno Marton (M5S) al 7,66%.

07:56 Napoli, al senato il primo uninominale va a M5S

A Giugliano in Campania la candidata del Movimento 5 stelle Maria Domenica Castellone, con il 44,85% delle preferenze, si aggiudica il primo uninominale del Senato tra Napoli e provincia. A seguire Elena Scarlato (centrodestra 29,26%) e Davide Crippa (centrosinistra, 17,89%).

07:58 Bonaccini si complimenta con Meloni

"L'affermazione della destra è chiara. Complimenti a Giorgia Meloni". Lo scrive su Twitter il presidente dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini.

08:04 In Lombardia Misiani sola vittoria al Senato per il Pd

All'uninominale al Senato nella circoscrizione di Milano Buenos Aires con il 39,07% delle preferenze è stato eletto Antonio Misiani, davanti alla leghista Maria Cristina Cantù con il 33,28 e a Ivan Scalfarotto che, con il terzo polo, ha ottenuto il 16,33% dei voti.

Quella del responsabile economico del Pd è l'unica vittoria all'uninominale per Palazzo Madama del centrosinistra in Lombardia dove il centrodestra è arrivata al  50,66% dei voti, il centrosinistra si è fermato al 27,22, il Terzo polo ha sfiorato il 10% (9,96%) e il Movimento 5 stelle ha ottenuto il 7,23.

08:08 Borsa: Milano verso avvio positivo dopo voto

La Borsa di Milano si mostra positiva in pre-apertura, dopo le elezioni politiche. Piazza Affari è sostenuta dalle banche e dall'energia con i principali titoli che appaiono tonici.

08:16 M5S vince tutti gli uninominali a Napoli e provincia

En plein del Movimento 5 Stelle nei collegi uninominali di Napoli e provincia alla Camera e al Senato.

L'ampio risultato ottenuto dal partito di Giuseppe Conte in Campania, e in particolare nel capoluogo Napoli e nella sua provincia, ha comportato la vittoria di ben 11 collegi uninominali, 7 alla Camera e 4 al Senato, a partire dal collegio Napoli-Fuorigrotta alla Camera, dove il candidato pentastellato Sergio Costa (ex ministro dell'Ambiente nei Governi Conte 1 e 2) quando manca il dato di una sola sezione sfiora il 40%, battendo il candidato del centrosinistra Luigi Di Maio, ex M5S oggi leader di Impegno Civico, Mariarosaria Rossi per il centrodestra e Mara Carfagna per Azione-Italia Viva.

Vittorie nette anche a Giugliano (Campania 1-U01) per Antonio Caso (42,58%), a Napoli-San Carlo all'Arena (Campania 1-U03) per Dario Carotenuto (45,49%), a Casoria per Pasqualino Penza (47,20%), ad Acerra per Carmela Auriemma (43,70%), a Somma Vesuviana per Carmela Di Lauro (34,78%) e a Torre del Greco per Gaetano Amato (34,26%).Vittoria pentastellata anche nei 4 collegi uninominali di Napoli e provincia al Senato.

Nel collegio unico di Napoli città viene eletta Ada Lopreiato con il 41,47%, battuti Valeria Valente per il centrosinistra (25,35%) e Stefano Caldoro per il centrodestra (22,25%). Vincono poi a Giugliano Mariolina Castellone (44,85%), ad Acerra Raffaele De Rosa (39,01%) e a Torre del Greco Orfeo Mazzella (35,32%), battendo per circa 2.500 voti la candidata del centrodestra Pina Castiello della Lega.

08:25 Marine Le Pen: "Italiani hanno deciso governo sovranista"

(agf)"Il popolo italiano ha deciso di prendere in mano il proprio destino eleggendo un governo patriottico e sovranista". Marine Le Pen, la leader sovranista di Rassemblement National, ha commentato così i risultati delle elezioni in Italia.

"Bravo a Giorgia Meloni e Matteo Salvini per aver resistito alle minacce di un'Unione Europea antidemocratica e arrogante nell'ottenere questa grande vittoria!", ha scritto Le Pen su Twitter.

08:31 Malpezzi (Pd): "Letta chiarirà, a marzo ci aspetta il congresso"

"Letta stamani chiarirà tutto. Noi abbiamo le nostre discussioni. Il congresso ci aspetta a marzo. Letta ha sempre analizzato i problemi che si affrontano poco per volta man mano che si presentano". Lo dice la capogruppo del Pd al Senato Simona Malpezzi al Tg1.

08:35 La premier francese Borne: saremo attenti a rispetto diritti e aborto

La Francia sarà attenta al "rispetto" dei diritti umani e dell'aborto in Italia. Lo ha dichiarato la premier francese, Elisabeth Borne, dopo la vittoria della coalizione di centro-destra nelle elezioni di ieri.

08:36 Calenda: obiettivo fermare la destra non raggiunto. Maggioranza a destra sovranista, prospettiva pericolosa

"L'obiettivo di fermare la destra e andare avanti con Draghi non è stato raggiunto. Sentiamo in primo luogo il dovere di ringraziare il Presidente Del Consiglio per il lavoro svolto a servizio del paese. Così come ringraziamo i quasi due milioni di cittadini che hanno deciso di votare una lista nata a ridosso delle elezioni. Gli italiani hanno scelto di dare una solida maggioranza alla destra sovranista. Consideriamo questa prospettiva pericolosa e incerta. Vedremo se la Meloni sarà capace di governare; noi faremo un'opposizione dura ma costruttiva". È quanto afferma il leader di Azione e del Terzo polo Carlo Calenda. 

"In meno di due mesi abbiamo costruito una casa per i liberali, i riformisti e i popolari. Una casa per gli italiani che non vogliono un paese fondato sui sussidi e le regalie ma che vogliono rimanere a testa alta tra i grandi paesi europei, saldamente ancorati all'Occidente e ai suoi valori. Nei prossimi mesi si consolideranno tre schieramenti: la destra al Governo; una sinistra sempre più populista che nascerà dalla risaldatura tra PD e 5S, e il nostro polo riformista. Abbiamo il compito -aggiunge- di dare una rappresentanza stabile e organizzata all'Italia che cerca una politica seria. Con quasi l'8% dei consensi partiamo da solide basi. Avvieremo subito un cantiere affinché questo processo sia ampio e partecipato".

08:45 Spread Btp-Bund a 231 punti dopo il voto

Spread tra Btp e Bund a 231 punti base vicino ai valori della chiusura di venerdì (230 punti) nel giorno successivo alle elezioni. Il differenziale dopo un calo a 223 punti è poi risalito. Il rendimento del decennale italiano è in aumento al 4,41%.

08:53 Bolsonaro jr celebra vittoria Meloni: "È Dio, patria e famiglia"

Il figlio del presidente del Brasile Jair Bolsonaro, Eduardo, ha celebrato su Twitter la vittoria di Giorgia Meloni. "È un successo", ha scritto, affermando che "la nuova premier italiana è Dio, patria e famiglia". Bolsonaro Jr, che è deputato federale dello Stato di San Paolo, ha quindi sottolineato che Meloni "è la prima donna in questa posizione in Italia".

Elezioni politiche, i risultati: il centrodestra ha la maggioranza. Meloni al 26 per cento, Pd sotto il 20. Il Domani il 26 settembre 2022

Fratelli d’Italia primo partito, seguito dal Pd e da M5s che è vicino a doppiare la Lega. La coalizione di centrodestra maggioranza in entrambe le camere. L'affluenza si è fermata al 63,9 record storico negativo. Entrano in parlamento: Casini, Casellati, Berlusconi, Lotito, Cucchi. Escluso Di Maio

La tornata elettorale per rinnovare il parlamento e per la regione Sicilia si è conclusa con un alto tasso di astensionismo. L’affluenza alle urne è stata del 63,9 per cento, un crollo del 10 per cento rispetto alle ultime elezioni del 2018. Domani segue in diretta sul sito tutti gli aggiornamenti sui risultati con analisi e approfondimenti.

Cosa c’è da sapere:

Il centrodestra ha conquistato la maggioranza in entrambe le Camere. Fratelli d’Italia è il primo partito con circa il 26 per cento dei voti ottenuti.

Pessimi dati per il Pd, secondo partito, ma sotto il 20 per cento. Il Movimento 5 Stelle è la terza e supera il 15 per cento. Male la Lega che crolla al 9 per cento insidiata da Forza Italia intorno all’8 per cento.

Per sapere i risultati delle elezioni regionali in Sicilia bisognerà attendere lo spoglio che inizierà alle 14 di oggi. Secondo i primi exit poll è in testa il candidato del centro destra Renato Schifani.

Luigi Di Maio non tornerà in parlamento. I risultati certificano una sua sconfitta nel collegio uninominale di Napoli Fuorigrotta. Ha perso contro il candidato del Movimento Cinque stelle Costa. Ritorna invece in Senato Silvio Berlusconi, eletto nel collegio uninominale di Monza.

07.34 – Arrivano i complimenti di Marine Le Pen

«Il popolo italiano ha deciso di prendere in mano il proprio destino eleggendo un governo patriottico e sovranista», ha scritto su Twitter Marine Le Pen, leader del Rassemblement National. «Complimenti a Giorgia Meloni e Matteo Salvini per aver resistito alle minacce di un’Unione europea antidemocratica e arrogante ottenendo questa grande vittoria».

07.40 – Eletta nuovamente in Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati

Con il 96,7 per cento dei voti scrutinati nel collegio uninominale Basilicata-Potenza, Maria Elisabetta Alberti Casellati, vince con il 36,01 per cento delle preferenze. Secondo il candidato del Movimento Cinque stelle Antonio Materdomini con il 24,32 per cento e terzo il candidato di centro sinistra Ignazio Petroni con il 21,86 per cento dei voti.

07.48 – A Bologna Casini vince il testa a testa con Sgarbi

Pier Ferdinando Casini (centrosinistra) ha battuto Vittorio Sgarbi (centrodestra) a Bologna, nel collegio uninominale del Senato. Rispettivamente hanno ottenuto il 40,07 per cento delle preferenze e il 32,32 per cento.

07.50 – Il Partito democratico ha ottenuto meno del 20 per cento dei voti. Qui una prima analisi:

07.53 – Il presidente della squadra di calcio della Lazio, Claudio Lotito, è riuscito a entrare in Senato vincendo in Molise dove era candidato con il centro destra in quota Forza Italia.

08.02 – Daniela Santanché batte l’economista Carlo Cottarelli in senato a Cremona

Nel collegio uninominale di Cremona, l’esponente di Fratelli d’Italia Daniela Santanchè batte con il 52,17 per cento delle preferenze Carlo Cottarelli (centrosinistra), fermo al 27,37 per cento. Cottarelli potrà essere ripescato nel proporzionale.

08.08 - I dati sull’affluenza dal 1948 a oggi

08.16 – Nel collegio uninominale di Messina i candidati della lista di Cateno De Luca sono in testa. De Luca è candidato anche per la presidenza della regione Sicilia dove i primi exit poll e sondaggi lo posizionano in seconda posizione dietro Renato Schifani (centro destra) e prima di Caterina Chinnici (centro sinistra). Ecco chi è Cateno De Luca nell’articolo di Attilio Bolzoni pubblicato nei giorni scorsi su Domani:

08.21 – La vittoria con ampio margine di Ilaria Cucchi

Ilaria Cucchi (centrosinistra) è stata eletta al Senato, nel collegio uninominale di Firenze, con il 40,08 per cento delle preferenze. Ha battuto di circa 10 punti percentuali la candidata del centrodestra Federica Picchi.

08.24 – A Volturara Appula, il paese di Conte, il Movimento Cinque stelle ha ottenuto una vittoria schiacciante con oltre l’85 per cento delle preferenze.

08.41 – Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è stata eletta a Molfetta con Forza Italia.

08.45 Exploit dei No vax in Alto Adige

La lista Vita, vicina ai no vax, fondata dall’ex deputata del Movimento Cinque stelle Sara Cunial ha ottenuto un importante risultato in Alto Adige con oltre il 6 per cento di voti, mentre a livello nazionale non è andata oltre l’1 per cento delle preferenze.

 A Bolzano Hannes Loacker ha ottenuto 5.200 voti, ovvero il 6,21 per cento. In provincia di Bolzano, invece, è da segnalare il 7.92 per cento ottenuto da Francesco Cesari nel collegio nord della Camera, e il 6,61 per cento di Renate Holzeisen nel collegio sud, entrambi davanti a M5S e Terzo Polo. Per il Senato, invece, Susanna Singer a Merano ottiene il 6,99 per cento dei voti, Rudolf Schopf a Bressanone il 5,99 per cento.

08.55 – Le prime parole di Carlo Calenda

«L’obiettivo di fermare la destra e andare avanti con Draghi non è stato raggiunto. Sentiamo in primo luogo il dovere di ringraziare il Presidente Del Consiglio per il lavoro svolto a servizio del paese. Così come ringraziamo i quasi due milioni di cittadini che hanno deciso di votare una lista nata a ridosso delle elezioni», ha detto il leader di Azione.

«Gli italiani hanno scelto di dare una solida maggioranza alla destra sovranista. Consideriamo questa prospettiva pericolosa e incerta. Vedremo se la Meloni sarà capace di governare; noi faremo un’opposizione dura ma costruttiva».

Elezioni politiche 2022, Meloni primo partito: Lega giù e Pd sotto il 20%, M5s al 15%. Di Maio fuori dal parlamento. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2022 

“Sarà un governo a guida Fdi”. Con queste parole Giorgia Meloni dal palco del suo quartier generale ha annunciato la vittoria del centrodestra alle elezioni politiche 2022. Lo spoglio è ancora in corso ma il risultato è già chiaro. Al Senato il centrodestra è oltre il 43% e il centrosinistra al 27%. FdI è il primo partito con più del 26% dei consensi, la Lega crolla al 9% mentre Forza Italia è intorno all’8%. E ancora: il Pd di Enrico Letta è intorno al 20%, Azione-Italia Viva supera il 7%, Alleanza Verdi e Sinistra è oltre il 3%, +Europa 3%, Italexit intorno al 2%, Unione Popolare intorno all’1,5%, Noi Moderati all’1,1%. Il Movimento 5 Stelle è al 15% con risultati importanti al Sud.

Alla Camera in testa c’è ancora la coalizione di centrodestra con più del 43% con FdI al 26,5%, la Lega quasi al 9% e Forza Italia poco sotto l’8%, mentre il centrosinistra è al 27% (il Pd sotto il 20%). M5S è al 14,7% e Azione-Italia viva quasi all’8%.

Altra protagonista di queste elezioni è stata l’astensione con il dato più basso di sempre per le politiche: ha votato il 64% degli aventi diritto. Si è votato anche per il rinnovo dell’assemblea regionale in Sicilia, ma lo scrutinio, in questo caso, comincerà solo lunedì mattina.

ORE 03.30 – “Le scelte compiute da questo gruppo dirigente del Pd hanno compromesso un’azione politica che poteva essere competitiva con questo centrodestra che si è presentato unito. Il centrodestra ha vinto, il gruppo dirigente del Pd se ne assuma le responsabilità. Di fatto i cittadini stanno dimostrando, soprattutto al sud, che il voto per contrastare il centrodestra è il voto per il M5S”. Lo ha detto il leader del M5S Giuseppe Conte.

ORE 05:00 –“Oggi abbiamo scritto la storia. Questa vittoria è dedicata a tutti i militanti, i dirigenti, i simpatizzanti e ad ogni singola persona che – in questi anni – ha contribuito alla realizzazione del nostro sogno, offrendo anima e cuore in modo spontaneo e disinteressato”. Lo scrive Giorgia Meloni su Facebook, postando una foto che la ritrae con il cartello mostrato durante il suo intervento di commento al voto (“Grazie Italia”). “A coloro che, nonostante le difficoltà e i momenti più complessi, sono rimasti al loro posto, con convinzione e generosità. Ma, soprattutto, è dedicata a chi crede e ha sempre creduto in noi. Non tradiremo la vostra fiducia. Siamo pronti a risollevare l’Italia. Grazie”, conclude la leader di Fratelli d’Italia.

ORE 06:30 – Il ministro degli Esteri e leader di Impegno Civico, Luigi Di Maio, non e’ stato rieletto. Quando mancano ormai poche sezioni al risultato definitivo (403 le sezioni scrutinate su 440) nel collegio di Napoli Fuorigrotta 2 per la Camera, ha ottenuto il 24,3% dei voti. Nettamente primo l’ex ministro dell’Ambiente, in lizza per il Movimento 5 Stelle, Sergio Costa, al 40,5%. Terza Maria Rosaria Rossi, in lizza per il centro destra, col 22,2%. Solo quarta la ministra Mara Carfagna, di Azione, al 6,7

ORE 07:28 – Pier Ferdinando Casini (centrosinistra) batte Vittorio Sgarbi (centrodestra) a Bologna, nel collegio uninominale del Senato. Dopo il testa a testa iniziale, a scrutinio concluso, Casini raggiunge il 40,07% delle preferenze a fronte del 32,32% di Sgarbi.

ORE 07:57 – Berlusconi vince in uninominale Senato a Monza Roma, 26 set. (LaPresse) – Silvio Berlusconi vince nel collegio uninominale di Monza per il Senato. Quando le sezioni scrutinate sono 689 su 739 (93,2%), Belusconi è al 50,32% delle preferenze. Seguono Federica Perelli (centrosinistra) con il 27,17%, Fabio Albanese (Azione-Iv) con il 10,21% e Bruno Marton (M5S) al 7,66%.

ORE 08:08 – Secondo i dati YouTrend, Fratelli d’Italia è la lista più votata in quasi tutti i collegi del Senato nel centro e nord del Paese, mentre il Movimento 5 Stelle è davanti nella maggior parte dei collegi meridionali.

Camera e Senato: ecco tutti i risultati partito per partito. Ampio divario tra le due principali coalizioni in corsa in queste elezioni: Fratelli d'Italia stacca nettamente il Pd, la coalizione di centrodestra al 44.38%. Francesca Galici il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il Centrodestra sconfigge in modo netto il centrosinistra, ottenendo la maggioranza dei seggi sia alla Camera (44,15%) dei voti che al Senato (44,37%). Stacca nettamente il centrosinistra fermo al 26.37% alla Camera (26,16% al Senato). Confermata la supremazia di Fratelli d'Italia con il 26,29% (26,26% al Senato), mentre il Pd si ferma al 19,25% (19,10% Senato) e il Movimento 5 stelle recupera fino al 15.04% (15,27% Senato). Affluenza in forte calo, al 63.91% (nel 2018 fu del 73.18%).

Crolla l'affluenza alle 19: in calo di 7,5 punti rispetto al 2018 

Sezioni scrutinate

In base ai dati del Viminale, quando sono state scrutinate 58.159 sezioni su 60.399, al Senato è in testa la coalizione di centrodestra con il 44,38% mentre quella di centrosinistra è al 26,15%. Il Movimento 5 Stelle raggiunge il 15,27% e il Terzo Polo il 7,69%. Ben al di sotto della soglia di sbarramento del 3% Italexit, ferma all'1,87%, e Unione Popolare all'1,34%.

I seggi

La sesta stima Tecnè basata sulla settima proiezioni indica che il centrodestra al Senato avrebbe tra 109 e 129 seggi. Il centrosinistra è dato in una forbice tra 30 e 50 seggi. Indietro c'è il Movimento 5 stelle, con un numero di seggi compreso tra 19 e 29. Azione e Italia viva insieme potrebbero averne tra 8 e 10. Italexit al momento dei primi intention poll non supererebbe lo sbarramento. Altri partiti sarebbero tra 3 e 4.

La terza stima Tecnè basata sulla terza proiezione indica che il centrodestra al Senato avrebbe tra 221 e 261 seggi. Il centrosinistra è dato in una forbice tra 61 e 101 seggi. Indietro c'è il Movimento 5 stelle, con un numero di seggi compreso tra 36 e 56. Azione e Italia viva insieme potrebbero averne tra 19 e 21. Italexit al momento dei primi intention poll non supererebbe lo sbarramento. Altri partiti sarebbero tra 3 e 4.

Collegi

Con più della metà delle sezioni emiliano-romagnole del Senato scrutinate, il centrodestra è in testa in 4 collegi su 5. Il centrosinistra conserverebbe solo il collegio di Bologna con Casini.

Con più della metà delle sezioni campane scrutinate, M5s è in testa in 4 collegi uninominali per il Senato su 7, tutti nel napoletano. Nei restanti 3 collegi fuori Napoli è in testa il centrodestra.

Il centrodestra è in testa in 4 collegi uninominali siciliani del Senato su 6. A Palermo è in testa il candidato M5s. A Messina è in testa il candidato della lista De Luca sindaco d'Italia.

Le prime parole di Giorgia Meloni

Al quartier generale di Fratelli d'Italia, instaurato all'hotel Parco dei Principi di Roma, ci sono 400 giornalisti provenienti da tutto il mondo per raccogliere le sensazioni subito dopo il voto. Nella sala conferenze dell'Hotel è stato allestito un palco, con alle spalle il logo del partito di Giorgia Meloni su uno sfondo bianco e blu, dove campeggia un grande nastro tricolore. "Rimandiamo a domani le valutazioni più complete ma dagli italiani è arrivata un’indicazione chiara per un governo di centrodestra a guida di Fratelli d'Italia. È il tempo in cui gli italiani potranno avere un governo che esce da una chiara indicazione dalle urne", ha detto Giorgia Meloni. Il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha telefonato a Giorgia Meloni per complimentarsi per il risultato conseguito alle elezioni.

Le reazioni dopo il voto

"Centrodestra in netto vantaggio sia alla Camera che al Senato! Sarà una lunga notte, ma già ora vi voglio dire grazie", ha commentato su Twitter Matteo Salvini dopo i primi intention poll. "Forza Italia è determinante per la vittoria del centrodestra e sarà determinante per la formazione del nuovo governo. Con i numeri e con i contenuti. Siamo fiduciosi anche per la vittoria in Sicilia del nostro Renato Schifani", ha scritto su Twitter Antonio Tajani. "È un risultato importante. Fino a poco fa ci davano per morti, ricordo sondaggi al 6-8 per cento", ha detto il vicepresidente del M5s Michele Gubitosa. "Adesso potremo realizzare quello che avevamo promesso. I risultati li vedremo alla fine, spero che la vittoria di centrodestra premi tutti. Questo è un punto di partenza", ha dichiarato Francesco Lollobrigida, capogruppo uscente di Fdi alla Camera. "Com'è l'atmosfera? Tranquilla e fiduciosa", dicono gli organizzatori del comitato elettorale del Terzo Polo.

"I dati mi sembrano evidenti. Una parte rilevante degli italiani ha deciso di dare fiducia a Giorgia Meloni", ha detto il cofondatore di Fdi Guido Crosetto, parlando al Parco dei Principi. L'imprenditore ha poi aggiunto: "La preoccupazione per la Meloni è una cosa costruita ad arte dalla stampa italiana a cui non è simpatica e da una parte politica italiana. Giorgia Meloni è affidabile, io sono un sincero democratico, non arrivo da un percorso di destra, non ho mai avuto nulla a che fare col fascismo. Affido il futuro dei miei figli tranquillamente a Giorgia Meloni. È la persona che con più responsabilità può gestire un momento così". Sia Enrico Letta che Matteo Salvini hanno annunciato che parleranno domani mattina e non stanotte, probabilmente attorno alle 11.

"I cittadini si sono espressi e dobbiamo prendere atto che hanno premiato la coalizione di centrodestra che si candida legittimamente a governare il Paese", ha detto Giuseppe Conte.

Le reazioni all'estero

"Gli italiani hanno offerto una lezione di umiltà all'Unione europea che, attraverso la voce della signora von Der Leyen, ha affermato di dettare il proprio voto. Nessuna minaccia di alcun tipo può fermare la democrazia: i popoli d'Europa alzano la testa e prendono in mano il loro destino!", ha scritto in un tweet Jordan Bardella, dirigente del partito francese Rassemblement National di Marine Le Pen.

"Alle elezioni politiche in Italia, l'exit poll mostra la vittoria dell'estrema destra", scrive in apertura The Guardian sui primi exit poll italiani. "Concluso il voto in Italia, mentre l'Europa si prepara alla possibilità di un altro spostamento a destra", scrive il New York Times nella sua diretta sulle elezioni, che cita gli exit poll. "L'estrema destra della Meloni vince in Italia e scuote l'Unione Europea", scrive lo spagnolo El Mundo.

"L'Italia vota in modo deciso per una coalizione di partiti di destra nazionalisti", scrive l'Economist, aggiungendo che queste elezioni porteranno alla nascita del "governo più a destra dalla seconda guerra mondiale".

Meloni, "Domani" in lutto: la clamorosa rosicata di De Benedetti in prima pagina. Libero Quotidiano il 26 settembre 2022

Il giornale Domani è a lutto. Sulla prima pagina del quotidiano edito da Carlo De Benedetti campeggia un disegno realizzato da Marinella Nardi di Giorgia Meloni in una espressione tra il severo e l'antipatico. Un ritratto inquietante sotto il quale c'è il titolo: "Siamo davvero pronti?", "per vincere ha cercato di rassicurare ma non c'è nulla di rassicurante".  

L'editoriale di Curzio Maltese è titolato "In attesa del nuovo governo - Ci tocca già rimpiangere l'Italia di Mario Draghi", un articolo di nostalgia pura per l'ex premier. In un passaggio, si legge: "Draghi ha tracciato un sentiero fondamentale per il nostro paese che alcuni leader proveranno a ripercorrere, anche se lui non ci sarà più a guidarli. Per nostra fortuna, continuerà ad avere un ruolo importante in Europa. Giorgia Meloni ha già detto che batterà i pugni sul tavolo e che 'la pacchia è finita'. Con tutte le crisi che attraversano l'Italia e l'Europa, la presidente di Fratelli d'Italia crede di poter fare la voce grossa. La verità è che avrà difficoltà molto serie a governare".

E ancora: "La scuola italiana cade a pezzi; il paese non ha una strategia per contrastare la crisi climatica; l'immigrazione è un problema serio che la destra pensa di affrontare con i blocchi navali. Figurarsi cosa potrà fare Meloni sul gas con i governi europei. Una leader che ha deciso di non togliere la fiamma dal suo simbolo e che fatica a frenare i suoi militanti nel fare il saluto romano, non ha nessuna credibilità per essere forte nel continente". E conclude: "Sarà un ottobre freddo e buio"

Onda Meloni, gli auguri dell’amico Orban e i timori della stampa estera. Orban esulta: «In questi tempi difficili abbiamo bisogno di amici che condividano una visione comune». Il Dubbio il 26 settembre 2022.

Il primo messaggio d’auguri indirizzato all’amica Giorgia arriva a seggi appena chiusi e con la firma del presidente ungherese Orban: «In questi tempi difficili, abbiamo più che mai bisogno di amici che condividano una visione e un approccio comuni alle sfide dell’Europa», ha infatti scritto il premier ungherese, che poi rivolge i suoi «complimenti» a Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini per il risultato nelle elezioni italiane.

Decisamente diverse le parole della stampa internazionale che mettono l’accento sulle radici di destra della colazione: «Meloni – scrive infatti Cnn – sarà la prima leader italiana di estrema destra dai tempi di Mussolini». Stessi toni per Liberation che titola: «I post fascisti alle porte del potere in Italia». Dramamtica anche la pres di posizione di Zdf: L’Eu – dice – guarda con apprensione all’esito delle elezioni in Italia. Secondo «Zdf», l’Ue teme che l’Italia possa provocare una nuova crisi dell’euro e per la tenuta della «posizione comune dell’Europa contro la Russia». Ora, Meloni potrebbe divenire la prima donna nella storia d’Italia a essere nominata presidente del Consiglio. In tal caso, la leader di Fd’I sarebbe tra i più giovani a ricoprire tale incarico. Intanto, Meloni, che «critica l’Ue per eccesso di burocrazia», è accusata di non aver preso chiaramente le distanze dal «passato neofascista del suo partito». Allo stesso tempo, la presidente di Fd’I si presenta come «forte sostenitrice della Nato». Inoltre, a differenza del segretario federale della Lega Matteo Salvini e del presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, la leader di Fratelli d’Italia è favorevole a fornire aiuti militari all’Ucraina, impegnata a respingere l’invasione russa.

"Povera Italia", "Il fascismo non è mai finito". Il delirio della stampa tedesca contro il centrodestra. Alessandra Benignetti su Il Il Giornale il 26 Settembre 2022.

Dopo l’endorsement del presidente della Spd, Lars Klingbeil, nei confronti del leader dem Enrico Letta a Berlino e i titoli offensivi, come quello del settimanale tedesco Stern, che definiva "veleno biondo" la leader di FdI, c’era da aspettarselo. Ma stamattina la reazione della stampa tedesca alla vittoria del centrodestra trainata dal partito di Giorgia Meloni è stata più scomposta del previsto, tra gli allarmi sul ritorno del fascismo e quelli sulla tenuta dei conti pubblici.

I titoli sono eloquenti. "Povera Italia, povera Europa!", si legge su Der Spiegel, che si chiede se l’Ue è ad un passo dalla divisione e parla di "catastrofe annunciata". "Sarà l’apocalisse?", si chiede il settimanale. "Forse no", va avanti l’editoriale. Il motivo, tra gli altri, scrive ancora la rivista, è che "non si sa quanto a lungo reggerà questa truppa". La home page del sito è costellata di articoli sul voto italiano: il ricercatore Jörg Krämer, intervistato da Tim Bartz, sostiene che "la nuova coalizione di destra distribuirà soldi che l’Italia non ha".

Il settimanale di centrosinistra Die Zeit parla senza mezzi termini di ritorno al fascismo. Anzi. Precisano, "questa ideologia non ha mai abbandonato il Paese". Si è solamente trasformata in un "fascismo degli italiani per bene", questo il titolo dell’editoriale firmato da Ulrich Ladurner. "Il fascismo in Italia non è mai andato via", scrive il giornalista parlando del mausoleo di Benito Mussolini a Predappio e dei murales nelle città italiane. "Il fascismo è intessuto nel paesaggio architettonico italiano come una trama senza fine di violenza", descrive ancora Ladurner.

Poi c’è l’immancabile attacco a Silvio Berlusconi. Un cliché evidentemente intramontabile per la sinistra a Berlino. Il giornalista lo accusa di aver "sdoganato" il "post-fascista Fini" e di aver "reso socialmente accettabili i successori di Mussolini". "Sono usciti dai loro angoli bui e sono diventati ministri", continua l’articolo con riferimento proprio a Giorgia Meloni. Il quotidiano di Monaco Süddeutsche Zeitung descrive il "trionfo dei post-fascisti". "La sinistra deve rimproverarsi di aver corso divisa", è l’analisi. E osserva: "Mai nella storia dell'Ue un paese fondatore ha avuto un governo formato dalla destra estrema", sottolineando le "radici fasciste" di Fratelli d'Italia.

La linea del conservatore Die Welt non si distanzia di molto. La vittoria del centrodestra è "un successo dell’antipolitica", sentenzia. Fratelli d’Italia raccoglie i voti degli "insoddisfatti, frustrati e stanchi della politica". La Suddeutsche Zeitung parla del "trionfo dei post-fascisti", mentre il quotidiano di Francoforte, Frankfurter Allgemeine Zeitung, è più cauto. Raccontando la "svolta a destra" del nostro Paese, prevede che non ci sarà uno "smottamento politico". L’invito, però, è a scegliere un ministro dell'Economia all’altezza: "Giorgia Meloni adesso deve trovare personale qualificato per una politica economica e finanziaria degna di fiducia. Finora è qui che la casella è vuota".

I siti stranieri esaltano la Meloni. Ma la Cnn già parla del Duce. Marco Leardi su Il Giornale il 26 Settembre 2022.

Il primato elettorale del centrodestra italiano fa già notizia in Europa e nel mondo. In particolare, in riferimento alla vittoria di Giorgia Meloni. I primi dati sul voto nel nostro Paese hanno avuto immediata eco nelle redazioni dei principali media internazionali, che in questi minuti stanno dedicando spazio a quello che viene definito un vero e proprio "terremoto politico". All'estero tutte le testate hanno segnalato la scelta di campo effettuata dai cittadini italiani e in alcuni casi non sono mancati rosicamenti sull'indirizzo della nuova maggioranza politica. 

"L'estrema destra verso la vittoria alle elezioni", ha titolato la breaking news della Bbc. "Giorgia Meloni si avvia essere la prima premier donna in Italia, secondo gli exit poll", ha spiegato l'emittente britannica, sostenendo che - qualora i dati fossero confermati - la leader di Fratelli d'Italia "punterà a formare il governo italiano più di destra dalla seconda guerra mondiale". In Francia, il quotidiano Le Figaro ha informato i propri lettori del fatto che in Italia "la coalizione di destra ampiamente in testa". Tra i già citati rosicamenti stranieri si registra, proprio nel Paese transalpino, quello del quotidiano Le Parisien, che alla vigilia del voto aveva delegittimato il centrodestra e Giorgia Meloni parlando di "ombra di Mussolini" sul voto. "Il partito di estrema destra ha vinto questa domenica, un fatto senza precedenti dal 1945", ha scritto in un articolo il giornale francese, tradendo un certo disappunto per il risultato elettorale italiano.

Ma il leitmotiv stereotipato della destra al governo ha attecchito pure in Spagna. "L'ultradestra vince per la prima volta le elezioni in Italia", apre sul suo sito El Pais, sottolineando "l'astensione storica" nel voto di oggi e parlando di "terremoto politico". La testata tedesca Faz, alla luce dei primi risultati, ha aperto il proprio sito proprio con la notizia dell'affermazione elettorale del centrodestra, parlando di "destra radicale". "Meloni potrebbe guidare il futuro governo come prima donna premier italiana", si legge.

Titolo orientato politicamente per la Cnn. "Giorgia Meloni destinata a essere il primo ministro più a destra dai tempi di Mussolini", ha scritto l'emittente nella sua breaking news.

"Gli italiani non hanno creduto alle menzogne e alle mistificazioni". Meloni trionfa e cita San Francesco: “Ci davano per spacciati, grazie a Salvini e Berlusconi: ora è tempo di responsabilità”. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2022 

“E’ il tempo della responsabilità, ringrazio Berlusconi e Salvini che non si sono risparmiati” ma “ringrazio Fratelli d’Italia che non ha mai mollato, nemmeno quando ci davano per spacciati“. Sono le prime parole di Giorgia Meloni che commenta sul palco del comitato elettorale del partito, all’hotel parco dei Principi, a Roma, la vittoria del centrodestra alle elezioni politiche.

La presidente di Fratelli d’Italia, che nelle prossime settimane potrebbe diventare la prima premier donna italiana, chiude il suo breve discorso con una citazione di San Francesco d’Assisi: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso, vi sorprenderete a fare l’impossibile”. Il riferimento è all’ascesa del partito che dopo anni di stenti e percentuali sotto il 10%, è riuscito dopo una legislatura passata all’opposizione di ben tre governi misti, a ottenere quasi il 26% delle preferenze, quasi doppiando Lega e Forza Italia messi insieme e ottenendo più preferenze di tutta la coalizione del centrosinistra.

“Rimandiamo a domani tutte le valutazioni perché i dati non sono ancora definitivi” dichiara Meloni nel suo primo discorso da vincitrice delle elezioni ma “per il momento possiamo dire che dagli italiani è arrivata una indicazione chiara: un governo di centrodestra a guida Fratelli d’Italia. Abbiamo fatto – riconosce – una campagna elettorale oggettivamente non bella, con toni al di sopra delle righe, violenta, aggressiva. Una campagna elettorale che noi abbiamo subito” osserva probabilmente in riferimento al “pericolo fascismo” più volte invocato dal Pd.

Poi l’invito alla responsabilità: “La situazione nella quale l’Italia e l’Unione Europea versano è particolarmente complessa. Serve un clima sereno, un confronto che è alla base di qualsiasi sistema democratico. Sono rammaricata per il dato sull’astensionismo, troppi italiani che hanno deciso di non votare. La nostra sfida sarà quella di far tornare gli italiani a credere nelle Istituzioni”.

“Siamo il primo partito e in Italia significa tanto. E’ una notte di orgoglio, riscatto, lacrime, abbracci, sogni, ricordi. Dedico questa vittoria a tutte le persone che non ci sono più e meritavano di vedere questa nottata. Però – sottolinea – quando questa notte sarà passata dovremo ricordarci che non siamo a un punto d’arrivo ma di partenza: è tempo della responsabilità, si deve capire il dovere che si ha nei confronti di milioni di italiani. Non tradiremo il Paese“.

Meloni ringrazia gli altri leader della coalizione: “E’ importante capire che se saremo chiamati a governare questa nazione lo faremo per tutti, unendo questo popolo. Il grande obiettivo che ci siamo dati come forza politica è quello di far tornare gli italiani a essere orgogliosi del loro Paese. Devo ringraziare Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Maurizio Lupi e tutta la coalizione di centrodestra, perché nessuno si è risparmiato in questa campagna elettorale. Ringrazio gli italiani che non hanno creduto alle menzogne e alle mistificazioni. Ringrazio la mia famiglia, Andrea, mia figlia, mia sorella. Ringrazio il mio staff perché è stato preziosissimo. E voglio ringraziare Fratelli d’Italia. Siamo stati spacciati dal primo giorno in cui siamo nati. Non abbiamo mai mollato, non ci siamo mai abbattuti nonostante le percentuali all’inizio erano basse. Sapevamo che gli italiani prima o poi l’avrebbero capito. Le scommesse non sono impossibili” citando la frase di San Francesco.

Da ansa.it il 26 settembre 2022.

E' una delle frasi citate da Giorgia Meloni questa notte nel discorso dopo i risultati che attestano la sua vittoria alle elezioni. Ma San Francesco non l'ha mai detta. E' quanto si legge in un articolo dello storico francescano, fra Andrea Vaona, postato sul suo blog ad aprile 2022 e rilanciato oggi dall'ex direttore di Tv2000 Lucio Brunelli. 

"Nei siti o nei social si propagano 'viralmente' anche frasi attribuite a san Francesco d'Assisi, ma che non risultano assolutamente né tra i suoi scritti né tra i detti che troviamo nelle sue biografie" scriveva lo storico francescano. "Ciò che duole è la difficoltà nel correggere gli errori pubblicati: quando segnalati, spesso la risposta è seccata, perché 'la frase è bella!...'" e "un confratello, saggiamente, per sdrammatizzare dice: 'spiritualità francescana da Baci Perugina'", sottolineava nel suo post fra Andrea Vaona.

"Cominciate a fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile - non è di San Francesco d'Assisi", si legge nel blog del frate docente universitario di Storia ecclesiastica.

Da tg24.sky.it il 26 settembre 2022.

Per protestare contro la vittoria del centrodestra alle elezioni e il futuro governo guidato da Fratelli d'Italia, gli studenti del liceo classico Manzoni di Milano hanno deciso di occupare la scuola. Dopo organizzato un picchetto all'ingresso, gli studenti sono ora riuniti in palestra in assemblea per discutere dell'occupazione, decisa anche per protestare contro l'alternanza scuola-lavoro, dopo la morte di Giuliano De Seta che già li aveva portati a organizzare un corteo interno 10 giorni fa. 

La protesta

L'intenzione dei ragazzi è occupare parte delle aule del piano terra per due giorni e quindi di rimanere a dormire stanotte all'interno dell'edificio di via Orazio, per poi riprendere regolarmente le lezioni mercoledì. "Vogliamo dirlo chiaramente, alla Meloni, a Confindustria, a chi ci reprime - hanno scritto in un comunicato gli studenti -: non siamo più disposti a tirarci indietro, far finta di nulla e aspettare che voi cambiate le cose; perché, nonostante tutto, sempre e comunque, la scuola siamo noi.

Questa mattina come studenti e studentesse del Manzoni, abbiamo occupato la nostra scuola per parlare e confrontarci sulla situazione in cui versano le nostre vite: crisi e disastri climatici sono ormai all'ordine del giorno, provano lentamente ad abituarci a un lavoro precario, sfruttato e mortale e, come se non bastasse, ci prepariamo ad entrare in una fase politica pericolosa e repressiva, visti gli ultimi risultati elettorali". 

E ancora: "Abbiamo preso coscienza di questa situazione e abbiamo deciso che questa volta non staremo fermi a guardare, non rimarremo passivi davanti a un presente che cerca con ogni mezzo di toglierci il futuro che ci appartiene".

"Fuori i fasci". Gli studenti in piazza bruciano le foto di Meloni e Draghi. Marco Leardi il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

A Milano sfila il corteo studentesco anti-Meloni e Draghi. Ma la protesta contro l'alternanza scuola lavoro è un pretesto: dal palco, propaganda e slogan politici di sinistra. "Pagherete caro, pagherete tutto" 

La solita retorica da centro sociale, con gli slogan strillati a ripetizione. Urlati al megafono. "Siamo una generazione queer e transfemminista, siamo per la pace e il disarmo". La solita contestazione politica, destinata - come spesso accade - a sfociare in manifestazioni antidemocratiche. Violente. Il corteo studentesco avvenuto stamani a Milano per chiedere l'abolizione dell'alternanza scuola-lavoro si è concluso con le foto di Mario Draghi e Giorgia Meloni bruciate in piazza. Date a fuoco come segno di dissenso verso la classe dirigente e il nuovo governo.

Nuove proteste, vecchia propaganda

Gli studenti protagonisti dell'odierna protesta, a quanto pare, avevano grosse lacune in educazione civica. In piazza, nuove proteste ma vecchia propaganda. "Fuori i fasci dalle scuole", si leggeva ad esempio su uno dei cartelli impugnati dai manifestanti. E ancora, lo striscione dispiegato all'apertura del corteo recitava: "L'Italia non è un Paese per giovani". Nel comizio che aveva dato avvio alla contestazione, i promotori dell'iniziativa avevano spiegato: "Siamo una generazione meticcia, antirazzista, ci opponiamo a questo governo che chiude i confini perché vogliamo libertà di migrare e diritti per tutti". Così, i bersagli facili del dissenso studentesco sono diventati Mario Draghi e la premier in pectore Giorgia Meloni.

Il "No Meloni Day"

Il successo elettorale di quest'ultima non dev'essere piaciuto affatto ai giovani della sinistra studentesca, che non a caso hanno colto l'occasione per lanciare la loro prossima adunata: il "No Meloni Day". Appuntamento il 18 novembre prossimo alle 9.30, in largo Cairoli a Milano. Nel frattempo, i ragazzi - circa 300 manifestanti - radunti da Rete Studentesca si sono portati avanti con le contestazioni alla leader del partito più votato in Italia. "Chi non salta la Meloni è...", hanno gridato dal palco. E via, tutti a saltellare. Intanto, tra i cartelloni esibiti c'era anche quello del partito marxista leninista italiano: "Uniamoci contro il governo neofascista Meloni. Per il socialismo e il potere politico del proletariato".

Draghi e Meloni a fuoco

In piazza duomo a Milano, poi, lo sfogo sulle immagini di Mario Draghi e della leader di Fratelli d'Italia, incendiate con dei fumogeni. Tra i simboli bruciati, anche quello di Confindustria. "Saremo in piazza finché questo modello non sarà cancellato", hanno affermato i manifestanti, riferendosi all'alternanza scuola-lavoro. Di seguito, il coro: "Per gli studenti uccisi non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto". Inquietanti echi del passato, in quel ritornello. Il riferimento iniziale era invece ai giovani purtroppo morti durante le esperienze di alternanza scuola-lavoro: Giuseppe Lenoci, Lorenzo Parelli e Giuliano De Seta.

Tra slogan intrisi di propaganda e gesti antidemocratici, il ricordo di questi ultimi (commemorato con un iniziale minuto di silenzio) è sembrato piuttosto un pretesto per fare agitazione politica.

GOVERNO, MELONI: “SINISTRA IN PIAZZA CONTRO ESECUTIVO CHE NON C’È”. Da lapresse.it l'8 ottobre 2022.  

“Stiamo vivendo un paradosso in cui la sinistra – attualmente al Governo – scende in piazza contro ‘le politiche del Governo Meloni‘ non ancora formato“. Lo scrive su Facebook la leader di Fratelli d’Italia. “Comprendo la voglia di protestare dopo anni di Esecutivi inconcludenti che ci hanno condotto nell’attuale disastrosa situazione, ma il nostro obiettivo sarà restituire futuro, visione e grandezza all’Italia. A breve volteremo finalmente pagina”, aggiunge.

Fratelli d’Italia ha poi precisato che “non c’è alcuna relazione tra il post pubblicato questa mattina su Facebook da Giorgia Meloni e la manifestazione della Cgil di oggi a Roma, che a quanto risulta non è stata organizzata per protestare contro Meloni.

ll post del presidente di FdI si riferisce, infatti, alle manifestazioni organizzate nei giorni scorsi in varie città italiane, in cui tra le altre cose sono state bruciate in piazza delle immagini di Meloni”. Lo precisa in una nota l’ufficio stampa di Fratelli d’Italia.

Enrico Paoli per “Libero quotidiano” l'8 ottobre 2022.

E siamo solo all'inizio. Chissà cosa accadrà nelle prossime settimane quando la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, traslocherà a Palazzo Chigi. Perché bruciare in piazza le foto della premier in pectore, assieme a quelle del presidente del Consiglio uscente, Mario Draghi, e inveendo contro tutti, come hanno fatto a Milano i bravi studenti de' sinistra, sentendonsi anche un po' fighi nel fare tutto ciò, non è solo un pessimo segnale per la democrazia, ma è, soprattutto, la dimostrazione di come ci sia chi vuole avvelenare il clima. Innescando una sorta di caccia alle streghe, senza le streghe, ma con i roghi già accesi. E poi parlano di allarme fascismo, loro.

A mettere in scena la barbarie delle foto bruciate, in piazza Duomo, a Milano, gli studenti del capoluogo lombardo, scesi in strada per protestare contro l'alternanza scuola-lavoro e il nuovo governo (che ancora non c'è). 

Insomma, una manifestazione preventiva, quella degli studenti lombardi, che arriva a poco più di una settimana dalla breve occupazione del liceo classico Manzoni, sempre a Milano, messa su per contestare l'esito delle elezioni politiche dalle quali Fratelli d'Italia ne è uscito come primo partito del Paese.

Eppure cori e slogan contro la Meloni, con le foto bruciate, hanno caratterizzato la mattinata di protesta. «Chi non salta la Meloni è», hanno intonano gli studenti, soddisfatti e contenti della loro piazzata. Il corteo ha preso forma in Largo Cairoli, di fronte al Castello Sforzesco, e ha marciato fino a piazza Fontana. Il tutto è durato poco più di un paio d'ore, quasi fosse una sorta di prova generale per le prossime settimane.

Sui volantini distribuiti o affissi sulle pensiline dei tram le ragioni della contestazione: «Fascisti al governo; morti e sfruttamento in alternanza; repressione e carovita». 

Insomma, di tutto di più, mescolando bene le carte insieme, in modo da creare il solito mix ideologico. E poi l'esortazione: «Non stare a guardare: ribelliamoci!». In altri manifesti, sotto la scritta «colpirne uno, colpirli tutti», sono ritratti i volti di varie personalità e leader politici tra cui Matteo Salvini, Enrico Letta e il sindaco Giuseppe Sala. Perché nel mirino mica c'è solo la Meloni.

In testa al gruppo, con il megafono d'ordinanza, si alternano gli studenti che ribadiscono la necessità di «dire no al governo neofascista di Giorgia Meloni; dire no alle istituzioni politiche che non pensano agli studenti; dire no all'alternanza scuola-lavoro». Poche idee, ma confuse benissimo. Immancabile il flash mob dedicato agli studenti rimasti uccisi durante le ore di alternanza: i ragazzi si siedono a terra e osservano un minuto di silenzio per ricordare Giuseppe Lenoci, Lorenzo Parelli e Giuliano De Seta, l'ultimo morto in provincia di Venezia.

Sono le stesse istanze che, all'indomani della vittoria del centrodestra al voto del 25 settembre, avevano portato i liceali del Manzoni ad occupare l'istituto: «Ci prepariamo ad entrare in una fase politica pericolosa e repressiva», avevano scritto gli studenti in un comunicato in cui spiegavano le ragioni del gesto. L'agitazione si era esaurita nel giro di 24 ore dopo la minaccia della preside del liceo, Milena Mammani, di dare 5 in condotta agli studenti che sarebbero rimasti a dormire nelle aule di via Orazio. «Abbiamo iniziato per non fermarci», si legge su molte delle felpe sfoggiate in Duomo, e uno striscione già annuncia una nuova manifestazione per il 18 novembre: il «No Meloni Day».

«Dirsi dalla parte della democrazia e poi protestare contro al nuovo governo perché il risultato delle elezioni non coincide con ciò che si sarebbe desiderato, non è propriamente coerente», afferma l'onorevole di Fratelli d'Italia, Riccardo De Corato, commentando la protesta degli studenti milanesi di diversi istituti, tra cui Agnesi, Tenca, Tito Livio e Varalli. a Colpire, però, è quel gesto inutile quanto stupido, ovvero «bruciare in piazza le foto di Giorgia Meloni nel silenzio assordante delle istituzioni. È gravissimo che sia stato lasciato fare loro tutto questo», sostiene l'esponente di FdI, «l'ennesima dimostrazione che per alcuni la democrazia va bene solo se le cose vanno come vogliono loro. Come dimostrano gli striscioni si stanno preparando già alla resistenza con il 'no Meloni day' previsto per il 18 novembre. Si mettano tutti l'anima in pace: il nuovo governo è stato eletto democraticamente dagli italiani».

Maurizio Landini, insulti in piazza a FdI: "Fascismo, la cultura della violenza".  Libero Quotidiano l'8 ottobre 2022

"Noi dobbiamo combattere il fascismo": Maurizio Landini ha parlato nel corso della manifestazione di questo pomeriggio a Roma, in piazza del Popolo, a un anno dall'assalto neo fascista alla sede del sindacato. Il segretario della Cgil, con tono allarmistico, ha dichiarato: "100 anni fa il fascismo partì proprio attaccando le Camere del lavoro e finì con il mettere in discussione il diritto di votare. Oggi vediamo il risorgere della cultura della violenza". Si tratta forse di un riferimento a Fratelli d'Italia, che ha vinto le ultime elezioni?

Nonostante questo, il segretario della Cgil ha voluto precisare che la manifestazione non è stata organizzata contro qualcuno: "Questa decisione di scendere in piazza l'abbiamo presa prima di sapere come andavano le elezioni, non perché l'abbiamo decisa noi dirigenti ma insieme a voi, e l'abbiamo decisa perché abbiamo visto che in questi mesi, in questi anni, il governo non ha ascoltato le lavoratrici e i lavoratori". Le accuse di Landini sono rivolte a tutti, a chi ha governato ma anche a chi è stato all'opposizione: "In questi mesi e anni il governo e le opposizioni non hanno ascoltato i lavoratori".

Landini, poi, è andato avanti col suo discorso: "La Costituzione l'abbiamo sempre difesa e non abbiamo cambiato idea. La Costituzione del nostro Paese non è né di destra né di sinistra ma antifascista e democratica e si fonda sulla libertà e il lavoro". Infine due appelli. Uno per "una vera riforma fiscale che aumenti i salari e le pensioni più basse". L'altro per evitare che si continui a "morire per il lavoro". 

Roma, la Cgil scende in piazza e Meloni risponde: “La sinistra attacca un governo non ancora formato”. Felice Emmanuele e Paolo de Chiara su Notizie.it l'08/10/2022

Giorgia Meloni esprime un suo parere in risposta alla manifestazione della Cgil a Roma. Interviene anche il ministro Orlando.

Un corteo autorizzato della Cgil è sceso in piazza a Roma per chiedere garanzie e perché è preoccupato per il nuovo governo. La Meloni risponde a tono ed è sorpresa di quanto sia accaduto nella Capitale.

Cgil scende in piazza a Roma e fa una richiesta di 10 punti all’Italia e all’Europa

I rappresentanti della Cgil, come si apprende dall’Ansa, hanno presentato all’Italia e all’Europa una lista di dieci proposte che sono: l’aumento di stipendi e pensioni; il superamento della precarietà; l’introduzione del salario minimo legato al trattamento economico complessivo dei contratti nazionali e una legge sulla rappresentanza; la sicurezza nei luoghi di lavoro; la necessità di garantire e migliorare una misura universale di lotta alla povertà, come il Reddito di cittadinanza; rendere il sistema pensionistico più flessibile superando la legge Fornero; fissare un tetto alle bollette; fare investimenti e un piano per l’autonomia energetica fondato sulle rinnovabili e una vera riforma del Fisco (no flat tax).

La risposta di Giorgia Meloni

Giorgia Meloni, che non è ancora premier in carica, come nessun politico della coalizione del centrodestra, ritiene questa manifestazione paradossale, in quanto, come affermato dalla leader di Fratelli d’Italia su Facebook: “La sinistra, attualmente al Governo, scende in piazza contro “le politiche del Governo Meloni” non ancora formato. Comprendo la voglia di protestare dopo anni di Esecutivi inconcludenti che ci hanno condotto nell’attuale disastrosa situazione, ma il nostro obiettivo sarà restituire futuro, visione e grandezza all’Italia.

A breve volteremo finalmente pagina”.

Il ministro Orlando difende il sindacato

A prendere le parti del sindacato vi è l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando che ha partecipato alla manifestazione. Orlando ha dichiarato: “Alla Meloni rispondo che non ha ascoltato la parola d’ordine del sindacato. Oggi la Cgil chiede solo di proseguire un metodo che è quello che caratterizza tutte le democrazie europee, quello del dialogo sociale e del confronto col mondo del lavoro.

È la ragione per cui pensa sia giusto appoggiare questa parola d’ordine”.

Milano, gli studenti di sinistra non accettano l'esito del voto e occupano il Liceo Manzoni. Il Tempo il 26 settembre 2022

Occupazione di protesta contro l’esito delle elezioni politiche del 25 settembre che hanno visto trionfare il centrodestra. È la scelta fatta degli studenti e le studentesse del liceo classico Alessandro Manzoni di Milano. «Abbiamo occupato la nostra scuola - hanno scritto in una nota gli alunni - per parlare e confrontarci sulla situazione in cui versano le nostre vite. Crisi e disastri climatici sono ormai all’ordine del giorno, provano lentamente ad abituarci a un lavoro precario, sfruttato e mortale, e, come se non bastasse, ci prepariamo ad entrare in una fase politica pericolosa e repressiva, visti gli ultimi risultati elettorali». 

«Abbiamo preso coscienza - spiegano ancora i ragazzi - di questa situazione e abbiamo deciso che questa volta non staremo fermi a guardare, non rimarremo passivi davanti a un presente che cerca con ogni mezzo di toglierci il futuro che ci appartiene. Ci siamo presi e prese uno spazio che troppe volte si è dimostrato repressivo e inadatto nel tentativo di dimostrare che non solo è possibile che studenti e studentesse decidano autonomamente di prendersi dei loro spazi, ma che è anche giusto e deve diventare una pratica normalizzata; se voi ci toglierete dei nostri spazi noi saremo pronti a riprenderceli e non cederemo più su quelle cose che riteniamo indispensabili per la nostra formazione». 

Poi, rivolgendosi direttamente alla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni - per distacco primo partito alle urne - e a Confindustria, dichiarano: «Non siamo più disposti a tirarci indietro, far finta di nulla e aspettare che voi cambiate le cose, perché, nonostante tutto, sempre e comunque, la scuola siamo noi».

La protesta al Liceo Manzoni, simbolo dell'anti democrazia. Andrea Soglio su Panorama il 28/09/22.

Ormai è il nuovo fortino della Resistenza Italiana, soprattutto dopo la sconfitta elettorale della sinistra con il Pd al minimo storico e bloccato dopo decenni all’opposizione. Stiamo parlando del Liceo Manzoni di Milano, occupato da una 50ina di studenti contro la vittoria del centrodestra e soprattutto di Giorgia Meloni nelle elezioni di domenica. Un’occupazione da subito raccontata con giubilo dai soliti noti della sinistra e che ovviamente avviene nel luogo più comunista d’Italia: il centro di Milano, dove le case costano almeno 10mila euro al mq.

«Occupiamo contro questo governo e soprattutto contro Giorgia Meloni e le sue idee retrograde che non si adattano con la vita che vogliamo perseguire noi studenti..» ha spiegato una studentessa. A cui però andrebbero spiegate alcune cose, di Educazione generica e di Educazione Civica (dove rischierebbe evidentemente un bel recupero a settembre). Primo: non è democratico che 50 studenti su un istituto da oltre mille condizionino l’attività del resto dei compagni, che sono la stragrande maggioranza. Secondo: non è democratico soprattutto contestare quello che nella nostra Costituzione è in assoluto la cosa più democratica che abbiamo, forse l’unica: il VOTO. Gli italiani, cara ragazza, hanno votato, hanno scelto ed hanno dato la maggioranza ad una coalizione. Questa decisione è sacra e va rispettata, da tutti. Soprattutto in un luogo pubblico, come la scuola (soprattutto se come nel caso vostro è una scuola pubblica). La vostra, sappiatelo, è una protesta antidemocratica. Da sempre settembre ed ottobre sono i mesi delle manifestazioni e delle proteste: si scendeva in piazza ultimamente a favore dell’ambiente, o contro la guerra. Allora fatelo per quello. Fatelo contro l’aggressione Russa, convocando magari a scuola il console ucraino che vi spiegherà cosa sta succedendo nella sua terra. Occupate la scuola per parlare di ambiente, sentendo esperti, facendo proposte, informandovi. Occupatela soprattutto per avere una scuola più moderna, più sicura, con professori preparati e motivati, anche e soprattutto nel pubblico. Ma il voto degli italiani non si contesta. Si rispetta e basta. L’astensionismo è un brutto segnale e quello giovanile è una piaga nella piaga. Quindi ben vengano le discussioni sul tema: si chiedano assemblee, si invitino negli istituti politici di tutti gli schieramenti o costituzionalisti per capire e conoscere; si metta in contatto scuola e politica. Però tutto questo va fatto senza senza fermare le lezioni, senza obbligare la maggioranza ai voleri di una minoranza.

«Quello che ci preoccupa di più - ha spiegato ancora una delle rappresentanti degli occupanti - sono le politiche di odio e xenofobia e ingiustizia che porta avanti Fratelli d’Italia, un partito evidentemente fascista, erede del fascismo di cui ha ancora la fiamma nel logo…». Un perfetto mix di luoghi comuni triti e ritriti e di bugie che da solo spiega la pochezza di questa protesta che di sicuro aprirà per qualcuno le porte della tv, dei giornali e, perché no della politica. Come già successo con Mattia Santori, il leader delle Sardine, preso e usato dalla sinistra ma ricordato negli ultimi mesi solo per alcune fesserie colossali fatte e proposte in Regione Emilia Romagna prima di finire nel dimenticatoio. Noi tutti alla politica abbiamo chiesto serietà dato che i tempi sono difficili, per mille motivi. Cercate di essere un po’ seri anche voi magari andando a scuola domenica armati di pennello a coprire le scritte con cui avete imbrattato i muri. Oppure pagate voi il conto dell'imbianchino: 10 mila euro...

Valentia Lupia per repubblica.it il 29 settembre 2022.

Un'assemblea per discutere dell'avanzata della destra, organizzata dagli studenti del Virgilio, con lo scrittore Paolo Di Paolo, interrotta dai carabinieri che hanno identificato quattro degli studenti presenti. Succede, a due giorni dalle elezioni, nel centralissimo liceo della capitale.

L'assemblea era stata autorizzata giorni fa dalla dirigente Isabella Palagi, ma inizialmente prevedeva un altro ospite, che si è tirato indietro all'ultimo.

A quel punto gli studenti e le studentesse del liceo di via Giulia hanno invitato Paolo di Paolo, ma non avendo i tre giorni burocraticamente richiesti affinché si ottenga il nulla osta del consiglio d'istituto i giovani hanno scelto di spostare l’assemblea esternamente. A piazza de' Ricci, per la precisione, davanti la scuola. Un luogo dove più volte nel corso degli anni si sono riuniti.

Con lo scrittore, i liceali stavano parlando di: "Temi come neofascismo, postfascismo, dei partiti di destra adesso e nella storia, facendo un parallelismo con la situazione italiana, con quella europea e infine mondiale nei partiti di destra al governo", spiegano gli studenti e le studentesse del Virgilio. "A un certo punto - spiega Alessandro L., minorenne, uno dei ragazzi identificati - si ferma una macchina dei carabinieri. Eravamo a metà assemblea. Sono venuti a intimarci di andarcene perché stavamo creando un momento di assemblea non autorizzato e che avremmo dovuto chiedere il permesso alla questura e alla prefettura".

"Uno dei carabinieri", racconta lo scrittore, che non è stato identificato, "si è avvicinato a me dicendomi: 'Capisco che possiamo avere idee diverse, ma c'è una legge da rispettare’".

Tutto giusto, tecnicamente, ma i giovani, che qui di incontri ne hanno fatti a bizzeffe, hanno letto questo inasprimento come direttamente collegato alla vittoria della destra.

A chiamare i carabinieri, infatti, non sarebbe stata la dirigente. "Ne siamo abbastanza convinti, perché lei ci ha sempre avvisati prima". Ma potrebbero essere stati "dei docenti o forse delle persone che passando di là hanno deciso di prendersela con la nostra scuola, notoriamente antifascista". Alla fine i giovani non sono andati via: "Siamo rimasti". Così quattro studenti, anche minorenni come Alessandro L. sono stati identificati e ora rischiano una denuncia penale per assemblea non autorizzata. "Ma non sappiamo se arriverà sul serio o se è stata solo minaccia", dicono i liceali.

 Giorgia Meloni? Se gli studenti occupano contro la democrazia. Corrado Ocone su Libero Quotidiano il 28 settembre 2022

Di solito gli studenti occupano le scuole e protestano, con molto coraggio personale, nei Paesi in cui mancano i più elementari diritti e non c'è libertà di opinione. Solo in quel "mondo capovolto" che è l'Italia di oggi può invece succedere che si occupi un liceo importante di Milano come il Manzoni per protestare contro il risultato emerso dalle urne in un voto liberamente espresso da cittadini di un Paese democratico. Sicuramente all'età giovanile è legata una certa dose di ignoranza e arroganza, che poi con gli anni si smussa in una conquistata maturità. Ma in questo caso lo stridore fra ardori giovanili e principio di realtà è tanto forte che non ci si può chiedere se non ci sia qualcosa di più.

Questo quid non è difficile individuarlo, a cominciare da una riflessione su come l'istituzione scolastica sia andata evolvendosi negli ultimi decenni. Un tempo i licei italiani non avevano da invidiare nulla a quelli di nessun'altro Paese del mondo: il fine che si proponevano era un'istruzione di base ampia, soprattutto classica, impartita con criteri tanto rigorosi da sfociare spesso nella severità. A garanzia di tutto c'era il professore, una figura che aveva un ruolo sociale ben individuato e perfettamente integrantesi con quello dei genitori. Scuola e famiglia erano perciò i perni di quel sistema, che fu rapidamente scardinato dal Sessantotto. Due furono i fenomeni che cooperarono a quella dissoluzione: da una parte la critica radicale al "principio di autorità" di genitori e docenti; dall'altra, l'avvento di una cultura vagamente aziendalistica che riponeva il fine della scuola non nell'istruzione classica ma nella creazione di determinate competenze (skills) utilizzabili à la carte nel modo del lavoro. Con l'istruzione, cambiava così anche l'educazione: non si trattava di formare personalità e caratteri, ma tecnici ed esperti con qualche cognizione di "etica applicata". Quali siano queste cognizioni lo stabilisce ancora oggi il pensiero mainstream, dominato in lungo e in largo dalla cultura progressista.

L'educazione civica si è così trasformata che non si ripromette di educare ai valori base del vivere civile, ma a quelli presunti che emergono da tematiche à la page quali i diritti, il gender, la sostenibilità, ecc. In questo brodo di coltura, la soluzione a problemi malamente impostati viene giudicata moralmente più del rispetto che si deve a chi la pensa diversamente da noi. Invece di confrontarsi e dialogare con l'avversario, si preferisce demolirlo moralmente. Certo, poi la realtà imporrà dei compromessi, ma un giovane, nell'idealità che è propria della sua età, li vivrà e giudicherà come cedimenti. In poche parole, se io insegnante ed io genitore dico strumentalmente, o faccio capire, che Giorgia Meloni e alleati sono "fascisti", come posso poi meravigliarmi che un giovane mi prenda tanto sul serio da ritenere illegittima una loro vittoria elettorale? Non è vero che viviamo in un mondo senza maestri, il fatto è che sono i "cattivi maestri" della sinistra a soggiogare le nostre coscienze, e soprattutto quelle dei più giovani. Quello che più di ogni altra cosa preoccupa è che quel valore positivo che è proprio da sempre della gioventù, cioè la ribellione all'esistente, non entrando più in una sana dialettica con il potere costituito dei grandi, generi solo un nuovo conformismo. Convinti di essere ribelli e solo loro veramente antifascisti, certi giovani non si accorgono di andare nella stessa direzione di chi ha il potere sulle loro coscienze e soprattutto di essere loro i veri fascisti. Tanto intolleranti da voler cancellare con un tratto di penna il libero voto degli italiani.

Ginevra Bompiani: "La Meloni ha fatto pestare gli studenti". Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022 

Gli studenti "antifascisti" tentano di far saltare un convegno organizzato alla Sapienza con esponenti di FdI e la polizia interviene? Secondo Ginevra Bompiani, scrittrice di ultra-sinistra ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, su La7, "a ordinare il pestaggio è stata Giorgia Meloni". 

"Oggi mi ha fatto impressione vedere quanto danno ha fatto la Meloni premier in mezza giornata", esordisce l'intellettuale. "Cosa ha fatto?", chiede Floris sinceramente stupito. "Beh, ha fatto pestare gli studenti e ha fermato le navi. Non è responsabile lei? Non ha mandato la polizia? Non ha bisogno di mandarla, la polizia ha sempre orecchio e naso molto fino e capisce subito che aria tira, lo capisce un minuto prima". Alessandro Giuli, accanto a lei, scuote il capo sconcertato: "No no, ma no...".

"Il pestaggio - prosegue imperterrita la Bompiani - è stato fatto perché studenti, in casa loro, non volevano che esponenti di Forza Italia (Fratelli d'Italia, ndr) parlassero a casa loro". Il nuovo ministro degli Interni Piantedosi ha preso le difese della polizia, che ha usato (come sempre, in questi casi, e indipendentemente dal governo) metodi spicci per respingere il tentato blitz degli studenti di sinistra in ateneo. La realtà è un po' più complessa e articolata, visto che l'Università non è solo "la casa" degli studenti antifascisti, ma di tutti gli studenti. E chiunque, sulla carta, deve potere avere spazio e tempo per parlare senza che qualcuno si senta in diritto (anzi, dovere) di impedirglielo con la forza. Ma a sinistra questo concetto passa solo a targhe alterne.

Sono questi i veri fascisti. Andrea Indini il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Le foto incendiate, i manichini impiccati e ora il bavaglio dei collettivi. La sinistra extraparlamentare mostra il suo volto violento: ecco i veri fascisti che vogliono zittire chi non la pensa come loro.

Prima sono comparse le fiamme. Le immagini di Giorgia Meloni e Mario Draghi incendiate in piazza. Poi, qualche giorno dopo, sono stati fatti pendere giù dal Tevere i manichini di Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa. Impiccati a una corda, come su una forca. Ieri sono tornati gli slogan carichi d'odio della contestazione studentesca sessantottina. "Fuori i fascisti dall'Università", hanno scandito i collettivi mentre prendevano d'assalto la facoltà di Scienza politiche della Sapienza e cercavano di zittire il convegno organizzato da Azione Universitaria a cui erano stati invitati Daniele Capezzone e il deputato FdI Fabio Roscani. Tre immagini drammatiche che rievocano gli Anni di Piombo e la sanguinosa "caccia al fascista". Qui, però, gli unici fascisti in giro sono proprio quei collettivi che vogliono tappare la bocca (o peggio) a chiunque la pensi diversamente da loro.

Ieri mattina, durante il discorso alla Camera, la Meloni ha rievocato "gli anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica". Gli anni in cui, "nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese. Quella lunga stagione di lutti - ha rimarcato - ha perpetuato l'odio della guerra civile e allontanato una pacificazione nazionale che proprio la destra democratica italiana, più di ogni altro, da sempre auspica". Quarant'anni dopo quell'odio serpeggia ancora nelle piazze, nei centri sociali, nelle frange antagoniste, tra i gruppi della sinistra extra parlamentare. Un odio sempre pronto ad accendersi e a dilagare quando al governo sale il centrodestra. Ne abbiamo avuto un assaggio in campagna elettorale quando sono riapparse le minacce di morte firmate con la stella a cinque punte. E lo abbiamo toccato con mano ieri a Roma.

Un'escalation che dovrebbe destare forti preoccupazioni in tutti. Perché un conto è manifestare il dissenso, un altro è usare la violenza per mettere a tacere l'avversario. Purtroppo, oggi come quarant'anni fa, davanti alle immagini dall'assalto alla Sapienza una certa sinistra (Partito democratico compreso) si è schierata dalla parte dei collettivi accusando i poliziotti di reprimere il "diritto al dissenso" con i manganelli. Senza l'intervento degli agenti, però, gli studenti di sinistra avrebbero fatto irruzione al convegno di Azione Universitaria e, nell'ipotesi "migliore", lo avrebbero fatto saltare, in quella peggiore, avrebbero fatto volare le mani. È forse questo il dissenso che hanno in mente i dem? Aspireranno mai ad "una Nazione veramente democratica" in cui, come auspicato dalla deputata di FdI, Chiara Colosimo, "tutti hanno diritto di essere liberi e di esprimere la loro opinione, compresi quelli di Azione Universitaria"? Purtroppo, per colpa loro, sembra che quel giorno sia ancora lontano.

Nel suo discorso la Meloni ha rivolto un bellissimo appello a tutti i giovani. Ha lodato "l’universo dell'impegno giovanile", lo ha definito "una meravigliosa palestra di vita per i ragazzi e le ragazze, indipendentemente dalle idee politiche che sceglieranno di difendere e promuovere". E ha anche detto che difficilmente non proverà "un moto di simpatia anche per coloro che scenderanno in piazza contro le politiche del governo". A questi, però, ha consegnato un consiglio: al famoso "Siate folli, siate affamati" di Steve Jobs, ha aggiunto "Siate liberi". Liberi di esprimersi, mai di essere violenti. Ecco: i collettivi, che ieri alla Sapienza volevano imbavagliare il convegno di Azione Universitaria, non erano affatto giovani liberi. Erano solo dei violenti, erano solo dei fascisti. 

(ANSA il 26 ottobre 2022) - Dalle 8 di questa mattina gli studenti del liceo classico Pilo Albertelli di Roma hanno occupato la scuola e hanno acceso fumogeni da una delle finestre srotolando uno striscione bianco con la scritta rossa e nera "Albertelli occupato". "Questa è la risposta migliore alla repressione poliziesca e alla deriva reazionaria che abbiamo visto ieri alla Sapienza", scrive il movimento studentesco Osa in una nota. 

La protesta dei giovani alunni arriva infatti all'indomani degli scontri avvenuti ieri davanti alla facolta' di Scienze politiche dell'università La Sapienza. Le rivendicazioni espresse dell'occupazione sono: "Opposizione alla Scuola dell'Esclusione che produce disagio psicologico e lo spopolamento della scuola, l'abolizione dell'Alternanza Scuola Lavoro, risoluzione dei problemi di edilizia scolastica dando Soldi alle Scuole e non alle spese militari, Difesa del diritto all'Aborto, e anche Stop invio di armi.

"Adesso tocca a noi: raccogliamo il grido di lotta che arriva dall'Albertelli, seguiamone l'esempio e portiamolo in tutte le scuole di Roma per far ripartire la lotta degli studenti. Verso e oltre la Mobilitazione nazionale studentesca del 18 novembre", scrivono gli studenti sottolineando che "ogni scuola sarà una battaglia!". La Rete degli studenti, da quanto si apprende, sta valutando se estendere la mobilitazione e le occupazioni ad altre scuole della capitale. 

"Una bella notizia quella che stamattina ci ha raggiunto dal Liceo Pilo Albertelli di Roma: gli studenti tornano ad occupare. E lo fanno contro l'Alternanza scuola lavoro e in difesa della scuola pubblica, contro l'aumento delle spese militari e l'invio di armi nei teatri di guerra. 

C'è bisogno di un forte movimento di protesta giovanile e di una forte connessione con il movimento dei lavoratori per ridare speranza a questo Paese", commenta l'Unione sindacale di base che invia "un forte abbraccio ai ragazzi e alle ragazze in lotta dell'Albertelli con l'augurio di vederci presto nelle piazze e nelle prossime mobilitazioni, in vista dello sciopero generale del 2 dicembre".

Da ansa.it il 27 Ottobre 2022.

"Le violente cariche sugli studenti ha spinto gli universitari riuniti in assemblea ad occupare Scienze Politiche". 

Lo comunica il movimento studentesco Cambiare. "Le nostre richieste sono chiare: vogliamo le dimissioni immediate della rettrice Polimeni e la garanzia che non verranno mai più fatte entrare le forze dell'ordine nell'ateneo -aggiungono- Richieste semplici, atte a ristabilire livelli minimi di democrazia e vivibilità nell'università, prendendo atto che le massime istituzioni interne alla Sapienza non sono state in grado di garantire la sicurezza degli studenti". 

   "Fuori le guardie dall'Università" è il coro scandito dagli studenti all'assemblea convocata dai collettivi nel cortile della Facoltà di Scienze Politiche, durante la quale sono state anche invocate le dimissioni della rettrice Polimeni. 

I ragazzi hanno letto un comunicato su quanto accaduto in occasione della protesta contro l'incontro organizzato da Azione universitaria, che aveva invitato a parlare il neo deputato Fabio Roscani e Daniele Capezzone: la piazza è stata convocata - dicono gli studenti - perché "il capitalismo buono non esiste" e "nell'ateneo che esige controparti nelle iniziative", in questa occasione "l'imparzialità" non è stato "un valore". "Ci teniamo a dire - ha aggiunto la studentessa che ha letto la ricostruzione - che le nostre aule non devono essere utilizzate dalle loro passerelle politiche". Quindi gli studenti hanno scandito il coro "siamo tutti antifascisti". 

"Mai più violenza sugli studenti! Riprendiamoci i nostri spazi" è lo striscione esposto dai collettivi universitari nel cortile di Scienze politiche alla Sapienza. Dopo le tensioni con le forze dell'ordine in occasione della protesta contro il convegno promosso dai movimenti di destra, gli studenti hanno organizzato un'assemblea pubblica, ed è massiccia la partecipazione, con centinaia di persone che affollano il cortile della facoltà. Su un altro striscione, calato da una scala si legge: "Vostro il governo. Nostra la rabbia". Presenti anche bandiere dell'Anpi. Con il microfono sono stati invitati gli agenti della Digos ad allontanarsi.

Estratto dell’articolo di Emiliano Bernardini per “il Messaggero” il 4 novembre 2022.

«Dovrei accoltellarti solo perché sei di Fratelli d'Italia». Una frase con tanto di gesto mimato ha scioccato i ragazzi di Azione universitaria che in quel momento stavano gestendo un banchetto informativo (autorizzato) nel cortile di Scienze politiche. La tensione tra i viali della Sapienza resta alta e le azioni violente, seppur minacciate, continuano a susseguirsi ad una settimana dagli scontri tra studenti e polizia seguiti poi da una occupazione lampo della facoltà di Scienze politiche.

L'ultimo episodio è avvenuto mercoledì pomeriggio. A raccontarlo sono gli stessi ragazzi che hanno subito l'aggressione: «Eravamo seduti al nostro banchetto quando si sono avvicinati alcuni ragazzi molto più grandi di noi. Avranno avuto 35-40 anni e quasi certamente facevano parte dei collettivi dei centri sociali. Uno di loro aveva uno zaino dal quale spuntavano dei bastoni. Sono venuti direttamente da noi e chi hanno chiesto: Siete i fascisti di Azione universitaria? Fate parte delle giovanili di Fratelli d'Italia? Uno dei ragazzi che era lì ha detto io faccio anche parte di Fratelli d'Italia e immediata è scattata la minaccia: Dovrei accoltellarti per questo motivo». […]

Ma c'è di più perché sempre mercoledì i ragazzi che uscivano da scienze politiche con i volantini in mano di Azione universitaria sono stati bersagliati con delle palle fatte con carta bagnata. Intanto il coordinamento dei collettivi di sinistra ha organizzato una serie di assemblee «per immaginare, discutere, insorgere in ogni spazio della nostra università». […]

Venerdì 18 novembre invece, la mobilitazione, partita da Roma, si estenderà a livello nazionale. Mercoledì pomeriggio gli studenti dei Collettivi e di Cambiare Rotta si sono incontrati al pratone dell'ateneo per un momento collettivo assembleare e per costruire le due iniziative. «Il 18 Novembre saremo nelle piazze di tutto il Paese. Serve una mobilitazione grande e plurale; in piazza ci saranno tutte le associazioni e collettivi studenteschi del Paese. Piuttosto che al merito, il Governo pensi a investire sull'istruzione e ad ascoltare chi rappresenta gli studenti», afferma Giovanni Sotgiu, coordinatore nazionale dell'Unione degli Universitari.

I “democratici” studenti di sinistra “okkupano” La Sapienza con slogan da brivido: «Fuori le guardie!». Lucio Meo il 27 Ottobre 2022 su Il Secolo d'Italia. 

Gli studenti dei “collettivi” di sinistra, quelli “democratici” che un paio di giorni fa volevano sfondare gli sbarramenti per andare all’attacco di chi aveva organizzato, da destra, un convegno alla Sapienza, si sono organizzati e come rivalsa per essere stati fermati dalle forze dell’ordine hanno deciso di “okkupare” la facoltà di Scienze Politiche. “Le violente cariche sugli studenti ha spinto gli universitari riuniti in assemblea ad occupare Scienze Politiche”, hanno scritto i leader del movimento studentesco Cambiare Rotta, stasera, dopo aver preso possesso di alcuni locali.

“Le nostre richieste sono chiare: vogliamo le dimissioni immediate della rettrice Polimeni e la garanzia che non verranno mai più fatte entrare le forze dell’ordine nell’ateneo -aggiungono- Richieste semplici, atte a ristabilire livelli minimi di democrazia e vivibilità nell’università, prendendo atto che le massime istituzioni interne alla Sapienza non sono state in grado di garantire la sicurezza degli studenti”. Tra gli slogan scanditi, anche alcune frasi che riportano agli Anni di piombo: “Fuori le guardie dall’Università” è il coro scandito dagli studenti all’assemblea convocata dai collettivi nel cortile della Facoltà di Scienze Politiche. Gli stessi che volevano cacciare fuori anche gli studenti di Azione universitaria che assistevano al convegno…

Gli studenti "democratici" occupano la facoltà della Sapienza. Difesi a spada tratta dalla sinistra - che condivide lo stesso pseudo-allarme fascismo - gli studenti hanno stilato un elenco di richieste. Il motto? "Fuori le guardie dall'università". Massimo Balsamo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Dopo la tensione registrata martedì per un convegno di Fratelli d’Italia osteggiato da alcuni collettivi rossi, con tanto di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, importanti sviluppi a La Sapienza di Roma. Il movimento studentesco Cambiare ha annunciato di aver occupato la facoltà di Scienze Politiche. La motivazione è legata alle “violente cariche sugli studenti” di due giorni fa. 

Ancora tensione alla Sapienza

“Le nostre richieste sono chiare: vogliamo le dimissioni immediate della rettrice Polimeni e la garanzia che non verranno mai più fatte entrare le forze dell'ordine nell'ateneo”, si legge in una nota diffusa sui social network. Gli studenti parlano di richieste semplici, mirate“a ristabilire livelli minimi di democrazia e vivibilità” all’interno dell’università La Sapienza. Ma non solo: nel comunicato è comparso un nuovo attacco alle istituzioni, ree di non aver garantito“la sicurezza degli studenti”.

Difesi a spada tratta dalla sinistra, nonostante l’ottimo lavoro svolto dalla polizia confermato anche dal Viminale, gli studenti continua la loro battaglia contro il solito presunto allarme fascismo. Come riportato dall’Ansa, dopo l’assemblea nel cortile, gli studenti del movimento Cambiare Rotta si sono radunati nell'Aula A di Scienze Politiche. Affiancati da alcuni docenti, hanno esposto uno striscione con la scritta “Un’altra università”. E ancora: “Mai più violenza sugli studenti, riprendiamoci i nostri spazi”, “Polimeni dimissioni”. Non sono mancati i riferimenti alle forze dell'ordine, tutt'altro che lusinghieri. Uno dei cori scanditi dai rivoltosi è"Fuori le guardie dall'università". Tono spregiativo, dunque.

Gli studenti possono contare anche sul sostegno dei sindacati. In una nota, la Flc-Cgil ha invocato il dialogo, non la repressione e gli sgomberi. “I fatti della Sapienza, con l'entrata della polizia nell'Università e le violenze nei confronti delle studentesse e degli studenti che protestavano, sono un segnale allarmante”, la denuncia in una nota. I sindacati hanno aggiunto di confidare in uno “sforzo comune delle istituzioni per mantenere un clima sereno e dialogante nelle scuole e nelle università e in tutti luoghi di formazione”.

Roberto Bonizzi per “il Giornale” il 30 ottobre 2022.

Occupazione a oltranza. D'accordo, ma magari se ne riparla dopo il Ponte. I duri e puri dei collettivi della Sapienza da martedì avevano fatto sospendere le lezioni nella facoltà di Scienze Politiche. La loro protesta per bloccare il convegno promosso da Azione Universitaria con ospiti Daniele Capezzone e Fabio Roscani, deputato di Fratelli d'Italia, era stata fermata dalla polizia. 

Il cordone degli agenti aveva allontanato dall'ingresso delle aule la cinquantina di «resistenti» che, posato lo striscione «Fuori i fascisti dalla Sapienza», avevano cercato di sfondare per impedire il convegno. «Manganellate, cariche e feriti», la denuncia dei collettivi. Da qui la decisione di occupare la facoltà contro la decisione della rettrice Antonella Polimeni di lasciar intervenire gli agenti. 

Assemblea permanente, telecamere e giornali a raccogliere le «voci» del dissenso dei giovani di sinistra, proprio nelle stesse ore in cui il Parlamento votava la fiducia al governo di Giorgia Meloni, il primo ministro di destra-destra. E infatti dalle aule dell'ateneo romano è stato tutto un susseguirsi di appelli e richiami all'antifascismo.

Nell'università e nel Paese. La «resistenza a oltranza», però, è durata soltanto fino a venerdì. L'occasione del centenario della Marcia su Roma ha permesso ai collettivi di organizzare un «aperitivo antifascista», nelle aule ancora occupate. L'appuntamento doveva servire a decidere le «prossime mosse della protesta». Ma, non si sa se complice la scarsità di ghiaccio o la carenza di patatine, dall'assemblea non hanno chiarito i passi per il futuro.

Ieri, poi, la polizia era pronta a sgomberare le aule occupate di Scienze Politiche. Ma le ha trovate vuote. «Occupazione sospesa, appuntamento per il 4 novembre, dopo Ognissanti» l'ordine di scuderia. 

D'altronde, si sa, il Ponte per le festività è l'unico in grado di unire davvero l'Italia e gli italiani. Fascismo e antifascismo oggi appaiono concetti datati e un po' sbiaditi se messi a confronto con una settimana al mare sfruttando il clima da fine estate di questo autunno 2022.

Che è caldo sì, ma più in riva al mare che nelle università. In attesa che i giovani dei collettivi si chiariscano le idee sui pericoli per la democrazia e le mosse contro la rettrice, magari guardando il tramonto o con la classica indianata intorno al falò, l'occupazione può attendere. Adelante Pedro. Ma con juicio.

"Squadrismo dei collettivi universitari e silenzio della sinistra: è normale?" Accuse di "fascismo" e "foto segnaletiche" contro il giornalista Capezzone, oggi scortato dalla polizia a La Sapienza dove ha partecipato ad un convegno organizzato dai ragazzi di destra: "Non ho ancora letto una parola di solidarietà dalla sinistra". Elena Barlozzari il 25 Ottobre 2022 su Il Giornale.

"Chi dà del fascista al prossimo mentre commette atti da squadrista è in preda a un corto circuito evidente". È la morale del giornalista Daniele Capezzone, reduce da una mattina particolare. Dire che fosse inaspettata forse è troppo. Che a La Sapienza di Roma il clima fosse avvelenato non è una novità. Che i ragazzi di Azione universitaria fatichino a trovare spazi e agibilità idem. E poi l’avvertimento era circolato già la sera prima.

La conferenza di Au alla quale Capezzone era invitato, per qualcuno, non s’aveva da fare. Una conferenza, è bene specificare, che nulla aveva a che vedere con il fascismo e che era stata regolarmente autorizzata dall’ateneo. Eppure lunedì sera è cominciata a rimbalzare sui social network una specie di chiamata alle armi per impedire ai "fascisti" di entrate in facoltà: "Domani alle 9 tutti nel cortile di Scipol (Scienze politiche, ndr): fuori i fascisti dall’università", si legge sulla locandina. Che poi sembra piuttosto una messa all’indice, con tanto di "foto segnaletica" di Capezzone e del neodeputato di Fratelli d’Italia Fabio Roscani (invitato anche lui all’evento). "Fascista io? È una assurdità", ragiona il giornalista. Capezzone nasce radicale, si batte con Pannella per i diritti civili, poi lascia la "casa del padre", senza rinnegarlo, ma sfuggendo dalla sua ombra. È così che nel 2008 si ritrova in Forza Italia, convinto, ma comunque come un’anomalia. È nel suo carattere il fermento, l’esigenza di rimettersi in cammino. Si trova a suo agio con i liberal-conservatori di Fitto, ma non può essere quella la meta. Si inventa così un futuro da opinionista e da anni ormai scrive, elabora, racconta.

Scherzare con il fuoco è un esercizio pericoloso

Una piccola digressione biografica che rende l’idea di quanta surrealtà c’è in quella accusa di fascismo che oggi gli è costata attimi di tensione. "Quando sono arrivato all’università c’erano un centinaio di persone determinate a impedire lo svolgimento dell’evento, sono dovuto entrare ed uscire scortato dalla polizia", racconta il fondatore del centro studi Mercatus. La cronaca ci restituisce le immagini di una contestazione tutt’altro che democratica, sfociata in violenza, tafferugli, corpo a corpo con la polizia, intervenuta per tutelare i relatori e gli organizzatori del convegno. "È il prodotto di una cultura profonda, non dichiarata, forse persino diventata inconsapevole: a mezzogiorno si grida contro i fascisti e due ore dopo ci si comporta da fascisti però rossi. Per alcuni è ormai naturale che il diverso non abbia diritto di parola, amano parlare di inclusività e accoglienza ma se qualcuno non la pensa come loro assaltano l’università". Quando gli chiediamo se ha avuto paura, però, Capezzone si proietta verso l’altro: "La mia unica preoccupazione era che l’evento non fosse sciupato perché ho visto la cura e la serietà che ci hanno messo i ragazzi di Azione universitaria ad organizzarlo".

C’è però qualcosa che non riesce a digerire e che lo fa infiammare: "Non ho ancora letto un politico di sinistra, un commentatore di sinistra, un giornalista di sinistra deplorare il fatto che l’obiettivo dei contestatori fosse impedire lo svolgimento di una libera conferenza, impedire a me di entrare in una sede universitaria". Anzi, nelle ore successive all’accadimento, il silenzio di chi dispensa patenti di democrazia è stato rotto soltanto da qualche esternazione di solidarietà: con i facinorosi ovviamente. È il caso di Luigi De Magistris: "Arrivano Capezzone e Fratelli d’Italia all’università La Sapienza di Roma ed arrivano pure le manganellate agli studenti. Solidarietà a chi lotta", cinguetta l’ex sindaco di Napoli. Il giornalista con un passato in Sel Giulio Cavalli si lamenta per la scarsa reattività dell’opposizione: "Manganellate contro una manifestazione studentesca (…) c’è qualcuno dell’opposizione che dice qualcosa?". Per poi rintuzzare pochi tweet dopo: spera di non essere manganellato anche lui perché preferisce declinare al femminile l’incarico di presidente del Consiglio.

"La domanda è: il free speech e la libertà di parola non interessano più alla sinistra? È normale?", si chiede esterrefatto Capezzone. Si congeda con una riflessione che suona come un avvertimento: "Chiunque deve comprendere che scherzare con il fuoco è un esercizio pericoloso: se si arriva ad un millimetro dalla scontro fisico c’è il rischio che si superi un limite e si perda il controllo della situazione".

Fulvio Abbate per Dagospia il 27 settembre 2022.  

Il cuore? Semmai il fegato. Quello ingrossato dal leggere l’articolo di Concita de Gregorio. Scrivere su “Repubblica”, come ha fatto stamattina, che si debba “ricominciare dal cuore” è cosa risibile, penosa, schiuma da educandato della presunta “vocazione maggioritaria”, la stessa di cui Veltroni è mandante, e lei primo interprete garantito assoluto.

La sconfitta del Pd, e per estensione della “sinistra” tutta, da lei attribuita a Enrico Letta, persona che giganteggia sempre e comunque davanti alle sue parole, la sconfitta delle “cose belle”, che le imputa ad altri, a chi le ha comunque consentito spazio d’azione mediatica e narcisistica, la si deve in eguale misura, assai di più, all’amichettismo che Concita De Gregorio, insieme all’intera corte di amichetti della “sua” sinistra di cooptati d'autore, esprime.

Supponenza in nome del presunto “buon gusto” e di un “galateo” ipocrita che da decenni calpesta il cuore d’ogni vero sentimento di rivolta e opposizione all’esistente, compreso quello “di sinistra”, e che rende possibile, sempre per voce di un galateo portatile dei cosiddetti ceti medi riflessivi, che le pulsioni fasciste e plebee incancellabili nella nostra società incerta e ferita si mostrino nelle urne in tutta la loro mostruosa evidenza antropologica, ancor più che politica.

Ancor prima di Enrico Letta, da se stessa si dovrebbe dimettere Concita De Gregorio, e con lei l’intera corte edificante letteraria e cinematografica che la accompagna nella convinzione d’essere nel giusto dell’elegante perfezione “civile”. Mi auguro che Elly Schlein, cui lei affida ufficialmente, pensando di averne titolo sempre in nome dell'eleganza, l'investitura, la mela bio avvelenata dell’amichettismo politico, se ne tenga distante, facendo semmai ritorno a incontrare “l’umile Italia”, a cui la sinistra, come scrive qualcuno, dovrebbe consegnare se stessa, “nella lunga serie di notti in cui marcia, senza bandiere, la vita”. 

Da “la Repubblica” il 27 settembre 2022.

Caro Merlo, ho letto l'intervista di Carmelo Lopapa a Pietrangelo Buttafuoco, un intellettuale di destra, ma che tutti conosciamo come libero e spiazzante. Buttafuoco sostiene che Giorgia Meloni è una secchiona che studia, riempie quaderni e che le sue radici più che nel Msi stanno nei ragazzi che si ispiravano a Tolkien.

Giulia Masera - Torino 

Risposta di Francesco Merlo

Tolkien al governo? La chiamavano "destra fantasy". Nel 1977 organizzò "i campi Hobbit", raduni giovanili che non piacevano ad Almirante. Si ispiravano a una cultura molto confusa, come allora accadeva anche nell'estrema sinistra. E va detto che si piacevano, gli estremisti opposti ma "rivoluzionari".

Inventarono canzoni che si intitolavano La foiba di San Giuliano, Storia di una SS , La ballata del nero, e con mille balzi di immaginazione misero insieme Tolkien, un grande scrittore britannico che solo in Italia è stato annesso dalla destra (non azzardatevi a dirlo a un inglese), con il Lucio Battisti di "guidare a fari spenti nella notte per vedere se poi è così difficile morire", e con Evola, un astruso filosofo filonazista e antisemita che viene citato soprattutto da chi non l'ha letto. 

Sicuramente non l'ha letto Giorgia, anche se Evola finisce nei suoi quaderni, sia in quello bianco dove segna le cose che deve "fare" e sia in quello giallo dove segna le cose che deve "dire".

Tra le frasi che eroicamente le suonano di destra, Giorgia attribuisce ad Almirante "Vivi come se tu dovessi morire subito, pensa come se tu non dovessi morire mai", che nei campi Hobbit attribuivano a Evola e altri attribuirono a Moana Pozzi, ma, secondo Stefano Lorenzetto che ha scritto il Dizionario delle citazioni sbagliate , è di Luigi IX (1214-1270), fatto santo, per altre ragioni, da Bonifacio VIII. In quanto a Tolkien bastano i film, peraltro molto belli, anche se meno dei libri. Pietrangelo Buttafuoco, che ha visto Giorgia nascere, le vuole così bene da regalarle qualche lettura.

Ma, per tagliarla corta, la sottocultura di Giorgia è così illiberale che, ora che avrà davvero il potere, accoglierà i trasformisti (che sono già in fila), mentre gli spiriti liberi come Buttafuoco, anche se di destra, saranno i primi a subirne le conseguenze.

Giampiero Mughini per Dagospia il 27 settembre 2022.

Caro Dago, ti confesso che per tutta la durata della campana elettorale mai un momento ho provato un’emozione pari a un centesimo di quella che ho provato vedendo Federer e Nadal che si tenevano la mano e piangevano. Naturalmente ho votato per Calenda/Renzi e che altro potevo fare?, ma - a differenza del mio amico Francesco Merlo - mai un attimo ho sentito che fosse in gioco chissà che del nostro futuro imminente venturo, pur dopo la vittoria di Giorgia Meloni. 

E siccome, a differenza di quegli “artisti” semianalfabeti (mi piacerebbe entrare nelle loro case e vedere quali libri stanno nelle loro biblioteche) che stanno declamando qua e là le loro angosce antifasciste, tengo in gran conto i giudizi di Merlo, confesso di essere un po’ sorpreso dalla perentorietà con cui lui accusa la Giorgia Meloni di essere così profondamente “illiberale”. L’ho avuta di fronte non so quante volte e da quando aveva più o meno vent’anni, non mi pareva che quei tratti la marchiassero se non altro generazionalmente. 

Perché questo è il punto decisivo confermato da tutto ciò che è accaduto in campagna elettorale. Che quella storia che per molti di noi è stata a lungo sacra, la storia cui appartiene in modo cruciale l’avversatività tra la destra e la sinistra, è una storia morta e sepolta. Era la storia di quando quelli di sinistra tuonavano dalle pagine dell’Unità, di Rinascita, dei Quaderni piacentini, e non come adesso che vanno a fare i loro predicozzi su Tik-tok. 

Era la storia di quando in campagna elettorale si facevano sentire tipini come Giovanni Spadolini, Alfredo Reichlin, Claudio Martelli, Antonio Cirino Pomicino, Gianni De Michelis, Pietro Ingrao, Aldo Moro e potrei continuare a lungo, non adesso che (sia detto con rispetto della persona) la Santanché sommerge elettoralmente un avversario che si chiama Carlo Cottarelli, uno dei pochi che sa quello di cui sta parlando quando parla dell’Italia di oggi. 

Tutto quello di cui dicevo è morto e sepolto, non è più il tempo in cui vale la pena citare Antonio Gramsci e bensì il tempo in cui fa storia se non leggenda una qualche sortita della (a mio giudizio geniale) Ferragni. 

Detto in parole povere. Siamo entrati da tempo nel terzo millennio e ci siamo entrati zoppicando alla grande, incapaci di legge quel che è divenuta la società post industriale, quando la “sinistra” è rappresentata da un astuto avvocato che gira il meridione promettendo reddito di cittadinanza a palate.

Destra, sinistra? Fascismo, antifascismo? Baggianate quando vai al sodo e affronti i problemi reali. Di sicuro c’è solo che quanto a indizi che caratterizzano una società moderna, quelli che riguardano l’Italia sono fra i peggiori d’Europa sia quanto a libri letti sia quanto a milioni di euro evasi fiscalmente. Illiberale o meno, è con questo che dovrà fare i conti il prossimo governo. Compiti che non augurerei al mio peggiore nemico, e sempre che in questa melma che è divenuto il nostro sistema politico riesca a durare più di un paio di stagioni. Tutto qui.

Da repubblica.it il 26 settembre 2022.

Mentre Giorgia Meloni scendeva dal palco al comitato elettorale allestito all’Hotel Parco dei Principi a Roma, si scatenava la festa tra militanti, parlamentari e volontari sulle note di Ma il cielo è sempre più blu e A mano a mano di Rino Gaetano. Tra abbracci e cori per la presidente del partito i militanti di Fratelli d'Italia si sono commossi cantando a squarciagola, ma perché le canzoni del musicista morto 41 anni fa sono diventate la colonna sonora della vittoria della destra?

Passione personale di Meloni che nell'ottobre scorso ricordava la nascita del cantante con un post sentimentale che diceva: "Il 29 ottobre 1950 nasceva Rino Gaetano, un grande artista italiano che grazie alla sua intramontabile musica continua ancora a regalarci emozioni uniche e indescrivibili. Ci manchi Rino". Appropriazione culturale di un'artista che si era sempre professato apolitico o semplicemente mancanza di un carnet di musicisti e canzoni da utilizzare sul palco?

Raggiunto da Repubblica Alessandro Gaetano, nipote ed erede dell'artista di culto, si è sfogato: "Non se ne può più. Anna, la sorella di Rino, ed io abbiamo detto centinaia di volte che non gradiamo questo tipo di iniziative: Rino è di tutti, e la politica non deve appropriarsene".

Non è la prima volta che i brani più famosi di Rino Gaetano Ma il cielo è sempre più blu, A mano a mano, ma anche Nuntereggae più vengono utilizzate dai partiti per le proprie campagne politiche e in passato la famiglia del musicista aveva protestato. Nel 2018, quando le canzoni erano state utilizzate dalla Lega, avevano detto: "Nel corso degli anni è capitato più volte che le canzoni e l'immagine di Rino venissero usate da parte di diversi schieramenti. Questo è solo stato l'ennesimo episodio che ci viene segnalato in questi anni e di cui siamo stufi. Fosse stato chiunque altro l'avremmo pensata allo stesso modo. Rino non è di destra né di sinistra, non ha colori politici. Perché devono farsi forza usando lui e la sua musica?".

"Non ci è mai piaciuto" avevano aggiunto. "Anzi, ogni volta che ci hanno invitato a parlare o cantare su un palco abbiamo chiesto di togliere le bandiere del partito di turno. Non critichiamo nessun messaggio, semplicemente ci sembra scorretto politicizzare la sua musica. Rino non era d'accordo neanche allora. Ha suonato alcune volte alla Festa dell'Unità, ma lui era solo a favore del popolo e contro chi tradiva i suoi ideali". 

A mano a mano in realtà è una canzone di Riccardo Cocciante cantata dal vivo un'unica volta da Rino Gaetano nel 1981 durante una tournée congiunta (con l'accompagnamento di Cocciante e del gruppo New Perigeo; mentre Gaetano faceva cantare a Cocciante la sua Aida, A mano a mano veniva affidata da Cocciante alla voce di Gaetano. Non ci sono versioni in studio della versione cantata da Gaetano, il brano è contenuto nella registrazione del concerto Q disc live Q Concert.

Ma a distanza di anni la sua versione è quella più popolare, nonché una delle canzoni di maggiore successo di Rino Gaetano, essendo la più ascoltata in assoluto su Spotify sorpassando hit come Gianna e Ma il cielo è sempre più blu. Nel 2019, in occasione dell'uscita del cofanetto Ahi Maria 40th, nel giorno del suo compleanno, il 29 ottobre, sul canale YouTube dell'artista è stato pubblicato un videoclip con la versione live della canzone che ha totalizzato oltre 35 milioni di visualizzazioni.

Sui social intanto i fan di Rino Gaetano sono più o meno tutti compatti nel criticare la scelta. C'è chi dice "Rino Gaetano utilizzato per festeggiare la vittoria da Fratelli d'Italia si starà rivoltando nella tomba buon'anima", oppure "Il comizio post elettorale della Poponi con Rino Gaetano? Ma stiamo scherzando?", ancora "Certo che ascoltare Rino Gaetano al bunker di FdI fa tanto, tanto, tanto male". C'è anche chi critica la sinistra: "Sono riusciti a farsi scippare anche Rino Gaetano". E chi sceglie di citare una sua intervista: "'Perché ho amato tutti i sessi ma posso garantirvi che io non ho mai dato troppo peso al sesso mio, oh'. Buongiorno Giorgia a te e a tutto il tuo circo".

Gli eredi di Rino Gaetano: "Fdi non lo sfrutti". Ma le canzoni famose sono patrimonio di tutti. Polemica dopo l'uso durante la festa elettorale dei brani del cantautore. Paolo Giordano il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.

Ci risiamo. Stavolta tocca a due brani di Rino Gaetano, A mano a mano e Ma il cielo è sempre più blu che Giorgia Meloni ha accennato, canticchiato, ascoltato domenica in piena notte all'Hotel Parco dei Principi di Roma festeggiando il successo elettorale. «Non se ne può più. Anna, la sorella di Rino, ed io abbiamo detto centinaia di volte che non gradiamo questo tipo di iniziative: Rino è di tutti, e la politica non deve appropriarsene», ha subito commentato Alessandro, nipote ed erede di uno dei cantautori più creativi di sempre e senza dubbio il più sfortunato.

Non è la prima volta che gli eredi Gaetano si lamentano e non è neppure la prima volta che l'utilizzo di un brano in contesti politici crea polemiche, in Italia ma pure all'estero. Per capirci, a ogni giro elettorale, scatta la solita polemica sull'utilizzo di canzoni famose e non si contano gli artisti che, anno dopo anno, se ne sono lamentati. Ci sono pure «pentimenti postumi» come quello di Ivano Fossati che concesse all'Ulivo l'utilizzo de La canzone popolare ma poi se ne pentì: «Prestare una canzone alla politica è una cosa che non consiglio a nessuno».

Qui il problema è più generale. Di chi è una canzone famosa decenni dopo la sua pubblicazione? «È di tutti», come giustamente dice la famiglia Gaetano. Ossia non ha vincolo di mandato: essendo diventata parte della cultura popolare può essere utilizzata liberamente, fatti ovviamente salvi i diritti d'autore. Oltretutto A mano a mano non è neppure un brano di Rino Gaetano, ma è stato scritto (anche) da Riccardo Cocciante che lo ha incluso nel suo album omonimo del 1978. Rino Gaetano non l'ha mai inciso in studio, ma la versione dal vivo registrata in Q Concert del 1981 ha avuto uno strepitoso successo. Quindi, in teoria, anche Riccardo Cocciante ne dovrebbe impedire o circoscriverne l'utilizzo, cosa che, quantomeno al momento, non risulta. Di certo Rino Gaetano è uno dei più «saccheggiati» visto che alcuni suoi titoli come Nuntereggaepiù sono efficaci pure come slogan elettorali (la Lega lo ha sfruttato nel 2018 e la famiglia ha protestato). Le sue canzoni sono diventate titoli di film (Mio fratello è figlio unico del 2007 tratto da Fasciocomunista di Pennacchi) e persino di spot televisivi. Ad esempio la meravigliosa Ma il cielo è sempre più blu (canticchiata dalla Meloni) ha accompagnato una campagna promozionale della Lidl e anche una del Monte dei Paschi di Siena quattro anni prima della drammatica morte del capo della comunicazione David Rossi. Ma nessuno ha eccepito, nonostante di certo quel brano non fosse stato composto da Rino Gaetano per fare pubblicità a una banca.

In conclusione, un brano famoso diventa di proprietà popolare, salvo utilizzi specifici che vengono retribuiti da compensi adeguati e concordati con autore o eredi. Quindi libertà. A meno che fare pubblicità a una banca sepolta dai misteri sia più onorevole di essere canticchiati a una festa elettorale (di destra o sinistra, per carità).

La famiglia dell’artista si sfoga contro l’uso improprio. Meloni vince le elezioni e festeggia sulle note di Rino Gaetano, il nipote: “La politica non deve appropriarsene”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 26 Settembre 2022 

Giorgia Meloni era appena scesa dal palco del suo comitato visibilmente emozionata quando è partita la colonna sonora di Rino Gaetano. “Il cielo è sempre più blu” e “A mano a mano” risuonavano nel quartier generale di Fratelli d’Italia mentre la leader abbracciava e ringraziava fan e colleghi. Ma la famiglia dell’artista tragicamente scomparso il 2 giugno 1981, all’età di trent’anni, non ci sta e si sfoga: “La politica non usi la voce, la musica, le canzoni di Rino Gaetano”, ha detto Alessandro Gaetano, nipote ed erede dell’artista intervistato da Repubblica.

Non è la prima volta che succede che le canzoni di Rino Gaetano siano usate in comizi elettorali e non è nemmeno la prima volta che la famiglia chiede di non usare quelle canzoni in un contesto politico. “Con mia madre Anna, la sorella di Rino, abbiamo detto decine di volte, anche nei giorni e negli anni passati, che non gradiamo questo tipo di iniziative e ce ne allontaniamo: preferiamo che la politica non se ne appropri”, dice Alessandro Gaetano.

“Che le sue canzoni siano apprezzate mi lusinga” ma, continua, non si deve strumentalizzare. Il problema è generale: “Non si tratta di destra e sinistra. È un problema di uso strumentale dell’amore che la gente ha per questo straordinario artista”. “A Rino, in fin dei conti, la cosa che interessava era che dalla politica venisse fuori qualcosa di buono per il popolo”. Rino Gaetano in vita non si era mai sbilanciato politicamente né a destra né a sinistra. “Le canzoni non sono testi politici e io non faccio comizi”, diceva.

Ma c’è un precedente: nel 2018 la Lega aveva usato le canzoni durante un comizio. E la famiglia aveva protestato anche allora. “Nel corso degli anni è capitato più volte che le canzoni e l’immagine di Rino venissero usate da parte di diversi schieramenti – dissero all’epoca dei fatti, come riportato da Repubblica – Questo è solo stato l’ennesimo episodio che ci viene segnalato in questi anni e di cui siamo stufi. Fosse stato chiunque altro l’avremmo pensata allo stesso modo. Rino non è di destra né di sinistra, non ha colori politici. Perché devono farsi forza usando lui e la sua musica?”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Lorenzo D'Albergo per roma.repubblica.it il 26 settembre 2022.

Per Damiano, il frontman dei Måneskin, non è stato un bel risveglio. Il cantante della superband romana è deluso dal voto degli italiani e non fa nulla per nasconderlo. Lo sfogo arriva con una stories su Instagram. 

L'artista posta la prima pagina di Repubblica con la foto di Giorgia Meloni e la notizia della vittoria del centrodestra. Poi il commento: "Oggi è un giorno triste per il mio Paese". Un messaggio diretto ai fan di tutto il mondo e destinato quindi a fare il giro del globo. 

Chissà cosa ne penserà Meloni, che sui social aveva difeso il gruppo dopo la vittoria all'Eurovision e le accuse sulla presunta (e subito smentita) assunzione di stupefacenti in diretta tv proprio da parte di Damiano. "Da giorni leggiamo surreali polemiche contro i Måneskin, colpevoli di aver fatto conquistare l’Eurovision all’Italia. E sono tante le critiche, anche di pessimo gusto, che arrivano in particolare dai francesi.

Finalmente oggi la tv pubblica di Parigi ha fatto sapere che il voto è estremamente chiaro a favore dell’Italia e che non ha alcuna intenzione di sporgere un reclamo. La prossima volta imparino a perdere sportivamente, senza dover gettare fango addosso a dei bravissimi artisti che hanno meritato la vittoria con impegno e passione. Bravi ragazzi per questo straordinario risultato e complimenti anche per aver dichiarato apertamente di non aver fatto uso di droghe: un bel messaggio, soprattutto per i giovani", scriveva la leader di Fratelli d'Italia il 24 maggio 2021. 

Parole che a quanto pare non hanno fatto breccia nel cuore di Damiano, in tour all'estero e quindi lontani dalle urne della Capitale. Ma a questo punto c'è da scommetterci: il cantante avrebbe votato tutto tranne che Fratelli d'Italia. 

Da repubblica.it il 26 settembre 2022.

Boy George contro Giorgia Meloni. Il musicista inglese ha scritto un duro Tweet, poi rimosso, contro la presidente di Fratelli d'Italia a poche ore dal risultato elettorale che ha visto la vittoria della destra. 

"Ehi Giorgia Meloni - ha scritto il musicista - mio padre etero era violento, ma tu lo sosterresti e forse approveresti l'idea di picchiare i bambini in nome del nucleo familiare tradizionale, ma due uomini o donne gay che allevano un bambino con amore incrollabile è sbagliato?". 

Sul Tweet del musicista è cominciato un dialogo con i suoi fan (molti italiani) e insieme a chi sostiene la sua posizione c'è anche chi lo critica: "Hey Boy George, il padre di Meloni ha abbandonato la famiglia quando lei era una bambina, lei sa una o due cose su come una famiglia *tradizionale* potrebbe non funzionare, dovresti ascoltare i suoi ragionamenti invece di presumere". 

Al quale però il musicista ha ribattuto: "Supponendo? Meloni è contro i diritti e la libertà dei gay. Capisco il vecchio concetto noioso di politica dura, ma abbiamo visto abbastanza attraverso la storia per capire cosa fa all'umanità. Un leader veramente grande non detta cose che le persone non possono capire".

Tra gli utenti c'è anche chi ribatte che l'Italia è "una grande democrazia", che Giorgia Meloni sarà la prima donna a capo del governo nella nostra storia e che il nostro Paese non ha bisogno di lezioni. Il cantante dei Culture Club replica che tutti ne hanno bisogno e cita Mussolini, evidentemente per lui una lezione non imparata dagli italiani. "La storia modellata su Mussolini ha bisogno di lezioni" chiosa.

 Dagospia il 26 settembre 2022. E POI SI CHIEDONO PERCHÈ GIORGIA MELONI STRAVINCE - DOPO IL RISULTATO ELETTORALE LA CANTANTE FRANCESCA MICHIELIN SPARA IL SUO TWEET SCOMPOSTO: "OGGI INIZIA LA RESISTENZA. BUONGIORNO A TUTT*" - MA RESISTENZA A COSA? AL VOTO ESPRESSO DAGLI ITALIANI? E CHI DOVREBBE FARE "RESISTENZA", LA CONDUTTRICE DI X-FACTORI? - CON QUESTI SINISTRATI, SEMPRE A EVOCARE IL PERICOLO FASCISMO, LA DESTRA PUO' DORMIRE TRANQUILLA... 

Dagospia il 26 settembre 2022. "DA OGGI CAMBIA TUTTO, TRE PONTI SULLO STRETTO E VI PAGHERANNO LE BOLLETTE" – FIORELLO SHOW SULLA VITTORIA DELLA MELONI (CHE IN GIOVENTU' E' STATA LA BABY SITTER DELLA FIGLIA) - ANCHE LA FERILLONA IRONIZZA: "NUOVA ERA. IL TRENO VIAGGIA IN ORARIO”, CHE RICHIAMA IL MITO DELL’EFFICIENZA DELLE INFRASTRUTTURE ITALIANE DURANTE IL REGIME FASCISTA...

Da repubblica.it il 26 settembre 2022.

Gli amici e tanti ospiti speciali, oltre ai tanti fan dei Pooh. All'Auditorium Parco della Musica "Ennio Morricone" di Roma è andato in scena lo spettacolo Stefano!, una serata speciale in memoria di Stefano D'Orazio, a due anni dalla sua scomparsa. A ricordarlo amici e colleghi, a cominciare dai suoi compagni di una vita nei Pooh, da Roby Facchinetti a Red Canzian e Riccardo Fogli. Solo con un messaggio registrato, Dodi Battaglia. 

Special guest della serata, presentata da Eleonora Daniele, lo showman Fiorello che ha omaggiato l'artista e manager prima cantando con Facchinetti Uomini soli e Tanta voglia di lei, poi con alcuni momenti che preparano il grande pubblico al suo ritorno su Rai1 e su Radio2."Oggi è una giornata particolare.

Siete andati a votare? Siete contenti di cambiare il destino di questo paese? Non voglio fare satira, perché questa non è la serata giusta. Ma qualcosa bisogna pur dire", ha esordito. "Da domani cambia tutto. Ma non avete sentito tutte le promesse che ci hanno fatto? Da domani non ci saranno più tasse. Da domani vi pagheranno pure le bollette della luce. Faranno i ponti sullo stretto. E mica solo uno: ne avremo tre. Addirittura, ne avremo uno che collegherà la Sicilia e Genova". 

Poi un cenno alla performance "dance" di Luigi Di Maio: "L'immagine che ricorderò per sempre? Di Maio che fa Dirty Dancing". Quindi un'imitazione di Bruno Vespa: "Sono usciti i primi exit poll. A Roma i cinghiali hanno superato la soglia di sbarramento del 3 per cento". Tra gli ospiti d'eccezione a ricordare D'Orazio, anche il pianista jazz Danilo Rea, l'attore Pino Quartullo e il violoncellista Piero Salvatori.

Valentina Lupia per repubblica.it il 26 settembre 2022.

Tra le persone che sui social in queste ore commentano la vittoria del centrodestra alle elezioni c'è anche Sabrina Ferilli. L'attrice, sul suo profilo Instagram da quasi un milione di followers, ha condiviso una delle immagini che in queste ore girano maggiormente per ironizzare sui risultati dello spoglio: la foto di uno schermo intero di un treno Italo con su scritto Il treno viaggia in orario", che richiama il mito dell’efficienza delle infrastrutture italiane durante il regime fascista. 

"Nuova era!", aggiunge la 58enne romana, già icona della sinistra, che a Roma virò sul Movimento 5 Stelle votando Virginia Raggi per le comunali. Un affondo al centrodestra e a Fratelli d'Italia, il partito guidato da Giorgia Meloni e risultato primo con oltre il 26% dei voti.

Nei giorni scorsi Ferilli, che è anche doppiatrice e conduttrice, si è unita al coro di donne indignate dopo che l'Ungheria di Orban ha lanciato una nuova crociata contro l'aborto: prima di interrompere la gravidanza saranno costrette a sentire il battito del feto. 

"La donna continua comunque a essere l’individuo al quale sono rivolte più forzature e umiliazioni - aveva scritto in uno sfogo affidato, ancora una volta, a Instagram - la nostra utilità è solo nel procreare. Come un mammifero qualsiasi. Ma se decidi di prendere in mano la tua vita, di fare scelte autonome che escono fuori dalle direttive della società, che sono ancora ‘ridotte’ a moglie e madre, sono ca…". Oggi, invece, l’attrice ha scelto una sottile ma chiara battuta per dire la sua sui social.

L'esercito dei rosiconi: vip e influencer in lacrime. Francesco Maria Del Vigo il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.

Dai comizi social della Ferragni all'indignazione di Damiano: tutto il livore della sinistra sconfitta

Tanto livore per nulla. Alla fine i vip di sinistra si sono riscoperti very irrilevant people. Saranno pure degli influencer da milioni di followers, ma questa volta non hanno influenzato proprio nessuno. Le stories della novella staffetta partigiana Chiara Ferragni e i comizietti del di lei marito, i vaneggiamenti della Murgia, gli attacchi stonati (ma per nulla fuori dal coro) di Elodie, gli abusi da bullo catodico di Damilano, i post indignati per la tenuta democratica del Paese, le Bella ciao cantate fuoriluogo, le articolesse che diventano manifesti (tutti uguali) contro l'inesistente ritorno del fascismo, le dita alzate nel gesto saccente di chi si crede l'unica sentinella della Costituzione e poi quel desiderio, malcelato, di ammansire le plebi recalcitranti che vogliono andare al voto. Tempo perso, odio sparso inutilmente, traffico dati sprecato. Tutto inutile, tutto finito nella spazzatura. La democrazia ha fatto il suo corso, nonostante i piedini battuti e l'isteria collettiva che ha pervaso per mesi la sinistra più chic e di moda.

E adesso, a poche ore dal voto, al livore si è sostituita la bile. In quantità industriali. Le reazioni stizzite del mondo dello spettacolo che denuncia una dittatura che non c'è, sono esse stesse uno spettacolo. Dalle paillettes al basco da partigiano, dai palchi e dalle sfilate ai monti il passo è veloce come un click. Perché non c'è nulla di più irresistibile che credersi protagonisti di una eroica resistenza, anche se in questo caso il nemico è la volontà degli elettori, non un regime. Ma poco conta. Che resistenza sia, innaffiata da champagne e combattuta a colpi di social.

Tra i primi a postare la sua indignazione c'è Damiano dei Maneskin: «Oggi è un giorno triste per il mio Paese», scrive su Instagram pubblicando una foto della Meloni. Per sicurezza lo ribadisce anche in inglese perché, sia chiaro, questa è una battaglia mondiale e lui ne è il novello e fluidissimo Che Guevara. Francesca Michielin - probabilmente già diretta con le altre brigate verso l'appennino - non usa giri di parole: «Inizia la resistenza, buongiorno a tutti», X Factor come ultimo baluardo della libertà.

Roberto Saviano, in preda a manie di persecuzione, vede squadracce nere ovunque e denuncia: «Leggo #Saviano in tendenza perché gli elettori di Meloni mi invitano a lasciare il Paese. Questi sono avvertimenti. Questa è l'Italia che ci aspetta. Stanno già stilando una prima lista nera di nemici della patria, alla faccia di chi diceva che il Fascismo è un'altra cosa». Sono anni che vomita fango sugli elettori di centrodestra, trattandoli come dei subumani, magari qualche sbertucciamento poteva metterlo in conto... E ci sentiamo di poterlo rassicurare: non ci sarà nessuna lista nera, quelle di solito le stila l'intellighentia rossa.

Sabrina Ferilli, per fortuna, la butta sul ridere, e dalla stazione commenta: «Il treno viaggia in orario. Una nuova era». Renato Zero, invece, è incazzato nero: domenica, di ritorno all'Hotel Parco dei Principi a Roma, non riesce a entrare perché l'albergo è anche la sede del comitato elettorale di Fratelli d'Italia e, quindi, è stato preso d'assalto dai giornalisti. Lui la prende benissimo, da sincero democratico: «Neanche più in albergo si va? È un regime questo. Stronzi! Votate la merda che siete». Sorcini in rivolta, è la prima vittima della nuova dittatura, pare si stiano già muovendo l'Onu, Amnesty international e le più importanti organizzazioni in difesa dei diritti umani.

Luciana Littizzetto torna sull'annoso tema delle minacce (mai onorate) di fuga all'estero in caso di vittoria elettorale del centrodestra: «Indecisi se fare il cambio di stagione o il cambio di Nazione». Non cambierà nulla, come al solito. Vanessa Incontrada indossa un bel broncio e posta: «Faccia da lunedì»; Kasia Smutniak punta più sui toni drammatici: «A ottobre indietro di un'ora, oggi di un secolo».

Persino il redivivo Boy George, da Oltremanica, attacca Fdi: «Ehi Giorgia Meloni mio padre etero era violento (...) ma due uomini o donne gay che allevano un bambino con amore incrollabile è sbagliato?» . E siamo solo all'inizio: le urla e gli strepitii si prolungheranno oltre il limite del ridicolo, ne siamo certi. Tra le tante, inutili, giornate celebrative, il 26 settembre potrebbe diventare a pieno titolo la «giornata mondiale dei rosiconi».

Lo spettacolo è assicurato. 

Il personaggio della settimana. A sinistra gli artisti invitano alla "Resistenza". Ma resistere a cosa? Incapaci di accettare il volere democratico degli italiani, gli artisti moderni capi-banda politici salgono in cattedra e guidano una fantomatica "Resistenza". Francesca Galici il 4 ottobre 2022 su Il Giornale.

C'è un valore che molti, dopo il 25 settembre, sembrano aver dimenticato: la democrazia. Una parola con la quale in tanti si riempiono la bocca ma che pochi, al momento di dimostrare di sapere cosa sia, sembrano avere reale contezza di cosa sia. Sono stati tanti gli artisti di sinistra che hanno deciso di fare campagna elettorale quest'anno. Impossibile dire chi l'ha fatta credendoci realmente e chi, invece, solo perché schierandosi contro il centrodestra ha guadagnato qualche follower e qualche punto di engagement. Sta di fatto che questa estate in tanti, nei modi più disparati, si sono scagliati contro i leader della coalizione che poi ha vinto le elezioni, in particolar modo contro Giorgia Meloni.

Ora, se la maggior parte di loro ha avuto il buon senso di tacere, come Chiara Ferragni, altri hanno sfruttato l'onda lunga dell'elezione per continuare a stare "sul pezzo" e racimolare quei like che pare siano per loro indispensabili come l'aria. L'hanno fatto, appunto, dimostrando di non sapere cosa sia la democrazia e, soprattutto, calpestando la sua massima espressione, ossia il voto. Tralasciando i simil-influencer che hanno guadagnato un po' di visibilità insultando gli anziani, Francesca Michielin è arrivata a fare un post parlando di "Resistenza". La cantante forse nemmeno sa cosa sia la Resistenza, perché altrimenti non l'avrebbe usata così a sproposito davanti alla decisione democratica degli italiani, che hanno deciso di dare il loro voto a Giorgia Meloni e al centrodestra.

E anche Damiano David che all'indomani del voto ha detto che quello è stato "un giorno triste per il mio Paese", con quale titolo parla a nome del Paese. Magari è stato un giorno triste per lui, e non si capisce nemmeno per quale motivo, visto che trascorre la maggior parte del suo tempo all'estero. Questi artisti che si riempiono la bocca di parole gonfie solo per dimostrare di esistere e, magari, di essere persone politicamente impegnate "dalla parte giusta" come amano sottolineare, dovrebbero prima di tutto studiare per evitare certe castronerie, e poi portare sul tavolo della discussione argomenti tangibili, motivazioni reali che non siano i soliti slogan da centro sociale.

Abbiano la capacità di motivare contro chi o cosa organizzare una fantomatica "Resistenza" e si assumano la responsabilità di dire perché la vittoria del centrodestra avrebbe portato "un giorno triste" all'Italia. Fino a quel momento, fino a quando non saranno capaci di sostenere una discussione reale, non un monologo con la claque social, forse dovrebbero tornare a discutere di politica con gli amici, attorno a un tavolo, o a cantare. Non per altro, solo per evitare brutte figure.

Che tranvata per i vipponi radical chic. Andrea Indini il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.

Un conto è la bolla degli influencer, il Paese reale è un'altra cosa. E la democrazia si pesa a suon di voti, anche se a molti questo ancora non piace

Che tranvata. Proprio sul grugno. Sono andati tutti a sbatterlo contro il muro. Chiara Ferragni e consorte, Elodie, Giorgia (l'altra), la Bertè e tutti i vipponi radical chic menagramo, Rula Jebreal, Roberto Saviano e la schiera dei giornalisti impegnati. Che tranvata, appunto. Di quelle che quando le prendi fanno male per un bel po'. Ma qui, oltre al dolore, c'è pure da considerare il fastidio, la rosicata per la sconfitta pesante, il nervoso che monta al solo pensiero di dover sopportare il centrodestra per un lustro.

Chissà come si sono svegliati stamattina i sinistri dopo che per settimane avevano occupato social network, televisioni e radio a berciare contro Giorgia Meloni. Chissà quanto si sono svegliati incazzati. E chissà se qualcuno di loro ha già fatto le valigie da imbarcare sul primo volo fuori dall'Italia. La sardina Jasmine Cristallo lo aveva promesso. "Se Giorgia Meloni diventa presidente, lascio la Nazione". Forse è la volta buona? Mah. Resteranno tutti quanti. Esattamente come i vipponi a stelle e strisce dopo la clamorosa vittoria di Trump nel 2016. Sguardo basso e coda tra le gambe. Un maalox plus e via. Si torna alla vita di sempre. Ai selfie su Instagram, ai post su Facebook, alle dirette su TikTok. Il pericolo fascismo? Le battaglie per i diritti Lgbtq+? E l'aborto? Ciao, ciao.

Il nemico Meloni non ha pagato. Ne sa qualcosa Enrico Letta che adesso rischia seriamente di capitolare e doversene tornare a Parigi (si spera non col pulmino elettrico, che sennò rischia di rimanere a piedi già a Grenoble). Anche il Pd si è preso una bella tranvata. Secondo partito sì, ma otto punti sotto Fratelli d'Italia e appena quattro sopra Conte. Hanno puntato tutto sulla carta "se arrivano le destre..." e hanno perso miseramente. A riprova del fatto che la bolla di influencer e cantanti non vale niente. I consensi non si misurano a suon di pollicioni alzati né di cuoricioni rossi su una foto, ma sulle ics che gli italiani imbustano nelle urne elettorali. E così Elodie può sbraitare quanto vuole, i Ferragnez possono chiamare alle armi i loro follower e la Jebreal può continuare a lanciare strali: quello che conta davvero sono i voti. Quello è il Paese reale. È la democrazia. Con buona pace di Debora Serracchiani che non riesce ancora a spiegarselo.

Il racconto dell’influencer. Comincia la resistenza Instagram contro il patriarcato meloniano e altre questioni epocali. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Settembre 2022.

Gli attivisti social solidarizzano con chiunque, tranne che coi poveri lavoratori costretti a gestire i loro vanesi capricci durante il voto. Viviamo in un’epoca di intellettuali che ritengono che una battutaccia sia più grave della povertà 

«Oggi inizia la resistenza», twitta Francesca Michielin, che di mestiere presenta X Factor, ma è evidentemente pronta non dico a salire sulle montagne col mitra ma almeno ad andare a Cortina con un paio di sci nuovi (spero che gli impianti ampezzani di neve finta siano migliorati rispetto ai miei tempi, quando la rivoluzione volevamo farla, pensa te, contro la Dc, ma almeno non avevamo luoghi pubblici in cui dichiarare la nostra scemenza giovanile).

Il giorno prima, mentre l’Italia votava come ampiamente previsto Giorgia Meloni, la sinistra dell’Instagram s’indignava per le stronzate, come aveva fatto per tutto il resto della campagna elettorale e della vita.

È normale che sia così: siamo una società in cui il benessere è diffuso e i bisogni primari sono soddisfatti, ci resta tempo per occuparci di stronzate e quindi lo facciamo. Il dettaglio grave è l’apparente incapacità di distinguere tra le stronzate e le cose serie, riuscendo ad avere l’approccio sbagliato a entrambe.

L’elettore che s’informava dall’indignatissima militanza di Instagram non sapeva in che modo i candidati a governare questo miserabile paese intendessero affrontare il problema della scuola, che produce analfabeti che da grandi ci spiegheranno il mondo su Instagram; non sapeva in che modo intendessero affrontare la sanità, che la militanza sa solo di volere gratuita salvo poi trasecolare se ci sono attese di mesi per esami che non si pagano e quindi conviene farli; non sapeva che cosa nessuno dei candidati pensasse delle cose rilevanti, ma solo di quelle che la militanza di Instagram aveva deciso essere dirimenti.

E cioè: i temi identitari e quelli da studenti fuori sede. Come si pone il candidato rispetto alla schwa? Come rispetto al far votare il puccettone di mamma sua che a quarant’anni è ancora residente al paesello così mammà se lo detrae dalle tasse? Come, giuro che girava uno schemino con questa fondamentale informazione, rispetto al numero chiuso nelle università?

Fuori dall’Instagram, quelli che si prendevano il disturbo di andare a votare (sempre meno: chissà come mai, con tutto il lavoro che fa per noi la militanza di Instagram, siamo proprio degli ingrati) cercavano un candidato che gli promettesse che scaldare casa non gli sarebbe costato un rene, che quando il medico di base va in pensione fosse possibile trovar posto da un altro, che all’asilo ci fosse posto per puccettone.

Dentro l’Instagram, ci si scandalizzava forte. L’attivista Corinna De Cesare, più o meno quarantenne, indignata perché il presidente di seggio si sarebbe risentito per la di lei maglietta con scritto «Fuck patriarcato», traumatizzando anche la di lei figlia seienne che «assisteva a un abuso», faceva una sleppa di storie di Instagram taggando Beppe Sala, il quale avrà dovuto smettere di fotografarsi leggendo i suoi stessi libri per ascoltare le cronache del tizio che aveva detto alla De Cesare «La segnalo alla Digos» (qualunque cosa questa frase significhi).

Quello che ci meritiamo sono evidentemente attiviste quarantenni che pensano i seggi elettorali siano di competenza del sindaco (d’altra parte anche Chiara Ferragni, nelle sue storie Instagram sulla sicurezza a Milano, taggava il sindaco e non il prefetto; ma lei almeno è multimilionaria).

L’attivista Cathy La Torre, anche lei adulta, dedicava la sua sleppa di storie Instagram allo scandalo d’ogni tornata elettorale o referendaria. Appena la militanza di Instagram entra in un seggio, scopre l’atroce verità che l’elettorato è mammifero epperciò le file sono divise in maschi e femmine, e si costerna, s’indigna, s’impegna a cambiare le cose – sì, insomma: a ricavare da questo scandalo dei cuoricini.

Quindi Cathy La Torre avrebbe detto allo scrutatore che voleva verbalizzare la protesta per la grave discriminazione verso «le persone non binarie (come me)». Prima ancora che La Torre arrivasse alle storie successive, quelli in cui diceva «noi donne» (l’identità è fluida, sciocchi: perché vi stupite), lo scrutatore già l’aveva sfanculata. Cafone. Ma non finisce qui: La Torre promette querela. Lo scrutatore l’avrebbe diffamata dicendole «pazza». Ha quindi diffamato quella della storia «noi donne», non quella non binaria, se ho capito bene come funzionano le lingue romanze.

Spero che prima o poi questa obiezione trovi ascolto e le file vengano formate per ordine alfabetico: non vedo l’ora di leggere post e storie e tweet su come la divisione A-L M-Z discrimini i dislessici che non sono in grado di capire in che gruppo sia il loro cognome, e minacce di denunce di coloro che saranno passati a militare contro questo nuovo sopruso.

(È comunque inspiegabile che negli schemini di Instagram non fosse segnalata la posizione dei partiti rispetto alle lentezze della giustizia da eccesso di fascicoli e di cause a casaccio, un problema che a ogni fisima elettorale mi appare più chiaro).

L’attivista di Twitter Tomaso Montanari – ormai cinquant’anni e quindi più nessun margine di miglioramento – intanto fotografava la protesta che aveva costretto gli scrutatori a mettere a verbale, quella contro la legge elettorale. Gli attivisti social solidarizzano con chiunque, tranne che coi poveri lavoratori dei seggi costretti a gestire i vanesi capricci degli attivisti.

Non sono solo loro, eh. È un contagio di militanza sempre e solo sulle cazzate. Il loro pubblico, pur di piacere al proprio beniamino, è lieto di dire che adesso farà verbalizzare la protesta contro la legge elettorale anche lui (altri scrutatori che bestemmiano), o – ancor meglio – di sentirsi perseguitato. Scrive di temere, ora che ha vinto la Meloni, che il figlio sì e no nato diventi gay e la Meloni corra a portarglielo via. Impegnata come sarà a occupare la Rai e le ferrovie e il resto, cara Vongola75, non ha tempo per la tua prole potenzialmente busona. Il tuo beniamino però non te lo dirà: Vongola75 ha diritto a sentirsi al centro dell’attenzione in quanto potenzialmente perseguitata, e da perseguitata ha il diritto e il dovere di continuare a cuoricinare il suo beniamino.

Magari si trattasse solo di star di Instagram e relativi fan. Il contagio si estende. La scrittrice Chiara Tagliaferri racconta su Instagram che un prete (ve l’ho detto che questo paese l’ha rovinato Fellini) nel suo seggio avrebbe irriso qualche elettore nella fila sbagliata, coi documenti che riportavano un sesso che non corrispondeva a ciò da cui si era travestito (in neolingua: qualche persona in transizione), con le parole «a saperlo andavamo a Casablanca». È un’epoca di intellettuali che ritengono che una battutaccia sia più grave della povertà, più grave delle mancate diagnosi nella sanità pubblica, più grave delle bollette che non puoi permetterti di pagare, più grave del dover aspettare anni per una sentenza perché i tribunali devono smaltire prima tutti gli esibizionisti delle querele.

È anche un’epoca piena di tic lessicali, per cui se glielo dici, che ci sono gerarchie di gravità, vieni accusato di «benaltrismo». I diritti, ti spiegano con la cantilena di chi usa frasi che suonano bene senza interrogarsi sul loro senso, non sono una torta: se dai una fetta a qualcuno non la levi a qualcun altro. Eh, no, pulcino: le risorse sono una quantità finita, e i diritti per tutelare i quali non allochi risorse non sono diritti, sono cuoricini di Instagram. Speriamo capiscano la differenza tra la vita e Instagram prima di salire in montagna: lo sapranno che, mentre sono nascosti da qualche parte a organizzare la resistenza, non devono geolocalizzarsi negli autoscatti?

Promossi e bocciati.

I primi eletti: il ministro degli Esteri è fuori dal Parlamento. Uninominali, eletti Cucchi, Rauti e Santanché: Casini batte Sgarbi, che mazzata per Di Maio e Marcucci. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2022 

Ilaria Cucchi, Daniela Santanché, Claudio Lotito, Sergio Costa sono i primi candidati eletti nei collegi uninominali del Senato. Brutta sconfitta per Luigi Di Maio che rischia di non rientrare in Parlamento.

Il primo a essere scrutinato, secondo i primi dati reali elaborati da Quorum per SkyTg24, è quello di Firenze dove è stata eletta Ilaria Cucchi (Sinistra italiana).

Cucchi ha superato, in un collegio che era considerato blindato per il centrosinistra, Federica Picchi candidata del centrodestra. “Festeggiamo la nostra prima senatrice, Ilaria Cucchi!”. Con questo annuncio scatta il brindisi e l’applauso nel quartier generale dell’alleanza Verdi-Sinistra al Caffè Letterario in via Ostiense a Roma.

La stessa Cucchi commenta sui social: “Era il 3 novembre 2009. Mi trovavo in Senato per ascoltare il Ministro Alfano che era stato chiamato a riferire su come e perchè fosse morto Stefano Cucchi, quando era in stato di arresto, nelle mani dello Stato. Momenti terribili. Ora tornerò lì da Senatrice. Sono consapevole della gravità del momento storico che sta vivendo il mio Paese ma non dovrò avere timore. Stefano sarà con me. So che è fiero di me e che mi sta dicendo che dovrò mantenere le promesse fatte a coloro che hanno avuto fiducia in me. Dovrò continuare ad essere la voce degli ultimi. Siamo Umanità in marcia”.

Vittoria anche per Claudio Lotito, per il centrodestra, in Molise in un collegio che alla vigilia era ritenuto blindato per il centrodestra. Il presidente della Lazio ha superato Ottavio Balducci del M5s, Rossella Gianfagna del centrosinistra.

Elezione certa anche per Daniela Santanché nel collegio senatoriale di Cremona. La candidata di centrodestra avrebbe sconfitto il candidato del centrosinistra Carlo Cottarelli, che potrebbe comunque entrare comunque in Parlamento con il proporzionale.

Emma Bonino batte Carlo Calenda nel maxi collegio uninominale Lazio 2, compreso tra la città metropolitana di Roma Capitale e la provincia di Viterbo ma non riesce ad avere la meglio di Lavinia Mennuni, la candidata della coalizione di centrodestra.

Secondo i dati YouTrend, nel collegio uninominale Napoli Fuorigrotta della Camera Sergio Costa (M5S) è eletto deputato con il 41%. Sconfitti Luigi Di Maio (centrosinistra) con il 21%, Mara Carfagna (Az/IV) e Mariarosaria Rossi (Centrodestra). Impossibile l’elezione di Di Maio nei collegi plurinominali perché Impegno Civico è sotto la soglia dell’1% dei voti, non contribuendo quindi al risultato complessivo della coalizione di centrosinistra. L’ex capo politico del Movimento 5 Stelle è fuori dal Parlamento dopo 10 anni.

Pierferdinando Casini (centrosinistra) è eletto senatore del collegio uninominale di Bologna. L’ex presidente della Camera ha sconfitto Vittorio Sgarbi (centrodestra) dopo un testa a testa avvincente.

Sconfitta anche per l’ex capogruppo del Pd Andrea Marcucci nel collegio uninominale di Livorno: vince Manfredi Potenti del centrodestra. “E’ probabilmente il risultato più basso o uno dei più bassi del centrosinistra nella storia. Con questi dati, prendo atto anche della mia sconfitta nel collegio toscano dove ero candidato. I risultati vanno sempre rispettati, auguro buon lavoro al senatore Manfredi Potenti” commenta su Twitter Marcucci.

E’ statisticamente certa, secondo l’elaborazione di Quorum/Youtrend per SkyTg24, l’elezione di Silvio Berlusconi nel collegio uninominale del Senato di Monza, dove, per il centrosinistra, era candidata Federica Perelli.  Nel collegio al Senato di Sesto San Giovanni, ex Stalingrado d’Italia (ma già alla seconda legislatura con un sindaco di centrodestra), Isabella Rauti di FdI sta surclassando il pd Emanuele Fiano (46,49% contro il 29,97%).

Promossi e bocciati. Tutti i candidati eletti alla Camera e al Senato: chi entra e chi esce dal nuovo Parlamento. Redazione su Il Riformista il 27 Settembre 2022 

Nel nuovo Parlamento composto da 400 deputati e 200 senatori, il centrodestra avrà dalla sua 115 senatori e 237 deputati. Il centrosinistra 85 deputati a Montecitorio e 44 senatori a Palazzo Madama. Nello specifico il primo partito italiano, Fratelli d’Italia guidato da Giorgia Meloni, potrà contare su 66 senatori e 119 deputati.

La Lega di Matteo Salvini avrà 29 senatori e 67 deputati. Forza Italia di Berlusconi 18 senatori e 44 deputati. Un senatore e un deputato per il Maie, il Movimento associativo italiani all’estero elegge un senatore e un deputato. Bottino magro per la lista Noi Moderati, che ha corso in coalizione col centrodestra: un senatore e 7 deputati. Per Coraggio Italia del sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, entra un solo senatore e nessun deputato.

Nel centrosinistra, il Pd di Enrico Letta avrà 40 senatori e 69 deputati. La lista che metteva insieme Sinistra Italiana e i Verdi ha eletto 4 senatori e 12 deputati. Più Europa di Emma Bonino (che non ce l’ha fatta) porta in Parlamento appena due deputati. Un solo deputato, che ha vinto nel collegio uninominale a Milano, per Impegno Civico di Luigi Di Maio: si tratta di Bruno Tabacci, eletto alla Camera. Vallée d’Aoste: per la lista in coalizione con il centrosinistra è stato eletto un solo deputato.

Nel Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ci saranno 28 senatori e alla Camera 52 deputati. Mentre il Terzo Polo (Azione e Italia Viva) di Carlo Calenda e Matteo Renzi ottiene 9 senatori e 21 deputati.

Infine il partito autonomista Svp porta alla Camera 3 deputati e a Palazzo Madama 2 senatori. Mentre Sud chiama Nord di De Luca ha eletto un deputato e un senatore.

CHI ENTRA E CHI ESCE: TUTTI I DEPUTATI ELETTI

Silvio Berlusconi torna al Senato, Emma Bonino e Luigi Di Maio fuori dal Parlamento. Debutto invece per  Ilaria Cucchi, Claudio Lotito, Rita Dalla Chiesa e il virologo Andrea Crisanti.

Il Cav ottiene il seggio Lombardia U06, quello di Monza, conquistando oltre il 50% dei voti espressi nell’intero collegio. Ad uscire di scena c’è invece la ormai ex senatrice Emma Bonino, battuta insieme a Carlo Calenda nel collegio uninominale di Roma centro dall’esponente di FdI Lavinia Mennuni. Tra i grandi esclusi della XIX legislatura che si appresta ad aprirsi il ministro degli Esteri e fondatore di Impegno Civico, Luigi Di Maio, sconfitto nel collegio uninominale di Napoli-Fuorigrotta dall’ex compagno di partito ed ex ministro dell’Ambiente M5S, Sergio Costa. Terza, nello stesso collegio, Maria Rosaria Rossi (centrodestra) e solo quarta la ministra per il Sud, Mara Carfagna, candidata del Terzo polo (eletta però nel collegio proporzionale della Puglia). Fuori dal Parlamento anche tutti gli altri esponenti di Ic, a livello nazionale fermo sotto l’1%, come Vincenzo Spadafora, Lucia Azzolina e Manlio Di Stefano. Unico a spuntarla Bruno Tabacci, politico di lungo corso e sottosegretario uscente alla Presidenza del Consiglio, eletto nel collegio uninominale della Camera Lombardia 1 (Milano).

Tra le forze politiche che non raggiungono la soglia del 3% anche ItalExit e Unione popolare: nessun seggio, dunque, né per Gianluigi Paragone – eletto al Senato nel 2018 con i 5 Stelle e poi espulso dal Movimento – né per l’ex magistrato ed ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Poco sotto il 3% anche +Europa, che però annuncia richiesta di riconteggio. Manca la riconferma il senatore leghista Simone Pillon: “Il mio seggio non è scattato – spiega – ma io non mi arrendo. Resto a disposizione della Lega e del centrodestra e continuerò a difendere la vita, la famiglia e i valori cristiani dove e come Dio vorrà”.

Mentre a Palazzo Madama debutta Ilaria Cucchi, attivista e sorella di Stefano, il giovane ucciso a Roma nel 2009 mentre era in custodia cautelare, eletta con il 40% nel collegio uninominale di Firenze sotto il simbolo Alleanza Verdi Sinistra. La spunta anche il compagno di lista e sindacalista, Aboubakar Soumahoro, fermo in seconda posizione dopo Daniela Dondi (centrodestra) nel collegio uninominale di Modena ma ripescato nel proporzionale. Centra l’obiettivo anche il presidente della Lazio Claudio Lotito, eletto all’uninominale per il Senato in Molise sotto il simbolo di Forza Italia.

Lato centrosinistra, Pier Ferdinando Casini, candidato a Montecitorio, batte all’uninominale Vittorio Sgarbi (centrodestra) nel ‘fortino’ rosso di Bologna. Salvo l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, questa volta in corsa per FdI, battuto dal segretario di +Europa Benedetto Della Vedova nel collegio uninominale di Milano per la Camera ma ‘ripescato’ nel proporzionale. Per +Europa, invece, l’unico altro rieletto è Riccardo Magi a Torino.

Diventa senatore Andrea Crisanti candidato come capolista del centrosinistra nella circoscrizione estero per il Senato. “Non ho mai fatto una campagna elettorale prima d’ora, sono soddisfatto di un risultato elevatissimo che non mi aspettavo”, commenta il virologo a LaPresse, diventato noto durante la pandemia. Tra i big del Pd, perdono il posto in Parlamento Emanuele Fiano – battuto da Isabella Rauti di FdI nel collegio uninominale di Sesto San Giovanni, l’ormai ex Stalingrado d’Italia – Andrea Marcucci, Stefano Ceccanti, Filippo Sensi e Monica Cirinnà. Fuori anche l’ex ministra di Iv, Teresa Bellanova. Resta in Senato, invece, la presidente Maria Elisabetta Casellati. Dalla tv a Montecitorio la conduttrice di Mediaset Rita Dalla Chiesa, candidata azzurra ed eletta deputata in Puglia. Risultato negativo per l’economista Carlo Cottarelli, candidato per il Pd al Senato nel collegio uninominale di Cremona, dove però prevale la pasionaria di Fratelli d’Italia Daniela Santanché. L’ex ‘mr. spending review’ si salva però grazie al proporzionale.

TUTTI I CANDIDATI ELETTI IN PARLAMENTO

SCARICA L’ENCO PROVVISORIO NON ANCORA DEFINITIVO

Gli eletti alla Camera per il centrodestra

Andreuzza Giorgia

Arruzzolo Giovanni

Bagnai Alberto

Bagnasco Roberto

Battilocchio Alessandro

Battistoni Francesco

Bellomo Davide

Benvenuti Gostoli Stefano Maria

Bicchielli Giuseppe

Bisa Ingrid

Bitonci Massimo

Bordonali Simona

Brambilla Michela Vittoria

Buonguerrieri Alice

Caiata Salvatore

Calderone Tommaso

Antonino Calovini

Giangiacomo Candiani

Stefano Cangiano

Gerolamo Cannata

Giovanni Luca

Cannizzaro Francesco

Caparvi Virginio

Cappellacci Ugo

Caretta Maria Cristina

Carloni Mirco

Casasco Maurizio

Cattaneo Alessandro

Cattoi Vanessa

Cavandoli Laura

Cavo Ilaria

Cesa Lorenzo

Ciaburro Monica

Ciancitto Francesco

Maria Salvatore

Ciocchetti Luciano

Coin Dimitri

Colosimo Chiara

Colucci Alessandro

Comaroli Silvana

Congedo Saverio

Coppo Marcello

Crippa Andrea

D’Attis Mauro

Dalla Chiesa Rita

Dara Andrea

De Bertoldi Andrea

De Corato Riccardo

Delmastro Delle Vedove Andrea

Dondi Daniela

Ferro Wanda

Fontana Lorenzo

Foti Tommaso

Frassinetti Paola

Frassini Rebecca

Freni Federico

Furgiuele Domenico

Gardini Elisabetta

Gatta Giacomo

Gava Vannia

Giagoni Dario

Giglio Vigna Alessandro

Giorgetti Giancarlo

Giorgianni Carmen Letizia

Giovine Silvio

Gusmeroli Alberto Luigi

Iaia Dario

Lampis Gianni

Latini Giorgia

Lupi Maurizio

Maccanti Elena

Malaguti Mauro

Mantovani Lucrezia Maria Benedetta

Fascina Marta

Maschio Ciro

Matera Mariangela

Matone Simonetta

Mazzetti Erica

Meloni Giorgia

Minardo Antonino

Molinari Riccardo

Molteni Nicola

Montaruli Augusta

Montemagni Elisa

Morrone Jacopo

Nevi Raffaele

Nisini Tiziana

Nordio Carlo

Osnato Marco

Ottaviani Nicola

Palombi Alessandro

Panizzut Massimiliano

Pella Roberto

Pellicini Andrea

Pierro Attilio

Pisano Calogero

Polo Barbara

Raimondo Carmine Fabio

Rampelli Fabio

Ravetto Laura

Rixi Edoardo

Rizzetto Walter

Romano Francesco Saverio

Rossello Cristina

Rossi Fabrizio

Rotondi Gianfranco

Rotelli Mauro

Rubano Francesco Maria

Ruspandini Massimo

Saccani Gloria

Sasso Rossano

Semenzato Martina

Sorte Alessandro

Stefani Alberto

Sudano Valeria Maria Carmela

Tajani Antonio

Tenerini Chiara

Testa Guerino

Trancassini Paolo

Varchi Maria Carolina

Vietri Maria Immacolata

Ziello Edoardo

Zucconi Riccardo

Gli eletti alla Camera per il centrosinistra

Bonelli Angelo

Ciani Paolo

Della Vedova Benedetto

De Maria Andrea

Fossi Emiliano

Gianassi Federico

Magi Riccardo

Malavasi Ilenia

Merola Virginio

Morassut Roberto

Pastorino Luca

Tabacci Bruno

Gli eletti alla Camera per il Movimento 5 stelle

Aiello Davide

Amato Gaetano

Auriemma Carmela

Carotenuto Dario

Caso Antonio

Costa Sergio

Di Lauro Carmela

Orrico Anna Laura

Pellegrini Marco

Penza Pasqualino

Gli eletti alla Camera per Azione e Italia Viva

Antonio D’Alessio

Daniela Ruffino

Davide Faraone

Elena Bonetti

Enrico Costa

Ettore Rosato

Fabrizio Benzoni

Francesco Bonifazi

Giulia Pastorella

Giulio Cesare Sottanelli

Giuseppe Castiglione

Luigi Marattin

Maria Chiara Gadda

Maria Elena Boschi

Mara Carfagna

Matteo Richetti

Mauro Del Barba

Naike Gruppioni

Roberto Giachetti

Valentina Grippo

Gli eletti alla Camera per De Luca sindaco d’Italia

Gallo Francesco

Gli eletti alla Camera per Südtiroler Volkspartei

Gebhard Renate

Schullian Manfred

 

Gli eletti alla Camera per Vallée d’Aoste

Franco Manes

Sono 74 i seggi uninominali assegnati al Senato: 59 sono andati al centrodestra, 7 alla coalizione di centrosinistra, 5 al Movimento 5 stelle, 2 al Südtiroler Volkspartei, uno al movimento dell’ex sindaco di Messina Cateno De Luca.

Gli eletti al Senato per il centrodestra

Alberti Casellati Maria Elisabetta

Ambrogio Paola

Balboni Alberto

Bergesio Giorgio Maria

Berlusconi Silvio

Bernini Anna Maria

Berrino Giovanni

Biancofiore Micaela

Bizzotto Mara

Bongiorno Giulia

Borghesi Stefano

Centinaio Gian Marco

Ciriani Luca

Cosenza Giulia

Craxi Stefania

De Carlo Luca

De Poli Antonio

Durigon Claudio

Fallucchi Anna Maria

Farolfi Marta

Fazzone Claudio

Garnero Santanchè Daniela

Iannone Antonio

La Pietra Patrizio Giacomo

La Russa Ignazio Benito Maria

Leonardi Elena

Liris Guido Quintino

Lotito Claudio

Marti Roberto

Melchiorre Filippo

Mennuni Lavinia

Mieli Ester

Minasi Clotilde

Murelli Elena

Musumeci Nello

Nastri Gaetano

Nocco Vita Maria

Pera Marcello

Petrenga Giovanna

Petrucci Simona

Pirovano Daisy

Potenti Manfredi

Pucciarelli Stefania

Rapani Ernesto

Rauti Isabella

Romeo Massimiliano

Ronzulli Licia

Russo Raoul

Sallemi Salvatore

Silvestroni Marco

Sisto Francesco Paolo

Speranzon Raffaele

Spelgatti Nicoletta

Terzi di Sant’Agata Giuliomaria

Testor Elena

Tosato Paolo

Zaffini Francesco

Zangrillo Paolo

Zedda Antonella

Gli eletti al Senato per il centrosinistra

Casini Pier Ferdinando

Cucchi Ilaria

Giorgis Andrea

Misiani Antonio

Patton Pietro

Rando Vincenza

Spagnolli Luigi

Gli eletti al Senato per il Movimento 5 stelle

Bevilacqua Dolores

Castellone Maria Domenica

De Rosa Raffaele

Lopreiato Ada

Mazzella Orfeo

Gli eletti al Senato per Azione e Italia Viva

Barbara Masini

Carlo Calenda

Daniela Sbrollini

Giuseppina Versace

Lisa Noja

Marco Lombardo

Maria Stella Gelmini

Matteo Renzi

Raffaella Paita

Gli eletti al Senato per De Luca sindaco d’Italia

Musolino Dafne

Gli eletti al Senato per Südtiroler Volkspartei

Unterberger Juliane

Durnwalder Meinhard

Gli eletti nel proporzionale alla Camera

Nel proporzionale, i seggi conquistati alla Camera dal centrodestra sono 114: Fratelli d’Italia ha 69 seggi, la Lega 23, Forza Italia 22 e nessuno Noi Moderati. Al centrosinistra vanno 68 seggi: 57 per il Pd, 11 per Alleanza Verdi-Sinistra, nessuno per +Europa e Impegno Civico. Per il M5S 41 seggi, 21 per il Terzo Polo e 1 per Südtiroler Volkspartei.

Gli eletti nel proporzionale al Senato

Al Senato, nel proporzionale per il centrodestra sono stati eletti 56 candidati: 34 di FdI, 13 della Lega, 9 di Fi. Per il centrosinistra, dei 34 eletti nella quota proporzionale ci sono 31 del Pd e 3 dell’Alleanza Verdi-Sinistra. Nel M5S sono 23 gli eletti nel proporzionale. Per Azione-Italia Viva tutti i 9 senatori sono stati eletti nel proporzionale.

Elezioni politiche 2022, non solo Di Maio: i grandi esclusi. Luigi Di Maio non è stato eletto, ma non è l'unico escluso dal prossimo Parlamento: chi sono gli esclusi..Tag24.it il 26 settembre 2022. 

Il combinato disposto tra legge Rosato e taglio dei Parlamentari ha reso pericoloso, per alcuni, il gioco delle elezioni politiche 2022. Ne abbiamo avuto un saggio anche nella fase preparatoria all’appuntamento quando tra seggi bloccati e contendibili, alleanze fatte e disfatte, i vari partiti si sono mossi con l’obiettivo di creare terreno favorevole. I rischi erano tanti e questa nottata li ha rivelati tutti quanti: sono diversi, infatti, i politici rimasti esclusi. Alcuni nomi, anche di spicco, non entreranno nel prossimo parlamento. Vediamo di chi si tratta.

Gli esclusi: chi non entra in Parlamento

Luigi Di Maio è il caso più eclatante. L’ex grillino, dopo la fuoriuscita dal Movimento 5 Stelle, ha tentato la strada nel centrosinistra con il contrassegno di Impegno Civico. Il Ministro uscente ha perso, nell’uninominale di Fuorigrotta, contro il pentastellato Costa. Per Di Maio è una condanna: è fuori dal prossimo Parlamento.

In attesa di dati ufficiali, sono con un piede fuori anche Stefano Ceccanti ed Emanuele Fiano. I due del PD sono stati nomi chiacchierati e, addirittura, a rischio taglio da parte di Enrico Letta. Il sacrificio sull’altare della tenuta della coalizione non è avvenuto, ma l’esclusione dal Parlamento (probabilmente) sì. Il primo nel collegio di Pisa, il secondo in quello di Sesto San Giovanni, sono in netto svantaggio sui candidati di centrodestra. Stessa sorte è toccata a Monicà Cirinnà, perdente a Fiumicino contro Ester Mieli.

Vittorio Sgarbi è in svantaggio, a Bologna, contro Casini. Lo sbarramento per Noi Moderati è lontano, e questo preclude al critico d’arte la possibilità di essere ripescato con il proporzionale. Analogo discorso vale per Emma Bonino: la leader di +Europa ha vinto il derby romano con Calenda, ma ad aggiudicarsi il seggio sarà – trend alla mano – Livia Mennuni del centrodestra. Se +Europa non dovesse superare lo sbarramento – allo stato attuale è borderline – Bonino resterebbe fuori dal Parlamento.

Sono già fuori, invece, Gianluigi Paragone e Luigi De Magistris. Le rispettive formazioni politiche, Italexit ed Unione Popolare, non raggiungono la soglia di sbarramento del 3% ed escludono i due leader del Parlamento.

Da corriere.it il 26 settembre 2022.  

Un solo voto. Tanto basta per essere dentro o fuori al Senato o alla Camera (salvo poi l’eventuale ripescaggio al proporzionale). La sfida nei collegi uninominali prevede una semplice regola: vince chi prende più voti, anche uno solo. Per Palazzo Madama ci sono 74 seggi a disposizione; alla Camera sono 147. E, come segnala Quorum/Youtrend, la sfida nei collegi uninominali «indica una predominanza del centrodestra con poche aree in cui il centrosinistra è in testa e diversi collegi (in Toscana, Emilia-Romagna e nel Sud) ancora contendibili». 

A Bologna, la sfida dentro-fuori era tra l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini (centrosinistra) e Vittorio Sgarbi (centrodestra), battuto dopo un testa a testa fino all’ultimo voto. A Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, la battaglia per il Senato la vince Isabella Rauti, figlia del leader Msi Pino, ex moglie di Gianni Alemanno (ex An) e candidata di Fratelli d’Italia, con oltre il 45%, contro circa il 30% di Emanuele Fiano (Pd), figlio del sopravvissuto ad Auschwitz Nedo. Daniela Santanché (FdI) batte Carlo Cottarelli (centrosinistra) per il Senato a Cremona.

Sconfitta per Luigi Di Maio che resta fuori dal Parlamento. Era in corsa con il centrosinistra nel collegio Napoli Fuorigrotta contro la collega di governo Mara Carfagna (Azione-Italia viva) e Sergio Costa (ex ministro dell’Ambiente). A Roma lo scontro tra i due ex alleati Emma Bonino-Carlo Calenda vede vittoriosa la leader di +Europa che supera il 33% con il centrosinistra, ma non basta: davanti a lei c’è Lavinia Mennuni di Fratelli d’Italia con oltre il 36%. Per il leader di Azione poco più del 13%. A Milano centro, per la Camera, Benedetto Della Vedova di +Europa guida il centrosinistra contro lo sfidante Giulio Tremonti, ex ministro del governo Berlusconi oggi in corsa con Fratelli d’Italia. Ma in Toscana, l’uninominale al Senato va a Manfredi Potenti (centrodestra) che batte il pd Andrea Marcucci. In Molise, Claudio Lotito viene eletto senatore con il centrodestra. Anche Silvio Berlusconi vince un seggio al Senato nell’uninominale di Monza e torna in Parlamento. 

Firenze, Ilaria Cucchi in Senato: «Non deluderò, sarò la voce degli ultimi»

(Marco Gasperetti) Una delle sfide elettorali più interessanti della Toscana, quella del Senato, uninominale 4 di Firenze, che comprende anche l’area metropolitana e la piana fiorentina, se l’è aggiudicata il centrosinistra. Ilaria Cucchi (Sinistra Italiana) già dalla notte era nettamente in testa (oltre il 40,5%) sulla candidata del centrodestra Federica Picchi di Fdi (poco meno del 30%) e sull’attuale vice presidente della Regione Toscana, Stefania Saccardi (Azione Iv) che si attestava intorno al 13%. La campagna elettorale si è giocata su un argomento fortissimo e trasversale: il potenziamento dell’aeroporto di Firenze, sul quale Cucchi si è espressa negativamente per il potenziamento (le altre due candidate, Picchi e Saccardi, erano a favore). «Non deluderò chi mi ha votato, sarò la voce degli ultimi», ha detto la vincitrice. 

Rita Dalla Chiesa eletta in Puglia per FI

Dalla tv a Montecitorio, è il salto che farà Rita Dalla Chiesa che ha vinto in Puglia il seggio uninominale. Candidata da Forza Italia nel collegio Bari- Molfetta, ha raccolto 78.920 voti, il 40,52% delle preferenze. La conduttrice ha staccato di circa 15 punti il pentastellato Nicola Grasso (25,87%), costituzionalista, e l’ex sindaco di Bitonto, Michele Abbaticchio (25,13%), «delfino» del sindaco di Bari, Antonio Decaro.

Marta Fascina vince a Marsala (dove non è mai andata)

Marta Fascina, la compagna dell’ex premier Silvio Berlusconi, è vicinissima ad essere rieletta deputata alla Camera nel collegio di Marsala (Trapani), dove era candidata nell’uninominale. Fascina, appoggiata dal centrodestra, ha un vantaggio ormai incolmabile con il 36,22 per cento sul 27,37 di Martinciglio. Al terzo posto Antonio Ferrante, del centrosinistra. Nelle scorse settimane, a Marsala, era stata sollevata una polemica per la mancata presenza di Marta Fascina nel suo collegio. 

Sassari, Pera arriva primo a casa di Gavino Manca: un toscano in Sardegna

(Claudia Voltattorni) Un sardo doc contro un toscano doc. Nel collegio Sardegna 02, quasi 700 mila elettori che comprende le province di Sassari, Olbia, Nuoro, Oristano e Ogliastra, c’è stata la sfida per un posto al Senato tra il sassarese già deputato del Pd,il 52enne Gavino Manca in corsa per il centrosinistra, e l’ex presidente del Senato Marcello Pera, 79 anni, lucchese, scelto direttamente da Giorgia Meloni per correre con Fratelli d’Italia e il centrodestra che guida la regione dal 2019 con Christian Solinas. E appena candidato Pera ha messo le mani avanti riconoscendo che «mi rendo conto di essere stato catapultato in Sardegna, ma è colpa della legge elettorale», promettendo però «saprò farmi conoscere dai sardi». E però secondo Manca, «chi l’ha mai visto?». Il risultato finale gli dà torto: la vittoria va all’ex presidente del Senato. 

Roma centro, e alla fine nella capitale tra i due grandi rivali spunta Mennuni di FdI

(Claudia Voltattorni) Quella nel collegio uninominale Lazio 02 per il Senato è una sfida tra ex. E forse proprio per questo si è trasformata in una delle battaglie più agguerrite della campagna. Carlo Calenda contro Emma Bonino, su fronti opposti nel collegio di Roma centro, quasi 900 mila elettori. 

Meno di due mesi fa erano alleati con i rispettivi partiti, Azione e +Europa, ed erano pronti a correre insieme con il Pd, ma lo strappo di Calenda e la decisione di andare avanti da solo ha creato la frattura e tra i due ex soci è stato tutto un susseguirsi di accuse e veleni. Con oltre il cinquanta per cento dello spoglio, Emma Bonino (con il 33%) aveva quasi il triplo dei voti di Calenda (11,2%). Ma davanti a entrambi c’era la candidata del centrodestra, Lavinia Mennuni di Fratelli d’Italia (36,9%), già consigliera capitolina. Il candidato dei M5S all’11,2%.

(AGI il 26 settembre 2022) - Bis a Bologna: Pier Ferdinando Casini allunga il passo e per la seconda volta - dopo le elezioni politiche del 2018 - sconfigge il suo diretto avversario nel collegio uninominale del Senato. In campo per il centrosinistra con il 40,7% delle preferenze ha prevalso nettamente su Vittorio Sgarbi, candidato del centrodestra (32,32%). 

Dopo quasi 40 anni di vita parlamentare alle spalle la corsa continua. Casini si conferma ancora una volta il vero highlander della politica italiana e si appresta ad affrontare la sua undicesima legislatura. Fu eletto a Montecitorio a soli 27 anni. Molti leader politici si sono bruciati nei decenni, invece, per Casini il Parlamento è diventato un habitat naturale. 

Tra i suoi maestri nei primi anni romani ci fu Arnaldo Forlani, di cui diventò uno dei più stretti collaboratori per poi approdare nel 1989 alla direzione nazionale della Democrazia cristiana. "E' partito tutto da qui": si era commosso ieri arrivando alle sue ex scuole elementari nel quartiere Savena di Bologna per votare insieme alla madre.

La scelta del Pd di schierare un ex democristiano in uno dei collegi blindati per il centrosinistra è stata criticata dal alcuni circoli dem. Ma l'ex presidente della Camera non si è mai scomposto. "Non capire il valore della diversità in una coalizione significa precludersi delle possibilità", il suo ragionamento porta a non essere più "prigionieri degli stereotipi di Peppone e Don Camillo". Bolognese doc e grande tifoso rossoblù si è giocato tutte le sue carte sul territorio: pantaloni rossi alle feste dell'Unità, "Bella Ciao" cantata a favor di telecamere. 

E anche molto fair play su cui spesso hanno rimbalzato, durante la campagna elettorale, i colpi dell'istrionico critico d'arte. "Chiedo a Mattarella - la frecciata di Sgarbi - di nominare Casini senatore a vita perchè al Senato è come una statua o un orologio". "Benvenuto a Sgarbi a Bologna. In più di 40 anni di vita pubblica non ho mai insultato nessuno, cosa che farò anche in futuro", la replica di Casini. Sorriso, buon umore e grande abilità politica le sue armi, tanto che in 40 anni di vita parlamentare molti avversari sono diventati, se non alleati, suoi estimatori.

Lega, Umberto Bossi non è stato eletto alla Camera. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2022.

Un’altra tegola, clamorosa, si abbatte sulla Lega. Umberto Bossi non è stato eletto. E come lui, non è stato eletto il tesoriere del partito Giulio Centemero. È il risultato del sempre cabalistico “flipper” che scatta nella ripartizione dei seggi tra i partiti, in cui giocano un ruolo le percentuali di voto anche in relazione a quanto acquisito dagli altri partiti. Fatto sta che pare ormai certo: dopo 35 anni il fondatore della Lega sarà escluso dal Parlamento italiano. Un’amara parabola che era francamente difficile da prevedere: Bossi era il capolista del plurinominale per la Camera a Varese, la città in cui ha fondato l’allora Carroccio.

I risultati delle elezioni Lo Speciale del Corriere Giorgia Meloni, una lunga corsa partita con l’1,96% Il Senatùr in corsa per un seggio alla Camera Il programma di Fratelli d’Italia Fiorello fa satira su Giorgia Meloni: «Ora cambia tutto, non ci saranno più tasse e pagheranno loro le bollette» Le reazioni del Cremlino ai risultati delle elezioni e alla vittoria di Giorgia Meloni: «Pronti ad accogliere chi ha atteggiamento costruttivo» Giorgia Meloni: «Mio padre in fuga. Mia madre stava per abortire, poi decise di tenermi»

Centemero, uomo chiave della Lega a trazione Salvini, guidava la lista in un’altra roccaforte, Bergamo. È vero che i numeri dei due capoluoghi pedemontani hanno seguito le sorti della Lega, ma è anche vero che in entrambi i collegi il partito ha superato il 13%. Ma non c’è nulla da fare. Non per il fondatore, non per il tesoriere, già capogruppo della Lega in commissione Finanze. Il che apre anche altri problemi: in nessun partito il tesoriere è fuori dal Parlamento. Resta tuttavia un’ultima, remota, ipotesi di ripescaggio.

La rabbia di Bossi: "Mi avevano pregato di candidarmi". Paolo Berizzi su La Repubblica il 27 Settembre 2022.

Il padre nobile fuori dal Parlamento dopo 35 anni. Raccolta firme dopo la deblacle: "Una vergogna nazionale"

Imperturbabile, è la versione ufficiale. Ma la realtà è diversa e ai suoi collaboratori più stretti l'ha fornita lui, nel pomeriggio, prima di scendere da Gemonio a Laveno-Mombello per il solito caffè post siesta: "È molto amareggiato, anzi, è inc...to". Il primo problema per Salvini, a crisi deflagrata, era il "Nord", Lombardia e Veneto in primis.

Paolo Berizzi per repubblica.it il 28 Settembre 2022. 

Imperturbabile, è la versione ufficiale. Ma la realtà è diversa e ai suoi collaboratori più stretti l'ha fornita lui, nel pomeriggio, prima di scendere da Gemonio a Laveno-Mombello per il solito caffè post siesta: "È molto amareggiato, anzi, è inc...to". Il primo problema per Salvini, a crisi deflagrata, era il "Nord", Lombardia e Veneto in primis. Adesso nel cahier de doléances della Lega c'è anche la questione Bossi: il fondatore, il patriarca. 

Fuori dal Parlamento dopo 35 più o meno gloriosi anni. Un'esclusione che, è evidente, aggrava il peso del tracollo leghista alle elezioni di domenica ed è destinata a diventare una miccia, una in più, sotto la poltrona del segretario federale. Bossi era candidato come capolista al proporzionale per la Camera a Varese, la sua città, nonché culla della Lega e del leghismo. Una posizione buona, sulla carta. Ma che non ha dato il risultato sperato dalla cabina di regia che si è occupata degli "incastri" nelle candidature. 

Al proporzionale a Varese la Lega non ha ottenuto nessun seggio: e dunque, per il Senatùr, addio Roma. Quando è arrivata l'ufficialità, come prevedibile, è iniziata la rivolta della vecchia Lega. Sotto accusa, Matteo Salvini. "È una vergogna nazionale", tuona Giuseppe Leoni che con Bossi, il 12 aprile 1984, fondò la Lega lombarda. "La brutta figura non la fa Umberto, la fa il partito. Io l'ho votato ma sono mancati i voti e il partito non ha pensato di salvarlo. Altri - aggiunge Leoni, amico personale di Bossi, sempre vicino anche nei momenti della malattia - sono stati candidati in più collegi e eletti in tutti, lui no". 

Al fuoco-amico contro i vertici leghisti si sono uniti altri ex big del Carroccio. Tra quelli che hanno alzato la voce, l'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli. Altro bossiano della prima ora. "La mancata elezione di Bossi è un simbolo della debacle della Lega". La questione, in realtà, sembra più complessa. 

A renderla pepata è stato lo stesso Bossi. Che di fronte all'esclusione ha provato a glissare. Allontanando i riflettori da se stesso per indirizzarli sulla madre di tutte le sue battaglie politiche: la questione settentrionale. "Il popolo del Nord esprime un messaggio chiaro e inequivocabile che non può non essere ascoltato", è stato il commento al voto arrivato da Gemonio. Una dichiarazione puramente "politica", che ha acceso il fronte anti-salviniano: un fronte che, da 48 ore, è diventato più compatto e determinato. 

Sulla mancata elezione, Bossi - sentito dall'AdnKronos - ha usato parole diplomatiche: "Sono contento poiché avevo deciso di non candidarmi. Mi hanno pregato e solo per il rispetto verso la militanza ho accettato". 

È chiaro che al vecchio capo non va giù di fare la figura dell'escluso che ci sperava. Quale migliore via di uscita se non mostrare, almeno di facciata, disincanto e disinteresse? Da volpe della politica, il Senatùr sa benissimo che non c'è bisogno di aggiungere altro: l'assenza sui banchi del Parlamento del fondatore della Lega - conseguenza e allo stesso tempo specchio della batosta del partito doppiato da FdI - , basta e avanza, da sola, per spingere la leadership di Salvini ancora più nell'angolo. 

Un'accelerazione nella resa dei conti iniziata ieri in via Bellerio. Per uscire dall'imbarazzo, il Capitano ha avanzato la proposta Bossi-senatore a vita (appoggiata anche dal governatore lombardo Attilio Fontana). "Sarebbe il giusto riconoscimento dopo 35 anni al servizio della Lega e del Paese. Porterò avanti personalmente questa proposta". 

Malumori placati? Neanche un po'. Per i leghisti della prima ora Salvini è e resta il responsabile del tracollo della Lega. La svolta nazionalista-sovranista impressa al partito - a scapito del Nord - non è mai stata digerita. E adesso c'è chi presenta il conto a Salvini. Ancora Castelli: "La Lega nazionale e centralista è finita. Salvini si vanta di avere il secondo gruppo parlamentare ma mi chiedo: a cosa serve?, non farai nulla per il Nord. L'autonomia non ha fatto un progresso e la gente non se lo scorda". 

Frecciate anche da Paolo Grimoldi, ex segretario del movimento regionale. Che a Salvini chiede "maggior rispetto per le persone, per il territorio e per la nostra storia". Grimoldi ha annunciato una raccolta firme per chiedere il congresso lombardo della Lega ("se chiedere democrazia, confronto e rappresentanza è una colpa, mi dichiaro colpevole"). Lo stesso accade in Veneto. La base è in subbuglio. Sullo sfondo, pare di cogliere il ghigno del Senatùr.

Bossi eletto in Lombardia. Calderoli: "Errore del Viminale, è in Parlamento". Salvini polemico: "Parole al vento". La Repubblica il 28 Settembre 2022.

Bossi sembrava escluso dal Parlamento, dopo 35 anni. Ma sul sito del Viminale il fondatore della Lega risulta eletto nel collegio plurinominale di Varese

Per il militanti della Lega, era stata vissita come la fine di un'epoca. Ma soprattutto il simbolo della crisi del partito, crollato così tanto nei consensi elettorali da travolgere anche il suo fondatore. Proprio nello stesso giorno in cui un altro leghista della prima ora come Roberto Maroni lanciava la sfida: "E' ora di un nuovo segretario". La sorpresa era arrivata in una Lombardia in cui Fratelli d'Italia ha doppiato il Carroccio: Umberto Bossi fuori dal Parlamento dopo 35 anni. Adesso, il nuovo ribaltone. No, il Senatur è stato eletto. Anche se, questa volta, il suo posto sarà alla Camera.   

E questa non è l'unica sorpresa. Dopo gli ultimi conteggi del ministero dell'Interno, anche Giulio Centemero, tesoriere della Lega, risulta ora eletto in Lombardia.

Salvini e l'elezione di Bossi: "Tutte parole al vento"

Il segretario della Lega Matteo Salvini, che ieri si era dichiarato pronto a proporre il nome di Bossi come senatore a vita, parte subito all'attacco: "Il Viminale riconta le schede e corregge degli errori: Umberto Bossi è eletto in Lombardia. Quante parole al vento", scrive.

Elezioni, perché Umberto Bossi ora compare tra gli eletti

La conferma arriva da Eligendo, il sito del Viminale dedicato alle elezioni del 25 settembre. Ieri, Umberto Bossi non c'era. Ma oggi il fondatore della Lega risulta eletto nel collegio plurinominale di Lombardia 2 (Varese). L'aggiornamento della ripartizione dei seggi proporzionali della Camera dei deputati in alcuni collegi plurinominali (è il caso di quello di Bossi a Varese, che solo oggi appunto appare tra gli eletti) viene pubblicato sul sito "anche a seguito di indicazioni fornite dall'Ufficio Elettorale Centrale Nazionale presso la Corte di Cassazione".

E' quanto precisa il Dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero dell'Interno. "Resta invariato - spiega il Dipartimento - il dato relativo al totale dei seggi attribuiti, a livello nazionale, a tutte le coalizioni e alle liste della Camera dei deputati, anche per i collegi uninominali, nonché la ripartizione dei seggi relativa al Senato della Repubblica.

Bossi in Parlamento, Calderoli: "Un errore del Viminale"

Il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, l'uomo dei numeri della Lega, dice: "Il ministero dell'Interno nell'attribuzione provvisoria dei seggi dei collegi plurinominali ha preso un granchio clamoroso. Non lo dico per contestarli, ma solo perché in autotutela, fino a quando il dato non diviene definitivo, possano ancora correggerlo. In base alla corretta applicazione della legge, se questo errore venisse corretto, allora Umberto Bossi tornerebbe in Parlamento. E comunque questa mia osservazione viene confermata tra l'altro dal verbale di domenica 4 marzo 2018 delle operazioni dell'ufficio elettorale nazionale della Cassazione, basta andare a vederlo".

Calderoli è entrato anche nel dettaglio e ha spiegato che cosa sarebbe successo. "Tutto è corretto fino all'attribuzione dei seggi delle coalizioni a livello nazionale, ovvero sulla base della cifra elettorale nazionale di coalizione dei partiti che abbiano superato l'1%. L'errore nasce dal passaggio successivo dove la cifra elettorale di coalizione nella circoscrizione deve comprendere anche i partiti che hanno superato l'1% anche quando questi non hanno raggiunto il 3% perché questo dice la legge, cosa che loro non hanno fatto sottraendo già a livello circoscrizionale la lista di '+Europa', creando una serie di seggi deficitari che coinvolgono 13 circoscrizioni su 28".

Elezioni, il messaggio di Bossi dopo il crollo della Lega: "Il popolo del Nord va ascoltato"

Lo stesso Bossi aveva fatto sapere di essere contento di non essere stato eletto. Perché lui, in realtà, non avrebbe voluto candidarsi, ma visto che glielo hanno chiesto - "Mi hanno pregato" -, lo ha fatto per "rispetto della militanza". Contento, fino a un certo punto. Certo, Bossi non sarà legato al posto che lascia in Parlamento ma alla Lega sì, e della batosta elettorale non è certo soddisfatto. Anzi. L'avviso lanciato non cambia. Dalle urne, ha detto, è arrivato un messaggio "chiaro e inequivocabile" e "il popolo del Nord" che ha lanciato questo messaggio "va ascoltato". Quello del Nord appunto, non della Lega nazionale progetto di Matteo Salvini.

(ANSA il 26 settembre 2022) - A Sesto San Giovanni, nella ormai ex Stalingrado d'Italia, Isabella Rauti ha vinto la sfida per il Senato al collegio uninominale dove ha ottenuto il 45,4% dei voti contro il 30.80 di Emanuele Fiano. Un successo schiacciante per l'esponente di Fdi, figlia di Pino ex segretario del Msi, fra i fondatori della Fiamma tricolore rispetto all'ormai ex deputato Pd, figlio di Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz. Sempre al Senato in Lombardia un'altra esponente di Fdi ha sconfitto un esponente del Pd: a Cremona la coordinatrice regionale Daniela Santanché ha ottenuto il 52,17% dei voti contro il 27,3% di Carlo Cottarelli.

Elezioni, Viminale aggiorna i seggi dopo gli errori: cos'è cambiato. Il Tempo il 28 settembre 2022

Umberto Bossi non lascia il Parlamento. L'esclusione storica del Senatur, che sembrava certa dopo il primo conteggio dei seggi, viene invece smentita dai riconteggi imposti dall'Ufficio elettorale centrale nazionale della Corte di Cassazione. Il quale fornisce indicazioni al Viminale per procedere a un aggiornamento della ripartizione dei seggi proporzionali della Camera dei deputati in alcuni collegi plurinominali. Invece "Resta invariato il dato relativo al totale dei seggi attribuiti, a livello nazionale, a tutte le coalizioni e alle liste della Camera dei deputati, anche per i collegi uninominali, nonché la ripartizione dei seggi relativa al Senato della Repubblica", spiega il ministero dell'Interno, che pubblica sul proprio sito Eligendo i nomi dei nuovi eletti.

Il caso di Bossi è certamente il più eclatante. L'"errore" nel collegio di Varese viene preannunciato dal senatore leghista Roberto Calderoli e poi confermato dal sito del Viminale. "Quante parole al vento", commenta il leader del Carroccio Matteo Salvini, che incassa anche l'elezione del tesoriere del partito Giulio Centemero nel plurinominale di Bergamo. Ma il rimescolamento dei seggi riguarda molti altri collegi da nord a sud e sconta anche il cosiddetto 'effetto flipper', che fa subentrare nuovi candidati a quelli di una stessa lista eletti in altri collegi.

A farne le spese, tra gli altri, c'è Lucia Annibali, deputata uscente di Italia viva e avvocato divenuta simbolo della lotta alla violenza contro le donne: candidata nel collegio Toscana 03 per il terzo polo, perde il seggio a favore del candidato Pd Marco Simiani. In Molise salta invece l'elezione di Caterina Cerroni del Pd, a cui in un primo momento era stata assegnata la vittoria: la presidente nazionale dei giovani dem, tra i capilista under 35 voluti dal segretario Enrico Letta, cederà lo scranno a Elisabetta Lancellotta, candidata di Fratelli d'Italia. In Campania entra Francesco Emilio Borrelli dellAlleanza Verdi Sinistra al posto di Guido Milanese (FI).

Novità anche nel Lazio 1, dove Marianna Madia, seconda nel listino dopo Nicola Zingaretti risulta adesso eletta. L'ex ministra della Funzione pubblica, però, conquista anche il collegio Lazio 2 dove, da regolamento, scatterà il suo seggio perché il Pd ha preso meno voti. A essere eletto, quindi, dovrebbe essere il segretario del Pd Roma Andrea Casu. Un seggio passa invece dal Pd al Movimento 5 Stelle in Calabria, dove salta l'elezione della deputata dem uscente Enza Bruno Bossio a favore del candidato del M5S Riccardo Tucci.

Cambia il quadro degli eletti anche nel collegio plurinominale in Umbria: Emma Pavanelli del M5S e Catia Polidori di FI entrerebbero al posto rispettivamente di Pierluigi Spinelli (Pd) e Chiara La Porta (FdI). Nella circoscrizione Abruzzo, il candidato di Azione nel plurinominale alla Camera, Giulio Sottanelli, conquista il seggio inizialmente assegnato a Stefania Di Padova, candidata al secondo posto nella lista del Pd. Critica la posizione di +Europa, che già nei giorni scorsi aveva chiesto pubblicamente un riconteggio delle schede: "Le notizie di queste ultime ore, con il balletto di eletti annunciati e poi corretti dal Viminale", osserva il coordinatore della segreteria Giordano Masini, "conferma le nostre riserve e le nostre perplessità su quanto sta avvenendo attorno al conteggio dei voti".

I voti di +Europa rimasta fuori non sono stati redistribuiti: cosa c’è dietro il «pasticcio» dei conteggi sbagliati. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022

L’errore? È saltato un passaggio cruciale della procedura. La coalizione riceve i consensi presi da chi, sotto la soglia del 3%, ha superato l’1% 

L’errore del Viminale è macroscopico, il caos nell’assegnazione dei seggi è totale. Il meccanismo che ha fatto rientrare Umberto Bossi a Montecitorio coinvolge infatti quasi la metà delle 28 circoscrizioni elettorali della Camera.

Tradotto: c’è in ballo il destino di circa trenta candidati alla Camera, vittime dell’errore di ripartizione dei seggi al proporzionale. Un po’ come in una lotteria. Che a Montecitorio ridisegnerà la mappa degli scranni degli onorevoli. Soltanto alla Camera, però, al Senato c’è un altro meccanismo di assegnazione (è su base regionale).

Attenzione: non c’è qualche partito che guadagna seggi e qualcun altro che ne perde. Il numero dei seggi distribuiti a livello nazionale a ciascun partito è rimasto invariato, in questa prima parte non sono stati fatti errori. La questione riguarda il secondo passaggio della divisione, quello, appunto, che coinvolge il destino dei singoli deputati.

Per capire: Umberto Bossi è rientrato grazie a due seggi riattribuiti alla Lega in Lombardia. Ma questo vuol dire che ci sono due leghisti appena nominati — uno in Emilia e l’altro in Sicilia — che dovranno dire addio alla poltrona di Montecitorio.

Ma come è potuto succedere questo? In sintesi lo abbiamo già detto: è stata sbagliata la ripartizione dei seggi. In termini tecnici funziona così: questa legge elettorale prevede che quando un partito dentro una coalizione prende più dell’1% delle preferenze e meno del 3% (la soglia di ingresso in Parlamento) i suoi voti debbano essere ripartiti dentro la sua coalizione.

Bene: questo secondo passaggio non è stato fatto. L’unico partito che si trovava in questa condizione era +Europa, ma la mancata ripartizione dei suoi voti non è rimasta circoscritta al centrosinistra. Ha innescato una reazione a catena in tutti i partiti.

Adesso è da +Europa che si leva la protesta: non hanno raggiunto il 3%, hanno chiesto il riconteggio rivendicando errori. «Il balletto del Viminale conferma le nostre perplessità, i dati del Viminale sono ufficiosi e il conteggio ufficiale avviene presso le Corti d’Appello», dice Riccardo Magi, presidente del partito.

Ma i «pasticci» non sembrano ancora finiti. Ci sarà da risistemare pure la questione dei subentri ai leader nei collegi plurinominali. Anche qui, un esempio per capire: Silvio Berlusconi ha vinto cinque collegi e ha deciso di cederne quattro ai suoi. Con un dettaglio: questa volta non possono essere i leader a decidere. Ci deve pensare un algoritmo.

Luigi Cesaro va ai domiciliari ma non è mai andato a giudizio: “Sono innocente e lo dimostrerò”. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Ottobre 2022 

La XVIII legislatura della Repubblica Italiana è giunta al capolinea. Oggi è la data spartiacque tra il vecchio e il nuovo governo. Per Luigi Cesaro, storico esponente dei berlusconiani in Campania, è una data che significa molto di più. Non rieletto, Cesaro da oggi non ha più lo scudo dell’immunità parlamentare e quindi gli potrà essere applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari che da tempo la Procura Antimafia ha pronta per lui. Il reato? Concorso esterno in associazione mafiosa.

Una fattispecie di reato molto ambigua e fumosa già per sua stessa natura, più volte al centro di riflessioni sulla validità di una contestazione che non ha un’autonoma collocazione nel codice penale ma si presenta come un concorso nel concorso, una sorta di forzatura per dire che una persona è mafiosa anche se non lo è e per ipotizzare che con i suoi comportamenti possa aver aiutato i mafiosi. Insomma, una costruzione accusatoria che compare spesso nelle inchieste a carico di politici ma non altrettanto spesso trova poi conferma in sede processuale. Ad ogni modo, al di là di valutazioni di merito Luigi Cesaro è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e per quest’accusa è destinatario di una misura cautelare agli arresti domiciliari che adesso dovrà essere applicata.

Luigi Cesaro è intenzionato a costituirsi: lo farà tra sabato e lunedì. La misura cautelare in questione risale a circa due anni fa e gli avvocati del collegio di difesa (i penalisti Alfonso Furgiuele e Michele Sanseverino) l’hanno già impugnata sia sul piano della gravità indiziaria sia su quello dell’attualità delle esigenze cautelari, attualità che mancherebbe trattandosi di un provvedimento ormai datato per fatti ancor più datati. Del resto, non sembrerebbe attuale nemmeno il pericolo di fuga o quello di reiterazione del reato dal momento che Cesaro non ricopre incarichi politici come quelli per i quali è finito sotto la lente della Procura. E c’è poi un’altra particolare circostanza della storia giudiziaria di Luigi Cesaro: la Procura ha provato ad arrestarlo più di una volta, forse addirittura in quattro o cinque casi negli ultimi anni, chiedendo ogni volta misure cautelari che il Riesame annullava e di cui la Cassazione confermava l’annullamento con conseguente archiviazione dell’inchiesta.

Risultato? Finora Cesaro non è mai stato rinviato a giudizio, non ha subìto processi se non quelli mediatici e uno per fatti dell’80 conclusosi in Appello con una sentenza di assoluzione. Adesso Luigi Cesaro, per molti Giggino ‘a purpetta, si appresta ad affrontare un nuovo capitolo di vita personale e giudiziaria. Non a caso a giugno scorso annunciò la scelta personale di non ricandidarsi alle ultime elezioni. «Il senatore – spiegano gli avvocati Furgiuele e Sanseverino – intende infatti confrontarsi direttamente ed esclusivamente con l’autorità giudiziaria confidando di poter contribuire all’accertamento dei fatti per i quali è stato accusato, per dimostrare in tempi brevi la propria innocenza».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Virologi, sportivi e ripescati. Gli esordienti e i veterani del Parlamento "ridotto". Magistrati, sindacalisti, parlamentari al primo mandato e vecchie guardie. Ex ministri del governo Draghi ripescati al proporzionale. Ma anche attori e drammaturghi, campioni dello sport. Virologi. Lodovica Bulian il 28 Settembre 2022 su Il Giornale.

Magistrati, sindacalisti, parlamentari al primo mandato e vecchie guardie. Ex ministri del governo Draghi ripescati al proporzionale. Ma anche attori e drammaturghi, campioni dello sport. Virologi. Eccolo il nuovo Parlamento a dimensione ridotta - 400 deputati e 200 senatori -, dove tra i veterani di palazzo c'è spazio per esponenti della società civile. Su 147 eletti all'uninominale alla Camera, sono 45 le donne, circa il 30%. Al Senato sono 33, il 44%.

Fanno rumore grandi esclusioni ma anche new entry. Tra gli eletti contiamo almeno quattro magistrati. Uno è in lizza, dopo esserlo già stato per il Quirinale, per fare il ministro della Giustizia: Carlo Nordio, ex pm ora in pensione, è stato eletto alla Camera nel collegio uninominale di Treviso. Era già stato il candidato da Fratelli d'Italia nella partita per il Colle. Con il Movimento cinque stelle ci sono i due ex super procuratori antimafia Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato, eletti nel listino bloccato. Nel centrodestra c'è Simonetta Matone, ex magistrato e già capogruppo della Lega in Campidoglio. Dal mondo dello sport e della dirigenza sbarca in Parlamento col centrodestra l'ex presidente della Lazio Claudio Lotito, eletto al Senato nell'uninominale in Molise. C'è anche l'ex commissario tecnico della pallavolo maschile Mauro Berruto, eletto in un collegio plurinominale Piemonte col Partito democratico, dove era già responsabile sport. Eletta al Senato nel collegio uninominale di Varese con Azione - Italia viva, l'atleta paralimpica di atletica leggera Giusy Versace. Eletto alla Camera anche un altro presidente di una federazione sportiva nazionale, quella dei medici sportivi, Maurizio Casasco con Forza Italia. È anche presidente di Confapi.

Tra i virologi che hanno segnato il dibattito degli ultimi due anni di pandemia l'ha spuntata con il Pd Andrea Crisanti, eletto al Senato nella circoscrizione Estero. Ed è Youtrend a ricordare le sconfitte di sei ministri del governo Draghi: «Erano candidati nei collegi uninominali, ma di questi solo Giorgetti ha vinto. Hanno invece perso il proprio collegio uninominale Bonetti, Carfagna, Di Maio, Gelmini e Patuanelli». Sono entrati comunque in Parlamento, perché ripescati col proporzionale, a eccezione di Di Maio che è rimasto fuori.

Il Movimento cinque stelle fa il pienone al Sud. Soprattutto in Campania, da dove arrivano alcune delle nuove leve dopo la tagliola sul secondo mandato che ha lasciato fuori molti big penastellati. In tutto il bottino nella regione è di 16 deputati e 8 senatori, 24 parlamentari su 56. Tra loro il grillino Dario Carotenuto, nuova guardia ma antica conoscenza dei Cinque stelle, come membro dei meetup dal 2005. Diploma da perito informatico, bassista di una rockband americana, videomaker e già consulente per l'ufficio comunicazione del Movimento. A Torre del Greco l'ha spuntata Gaetano Amato, attore, scrittore, drammaturgo e regista teatrale. Ha sconfitto uno dei candidati big del centrosinistra, Sandro Ruotolo. Guida invece i veterani con la sua undicesima legislatura consecutiva Pier Ferdinando Casini, eletto la prima volta nel 1983 alla Camera e ora riconfermato al Senato vincendo nel collegio uninominale di Bologna con il 40 per cento contro il 32,3 ottenuto da Vittorio Sgarbi. Più «anziano» di lui solo il presidente emerito della Repubblica e senatore a vita Giorgio Napolitano. Alla settima legislatura ci sono Maria Elisabetta Alberti Casellati di Forza Italia, Adolfo Urso ed Edmondo Cirielli di Fratelli d'Italia, Giancarlo Giorgetti della Lega e Bruno Tabacci di Impegno civico. Conquistano la loro sesta legislatura Tomaso Foti, Fabio Rampelli, Giulio Tremonti e Gianfranco Rotondi con Fratelli d'Italia. Con loro il segretario del Pd Enrico Letta, con i colleghi di partito Piero Fassino e Dario Franceschini.

Approdano in parlamento col centrosinistra le due ex segretarie nazionali di Cgil e Cisl, Susanna Camusso e Annamaria Furlan.

La spunta grazie al listino proporzionale Abubakar Sounahoro, il sindacalista di origini ivoriane che si batte per i diritti dei braccianti: «Il nostro comune sogno entra in Parlamento. Grazie di cuore», ha esultato via Twitter. Con Ilaria Cucchi era fra i candidati più in vista della lista Verdi-Sinistra italiana. Tra lei, eletta in Senato, e l'ex segretario del Sindacato autonomo di polizia Gianni Tonelli, riconfermato alla Camera con la Lega, dopo che nelle aule giudiziarie ora sarà scontro anche in Parlamento, quanto meno perché in opposti schieramenti.

Elezioni, i promossi. Da Berlusconi a Ilaria Cucchi (e una pattuglia di veterani). Claudia Voltattorni su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2022.  

C’è chi torna dopo tanti anni e chi entrerà per la prima volta. Nella diciannovesima Legislatura a guida centrodestra che vede una drastica riduzione del numero dei parlamentari, passati da 945 (630 alla Camera, 315 al Senato) agli attuali 600 (400 + 200) sono numerosi però i veterani del Parlamento, soprattutto nel centrodestra. Uno su tutti Silvio Berlusconi, vincitore nella sfida diretta a Monza per un seggio al Senato, che torna per la settima volta e dopo 9 anni di assenza. Molte però anche le riconferme soprattutto tra i big, capolista in diversi collegi. Numerose anche le new entry. 

New entry Tra queste la romana Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, picchiato e ucciso poco dopo l’arresto nel 2009. Candidata con Alleanza Verdi-Sinistra al Senato nel collegio uninominale di Firenze batte la candidata del centrodestra Federica Picchi (Fratelli d’Italia). Riesce ad entrare anche il suo compagno di lista Aboubakar Soumahoro, sindacalista ivoriano 42enne naturalizzato italiano. Prima volta anche per Lavinia Mennuni di Fratelli d’Italia, vincitrice a Roma contro gli ex alleati Emma Bonino e Carlo Calenda. Sempre a Roma ottengono il loro primo seggio alla Camera i dem Nicola Zingaretti, governatore della regione Lazio, e Michela Di Biase, consigliera regionale e moglie del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini (che va al Senato).

Per il centrosinistra debuttano al Senato anche le due ex leader di Cgil e Cisl Susanna Camusso e Annamaria Furlan. Prima volta a Montecitorio poi per Rita Dalla Chiesa, vittoriosa in Puglia con Forza Italia. Sconfitta alle ultime comunali a Roma, Simonetta Matone riesce però ad entrare alla Camera con la Lega.

Ex ministri e presidenti In bilico fino all’ultimo momento invece le ministre uscenti del governo Draghi. Elena Bonetti, ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia e candidata di Italia Viva, torna alla Camera. Con lei anche Mara Carfagna, ministra uscente del governo Draghi che rimane in Parlamento grazie al ripescaggio nel plurinominale. Nella sfida diretta nell’uninominale al Senato a Napoli, l’ex ministra di Forza Italia ora in Azione ha perso contro l’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa (M5S), ma anche contro Piero De Luca, figlio del governatore della Campania Vincenzo, che grazie al plurinominale torna a Montecitorio per la seconda volta. Anche Mariastella Gelmini rimane in Parlamento, ma al Senato. Come la sua collega di partito (entrambe hanno corso per Azione), rientra grazie al plurinominale, avendo perso la sfida diretta nell’uninominale al Senato contro Giulio Terzi di Sant’Agata. L’ex ministro degli Esteri del governo Monti, candidato con Fratelli d’Italia, torna a Palazzo Madama grazie al 60,28% dei voti ottenuti nel collegio uninominale di Treviglio (Bergamo), dove Gelmini è arrivata terza.

Un altro ritorno è quello di Marcello Pera, 79 anni, ex presidente del Senato nel governo Berlusconi, ha vinto in Sardegna con Fratelli d’Italia. Vittoria al Senato quasi all’ultimo voto per un altro ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, che a Bologna con il Pd ha sconfitto Vittorio Sgarbi, candidato con il centrodestra e si appresta a cominciare la sua undicesima legislatura consecutiva. Alla Camera torna anche il suo ex collega di partito nell’Udc Lorenzo Cesa, eletto con il centrodestra in Molise.

E alla Camera ritroverà Bruno Tabacci, eletto per la settima volta a Milano con Impegno Civico, e Giulio Tremonti, sconfitto nella sfida diretta con Benedetto Della Vedova ma poi recuperato nel plurinominale, è alla sesta legislatura. A Milano per il Pd vince Antonio Misiani che andrà al Senato. In Molise vince anche il patron della Lazio Claudio Lotito (Forza Italia) che debutterà in Senato.

Riconferme Confermate anche in questa legislatura Daniela Santanché (Fdi), vittoriosa a Cremona contro l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli (Pd) però ripescato al Senato grazie al listino proporzionale, e Michela Vittoria Brambilla, rieletta alla Camera in Sicilia come indipendente nel centrodestra. La figlia dell’ex Msi Pino Rauti, Isabella Rauti (Fdi) vince al Senato nella sfida diretta contro il dem Emanuele Fiano, figlio del deportato ad Auschwitz Nedo, che resta fuori dal Parlamento. Seggio al Senato per l’ex presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati (FI). In Sicilia con Forza Italia vincono anche la compagna di Berlusconi Marta Fascina e Stefania Craxi, mentre il fratello Bobo resta fuori. Per il centrosinistra riconfermati alla Camera, oltre ai big Enrico Letta, Andrea Orlando, Lorenzo Guerini, Roberto Speranza, anche Laura Boldrini e Piero Fassino, alla sua settima legislatura. Passano al Senato Beatrice Lorenzin e Graziano Delrio. Mentre a Torino il più votato nel collegio Piemonte 1 è Riccardo Magi di +Europa.

Elezioni politiche 2022, i risultati: chi entra e chi esce dal nuovo Parlamento. Il Tempo il 26 settembre 2022

Silvio Berlusconi torna al Senato, Luigi Di Maio fuori dalla Camera, Ilaria Cucchi, Claudio Lotito, Rita Dalla Chiesa e Andrea Crisanti al debutto in Parlamento. A scrutinio ormai quasi chiuso si compongono le pagelle dei candidati promossi e bocciati alle elezioni politiche. Si inizia con un grande ritorno, quello del leader di Forza Italia a palazzo Madama. Il Cav ottiene il seggio Lombardia U06, quello di Monza, conquistando oltre il 50% dei voti espressi nell'intero collegio.

Ad uscire di scena c'è invece la ormai ex senatrice Emma Bonino, battuta insieme a Carlo Calenda nel collegio uninominale di Roma centro dall'esponente di FdI Lavinia Mennuni. Tra i grandi esclusi della XIX legislatura che si appresta ad aprirsi il ministro degli Esteri e fondatore di Impegno Civico, Luigi Di Maio, sconfitto nel collegio uninominale di Napoli-Fuorigrotta dall'ex compagno di partito ed ex ministro dell'Ambiente M5S, Sergio Costa. Terza, nello stesso collegio, Maria Rosaria Rossi (centrodestra) e solo quarta la ministra per il Sud, Mara Carfagna, candidata del Terzo polo (eletta però nel collegio proporzionale della Puglia).

Fuori dal Parlamento anche tutti gli altri esponenti di Ic, a livello nazionale fermo sotto l'1%, come Vincenzo Spadafora, Lucia Azzolina e Manlio Di Stefano. Unico a spuntarla Bruno Tabacci, politico di lungo corso e sottosegretario uscente alla Presidenza del Consiglio, eletto nel collegio uninominale della Camera Lombardia 1 (Milano). Forte la delusione per Di Maio: "Non ci sono se, ma o scuse da accampare. Abbiamo perso. Gli Italiani - ammette - non hanno considerato abbastanza maturo e valido il nostro progetto politico. E su questo la nostra comunità dovrà aprire una riflessione".

Tra le forze politiche che non raggiungono la soglia del 3% anche ItalExit e Unione popolare: nessun seggio, dunque, né per Gianluigi Paragone - eletto al Senato nel 2018 con i 5 Stelle e poi espulso dal Movimento - né per l'ex magistrato ed ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Poco sotto il 3% anche +Europa, che però annuncia richiesta di riconteggio. Manca la riconferma il senatore leghista Simone Pillon: "Il mio seggio non è scattato - spiega - ma io non mi arrendo. Resto a disposizione della Lega e del centrodestra e continuerò a difendere la vita, la famiglia e i valori cristiani dove e come Dio vorrà".

Mentre a Palazzo Madama debutta Ilaria Cucchi, attivista e sorella di Stefano, il giovane ucciso a Roma nel 2009 mentre era in custodia cautelare, eletta con il 40% nel collegio uninominale di Firenze sotto il simbolo Alleanza Verdi Sinistra. La spunta anche il compagno di lista e sindacalista, Aboubakar Soumahoro, fermo in seconda posizione dopo Daniela Dondi (centrodestra) nel collegio uninominale di Modena ma ripescato nel proporzionale.

Centra l'obiettivo anche il presidente della Lazio Claudio Lotito, eletto all'uninominale per il Senato in Molise sotto il simbolo di Forza Italia. Lato centrosinistra, Pier Ferdinando Casini, candidato a Montecitorio, batte all'uninominale Vittorio Sgarbi (centrodestra) nel 'fortino' rosso di Bologna. Salvo l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti, questa volta in corsa per FdI, battuto dal segretario di +Europa Benedetto Della Vedova nel collegio uninominale di Milano per la Camera ma 'ripescato' nel proporzionale. Per +Europa, invece, l'unico altro rieletto è Riccardo Magi a Torino.

Diventa senatore Andrea Crisanti candidato come capolista del centrosinistra nella circoscrizione estero per il Senato. "Non ho mai fatto una campagna elettorale prima d'ora, sono soddisfatto di un risultato elevatissimo che non mi aspettavo", commenta il virologo a LaPresse, diventato noto durante la pandemia.

Tra i big del Pd, perdono il posto in Parlamento Emanuele Fiano - battuto da Isabella Rauti di FdI nel collegio uninominale di Sesto San Giovanni, l'ormai ex Stalingrado d'Italia - Andrea Marcucci, Stefano Ceccanti, Filippo Sensi e Monica Cirinnà. Fuori anche l'ex ministra di Iv, Teresa Bellanova. Resta in Senato, invece, la presidente Maria Elisabetta Casellati. Dalla tv a Montecitorio la conduttrice di Mediaset Rita Dalla Chiesa, candidata azzurra ed eletta deputata in Puglia.

Risultato negativo per l'economista Carlo Cottarelli, candidato per il Pd al Senato nel collegio uninominale di Cremona, dove però prevale la pasionaria di Fratelli d'Italia Daniela Santanché. L'ex 'mr. spending review' si salva però grazie al proporzionale. 

Elezioni 2022, Umberto Bossi fuori dal Parlamento: il Senatùr non è stato rieletto. Il Tempo il 27 settembre 2022

Dopo nove legislature consecutive, a partire dal 1987, lascia il Parlamento Umberto Bossi. Nell'elenco pubblicato sul sito del ministero dell'Interno il nome non c'è: nel primo collegio plurinominale della Circoscrizione Lombardia 2, dove il Senatùr era candidato come capolista, il Carroccio non ha infatti ottenuto alcun seggio e uno solo è andato alla coalizione, attribuito a Fratelli d'Italia, sempre secondo quanto risulta dal sito del Viminale. Sono 23 i candidati della Lega eletti nella quota proporzionale dei 114 che spettano al centrodestra 

Al centrodestra 235 deputati, 80 al centrosinistra: chi entra e chi esce dal nuovo Parlamento

Elezioni, +Europa resta fuori dal Parlamento. Bonino furibonda: “Ricontare i voti”. Luigi Frasca su Il Tempo il 27 settembre 2022

«Rispetto all'esito delle urne non ci sono dubbi, la nostra sarà un'opposizione netta, senza sconti e senza illusioni di eventuali moderazioni verso la destra di Salvini e Meloni». Così Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, nel corso della conferenza stampa per commentare i risultati elettorali. Sulla percentuale vicina al 3%, Della Vedova ha espresso non poche perplessità e, di concerto con Emma Bonino, ha chiesto un riconteggio dei voti. «Siamo sicuri si tratti di un errore statistico. A raggiungimento del quorum mancano circa 15.000 voti, un margine da errore statistico. Il nostro partito ha intrapreso una via precisa in una campagna politica complicata, con l'idea di fare un patto con il Pd di Letta, in concomitanza con Azione». «Nel momento in cui Azione ha deciso, incomprensibilmente, di allearsi con Renzi, abbiamo dovuto rapidamente cambiare rotta. Siamo ripartiti grazie all'energia e al carisma di Emma Bonino, oltre che di tanti giovani militanti, riconquistando giornalmente lo spazio per la nostra proposta politica», ha spiegato Della Vedova.

Per Emma Bonino «la richiesta di riconteggio è necessaria e dovuta. Piaccia o meno, in questa campagna elettorale le leggi non rispettate sono state diverse. Mi preoccupa sempre quando le leggi ci sono e chi è incaricato di attuarle semplicemente le viola. C'è chi si dispiace per il risultato, ma è tardi, e forse è anche una visione un po' ipocrita considerando quanto queste votazioni fossero scontate. Dedico tutto il lavoro che è stato fatto a Gianfranco Spadacci, un vero appassionato di Europa che, finché ha potuto, ha dato tutto il suo supporto». Chiosa finale per il presidente del partito Riccardo Magi, anche lui estremamente perplesso di fronte alla vittoria del centrodestra guidato da Giorgia Meloni: «Nel prossimo Parlamento vigileremo sui temi dello stato di diritto, sulle questioni delle libertà individuali e dei diritti civili, punti sui quali nelle ultime settimane Meloni ha cercato di far dimenticare quali siano state le sue posizioni negli anni passati. Calenda ha regalato il collegio senatoriale centrale di Roma a quella che lui stesso ha definito tra le peggiori destre europee. Questo è stato fatto in maniera consapevole e deliberata, per una candidatura che non aveva alcuna chance. Chi si vuole presentare come chi propone una politica di governo seria, dovrebbe spiegare come questo sia compatibile con un favore talmente plateale ed evidente fatto alla destra».

Vincenti & Sconfitti: ecco chi sono. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Settembre 2022.  

Di Maio sconfitto a Fuorigrotta. Crolla la Lega. Santanché doppia Cottarelli, Bonino supera Calenda ma non vince a Roma. Debacle tra i ministri del governo Draghi: hanno perso il proprio collegio uninominale Bonetti, Carfagna, Di Maio, Gelmini e Patuanelli

Il centrodestra conquista la maggioranza dei collegi uninominali, e sono tanti i casi clamorosi e i grandi esclusi: Luigi Di Maio perde la sfida diretta a Napoli Fuorigrotta con il 5 stelle Sergio Costa ed esce dal Parlamento. Nello stesso collegio era candidata anche Mara Carfagna con Azione, che però si è piazzata al quarto posto. La ministra per il Sud e la Coesione territoriale nel Governo Draghi, da poco fuoriuscita da Forza Italia, ottiene il solo il 7,10%. Probabilmente nessuno degli ex forzisti confluiti in Azione troverà posto in Parlamento. 

La Lega di Salvini crolla dal 34% delle Europee del 2019, all’8,9% alle politiche. Tutto nell’arco di appena tre anni. All’interno della Lega sembra inevitabile l’avvio di una caccia ai responsabili del tracollo di un partito che ambiva a diventare la prima forza del centrodestra e che è finito a contendersi il terzo posto con Forza Italia, travolto da un triplo di consensi ottenuti da Fratelli d’Italia. 

Debacle tra i ministri del governo Draghi: hanno perso il proprio collegio uninominale Bonetti, Carfagna, Di Maio, Gelmini e Patuanelli. Solo Giancarlo Giorgetti ha conquistato un seggio all’uninominale. La presidente del Senato uscente Maria Elisabetta Alberti Casellati è stata rieletta nel collegio per il Senato in Basilicata con il 36,10. Il presidente della Lazio, Claudio Lotito è diventato ufficialmente senatore vincendo la sfida nel collegio uninominale del Molise in cui è stato candidato dal centrodestra in quota Forza Italia. Torna in Senato l’ex presidente Marcello Pera, che nel collegio di Sassari ha vinto con il 41,3%.

L’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, leader dell’Unione Popolare è rimasto fuori: la lista non ha superato lo sbarramento fermando all’1,4%. La Campania vince il record dell’astensione: sul sito del Ministero dell’Interno, i votanti si sono fermati al 53,27% contro il 68,18 per cento del 2018. Mentre a Napoli il crollo è di ben quindici punti: ha votato il 50,78% contro il 65,34% del 2018. 

Silvio Berlusconi rientra al Senato: il presidente di Forza Italia si aggiudica il collegio uninominale di Monza, grazie alla “dote” elettorale apportata dai voti di Fratelli d’ Italia. In quanto membro più anziano, il fondatore di Forza Italia dovrà presiedere la prima seduta del nuovo Senato. Anche la “consorte” del Cavaliere, Marta Fascina, deputata uscente di Forza Italia, ha ottenuto la rielezione a Montecitorio. Piccolo particolare: è stata eletta nel collegio uninominale di Marsala con il 36,21% ma dove nessuno l’ha mai vista in campagna elettorale !

Pier Ferdinando Casini la spunta a Bologna, su Vittorio Sgarbi nell’uninominale al Senato. A Cremona Daniela Santanché vince nella sfida diretta per l’uninominale al Senato con l’economista Carlo Cottarelli candidato del centrosinistra. Altro sconfitto illustre Giulio Tremonti ex-ministro del Governo Berlusconi, candidato del centrodestra nel collegio uninominale la Camera a Milano centro, a cui non è bastato il 30,37%, venendo sconfitto da Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, che ha conquistato il 37,84% dei voti. Eletto nel Veneto l’ex magistrato Carlo Nordio candidato per Fratelli d’ Italia.

Stefania Craxi, figlia del defunto leader del Partito Socialista italiano Bettino, vince il derby elettorale con il fratello Bobo giocato in terra siciliana. La presidente uscente della commissione Esteri del Senato, schierata dal centrodestra nella sfida uninominale di Gela, ha prevalso sul senatore uscente del Movimento 5 stelle Pietro Lorefice, mentre suo fratello, finisce terzo dietro a Carolina Varchi (centrodestra) e Aldo Penna (M5s), dopo aver colto la difficile battaglia alla Camera nel collegio Palermo-Resuttana-San Lorenzo. 

Il centrodestra ha vinto anche in Puglia anche se il partito più votato (grazie alla strenua difesa del Reddito di Cittadinanza) è stato il Movimento Cinque Stelle, che ha eletto un solo deputato nell’uninominale a Foggia, supera il 33 per cento nel collegio in cui era candidato il presidente  crolla invece il Pd. Al Il secondo posto Fratelli d’Italia con 24,55 per cento, e solo dopo c’è il Pd che non va oltre il 16 per cento.

Ci sono i leader Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Giuseppe Conte tra i neo deputati eletti nei collegi plurinominali di Camera e Senato in Puglia. Per Fratelli d’Italia tra i deputati ci sono l’eurodeputato Raffaele Fitto, il coordinatore regionale del partito Marcello Gemmato e Giandonato La Salandra, eletti nei collegi plurinominali della Camera dei deputati Puglia 4, 3 e 1. Il quarto seggio relativo del collegio Puglia 2 è della Meloni.

ELEZIONI CAMERA 2022 RISULTATI REGIONE PUGLIA 

In Puglia il centrodestra ha conquistato anche tutti i collegi uninominali per la Camera, con l’unica vittoria, come si diceva, del pentastellato Pellegrini. Ottengono il seggio Rita Della Chiesa ( Molfetta) , Davide Bellomo (Bari), Mauro D’Attis (Brindisi), Giandiego Gatta (Foggia-Cerignola), Saverio Congedo (Lecce), Mariangela Matera (Andria), Rossano Sasso ( Altamura), Dario Iaia (Taranto), Alessandro Colucci (Lecce –Galatina). Al Senato tutti i seggi dell’uninominale sono andati al centrodestra. Andranno a Roma Francesco Paolo Sisto per il collegio di Andria, Filippo Melchiorre (collegio di Bari), Vita Maria Nocco ( Taranto), Roberto Marti (Lecce),  Anna Maria Farlucchi (Foggia ).

ELEZIONI SENATO 2022 RISULTATI REGIONE PUGLIA 

Forza Italia sarà rappresentata dal commissario regionale Mauro D’Attis e il presidente del consiglio comunale di Barletta, Marcello Lanotte per i collegi Puglia 4 e 1. Con la Lega scatta Salvatore Di Mattina nel collegio Puglia 4. Il M5S elegge nel collegio plurinominale Puglia 1 il presidente Giuseppe Conte e Carla Giuliano, nel collegio 2 l’ex senatore Giammauro Dell’Olio, nel Puglia 3 Pasqua L’Abbate, nel Puglia 4 Leonardo Donno.

Bocciata a Bari la scienziata Luisa Torsi, candidata sostenuta dal Sindaco di Bari Decaro che è arrivata dopo il grillino Alberto De Giglio, così come sino rimasti appiedati a Cerignola l’assessore di Emiliano Raffaele Piemontese e a Molfetta l’ex sindaco di Bitonto Michele Abbaticchio. A Taranto Giampiero Mancarelli, presidente dell’ AMIU Taranto (la società municipalizzata per la nettezza urbana) che sperava di essere eletto sfruttando la scia del sindaco Melucci rieletto da soli tre mesi (entrambi esponenti del Pd), è rimasto appiedato.

Tra i big del Pd, perdono il posto in Parlamento Emanuele Fiano, Andrea Marcucci, Stefano Ceccanti, Filippo Sensi e Monica Cirinnà. Fuori anche l’ex ministra di Iv, Teresa Bellanova.

Solo nei due collegi leccesi,  l’assessore regionale Sebastiano Leo (civico) , e l’assessora regionale  Maria Grazia Maraschio, si sono classificati secondi. Redazione CdG 1947

Elezioni, Bellanova non eletta: «La mia esperienza parlamentare finisce qui». «Ma c'è ancora spazio per la buona politica». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Settembre 2022.

«Grazie a tutte e a tutti quelli che con me e con noi in queste settimane ci sono stati. La mia esperienza parlamentare si ferma qui, ma so bene, me lo insegna la mia storia, che lo spazio per la buona politica è dovunque, basta solo avere voglia ed esigenza di praticarlo». È il messaggio su Twitter con cui la senatrice di Italia viva Teresa Bellanova, viceministra delle Infrastrutture, conferma di non essere stata eletta nel collegio plurinominale per il Senato in Puglia, dove era capolista per il Terzo polo.

Elezioni, Lopalco: «Sapevo che mia vittoria era impossibile». L'epidemiologo sconfitto nell’uninominale del Senato in Salento. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Settembre 2022.

«Il momento delle elezioni politiche è l’espressione più alta della democrazia di un Paese. E grazie alla democrazia abbiamo regole del gioco che liberamente abbiamo scelto di accettare. Sono fiero di aver accettato una sfida difficilissima in un collegio uninominale pur sapendo che, sulla base dei sondaggi di opinione, la vittoria sarebbe stata impossibile». Lo dichiara l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, candidato con il centrosinistra nel collegio uninominale del Senato in Salento. Lopalco è stato superato dal leghista Roberto Marti. «Perché al gioco della politica - prosegue - bisogna partecipare non per vincere, ma per testimoniare e far valere il proprio bagaglio di valori. Sia ben chiaro: la vittoria non fa schifo a nessuno. Ma sono convinto che in questo caso la mancata vittoria non sia da ascrivere ad una sconfitta dei valori che abbiamo testimoniato, quanto ad una serie di errori strategici nel campo delle alleanze e delle coalizioni. Non credo che oggi l'Italia si sia svegliata «di destra».

Semplicemente, sulla base delle regole del gioco di queste elezioni, si troverà ad essere governata dalla destra che si è presentata sul campo unita contro un fronte di centrosinistra come al solito diviso e litigioso. Nel mio piccolo sono fiero del lavoro fatto. Della fatica di questa campagna elettorale breve ed entusiasmante. Della squadra che mi ha accompagnato e sostenuto, in primis le compagne ed i compagni di Articolo Uno». «Il mio più grosso cruccio - conclude - è la consapevolezza che la sinistra del nostro Paese non riesca più a parlare a chi non ha lavoro, a chi ha difficoltà ad arrivare a fine mese, a chi è costretto a chiudere la propria attività».

Pier Ferdinando Casini, "senza aver mai faticato...": cosa sa Vittorio Feltri. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 16 ottobre 2022.

Pier Ferdinando Casini è il nonno del Parlamento, sebbene non abbia ancora l'età per coccolare i nipotini. Il fatto è che siede su una poltrona del potere politico da quarant'anni e non c'è verso di fargli cambiare mestiere, forse perché non è idoneo, o non ha voglia di svolgerne un altro. Egli è nato democristiano, è cresciuto come tale, e, quando lo scudocrociato è defunto tra le braccia di Mino Martinazzoli, Pier Ferdinando non si è scomposto. Ha semplicemente mutato braccia, finendo tra quelle di Silvio Berlusconi, il quale lo ha accolto amorevolmente. Cosicché Casini è rimasto legato a doppio filo con il potere, sempre in auge, come si conviene a un carrierista di talento. A me l'uomo non è antipatico, tutt'altro, eppure devo ammettere che il soprannome che gli hanno attribuito, Pierfurbi, è azzeccato in pieno. Invecchiare a Montecitorio è operazione che soltanto a un campione dell'opportunismo può riuscire. Il suo primato di permanenze nelle aule magne dello Stato difficilmente potrà essere raggiunto da qualcun altro.

FUORICLASSE

Casini, parliamoci chiaro, è un fuoriclasse della resistenza, non quella degli antifascisti - puri dilettanti - bensì quella dei grandi amanti del dolce far niente. Infatti è noto che a Montecitorio e a Palazzo Madama la vita è comoda, non comportando fatiche e neppure impegno. Non ho mai visto un deputato o un senatore madido di sudore. Oddio, anche i parlamentari hanno i loro problemi, il maggiore si presenta circa ogni cinque anni, quello di non perdere la cadrega allo scopo di continuare a mantenere il posto privilegiato, che non garantisce ricchezza ma preserva dalla povertà. Non è molto, tuttavia al confronto del reddito medio degli italiani la paga non è nemmeno misera. La grandezza di Pier Ferdinando è tutta qui. Egli è stato in grado per tutta quanta l'esistenza di evitare con cura di lavorare, cosa che riesce a pochi cristiani. E pensare che ha frequentato con successo il liceo classico e la facoltà di giurisprudenza conseguendo una brillante laurea.

Ciò gli avrebbe consentito di trovarsi un impiego non banale, però se ne è guardato bene dal farsi assumere da una azienda qualsivoglia, investendo la sua preparazione nell'arrampicata nei partiti, attività che ha condotto con immensa bravura, benché non sia mai andato oltre la presidenza della Camera. Meglio che niente. Egli nel compiere giravolte e salti mortali è un maestro ineguagliabile. Pensate, dopo essere passato dallo Scudo crociato a Forza Italia senza fare una piega, vista la malaparata si è successivamente trasferito a sinistra dove ha trovato un alloggio confortevole che gli garantisce di non spegnersi e di ricevere ancora l'indennità spettante agli onorevoli. Recentemente, cioè alle ultime elezioni, Casini (nomen omen) ha superato addirittura Vittorio Sgarbi, sulla cui intelligenza c'è poco da dubitare. Dunque il nostro eroe si è assicurato per altri cinque anni un portafogli non disprezzabile. La conferma che la sua astuzia è fuori discussione. Se non sbaglio, il nostro paladino ha 69 anni, se la sua salute tiene, come gli auguriamo, potrà resistere altre due o tre legislature, assodato che per lui prendere voti a secchiate è come per noi bere un caffè.

RECORD

È già avviato a battere tutti i record di longevità politica, quindi non correrà il rischio di imparare un mestiere vero per vivere decentemente, anche in considerazione del fatto che ha diritto alla pensione di deputato di lungo corso, la quale è tutt' altro che povera. Pierfurbi comunque mi piace, quantunque in una circostanza mi abbia inutilmente querelato, nel senso che la causa è stata bloccata. Si era offeso a morte poiché, quando fu eletto presidente della commissione parlamentare che doveva indagare sui pasticci del Monte dei Paschi di Siena, non cavò un ragno dal buco, e io glielo feci notare. Si infuriò con me, poi si placò. Adesso egli tira a campare e campa non malaccio. Ha avuto due mogli e da entrambe ha divorziato. Per un cattolico, pure questo è un risultato da non sottovalutare.

Vittorio Feltri: "Perché il Pd ed Enrico Letta hanno perso". Libero Quotidiano il 29 settembre 2022

Perché il Pd ha perso le elezioni? Vittorio Feltri, ospite di Barbara Palombelli in collegamento con Stasera Italia su Rete 4 ha le idee chiarissime: "Penso che il Partito democratico si sia impegnato soprattutto per la lotta dell'affermazione di determinati diritti civili e abbia completamente dimenticato la realtà italiana, e questo è evidentemente danneggiato il partito di Enrico Letta. Poi il Pd ha molto insistito su questioni del tutto marginali: il politicamente corretto, il conformismo politico e non solo politico, un atteggiamento da parte del Pd che non ha certamente incontrato il favore del grande pubblico italiano".

Una riflessione che trova d'accordo, sorprendentemente, anche Alan Friedman: "Parlare di Ius scholae e questioni di gay non è attraente per la gran parte dell'elettorato". "A me - ha aggiunto il giornalista americano, ormai italiano d'adozione - i diritti civili importano e vorrei sperare che la Meloni è sincera quando dice che non vuole toccare la legge 194 (la legge sull'aborto che la leader di Fratelli d'Italia ha più volte smentito di voler cambiare, ndr). Io spero che i diritti dei gay non saranno trattati come ha descritto Mollicone, che ha detto che una coppia omosessuale è illegale. Io spero che ci sarà una conservazione dei diritti civili".  

Ovviamente, ma questo Friedman lo ammette en passant (ed è già una mezza sorpresa), a pesare in senso negativo è stata anche la furiosa e martellante campagna sul "pericolo fascista". Un "al lupo al lupo" che rientra a pieno titolo con il "politicamente corretto" di cui parlava Feltri.

Il lato sinistro di Giuseppi. Tommaso Cerno su L’Identità il 28 Settembre 2022. 

C’è una domanda che mi frulla in testa. Perché, quando Conte parla, sembra di sinistra, mentre quando parla Letta sembra solo Letta che parla? Nel bla bla bla del Letticidio, la più acrobatica capriola all’indietro della sinistra nel Dopoguerra, si parla di sesso degli angeli. C’è quello del lavoro precario (come se un partito al governo da dieci anni si svegliasse adesso e qualcuno ci crede pure), c’è quello che è colpa di Renzi (ne ha tante, per l’amor di Dio, ma non questa) e c’è quello di una donna alla guida (che ormai vuol dire copiare la destra). Poi ci sono gli intelletti fini, quelli che hanno letto centomila libri e sanno tutto, ma poi non capiscono perché gli operai di mezza Italia votano a destra da anni. E ci sono quelli che dicono che in fondo va bene così, meglio piccoli ma padroni a casa nostra.

Come un pianeta morto, insomma, che si raffredda, la sinistra non solo non sa più vincere ma nemmeno discutere (che era la cosa che da sempre sapeva far meglio). Intanto, schifato da tutti, preso in giro per la pochette, dall’altra parte del mondo progressista, si stava congelando nel freezer del conformismo draghiano pure un altro signore, Giuseppe Conte. Finto a capo di un Movimento 5 stelle che dopo avere conquistato mezza Italia era finito al governo e si era frantumato in mille pezzi, perdendo consenso, appeal e credibilità di fronte ai suoi elettori.

Io non so dirvi se Conte è di sinistra o no, quando è solo in bagno e si guarda allo specchio (Letta di sicuro no), ma posso dirvi che nelle ultime settimane se fingeva, beh era un grande attore. Perché a girare per l’Italia come ho fatto io, che ho avuto la bella pensata di mette in edicola un nuovo quotidiano quando l’editoria è una roulette russa, la gente di sinistra ogni tanto la testa la alzava quando il Tg passava quel signore. E senza bisogno di dire che Giorgia Meloni è Mussolini, che sua nonna era la tata di Goebbels e che il suo cane è senz’altro un Doberman feroce che ringhia ai gay.

Allora mi domando: ma uno, dico uno solo dentro il Nazareno che – a memoria – sono tre piano di palazzina pieni di uffici, a cui sia venuto in mente non tanto di allearsi con Conte ma almeno di domandarsi: che cosa dice di così strano che lui sembra di sinistra e io no?

Non è una domanda difficile da farsi. E, a dire il vero, nemmeno la risposta è da Einstein. Ora, tralasciando tutti quelli che ripetono la filastrocca del voto di scambio sul reddito di cittadinanza (li tralascio perché quelli sì che non sono di sinistra) se una sinistra che si candida a governare un Paese vincendo le elezioni (perché a governarlo senza vincere sono i più bravi e questo lo sappiamo tutti) non si fa questa domanda, mi viene il dubbio che la vera rimozione che il Pd ha fatto in questi anni non è Renzi o Zingaretti ma l’origine di ogni suo male. E ciopè la grande frattura fra piazza e palazzo che si consuma lentamente, prima con i Girotondi di Nanni Moretti, poi con il popolo viola, poi con Grillo che viene cacciato dalle primarie Pd da Piero Fassino. E, obbedendo all’ex segretario Ds, si fa un partito che di fatto travolge ormai da 15 anni il Partito democratico. In un modo o nell’altro. Ogni volta che si vota.

Ecco che la girandola di nomi per il passaggio di testimone di Letta non mi solletica. Bonaccini, Schlein, ma mettici pure De Caro, Serracchiani o Pinco Palla. Tutte brave persone. Tutta gente perbene. Ma inutile se prima non si evoca il fantasma della sinistra dall’armadio in cui è stato ricacciato a forza di fare e disfare governi e non si risponde alla domanda sospesa. Perché Conte quando parla sembra uno di sinistra e invece Letta quando parla sembra solo Letta che parla?

Domani, per il giornale di De Benedetti "il problema sono i campagnoli. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 28 settembre 2022

Roba da mani nei capelli. Nel tentativo di riuscire a capacitarsi della netta sconfitta della sinistra, certo giornalismo le inventa tutte per offrire una giustificazione ai propri riferimenti politici. Non si tratta di partiti e correnti, ma di chilometri, confini, scarpe adatte. È come se la colpa della vittoria del centrodestra fosse tutta del responsabile dell'organizzazione del Pd, non del segretario del partito, poverino. Chi doveva preparare l'istruttoria sulle candidature nei collegi non aveva consultato google maps, evidentemente.

La ridefinizione dei nuovi collegi dopo il taglio dei parlamentari a cui praticamente tutti hanno detto sì, ha accorpato a Modena - ecco l'esempio trovato per giustificare la bocciatura del sindacalista ivoriano Aboubakar Soumahoro, poi ripescato nel proporzionale - aree periferiche e rurali che votano la destra. Ohibò, non esistono più quei compagni che mettono il santino elettorale in tasca e vanno a votare secondo le indicazioni del p-a-r-t-i-t-o. Il caso della città emiliana «dimostra che con questi collegi il Pd non può vincere».

È il nuovo scoop del giornale di Carlo De Benedetti, Il Domani. Mica le strategie sballate, e nemmeno le politiche folli proposte da Enrico Letta. Macchè, il problema del Pd è che non ci sono più i contadini di una volta...

UNA QUESTIONE DI CONFINI

Insomma, la colpa di una sconfitta rovinosa è dei collegi e non di una sinistra giudicata indecente dagli elettori in ogni parte d'Italia, centrale o periferica che fosse. Parlano del collegio di Modena e dimenticano il dettaglio che hanno prevalso alla Camera in appena 12 collegi e al Senato in 5. L'armata del centrodestra ha vinto 121 sfide per Montecitorio e 56 per Palazzo Madama.

Nella ricerca delle analisi più pazze del mondo, punta dritto al podio proprio il direttore de Il Domani, Stefano Feltri - niente a che vedere con il Maestro Vittorio - novello Alberto Sordi del giornalismo («a noi c'hanno rovinato gli americani»).

Cerca cerca, sono riusciti finalmente a trovare la causa della devastante sconfitta nei territori: i confini dei collegi uninominali. Eppure era noto: se deputati e senatori sono di meno, è evidente che avranno di fronte territori più vasti per dover conquistare i voti necessari. Che facciamo? Torniamo a mille parlamentari o il Pd si adegua ai nuovi collegi?

Ma loro niente, al Domani è tutto chiaro. Di fronte ai troppi trombati eccellenti, ci sarà un motivo, si sono detti in redazione. Non per la arroganza dei candidati paracadutati o per la loro lontananza dalla società reale; no, sono stati i chilometri da dover percorrere. Giacca e cravatta per il centro delle città, stivali e maglione nelle periferie. Perché un conto è potersi muovere nella ztl, altro è scarpinare per le campagne. Vuoi mettere tornare alla porchetta dopo aver pasteggiato per anni con caviale e champagne?

TROPPO LONTANI

E così la riduzione dei parlamentari con il conseguente ampliamento dei collegi ha scombinato i piani della sinistra. Come se il problema delle modifiche territoriali non riguardasse pure il centrodestra. Semplicemente nel campo rosso c'è la lontananza dai territori, la fine del radicamento nelle città. E la scarsa capacità di applicare una legge elettorale che proprio il Pd- con Renzi - volle approvare, "aggravata" dal referendum sul taglio dei parlamentari. I paracadutati - e a iosa, anche in maniera indecente - li hanno avuti tutti. Anche il centrodestra, certo, che però competeva col favore popolare alle sue spalle. Ma se corri con il vento contrario devi saper scegliere candidati conosciuti più agli elettori locali che alla grande platea nazionale. Si sono trombati da soli. 

Quella parola che umilia chi ha perso. FRANCESCO MERLO su La Repubblica il 03 ottobre 2022.

Dal 26 settembre una parolaccia conquista spazi nella cronaca politica, occupa i titoli, persino in prima pagina, di molti giornali - non di tutti, per fortuna - , penetra nei commenti di qualche illustre editorialista, dilaga nell'on-line e così racconta i non eletti: trombati. È una mala parola, ma non di quelle che scappano come un'emergenza. Ha una vita ben più lunga del vaffa grillino, del turpiloquio come programma, e infatti nel parlare è da sempre molto usata, in tutti i suoi significati, tranne quello d'origine che è dimenticato: il travaso del vino con un tubo di gomma.

La condanna a morte dei trombati. Il popolo mai in pace con se stesso ha sempre bisogno del nemico di giornata. Gabriele Barberis il 28 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il popolo mai in pace con se stesso ha sempre bisogno del nemico di giornata. Si nutre di una bella dose di rabbia esplosiva e livore incontenibile su ogni tipo di argomento per sovrastare, con la propria voce, tutto ciò che stona con i rispettivi canoni. Uno scoppio di aggressività che riduce il normale diritto di critica dei cittadini che osano ragionare a un pigolìo da anima debole, un balbettare da vigliacchi quando si possono usare le maniere forti.

I social, specchio deformato di un Paese migliore di quanto si autorappresenta, si sono sbizzarriti con grande creatività nel sottolineare il cambio della guardia alla guida del Paese. Il nostro titolo di ieri «Belli ciao» o altre suggestioni di stampa sui «rosiconi» hanno salutato con umorismo l'uscita di scena di tanti personaggi controversi, spocchiosi e antipatici. Ma nei commenti da bar che frullano sul web, il risentimento viaggia ai 300 all'ora, accomunando le sensazioni più impensabili. Si è saldata una strana alleanza populista e anticasta che non guarda più a logiche politiche e di potere ma che trae linfa da un sentimento umanissimo quanto meschino: l'esultanza sfrenata per le disgrazie altrui. Non ci sarebbe da stupirsi se si trattasse solo di una banale schadenfreude, l'intraducibile locuzione tedesca che fotografa il personale godimento intimo dinanzi a sciagure e sconfitte che non riguardano mai se stessi.

Il livello di odio, che pare alzarsi ogni giorno senza barriere contenitive, dalla sera elettorale di domenica si è riversato sulla nuova categoria di monatti: i trombati alle elezioni. Non bastano più gli sfottò a Di Maio che deve tornare a fare il venditore ambulante di bibite o alla Cirinnà che si incartò con la storia sconclusionata dei 24mila euro trovati nella cuccia del suo cane. In poche ore i «ciaone» agli uscenti, tributati beffardamente dai vincitori, si sono trasformati in un fenomeno sociale violento e disgustoso. La perdita del seggio è stata salutata con un torrente di insulti e offese, manco fosse caduto un dittatore assirobabilonese. Il pensiero che costoro potessero percepire «15mila euro netti al mese», stima universale dei vari followers, ha giustificato un linciaggio senza precedenti per gli sconfitti di una tornata elettorale. Tutti trattati alla stregua di ladri fermati dalla polizia dopo anni di scorribande impunite. E invitato a curarsi gravi malattie senza la sicurezza economica dell'indennità parlamentare o andare a umiliarsi con lavori indecorosi per non morire di fame già l'indomani.

Il vento collettivo dell'anticasta ha sempre prodotto disastri, a cominciare dalla riduzione dei parlamentari che ha alterato la rappresentanza popolare con collegi giganteschi, senza pensare ai problemi di funzionalità delle Camere con competenze inalterate ma con 345 legislatori in meno. All'epoca grillina certa opinione pubblica esultava nel vedere eletti personaggi indegni di una carica pubblica. Oggi la felicità è augurare agli esclusi anni di patimenti a compensazione dei benefici ingiustamente goduti. Meglio con minacce e improperi per risultare più convincenti. Ma perché ridursi così? 

Estratto dell’articolo di Lorenzo Giarelli per “il Fatto quotidiano” il 2 novembre 2022.

A sentire loro, sono (quasi) tutti fuori per scelta propria. "Nostalgia del Parlamento? Nooooo, ho deciso io di non candidarmi". "Ma si figuri, mi sono fatto mettere in un posto impossibile solo per spirito di servizio". Eccoli allora tutti felici e contenti nella loro second life lontani dai Palazzi. […] 

Il più rock è senz' altro Sergio Battelli, ex 5 Stelle. […] Battelli ha ripreso in mano la chitarra e ha rilanciato la carriera musicale messa in pausa prima dei 10 anni in Parlamento. Chi lo volesse cercare su Spotify, lo trova insieme ad altri 4 mila ascoltatori mensili. Il brano più riprodotto in assoluto ha un titolo adatto al momento: "Forse sono fuori". Dal Parlamento, certo, ma pure dalla noia della grigia politica.[…] 

Ancor meglio se il ritorno è al contatto con la terra, all'umile lavoro dei campi. Monica Cirinnà ci risponde indaffarata: "Sono qui per la raccolta delle olive". Il "qui" è la Bassa Maremma, dove l'ex senatrice Pd affronta le fatiche dell'autunno: "Ho la mia azienda agricola e sto lavorando già dal giorno dopo il voto. Produciamo vino, olio, marmellate, conserve". […] 

Nel Pd è rimasto fuori pure Andrea Romano […] Più che la cattedra, però, il futuro (e presente) di Romano è la televisione, perché come rivelato da La Verità l'ex parlamentare ha strappato "un buon contratto" come opinionista per le numerose trasmissioni Mediaset, dove in effetti non si fa fatica a trovarlo in prima serata (nelle reti Fininvest, peraltro, spesso lavora anche la moglie Sara Manfuso).

A proposito di tv. Negli anni in Parlamento il renziano Michele Anzaldi è stato instancabile fustigatore delle malefatte Rai. E ora? Rimasto fuori dal Parlamento, è tempo di bilanci: "Io ho sempre lavorato nella comunicazione. Se per esempio voi del Fatto 15 anni fa aveste voluto far uscire un settimanale, io vi avrei confezionato un bel lancio, avrei chiamato tutti i giornali e la Rai e sarebbe venuto un bel lavoro. […]

Il momento più malinconico di questo racconto arriva con Alfredo Messina. Ottantasette anni, una vita in Fininvest e poi in Forza Italia, di famiglia in casa Berlusconi.

Pur essendo tesoriere di FI, lo hanno escluso dalle liste che proprio Messina aveva il compito di depositare. Una beffa. 

Oggi, alle 7 di sera del ponte d'Ognissanti, mentre il suo partito ha appena finito di spartirsi poltrone al governo, Messina è lì, in ufficio, a vegliare al lume della rassegnazione le scartoffie legali del partito: "Sono ancora tesoriere, finché non mi mandano un sostituto io sto qui". Con la morte nel cuore, ma per sempre fedele.

La Buvette. La nuova vita dei trombati. Michel Dessì il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Da Luigi Di Maio a Monica Cirinnà, il lungo elenco dei big politici rimasti senza poltrona nel prossimo schieramento parlamentare

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

La buvette di Montecitorio sta per riaprire ai nuovi parlamentari. I numeri sono dimezzati. 400 deputati alla Camera e 200 al Senato. Le elezioni per molti sono stati un bagno di sangue. Come per Luigi Di Maio che ora, dopo aver perso il seggio e portato il suo movimento allo 0,0, dovrà accontentarsi di qualche posticino da raccomandato (fuori dai radar) in qualche azienda. Il nuovo lavoro? Il lobbista dicono tra i palazzi. Di cosa si tratta? Beh, una sorta di navigator per le aziende. Ma non rimarrà a bocca asciutta, almeno fino a quando ci sarà il reddito di cittadinanza. “È amareggiato, deluso. Non si aspettava di fare questa fine” dicono i suoi amici e compagni di viaggio. A rimanere senza lavoro è tutto il suo entourage che cerca nuovi spazi. Magari in TV. “Chiedono ovunque, in Rai, a Mediaset... oh, devono cercare lavoro ora eh. La pacchia è finita. Poverini” ci dicono le nostre fonti.

Ma a rimanere senza lavoro è anche Monica Cirinnà la senatrice paladina dei diritti battuta alle urne da Fratelli d’Italia. Cosa farà adesso? C’è chi dice che vestirà i panni da contadina ma chi è più malizioso assicura: aprirà un canile. Glielo abbiamo chiesto... (ASCOLTA IL PODCAST) Nell’azienda agricola di famiglia anche il senatore dem Andrea Marcucci.

L’elenco dei trombati è lungo, lunghissimo. Lucia Azzolina sicuramente tornerà a scuola. Ma non dietro il banco bensì dietro la cattedra. Si, quella da preside. Lei, infatti, durante il suo breve mandato da ministro dell’istruzione è stata promossa. Chiaramente è solo un caso, no?!

C’è anche l’antifascista Emanuele Fiano tra gli esclusi dal Palazzo. Lui non mollerà la politica, si candiderà alle prossime elezioni in Lombardia. Lo stesso farà Luciano Nobili uno dei pochi di Italia Viva a rimanere senza poltrona. Lui correrà nel Lazio. Magari come presidente. Con lui anche l’ex ministro Teresa Bellanova.

La verità vera è una sola come ci dice un deputato rieletto: “ci siamo tagliati le palle e ora ne paghiamo il prezzo. A partire da Di Maio”.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 21 novembre 2022.

Chi sono? Gli ex parlamentari Cosa fanno? Popolano gli studi dei talk show. E cosa dicono? C'è chi è tornato a fare il giornalista e attacca il suo ex partito, chi continua a rappresentare la propria parte politica e chi si è riciclato come opinionista di area, seppur rinunciando all'ortodossia partigiana del militante. Se tanti tra i non rieletti alle ultime elezioni politiche hanno deciso di ritirarsi a vita privata e dedicarsi alle attività più disparate, in compenso molti altri continuano a parlare di politica in Tv. Dai divanetti del Transatlantico alle poltroncine dei salotti televisivi. 

Partiamo con la nuova epopea catodica dei bocciati alle urne del 25 settembre. Gli ultimi arrivati, quelli freschi di non rielezione in Parlamento. Uno di loro è l'ex deputato del Pd Andrea Romano. Lo storico e giornalista, sconfitto nel collegio uninominale di Livorno, è opinionista fisso a Mediaset ma si fa vedere ancora anche dalle parti di La7, Piazzapulita di Corrado Formigli. Le performance televisive di Romano non si discostano affatto da quelle del suo recente passato parlamentare. Difende il Pd, battaglia con gli ex colleghi del centrodestra, in prima linea negli spazi dedicati all'Ucraina in quota atlantisti. Il professore dem ha twittato ieri a supporto della candidatura di Stefano Bonaccini alla segreteria del Pd.

Stessa professione, giornalista, anche lui reduce dall'ultima legislatura, ma di idee opposte a quelle di Romano è Gianluigi Paragone, leader di Italexit. Paragone imperversa a La7 e timbra spesso il cartellino a Non è L'Arena di Massimo Giletti. Eletto con il M5s nel 2018, non è riuscito a bissare guidando il suo partito euroscettico. Paragone si esprime più come capo politico che come cronista e spazia dal Covid al conflitto russo-ucraino. Più che scettico sui vaccini, più che critico sulla strategia occidentale di sostegno a Kiev. 

Alla voce «esperti di politica estera» troviamo Emma Bonino, non eletta il 25 settembre con +Europa. La radicale fa il controcanto ai sovranisti e attacca il suo ex alleato Carlo Calenda. Richiestissima dagli autori televisivi, si concede con relativa parsimonia. Bonino resta una riserva della Repubblica, anche per i talk show.

Bocciati alle urne, promossi in Tv. Come Emanuele Fiano, popolare ex deputato del Pd, sconfitto a Sesto San Giovanni da Isabella Rauti. Ospite a Mediaset e Telelombardia, sempre pugnace sui temi dell'antifascismo e dell'immigrazione. O come Luciano Nobili, renziano di ferro, non eletto il 25 settembre, habituè degli studi televisivi per difendere le ragioni di Italia Viva e del Terzo Polo. 

Dal giorno dopo le elezioni è ovunque pure Tommaso Cerno, ex senatore del Pd poi passato al Misto, ora sempre in Rai, La7 e Mediaset nella sua nuova veste di direttore del quotidiano L'Identità. Rivive come combattivo frondista di sinistra. «Soumahoro che frigna e fa la vittima», ha scritto ieri su Twitter, tanto per gradire.

Meritano un capitolo a parte gli ex politici che ormai hanno una carriera televisiva consolidata. Nunzia De Girolamo, ex ministro berlusconiano, è un volto affermato, opinionista di area centrodestra, in particolare a La7. E non può mancare Alessandro Di Battista, come De Girolamo senza scranno da diversi anni. Dibba è reportagista per il Fatto Quotidiano, scrittore e ultimamente commentatore onnipresente e super-pacifista sull'Ucraina. Ex grillino come l'ex ministra per il Sud Barbara Lezzi, che ha scelto di non ricandidarsi ma appare sovente in televisione, specialmente per parlare di ambientalismo, trivelle e rigassificatori.

Infine i reduci della Seconda Repubblica. I comunisti Paolo Ferrero e Marco Rizzo, non eletti alle ultime elezioni rispettivamente con Unione Popolare e Italia Sovrana e Popolare, non sono di certo facce nuove per i telespettatori. Così come l'ex colonnello di Alleanza Nazionale Italo Bocchino, direttore editoriale del Secolo d'Italia, corteggiato in qualità di esperto del mondo meloniano e della destra italiana arrivata fino a Palazzo Chigi. Fuori dall'Aula, dentro lo schermo.

Da Di Maio alla Cirinnà: i trombati dal voto esclusi (per ora) dal Parlamento. Non c'è solo di Di Maio tra quelli che non torneranno nei Palazzi: fuori anche Emma Bonino e Monica Cirinnà. Tracollo Pd nelle roccaforti rosse. Francesca Galici su Il Giornale il 26 settembre 2022.   

Sono tante le sorprese che emergono dalle urne elettorali e tanti i big che non sono riusciti a ritrovare una poltrona nel prossimo schieramento parlamentare. Per conoscere i risultati dei collegi plurinominali sarà necessario aspettare le prossime ore, probabilmente domani, per avere contezza dei seggi assegnati a ciascun partito e, in base a quello, fare i conteggi. Le certezze per il momento sono solo per i collegi uninominali, anche se ci sono stati colpi di scena anche nei plurinominali.

La sorpresa più grossa è l'esclusione di Luigi Di Maio, sconfitto nettamente nell'uninominale alla Camera del collegio Campania 1 Napoli-Fuorigrotta. Non c'erano segnali alla vigilia di una debacle così importante per il ministro degli Esteri uscente: il sentiment popolare era di un testa a testa, che poi allo spoglio si è trasformato in una netta vittoria di Sergio Costa. Nessuna possibilità di ripescaggio per Di Maio, il cui partito non ha superato nemmeno lo sbarramento dell'1% previsto per le coalizioni.

Niente da fare nemmeno per Monica Cirinnà del Partito democratico, che si ferma al 20,95 % contro il 48,65 di Ester Mieli del centrodestra nel collegio uninominale Lazio U-04. Una sfida che appariva difficile fin dall'inizio, tanto che la senatrice uscente sembrava propensa a rinunciare in partenza. Stessa sorte anche per Emanuele Fiano del Partito democratico, che nel collegio uninominale del Senato di Sesto San Giovanni non è riuscito a superare Isabella Rauti. Fiano si è fermato al 30.80% dei voti, superato dalla Rauti che ha ottenuto il 45.4%. Non ce l'ha fatta nemmeno Carlo Cottarelli, candidato all'uninominale del Senato a Cremona contro Daniela Santanché: la candidata del centrodestra ha ottenuto il 52,17% dei voti, quasi il doppio del rivale, fermo al 27.37%.

Tsunami in Toscana: il centrodestra sfiora il 40%, male la sinistra, bocciato Rossi

Nel collegio uninominale UO2-Livorno del Senato, il candidato del Pd, ed ex capogruppo, Andrea Marcucci si è fermato al 32.89% mentre il deputato Manfredi Potenti della Lega arriva al 38.98%. Sconfitta anche per Vittorio Sgarbi, candidato nel collegio uninominale U-03 di Bologna del Senato contro Pier Ferdinando Casini: il candidato del Pd ha ottenuto il 40.07%, mentre quello del centrodestra il 32.32%. È fuori dai giochi anche Gianluigi Paragone, che con il suo partito Italexit non ha superato lo sbarramento del 3% per entrare al parlamento.

Mara Carfagna, candidata nel collegio di Napoli Fuorigrotta 2 per la Camera (lo stesso di Di Maio) è arrivata quarta con il 6.7% delle preferenze. Per il momento, il ministro uscente risulta non rieletto ma sarà necessario aspettare i risultati dei collegi plurinominali. Risulta al momento essere fuori dal parlamento anche Pippo Civati, capolista nel secondo collegio plurinominale a Bologna. La sua coalizione di centrosinistra ha ottenuto il 36% contro quella del del centrosinistra che ha raggiunto il 37%.

Di Maio e gli altri "trombati" eccellenti (nella sinistra). Linda Di Benedetto su Panorama il 27/09/22.

Le candidature eccellenti del centro sinistra sono state sconfitte in tutti i seggi. Una disfatta senza precedenti che oltre ad aver cambiato la geografia politica del Paese togliendo le regioni “rosse” al centro sinistra ha lasciato a casa chi avrebbe dovuto vincere senza problemi nei cosiddetti collegi blindati sconfitti invece dal centrodestra. In Lombardia Emanuele Fiano figlio di Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz, è stato battuto da Isabella Rauti esponente di Fdi e figlia di Pino ex segretario del Msi, fra i fondatori della Fiamma tricolore dove ha ottenuto il 45,4% dei voti contro il 30,80% di Fiano. Nella sfida al Senato in Lombardia a Cremona la coordinatrice regionale di Fdi Daniela Santanché ha ottenuto il 52,17% dei voti contro il 27,3% di Carlo Cottarelli. Nel Lazio 2 la candidata del centrosinistra Emma Bonino ha vinto la sfida contro Carlo Calenda nel collegio uninominale Lazio 2 ma non le è bastato per entrare in Senato perché ha vinto Lavinia Mennuni la consigliera comunale di Fratelli d’Italia con il 36,30% delle preferenze. Il leader di Azione invece è arrivato terzo, raccogliendo 77.211 voti, pari al 14,07% delle preferenze e verrà comunque eletto al Senato grazie al proporzionale. Nel Lazio tra i volti noti del centro sinistra a restare fuori è anche Monica Cirinnà che raggiunge il 31,2% delle preferenze contro il 37,1% di Ester Mieli la giornalista di Fdi. Anche il sindacalista Aboubakar Soumahoro che era in lista con Ilaria Cucchi entrambi candidati eccellenti dell’Alleanza Verdi-Sinistra italiana è stato battuto di poco da Daniela Dondi (Fdi) con il 37,4% con il 36% di Soumahoro, mentre la Cucchi è riuscita a vincere in Toscana con un margine del 10% su Federica Picchi. Sconfitto anche l'epidemiologo Pierluigi Lopalco che raggiunto il 24,13% delle preferenze in Salento mentre il leghista Roberto Marti si è aggiudicato il seggio uninominale del Senato con il 44,07%.Fuori dal Parlamento anche Luigi di Maio, l’ex capo politico del M5S che ha ottenuto il 24,3% dei voti contro il 40,5% di Sergio Costa ex ministro grillino.

PASQUALE QUARANTA, NICOLO' GUELFI per lastampa.it il 26 settembre 2022.  

Un’Italia in blu. Il centrodestra si è aggiudicato la maggioranza dei collegi uninominali, ma sono tanti i casi clamorosi e i grandi esclusi: Luigi Di Maio perde la sfida diretta a Napoli Fuorigrotta con il 5 stelle Sergio Costa e resta fuori dal Parlamento. Nello stesso collegio era candidata anche Mara Carfagna con Azione, che però si è fermata al quarto posto. 

La ministra per il Sud e la Coesione territoriale nel Governo Draghi, da poco fuoriuscita da Forza Italia, ottiene il solo il 7,10%. Probabilmente nessuno degli ex forzisti confluiti in Azione troverà posto in Parlamento. L’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, leader dell’Unione Popolare è fuori: la lista non ha superato lo sbarramento fermando all’1,4%. 

Debacle tra i ministri del governo Draghi: 6 di loro si sono candidati ma solo Giancarlo Giorgetti ha conquistato un seggio all’uninominale.

Sconfitta importante per l’ex ministro degli Esteri campano, il cui partito Impegno Civico raggiunge solo lo 0,60% su base nazionale. Emma Bonino ha la meglio su Carlo Calenda che, nel duello per l’uninominale al Senato a Roma, scivola al terzo posto, ma viene battuta dalla candidata del centrodestra Lavinia Mennuni. La presidente del Senato uscente Maria Elisabetta Alberti Casellati è stata rieletta nel collegio per il Senato in Basilicata con il 36,10. Eletto anche il virologo Andrea Crisanti, candidato al Senato come capolista del Partito Democratico nella circoscrizione Estero. 

Casini a Bologna e Santanché a Cremona per il Senato

Pier Ferdinando Casini a Bologna, la spunta su Vittorio Sgarbi nell’uninominale al Senato. A Cremona Daniela Santanché doppia nella sfida diretta l’economista Carlo Cottarelli per l’uninominale al Senato.

Gaia Zini per editorialedomani.it il 26 settembre 2022.  

A regalare al M5s nuove leve che andranno a sostituire i parlamentari che non si sono più potuti ricandidare per il vincolo dei due mandati sono soprattutto i collegi campani. Il consenso altissimo che il partito di Giuseppe Conte ha raccolto a Napoli e nella sua provincia ha portato alla vittoria del M5s in 11 collegi uninominali, 7 alla Camera e 4 al Senato. Quasi tutti sono candidate e candidati vicini a Roberto Fico: il presidente uscente della Camera è ormai il referente unico della zona, dopo la scissione di Luigi Di Maio.

Una delle partite più seguite è stata quella del collegio Napoli-Fuorigrotta alla Camera, dove il candidato Cinque stelle Sergio Costa, ex ministro dell'Ambiente, che ha battuto il candidato del centrosinistra Di Maio, ex M5s oggi leader di Impegno Civico, ma anche la storica fedelissima di Silvio Berlusconi Mariarosaria Rossi per il centrodestra e Mara Carfagna, candidata di Azione-Italia Viva. Costa era nel listino ristretto che Conte aveva imposto alla base degli elettori Cinque stelle ed è apparso spesso al fianco del leader, come a sottolineare il ritrovato spirito ambientalista del Movimento. 

Costa prima di diventare ministro è stato generale dei Carabinieri nella divisione forestale e prima della campagna elettorale per le elezioni amministrative a Napoli, quando l’asse giallorosso era ancora saldo, il suo nome era tra quello dei potenziali candidati.

Al collegio di Giugliano ha trionfato Antonio Caso, già candidato alle comunali di Pozzuoli di giugno scorso dopo il fallimento dell’alleanza giallorossa che in un primo momento avrebbe dovuto esprimere un candidato comune. In quell’occasione, Caso aveva raccolto appena il 3,2 per cento dei consensi. 

Anche nelle parlamentarie interne al Movimento non era stato molto fortunato e ha dovuto contare sul ripescaggio. Sul suo profilo Facebook, creato soltanto il 23 agosto, tantissimi i post che lo ritraggono in compagnia di figure di primo piano del Movimento, da Conte al collega candidato Costa al presidente della Camera Roberto Fico, che pur essendo uscito di scena dopo l’esaurimento dei due mandati rimane il punto di riferimento dei Cinque stelle campani dopo l’uscita di scena di Di Maio.

A Napoli-San Carlo all’Arena è stato eletto Dario Carotenuto, membro dei meetup dal 2005. Dopo un diploma da perito informatico ha imboccato la via del cinema (oltre a suonare il basso per una rockband americana con cui ha fatto un tour in Europa, scrive nella sua presentazione ufficiale) e ha lavorato con Jacopo Fo, oltre a collaborare con la fiction Un posto al sole. 

Presto anche il Movimento apprezza le sue capacità e Carotenuto inizia a produrre grafiche e video per il M5s: «Realizzai infatti i santini per tutti i candidati della circoscrizione sud per le europee del 2014». Carotenuto si occuperà anche di raccontare le gesta dei parlamentari Cinque stelle in un notiziario settimanale, oltre a essere collaboratore di Fantagazzetta.com (oggi Fantacalcio.it) e direttore editoriale di CanaleNapoli.

Anche dal collegio di Casoria arriva un volto nuovo, Pasqualino Penza, che ha raccolto il 47,2 per cento dei consensi sconfiggendo oltre al centrodestra anche il candidato di centrosinistra e suo ex compagno di partito Vincenzo Spadafora. Anche lui è nel partito da tempo, tanto da essere capolista a Caivano nelle amministrative del 2020.

Eletta anche Carmela Auriemma, candidata ad Acerra dov’è già consigliera comunale. Avvocata con esperienza internazionale, si è occupata in passato di temi ambientali attraverso un blog e un’associazione. È già membro del Team Futuro, uno degli elementi della struttura del Movimento imposto da Conte con il nuovo corso.

Anche nel suo caso, la vicinanza a Roberto Fico è testimoniata sui social: sul suo profilo personale campeggia una grande immagine di copertina che la ritrae insieme al presidente della Camera. In un post dell’estate scorsa si rivolgeva a Luigi Di Maio con un post in cui lo incoraggiava a candidarsi a Bibbiano con il centrosinistra, com’era stato suggerito da alcuni retroscena pubblicati in quei giorni: «Culi di colla» è il commento della neodeputata.

Torna in parlamento Carmen Di Lauro, rieletta a Somma Vesuviana con il 34,8 per cento. Nell’ultima legislatura è stata membro della commissione Ambiente e della commissione di Vigilanza Rai. Ha firmato tre proposte di legge da prima firmataria, una sulla tutela dei diritti degli animali, una sull’istituzione dello psicologo scolastico e una che riguarda l’introduzione della giornata nazionale della partecipazione e della cittadinanza digitale. Nessuna delle tre è stata esaminata. Ha partecipato a quasi il 70 per cento delle votazioni in aula, perfettamente in linea con la media delle presenze della diciottesima legislatura.

A Torre del Greco l’attore, scrittore, drammaturgo e regista teatrale Gaetano Amato ha sconfitto il candidato del centrosinistra Sandro Ruotolo. Il profilo social è affollato di pezzi neomelodici e lunghi post in cui Amato commenta l’attualità, come quello in cui si scaglia contro il «vile affarista» Mario Draghi: «Ci ha trascinati in una guerra che non ci apparteneva, affidando i colloqui di pace a uno che definitiva bestia il capo del governo con cui mediare».

Basta scorrere poco più giù per trovare foto in cui il neodeputato è insieme ad Alessandro Di Battista, ex M5s in rotta con la linea governista a sostegno di Draghi. Il 5 agosto, Amato se la prendeva con gli Stati Uniti:  «Mo sono andati a cacare il cazzo a Taiwan… Ma se proprio volete le guerre fatele a casa vostra tra di voi… Ma come si può essere così pezzi di merda da andare in giro per il mondo a fomentare guerre fottendosene delle vite innocenti che ne subiranno le conseguenze?»

Rieletta al collegio senatoriale di Giugliano il medico Mariolina Castellone, che è stata capogruppo a palazzo Madama nell’ultimo periodo della legislatura. Originariamente candidata avversaria al prescelto di Conte, Ettore Licheri, Castellone è progressivamente diventata una fedelissima dell’avvocato pugliese e uno dei principali volti televisivi del Movimento in campagna elettorale.

Gli elettori del collegio Napoli città hanno scelto Ada Lopreiato contro Valeria Valente del centrosinistra e Stefano Caldoro del centrodestra. L’avvocata specializzata in diritto bancario era già nella lista del Movimento a sostegno di Gaetano Manfredi, poi eletto sindaco di Napoli.

A palazzo Madama andrà anche Raffaele De Rosa, eletto ad Acerra, che su Facebook si dichiara orgogliosamente né di sinistra, né di destra, ma «progressista», espressione molto cara anche al suo leader politico. Anche il suo profilo social nasce appena il primo settembre.

A Torre del Greco si è imposto Orfeo Mazzella, odontoiatra laureato alla Federico II di Napoli ed esperto di malattie rare. Ha celebrato la sua vittoria con un video intitolato «Habemus senatorem» e spesso conclude i suoi post con hashtag come #cuore e #coraggio. Sempre pronto a schierarsi contro autonomia e Mes, Mazzella non lesina di contenuti che riguardano Conte. 

Da ilfattoquotidiano.it il 26 settembre 2022.  

Per l’esclusione di Luigi Di Maio, rimasto fuori dal Parlamento, “non provo nessuna gioia, ma chi è causa del suo mal pianga se stesso. Gli consiglio di stare alla larga dal mondo della politica. Di studiare, di prendersi una laurea e di vivere la vita reale che, forse, negli ultimi anni non ha vissuto”, perché “c’è vita al di fuori dei palazzi. Non mi va di infierire, non deve essere facile”. Così Alessandro Di Battista in un video postato su Facebook.

DA lastampa.it il 26 settembre 2022.  

«In meno di due mesi abbiamo costruito una casa per i liberali, i riformisti e i popolari. Una casa per gli italiani che non vogliono un paese fondato sui sussidi e le regalie ma che vogliono rimanere a testa alta tra i grandi paesi europei, saldamente ancorati all'Occidente e ai suoi valori». Carlo Calenda leader di Azione si dice soddisfatto per il risultato elettorale. 

«Nei prossimi mesi – spiega – si consolideranno tre schieramenti: la destra al Governo; una sinistra sempre più populista che nascerà dalla risaldatura tra PD e 5S, e il nostro polo riformista. Abbiamo il compito di dare una rappresentanza stabile e organizzata all'Italia che cerca una politica seria. Con quasi l'8% dei consensi partiamo da solide basi. Avvieremo subito un cantiere affinché questo processo sia ampio e partecipato». 

Elezioni: debacle per parlamentari Pd in uninominali Toscana

Nei collegi uninominali della Toscana non ce l'hanno fatta i parlamentari uscenti del Pd Andrea Romano, Andrea Marcucci, Stefano Ceccanti, Tommaso Nannicini e Martina Nardi. Per la Camera, a Massa Nardi si è fermata al 27,75% mentre Elisa Montemagni, capogruppo della Lega in Consiglio regionale, ottiene il 44,9% delle preferenze. A Pisa Stefano Ceccanti si è attestato al 34,9% contro il deputato Edoardo Ziello della Lega che arriva al 40,06%. 

A Livorno Andrea Romano spunta il 33,81%, mentre Chiara Tenerini, coordinatrice provinciale di Fi e consigliere comunale di Cecina, arriva al 35,91%. A Prato, alla Camera, Tommaso Nannicini si ferma al 33,59% mentre la parlamentare azzurra Erica Mazzetti ottiene il 40,24%. Al Senato Andrea Marcucci si attesta al 32,89% mentre il deputato Manfredi Potenti della Lega arriva al 38,98%.

 Flavia Amabile per “la Stampa” il 26 settembre 2022.  

Che cosa resta dopo due anni sulle barricate contro vaccini, Green Pass, negando l'esistenza del Covid e mettendo in discussione persino i morti? Nemmeno un posto in Parlamento a giudicare dalle prime proiezioni di voto. L'eredità di quella schiera di tenaci negazionisti si è frammentata in una miriade di formazioni, da Italexit guidato da Gianluigi Paragone a Alternativa per l'Italia di Simone Di Stefano e Mario Adinolfi, fino a Italia Sovrana e Popolare di Marco Rizzo e altre ancora.

Fin dall'inizio soltanto Italexit ha avuto una possibilità concreta di entrare in Parlamento. I primi risultati però non lasciano sperare il fronte contrario ai vaccini. Per il Consorzio Opinio Italia per Rai, con una copertura del campione dell'80% Italexit per l'Italia è fuori dal Parlamento con una percentuale compresa tra un minimo dello 0,5 per cento a un massimo del 2,5 per cento. In base al secondo Instant poll di Quorum/Youtrend per Sky Tg24, il partito di Paragone si ferma al 2,3%. E per il secondo intention poll Tecné per Mediaset oscilla tra l'1,5 e il 3,5 per cento. Ma, quando dopo mezzanotte arrivano le proiezioni, le speranze si fermano. Le percentuali calano al di sotto del 2%.

Paragone aspetta che i dati siano consolidati prima di commentarli. Nella primissima parte della notte delle elezioni gli exit-poll lo collocano troppo sul limite dello sbarramento, basta poco per cambiare radicalmente lo scenario e lui ricorda ancora la delusione subita alle elezioni amministrative a Milano nel settembre 2021, quando si era addormentato convinto di aver superato lo sbarramento e si era svegliato la mattina dopo con il 2,99 per cento dei voti, rimanendo escluso per poche preferenze dal Consiglio comunale. Il leader di Italexit aveva chiesto il riconteggio delle schede ma i voti mancanti erano risultati molti di più, oltre 1.500.

Intorno all'1 e mezza del mattino appare per ammettere la sconfitta spiegando che non sono i no ad averli condannati perché «c'è un pezzo di Italia che è andata anche oltre, non ha proprio votato». Resta la consapevolezza di essere molto al di sotto delle attese della vigilia e di aver scommesso su un calcolo politico che non ha dato i risultati sperati.

Da formazione antisistema e apartitica Italexit si è lentamente trasformata in una formazione di estrema destra che avrebbe dovuto rappresentare la spina nel fianco di Giorgia Meloni rubando a Fratelli d'Italia voti attraverso candidati come Carlotta Chiaraluce, militante di Casapound. Una sfida persa. Giorgia Meloni è la prima forza politica in Parlamento. Loro non sono nemmeno entrati.

GLI ESCLUSI. Puglia, ecco i tanti «trombati» eccellenti: da Bellanova agli scienziati. Il 25 settembre segna anche il flop degli scienziati prestati alla politica: non viene eletto nell’uninominale salentino l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco (espressione di Articolo 1), mentre a Bari arriva terza l’accademica di rilievo internazionale Luisa Torsi. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Settembre 2022.

Le elezioni politiche fanno registrare un lungo elenco di bocciati eccellenti in Puglia. Non viene eletta al senato Teresa Bellanova, viceministro di Italia Viva-Azione, simbolo delle posizioni produttiviste, pro-Tap e pro-acciaio del mondo renziano. Nella regione non è scattato il seggio per la politica salentina e si è così congedata dagli elettori: «Grazie a tutte e a tutti quelli che con me e con noi in queste settimane ci sono stati, ci hanno sostenuto, ci hanno creduto e hanno lavorato con dedizione e passione. Grazie per i sorrisi, le parole di incoraggiamento, la lealtà, la disponibilità, l’entusiasmo. La mia esperienza parlamentare si ferma qui».

Il 25 settembre segna anche il flop degli scienziati prestati alla politica: non viene eletto nell’uninominale salentino l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco (espressione di Articolo 1), mentre a Bari arriva terza l’accademica di rilievo internazionale Luisa Torsi (sostenuta dal sindaco dem di Bari Antonio Decaro). L’ex assessore alla Sanità (ora consigliere regionale) ha così commentato il dato delle urne: «Sono fiero di aver accettato una sfida difficilissima in un collegio uninominale pur sapendo che, sulla base dei sondaggi, la vittoria sarebbe stata impossibile». E ha aggiunto: «Perché al gioco della politica bisogna partecipare non per vincere, ma...

Elezioni politiche 2022. Professori, giornalisti, contadini: cosa faranno i trombati dal voto. Marco Leardi il 2 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Cirinnà raccoglierà le olive, poi aiuterà i dem a ricompattarsi. Azzolina farà la preside, Di Maio chissà. Altri esclusi dal Parlamento, invece, cercheranno il riscatto con gli elettori alla prossima tornata 

C'è chi non ha raccolto voti e adesso andrà a raccogliere le olive. Chi invece rivendicava l'introduzione del reddito di cittadinanza e ora, per una strana legge del contrappasso, un lavoro se lo dovrà trovare da solo. Qualcuno tornerà invece al suo vecchio impiego, senza portaborse né pranzi alla buvette. Altri invece cercheranno un riscatto, un'altra occasione per salire sul carro vincente della politica. Nel variegato mondo dei trombati dal Parlamento ci sono professori, giornalisti, ex conduttori tv, pensionati e futuri contadini. Ecco come se la caveranno ora, senza l'ambito scranno sul quale accomordarsi.

I trombati del Pd

Monica Cirinnà, ad esempio, non abbandonerà la politica e continuerà il suo impegno tra i dem. Da quelle parti, del resto, dopo la scoppola elettorale i cocci da raccogliere sono parecchi e il lavoro dunque non manca. Nel frattempo, l'ex senatrice si occuperà di ben altre mansioni. "Tra poco a Capalbio in fattoria si raccoglieranno le olive", ha raccontato lei stessa a Repubblica. Sempre nel Pd, anche Andrea Romano (non eletto nel collegio uninominale di Livorno) dovrà trovare un'occupazione. Con ogni probabilità riprenderà la sua attività di professore univesitario o quella, già svolta in passato, di giornalista. Scommettiamo poi di rivederlo presto in tv, ospite di qualche talk show nel ruolo di fustigatore del centrodestra. A proposito di piccolo schermo: nei giorni scorsi, l'ex deputato aveva espresso il desiderio di salutare la moglie Sara Manfuso, attualmente concorrente del Grande Fratello Vip. "C'è la possibilità di poter entrare ma solo per salutare il familiare che è lì. E a me piacerebbe molto farlo, senza partecipare al gioco", aveva confidato su Radio2.

Emanuele Fiano, umiliato a Sesto San Giovanni dalla candidata del centrodestra Isabella Rauti, dovrebbe invece trovare una ricollocazione come candidato alle prossime regionali lombarde, sempre sul fronte progressista. "Non smetto di militare nel fronte della sinistra italiana, ma è venuto il momento di fare un congresso vero rifondativo", ha prospettato lui stesso. Infine, reduce dalla batosta presa in toscana, l'ormai ex senatore Pd Andrea Marcucci tornerà all'azienda di famiglia. Niente più Parlamento anche per il dem Filippo Sensi, per il quale si prospetta un ritorno nel mondo della comunicazione come esperto.

Renziani non eletti, cosa faranno

Tra i renziani, la non eletta Teresa Bellanova, ex ministra delle Politiche Agricole nel Conte II, potrà scegliere se tornare ai suoi impegni da sindacalista della Filtea-Cgi o se rimanere nel perimetro della militanza in Italia Viva. "Lo spazio per la buona politica è dovunque, basta solo avere voglia ed esigenza di praticarlo ", aveva twittato lei, lasciando intendere la propria volontà di non sparire dai radar. Il renziano di ferro Luciano Nobili, invece, punterà probabilmente alle regionali nel Lazio e continuerà ad affiancare il leader di Italia Viva.

Il futuro di Di Maio, Azzolina e Spadafora

Il fautore del reddito di cittadinanza, Luigi Di Maio, dovrà trovare un nuovo impiego, forse nel mondo della consulenza aziendale. Anche se, ironizzando sui social, alcuni utenti hanno sacrasticamente immaginato un suo ritorno come steward allo stadio San Paolo. Dirà addio ai banchi di Montecitorio anche Lucia Azzolina. L'ex ministra dell'istruzione, in compenso, tornerà ad altri banchi: quelli dell'istituto comprensivo "Emanuele Giaracà" di Siracusa, del quale - secondo quanto si apprende - sarà preside (sua professione prima dell'impegno parlamentare). In area Cinque Stelle, anche l’ex capogruppo pentastellato alla Camera Davide Crippa non avrà più un posto in Parlamento. Dunque, che farà? "Non lascio la politica e guardo al dibattito nel Pd", aveva detto lui alla Stampa. Per l'ex ministro Vincenzo Spadafora si potrebbero aprire nuovamente le porte dell'impegno umanitario (già in passato fu presidente del comitato italiano di Unicef).

Dopo il flop elettorale di Italexit, l'ex grillino Gianluigi Paragone proseguirà invece l'impegno nel suo movimento anti-sistema. "Troveremo spazio fuori dal Parlamento", ha chiosato il giornalista, che pare sia intenzionato a candidarsi alle prossime regionali in Lombardia. Alcuni scommettono su un suo ritorno in tv nel caso di un fallimento anche nelle prossime sfide elettorali. Il giornalista Sandro Ruotolo, candidato per il centrosinistra bocciato dagli elettori, tonerà al suo impiego di sempre, pur non escludendo una permanenza nella politica attiva di sinistra. "Ho sempre pensato alla necessità di costruire un campo largo e penso che sin da oggi dovremo lavorare a ricostruire le condizioni di dialogo tra quelle che sono oggi in parlamento le forze di opposizione e domani dovranno far parte dello schieramento che si candiderà a governare il Paese", ha infatti affermato l'ex collaboratore di Michele Santoro.

Nel centrodestra, l'ex senatore leghista Simone Pillon - non riconfermato - rimarrà a lavoro nel Carroccio, sempre portando avanti le istanze di cui si era fatto portavoce. "Mi metto a disposizione del segretario del mio movimento politico e dell’intero centrodestra per continuare l’impegno nel difendere la natalità e la vita umana dal concepimento alla morte naturale, nel promuovere da ogni punto di vista la famiglia e la bigenitorialità, con l’insostituibile ruolo della mamma e del papà, nel sostenere la libertà educativa e nel combattere la protervia del Gender, l’orrore delle droghe e tutte le altre minacce che incombono sui più fragili e particolarmente sui bambini", ha affermato. Emma Bonino, che in materia di ideali sta dalla parte opposta di Pillon, aspetterà forse un riscatto alle prossime elezioni europee del 2024, dopo aver chiesto un riconteggio dei voti delle recenti elezioni. Intanto continuerà la sua attività in +Europa.

Chi invece non dovrà trovare un ricollocamento è sicuramente Vittorio Sgarbi. Battuto al fotofinish a Bologna da Pier Ferdinando Casini, il professore proseguirà i suoi impegni come critico d'arte, scrittore, sindaco, organizzatore di mostre e polemista.

«Fuori dal Parlamento? Apro un chiringuito». Battelli, Fico e Di Maio: le nuove vite degli ex onorevoli. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

Il taglio dei 345 seggi e il successo di FdI hanno portato a esclusioni clamorose. Dal big Di Maio, sfortunato padre della scissione del M5S, alla senatrice del Pd Cirinnà, “punita” dalla strana storia dei 24 mila euro trovati nella cuccia del suo cane

C’è chi, come Luigi Di Maio, voleva tagliare le poltrone in Parlamento. Ci è riuscito stravincendo il referendum, ma poi è finito sforbiciato a sua volta. E chi, come il suo fedelissimo Sergio Battelli, conscio dello zero virgola che li attendeva, dopo 10 anni nei palazzi della (fu) casta aveva già in testa un sogno: aprire un chiringuito a Barcellona. «Lo chiamerò Montecitorio beach», racconta con il sorriso il deputato-rocker che nel frattempo ha registrato il suo nuovo singolo 3 is a magic number. Mentre molti progressisti hanno esultato per la mancata rielezione di Simone Pillon, l’ultraconservatore (anti Lgbt+, divorzio, aborto ma la lista è ancora lunga) una delle vittime illustri del crollo della Lega: «Ma io non mi arrendo», avverte.

La batosta degli scissionisti

Da destra a sinistra, tra i 345 seggi in meno e la grande ascesa di Fratelli d’Italia che ha rivoluzionato i vecchi equilibri, l’esito delle elezioni del 25 settembre ha lasciato una sfilza di big fuori dal Parlamento. Il maggior numero di “esodati” della politica proviene dal Movimento Cinque Stelle e dagli scissionisti dimaiani cancellati dalla caduta del governo Draghi. «E ora che lavoro andranno a fare, visto che molti di loro non avevano mai lavorato?», si chiedono perfidamente i parlamentari più navigati e rimasti in sella. Partiamo appunto dal ministro degli Esteri uscente: Di Maio, dopo la batosta di Impegno civico (0,6%), ha cancellato i suoi profili social su Facebook e TikTok. Per la campagna elettorale era riuscito a raccogliere anche 300 mila euro, che però sono serviti a eleggere un solo deputato, e di un altro partito: Bruno Tabacci. Ora è il tempo del silenzio, per provare a ripartire: «Abbiamo perso: non ci sono se, né scuse da accampare» ha ammesso l’ex capo grillino, senza giri di parole. «Nella vita si cade, ma ci si rialza». 

Gli scivoloni dell’ingegnere informatico

A 36 anni Di Maio avrà più tempo per stare con Virginia Saba, la sua compagna: «E grazie all’esperienza acquisita in questi anni alla Farnesina, presto potrebbe impegnarsi con un’azienda di consulenze e relazioni istituzionali», sussurra chi lo conosce bene. Mentre Manlio Di Stefano, già sottosegretario agli Esteri protagonista di più gaffe, è già pronto a tornare al suo vecchio impiego da ingegnere informatico. Resta epico, sfogliando il menu dei suoi scivoloni, «l’abbraccio agli amici libici» che Di Stefano mandò via Twitter dopo la mega esplosione al porto di Beirut. Farà invece discutere il futuro dell’ex presidente della Camera Roberto Fico e della vice del Senato Paola Taverna. Entrambi hanno sostenuto il loro leader Giuseppe Conte nello stop grillino al terzo mandato: ne sono rimasti vittime loro stessi, ma adesso potrebbero rientrare dalla finestra, dopo essere usciti dalla porta. Fico e Taverna, secondo “radio Movimento”, dovrebbero essere infatti riassunti dal loro partito per guidarne la “macchina” istituzionale.

L’ex ministra dei banchi a rotelle

Altra vittima illustre è Lucia Azzolina: l’ex ministra dei banchi a rotelle durante la pandemia, poi finiti a migliaia in discarica, è diventata preside di una scuola a Siracusa, anche lei travolta dal naufragio dimaiano. Angelo Tofalo, già sottosegretario alla Difesa M5S salito agli onori delle cronache per il «Boia chi molla!» che «però non è un motto fascista», ha invece rispolverato la sua laurea in ingegneria civile e ha già aperto una società di consulenza («At», come le sue iniziali) proprio nel settore di intelligence, cybersicurezza e difesa: «Anche Dagospia parla di noi», esulta soddisfatto su Twitter. È stata politicamente bruciante l’esclusione dal Parlamento di Emanuele Fiano (Pd), sconfitto nell’ex Stalingrado italiana di Sesto San Giovanni da Isabella Rauti, figlia del missino Pino. «Parto per Roma, vado a smontare casa e ufficio. Non è una fine, è un inizio. Buona giornata», prova a sdrammatizzare «Lele», terzo e ultimo figlio di Nedo, ebreo deportato ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia. E adesso? «Sono un architetto: magari insegnerò e poi riprenderò la mia professione» racconta agli amici. «Se ho chiuso con la politica? Certo che no».

Gli «esodati» e i soldi in casa

Altro grande escluso in casa Pd è Andrea Marcucci, già capogruppo al Senato e ultrarenziano che però non ha seguito “Matteo”» in Italia Viva. Marcucci ha perso il testa a testa nel collegio di Pisa-Livorno-Viareggio: «È probabilmente il risultato più basso o uno dei più bassi del centrosinistra nella storia», ha provato a consolarsi. Ma tra le varie categorie di “esodati”, di preoccupazioni l’ex senatore ne ha ben poche: la sua famiglia ha da poco chiuso venduto la Kedrion, azienda di emoderivati che fatturava 660 milioni, a un colosso globale. Per Marcucci, che dalla sua Garfagnana arrivava all’ombra di Palazzo Madama con il suo elicottero, si profila un addio all’amato jet set della politica: era il 1992 quando sbarcò per la prima volta a Montecitorio con il Pli. Chissà invece cosa farà Monica Cirinnà, la senatrice che tanto ha fatto per i diritti gay e che però, a ruota, ha visto la sua immagine sbriciolata dalla storia dei 24 mila euro in contanti ritrovati nella cuccia del suo cane a Fiumicino, senza peraltro saper spiegare da dove arrivassero tutti quei soldi. 

Un posto nel partito, e uno stipendio

Tra i renziani è stata dolorosa l’esclusione di Lucia Annibali, fuori per una manciata di voti, ma che ora potrebbe rimanere tra gli uffici di Camera e Senato a gestire il funzionamento del tandem con Calenda, anche potendo contare sulla sua esperienza da avvocata. Senza seggio anche l’ex ministra, e già pasionaria della Cgil, Teresa Bellanova, che ha perso nella sua Puglia: il futuro? Continuare a fare politica attiva, ma da pensionata. E sempre nel tacco è rimasto escluso con ampio scarto anche il virologo Pierluigi Lopalco (Pd), su cui il segretario Letta aveva puntato a livello d’immagine per il suo impegno durante la pandemia. C’è poi Pippo Civati, candidato di Sinistra-Verdi e un’era geologica fa primigenio compagno di rottamazione con Renzi: ora tornerà a fare l’editore di libri. “Esodato” anche l’ex senatore M5S poi paladino antieuro Gianluigi Paragone, che, nonostante i sondaggi proiettassero Italexit verso cifre sorprendenti, si è ritrovato senza poltrona. Tornerà al primo grande amore, il giornalismo? Ancora non si sa, ma di sicuro sarà «anti».

Da tgcom24.mediaset.it il 23 ottobre 2022.

Luigi Di Maio si è dimesso dal ruolo di segretario nazionale di Impegno civico. Le dimissioni dell'ex ministro degli Esteri, riferisce l'agenzia Adnkronos, sono già state comunicate al Direttivo del partito. "Non ci sono se, ma o scuse da accampare: abbiamo perso", aveva detto Di Maio commentando l'esito delle elezioni politiche, che l'avevano visto escluso dal Parlamento. 

Impegno Civico, alla tornata elettorale del 25 settembre, si era fermato allo 0,6% di preferenze, ben al di sotto della soglia di sbarramento. Dopo l'esito, Di Maio era "scomparso" anche dai social. 

Intanto c'è stato il passaggio tra Antonio Tajani, neo ministro degli Esteri, con Di Maio. "Lo ringrazio per il lavoro svolto. Si parte con questa nuova sfida, sempre al servizio dell'Italia'', ha scritto su Twitter il vicepremier, postando una foto che lo ritrae con il suo predecessore.

Il Bestiario, l'Odiotino. L’Odiotino è un leggendario animale con il corpo di uno di sinistra e la testa di uno che ha perso le elezioni. Giovanni Zola il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale.

L’Odiotino è un leggendario animale con il corpo di uno di sinistra e la testa di uno che ha perso le elezioni.

Storicamente, l’Odiotino esiste dai primordi della storia. Caino stesso si può considerare come il primo Odiotino che uccise il fratello per invidia, dato che il Padreterno preferì i doni di Abele a quelli di Caino, ma soprattutto perché – come sostengono gli esperti – Caino tendeva ad allargare mentre Abele aveva un metabolismo che gli permetteva un girovita perfetto.

L’Odiotino parte dal presupposto di essere sempre e comunque dalla parte della ragione. A partire da questo assioma per l’Odiotino il fine giustifica i mezzi e l’avversario non è un soggetto con cui confrontarsi, ma è un nemico da abbattere. Quindi per l’Odiotino chi non la pensa come lui è brutto, cattivo e soprattutto non fa la doccia in coppia per risparmiare sul gas.

Dato questo quadro generale si evince che per l’Odiotino l’avversario sia il male assoluto. Quindi se il nemico viene preferito e premiato dai più, l’Odiotino perde il controllo dando segni di squilibrio quali violenti attacchi di antifascismo accompagnati da bava alla bocca e irrigidimento del pugno chiuso, e incapacità di pronunciare le vocali rendendo l’eloquio incomprensibile: “Trsbpjk qrpstzg”.

In tal senso assistiamo ad atteggiamenti paradossali. C’è l’Odiotino che aveva promesso solennemente che, in caso di sconfitta, sarebbe emigrato come un’oca selvatica, ma che ora scopriamo ancora con le valigie impolverate in soffitta. E se viene invitato a mantenere le promesse di allontanarsi dal Paese da parte di chi pretende un minimo di coerenza, reagisce gridando all’attacco fascista e accampando la scusa che il cane gli ha mangiato i biglietti dell’aereo.

C’è poi l’Odiotino che organizza scioperi nelle scuole con l’intento dichiarato di protestare contro la vittoria democratica del nemico. In realtà si tratta di una scusa per saltare le lezioni, ammazzarsi di erbe illegali e praticare sesso di gruppo in presidenza a spregio delle istituzioni.

L’Odiotino infine, non avendo argomentazioni valide, attacca personalmente andando a ripescare parenti vicini e lontani del nemico arrivando fino a Gengis Khan macchiatosi del reato di aver lasciato un conto salato da pagare in lavanderia.

Insomma come diceva sicuramente qualcuno: “Non c’è peggior fascista di un antifascista che la mattina è sceso dal letto e ha colpito con il mignolo lo spigolo del comodino”.

La realtà distorta. C'è un automatismo che guida l'orientamento della sinistra e dei media di quell'area dopo ogni sconfitta elettorale. Augusto Minzolini il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale.

C'è un automatismo che guida l'orientamento della sinistra e dei media di quell'area dopo ogni sconfitta elettorale: dal giorno dopo cercano l'anello debole per far saltare l'equilibrio del nuovo governo. Nelle esperienze precedenti hanno sempre utilizzato l'ambizione di uno dei leader della coalizione del centrodestra. Lo fecero con Lamberto Dini, con Pier Ferdinando Casini e con Gianfranco Fini. In questa occasione, in mancanza di meglio, tentano un'operazione a rovescio, cioè mettere la premier «in pectore» Giorgia Meloni contro i suoi alleati, in particolar modo contro Matteo Salvini.

Per farlo usano tutti i mezzi: tirano in ballo il pomo della discordia, cioè le aspirazioni di Salvini per il Viminale; oppure, moltiplicano il numero dei ministri «tecnici» per paventare una riduzione del peso degli alleati nel governo. Addirittura, dopo 25 anni tornano a lusingare Umberto Bossi nel vecchio ruolo - per citare un D'Alema d'annata - di «costola della sinistra». All'epoca il Senatùr servì all'uopo per mandare in crisi il primo governo Berlusconi, ora può tornare utile per emarginare Salvini e fargli saltare i nervi. Del resto la locuzione di Machiavelli «il fine giustifica i mezzi» ha sempre ispirato l'agire di quei mondi: il fine resta la conquista del potere, i mezzi e le alleanze cambiano a seconda del momento. Naturalmente, visto che il gioco è vecchio come il cucco, è soggetto ad un fatale declino. Più o meno come l'ideologia: siamo passati dal socialismo «sol dell'avvenire» al faccione di Giuseppe Conte. L'alleato ambito, appunto, per tornare al potere.

Un declino che la sinistra sconta anche nella capacità di dividere il centrodestra. Anche perché più sei disorientato e più scambi lucciole per lanterne, specie se sei abituato a guardare la realtà attraverso le lenti dell'ideologia: come minimo ne hai una versione distorta. Se poi hai subìto una sconfitta talmente cocente da restarne scioccato al punto di desiderare di cambiar nome, la confusione è totale e paghi un deficit di analisi, rischi cioè di non comprendere la natura e l'equilibrio alla base del governo che sta per nascere.

Ora, per tornare alla realtà, le vicende interne al Caroccio hanno le loro dinamiche, il futuro ci dirà quali. Sugli equilibri interni al governo, invece, contano i gruppi parlamentari e quelli della Lega e di Forza Italia sono stati forgiati (al costo di perdere qualche consenso) nella logica della compattezza e della fedeltà ai leader. Né Salvini, né Berlusconi, infatti, volevano ripetere l'esperienza del governo Draghi, cioè avere delle delegazioni di ministri che perseguono una linea diversa da quella della casa madre. Ecco perché è difficile immaginare l'emarginazione di uno dei leader della coalizione, a cominciare da Salvini: simul stabunt, simul cadent. Questa è la realtà. E la prima ad esserne consapevole è proprio la Meloni che da quando ha cominciato a studiare da premier si muove, com'è nella natura del ruolo, con prudenza. Poi certo c'è la dialettica interna: Salvini può reclamare il Viminale per poi, di fronte ad un no, puntare ad avere una compensazione negli equilibri interni al governo. Ma questo è nelle cose. Immaginare, invece, un suo isolamento come grimaldello per far saltare il governo è solo l'illusione di una sinistra che spera di avere in tempi brevi un'improbabile rivincita.

Le due mosse della sinistra (e della stampa amica): nascondere la crisi. Federico Novella il 29/09/22 su Panorama

Commentatori subito pronti a spostare l'attenzione ed il bersaglio sulla Lega (che è comunque al Governo) A leggere la stampa, sembra quasi che la vera notizia non sia la vittoria del centrodestra alle elezioni, ma la sconfitta della Lega. E’ vero, Salvini ha lasciato per strada metà dei consensi, e certamente sarà interessante registrare la sua posizione nel governo su tanti temi sensibili. Ma non staremo esagerando? Troppo spesso mirabili politologi, sedicenti superpartes, hanno il vizio di soffermarsi sui guai di una sola parte politica: quella che combattono. E sminuendo il resto. Anche prima del voto, venivano rimarcate con grandissima foga le divisioni tra i leader del centrodestra: leader che poi, a partire dal giorno della presentazione del cartello elettorale, si sono mossi come un sol uomo, o quasi. Ecco, a differenza del centrosinistra, Berlusconi, Salvini e Meloni hanno saputo interpretare istantaneamente lo spirito di questa (sgangherata) legge elettorale. Per governare occorre unirsi, non certo andare in ordine sparso per motivi di orgoglio, come accaduto alla compagnia di Letta, Calenda e Conte. Il governo che verrà sarà chiamato ad affrontare una delle fasi più difficili della vita repubblicana, e occorrerà giudicarlo senza sconti, vista anche la mole di promesse e di aspettative sul tavolo. E però, detto questo, non possiamo fare a meno di notare che ci sono sconfitti e sconfitti. Lo stesso “maistream” , per usare una parola in voga, che fino a ieri suonava l’allarme democratico, e intendeva convincerci che dopo le elezioni ci saremmo risvegliati nel trentennio, quello stesso centro comunicativo oggi pare individuare un solo grande sconfitto, Salvini, dimenticandosi lo sfacelo del campo progressista. Ma la Lega, pur avendo subito la batosta, resta un partito con una base di ferro che si è già attivata, una piattaforma ideologica sostanzialmente immutata negli anni, e poi l’organizzazione farà il suo corso. Nel medio periodo, difficilmente la Lega potrà sparire dai radar, perché contiene al suo interno gli anticorpi derivanti dai territori che sono alla base del rinnovamento. Dalle parti del partito democratico, invece, il livello di caos sembra aver superato il livello di guardia. In vista del congresso, spuntano candidati più o meno improbabili, mentre la frattura tra filo-grillini e filo-calendiani sta diventando una voragine. Siamo al ground zero della sinistra, ormai arretrata non solo al confine delle Ztl delle grandi città, ma direttamente arroccata nelle isole pedonali. Il fatto che una buona metà del panorama politico rischi la disintegrazione per mancanza di idee, e per mancanza di coraggio, sarebbe un fatto degno di notizia. Lo sport preferito di questi giorni sembra invece questo: ingigantire i problemi dei vincitori, e minimizzare le tragedie degli sconfitti, che tirano avanti scaricandosi la colpa l’uno sull’altro. Ma la campagna elettorale sarebbe finita: anche se qualcuno, evidentemente, non se n’è accorto.

Ragioni e prospettive del risultato elettorale. Di Nazzareno Pietroni il su formiche.net 

Il centrosinistra, sconfitto perché disunito e centrato sui diritti civili, deve trovare un’identità politica e culturale. Il centrodestra, vincente perché coeso e attento a temi socioeconomici, deve dimostrare di saper governare. L’analisi di Nazzareno Pietroni

I risultati elettorali del 25 settembre premiano il centrodestra e puniscono il centrosinistra, con un’affluenza in calo. Il blocco sociale di centrodestra ottiene un numero di preferenze analogo a quello della precedente tornata ma vince perché unito nei collegi elettorali. Anche il centrosinistra prende all’incirca gli stessi voti delle elezioni del 2018 ma viene penalizzato dall’assenza di candidature di coalizione nei collegi elettorali. I cinque stelle vedono i loro consensi più che dimezzati ma vincono al sud. Il terzo polo Calenda-Renzi conquista un proprio spazio politico, determinato a implementarlo nel tempo.

Le dinamiche del voto si muovono su più livelli. Il primo dato che emerge è la tendenziale permanenza dei cittadini nei recinti elettorali: il grosso degli spostamenti ha riguardato travasi interni ai blocchi di destra e sinistra, con i cinque stelle che hanno attinto o hanno restituito consensi a destra e sinistra: FdI ha preso voti dalla Lega, da Forza Italia e dai cinque stelle di destra; il PD ha concesso voti di centrosinistra al Terzo polo e di sinistra ai cinque stelle. In ogni caso il consenso politico italiano ha espresso una forte componente identitaria destra/sinistra, che ha consentito spostamenti di voto essenzialmente nell’ambito della stessa area politica.

Il secondo rilievo riguarda l’offerta politica. Il centrodestra ha vinto perché coalizzato intorno a un nucleo di valori e interessi condivisi, connessi a sicurezza, nazionalismo, atlantismo e crescita economica, accantonando i distinguo su europeismo e interessi corporativi: l’operazione ha funzionato, perché ha consolidato il consenso d’area e attratto qualche voto dall’esterno. Il centrosinistra si è diviso tra radicalismo e liberalismo, assistenzialismo grillino e agenda Draghi, ideologia LGBTQ e pragmatismo civile, sostegno militare all’Ucraina e crisi economica, offrendo una proposta politica poco definita e centrata prevalentemente su europeismo e antifascismo. L’operazione non ha funzionato: da un lato ha confermato la presa identitaria antifascista sull’elettorato tradizionale ma dall’altro non è risultata competitiva con la chiara offerta politica dei cinque stelle (assistenzialismo) e del Terzo polo (liberalismo progressista).

Una riflessione particolare merita la concentrazione dell’offerta politica di centrosinistra sul tema dei diritti civili, dell’aborto e della tutela delle minoranze di genere. Tale scelta segue un’impostazione consolidata, che prevale sull’impegno per le rivendicazioni socioeconomiche e la definizione di proposte di cambiamento della società. I risultati elettorali mostrano che, nonostante le drammatizzazioni elettorali e il supporto dell’informazione e della cultura dominante, la strategia non ha pagato in termini di voti e non ha spostato rilevante consenso politico; anzi appare ragionevole ritenere che tale strategia, in un periodo di crisi economica, possa aver fatto defluire consensi verso partiti più attenti ai problemi socioeconomici dei cittadini.

Una terza questione riguarda l’effetto politico e culturale della vittoria elettorale di Fratelli d’Italia. Non è dubbio che l’elettorato di centrodestra non condivida gli allarmi sul rischio fascismo e ritenga che sia giunto il momento di consegnare il tema alla storia. Sul versante opposto la dirigenza del centrosinistra può prendere atto dell’evoluzione dei tempi e chiudere l’epoca dell’antifascismo militante e delle pregiudiziali a destra, politiche e culturali, oppure può perseverare nella contrapposizione ideologica, alimentando l’identità antifascista della propria base: nel primo caso contribuirà alla democrazia dell’alternanza e ridurrà le lacerazioni sociali sulla questione; nel secondo caso compatterà una parte del consenso di sinistra ma ostacolerà la dialettica democratica, alimentando contrapposizioni culturali risalenti nel tempo e riducendo la propria capacità di attrarre consenso nell’area moderata.

Particolare attenzione meritano inoltre le emozioni sottostanti la campagna elettorale. Il centrodestra veicola emozioni prevalentemente positive, come speranza/promessa di miglioramento e cambiamento (economico e socioculturale), rassicurazione (sicurezza e immigrazione) e orgoglio identitario (nazionalismo e protezionismo sociale/produttivo). Il centrosinistra esprime prevalentemente paura per la destra montante, rabbia verso l’invasore russo, compassione nei confronti dei soggetti deboli (migranti e minoranze) e rassicurazione europeista. La componente positiva/negativa di tali emozioni può aver contribuito non poco al risultato elettorale.

Infine contano i leader. Non è dubbio che Giorgia Meloni sia stata la leader vincente: ha posizioni politiche coerenti nel tempo, non ha votato la rielezione di Mattarella al Quirinale, è stata all’opposizione del governo Draghi, non ha condiviso la gestione della pandemia, è univocamente atlantista, è abile nella comunicazione ed è donna. La sua leadership è costata cara innanzitutto a Matteo Salvini, che ha pagato i troppi errori degli ultimi anni, un’immagine politica indebolita e una comunicazione non sempre efficace. Sul versante opposto Enrico Letta non ha acceso le folle, ha confermato la sua posizione di leader di un sistema in crisi economica, è risultato incerto nella linea politica, ha deluso le componenti pacifiste dell’area progressista, ha mostrato scarsa empatia nella comunicazione, offrendo nell’insieme una prestazione di leadership non all’altezza delle attese. Nel contempo il Segretario del PD ha sofferto la concorrenza di Giuseppe Conte, che ha resuscitato i cinque stelle collocandoli chiaramente a sinistra e si è legittimato come rappresentante delle marginalità sociali, riscuotendo il consenso derivante dal reddito di cittadinanza e dalla critica al metodo Draghi.

In definitiva il centrosinistra ha perso perché non è stato unito su valori e interessi condivisi, ha privilegiato i diritti civili sulle questioni socioeconomiche, ha pagato il prezzo della pandemia e della guerra, non ha avuto un leader attraente. Il centrodestra ha vinto in quanto coeso nei programmi e nei collegi elettorali, attento a temi sensibili per i cittadini e sospinto da una leader in ascesa come Giorgia Meloni. Nei prossimi mesi al centrosinistra spetta il compito di trovare una propria identità politica e culturale, da presentare al Paese e sostenere coerentemente nel tempo. Al centrodestra compete dimostrare di saper governare.

Il Pd a parole e quel sistema di amicizie che l’ha reso arido. Fulvio Abbate su L'Identità il 7 ottobre 2022. 

Nel primo pomeriggio di ieri sono stato ospite di Rai News 24. Sugli schermi, lì in studio, scorrevano in diretta i volti della direzione del PD, al Nazareno. Mentre si ragionava dei massimi sistemi delle bollette presto sul tavolo da lavoro di Giorgia Meloni, ho modo di cogliere di sbieco le posture dimesse e “assembleari” di Orfini, di Bettini e altri ancora, così nell’attesa che parlasse Bonaccini, il futuro in pectore di un partito incapace di indicare la propria esatta natura politica, il proprio cosmodromo ideale. Non era esattamente uno psicodramma ciò cui assistevo, neppure il “franco dibattito sulle ragioni della sconfitta”, sembrava piuttosto di ritrovare una desueta diretta di ItaliaRadio, ciò che fu la radio del Pci, poi dei Ds, e in seguito una cooperativa d’area che dava conto del ribollire degli “umori all’interno della sinistra” nei momenti di impasse.

Tornando verso casa da Saxa Rubra, all’altezza Tor di Quinto, è giunto naturale un tweet, ancora più doveroso pensando alla mia irrilevanza nel palmarès e delle “anime belle” del mondo conosciuto della sinistra che sappiamo. Certo che l’accusa e gli stessi insulti che il popolo social della destra diffusa rivolge ai “radical chic, sarebbero venuti addosso perfino all’incolpevole, al sottoscritto. Il mondo, in tempo di semplificazione, non va per il sottile, cerca comunque a caso un capro espiatorio, il primo bersaglio. Nulla è più penoso e retorico del rivendicare la propria “libertà”, d’essere individualità, resta su tutto che gli insulti non fanno caso alle sottigliezze, ai distinguo. Il mio tweet recitava: “Ma quale discussione sul futuro del Pd? È semmai giunta l’ora di presentare loro il conto per tutte le volte che abbiamo sentito aria di cooptazione clientelare amichettistica. Sia in ambito politico sia nel contesto cine-artistico-letterario-giornalistico-editoriale.”

Inutile aggiungere che nessuno di coloro che un verso di Fabrizio De Andrè, “… per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”, circoscrive, si è mostrato sotto il mio rigo per obiettare, forse anche redarguire il narcisismo del refrattario alla colpa, magari perfino commentando piccato: d’ufficio o in quanto persona d’area che voglia sopire per antica abitudine subalterna il dissenso, la dissociazione dalla mediocrità interessata. Nel silenzio ho anzi intuito altrettanto senso di fastidio, indifferenza supponente e ancora interessata, ipocrisia; ciò che giunge proprio dai “clientes”, coloro che nel patto con i sistemi culturali di potere e di cooptazione trovano ragioni di splendore pubblico, perpetuandosi come anime belle, tutti lì a portare il loro sassolino d’oro fasullo alla costruzione del consenso sempre in nome della veltroniana “vocazione maggioritaria”.

Si sappia, il tema del governismo non riguarda soltanto coloro che aspirano ad occupare cariche parlamentari e, appunto ufficiali. A sinistra è un batterio che colpisce pure i “pifferi”, per dirla con Elio Vittorini. Coloro che, per restare in argomento culturale, ogni qualvolta c’era da plaudire il nulla e la mistificazione sono lì in prima fila.

Queste mie parole resteranno lettera morta, serviranno all’altrui scrollata di spalle, la stessa che con sufficienza sempre si riserva a coloro che non hanno mai nutrito ambizioni di potere, ancor meno festivaliere.

Che le classi dirigenti abbiano come una unica aurea esigenza personale di sopravvivere, perpetuarsi come organismi, amebe monocellulari, è storia biologica nota, meccanica del potere stesso, anche quando appare la pretesa di parlare in nome della “democrazia progressiva”.

Irrilevante che non sia affar mio, che posso invece vantare il baronale titolo di autentico radical chic, della vera “gauche caviar”, che è sempre e comunque altro dalla subcultura dei subalterni interessati, poco importa se laureati, in quanto, lo ripeto, individualità. Resta alla fine la soddisfazione di un’eterna estate, pensando a Camus, di non essere parte di una ipocrita e servile schiuma.

Le ragioni di una sconfitta. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 28 Settembre 2022 

Erano i primi anni del Berlusconismo quando il cavaliere era affiancato da un ancora balbettante Fini, alla guida di Alleanza Nazionale, e dai variopinti acronimi del CCD, dell’UDC e compagnia cantante condotti, in maniera continua o alternata, da Casini, Mastella e Buttiglione. A parte Fini era tutta roba da “0 virgola” eppure Silvio, che aveva la tendenza a fagocitare più di un facocero, concedeva a quegli alleati posti da ministro e sottosegretario, presidenze di regione, sindacature di città importanti, conscio che i partners politici andavano alimentati affinché l’alleanza crescesse e prosperasse.

Un andazzo che, a parte la parentesi megalomane del partito unico durata lo spazio di un sorriso (relativamente ai tempi lunghi della politica), il centrodestra ha sempre mantenuto e che ancora oggi alimenta. Si pensi al romanaccio e meloniano di ferro Marco Marsilio, designato ed eletto nel 2019 governatore dell’Abruzzo, sebbene Fratelli d’Italia avesse riportato, alle politiche dell’anno precedente, percentuali ad una cifra e, nella regione della Maiella e del Gran Sasso, appena il 5%.

E allora andateli a vedere i dati di queste ultime elezioni che hanno avuto solo l’unica novità di romperci le balle a ferragosto e rovinarci l’estate. Sin dai primi sondaggi ciò che emergeva era che, a parte un testa a testa tra Fli e PD su chi fosse il primo partito, quella che sovrastava era la coalizione del centrodestra che cominciava a navigare su cifre stratosferiche grazie alle abbondanti previsioni sui risultati di Lega e Forza Italia.

Di contro, dalla parte opposta, la coalizione guidata dall’Enrico “stai sereno”, a parte i dati del PD, balbettava, per le altre forze, con sondaggi che andavano dai prefissi di telefonia mobile allo “0 virgola” di Di Maio.

Poi i risultati hanno cambiato le previsioni ma si sa, i sondaggi alimentano il voto e molti italiani sono saliti sul carro del vincitore. Il partito della Meloni è cresciuto a dismisura, compensando anche la flessione degli alleati, ma confermando alla alleanza la maggioranza assoluta doppiando quella avversaria.

Certamente ci sono i “se”, quelli che, con l’aggiunta delle palle, trasformano mia nonna in mio nonno.

Se fosse stato fatto il campo largo, se Calenda, se Renzi, eccetera, eccetera, eccetera.

Ragioniamoci.

Azione e Italia Viva sono le uniche forze che vengono da una tradizione di centro sinistra e un loro posizionamento nella coalizione guidata da Letta non avrebbe stonato. Quanto all’armata di Conte di sinistra non ha nulla, anzi non ha nulla di politico. Aveva una truppa di parlamentari e alle elezioni ha raccolto una truppa consistente di elettori (solo al sud grazie alla elemosina di stato). Era stata roba buona per farci un governo che ostacolasse i deliri di potere di Salvini e sarebbe stata roba buona per un alleanza elettorale, ma nulla di più. Quanto a programmi, temi e linea politica dal reddito di cittadinanza alle follie di Bonafede in tema di giustizia, dal taglio dei parlamentari alla “via della seta”  e infine alla rinuncia alle olimpiadi, hanno fatto più danni al paese degli Unni di Attila. Prima scompaiono e meglio è.

Dal canto suo la sinistra, intesa sotto il profilo della omogeneità politica, resta quello che è stata e che sarebbe comunque stata: una coalizione con un partito forte e degli alleati molto deboli che non ha retto il confronto con la destra.

E qui la responsabilità è tutta del PD che, dalla svolta “veltroniana” della vocazione maggioritaria, pare non si sia più scrollato la tendenza a divorare tutto ciò che è cosparso dal sapore del “potere”. Manco a parlarne di cedere qualche candidatura sicura a presidente di regione. Se tra le forze minori di sinistra c’è scappato qualche sindaco di città importante è stato solo perché c’erano personalità talmente forti che dir di no era una follia. Lo stesso discorso vale per le presidenze delle province.

Se poi si scivola sugli enti di controllo regionale o sulle partecipate comunali la voracità “piddina” si moltiplica e agli altri non è mai rimasta più di una briciola ogni tanto.

È chiaro che così non si alimentano gli alleati. La coalizione non cresce e non diventerà mai competitiva nei confronti degli avversari, dando la ridicola sensazione di sembrare un canotto che sbatte contro una portaerei.

A volte la percezione è che nel Partito Democratico si coltivi ancora il disegno del P.U.S. (Partito Unico della Sinistra) e che tutti gli altri prima si estinguono e meglio è. Forse dalle parti del Nazareno non si capisce che il mondo della sinistra italiana è molto meno omogeneo di quello della destra (che pure di differenziazioni importanti ne ha) e che tra le componenti socialiste e riformiste, quelle della sinistra radicale, quelle ambientaliste e via discorrendo ci sono delle peculiarità che faticano a riconoscersi nel Partito Democratico. Ci sono identità politiche che se non vedono nella competizione elettorale un simbolo che le rappresenti, in maniera forte, chiara e credibile sotto il profilo del risultato, piuttosto non vanno a votare o si disperdono in più rivoli. Quelli sono voti (e tanti) che qualunque soggetto politico diverso da quello di appartenenza non raccoglierà mai.

Questo è il vero “vulnus” della coalizione di sinistra. Un limite che se non verrà colmato con una seria politica delle alleanze, che sia costante e perdurante nel tempo e non un analgesico cui ricorrere solo alla viglia delle tornate elettorali per prevenire il dolore derivante dalle tranvate date dall’avversario, non permetterà mai che si crei un fronte forte in grado di competere faccia a faccia con la destra. Se alle altre forze della sinistra non verranno concessi spazi di governabilità non cresceranno mai e non avranno quella autorevolezza necessaria a raccogliere, attorno a un unico progetto, quel consenso necessario a competere con una seria prospettiva per la guida del paese.

Una questione vitale sia sotto il profilo della somma dei voti ma anche sotto quello di una completezza e armoniosità di un progetto politico che sorga dalla sintesi delle varie culture della sinistra.

Questo e quel che si dovrebbe fare e che non so se si farà.

La sinistra ha abbandonato I Diritti Sociali dei tanti (Il popolo dei ceti medio e bassi) poco rappresentati in Parlamento in favore de I Diritti Civili dei pochi (Immigrati, mussulmani, LGBTQIA+, ecc.) sovra-rappresentati in Parlamento rispetto al numero reale nella società italiana.

Da liberoquotidiano.it il 29 settembre 2022.

L'imprenditore cosmopolita e il montanaro eremita, la sinistra gourmet e quella talmente pane e salame da non essere più, forse, nemmeno sinistra. Oscar Farinetti e Mauro Corona sono agli antipodi, e bene ha fatto Bianca Berlinguer a metterli accanto nella prima puntata di Cartabianca, su Rai3, dopo lo «tsunami Meloni». 

Si parla del futuro, imminente governo di centrodestra. Panico tra i sinceri democratici progressisti, di cui Farinetti, Mister Eataly, rappresenta al meglio l'umore: «Da figlio di partigiano, il fatto che ci sia la fiamma tricolore sul simbolo non mi è molto consono. Io ricordo quello che la Meloni diceva su Orban e Trump», esordisce spingendosi poi in una profezia cupissima: «Temo che l'Italia, su certi fronti, possa prendere posizioni che non ha mai preso». 

Qualcuno fuori tempo massimo ha rispolverato l'etichetta "sovranismo", che andava molto in voga 3 o 4 anni fa e che oggi sembra decisamente superata da storia ed eventi. Ma non per Farinetti, che mette in guardia gli italiani: «Io voglio essere europeo. Il sovranismo è un danno suicida per il nostro Paese. Noi dobbiamo essere aperti al mondo e non dobbiamo essere orgogliosi di essere italiani, ma riconoscenti per avere questa fortuna». A fare da contraltare a chi intravede decrescita infelice, clausure nordcoreane e, magari, pure la costruzione di qualche muro dalle parti del Brennero o del traforo del Monte Bianco ci pensa Corona, uomo di terra, pietre e ruspante buonsenso.

«Non arriverà nessun fascismo adesso, sarà un governo di centrodestra che ha anche delle idee buone, ad esempio sulle pensioni e le tasse». Così, papale papale. Una considerazione fatta ravanando nelle tasche degli elettori, quelle che il Pd è (anzi, era) solito frequentare solo quando ci si doveva inventare qualche gabella in più. Un Pd che per dirla con le parole dello stesso Corona «ha abbandonato le fabbriche e gli operai». Impossibile stupirsi per l'esito delle urne: «Ho sentito delle affermazioni a sinistra sul fatto che quella del 25 settembre è stata una giornata triste. Ma il voto è stato un esercizio democratico». Pure troppo, per qualcuno.

Laura non c’era. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.

Il prossimo segretario del Pd farà bene a guardare tutti i giorni, prima e dopo i pasti, il video delle giovani di sinistra che esortano Laura Boldrini a lasciare la piazza in cui si manifestava a difesa del diritto all'aborto. «Lei non dovrebbe stare qui. Avete messo la pillola abortiva a pagamento» accusa una delle ragazze. «Il problema della pillola è la distribuzione» spiega Boldrini, professorale. «Lo vada a dire ai poveri e ai precari che il problema è la distribuzione!» insiste l'altra. A quel punto Boldrini potrebbe compiere un gesto rivoluzionario e riconoscere la realtà: «Non abbiamo capito che certi diritti stavano diventando un lusso per benestanti e che una sinistra che parla solo di diritti civili e mai di sostegno materiale ai poveri non è di sinistra. Ti chiedo scusa». Arresterebbe la deriva, forse. Invece sale in cattedra per impartire la lezioncina sull'unità delle donne, che la ragazza le ritorce contro: «Sa perché non siamo unite, signora? A lei di chi sta nelle case popolari non frega niente, a me sì». Boldrini potrebbe ancora riscattarsi dicendole: «Da domani trasferirò l'ufficio a Tor Pignattara e chiederò al mio partito di moltiplicare le sezioni nelle periferie». Invece estrae dalla borsa il cliché terrazzato del Babau Nero con cui da trent'anni la sinistra giustifica il proprio lassismo: «Allora fatevi difendere il diritto all'aborto da Fratelli d'Italia!». Poi si allontana dalle contestatrici, applaudendole sarcastica e un po' schifata. Temo, ricambiata. Flavia Amabile,

Simona Buscaglia per “la Stampa” il 29 settembre 2022.

Migliaia di donne sono scese in più di cinquanta piazze italiane per difendere la legge 194, a tre giorni dalle elezioni che hanno consegnato l'Italia nelle mani del centrodestra e per avvertire Giorgia Meloni: il diritto all'aborto non si tocca. Ieri era la Giornata Internazionale dell'aborto sicuro, ma soprattutto era il giorno successivo alla decisione del gruppo di FdI nel Consiglio Regionale della Liguria di astenersi durante la votazione di un ordine del giorno sul «diritto delle donne di scegliere l'interruzione volontaria di gravidanza». Una decisione che per chi si schiera a favore della 194 e del diritto delle donne di scegliere rappresenta un chiaro segnale di quello che potrà accadere d'ora in poi. Riempire le piazze è stata la risposta, anche se la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni non ha ancora ricevuto l'incarico di formare un governo.

I presidi e le mobilitazioni si sono svolti in quasi tutte le regioni. A Milano, Roma, Bologna, Cagliari, Brescia, Palermo, Catania, Firenze, Verona, Genova, Reggio Calabria, Modena, Napoli, Catania, Torino - e per la prima volta anche in Molise - le militanti di «Non Una di Meno» e le migliaia di persone che si sono unite alla loro protesta hanno rivendicato il diritto a un aborto «libero, sicuro e gratuito». I manifestanti hanno ricordato che dall'inizio dell'anno sono «73 le vittime della violenza di genere» e denunciato il pericolo rappresentato dalla vittoria di Giorgia Meloni e di una destra «razzista e antiabortista».

Nessun orgoglio, nessun entusiasmo per la possibilità che l'Italia abbia per la prima volta una presidente del Consiglio. «Non è una vittoria delle donne», dicono le militanti di Non una di meno, visto che «vuole garantire il diritto a "non abortire", cancellare i diritti delle persone transgender e l'educazione alle differenze». Come spiega Valeria Valente, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, «Giorgia Meloni deve sapere che le donne non le consentiranno di fare passi indietro sui diritti».

«Ma quale Stato, ma quale Dio, sul mio corpo decido io», è scritto su uno dei tanti cartelli presenti alla manifestazione a Milano. Il corteo è partito davanti a Palazzo Pirelli, sede del consiglio regionale lombardo: «Partiamo da qui non a caso, siamo sotto una Regione che dovrebbe tutelare il nostro diritto alla salute, con consultori laici e pubblici dove nessuno viene discriminato o si imbatte in obiettori che ti dicono cosa fare del tuo corpo, ma spesso non è così, qui come altrove. 

Vogliamo gli obiettori fuori dalle nostre mutande!». Si definiscono «furiose e preoccupate contro la deriva che potrebbe prendere il Paese guidato dal centrodestra, perché Meloni è espressione del peggior patriarcato». In circa un migliaio si sono ritrovati a Torino e centinaia a Roma. Ovunque striscioni, cori e slogan per difendere la 194 e contro Meloni.

A nulla serve la precisazione del coordinatore nazionale di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli che «in Liguria «non c'era la volontà di indebolire e eliminare la legge 194, ma di rafforzarla in tutte le sue parti». 

Le polemiche investono anche il ministro della Salute Roberto Speranza. A un anno di distanza dalla prima richiesta, l'associazione Luca Coscioni ha rivolto un appello ad «aprire i dati sulla 194 per poter conoscere la reale applicazione della legge».

Valentina Ruggiu per repubblica.it il 29 settembre 2022.

"Vada via perché lei e il Pd non rappresentate le rivendicazioni di questa piazza". Così alcune manifestanti a Roma hanno contestato la onorevole Laura Boldrini arrivata all'Esquilino per unirsi alla manifestazione organizzata da Non una di meno per la Giornata mondiale dell'aborto libero, sicuro e gratuito. Un duro botta e risposta che è stato ripreso e condiviso sui social. 

Nel filmato si vede la onorevole provare a replicare alle accuse delle manifestanti. "Ci sono donne che in Parlamento hanno lottato e l'hanno voluto l'aborto, quindi la lotta tra il Parlamento e il fuori non funziona. Dovremmo essere tutte unite", dice Boldrini.

"Sa perché non siamo unite?", risponde la manifestante, "perché a lei delle persone che stanno nelle case e nei quartieri popolari non gliene frega niente, invece a me sì e io li difendo. Beatrice Lorenzin (ex ministro della Salute ndr) ha reso la pillola anticoncezionale a pagamento. Lei mi dice che il problema non è quello ma è la distribuzione. Lo vada a dire ai giovani, ai precari a chi vive nei quartieri popolari. E non ha mi ha risposto sui tagli che sono stati fatti alla sanità, sui consultori che sono stati chiusi e su una legge che non viene applicata".

"Se devi fare questi show...a differenza degli altri io sono qui con voi", risponde Boldrini provando a placare la giovane. "Non è uno show, io la rispetto come persona ma non come istituzione. Ve ne dovete andare via perché voi non rappresentate le rivendicazioni di questa piazza. Le donne, le compagne, che sono venute qua a manifestare per l'aborto libero e gratuito non ce l'hanno anche per colpa sua. Il suo partito non ha difeso questo diritto. Se ne vada". "Allora ve lo difenderà Fratelli d'Italia", ha risposto seccata Boldrini prima di lasciare la piazza tra i cori delle manifestanti.

 "I dirigenti del Pd vadano nelle periferie..." Il 'mea culpa' sui diritti sociali. Lo scontro tra le attiviste pro-aborto e la Boldrini riaccende lo scontro tra diritti sociali e diritti civili. Ora il Pd fa 'mea culpa'. Francesco Curridori il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.

"I vostri principi e valori sono per i ricchi, perché noi nelle periferie non abbiamo servizi”. In questa frase, gridata in faccia a Laura Boldrini da un'attivista durante una manifestazione pro-aborto, si racchiude i motivi della sconfitta del Pd alle Politiche.

L'ex presidente della Camera è stata letteralmente mandata via dalla piazza perché ha commesso l'errore di fondo della sinistra italiana che mette sullo stesso piano i diritti civili e i diritti sociali. L'esito delle urne ha messo in evidenza che il M5S è cresciuto molto puntando sul reddito di cittadinanza e sul contrasto alla povertà, mentre il Pd che si è concentrato maggiormente sui diritti civili cresciuto è calato vistosamente dall'inizio della campagna elettorale. Dentro il Pd, però, è ancora presto per fare mea culpa. “I diritti sociali van tenuti insieme coi diritti civili”, ribadisce la deputata Chiara Gribaudo, parlando con ilGiornale.it. Gli fa eco il collega Andrea De Maria che, per sostenere la sua tesi, prende come esempio lo Ius Scholae “che riconosce un diritto di civiltà ed insieme promuove coesione sociale ed integrazione”. Secondo il parlamentare dem, insomma, non si può scegliere tra i due diritti perché “con la destra al governo saranno a rischio diritti consolidati e, con la flat tax, sarà colpita l'equità sociale”. 

L'uscente Alessia Morani ritiene che le contestazioni alla Boldrini siano legittime “poiché siamo in democrazia”, ma proprio per questo motivo crede che “nessuno possa cacciare da una piazza chi manifesta per la difesa di un diritto”. Se, dunque, secondo la parlamentare uscente, sulla 194 è bene che la sinistra non si divida perché “l’avversario politico è da un’altra parte”, sulla recente campagna elettorale il Pd deve fare autocritica. È stata condotta “senza messaggi e proposte forti per dare soluzioni ai problemi delle persone che sono terrorizzate per il loro futuro”, dice la Morani spiegando che “non è tanto l’attenzione ai diritti civili che ci ha penalizzato ma la mancanza di proposte convincenti su economia e lavoro”. Ed è in questa mancanza che si è inserito il M5S difendendo strenuamente il reddito cittadinanza, mentre il Pd ha fatto una campagna elettorale “focalizzando l’attenzione sui motivi per cui gli italiani non avrebbero dovuto votare la destra piuttosto che sulle nostre proposte”, ammette la Morani. Che, poi, attacca i vertici del Pd: “Se alcuni nostri dirigenti politici andassero nelle periferie e nei quartieri popolari si accorgerebbero delle condizioni in cui vivono tantissime persone: immondizia sotto i palazzi, strade crivellate dalle buche, microcriminalità diffusa. Agli abitanti di quei quartieri devi risolvere i problemi che vivono ogni giorno”. Secondo la Morani, il Pd, anziché utilizzare le soluzioni “veloci, dirette e brutali” dovrebbe “realizzare politiche sociali per fare uscire gli abitanti di quei quartieri da degrado esistenziale, sociale e urbano”. Essendo venute a mancare queste risposte “non possiamo avere consenso da chi abita nelle periferie. Anzi, per loro, - ammette la deputata dem - in qualche caso siamo parte del problema”.

“Boldrini vattene”. Contestazione al sit-in sull'aborto: dem cacciata a male parole. Il Tempo il 29 settembre 2022

Brutta serata per Laura Boldrini, contestata pure dalle femministe. Ieri sera a Roma alla piazza convocata per ribadire la necessità del diritto all’aborto da ‘Non Una di Meno’, le studentesse hanno allontanato la deputata dem. «Vattene, non rappresenti le rivendicazioni di questa piazza» un passaggio del duro botta e risposta ieri in piazza Esquilino a Roma tra l'onorevole Pd e alcune manifestanti intervenute al sit in organizzato per la Giornata mondiale dell’aborto libero, sicuro e gratuito. La presenza della Boldrini non è piaciuta alle partecipanti, che l’hanno attaccata fino a costringerla ad allontanarsi dalla piazza.

Il casus belli è la pillola anticoncenzionale. Una manifestante, Giulia, chiede alla Boldrini: «Lei lo sa cosa fece la Lorenzin?». Si riferisce all’ex ministro della Salute che «rese la pillola anticoncezionale a pagamento Non lo sa?». Boldrini prova a difendersi: «Ma il problema non è questo...». «Ah, non è questo?», la incalza la ragazza. «Il problema è la distribuzione della pillola», ricorda Boldrini. «Lo vada a dire ai giovani, ai precari, a chi vive nei quartieri popolari», continua la femminista. «Capisco che sei arrabbiata...», prova a placarla la deputata ma è una missione impossibile: «Chi rappresenta, lei?», chiedono alla deputata. Boldrini abbozza una risposta: «Rappresento i principi e i valori». «Si vede che non li rispetta, mi dispiace tanto». «Andatevene subito, non rappresentate le rivendicazioni di questa piazza, non accettiamo la presenza di chi rappresenta il simbolo di una politica guerrafondaia come quella del Partito Democratico», urla una seconda manifestante.  

Boldrini prova a far valere le sue ragioni: «Il diritto all’aborto ce l’avete, ci sono donne in parlamento che hanno combattuto per questo. La rottura tra dentro e fuori non funziona, dovremmo essere unite». Torna alla carica la prima ragazza. «Lo sa perché non siamo unite? Perché a lei delle persone nelle case popolari non gliene frega niente. Io quelle persone invece le difendo. Sui tagli non mi ha risposto, sui consultori chiusi nemmeno. Non se nemmeno dell’esistenza della legge 405, che non viene applicata. A voi non ve ne fotte un cazzo». Boldrini si spazientisce: «Se devi fare questi show...». «Non è uno show», aggiunge la ragazza. E Boldrini: «A me questo sembra un atteggiamento assurdo, bisogna parlare con rispetto». C’è chi precisa il tenore delle critiche: «La stiamo criticando politicamente, non personalmente. Non rispettiamo ciò che lei rappresenta». Boldrini prova un’ultima difesa: «Ma se siamo l’unico partito che difende questa legge...». «A noi non è sembrato», replicano ancora. «E allora ve la difenderà Fratelli d’Italia», conclude la deputata Pd con un applauso ironico alle sue contestatrici, prima di voltare le spalle e allontanarsi dalla discussione. È a quel punto che le manifestanti la cacciano, al grido di «Via, via, via!». «Vada a raccontarlo da un’altra parte che lei è un’alternativa», aggiunge qualcun’altra. L’onorevole è stata respinta con perdite. 

Monologo dentro la vagina. Le contestatrici esagitate di Boldrini, lo sciocco legislatore e il mio caro, carissimo, Nuvaring. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Settembre 2022.

Le adolescenti che protestano in piazza contro chi ha reso a pagamento la pillola anticoncezionale non sanno che non è mai stata gratis né quanto sia difficile acquistare una confezione da tre anelli di silicone

Mentre cominciavo a scrivere questo articolo, nella mia carrozza del treno due ragazzine che avranno avuto sedici anni, o poco più o poco meno, ridevano istericamente. Oltre a una beauté de l’âge, ne esiste anche una specifica sovreccitazione, e quella delle passeggere non era dissimile da quella del video meno sorprendente che si veda da ieri sui social.

Nel video romano, altre ragazzine – più di malumore ma altrettanto esagitate – aggrediscono Laura Boldrini, nel loro universo corresponsabile di non concedere alle cittadine italiane l’aborto gratuito e la pillola pure.

Qualunque adulta sorride, perché la prescrittiva gratuità dell’aborto è il problema della 194 da cui discendono tutti gli altri. Se a chi se lo può permettere fosse consentito andare ad abortire in clinica, i medici obiettori nella sanità pubblica peserebbero meno sull’efficienza del servizio. Ma la 194 è una legge beghina che permette ai medici di obiettare alle loro mansioni, e vieta alle pazienti di pagare per disfarsi d’una gravidanza indesiderata.

Alla Boldrini – a qualunque politica di sinistra di lungo corso, e dico «politica» per assecondare lo sciocco identitarismo per cui, per legiferare sui raschiamenti, occorre avere un utero – si potrebbe semmai rinfacciare di non aver demolito e riscritto la 194 quando sono state al governo. Ma per sapere cosa rinfacciarle devi conoscere il mondo, e le sedicenni sono convinte il mondo sia cominciato quando loro si sono aperte un TikTok.

Sì, lo so che chiunque si affacci sui social vede trentacinquenni certissimi che queste siano state le prime elezioni in cui i fuorisede non potevano votare, ma quella è patologia. Il non sapere un cazzo delle sedicenni è invece fisiologico: sono nate ieri, cosa volete che sappiano.

Ognuno conosce solo la propria esperienza, io che pure di anni ne ho cinquanta sono qui che mi chiedo di cosa parlino quando rimproverano la Boldrini di non essersi opposta a chi ha reso a pagamento la pillola: ho preso la pillola dal 1986 a una decina d’anni fa e l’ho sempre pagata, se era gratuita devono rimborsarmi un sacco di soldi.

Al cui proposito, lasciate che vi parli del contenuto delle mie mutande. Ho smesso di prendere la pillola perché a salvarmi dall’endometriosi è arrivato un sostituto per l’inventore del quale vorrei non solo il Nobel per la medicina ma anche quello per la Pace.

Il Nuvaring è un anello di silicone che t’infili nelle innominabilità (suona scomodissimo; non lo è) per ventuno giorni al mese, lo stesso ciclo della pillola anticoncezionale, e ha fatto per la qualità della mia vita miracoli che nessun oggetto o essere vivente avevano compiuto mai.

Perché ve ne parlo? Mi sono forse messa a piazzare anticoncezionali come la Ferragni piazza tortelli? No, è che il Nuvaring è venduto in due tipi di confezioni. Quella da uno costa diciannove euro e quarantacinque. Quella da tre ne costa quarantotto.

Se siete disorganizzate come me, comprerete quella da tre per evitare di ritrovarvi ogni mese senza proprio nel giorno in cui dovete infilarlo, non essendovi ricordate di comprarne uno nuovo per tempo. Ma, nel comprare quella da tre, risparmiate anche qualche decina di euro l’anno.

Quindi, quando il mese scorso sono andata in una farmacia diversa dal solito, e mi hanno detto che potevano vendermi senza problemi la confezione da uno, ma non quella da tre per la quale serve la ricetta non ripetibile, la sedicenne in me ha urlato allo scandalo: volete impedirmi di risparmiare.

Il vantaggio d’essere una vecchia bacucca è che t’interroghi sulle ragioni delle cose. Ho chiesto a diversi farmacisti e medici, e pare che la ragione sia che, «secondo il legislatore», se io assumo ormoni, ogni tre mesi devo farmi controllare e verificare se quegli ormoni vanno ancora bene per me.

Il legislatore è evidentemente uomo, altrimenti saprebbe che nessuna donna va ogni tre mesi dal ginecologo. Altrimenti saprebbe che nessuna dà duecento euro al ginecologo per avere una ricetta: vai a fartele fare dal medico della mutua (che le fa fare dalla segretaria), e puoi prendere ormoni per una vita senza che nessuno ti abbia mai fatto fare un dosaggio ormonale.

Lo so, lo so: il punto non è che il legislatore non sa queste cose perché, non essendo donna, non ne ha fatto esperienza; è che non le sa perché non si è informato sulla materia di cui legifera. Abbiamo sostituito l’identitarismo allo studio: se non sei in grado di capire come funziona un apparato riproduttivo dai libri, sarà utile che almeno tu ne abbia uno, per capire che leggi fare a di esso tutela.

A ogni farmacista ho chiesto: ma il legislatore che le permette di darmi dieci o venti confezioni da un solo Nuvaring senza ricetta, ma ritiene di tutelarmi dall’incauto acquisto d’una confezione da tre, a quel legislatore lì non sarebbe meglio riconoscergli un’invalidità intellettuale con relativo sussidio che gli consenta di ritirarsi senza ulteriori danni dal mondo del lavoro? Ogni farmacista ha emesso gemiti d’impotenza. La mia ginecologa mi ha poi detto che per il legislatore il farmacista può vendermi non più di un anello al mese, e non senza ricetta. Informazione evidentemente andata perduta nelle comunicazioni ministeriali a tutti i farmacisti che ho incontrato.

Chissà se tutto questo la Boldrini (o la Lorenzin, o chi vi pare) lo sa: io non sarei andata a strillarglielo perché sono un’adulta; e chi ha l’età per strillarglielo non lo sa perché, ontologicamente, non sa un cazzo.

Poi nella carrozza è arrivato il controllore. Le ragazzine sono corse da lui e, sempre ridendo moltissimo, gli hanno detto che avevano sbagliato treno e dovevano andare a Imola. Lui le ha guardate e, come un adulto così ottuso da pensare di poterne cavare una risposta razionale, ha chiesto perché mai avessero preso un treno con scritto «Bari centrale». Loro hanno detto «eh, non abbiamo guardato», perché hanno l’età alla quale Letta voleva concedere il diritto di voto e non sanno come si prenda un treno.

Guardavo loro, guardavo il video della Boldrini, pensavo alla sconfitta di Letta, e pensavo a quelle due righe di Scott Fitzgerald che più o meno dicevano: per molto tempo, da allora in poi, Anson credette che un dio protettore ogni tanto interferisse nelle vicende umane.

Il filo rosso che collega Giorgia Meloni e Bettino Craxi. Gaetano Amatruda su Il Riformista il 28 Settembre 2022 

C’è qualcosa che lega Giorgia Meloni e Bettino Craxi. C’è la previsione sui tempi di durata a Palazzo Chigi, un filo rosso sulle Riforme, la formazione. Molti osservatori e addetti ai lavori, l’ultimo Carlo Calenda, prevedono per il leader di Fratelli d’Italia una durata massima di sei mesi. Non è l’unico perché altri immaginano una esperienza complicata e carica di insidie. Il mantra ‘tanto durerà poco’ è l’auspicio che rassicura molti. Si sbagliano.

Erano gli stessi umori di quelli che pronosticavano, nel 1983, una breve parentesi di Bettino Craxi alla Presidenza del Consiglio. Andò diversamente ed il leader socialista animò il governo più longevo della Prima Repubblica. Mise nella compagine governativa i leader dei partiti e lavorò, senza rinnegare la collocazione assegnata dalla storia, ad un profilo internazionale autorevole e mai scontato.

La Meloni farà lo stesso. Coinvolgerà i leader dei partiti, affiderà loro ruoli centrali per non aprire crepe, e confermerà la collocazione internazionale del Paese ma con un profilo diverso. Autonomo e non culturalmente subalterno ai luoghi comuni. D’altra parte, in relazione alla guerra in Ucraina, fu Ignazio La Russa, intervenendo in Aula, ad auspicare iniziative simili a quelle che Craxi mise in campo a Sigonella. Ca va sans dire…

La prima donna a Palazzo Chigi, con queste mosse che naturalmente sono solo parte di una azione che dovrà essere più ampia e complessa, supererà ogni pronostico. Non sarà una meteora ed animerà un’esperienza di governo fra le più stabili ed incisive della storia repubblicana.

E riuscirà, con la efficace idea della Bicamerale, a gettare le basi per il Presidenzialismo. Un vecchio pallino della destra, dai tempi di Giorgio Almirante, ma anche e soprattutto un’idea di Bettino Craxi. Le Grandi Riforme del segretario socialista andavano nella stessa direzione.

La partita è appena iniziata. Chi sottovaluta la Meloni, che come Craxi è diplomata ma laureata alla università della vita, che come Craxi è cresciuta nella militanza, e lontana dai poteri forti e dai salotti radical chic, commetterà un grave errore.

Gaetano Amatruda. Giornalista professionista, ha scritto per ‘Il Socialista Lab’, per ‘Il Pezzo Impertinte’. Ha lavorato alla Presidenza del Consiglio e come Portavoce in Campania. È social media manager ed appassionato di campagne elettorali.

Il trionfo della Meloni visto da Israele. Israele in allarme per il governo Meloni: “Italia nelle mani dei neofascisti”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il  28 Settembre 2022 

Se c’è un Paese e un popolo che hanno fatto i conti, diretti o indiretti, con il fascismo, quel Paese è Israele. Ed è di grande interesse ciò che su Giorgia Meloni e la sua storia scrive uno dei più autorevoli giornali d’Israele: Haaretz. Sul tema scrive Ariel David. Un articolo bene informato, meglio documentato, che non usa mezzi termini nel raccontare la premier in pectore dell’Italia post 25 settembre. E’ bene partire dal titolo: “Il malessere economico e politico dell’Italia ha spinto il Paese nelle mani dell’estrema destra”. E dal sommario: “Giorgia Meloni, leader di un partito di matrice neofascista, ha conquistato il voto di protesta dell’Italia e si appresta a diventare il primo presidente del Consiglio donna del Paese”.

Scrive tra l’altro David: «Ancor più del trionfo della Meloni, il crollo dell’affluenza riflette il malessere politico ed economico che ha spinto l’Italia tra le braccia dell’estrema destra e dell’ultima giovane populista di grido che ha abilmente attirato il voto di protesta con un registro ormai fin troppo familiare, fatto di slogan nativisti, retorica euroscettica e politiche anti-immigrati. Negli ultimi due anni l’Italia è stata governata dal rispettato Mario Draghi, l’ex governatore della Banca Centrale Europea, sostenuto da una coalizione che comprendeva quasi tutti i partiti in parlamento, tra cui la Lega, partito xenofobo, e il Movimento Cinque Stelle, partito di base anti-establishment. Molti elettori sono rimasti a casa domenica a causa della frustrazione per il fatto che il governo di Draghi, così come i precedenti due gabinetti, sono emersi da accordi politici in segreto piuttosto che dalle urne.

Sebbene Draghi abbia gestito bene l’uscita del Paese dalla crisi del Covid-19, l’economia italiana sta subendo un nuovo colpo a causa dell’aumento dell’inflazione e dei prezzi record dell’energia legati all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. A ciò si aggiunga che lo stesso Draghi non si è candidato – il rispetto per i tecnocrati raramente si traduce in voti – e il centro-sinistra mainstream non è stato in grado di presentare un fronte unito e una leadership credibile. Tutti questi elementi hanno rappresentato una chiara opportunità per l’unica grande forza politica rimasta fuori dal governo Draghi: Fratelli d’Italia della Meloni, un partito che affonda le sue radici nel Movimento Sociale Italiano, fondato dai sopravvissuti del regime di Benito Mussolini nel dopoguerra e che alle ultime elezioni ha raccolto appena il 4% dei voti.

La Meloni, cresciuta nei movimenti giovanili di estrema destra, ha chiaramente imparato questa lezione politica di ambiguità e dissimulazione. Da un lato rassicura i moderati, i leader mondiali e i media internazionali che il suo partito rifiuta l’estremismo e ha consegnato il fascismo “alla storia”, trasformandosi in una forza nazional-conservatrice mainstream. Dall’altro, asseconda la base neofascista del suo movimento con promesse di un blocco navale del Nord Africa per fermare gli immigrati e spesso si esprime con una retorica in stile Duce nel suo accento romano d’origine. Usa lo slogan di epoca fascista “Dio, patria, famiglia” per chiedere la protezione dei “valori cristiani tradizionali” e sminuisce le persone che soffrono di tossicodipendenza, alcolismo, obesità e anoressia come “devianti”. I suoi assoli preferiti durante i comizi includono “Sì alla famiglia naturale, no alle lobby LGBT!” e inveisce contro le “élite globali” e la “finanza internazionale”.

La Meloni ha perseguito in modo spietato e senza vergogna il voto di protesta, dicendo essenzialmente tutto il necessario per riunire sotto la sua bandiera chiunque avesse da ridire sul governo di unità nazionale. Nei giorni più bui della crisi del Covid-19, ha flirtato con i no-vax e si è opposta alla misura del “green pass” dell’Italia, anche se in precedenza si era espressa a favore delle vaccinazioni. La stessa ambiguità si riscontra nella crisi della guerra in Ucraina: pur avendo sostenuto la Nato e le sanzioni alla Russia, nel suo libro di memorie del 2021 ha anche espresso ammirazione per il presidente russo Vladimir Putin, che secondo lei “difende i valori europei e l’identità cristiana”.

La Meloni è salita al potere con poca esperienza di governo: la carica più alta che ha ricoperto è stata quella di ministro della Gioventù, più di dieci anni fa, in un governo conservatore guidato da Silvio Berlusconi. Quale delle mutevoli identità politiche della Meloni detterà le sue politiche? Sarà la conservatrice moderna che sostiene di essere, o indietreggerà verso le sue radici politiche?

È indubbio che molti dei membri di Fratelli d’Italia, partito che prende il nome dal primo verso dell’inno nazionale, sono nostalgici che spesso vengono sorpresi in pubblico a fare il saluto fascista a braccio teso. Ma è improbabile che queste figure abbiano un ruolo chiave nel governo. La Meloni dovrà trovare un delicato equilibrio con i suoi alleati di coalizione, quello un tempo dominante, Berlusconi, e la Lega, che probabilmente non gradiranno di essere relegati al ruolo di junior partner. E anche se in cuor suo conserva l’ammirazione giovanile per il Duce, che una volta salutava come “un buon politico”, perché la Meloni dovrebbe riprodurre una formula perdente quando ci sono esempi contemporanei apparentemente più riusciti che può seguire e che ha apertamente ammirato?

È più probabile che il governo della Meloni segua le orme dell’ungherese Viktor Orban e sostenga politiche simili a quelle proposte dal partito spagnolo Vox e dal Rassemblement National di Marine Le Pen in Francia. Se il suo governo durerà (e questo è un grande se), l’Italia non tornerà ai tempi di Mussolini, ma sarà un luogo meno liberale che cercherà di limitare il diritto all’aborto, le libertà per i migranti, le persone LGBTQ e altre minoranze. Insieme alle altre forze populiste in ascesa in Europa, la Meloni continuerà probabilmente a indebolire e minare i valori e le istituzioni dell’UE, rafforzando l’ondata di nativismo e nazionalismo che sta attraversando il continente».

Più chiaro di così. Da Israele, dove la memoria non è labile.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Joe Biden, la frase rubata contro Meloni: "Visto cosa è successo?" Libero Quotidiano il 29 settembre 2022

"Avete visto cos'è successo in Italia?". Il sincero democratico Joe Biden teme il tracollo alle elezioni mid-term americane, che potrebbero vedere il presidente già in crisi diventare a tutti gli effetti "un'anatra zoppa", utilizza un attacco strumentale a Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia a fini puramente interni. E immaginiamo che le parole dell'ex vice di Barack Obama nelle prossime ore inizieranno a girare vorticosamente sui profili social di esponenti e illustri commentatori di sinistra, in mobilitazione "anti-fascista" permanente. 

Il presidente degli Stati Uniti ha menzionato il risultato delle elezioni italiane durante una raccolta fondi organizzata dai governatori democratici, invitandoli a "non essere ottimisti" in vista delle elezioni di medio termine del prossimo 8 novembre, che potrebbero vedere i repubblicani conquistare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. "Avete appena visto cosa è accaduto in Italia in quella elezione. State vedendo cosa sta accadendo intorno al mondo", ha detto Biden, a quanto riferito su Twitter da Seung Min Kim, cronista di Associated Press, "la ragione per cui mi preoccupo di dire questo è che non potete essere ottimisti nemmeno su quello che sta accadendo qui".

Secondo Seung Min Kim, Biden stava "lanciando un monito sul destino della democrazia". Il discorso di Biden, che si trovava a un evento della Democratic Governors Association a Washington, non era preparato. E appare destinato, facile previsione, ad avere un posto di rilievo nel dibattito politico italiano nelle prossime ore. Al di là del terrore di Biden per Donald Trump, il presidente americano sembra dimenticare (o semplicemente non sa) che lo stesso Trump aveva fatto endorsement non per la Meloni ma per Giuseppe Conte, e che la leader di Fratelli d'Italia si è più volte dichiarata (e sempre dimostrato nei fatti) filo-americana, filo-atlantica e filo-Nato. 

Da iltempo.it il 30 settembre 2022.

Tra gli effetti collaterali della vittoria del centrodestra alle elezioni politiche del 25 settembre c'è il ritorno sulle barricate di Roberto Saviano. Lo scrittore di Gomorra non lesina i soliti allarmi sulla tenuta democratica del paese e nel suo mirino ci sono sempre Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Dopo un intervento sul britannico Guardian in cui affermava che la leader di FdI è un "pericolo, non solo per l'Italia ma per tutta l'Europa", Saviano passa all'arcinemico Salvini al quale dedica un articolato post, pubblicato su Instagram. 

Il leader della Lega "è già stato al Viminale, ed è stato un disastro epocale", scrive lo scrittore che accusa il senatore di aver "compiuto atti folli per avere consenso: ha sequestrato esseri umani per ragioni di propaganda politica, pensando di poterlo fare impunemente".

Al Viminale, Salvini, "ha intimidito e minacciato qualunque voce critica nei suoi riguardi", tra cui, naturalmente, lo scrivente... "Io stesso sono stato querelato da lui, su carta intestata del Viminale, nel silenzio indegno del governo di cui era parte" attacca Saviano che accusa il leghista di essere filorusso: "Pensare di mettere gli apparati di sicurezza del nostro Paese a disposizione di un fiancheggiatore di Putin, in una fase di guerra come quella che stiamo vivendo, sarebbe un atto criminale", scrive.

Insomma, il solito ritornello. Tra l'altro, un paio di giorni fa è stato reso noto che lo scrittore andrà a processo per diffamazione dopo aver dato della "bastarda" a Meloni durante una puntata di Piazzapulita, il programma di Corrado Formigli su La7, del 2020. Ma a sentirsi iscritto in una "lista nera" è lo stesso autore di Gomorra. 

"Leggo #Saviano in tendenza perché gli elettori di Meloni mi ’invitano' a lasciare il Paese. Questi sono avvertimenti. Questa è l’Italia che ci aspetta. Stanno già stilando una prima lista nera di nemici della patria, alla faccia di chi diceva che il Fascismo è un’altra cosa", è il timore di Saviano sui social dove lancia l'hashtag #resistere che ha fatto indignare molti.

Da iltempo.it il 30 settembre 2022.

Il tiro a Giorgia Meloni da parte della nutrita galassia mediatica della sinistra è partito da mesi ma dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni è arrivato a livelli mai visti. C'è anche chi cavalca una vicenda tirata fuori dalla stampa spagnola e che coinvolge il padre della leader di FdI, che come ha raccontato lei stessa ha lasciato la famiglia quando lei era ancora una bambina. È il caso della giornalista palestinese con cittadinanza israeliana e italiana, Rula Jebreal, che ha rilanciato sui social un pezzo di Repubblica: "Il padre di Giorgia Meloni condannato per narcotraffico".

"Durante la sua campagna elettorale, Giorgia Meloni il nuovo Primo Ministro italiano, ha promosso un video di stupro in cui si afferma che i richiedenti asilo sono criminali che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironia della sorte, il padre di Meloni è un famigerato trafficante di droga/criminale condannato che ha scontato una pena in una prigione", scrive Jebreal inanellando in poche righe una serie sorprendente di imprecisioni. Per esempio, Meloni non è ancora premier. E poi, se la giornalista si riferisce al video di Piacenza, non si capisce quando la leader di FdI abbia espresso i concetti che le vengono attribuiti.

La stessa Meloni interviene sui social rilanciando il post di Rula Jebreal e commentando la scelta dei giornali che hanno rilanciato la notizia sul padre. "Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo piu all'età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte", spiega Meloni, "Ma poco importa, se i 'buonisti' possono passare come un rullo compressore sulla vita del 'mostro'. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c'è anche il detto 'le colpe dei padri non ricadano sui figli'". In coda, un post scriptum dedicato alla "Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce".

Il “caso Meloni-Jebreal” e la stampa monnezza. Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'1 Ottobre 2022. 

La solita sinistra radical-chic che ha trovato nelle ultime ore megafono nelle volgarità di tale Julia Rubreal. Il solito squadrismo giornalistico galoppante di giornalisti che definire "giornalai" sarebbe un offesa per i poveri incolpevoli edicolanti.

Se qualcuno crede che il volgare attacco della stampa spagnola a Giorgia Meloni sia frutto della loro opera, allora lasciatemelo dire non avete capito niente sul basso livello a cui è arrivata la stampa sinistrorsa che non riesce ancora ad accettare ed ingoiare il rospo di vedere una ragazza che dal quartiere popolare più sinistrorso di Roma, la Garbatella è riuscita a fondare un partito diventandone il leader incontrastato. La vicenda del padre della Meloni risale a 27 fa, era il 1995, quando in Spagna il padre Francesco Meloni, fu condannato a nove anni di reclusione per narcotraffico alle Canarie. All’epoca la leader di Fratelli d’Italia aveva appena raggiunto la maggiore età e da sette anni aveva rotto i ponti con quel genitore che, quando aveva circa un anno, l’aveva abbandonata, lasciandola sola con la madre.

La solita sinistra radical-chic che ha trovato nelle ultime ore megafono nelle volgarità di tale Julia Rubreal, figlia dell’Imam della moschea di Al-Aqsa, la più grande di Gerusalemme, israeliana di origine palestinese, nata a Haifa, cresciuta in Israele e poi trasferitasi in Italia grazie ad una borsa di studio del nostro Governo, ha attaccato com delle volgari affermazioni Giorgia Meloni sfruttando le squallide ed inconsistenti accuse rivoltele dalla stampa spagnola, venendo ripresa guarda caso dal quotidiano La Repubblica. Il solito squadrismo giornalistico galoppante di giornalisti che definire “giornalai” sarebbe un offesa per i poveri incolpevoli edicolanti.

La Rubreal deve la sua visibilità televisiva in Italia ad una stretta amicizia con la tunisina Afef Jnifen, all’epoca dei fatti moglie di Marco Tronchetti Provera quando costui era presidente di Telecom Italia e controllava l’emittente televisiva La7, che la impose nei programmi televisivi. Non a caso le venne affidato  il dibattito giornaliero di Omnibus Estate e successivamente il “tema del giorno” del programma quotidiano Omnibus, alternandosi in video con Antonello Piroso (un altro “protetto” dell’ex signora Tronchetti Provera), che una volta rilevata La7 dal Gruppo Cairo, che l’ha rilanciata, è letteralmente scomparso dal giornalismo televisivo

Nel 2013 Rula Jebreal ha sposato il banchiere americano Arthur Altschul Jr., figlio di un partner della potente banca d’affari statunitense Goldman Sachs, da cui ha divorziato nel giugno 2016, dopo averlo cornificato relazione con Roger Waters, il fondatore dei Pink Floyd. Poi amante del regista e gallerista Julian Schnabel che ha diretto il film “Miral” prodotto da Harvey Weinstein – proprio lui il produttore predatore sessuale – tratto dal libro della Jebreal (e accolto da un vespaio di polemiche in Israele che le ha chiesto invano di rinunciare alla cittadinanza).

Nell’agosto 2014, durante un dibattito sul network televisivo americano  MSNBC, la Jebreal accusò i media statunitensi di essere troppo sbilanciati a favore di Israele, portando ad esempio il numero e la durata delle interviste con esponenti israeliani rispetto a quelle con esponenti palestinesi. Questo atteggiamento, a suo dire, “fornirebbe al pubblico un quadro distorto e parziale del conflitto a Gaza“. In seguito a queste affermazioni, venne giustamente “oscurata” dalla rete.

“La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe/punizioni collettive” ha scritto la Jebreal sul suo account Twitter

La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza.

Persino Carlo Calenda su Twitter  ha criticato la Jebreal: “Rula questa è una bassezza. Non si fa politica così e tanto meno giornalismo. Quello che ha fatto il padre della Meloni non c’entra nulla con lei. Cancella questo tweet che tra l’altro ha l’unico effetto di portare ancora più gente a sostenere Fdi“ su Twitter in molti accostano le parole della giornalista italo-israeliana di origine palestinese alla replica di Giorgia Meloni che annuncia querela. Molti i commenti, uno per tutti a sintetizzare il “sentiment” negativo: “Quindi la Turci, la Pascale, la Jebreal e quelli che ‘se vince la destra me ne vado dall’Italia’, si tolgono dalle p…? Davvero davvero?“. Magari rispettassero i loro intenti annunciati ! 

“Le affermazioni diffuse via social dalla signora, anche se è difficile definirla tale, Rula Jebreal, sono vergognose e farneticanti. Per attaccare Giorgia Meloni utilizza la storia personale del padre che la abbandonò quando aveva un anno di età e che Giorgia Meloni stessa ha raccontato di aver escluso dalla sua esistenza durante l’infanzia”. Le parole di Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, riassumono lo sdegno del centrodestra e di buona parte del mondo politico per l’attacco della giornalista alla leader di Fdi il cui padre, 27 anni fa, fu condannato a nove anni di reclusione per narcotraffico. “Di quell’uomo fu vittima e oggi lo è anche di una giornalista senza scrupoli né alcun limite etico, che pur di aggredirla è pronta a sfruttare una vicenda dolorosa rispetto alla quale Giorgia Meloni non solo è estranea, ma ne è rimasta danneggiata sotto ogni aspetto. La seconda questione appare ancora più grave sul piano deontologico per una persona che si definisce giornalista e opinionista televisiva, e cioè l’attribuzione di gravissime affermazioni e posizioni politiche che in realtà Giorgia Meloni mai ha pronunciato né pensato. È evidente che il risultato elettorale ha obnubilato le menti di molti, spingendoli a prendere posizioni ingiustificabili” continua Lollobrigida.

Anche il presidente del M5s Giuseppe Conte ha scritto un post in difesa della Meloni: “Questo è fango su Giorgia Meloni. Io ,Meloni e Fratelli d’Italia, con il M5S li combatto in tutte le sedi, ma sul piano politico. Non si possono però addebitare in maniera subdola a una figlia – che dal genitore è stata abbandonata, senza avere più rapporti – i reati e gli errori del padre. È inoltre intollerabile mettere etichette su chi viene da situazioni difficili e cerca la propria strada e il riscatto lontano da quel contesto.” . Anche il pentastellato Stefano Buffagni è intervenuto: “Oggi Giorgia Meloni sta per diventare premier ed ecco che dal cilindro di certa stampa tirano fuori questa notiziona, quest’articolone, questo schifo. Vi giuro sono nauseato. Già, perché, rivedo un film già visto: certa stampa, mossa da certi apparati, è il braccio armato di chi inneggia alla democrazia ma poi non l’accetta e usa qualsiasi mezzo per screditare l’avversario politico di turno. Tra l’altro entrando nella sfera privata di una donna che dal padre è stata abbandonata quando era piccola. È capitato con il M5S, con me personalmente, e ora tocca alla Meloni essere aggredita sul piano personale. In moltissime occasioni ho attaccato Giorgia Meloni per le sue idee e per le sue dichiarazioni. Ma oggi devo dirle con il cuore: ti sono vicino, non ti curar di loro“.

Sulla questione è intervenuto anche Matteo Salvini: “Chi fa battaglia politica attaccando non l’avversario, ma mamma, papà, figli, mogli o mariti, è un piccolo uomo. O una piccola donna. Abbiamo vinto democraticamente le elezioni, fatevene una ragione“. 

Oggi Giorgia Meloni ha replicato: “Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno.Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte. Ma poco importa, se i ‘buonisti’ possono passare come un rullo compressore sulla vita del ‘mostro’. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto ‘le colpe dei padri non ricadano sui figli’.

Ps. Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce”, ha scritto su Facebook la leader di FdI. Redazione CdG 1947

Purtroppo nella politica moderna si fa così. Cara Rula Jebreal cosa diavolo c’entra il padre della Meloni? Populismo e moralismo hanno ucciso la politica. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2022 

Prima un grande giornale spagnolo, poi Repubblica e diversi altri giornali e siti web italiani, infine la celebre giornalista Rula Jebreal, hanno scagliato un attacco contro Giorgia Meloni raccontando la storia di suo padre, che tanti anni fa fu condannato in Spagna a nove anni di carcere per narcotraffico. All’epoca Giorgia era poco più che una ragazza e da molti anni non aveva più rapporti con il padre.

In una sua dichiarazione Rula Jebreal l’ha accusata di prendersela sempre, genericamente, contro i migranti, senza capire che se un migrante commette un reato lui e solo lui ne è responsabile. Secondo la Jebreal questo atteggiamento è in contrasto con il fatto di avere un padre che è stato condannato per droga. In realtà non è chiarissimo il ragionamento della Jebreal, che comunque ha prodotto una valanga di polemiche e di proteste. Soprattutto quella di Francesco Lollobrigida a nome di Fratelli d’Italia e quello di Carlo Calenda. Il quale ha fatto osservare a Rula Jebreal che non è questo il modo di fare correttamente lotta politica.

La stessa Giorgia Meloni ha ricordato di avere più volte raccontato la storia dolorosa dei rapporti con suo padre, che la abbandonò quando lei aveva poco più di un anno e con il quale dall’età di 11 anni lei non ha più avuto rapporti. In effetti la storia è notissima ed è anche abbastanza noto il fatto che il padre di Giorgia Meloni è morto alcuni anni fa. Queste circostanze hanno prodotto l’indignazione. In realtà sono persino circostanze che non vale neppure la pena di citare.

Se anche Giorgia avesse avuto un rapporto intenso con suo padre e lo avesse amato profondamente, sarebbe stato suo pieno diritto farlo senza che nessuno dovesse usare suo padre per colpirla politicamente. Purtroppo nella politica moderna si fa così. Le regole non esistono. Da molti anni. Soprattutto da quando il populismo, il moralismo, il giustizialismo hanno spazzato via la buona cultura politica.

La mamma di Giorgia Meloni contro Rula Jebreal: «Si vergogni ad attaccarla usando la storia del padre». Redazione Online su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

Anna Paratore, madre di Giorgia Meloni, interviene sulla polemica tra Rula Jebreal e la figlia 

«Si vergogni»: così Anna Paratore , la mamma di Giorgia Meloni , si è rivolta a Rula Jebreal, dopo che la giornalista aveva nei giorni scorsi attaccato la leader di Fratelli d’Italia ricordando la condanna del padre per spaccio di stupefacenti. 

«Dopo che per anni ho sopportato i peggiori insulti nei confronti di Giorgia, bugie e mistificazioni di tutti i tipi, calunnie vergognose che, detto per inciso, se in Italia sei di destra non riesci nemmeno a far condannare in un’aula di tribunale, sono davvero stufa», ha spiegato la mamma di Meloni in una lettera postata da diversi parlamentari di Fratelli d'Italia sui social. 

Una lettera nella quale ha poi attaccato frontalmente Jebreal, definendola una «pseudo giornalista» che «si permette di cianciare su mia figlia utilizzando un padre che a Giorgia è costato solo lacrime, e da cui non ha mai avuto il sollievo di una carezza o di un bacio, per non dire un piatto di minestra. Si vergogni», continua, «visto che attribuisce a Giorgia parole mai pronunciate, concetti violenti e stupidi mai partoriti soprattutto perché, a differenza di tanti bei faccini che fanno carriera sgomitando o grazie ad amicizie importanti, mia figlia scema non è e quando parla sa ciò che dice». 

Il tweet di Jebreal che aveva scatenato la bufera era questo: «La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive». 

La stessa leader di FdI era intervenuta: «Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte», ha scritto. «Ma poco importa, se i “buonisti” possono passare come un rullo compressore sulla vita del “mostro”. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto “le colpe dei padri non ricadano sui figli”». C’è pure un «ps» nel post di Meloni: «Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce». 

Solidarietà a Meloni è stata espressa da politici di partiti i più diversi, da Carlo Calenda a Giuseppe Conte, da Stefano Buffagni a Licia Ronzulli a Deborah Bergamini. 

Jebreal non aveva però ritrattato, anzi: «Non volevo evidenziare la vicenda familiare della Meloni, ma la sua propaganda», ha scritto. «Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump, come si legge sul Washington Post, su The Independent e The Guardian». 

Ora l'intervento della madre di Meloni. Che ricorda anche la sua storia personale: «La mia storia con il padre delle mie figlie non è materia pubblica, così come non credo lo sia la vita di un uomo che è mancato già da svariati anni. Infatti, l’ultima volta che le mie bambine ed io lo abbiamo incontrato, è stato in un lontano pomeriggio intorno al 1988, a Villa Borghese, un giardino pubblico romano, dove Francesco Meloni aveva chiesto di rivedere le sue figlie dopo che da circa 5 anni non avevano sue notizie. Fu un incontro inutile e superficiale, con due bimbette che a malapena si ricordavano di lui, e lui che si faceva chiamare Franco perché sosteneva che “papà” lo invecchiasse. Dopo di allora, il vuoto assoluto. 

Per quello che ne sapevamo noi, poteva essere morto, o felicemente vivo in qualche parte del mondo. Lui non cercava le figlie, le figlie non hanno mai cercato lui. Quando poi Giorgia fu nominata alla vicepresidenza della Camera – molto più di venti anni dopo - ecco arrivare la telefonata di un amico comune. “Franco” avrebbe avuto piacere di rivedere le ragazze: Giorgia disse di no. Come fa sempre, argomentò il suo diniego: “Perché dovrei vedermi con una persona che se incontro per strada nemmeno riconosco? Non ho niente da dirgli”». 

La stessa Meloni aveva parlato del padre, tempo fa, a Verissimo: «Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto».

Jebreal: “Meloni mi querela? Non mi faccio intimidire”. Continua lo scontro tra Meloni e Jebreal. La prima minaccia querela, la seconda dice: non mi faccio intimidire. Il Dubbio il 2 ottobre 2022.

“Meloni mi querela? Sappia che non mi faccio  intimidire”. Continua la saga tra Rula Jebreal e Giorgia Meloni, dopo che la prima aveva attaccato la leader Fdi, dopo la pubblicazione di una vecchia condanna del padre per narcotraffico.

Il tweet di Jebreal

Questo il tweet di Jebreal che ha scatenato la bufera: “Durante la sua campagna elettorale, ⁦Giorgia Meloni, ha pubblicato il video di uno stupro in cui afferma che i richiedenti asilo sono criminalim che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironia della sorte, il padre della Meloni è un famigerato trafficante di droga/criminale condannato, che ha scontato una pena in una prigione”

Tutti contro Jebreal

Il tweet di Jenreal ha provocato una valanga di polemiche, anche il presidente M5s Conte ha scritto un post in difesa della Meloni: “Questo è fango su Giorgia Meloni. Io ,Meloni e Fratelli d’Italia, con il M5S li combatto in tutte le sedi, ma sul piano politico”.

“Rula questa è una bassezza. Non si fa politica così e tanto meno giornalismo. Quello che ha fatto il padre della Meloni non c’entra nulla con lei. Cancella questo tweet che tra l’altro ha l’unico effetto di portare ancora più gente a sostenere FDI”, scrive Carlo Calenda, leader di Azione, rispondendo a Rula Jebreal.

«La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive».

La minaccia di Meloni

“Signora Jebreal – ha scritto Meloni sul suo profilo Facebook – spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce”.

«Il nuovo premier italiano Meloni sta minacciando di citarmi in giudizio per il mio tweet sulle sue cospirazioni sostitutive, che sono in video e ampiamente coperte dai media internazionali». Lo scrive su Twitter Rula Jebreal, spiegando che «tutti gli autocrati usano tali minacce per intimidire e mettere a tacere coloro che li richiamano e li espongono». «Sig.ra Meloni: Non mi faccio intimidire!», conclude nel suo tweet in lingua inglese.

Giorgia Meloni la querela (giustamente), Rula Jebreal grida alla dittatura: è islamofobia. Pietro De Leo su Il Tempo il 03 ottobre 2022

Nel mondo fatato radicalchic funziona così: quando attaccano loro è sempre «impegno civile». Se, però, chi viene attaccato si difende allora diventa intimidazione, sopraffazione, tentativo di tacitare voci libere e via concionando.

Il tema è Rula Jebreal. La giornalista, evidentemente assetata di un nuovo sorso di visibilità nel confronto italiano si è subito scagliata contro Giorgia Meloni dopo la sua vittoria elettorale. Nella maniera più sgradevole possibile: prendendo a pretesto una brutta vicenda di cronaca che ha coinvolto il padre della leader di Fratelli d'Italia per compiere un ragionamento spericolato sulla politica migratoria. Piccolo particolare: Giorgia Meloni e la sua famiglia sono state abbandonate dal padre quand'ella aveva appena un anno e dunque non c'è nulla che colleghi le due biografie da quel momento in poi.

Ovvio che un colpo così basso abbia suscitato reazioni, persino da qualche avversario politico della leader di destra che ha criticato le affermazioni della giornalista. E la stessa Meloni, legittimamente, ha annunciato una querela.

Laddove c'è uno Stato diritto, funziona così: se tu ti senti diffamato, denunci e poi saranno i magistrati a decidere. Stop. E già lì Jebrealha reagito buttandola sull'apocalittico: «Tutti gli autocrati usano queste minacce per intimidire e mettere a tacere coloro che li chiamano in causa e li smascherano», in una evidente divaricazione tra aspirazione e realtà. Proseguita anche con un secondo capitolo. In un tweet, la giornalista si è occupata delle testate di area moderata e conservatrice (tra cui la nostra) colpevoli di aver scritto sulla vicenda. «I media italiani hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino». E ancora: «I facilitatori della coalizione di estrema destra sono forze moderate, che hanno normalizzato una coalizione essenzialmente xenofoba, razzista e autoritaria». E poi la chiusura: «Incitamento sfacciato». O magari un grande atto di generoso, avendo ridonato un quarto d'ora di celebrità a chi, forse, non lo meriterebbe.

Massimo Giletti contro Rula Jebreal: "Perché sparano queste cose?" Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022 

"Perché si sparano queste cose?". Massimo Giletti, a Non è l'arena su La7, non nasconde il suo disgusto per il tweet con cui Rula Jebreal ha usato i guai con la giustizia del padre di Giorgia Meloni per attaccare la leader di Fratelli d'Italia. Per inciso: l'uomo, poi arrestato per narcotraffico, aveva lasciato la famiglia quando la Meloni aveva un anno, si era trasferito in Spagna e ha visto per l'ultima volta la figlia quando questa aveva 11 anni. Poi, i rapporti si sono dolorosamente chiusi.

Tanto che la stessa Meloni, una volta diventata giovane vicepresidente della Camera, alla richiesta del padre di poterla rivedere aveva risposto con queste parole, ricordate proprio da Giletti: "Perché dovrei rivedere una persona che se incontro per strada non riconosco nemmeno? Non ho niente da dirgli". 

"Queste storie non dovrebbero entrarci per nulla - riconosce Gad Lerner, in studio -. E' evidente che Rula Jebreal abbia pisciato fuori dal vaso". "Ma io vado oltre - lo interrompe Giletti -, perché si cerca ogni cosa per colpire l'avversario? E' questo che è intollerabile". "In questa campagna - ribatte Lerner - non c'è stato nessuno attacco personale e nessuno che ha gridato al ritorno del fascismo in caso di vittoria del centrodestra". Punti di vista molto, molto personali. 

"Ha pisciato fuori dal vaso". Lerner asfalta Rula Jebreal. Luca Sablone il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Critiche diffuse per il post scomposto della giornalista contro Giorgia Meloni. Anche Giletti attacca la Jebreal: "Si cerca ogni cosa pur di colpire l'avversario" 

Rula Jebreal è riuscita nell'impresa di farsi attaccare anche da Gad Lerner. La sfera privata dei personaggi politici ormai non ha barriere. Tutto viene diffuso, tutto viene spiattellato sulla piazza pubblica senza alcuna riserva. E c'è chi utilizza dei particolari familiari per attaccare frontalmente un avversario. Un pretesto discutibile. Ne è una dimostrazione l'uscita scomposta della Jebreal ai danni di Giorgia Meloni: la giornalista ha rilanciato la notizia sul padre della leader di Fratelli d'Italia per colpirla sul piano personale. E ha ricevuto critiche trasversali, anche dai suoi colleghi di sinistra.

Giletti e Lerner contro Jebreal

Ormai in politica non si fa più rispetto del privato. L'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda la domenica sera su La7, ha affrontato proprio questo tema. Un monito in tal senso è arrivato da Gad Lerner, che di certo non può essere sospettato di essere un esponente della destra o un ammiratore politico della leader di Fratelli d'Italia: "È evidente che Rula ha pisciato fuori dal vaso. Ha fatto un tweet che è un tweet di una giornalista. Non possiamo trasformarlo in un caso politico nazionale di fronte a una persona che ha vinto nettamente le elezioni e si prepara a fare il presidente del Consiglio".

Massimo Giletti ha mostrato la presa di posizione della madre della Meloni, che ha raccontato il passato molto travagliato tra il padre e la figlia. Il conduttore della trasmissione ha sostenuto una tesi tanto semplice quanto realistica, bacchettando così la Jebreal: "Si cerca qualsiasi cosa pur di colpire l'avversario...".

Il solito vittimismo

Contro la Jebreal si sono scagliati anche giornalisti ed esponenti politici appartenenti alla galassia rossa. E questo dimostra quanto la mossa della giornalista sia stata bocciata in maniera larghissima. Eppure lei non demorde, insiste, prosegue per la propria strada. A volte il silenzio è sinonimo di intelligenza, ma la Jebreal è tornata ancora una volta sul tema senza alcuna intenzione di mettere da parte la figuraccia.

Ma c'è di più. Non contenta, la Jebreal ha indossato i panni della vittima. Magari con l'intenzione di ribaltare la narrazione di quanto avvenuto. Ora lei si sente finita nel mirino di chissà quale congiura mediatica: "Il giorno dopo che Meloni ha minacciato di farmi causa per un tweet, i media hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino". Innanzitutto attaccare pubblicamente un personaggio di rilievo ha ovviamente una copertura mediatica e ti espone a dei commenti (positivi o negativi). Ma, soprattutto, la critica non è un assalto: è un esercizio previsto dalla democrazia. Con buona pace della Jebreal.

"Il potere bianco...". Il delirio di Muccino per difendere Rula Jebreal. Forse a caccia di qualche spettatore di sinistra, il regista mette nel mirino la Meloni: "Parlava di sostituzione etnica". Scoppia la bagarre su Twitter: "Taci, difendi l’indifendibile". Massimo Balsamo il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La querelle Rula Jebreal-Giorgia Meloni continua a tenere banco. E non poteva mancare l’intervento di Gabriele Muccino. Il vergognoso attacco alla leader di Fratelli d’Italia ha scatenato la bufera sui social network, ma il regista si è schierato dalla parte della giornalista. Tra un pianto per la mancata assegnazione di un premio e un’autocelebrazione del suo “grande” cinema, il 55enne ha preso posizione su Twitter. E, naturalmente, ha tirato in ballo il fascismo, diventato il mantra dei compagni delusi dall’esito delle elezioni.

Il delirio di Muccino

“Forse non era necessario tirare in ballo un padre mai presente nella vita di Meloni, d’accordo”, ha esordito Muccino su Twitter. Nonostante il “forse” di troppo, fin qui tutto ragionevole. Poi, via al delirio: “Rula Jebreal sta ora subendo un attacco furioso e pretestuoso”, il j’accuse del cineasta capitolino.

Rula, infangatrice vittimista: rimasta sola, ora fa l'offesa

Secondo Muccino, inoltre, l’assalto alla Jebreal sarebbe lo specchio di un Paese che ha già dimenticato le parole della Meloni. La leader di FdI, ricorda forse un po’ a stento, parlava di “sostituzione etnica in campagna elettorale riferendosi agli immigrati che ci avrebbero invaso”. Ma non solo. Tornando sul dramma dello stupro di Piacenza, Muccino ha accusato la politica di aver fatto mera propaganda. Anche qui nessuna condanna della violenza perpetrata, ma solo affondi contro la Meloni.

“Attacchi a Rula Jebreal odorano di fascismo”

Il pezzo forte della strampalata teoria mucciniana è contenuto nel finale.“Gli attacchi a Rula Jebreal odorano di fascismo, di abuso, di prevaricazione su una donna che ha osato toccare il potere bianco laddove per il colore della sua pelle, appena più scuro di un italiano ma anche più chiaro di molti altri italiani, non avrebbe mai dovuto commentare”, la sua rabbia.

"Contro di me assalto razzista, islamofobo e misogino". Ora la Jebreal fa la vittima

Difficile provare a interpretare il pensiero di Muccino, così come è complicato trovare qualcosa di vero in ciò che dice. Chissà se tra un film (brutto) e l’altro, ci fornirà qualche spiegazione in più sulla correlazione tra fascismo e condanna di un attacco ignobile. O ancora, se proverà a illustrare cosa intende per “potere bianco”.

Le reazioni sui social

Se qualche seguace ha condiviso l’intemerata, la maggior parte degli utenti ha biasimato senza mezzi termini l’uscita di Muccino. In molti hanno sottolineato che sarebbero bastate delle scuse nei confronti della Meloni anziché prediligere il vittimismo, ma c’è anche chi ha stigmatizzato il regista per difendere l’indifendibile pur di attaccare la leader di Fratelli d’Italia. Ecco una carrellata di reazioni: “È evidente che scrivi senza alcuna coscienza”, “Lungi da me difendere la Meloni ma c'è un vecchio detto che recita ‘chi è causa del suo mal, pianga se stesso’”, “Il solito comunista rosicone”. Non un successone, insomma. Un po' come i suoi ultimi film.

Rula, l'infangatrice vittimista: rimasta sola, ora fa l'offesa. "Contro di me insulti razzisti". Ma il suo odio fa scuola fra le femministe: nuovi attacchi privati alla Meloni. Francesca Galici il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Il centrodestra ha vinto le elezioni e Fratelli d'Italia è stato il partito più votato. Gli italiani si sono (finalmente) espressi democraticamente con l'esercizio del voto e questi sono fatti incontrovertibili, che però alla sinistra non vanno proprio giù.

Dallo scorso lunedì, i rossi sono pervasi da uno stato di perenne isteria e rabbia, come dimostra la costante attività della macchina del fango, in realtà mai spenta dalla campagna elettorale. E continuano, incessanti e scomposti, gli attacchi personali, più che politici, sia ai leader che agli esponenti dei partiti della coalizione vincente.

Rula Jebreal, non paga della figuraccia fatta speculando sulla figura del padre di Giorgia Meloni, continua imperterrita a strepitare contro i media che «hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino». Poi, finiti gli aggettivi trovati sul vocabolario parla di «incitamento sfacciato» solo perché la leader di Fdi ha informato di voler adire le vie legali per un tweet in cui la giornalista le attribuisce frasi mai dette.

Mentre la Jebreal prova a cucirsi maldestramente addosso i panni della vittima, dall'altra parte Guido Crosetto ha rivelato di essere stato contattato da un giornalista del Fatto quotidiano, che gli ha chiesto conto di «lavori e servizi, fatturati e dichiarati» negli ultimi anni. Una domanda che apre diversi interrogativi su quello che potrebbe nascondersi dietro una simile richiesta, tanto che in diversi sospettano ci sia in cantiere qualche inchiesta contro Giorgia Meloni e chi le gravita attorno.

In attesa di capire cosa bolle nel grande calderone di Marco Travaglio (e non solo), la filosofa Rosi Braidotti ha avuto un travaso di bile durante Otto e mezzo, tra fake news e la solita cattiveria. In barba al femminismo millantato a sinistra, a suo dire la leader di Fdi avrebbe «scatenato la sua faccia rabbiosa e cattiva» mentre la «povera» Chiara Ferragni subiva «minacce da Ignazio La Russa». Persino la silenziosa cautela della Meloni è vista con sospetto: «È sparita, non parla, ma si è data in pasto alla stampa in modo spettacolare. So tutto di lei». Fino all'illazione finale: «Giorgia non dà la mancia alla parrucchiera».

Tutto fa brodo a sinistra per fomentare l'odio contro il centrodestra, anche le bufale sgangherate come quelle della filosofa o quelle di Bernard-Henry Lévy che, sempre su La7, ne ha sparata una davvero grossa affermando che «avrete una probabile primo ministro che in tutta la campagna elettorale ha detto che Mussolini ha fatto cose buone ed è una persona di valore». Uno sproloquio senza capo né coda da parte del filosofo francese, che si unisce a tutti quelli che l'incommensurabile fantasia dei sinistri è riuscita a partorire nelle ultime settimane.

Tentativi spesso infantili, che però risultano utili a delegittimare la vittoria, netta e schiacciante, del centrodestra alle urne. Quella che la sinistra fatica a ottenere da ormai molti anni. E non può che essere diversamente, se viene rappresentata da esponenti come Nicola Fratoianni, che va in televisione a dire di non avere problemi a definirsi comunista e a inorgoglirsi scandendo slogan come «meglio comunista che fascista». O se continua a farsi fare da megafono a personaggi come Rula Jebreal e Rosi Braidotti.

In tanti avevano detto che avrebbero lasciato l'Italia in caso di vittoria del centrodestra. Hanno forse cambiato idea? Su aerei e treni c'è ancora posto.

Dopo le polemiche bipartisan contro il suo tweet in cui aveva attaccato il padre di Giorgia Meloni invece delle scuse ha chiamato in causa una sorta di caccia alle streghe nel nostro paese. Federico Novella su Panorama il 4/10/22.

La triste vicenda di Rula Jebreal è la perfetta dimostrazione del fatto che i mali più devastanti di questo Paese sono due. Primo, l’incapacità di scusarsi per i propri errori. Secondo, il ricorso automatico al vittimismo, esasperato da dosi poderose di politicamente corretto. Per chi non lo sapesse, la giornalista italo-palestinese Rula Jebreal ha ripreso sui social la notizia rilanciata dalla stampa spagnola della condanna per droga del padre della leader di Fratelli d’Italia. Un uomo che ha abbandonato la figlia quando lei aveva un anno, e con cui non ha mai avuto rapporti. «Durante la sua campagna elettorale - scrive Jebreal - la nuova premier italiana ha diffuso un video di stupro insinuando che i richiedenti asilo siano criminali che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironicamente, il padre della Meloni è un noto trafficante di droga». Una dichiarazione di una tale bassezza, di una tale illogica sconclusionatezza, che Giorgia Meloni ha ricevuto la solidarietà da tutto il mondo politico. Fare propaganda tirando in ballo i parenti è come scavare nel pozzo della meschinità. Ciò nonostante, Jebreal avrebbe potuto rimediare chiedendo scusa, ammettendo che nessuno è perfetto: ma no, sarebbe stato troppo facile, il suo ego ne sarebbe uscito ammaccato. Dunque, tornando sull’argomento, ha peggiorato la sua posizione: “La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza”. L’incapacità, per orgoglio, di ammettere i propri errori, fa sì che gli errori si ingigantiscano, come avvenuto in questo caso. Dopo simili indegnità, un minimo senso del pudore avrebbe richiesto perlomeno la compostezza del silenzio. E invece no. E qui entra in gioco il secondo stratagemma, la scorciatoia più battuta, la garanzia di immunità per tutte le castronerie: il vittimismo. Tradotto: mi contestano perché ce l’hanno con me. “Il giorno dopo che Meloni ha minacciato di farmi causa per un tweet, i media hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino” , scrive la permalosissima giornalista. Che evidentemente non solo si considera infallibile, ma anche intoccabile. Ovviamente nessuno si è permesso di inserire nella polemica la sua razza o i suoi convincimenti religiosi: semplicemente qualcuno ha osato criticare le sue parole sghangherate. Ed è sempre in questi momenti, quando Rula non sa dove voltarsi per giustificare le sue scempiaggini, che si fa ricorso all’apporto salvifico dell’attacco razzistico-femminista. “Mi attaccano perché sono palestinese. Mi attaccano perché sono donna. Mi attaccano perché sono islamica”. No, signora Jebreal: la attaccano perché ancora una volta ha esagerato. Non è razzismo: è libera critica in libero stato. Ognuno si prenda le sue responsabilità: chi parla a sproposito, e non ha il coraggio di fare retromarcia, si carica il rischio di essere criticata. E’ un principio cardine di ogni società democratica. Vale per tutti, a quanto pare, tranne che per lei.

Giorgia Meloni, Rula Jebreal imbarazza perfino la sinistra. Renato Farina su Libero Quotidiano il  03 ottobre 2022

Noi padri lo sappiamo bene. Ci useranno contro i nostri figli, e magari nipoti. È questa di solito la sofferenza insopportabile che accompagna la rovina della reputazione causa condanna, meritata o no che sia, oppure come conseguenza di una campagna  di stampa. È una specialità della sinistra. (Ne ho esperienza. Io ero il famoso Betulla, mio figlio divenne Betullino, emarginazione, vendette trasversali). Ma qui nel caso Jebrael-Meloni siamo oltre, molto oltre. Si usa un non-padre per sporcare pubblicamente l’intima coscienza di una non-figlia. La quale semmai avrebbe potuto usare il dato biografico di una condanna per traffico di droga del genitore (sparito dalla sua vita da quando lei aveva un anno) per erigersi a modello di persona che ha saputo capovolgere il corso del destino. Giorgia invece ha praticato, non in ossequio al codice ma alla pietas, il diritto all’oblio verso chi l’ha costretta a crescere in una famiglia monca.

Ed ora pure questa. Sembra una cattiveria del non-padre, una specie di morso dello zombie. E adesso? Adesso, a quanto pare, niente. Rula Jebreal, il giorno dopo la character assassination alla Goebbles di Giorgia Meloni, ha già ottenuto l’immunità da quel mondo dei piani alti che conta e decide della nostra vita assai più di quanto pesi il voto del popolo. Insabbiamento. Omertà. Nessuno del suo giro radical-chic, per non cancellare il volto internazionale del politicamente corretto, non dico l’abbia scomunicata, ma anche solo picchiata con un fiore. Tra loro si reggono il sacco. Quando uno la spara troppo grossa, urtando chiunque abbia un milligrammo di sensibilità e di decoro, la tecnica per preservare l’amico e il club è quella di fingere di non aver sentito, letto, ci sono ben altri problemi, non è vero? Cercate una dichiarazione di uno/una giornalista dello star system televisivo, o una storia Instagram di un influencer alla moda o di un Maneskin qualsiasi. Un o due Ferragnez che si propongano come scudo almeno virtuale, su schermo e su social, a questo colpo di lingua serpentesca. Ancora fino a ieri sera nulla era pervenuto. QUEL PRECEDENTE DEL 2016 Intendiamoci. La giornalista italiana, araboisraeliana e americana non ha sparato una sciocchezza pazzesca in un dibattito fiammeggiante. In realtà Rula se l’era legata al dito dopo che aveva avuto la peggio con Giorgia, pur essendo sostenuta da conduttore e platea,in un duello televisivo su La7, da Corrado Formigli, nel 2016. Il veleno le è fermentato nella pancia più che nella testa. Il suo trionfo politico-mediatico è stato a Sanremo nel 2020. Dopo di che è diventata un monumento nazional-popolare progressista. Sarebbero, quelli dell’altro ieri, vocalizzi sguaiati se fossero capitati nella disfida agonistica da battaglia pre-voto, oppure al ritorno negli spogliatoi dopo una partita tesa. Poi, doccia, lealtà, scuse per gli eccessi: ci si stringe la mano. Vale per il calcio, e (dovrebbe) per la politica. Lo ha fatto Enrico Letta con Giorgia Meloni con una telefonata mesta ma onesta. La Jebreal invece ha agito a freddo, con calcolo, entrando con il kalashnikov verbale nella campagna mondiale di denigrazione della “rivale”. È stata una mossa di odio politico e di invidia primordiale pianificata per delegittimare chi ha vinto le elezioni (si chiamerebbe sovranità popolare). Non lo ha fatto falsificando le idee dell'avversario/a, ma esigendone la discriminazione su base genetica.

Gravità inaudita, flagranza reiterata, razzismo della più bell’acqua. E lo ha fatto dando non una, ma due, tre martellate sullo stesso chiodo infame. Abbiamo cercato un precedente paragonabile allo schifo di gettare, per odio politico, il cadavere di un padre tra i piedi della di lui figlia, per contaminarla coi delitti da lui commessi. Niente, non se ne trovano. Eppure nel gran teatro della politica, del giornalismo e delle istituzioni non sta accadendo nulla. Niente. Chiusa lì. TROPPI SILENZI Parliamo – ovvio - della casamatta progressista da cui si dipartono i fili del potere mediatico e culturale. L’Ordine dei giornalisti? Il Consiglio di disciplina della categoria? Zero. Il femminismo ufficiale si sta occupando di diritto all’aborto, e organizza manifestazioni contro la Meloni sul tema, e non si capisce perché. Ora Rula, in fin dei conti, rimprovera alla madre di Giorgia di non averla abortita, nonostante sapesse quale razza di padre le stava per dare. Rula non si tocca. Del resto c’era un vecchio slogan che prevedeva casi simili: «O aborto o un mostro in pancia». Come ha scritto la Meloni, Jebreal l’ha ridotta a mostro per discendenza biologica, come se la sua persona contenesse nel Dna una fedina penale. Ma la militante Rula non si tocca. Emma Bonino è troppo impegnata a far ricontare le sue schede onde riavere il seggio, ea stramaledire Calenda reo di averle preferito Renzi. Ecco, questi due, oltre a Giuseppe Conte, sono i personaggi notevoli e non di centrodestra intervenuti ad esprimere ripugnanza per la discesa agli inferi della Signora Jebreal. Ma costoro sono dei fuori quota rispetto a sinistra, estrema sinistra, femminismo, antifascismo, forcaiolismo che colpisce per colpa degli antenati i discendenti fino alla settima generazione. Progressismo? Al diavolo. Niente di nuovo sul fronte della sinistra occidentale. Il popolo può ben votare e persino amare una donna di destra, per abbatterla va bene anche la lupa solitaria a cui dare l’immunità. P.S. Ho frequentato, oserei dire di essere stato amico di Rula, tanti anni fa. Non è affatto una donna sciocca. Chi l’ha avvelenata?

Rula Jebreal e il tweet contro Giorgia Meloni: anche Calenda e Conte con la leader di FdI. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

La giornalista italo-israeliana aveva attaccato sugli immigrati usando il padre della premier in pectore condannato per traffico di droga in Spagna. Lei risponde: querelo 

Rula Jebreal ha attaccato frontalmente Giorgia Meloni: ne è nata una polemica che ha coinvolto la politica ed è finita con minacce di querela. La giornalista italo-israeliana ha tirato in ballo la notizia, apparsa sulla stampa spagnola, sulla condanna del padre della leader di Fratelli d’Italia per spaccio di droga. Questo il tweet di Jebreal che ha scatenato la bufera: «La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive». 

La solidarietà a Giorgia Meloni è arrivata a pioggia dai politici di diversi partiti. E la stessa leader di FdI è intervenuta: «Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte». Usa Facebook Meloni per rispondere a questo attacco, con veemenza: «Ma poco importa, se i “buonisti” possono passare come un rullo compressore sulla vita del “mostro”. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto “le colpe dei padri non ricadano sui figli”». C’è pure un «ps» nel post di Meloni: «Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce».

La solidarietà è arrivata, tra gli altri, dal leader di Azione Carlo Calenda e dal presidente del M5S Giuseppe Conte, ma anche da un altro M5S, Stefano Buffagni. E ancora: dalla vicepresidente di Forza Italia Licia Ronzulli e dalla deputata dello stesso partito Deborah Bergamini, sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento. Si assomigliano i toni della solidarietà. Conte se la prende con il quotidiano spagnolo che ha raccontato la storia del padre di Giorgia Meloni e lo definisce «ignobile», che «butta fango» sulla presidente di Fratelli d’Italia. Ronzulli pensa che le parole di Jebreal siano «meschine, frutto di cinismo», mentre Bergamini sceglie uno stile poetico per dire: «Rula Jebreal, un bel tacer non fu mai scritto». Per Buffagni l’attacco a Meloni «è nauseante», mentre Calenda lo definisce «una bassezza» e si rivolge alla giornalista invitandola a «cancellare il tweet».

Ma Rula Jebreal non solo non ha cancellato il tweet. Ha rilanciato: «Non volevo evidenziare la vicenda familiare della Meloni, ma la sua propaganda. Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump, come si legge sul Washington Post, su The Independent e The Guardian». Ma non sarà Jebreal ad avere l’ultima parola: come ha annunciato Meloni, sarà un giudice a mettere la parola fine.

L’inizio della XIX Legislatura.

È FINITA LA SECONDA REPUBBLICA. L'elezione di La Russa alla presidenza del Senato archivia berlusconismo e anti-berlusconismo. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 13 ottobre 2022.

Il significato politico di una elezione senza i voti di Forza Italia e con un larghissimo consenso delle opposizioni nel segreto dell’urna dimostra plasticamente l’irrilevanza del partito berlusconiano che ha segnato la seconda Repubblica. È finito ieri il berlusconismo che ne è stata la vera chiave. Che è quella che ha consentito alla Sinistra di rinchiudersi nell’antiberlusconismo e vivere solo di questo fino a dileguarsi. Ha provato a farlo sostituendo la Meloni a Berlusconi e le è andata malissimo. Perché la Meloni è una altra cosa rispetto a Berlusconi e vuole provare a realizzare un conservatorismo moderno. Perché La Russa ha scelto un profilo istituzionale trasparente e ha investito sulla casa comune europea. Fa un certo effetto constatare che a colpi di astensione si è fatto cadere il governo Draghi e al coperto del voto segreto si è dato il via alla nuova legislatura

È finita la seconda Repubblica. Perché è finito il berlusconismo che è la vera chiave della seconda Repubblica. Che è quella che ha consentito alla Sinistra di rinchiudersi nell’antiberlusconismo e vivere solo di questo fino a dileguarsi. Ha provato a farlo sostituendo la Meloni a Berlusconi e le è andata malissimo. Perché la Meloni è un’altra cosa rispetto a Berlusconi. Vuole provare a realizzare un conservatorismo moderno.

Questo è, a nostro avviso, il significato politico della elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato senza i voti di Forza Italia e con un larghissimo consenso delle opposizioni che nel segreto dell’urna hanno plasticamente dimostrato l’irrilevanza del partito berlusconiano che ha segnato la seconda Repubblica. Il progetto forte di La Russa della casa comune europea, i richiami a Napolitano, Violante e Pertini, la sottoscrizione pubblica delle parole pronunciate in aula dalla “presidenza morale” di Liliana Segre sulle date che hanno fatto la storia di questo Paese, segnano un percorso politico-istituzionale nuovo che la seconda carica dello Stato espressione della Destra si è posto come obiettivo e che avrà alla prova del governo il suo esame da brividi ma che parte almeno con una impostazione corretta.

Si è capito oggi qualcosa di molto importante che mette a nudo una preoccupante spaccatura nella coalizione di maggioranza uscita vittoriosa dalle urne, ma segnala anche che il passaggio della leadership della Destra da Berlusconi alla Meloni dopo la parentesi salviniana mette fine alla Repubblica berlusconiana del “mettiamoci d’accordo”: un po’ a te un po’ a me. Perché oggi la gente vuole la stabilizzazione, ma non quella che voleva Berlusconi di dare tutto a tutti. La stabilizzazione di cui oggi il Paese ha bisogno è quella che consente di trovare alcuni punti di convergenza per fare le riforme concordate con l’Europa, evitare che l’incendio in atto sui mercati finanziari causa alti tassi e follie inglesi contagi l’Italia, attuare fino in fondo il processo riformatore compiuto incardinato da Draghi nel Piano nazionale di ripresa e di resilienza e in un metodo di lavoro che ha prodotto la migliore crescita europea.

La seconda Repubblica è stata una transizione e Forza Italia che la ha incarnata dopo la giornata di ieri è al minimo storico di reputazione e di peso contrattuale nella nuova coalizione. Mentre tutti si sbracceranno a ripetere che l’esordio della nuova coalizione vincitrice in Parlamento è stato disastroso, dicendo peraltro una verità assoluta, noi ci permettiamo viceversa di sottolineare che potrebbe (anzi, dovrebbe) segnare l’inizio di una presa di coscienza politica collettiva dell’esigenza ineludibile di affrontare il problema di una nuova fase che non può non essere una stagione dove si ritrovano il senso della cooperazione dialettica e della democrazia negoziata.

Questo impone la delicatezza del momento che viviamo immersi fino al collo dentro una guerra nel cuore dell’Europa che è a un soffio dal diventare una guerra mondiale e dentro una grande crisi determinata dalla guerra delle materie prime indotta dal conflitto militare. Sotto la pressione sottovalutata da tutti del rischio di una crisi finanziaria globale prodotta da una politica monetaria che non riesce a distinguere tra inflazione americana indotta da spesa pubblica americana e inflazione europea indotta all’80% da caro energia (60%) e rincaro della filiera agricola (20%) fenomeni entrambi di origine bellica. Rischio sottovalutato di crisi finanziaria prodotto altresì, questo è in assoluto il pericolo più grande, da un governo di destra inglese che ha voluto annunciare una manovra fiscale in debito con una situazione di alti tassi che ha rischiato di fare fallire i suoi fondi pensione e ha fatto saltare il banco dei suoi titoli di Stato con una ritirata che alla Banca d’Inghilterra è costata decine e decine di miliardi e con una minaccia latente di volerci riprovare.

A fronte di tutto ciò potremmo definirlo un miracolo italiano il fatto che la forza dei risultati elettorali porta La Russa a sottoscrivere tutto quello che ha detto Liliana Segre e a esprimere la volontà di costruire la casa comune europea così come da tempo ha portato Giorgia Meloni a dimostrare nelle parole e nei comportamenti di volere proseguire nel solco tracciato da Draghi. Tutti insieme hanno capito che il discorso “adesso entriamo in un altro mondo” è una cavolata e che invece bisogna aggiustare il mondo che abbiamo attuando un progetto conservatore di rinnovamento che si muove però all’interno di questi binari condivisi.

Volendo essere il più chiari possibile ieri è suonata politicamente l’ultima chiamata per Berlusconi. Altrettanto accadrà con Salvini anche se dovesse dimostrare maggiori capacità negoziali. Per lui l’ultima chiamata è solo rinviata di qualche giorno e sarà accompagnata da un rumore assordante. Per un fatto incontrovertibile. La tempesta che hanno entrambi seminato buttando giù Draghi nel momento in cui più serviva all’Italia è diventata buriana nell’urna condannandoli ai peggiori risultati della loro storia politica.

Siccome hanno continuato con la stessa miope arroganza a fare proclami che mettono a rischio la stabilità finanziaria del Paese e a ignorare i precisi segnali ricevuti dai loro residui elettori, è successo che il nuovo Parlamento si è sentito legittimato a dare un ceffone in piena faccia a Berlusconi che rimarrà nella storia. Siamo convinti che quello che è successo ieri a Berlusconi succederà molto presto a Salvini perché la coscienza profonda del Paese ed il senso profondo del Parlamento non perdonano loro la doppia irresponsabilità prima di avere fatto cadere anticipatamente Draghi e poi di avere condotto una campagna elettorale fuori dal tempo e dalla realtà.

Questa è una storia che racconta la fine di Berlusconi che si dimostra senza più capacità di valutare la situazione politica in un contesto interno e internazionale completamente mutati. Fa un certo effetto constatare che a colpi di astensione si è fatto cadere il governo Draghi e al coperto del voto segreto si è dato il via alla nuova legislatura. Constatare altresì la mancata convergenza delle opposizioni su un proprio candidato preannuncia uno scenario parlamentare che lascerà spazio a operazioni sempre più ardite. Sarebbe almeno utile che tutto ciò avvenisse alla luce del sole.

Aldo Cazzullo per corriere.it il 13 ottobre 2022.

Ore 10.23

La foto del giorno sarà la stretta di mano tra Liliana Segre, che sta per presiedere la prima seduta del Senato a 200 posti, e Ignazio La Russa, che sta per essere eletto presidente

Ore 10.25

Ancora un mese fa La Russa rinfacciò alla Segre che il marito si era candidato con l’Msi di Almirante. Lei (tramite il figlio) rispose che gli aveva fatto cambiare idea; altrimenti non sarebbe più stato suo marito

Ore 10.27

Grande cameratismo alla buvette, arriva Crosetto che non è parlamentare, Renzi Franceschini Ronzulli lo accolgono in un tintinnare di tazzine di caffè: “Ecco l’imbucato!”

Ore 10.29

La Ronzulli - magrissima: l’unico essere umano visto a inzuppare le fette biscottate nella spremuta d’arancia - evita le domande, non vuole diventare la pietra d’inciampo di un governo ancora tutto da fare

Ore 10.31

Giorgia Meloni punta ad avere l’incarico il 21 e a tornare al Quirinale con la lista dei ministri già il giorno dopo

Ore 10.40

Pure Calenda abbraccia calorosamente Crosetto: “E tu che cazzo ci fai qui?”

Ore 10.41

Abbraccio pure tra La Russa e Calderoli che ha fatto il passo indietro

Ore 10.43

Un paio di legislature fa, Calderoli chiamava Fratelli d’Italia “i Cugini di campagna”, e ora deve cedere a uno di loro - e che uno - la presidenza del Senato

Ore 10.49

Anche la destra in piedi per salutare Liliana Segre vestita di nero

Ore 10.50

La Segre saluta Mattarella- applauso convinto-, Papa Francesco- applauso tiepido-, Napolitano- applauso stentato

Ore 10.51

La Segre immagina i senatori «sopraffatti dal peso delle loro responsabilità. Ottimista

Ore 10.52

Berlusconi arriva per ultimo, cravatta scura, e va a sedersi accanto alla Ronzulli, molto compiaciuta

Ore 10.55

La Segre ricorda il centenario della marcia su Roma e la sua cacciata da scuola in quanto bambina ebrea. Da sinistra si alzano subito in piedi, a destra si adeguano

Ore 10.56

Berlusconi legge un libro

Ore 10.59

Fa impressione vedere tanti posti vuoti. Crosetto sorride a Durigon, leghista sovrappeso: «Ti va bene che ti hanno fatto un po’ di spazio, a te di seggi ne servono tre»

Ore 11.00

La Segre ora cita i morti per la libertà e pure Matteotti, da destra applausi sempre più tiepidi, come a dire: mò non esageriamo

Ore 11.01

Il libro che Berlusconi stava leggendo si intitola «Riccardo Misasi: un tributo» (Rubettino edizioni)

Ore 11.02

La Segre cita l’articolo 3 della Costituzione: tutti i cittadini sono uguali senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali

Ore 11.06

«Perché mai dovrebbero essere divisive feste come il 25 aprile, il primo maggio, il 2 giugno?», chiede Liliana Segre. A destra applaudono in pochi, tra cui La Russa

Ore 11.07

Berlusconi ora scrive

Ore 11.11

Liliana Segre conclude con un filo di voce- «Care senatrici, cari senatori, buon lavoro», tutti si alzano in piedi, a fatica pure Berlusconi. La Casellati e Stefania Craxi notano la sua presenza e vanno a stringergli la mano, mentre continuano gli applausi

Ore 11.21

Coda per omaggiare Berlusconi, sfila pure Mario Monti. B resta seduto

Ore 11.24

Discussione in tribuna stampa per stabilire se La Russa abbia applaudito o no al passaggio sul 25 aprile. Diego Bianchi, detto Zoro, chiede il Var

Ore 11.25

Di sicuro La Russa ha applaudito con vigore e invitato la sinistra ad alzarsi in piedi quando Liliana Segre ha condannato il linguaggio di odio e l’imbarbarimento del confronto

(ANSA il 13 ottobre 2022) - "Ho voluto omaggiare, non proforma ma dal cuore, portare fiori alla senatrice a vita Segre che ha parlato di tre date alle quali non voglio fuggire: il 25 aprile, il primo maggio e il 2 giugno. Io vorrei aggiungere la data di nascita del Regno d'Italia che prima o poi dovrà assurgere a festa nazionale. Queste date tutte insieme vanno celebrate da tutti perchè solo un'Italia coesa e unita è la migliore precondizione per affrontare ogni emergenza e criticità". Lo ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa.

Da lastampa.it il 13 ottobre 2022.

Con 116 voti Ignazio La Russa è stato eletto nuovo presidente del Senato. È iniziata oggi la diciannovesima legislatura italiana: 400 deputati, 200 senatori e 6 a vita sono stati convocati per eleggere i nuovi presidenti, il primo atto formale verso la formazione del nuovo governo e il primo banco di prova “politico” per la coalizione di centrodestra. 

Per Palazzo Madama l’intesa c’è stata fin da subito e La Russa ha superato il quorum alla prima votazione. Per Montecitorio, invece, è in pole il leghista Riccardo Molinari, anche se il suo nome non sarebbe così sicuro. La prima votazione alla Camera è stata una fumata nera: serviva il voto di almeno due terzi dei membri della Camera (267), ma le schede bianche hanno superato di gran lunga il quorum richiesto. 

Da definire di conseguenza le altre caselle per il governo, con il nodo del ruolo che ancora Forza Italia continua a chiedere per Licia Ronzulli. Al Mef, secondo quanto si apprende, dovrebbe andare il leghista Giancarlo Giorgetti. 

Intanto, Silvio Berlusconi torna in Senato dopo nove anni e incontra la leader di FdI, Giorgia Meloni, che assicura: «Saremo pronti anche come squadra di governo». A presiedere sullo scranno più alto di Palazzo Madama Liliana Segre: «L’anniversario della marcia su Roma è per me una vertigine». 

Letta: “Irresponsabile voto a La Russa da opposizione”

«Irresponsabile oltre ogni limite il comportamento di quei senatori che hanno scelto di aiutare dall'esterno una maggioranza già divisa e in difficoltà». Lo dice il segretario Pd Enrico Letta. 

Calenda: “Discorso La Russa di banalità imbarazzante”

«La Russa ha fatto un discorso di una banalità imbarazzante, l'unica parte interessante è stata quando ha citato Violante». Così il leader di Azione, Carlo Calenda, intercettato dai cronisti al Senato. 

La Russa: “Cercherò con forza di essere presidente di tutti”

«Il mio è un compito di servizio, non devo cercare oggi agli applausi, non devo dire parole roboanti o captare la vostra benevolenza. Lo dovrò fare ogni giorno, le scelte che dovrò fare a volte piaceranno a volte non piaceranno.

Non c'è bisogno di parole che suscitano un applauso, ma solo di una sincera promessa: cercherò con tutte le mie forze di essere il presidente di tutti», conclude così Ignazio La Russa il suo primo discorso da presidente del Senato suggellato da un lunbgo applauso. 

La Russa: “Realizzare e non temere riforme, anche Costituzione”

«Anche in questa legislatura ci si aspetta e si parlerà di riforme. Non dobbiamo favoleggiare il 'tutto e subito', ma soprattutto non bisogna temerle. Bisogna provare a realizzarle insieme.

E al Senato può spettare il via alla necessità di aggiornare - non la prima parte che è intangibile - ma quella parte della Costituzione che dia più capacità di dare risposte ai cittadini e di appartenere alla volontà del popolo». Lo ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa aggiungendo di credere «che il Senato possa farlo, in vari modi: l'importante ci sia volontà politica di realizzarle queste riforme». 

Calenda: “Per noi votare nostalgico fascismo non esiste”

«Al di là dei numeri non esiste per noi liberali votare un nostalgico del fascismo. Fine». Questa la risposta affidata ai social network del leader di Azione, Carlo Calenda, a chi in questi minuti giarda ad Azione e Italia Viva per spiegare il surplus di voti a favore di Ignazio La Russa.

La Russa: “Sarò inflessibile su diritti maggioranza e opposizione”

«Qualcuno di voi ha avuto l'occasione di conoscermi, di apprezzarmi, alcuni meno, lo capisco. Ma l'agone politico ci porta a un confronto anche battagliero e teso. Ho però la speranza in cuor mio di sapere che chi mi ha conosciuto in ruoli istituzionali abbia potuto apprezzare il mio totale rispetto delle istituzioni. E io, quando sono chiamato a ruoli sopra le parti posso assicurare l'assoluta dedizione e dico che sarò inflessibile nel difendere i diritti della maggioranza e dell'opposizione nella stessa identica maniera». Lo ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, parlando in Aula subito dopo la sua elezione.

Primo gesto da presidente di La Russa, fiori a Segre

Il primo gesto del neo presidente del Senato Ignazio La Russa è stato la consegna di un mazzo di fiori alla senatrice a vita Segre. La Russa ha poi ringraziato la senatrice a vita dicendo di aver condiviso il suo intervento nell'Aula di palazzo Madama. 

«Il mio ringraziamento e pensiero deferente va, naturalmente a Mattarella che io ho conosciuto e apprezzato sin da prima che diventasse presidente. La sua intelligenza e capacità politica è ancora oggi manifesta nell'altissimo ruolo che ricopre. Ho anche apprezzato il presidente emerito Napolitano», ha dichiarato La Russa. Ma soprattutto il ringraziamento va «alla presidente morale oggi di questa Assemblea: la senatrice Segre e non c'è una sola parola che lei abbia detto che non meriti il mio applauso». 

La Russa: “Ringrazio quelli che mi hanno votato, quelli che non mi hanno votato e quelli che mi hanno votato pur non facendo parte della maggioranza di centrodestra”

di Carlo Bertini

Ignazio La Russa ringrazia anche «quelli che mi hanno votato e che non fanno parte della maggioranza», dice come prima cosa scatenando ilarità in aula e tra i cronisti. Poco prima Matteo Renzi esclude di aver votato e fatto votare La Russa, spiegando che non avrebbe alcun interesse anche discutendo in termini di poltrone, perché per far avere qualcuna delle cariche disponibili ad un esponente del terzo polo serviranno i voti delle opposizioni previo accordo. E non quelli della maggioranza... Nessun complotto, sostiene Renzi. «Noi non lo abbiamo votato», garantisce. 

Renzi: “Noi abbiamo votato scheda bianca”

«Noi nove abbiamo votato scheda bianca». Così il leader di Italia viva, Matteo Renzi, uscendo dall'aula del Senato. […]

Ugo Magri per “la Stampa” il 13 ottobre 2022.

Tutti in piedi per un caldo, interminabile applauso. Così i senatori di Forza Italia e dell'intero centrodestra si preparano ad acclamare Silvio Berlusconi quando stamane farà il suo ingresso nell'emiciclo di Palazzo Madama. 

Dopodiché l'ex premier andrà a sedersi nel posto che gli verrà assegnato e, spentasi l'esternazione d'affetto, soffocato il clap-clap rivolto all'anziano patriarca, del grande rientro in Parlamento dopo nove anni di esilio lui per primo non vorrà più occuparsi.

Capitolo chiuso per due ottime ragioni. Anzitutto perché c'è dell'altro, in questo momento, che gli preme di più, che lo inquieta e l'offende guastandogli la festa del ritorno in pompa magna; cioè il modo in cui Meloni lo sta trattando, ovvero lui ritiene di venire trattato nella giostra delle poltrone.

Berlusconi pensava di aver vinto le elezioni grazie a un risultato tale da renderlo imprescindibile perlomeno quanto Salvini, dunque di poter decidere chi premiare tra i tanti aspiranti di Forza Italia, quali tra loro spedire al governo senza farselo dire da Giorgia, senza che quella gli chiedesse delle rose di nomi per poi cogliere fior da fiore. 

Il Cav si sarebbe atteso che Licia Ronzulli, da lui designata per qualche prestigioso incarico, non fosse scartata con sfoggio di arroganza; insomma, Silvio immaginava un inizio completamente diverso di questa XIX legislatura, in cui gli fosse riconosciuto non già il diritto a sedere in Parlamento, figurarsi, bensì a giocare un ruolo all'altezza della considerazione (particolarmente elevata) che il personaggio nutre nei confronti di se stesso. Qui sono concentrati, oggi, i suoi sentimenti. Di tutto il contorno gl'importa meno.

A ben guardare, c'è un altro motivo che impedisce a Berlusconi di vivere questo 13 ottobre 2022 come un giorno speciale e di cerchiarlo sul calendario provandone qualche forma di orgoglio: è l'epilogo di una vicenda che, quando ci pensa, ancora lo fa soffrire e in fondo mortifica il suo ego. Sì, certo: rimettere piede in quella stessa aula da dove gli avversari l'avevano cacciato il 27 novembre 2013 in seguito alla condanna per frode fiscale, applicando con severità implacabile la legge Severino, farà provare al Cavaliere il gusto della rivalsa.

Almeno per qualche attimo stamane gli occhi saranno tutti per lui; e nel vederlo di nuovo in aula qualcuno, perfino tra i nemici, si chiederà ammirato quale possa essere il segreto del Cavaliere, la misteriosa formula della sua incredibile resilienza, e cosa ne renda possibile l'eterno ritorno in questo caso a 86 anni suonati. 

Ma Berlusconi, assicura chi ne conosce la psicologia, se potesse farebbe volentieri a meno di queste celebrazioni, in quanto appunto gli rammentano il punto più infimo della carriera, gli fanno indirettamente rivivere l'umiliante condizione di indagato, di reo costretto a scontare la pena nei servizi sociali, di pregiudicato indegno di rappresentare il popolo.

Sebbene si fosse proclamato innocente e avesse vissuto quell'espulsione quale somma ingiustizia, decisa a suo dire da un «plotone d'esecuzione», indugiarvi nel ricordo non gli suscita alcuna gioia. Anzi. È una pagina - assicurano dalle sue parti - che vorrebbe girare, una brutta parentesi da chiudere in fretta. Tra l'altro, dei suoi "giustizieri" d'allora, cioè di quanti vollero buttarlo fuori dal Senato, praticamente non ne è rimasto in pista nessuno. E l'ultimo che ancora resisteva, l'allora presidente del Consiglio Enrico Letta, da queste elezioni è uscito groggy.

Per cui, se lo animasse uno spirito di vendetta, Berlusconi nemmeno saprebbe oggi su chi infierire, a chi indirizzare i suoi sorrisetti. È tutto un mondo diverso da allora. Il 16 novembre 2013, cioè l'ultima volta che s' era recato a Palazzo Madama, era stato accolto da un coro di «buffone buffone», cosicché aveva quasi rincorso i contestatori sbraitando «vergognatevi, siete dei poveri stupidi ignoranti». Ieri mattina invece scendendo dalla macchina, prima di essere accolto con un abbraccio filiale da Anna Maria Bernini, ad attenderlo solo una folla di turisti stranieri curiosi. Non portava la cravatta che, al Senato, è un obbligo per tutti; ma all'ingresso nessuno dei commessi gliel'ha fatto notare. Fosse soltanto per l'età veneranda, ormai gli si perdona tutto.

La vittoria del Cav sull'odio di sinistra. Dopo nove anni il rientro in Senato. Nel 2013 l'antiberlusconismo più feroce lo cacciò da Palazzo Madama e lui giurò: "Continuerò a difendere la libertà". Paolo Guzzanti il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

«Io non ho intenzione di andarmene ma continuerò a difendere la libertà». Così disse nove anni fa Silvio Berlusconi ai suoi deputati e sostenitori davanti a Palazzo Grazioli, la sua dimora romana di allora. E così è stato. Non solo non se ne è andato, ma ieri è tornato al Senato, da cui era stato cacciato con un estremo vulnus alla democrazia parlamentare.

Non si era mai vista prima l'esecuzione politica di un leader che aveva servito il suo Paese come capo del governo per il tempo più lungo nella storia italiana. Messo alla porta dal Parlamento che avrebbe dovuto difenderlo ieri Silvio Berlusconi è tornato al Senato poco dopo mezzogiorno, per le operazioni burocratiche che attendono ogni eletto. Era lo stesso uomo che nove anni fa era stato messo alla gogna. Per trovare un precedente bisogna tornare a Cicerone, anche lui cacciato dal Senato, costretto all'esilio e alla perdita dei suoi beni, ma che tornato vittorioso al suo scranno dette prova di un decoro senza enfasi: «Heri dicebamus», furono le sue prime parole in aula dopo anni di assenza: «Ieri stavamo dicendo...» come se il tempo fra il prima e il dopo fosse stato cancellato. Ma il caso della persecuzione contro il senatore Berlusconi è ideologico: fu travolto da una campagna di odio senza limiti né decenza. Ieri non è tornato al Senato soltanto un ex senatore, ma l'ultimo presidente del Consiglio che abbia governato col pieno sostegno dei voti. Fra pochi giorni un altro presidente eletto assumerà quello stesso incarico e sarà Giorgia Meloni che di Berlusconi fu la più giovane ministra. Dal 2011, quando fu forzato alle dimissioni da una campagna molto simile a una congiura ad oggi, si sono succeduti alla guida del governo uomini variamente illustri come Mario Draghi, Mario Monti, giovani politici come Matteo Renzi che non era ancora membro del Parlamento ma solo un ex sindaco di successo e segretario di un partito che poi ha abbandonato con disgusto, per arrivare ai governi macchietta dell'avvocato Conte buono per tutte le stagioni e totalmente sconosciuto alla politica.

Berlusconi ha vinto. È stato forte come una quercia e non si sa chi glielo abbia fatto fare se non il suo senso e spirito di servizio visto che avrebbe potuto mandare al diavolo tutti e ritirarsi a vita privata tra gli affetti e il comfort. Invece, ha resistito sia alle malattie che alle ingiurie, persino alla violenza di un esaltato che gli fratturò il naso lanciandogli un oggetto di ferro per non dire dei sessanta processi finiti nel nulla salvo uno assolutamente privo di logica per evasione fiscale. Le intercettazioni e le confessioni di alcuni giudici hanno poi messo in mostra l'architettura politica dei processi contro l'uomo che con un colpo di reni raccolse le bandiere cadute della Prima Repubblica per fermare il colpo di mano che aveva fatto fuori tutti i partiti, salvo quello comunista candidato alla successione.

Fu il invece il suo successo, con quell'operazione temeraria, guascona, spavalda e vincente che gli valse un tributo di odio e rancore infiniti che oggi si estinguono soltanto perché la generazione di coloro che lo avrebbero voluto politicamente morto, si è estinta. Una nuova generazione è diventata adulta senza sapere che cosa sia stata la guerra incivile dell'antiberlusconismo rabbioso di quasi tutte le sinistre.

Quasi, perché il più straordinario risultato dell'operazione con cui Berlusconi creò Forza Italia e la sua vittoria fu il terremoto nelle sinistre orbitanti intorno al vecchio Pci con una fuga di intellettuali e di militanti socialisti e comunisti perché il berlusconismo ebbe l'effetto di liberare energie che attendevano una prospettiva liberale per uscire allo scoperto. Tutto questo è storia e ieri l'uomo del sogno dell'«Italia che vorrei» ha varcato di nuovo la soglia del Senato dopo quella del Parlamento europeo. Aspettiamo di vedere se anche lui come Cicerone nel suo primo discorso dirà con noncuranza qualcosa che riconnetta il passato col presente, qualcosa come «Ieri stavamo dunque dicendo...».

Gufi e tartufi anti-cav. Fatto e Repubblica contro Berlusconi: sarai cacciato di nuovo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

È appena rientrato in Senato dopo nove anni di ingiusta forzata lontananza, e già cercano di cacciarlo, con la minaccia di una nuova condanna definitiva e conseguente applicazione della famigerata “legge Severino”. I soggetti di tanta carezzevole attenzione sono, per quel che abbiamo visto, ma potrebbero aggiungersene altri, due quotidiani, Il Fatto e La Repubblica. Proprio non lo sopportano, quel signore che nel 1994 ha debellato la “gioiosa macchina da guerra” della sinistra, i paladini della morale di Stato, i più puri che nutrono l’evidente certezza di non subire mai una futura epurazione. Ma la ruota gira, come disse qualcuno, e non si può mai sapere. I giornali aprono e chiudono, cambiano proprietà e linea politica. Staremo a vedere.

Il fatto che Silvio Berlusconi sia stato cacciato dalla sinistra di governo nel 2013 con una forzata interpretazione retroattiva della legge è stato ricordato sul Riformista di ieri anche dal direttore Piero Sansonetti. E lo stesso ex Presidente del Consiglio, pur rimarcando l’ingiustizia subita, ha già spazzato via dal suo presente e futuro l’idea di un desiderio di rivalsa che non è neanche nel suo carattere, oltre che nelle intenzioni. Ma il comportamento da aguzzini non fa parte solo della storia dei torturatori o dei carcerieri. Ci sono tanti modi per randellare sulla carne viva, e certi giornalisti li conoscono bene. Nella previsione certa che il primo giorno di scuola in Senato per Berlusconi dopo tutti questi anni sarebbe stato il 13 ottobre, ecco che i soliti tartufoni del Fatto sono partiti il giorno prima, con il dito alzato e il randello della “legge Severino” già pronti.

Hanno spiegato perché Silvio Berlusconi avrebbe chiesto per un esponente di Forza Italia il ministero di giustizia. Non per stimolare quelle riforme che sono nel programma liberale del partito fin dal 1994. Ma per cambiare la legge che porta il nome dell’ex ministro del governo Monti. Il quotidiano lo rivela come fosse uno scoop, dimenticando la campagna fatta dal partito dell’ex premier in favore dei referendum sulla giustizia presentati dalla Lega e dai radicali. Uno di quelli era proprio sull’abolizione di quella legge, che non piace anche a una parte della sinistra, soprattutto nella parte in cui fissa la sospensione dell’incarico per i pubblici amministratori persino dopo una condanna nel processo di primo grado.

Si ricorda anche che su quello specifico quesito il partito di Giorgia Meloni aveva espresso dissenso. Di qui la necessità di blindare il ministero di via Arenula con uomini e donne di sicura fede garantistica, come Francesco Paolo Sisto ed Elisabetta Alberti Casellati. Ma come metterla con l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, eletto con Fratelli d’Italia, che ha dichiarato a chiare lettere la necessità di “abolire la Severino”? Possibile che la titolarità del ruolo di guardasigilli debba essere ridotto a un singolo specifico punto, per quanto rilevante, almeno per Silvio Berlusconi?

Ed ecco che s’avanzano, il giorno dopo, cioè proprio ieri, gli strani guerrieri della testuggine di Repubblica, pronti a mettere il sale sulle piaghe. E a ricordare come sia in corso, e quasi in dirittura d’arrivo, con sentenza prevista a gennaio, il famoso processo “Ruby ter”. Quello in cui Berlusconi è accusato di aver “comprato” la testimonianza della signora Karima El Mahorung e di altre signore chiamate con sprezzo dai campioni della morale “olgettine”. Questa inchiesta nasce da una sorta di vendetta in seguito all’assoluzione definitiva di Berlusconi dai reati di concussione e prostituzione minorile. In quel processo tutti i testimoni a favore dell’imputato, compresa la stessa Karima che avrebbe dovuto essere parte lesa, furono marchiati a sangue come mendaci e corrotti. E poi rinviati a giudizio.

Così nascono i “Ruby bis” e “Ruby ter”. Il paradosso, di cui paiono non rendersi conto neppure gli zelanti giornalisti custodi della pubblica morale, è che non si capisce neppure in che cosa questi testi avrebbero mentito. Sul fatto che Berlusconi avrebbe conosciuto l’età (diciassette anni e mezzo) di Karima e avrebbe fatto sesso a pagamento con lei? Non può essere questo il punto, perché c’è una sentenza definitiva della cassazione a dire che colui che la pm Tiziana Siciliano ha definito come “sultano” è innocente.

Innocente, chiaro? Il reato di prostituzione minorile non è mai esistito. E allora? E allora, scrive virtuosamente Repubblica, questi testimoni hanno mentito su quel che nelle serate di Arcore “è davvero successo”. Ma che cosa è successo? Sono stati commessi reati? Perché solo questo potrebbe essere penalmente rilevante. Perché se, in ipotesi, qualcuno avesse detto “burlesque” invece di spogliarello o cose simili, quale sarebbe la rilevanza penale? Il fatto poi che Berlusconi, la cui generosità nei confronti di donne e uomini è arcinota, di fronte a ragazze disoccupate anche in seguito alla pubblicità negativa loro derivata dal “processo Ruby”, abbia concesso loro alcune liberalità, non è un fatto clandestino ma esibito alla luce del sole. E allora?

E allora che senso hanno queste minacce politico-giornalistiche? Persino la riforma Cartabia che impone la celebrazione veloce dei processi diventa randello per colpire Berlusconi. Ahah, è lo sberleffo di Repubblica, se in tre anni il “Ruby ter” arriverà alla cassazione, caro Silvio tu sarai cacciato di nuovo dal Senato. Dando per scontata la condanna. Ma, per come sta andando il processo e per la nota serietà di questo tribunale, e nonostante la richiesta di condanna a sei anni di carcere richiesti dall’accusa per l’ex Presidente del Consiglio, probabilmente quella condanna non arriverà mai. Fatevene una ragione. Berlusconi resterà in Senato. Senza bisogno di cancellare la “legge Severino”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il supponente. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2022.  

Per Berlusconi, capotavola è sempre stato dove si sedeva lui. Non ha mai sopportato che un altro uomo ambisse a quel posto. Ma che vi ambisse una donna, anzi, che ci si sedesse proprio, era e rimane qualcosa che addirittura lo offende: un sovvertimento di quelle che considera leggi di natura. Nel galateo di Berlusconi la donna si corteggia e magari si venera, ma un vero maschio non può prendere ordini da lei, tantomeno accettare di sentirsi dire dei no. Possiamo dunque immaginarci che cosa abbia provato nel vedersi negare da Giorgia Meloni un ministero di prima classe per la sua protetta Licia Ronzulli. Che se poi preferiamo non immaginarcelo, si è premurato di scriverlo direttamente lui, su un foglietto di appunti immortalato in una foto che ormai è storia. Quattro aggettivi (più uno cancellato), numerati per meglio imprimersi nella mente che il comportamento della Meloni era stato: «1 supponente, 2 prepotente, 3 arrogante, 4 offensivo». (Il 5 era «ridicolo», ma deve essere sembrato troppo maschilista persino a lui, tanto che ci ha scarabocchiato sopra). Avrebbe usato gli stessi aggettivi per Salvini? (Forse uno solo, il quinto, ma è una mia supposizione). Di un uomo non disposto a obbedirgli avrebbe detto che era ingrato, frustrato, fallito: quello che disse di Fini, in fondo. Ma se una donna osa contraddirlo, significa che è supponente e arrogante. In realtà Meloni è la sua Nemesi: la dea greca del contrappasso, arrivata apposta per lui dall’Olimpo della Garbatella.

DAGOREPORT il 13 ottobre 2022.

Il Berlusconi uccellato al Senato sta accendendo una ribellione tra i parlamentari di Forza Italia: “Siamo bullizzati da Licia Ronzulli!”, esclamano cercando di non farsi sentire dal Banana e dai fedelissimi dell’ex infermiera: Mulè, Cattaneo, Barachini, Russo, etc.  

La disfatta del Senato ha fatto salire il sangue agli occhi alla rasputin di Arcore. La prima vendetta: è saltato Paolo Barelli, alleato di Tajani, che era in predicato di fare il ministro. Al suo posto va il fido Cattaneo. E come capogruppo alla Camera si è fatto sotto Giorgio Mulè. 

Ma l’ira funesta di Licia si è scaricata soprattutto su Matteo Salvini. Ce l’ha a morte con il suo amico del cuore, che era a conoscenza del sabotaggio forzuto verso La Russa, e pretendeva che anche la Lega si astenesse al Senato. 

Ovviamente l’ex bagnino del Papeete se n’è fregato: non può permettersi di fallire la conquista della presidenza della Camera dei deputati (domani in pista scende il pio Fontana, in quanto Molinari ha sul groppone qualche processo in ballo. 

Al pari di Salvini, anche Giorgia era a conoscenza della vendetta che la diabolica Ronzulli stava architettando per umiliare la Ducetta che non la vuole nemmeno in fotografia nella lista dei ministri. 

E Giorgia non ha perso un attimo a prendere le contromisure: qualche telefonata e sono spuntati i 17 voti che hanno ammazzato i sogni di Licia & Silvio. Oltre Renzi e i suoi senatori, la premier in pectore ha pescato facilmente i voti necessari nella piddina Base Riformista.  

La corrente degli ex renziani soffre infatti di incazzatura nervosa nei confronti di Enrico Letta, reo di aver decimato, compilando le liste elettorali, i fans di Luca Lotti e Andrea Marcucci (il primo subito cassato, il secondo è finito trombato). 

Tant’è che la corrente oggi capitanata da Guerini votò contro la lista dei candidati scodellata da Enrichetto. Ed oggi hanno voluto dimostrare a quello che resta del Pd che la corrente una volta più numerosa dei Dem ha le mani libere per votare chi cazzo gli pare.

Non solo: sia Renzi-Calenda sia Base Riformista sanno benissimo quale vantaggio politico avrebbero affossando Forza Italia…

Toto ministri, Mentana svela i nomi della lista di Berlusconi in diretta. Il Tempo il 13 ottobre 2022.

Dagli appunti di Silvio Berlusconi, seduto oggi tra gli scranni del Senato, spuntano i nomi dei ministri desiderati da Forza Italia. E grazie alla zoommata, mostrata in diretta da Enrico Mentana durante Diario politico su La7, il direttore fa uno scoop e svela i nomi in diretta. 

"Dall'ingrandimento che siamo riusciti a fare sugli appunti si leggono le richieste di Forza Italia. Sono scritte a macchina e questo significa che sono state mostrati nel confronto con gli alleati. Esteri a Tajani, Giustizia a Maria Elisabetta Casellati, Università a Anna Maria Bernini, Politiche europee a Licia Ronzulli, Pubblica amministrazione a Maurizio Gasparri, altro ministero a Maurizio Cattaneo, astro nascente tra i deputati di Forza Italia. Poi aggiunto a mano c'è il ministero dell'Ambiente che dovrebbe spettare proprio a Cattaneo, Turismo a cui è accostato sempre il nome di Ronzulli che riappare ancora sotto accanto al ministero dei Rapporti con il Parlamento.  In ultimo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega per l'editoria a Alberto Baracchini, attuale presidente della Commissione parlamentare di vigilanza Rai. È evidente che questa sia una lista di desiderata nell'ambito della quale concordare con gli alleati la presenza di Forza Italia nel governo" sottolinea Mentana durante il suo nuovo programma di approfondimento politico su La7. 

Da corriere.it il 15 ottobre 2022.

Salvini: «Sono sicuro che anche fra Giorgia e Silvio tornerà l’armonia»

«Sono sicuro che anche fra Giorgia e Silvio tornerà quell’armonia che sarà fondamentale per governare, bene e insieme, per i prossimi cinque anni». Così il segretario della Lega Matteo Salvini, parlando della leader di FdI Giorgia Meloni e di quello di FI Silvio Berlusconi. 

Meloni: «La responsabilità prevalga sull’odio ideologico»

Giorgia Meloni ha commentato su Facebook una scritta comparsa a Roma contro La Russa: «Le prime parole di Ignazio La Russa come presidente del Senato sono state quelle di un uomo che conosce bene il peso delle Istituzioni e che farà di tutto per rappresentare con imparzialità e autorevolezza la seconda carica dello Stato. Eppure diversi esponenti politici hanno deciso di renderlo un bersaglio, come persona e per le sue idee, rinfocolando un clima d’odio, già ben alimentato durante una campagna elettorale costruita sulla demonizzazione dell’avversario politico.

E così, accade che in una sede di Fratelli d’Italia compaia una scritta contro di lui, firmata con la stella a 5 punte, chiaro riferimento ad anni drammatici che non vogliamo rivivere. Il nostro impegno sarà per unire la Nazione, non per dividerla come sta tentando di fare qualcuno. Spero che il senso di responsabilità della politica prevalga sull’odio ideologico, perché l’Italia e gli italiani devono tornare a correre, insieme».

Lo strappo fuori tempo. Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2022.  

La maggioranza si è disunita per il «no» stizzito di Forza Italia a La Russa, con un Berlusconi furibondo e frustrato per il rifiuto di Giorgia Meloni ad avallare alcune candidature pretese dal Cavaliere

In teoria, il centrodestra ha vinto la prima delle sue sfide, portando alla presidenza del Senato il candidato di Fratelli d’Italia, Ignazio La Russa; e oggi eleggerà alla Camera un presidente leghista. In teoria, perché è servita una manciata provvidenziale di voti delle opposizioni. La maggioranza si è disunita per il «no» stizzito di Forza Italia a La Russa, con un Silvio Berlusconi furibondo e frustrato per il rifiuto di Giorgia Meloni ad avallare alcune candidature pretese dal Cavaliere. In particolare, un’impuntatura sul nome della fedele Licia Ronzulli come ministra, bocciata senza appello.

Ma non si può fare finta che il pasticcio di ieri nasca solo da lì: è troppo poco per spiegare un testacoda così plateale e suicida. Quanto è avvenuto nasce piuttosto dal distacco dalla realtà di un berlusconismo autoreferenziale e nostalgico; e incapace, col suo «cerchio magico», di prendere atto che un mondo, il suo, è tramontato per sempre e deve fare i conti con un nuovo potere allo stato nascente del centrodestra. La sofferenza di una parte di FI e della Lega è la reazione scomposta e alla fine perdente contro il ribaltamento dei rapporti di forza interni, sancito dal voto del 25 settembre.

In uno schieramento egemonizzato per vent’anni dal berlusconismo, e negli ultimi quattro dal leghismo salviniano, l’ascesa della destra d’opposizione, costruita in buona parte travasando i consensi degli alleati, si sta rivelando un trauma superiore alle previsioni; e acuito, non compensato da una vittoria asimmetrica. La prospettiva concreta che la leader di FdI vada a Palazzo Chigi ha creato un cortocircuito dagli sviluppi imprevedibili. La votazione di ieri mattina al Senato è il segnale di una maggioranza che rischia di dovere contrattare di volta in volta i provvedimenti, per non ritrovarsi in debito di ossigeno politico.

Ma chi riteneva di addomesticare Meloni, piegandola a vecchie logiche, riemerge con lividi vistosi: sia perché al momento non sembra disposta a cedere alle pressioni di Berlusconi e di Salvini; sia perché ha trovato sponde più o meno inattese in pezzi dell’opposizione. Esistono settori delle minoranze che hanno preso atto dei nuovi equilibri prima ancora dell’intero centrodestra. E si preparano a trattare con la premier in pectore potere, offrendosi come stampelle della sua coalizione già scossa dalle tensioni: quasi un embrione di appoggio esterno. È l’emblema di una spaccatura anche delle opposizioni, sempre più da declinare al plurale.

Una loro frangia ha fornito giusto i voti mancanti al candidato di FdI per essere eletto, gettandole nel caos quanto e più dello schieramento di governo; con accuse reciproche sui «franchi tiratori» alla rovescia, e una pietra tombale su qualsiasi ipotesi di coordinamento. Il saldo del primo giorno nel nuovo Parlamento restituisce dunque un’immagine sfuocata e confusa in modo trasversale. E sgualcisce l’idea di una coalizione di centrodestra chiara, compatta e unita. Non lo è, e la crepa al Senato conferma sensazioni che si erano consolidate negli ultimi giorni di trattative.

L’analisi risulterebbe incompleta, tuttavia, se non toccasse anche un aspetto più generale, di sistema. Quella di ieri è stata una giornata nobilitata dalle parole ferme della senatrice a vita Liliana Segre sulle radici e l’attualità della democrazia parlamentare, e sulle incognite alle quali va incontro chi pensa di abbandonare una «Costituzione amica»: un monito rivolto alla nuova maggioranza, ma non solo, che accarezza l’idea di una radicale riforma presidenzialista. Ma, in negativo, è stata anche la giornata che ha convalidato tutte le perplessità su un sistema elettorale incapace di cementare coalizioni omogenee.

Al di là dell’involuzione di Berlusconi, fermo alla celebrazione del proprio mito, l’elezione rocambolesca di La Russa è un richiamo brusco a non illudersi che vincere le elezioni e governare siano la stessa cosa: in particolare quando prevalgono non solo i protagonismi ma la tendenza a nascondere divergenze e contraddizioni, pensando di risolverle quasi per magia una volta incassato il risultato. Potrebbe avvenire il contrario, come dimostra il caso di ieri. Chi ritiene di non avere vinto abbastanza esaspera le differenze rispetto agli alleati. Non si chiede perché ha perso, e cerca una rivincita immediata.

A guardare bene, la delegittimazione tra schieramenti che corrode il sistema politico da anni, comincia all’interno delle stesse coalizioni. Il problema è che l’Italia non può permetterselo. Alla Meloni, se come pare toccherà a lei l’incarico di formare il governo, spetterà il compito non facile di mettere tra parentesi logiche e riflessi fuori dal tempo; archiviare come un incidente isolato il brutto spettacolo del Senato. E concentrarsi sui problemi veri e enormi che il Paese ha di fronte.

Marina e Pier Silvio Berlusconi al Cavaliere: «Fermati». Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 15 ottobre 2022.

Ieri in Forza Italia si respirava un clima da Venerdì santo, «in attesa della Pasqua di resurrezione con cui — diceva un dirigente azzurro — il centrodestra celebrerà il rito della pacificazione». L’evento non cadrà di domenica, visto che l’incontro conciliatorio tra si dovrebbe tenere domani. Più dei pontieri e degli amici di una vita del Cavaliere, sono stati i figli maggiori dell’ex premier a premere sul padre ed esortarlo a chiudere il conflitto con l’alleata, in modo da raggiungere un’intesa. Anche perché Meloni nei giorni scorsi si era direttamente appellata proprio ai familiari di Berlusconi, spiegando loro che c’era piena disponibilità a comporre la vertenza, dietro la quale — garantiva — non c’erano motivi personali. 

Per due volte, infatti, la premier in pectore si era sentita con Pier Silvio Berlusconi. E per due volte l’amministratore delegato di Mediaset aveva trasmesso il messaggio al padre, accompagnandolo con una sollecitazione: «Non puoi non trovare un accordo», per ragioni politiche e imprenditoriali. Ma per due volte il Cavaliere aveva opposto resistenza . Finché si è arrivati allo «strappo di Palazzo Madama», alla diserzione azzurra dal voto sulla presidenza del Senato, al filmato in cui il leader forzista pronunciava un «vaffa» in presenza di Ignazio La Russa, all’immagine che fissava i duri commenti su Meloni vergati dallo stesso Berlusconi.

Davanti alla disfatta di Forza Italia e alla reazione veemente dell’alleata, la figlia è corsa ad Arcore, dove ieri ha incontrato a lungo il padre. «Fermati», gli ha detto. Raccontano di una Marina furibonda. Per le questioni che già aveva posto il fratello, certo, ma soprattutto perché per lei era stato «doloroso» vedere com’era stato gettato nella polvere il nome del genitore, descritto come un anziano subornato dalla corte, trasformato nell’ombra di sé stesso e della sua storia. Una storia che l’ex premier ha rivendicato e che ha ispirato le mosse contro «la signora», compreso quel foglietto, scritto intenzionalmente, e dal quale c’era stato chi lo aveva implorato almeno di togliere l’aggettivo «ridicola».

«Fermati». Che poi è quanto hanno suggerito a Berlusconi sia Fedele Confalonieri sia Gianni Letta, impegnato nel ruolo di raccordo con i pontieri di FdI. Così va maturando quel clima di ricomposizione, che passa anche attraverso i messaggi inoltrati da Meloni per via interposta al Cavaliere. Così i figli hanno appreso che la sua reazione era stata «un atto di difesa politica» e null’altro. Che, chiarito il suo ruolo, Forza Italia sarà adeguatamente rappresentata. Che sulla delegazione azzurra attende da Berlusconi indicazioni all’altezza della stagione, «perché il mio compito a Palazzo Chigi sarà molto difficile e non intendo svolgerlo con dei Toninelli al fianco».

Nel giorno del Venerdì santo, anche l’area più intransigente dei forzisti comprende che bisognerà accedere a un accordo «il meno doloroso possibile». Insomma, la «via familiare alla mediazione», come l’ha definita uno dei leader dell’alleanza, sta producendo effetti. È vero, ci sono ancora dei nodi da sciogliere, il Cavaliere per esempio insiste su alcuni ruoli come la Giustizia, che vorrebbe assegnata al suo partito. E che invece — per ragioni di opportunità politica e non per mancanza di qualità e competenze — la premier in pectore preferirebbe affidare a Carlo Nordio . Ad Arcore hanno inteso che Meloni vuole ricucire, evitando prove di forza.

Quella tentata al Senato dagli azzurri è stata invece improvvida: non solo perché non ha tenuto conto dei numeri nella coalizione e non ha contemplato le possibili contromosse di Fratelli d’Italia. Il punto è che la diserzione dal voto su La Russa ha finito per rendere manifesta la spaccatura nel partito, che era già evidente ma non si era formalmente palesata. La conseguenza è che, nel giro di poche ore, in Forza Italia si è accelerato il processo politico . Ed è come se si fosse aperto un congresso post berlusconiano in presenza di Berlusconi. Ma questo problema non può certo risolverlo Meloni.

Federica Pozzi per ilriformista.it il 13 ottobre 2022.

Nel primo giorno di lavori del nuovo Parlamento e dopo l’elezione di Ignazio La Russa come presidente del Senato e la mancata elezione di quello della Camera – rinviata a domani mattina alle 10.30 – continua ad esserci fermento per la scelta dei ministri del nuovo governo. E proprio durante la seduta al Senato di oggi Silvio Berlusconi si è lasciato “sbirciare” dalle telecamere dei giornalisti un foglio in cui aveva scritto – e presentato probabilmente agli alleati – le sue proposte per i vari Ministeri. 

E’ stato Mentana, nella sua maratona dedicata alla giornata politica, a svelare il fermo immagine zoommato del foglio – non così segreto – del Cavaliere che proprio oggi, all’uscita da Palazzo Madama si era lamentato dei veti posti dagli alleati, giustificando così l’astensione dei senatori di Forza Italia alla presidenza del Senato.

“Berlusconi apre la cartellina e dentro ha un foglio in cui ci sono i ministeri desiderati di Forza Italia. Le richieste sono molto precise, scritte a macchina, quindi sono i desiderata che sono sati presentati anche nel confronto con gli alleati e con Giorgia Meloni“, dice Mentana in diretta su La7. 

Quindi quali sarebbero i desideri del Cavaliere per i diversi Ministeri? Agli Esteri Antonio Tajani, alla Giustizia Maria Elisabetta Casellati, all’Università Anna Maria Bernini, alle Politiche europee Licia Ronzulli, alla Pubblica Amministrazione Maurizio Gasparri, altro Ministero ad Alessandro Cattaneo, l’ex sindaco di Pavia, a cui Berlusconi in alternativa assegnerebbe il Ministero per Ambiente e Transizione ecologica.

Ma il nome che compare più volte sulla lista è quello di Licia Ronzulli, non solo alle Politiche europee ma anche al Turismo e ai Rapporti con il Parlamento. 

Poi come ultimo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega per l’Editoria Alberto Barachini, attuale presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. 

Insomma, tutte – o quasi – richieste che dagli alleati non sarebbero state accolte viste le parole del leader di FI di oggi pomeriggio che ha però sottolineato: “Il governo non parte male, era solo necessario dare un segnale. Ronzulli? Non avrà un ministero”.

Fratelli d’Italia non sembra però aver preso bene le mosse di Berlusconi e fa sapere che c’è grande insofferenza tra i senatori nei confronti dei colleghi di Forza Italia per quanto successo oggi in Aula durante il voto per l’elezione del presidente del Senato Ignazio La Russa. “Il rischio – fanno sapere i meloniani – è che tale disagio potrebbe incidere mercoledì prossimo sulle scelte delle nomine che ci saranno per l’ufficio di presidenza”.

Licia Ronzulli, da infermiera a fedelissima del Cavaliere: le tappe di una scalata. Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2022.  

È stata definita cortigiana, pasdaran, vestale. Di certo Licia Ronzulli, 48 anni, prima della politica, fisioterapista e manager sanitaria, è la di Silvio : sempre presente al suo fianco, da oltre un decennio, ammessa a ogni trattativa e nelle circostanze più private, con un ruolo di primo piano, perfino di organizzatrice, per il matrimonio-non matrimonio del Cavaliere con Marta Fascina alcuni mesi fa. Una fedeltà che travalica le categorie politiche e assume tratti da tifosa. Sue sono le definizioni di Berlusconi «Maradona della politica internazionale» e «Leone» che «ruggisce ancora».

Pur avendo origini remote al Sud, in Puglia - «mia nonna Isabella, poverissima e analfabeta fino alla sua morte, era di Margherita di Savoia», rivendica alcuni anni fa nel bel mezzo di una guerra a mezzo lettere pubbliche con il segretario regionale di Forza Italia — Ronzulli nasce a Milano e cresce a Monza da papà brigadiere dei Carabinieri. Prima di scalare la scena politica, è infermiera e fisioterapista all’Irccs Galeazzi di Milano. Studia e viene promossa a coordinatrice delle professioni sanitarie per la stessa struttura.

L’ambiente professionale è quello in cui incontra il suo compagno, dal quale si è poi separata: Renato Cerioli, imprenditore e manager sanitario, ex presidente di Confindustria Monza e Brianza, che sposa nel 2008 (con Berlusconi a fare da testimone) e dal quale ha una figlia. È nell’ambito della sua attività professionale che il suo destino potrebbe aver incrociato per la prima volta quello di Silvio Berlusconi. La scintilla politica, però, ha raccontato lei stessa, sarebbe scoccata in occasione di una iniziativa di Forza Italia, durante la quale Ronzulli sarebbe riuscita ad avvicinare Berlusconi e a ottenere da lui un impegno finanziario a favore di un’attività di volontariato per i bambini del Bangladesh, di cui si occupava da tempo.

La scalata ai palazzi del potere ha una falsa partenza alle elezioni politiche del 2008: candidata alla Camera, da Berlusconi, non viene eletta. Ci riprova l’anno dopo, alle Europee, e conquista il seggio nell’europarlamento: celebri le immagini con la figlia di pochi anni in braccio nell’aula di Strasburgo.

Eletta al Senato nel 2018 e confermata alle ultime elezioni, da allora è sempre vicinissima al Cavaliere, voce ascoltatissima, spesso in conflitto con altri uomini e soprattutto donne di Forza Italia. Tra loro sicuramente Mariastella Gelmini con la quale , quando è caduto il governo Draghi, a luglio scorso, avrebbe avuto uno scambio velenosissimo nei corridoi del Senato, captato da altri parlamentari: «Contenta di aver fatto cadere il governo?» la provocazione di Gelmini, che in seguito a quella decisione si preparava a lasciare FI per Azione di Calenda, «Vai a piangere da un’altra parte e prenditi uno Xanax», la replica di Ronzulli.

Assistente dell'ex premier, FI non accetta veti. Chi è Licia Ronzulli e perché Berlusconi la vuole per forza ministro: da infermiera al parlamento europeo con la figlia in braccio. Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2022

Date un ministero a Licia Ronzulli. E’ la richiesta che avanza Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, per la senatrice milanese che, stando a quanto trapela, sarebbe proco gradita agli altri esponenti della coalizione di centrodestro. Berlusconi ha infatti parlato di veti, quelli che l’hanno poi portato a non far votare i suoi 18 senatori per Ignazio La Russa (eletto lo stesso alla presidenza del Senato grazia ai voti dei franchi tiratori presumibilmente del Terzo Polo).

“I veti non si devono fare” sono le parole di Berlusconi rilasciata ai giornalisti prima di lasciare il Senato. “E’ la senatrice Ronzulli?” prova a insistere una giornalista. “E’ questo il problema…” replica Berlusconi prima di entrare in ascensore con la stessa Ronzulli e Maurizio Gasparri. Il nome della Ronzulli è presente anche tra gli appunti dell’ex premier zoomati dalla telecamere di La7. La sua candidatura è su tre fronti: non solo alle Politiche europee ma anche al Turismo e ai Rapporti con il Parlamento.

Nata a Milano il 14 settembre 1975, Ronzulli ha una figlia, Vittoria, che oggi ha 12 anni ed è nata dall’unione con l’ex compagno Renato Cerioli, manager e presidente della Confindustria Monza e Brianza.

La senatrice di Forza Italia inizia a lavorare come infermiera e nel 2003 diventa responsabile del coordinamento delle professioni sanitarie all’IRCCS Galeazzi di Milano. Dal 2005 è volontaria della onlus Progetto Sorriso Nel Mondo, con la quale ogni anno si reca in Bangladesh insieme ad un’équipe chirurgica specializzata nella cura dei bambini malformati.

In politica il suo esordio è nel 2008, quando è stata candidata per la lista de Il Popolo della Libertà nella circoscrizione Marche, dove è risultata essere la prima dei non eletti. Un anno dopo, alle elezioni europee, Ronzulli si candida al Parlamento europeo, nella circoscrizione Italia nord-occidentale tra le liste del Popolo della Libertà che aderisce al Partito Popolare Europeo, e viene eletta con 40.016 preferenze. A Bruxelles diventa membro titolare della commissione per l’Occupazione e gli Affari Sociali e della delegazione per le Relazioni con i Paesi dell’Asia Meridionale, oltre ad essere membro sostituto nella commissione Diritti della Donna e Uguaglianza di Genere e nella sottocommissione per i Diritti dell’Uomo.

Tra gli impegni di Ronzulli c’è la tutela dei diritti delle donne lavoratrici; al riguardo, il 22 settembre 2010 si è presentata a votare in Seduta Plenaria al Parlamento europeo tenendo in braccio la figlia Vittoria di appena 44 giorni, un gesto simbolico volto a rivendicare maggiori diritti per le donne nella conciliazione tra vita professionale e familiare.

Alle elezioni europee del 2014 viene ricandidata da Forza Italia nella circoscrizione Italia nord-occidentale, dove riesce ad ottenere 25.071 preferenze, ma non viene eletta. Da quando Silvio Berlusconi si riprende fisicamente a seguito di un delicato intervento al cuore nell’estate del 2016 lo segue in ogni suo spostamento, sostituendo di fatto Mariarosaria Rossi nel ruolo di assistente del Cavaliere.

In occasione delle elezioni politiche del 2018 viene candidata nel collegio uninominale di Cantù per il centro-destra al Senato della Repubblica, venendo poi eletta con il 56,80% dei consensi. Diventa presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza ed è anche membro della Commissione industria, commercio, turismo di palazzo Madama. Diviene vice-capogruppo del partito al Senato dal 9 novembre 2018 e dal 15 febbraio 2021 è la responsabile per i rapporti con gli alleati con il compito di coordinare, su indicazione di Berlusconi, le strategie comuni agli altri partiti della coalizione di centro-destra per le iniziative e per il programma.

Il 14 maggio 2022 viene nominata da Silvio Berlusconi commissario di Forza Italia per la Lombardia per ridare slancio al partito nella regione. Alle elezioni politiche anticipate del 25 settembre 2022 viene candidata per il Senato nel collegio uninominale Lombardia – 02 (Como) per il centro-destra, oltreché come capolista nei plurinominali Lombardia – 01 e Puglia – 01 e in seconda posizione nel Lombardia – 02 e nel Piemonte – 02. Viene eletta all’uninominale con il 55,38%.

Filippo Ceccarelli per la Repubblica il 15 ottobre 2022.

Dunque ci voleva una donna per fare secco il Cavaliere. In tanti ci hanno provato a partire dal secolo scorso: in un paio di giorni c'è riuscita Giorgia Meloni, senza troppe chiacchiere e con perfetto tempismo impartendo la più severa e mortificante lezione al mostro sacro del sistema politico italiano. 

Le nuove leader femminili di destra, scriveva sul penultimo numero di Internazionale Slavoj Zizek, "si adattano bene a un'epoca che cerca di combinare l'autoritarismo con la sensibilità". A giudicare dalla litania di aggettivi ingranditi dai cannoni dei fotoreporter - "supponente, prepotente, arrogante, offensiva" - negli ultimi due faccia a faccia Meloni deve essersi espressa con un sovrappiù di spietatezza barbarica. 

Ma il momento più terribile e a suo modo istruttivo, nella solitaria penombra di Villa Grande, è stato quando l'uomo per lungo tempo più ricco e potente d'Italia se n'è uscito, senza riconoscere che quel grido suonava contro se stesso: "L'ho creata io!".

Ecco, nulla più di quanto è accaduto in questi giorni dice con la necessaria crudezza dei rapporti di forza che proprio attraverso Giorgia Meloni sta finendo il tempo dell'invenzione e della manipolazione patriarcale. 

Quante donne ha "creato" dal nulla Berlusconi! E quante energie ha speso per costruirgli addosso un destino, come in una fiaba, e combinare le loro esistenze sempre rifulgendo in lieta passione e generosa galanteria. A parte mamme e zie suore, la sua figura di maschio si è proiettata su un gran numero di femmine: mogli, ex mogli, amanti del primo e del secondo ciclo di intercettazioni, e poi figlie, deputate e senatrici scelte e fatte anche ministre, e olgettine, gemelline, ape regine, minorenni e così via. C'è tutta una letteratura, drammatica e spassosa a un tempo, sul rapporto tra Silvione e il femminile, nel cui scrigno segreto si scopriva che anche lui, in fondo, era un po' donna, o comunque faceva riferimento alla mitologia androgina, per quanto il povero Bondi la buttasse sul maternale, "è una mamma, il presidente è una mamma!".

Ma poi, ritornato in auge e finalmente pregustando il traguardo di Padre della Patria, ecco che un brutto giorno gli si mette di traverso quella piccoletta di An che sempre lui a suo tempo aveva piazzato sulla poltrona dell'ineffabile ministero della Gioventù. "La Trottola" la chiamava con affettuoso paternalismo perché non stava mai ferma; e insomma "la Trottola", che ha vinto le elezioni, prima lo fa girare e girare, anziano, malconcio e frastornato com' è, e poi gli dice: no, io faccio come mi pare e stavolta dei tuoi interessi non me ne importa nulla, prova a metterti contro, vediamo chi ci rimette e comunque non sono ricattabile; con il che la Draghetta, appassionata di fantasy, ha sgominato il vecchio drago - al quale, secondo Veronica moglie, si "offrivano vergini in pasto".

E allora, a maggior ragione: forse solo una donna non solo poteva, ma doveva farlo - per quanto all'esito abbia indirettamente e paradossalmente contribuito un'altra donna anch' essa da lui creata, Licia Ronzulli, sulla quale il Cavaliere si era incaponito. Perché la politica non sempre è un'arte feroce, ma quando si rivela tale c'è sempre un motivo che assomiglia a un insegnamento. 

Così viene in testa l'autunno del 2012, anniversario pieno, quando dopo la caduta e la condanna del Signore di Arcore Giorgia Meloni s' era messa in testa di fare le primarie nel Pdl, ma il Patriarca furbamente traccheggiava: un giorno diceva sì, un altro no, un altro ancora si rifiutava di cacciare i soldi, salvo poi liquidare la pretesa affidando il voto al call-center della "badante" di turno. Ebbene una mattina, con Rampelli e altri giovani ex di An, Meloni andò a fare un presidio sotto la sede di Forza Italia e più tardi raggiunse - inaudito! - Palazzo Grazioli.

Qui con maschere bianche, cerotti sulla bocca e cartelli "Basta giravolte, basta dinosauri" la futura prima donna premier si candidò alle primarie, che però non si tennero mai. Il suo slogan era comunque: "Senza paura". I social diffusero anche la sua foto. Un giornalista parlamentare commentò: "Aho', pare bona!". Lei rispose che l'immagine non era "truccata". Poi, forse a riprova del mix di autoritarismo e sensibilità di cui scrive Zizek, pose la questione: "Ma sono così brutta dal vivo?".

Da repubblica.it il 13 ottobre 2022.  

Segre, perché 25 aprile e 2 giugno sarebbero date divisive?

"Le grandi nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria. Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date 'divisive' anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica?".  L'ha detto, tra gli applausi, la senatrice a vita Liliana Segre nel suo discorso in apertura della seduta per il voto del presidente del Senato. 

Segre: "Costituzione non pezzo carta, italiani la sentono amica"

"In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l'unità del nostro popolo è la Costituzione repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti. Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l'ha sempre sentita amica". L'ha detto la senatrice a vita Liliana Segre nel suo discorso in apertura della seduta per il voto del presidente del Senato. 

Segre saluta Mattarella e papa Francesco

"Rivolgo un caloroso saluto al presidente della Repubblica, a quest'aula e rivolgo un pensiero a Papa Francesco". Così la senatrice a vita Liliana Segre, presiedendo a Palazzo Madama la prima seduta della XIX legislatura. 

Segre: tocca a me presidenza in anniversario marcia Roma, provo vertigine

"Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva".

Così in Aula al Senato Liliana Segre. "In questo mese di ottobre- prosegue -  nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica". 

"Ed il valore simbolico - aggiunge -  di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato!".

Segre: un saluto a Napolitano, e legge suo messaggio

"Desidero indirizzare al Presidente Emerito Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri e la speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato". Liliana Segre, presidente provvisorio del Senato, lo dice in aula nel discorso di apertura della prima seduta della XIX legislatura. 

"Il presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole- dice segre- 'desidero esprimere a tutte le senatrici ed i senatori, di vecchia e nuova nomina, i migliori auguri di buon lavoro, al servizio esclusivo del nostro Paese e dell'istituzione parlamentare ai quali ho dedicato larga parte della mia vità". 

Standing ovation per Segre all'ingresso in Aula

Un applauso e una standing ovation di tutto l'emiciiclo ha salutato l'ingresso in aula di Liliana Segre al Senato. 

Meloni dopo incontro con Berlusconi: "Sono ottimista sulle Presidenze delle Camere. Andiamo avanti spediti"

''Sono ottimista sulle Presidenze delle Camere. Andiamo avanti spediti''. È il commento di Giorgia Meloni, entrando nell'aula di Montecitorio a passo veloce, mentre è in corso la votazione sulle Presidenze. Meloni è reduce dall'incontro con Silvio Berlusconi. (di Tommaso Ciriaco)

Berlusconi: "Emozionato? No. Con Giorgia Meloni ci siamo incontrati serenamente. La Russa presidente del Senato? Credo di sì"

Berlusconi: "Emozionato? No. Ho fatto un buon lavoro in Europa, quello che mi preoccupa è la situazione fuori, l’inflazione, la recessione. Con Giorgia Meloni ci siamo incontrati serenamente. La Russa presidente del Senato? Credo di sì". (di Lorenzo De Cicco) 

Maggioranza vota scheda bianca alla Camera alla prima chiama elezione presidente. Al Senato si vota Ignazio La Russa

Silvio Berlusconi è alla Camera per un incontro con Giorgia Meloni che dovrebbe servire a sciogliere i nodi irrisolti della trattativa per il governo, in particolare lo scarso peso attribuito secondo il Cavaliere a Forza Italia, in particolare modo a Livia Ronzulli. La coalizione di maggioranza voterà scheda bianca alla prima votazione alla Camera. Al Senato invece si vota su Ignazio La Russa. (di Emanuele Lauria e Conchita Sannino) 

Governo: incontro fra Meloni e Berlusconi alla Camera

C'è stato un incontro, a quanto si apprende, fra la leader di FdI Giorgia Meloni e quello di Forza Italia Silvio Berlusconi, alla Camera. Antonio Angelucci, Lega: “Rocca di Croce Rossa sarebbe un ottimo ministro alla Salute”

Antonio Angelucci, il re delle cliniche private, Lega: “Rocca di Croce Rossa sarebbe un ottimo ministro alla Salute, ha un grosso peso internazionale”. (di Matteo Pucciarelli) 

Salvini, passo di lato su Senato e Governo per partire bene

"Se c'è da fare un passo di lato lo facciamo: vale per il Senato, vale per il Governo. Per partire presto e bene". Lo afferma il segretario della Lega, Matteo Salvini entrando al Senato insieme allo stato maggiore del partito.

Al via la prima votazione alla Camera

Al via nell'Aula della Camera la prima votazione per l'elezione del presidente. La votazione è segreta e per schede, e avviene nei 'catafalchi' montati tra il banco del governo e quello della presidenza. Per questa votazione è necessaria la maggioranza dei 2/3 dei componenti dell'Assemblea. 

Calderoli: "C'è l'accordo su La Russa, faccio un passo indietro"

 "C'è l'accordo sul nome di  La Russa. Volentieri faccio un passo indietro per il bene del paese". Lo dice il leghista Roberto Calderoli, il cui nome era stato sostenuto dalla Lega per la Presidenza di Palazzo Madama, entrando al Senato.

Lega, verso voto a La Russa. Salvini incontra eletti

Secondo quanto si apprende, l'orientamento della Lega è di votare il senatore Ignazio La Russa di Fratelli d'Italia per la presidenza del Senato. Il segretario leghista Matteo Salvini sta incontrando i suoi parlamentari nei suoi uffici vicino Palazzo Madama. 

Camere: "Meloni, tutto procede bene, faremo velocemente"

"Tutto procede bene, state tranquilli, faremo velocemente". Lo ha detto la leader di FdI Giorgia Meloni, arrivando negli uffici del Gruppo a Montecitorio, rispondendo ai giornalisti che le domandavano delle presidenze delle Camere.

Giorgia Meloni arrivata a Montecitorio

La leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni è arrivata a Montecitorio, dove stamattina è entrato Silvio Berlusconi. 

La Russa: "Io presidente? Dell'Inter Club"

"Io Presidente? Sì, dell'Inter Club", scherza il senatore di Fdi Ignazio La Russa, in pole per la presidenza del Senato, arrivando a Montecitorio. A chi gli chiede se la partita sulle presidenze delle Camere sia chiusa, risponde: "Vediamo".

Riunione gruppo FdI in Senato prima di votazione, verso La Russa presidente

È in corso in sala Koch a palazzo Madama una riunione dei senatori di FdI. L'indicazione per la prima votazione per il presidente è di votare Ignazio La Russa. "Riteniamo che gli alleati convergano e si possa eleggere alla prima chiama", spiegano da FdI. Per l'elezione è necessaria la maggioranza dei componenti dell'assemblea e il centrodestra conta 115 senatori su 200. 

Silvio Berlusconi a Montecitorio, verso incontro con Meloni

Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, eletto a Palazzo Madama, è entrato a Montecitorio dove tra mezz'ora inizieranno le votazioni per la presidenza della Camera. Fonti parlamentari danno imminente un incontro con la leader FdI Giorgia Meloni.

Senato: Lollobrigida (FdI), su La Russa c'è una maggioranza

Sul nome di La Russa c'è un accordo? "C'è una maggioranza". Così Francesco Lollobrigida (FdI), all'ingresso della Camera dove è appena arrivato per la prima seduta dell'Aula. 

Donzelli (FdI): "Un segnale non buono non riuscire a eleggere oggi il presidente del Senato"

"Sarebbe un segnale non buono se oggi non riuscissimo a eleggere il presidente del Senato. Auspico che il centrodestra ci riesca, dimostrando di avere una maggioranza autonoma". Lo dice Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione di FdI, ospite di Radio 24. Il ticket è La Russa-Molinari? "Auspico di sì ma non ho notizie di incontri e trattative di questa notte", risponde. 

Senato: tutto pronto per prima seduta, attesa per discorso Segre

Ultimi preparativi al Senato per la prima seduta della XIX legislatura. Alle 10.30 la senatrice a vita Liliana Segre in veste di presidente, ruolo che compete alla senatrice più anziana presente, dirà che la seduta è aperta e pronuncerà il suo discorso. Terminato il suo intervento l'Aula verrà sospesa, per poi riaprire i lavori aperti ai 26 senatori subentranti, che verranno indicati dalla Giunta per le elezioni. 

A quel punto inizia la prima votazione, con la chiama in ordine alfabetico per l'elezione del presidente del Senato, con le operazioni che dovrebbero concludersi nel giro di due ore circa. Votazione che prevede per i primi due scrutini la maggioranza assoluta dei voti degli eletti e dei senatori a vita, pari a 104 preferenze.

Luca Bottura per “La Stampa” il 14 ottobre 2022.  

Dal vaffanculo di Grillo a quello di Berlusconi: a 'sto punto l'estate prossima

potrebbero fare un tour comico insieme. 

Berlusconi minaccia di andare alle consultazioni da solo. Quindi- ed è l'unico caso al mondo - male accompagnato.

Sintesi della giornata: appena insediato, La Russa è subito entrato in Azione.

 Un bel primato italiano: i riferimenti di La Russa alla Liberazione e a Liliana Segre sono stati inseriti in tutte le pagine Wikipedia del mondo in luogo della locuzione "ostentata ipocrisia" 

La Russa ha detto di non essersi preparato un discorso. In effetti se ne era preparati cinque, e mentre il giornale va in stampa sta finendo di leggere l’ultimo.

Livello istituzionale? Pareva che da un momento all'altro annunciasse l'Open Bar. 

Onore comunque al ghost-writer del neopresidente che è andato a cercarsi su Wikipedia chi erano Fausto e laio, due giovani di sinistra trucidati da ignoti negli anni di piombo.  Ancora dieci minuti e trovava anche chi era 'sto Matteotti citato dalla miracolosa Liliana Segre. 

Gli va comunque riconosciuto che, pur andando a braccio, La Russa non l'ha mai teso. 

La curiosità: se il deputato dissidente che vota La Russa arriva da Destra, si può definire un Francisco Franco tiratore. Se arrivano dal Terzo Polo, sono Franco Franchi tiratori. 

La Russa ha citato Pertini per elogiare la propria coerenza post-fascista. Che è come citare Bruno Barbieri per celebrare la tinta unita. 

Per la Camera, la Lega schiera il veronese Lorenzo Fontana, che partecipava a sfilate con esponenti di Forza Nuova noti per aver inneggiato a Hitler. Ma questo solo perché il più moderato Galeazzo Ciano non risponde al telefono. 

Il punto politico: anche ieri, per coerenza, il Pd non ci ha capito una mazza.

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 14 ottobre 2022.  

La partita del Senato s' è conclusa con tre vincitori: La Russa, eletto anche senza i voti di Forza Italia, Meloni, sua super sponsor, Salvini, pronto a incassare la presidenza della Camera per uno dei suoi. E uno sconfitto, Berlusconi, che dopo aver promesso solo ieri mattina alla leader di Forza Italia che avrebbe sostenuto il candidato di Fratelli d'Italia, ha messo in libera uscita i suoi senatori, dichiarando che non sopportavano «veti».

Tradotto in termini essenziali vuol dire riproporre la questione di Ronzulli, stretta collaboratrice del Cav, per la quale era stato chiesto un posto importante nel futuro governo, che la candidata premier ha negato, annunciando che la vuole tener fuori dal prossimo esecutivo. Come ha fatto La Russa a farsi eleggere con un voto in più di quelli su cui poteva contare la coalizione?

Questa domanda per tutto il giorno ha aleggiato sulle prime sedute dei due rami del Parlamento, e soprattutto alla Camera, dove il Presidente, superate le votazioni che richiedono la maggioranza qualificata, dovrebbe essere eletto oggi. Innanzitutto, spiegavano gli ormai pochi senatori di lungo corso, non tutti gli esponenti di Forza Italia gli hanno rifiutato il voto: Berlusconi e Casellati, ad esempio, no. 

Poi, prudentemente e sulla base della sua esperienza, La Russa si era procurato prima della votazione una serie di promesse «a titolo personale», tra le quali, si vocifera, qualcuna di Azione, messa a disposizione da Renzi dato che Calenda giura di non saperne nulla.

Ancora, c'era chi guardava a Casini, anche se ovviamente lui nega. Sia come sia, la coalizione che nel giro di pochi giorni dovrebbe esprimere il nuovo governo non esce affatto bene da questo primo giro in cui avrebbe dovuto mostrare la sua compattezza. C'è ancora da sbrogliare la matassa di Montecitorio. E ci sono da cominciare le consultazioni: per ottenere l'incarico, Meloni dovrà dimostrare a Mattarella di poter contare su una solida maggioranza. Che, al momento, ancora non si vede. 

Carlo Bertini per “la Stampa” il 14 ottobre 2022.

Quando Ignazio La Russa in un moto di sincerità ringrazia «anche chi mi ha votato e non fa parte della maggioranza», il transatlantico del Senato, dove stazionano giornalisti e curiosi, esplode in una risata. Mentre la sinistra nell'emiciclo si incupisce. 

«Quel disgraziato di Renzi ci ha fregato. ...» sibila un senatore di Forza Italia uscendo dall'aula, a dimostrazione di quel che si va dicendo sul «suicidio» degli azzurri nel non votare La Russa. Per loro il disastro è doppio, «perché Renzi dimostra al primo colpo di poter sostituire Forza Italia», commentano i dem.

Infuriati per l'effetto boomerang e tentati di votare oggi alla Camera un candidato di bandiera affinché siano chiare colpe e virtù. «È il solito Renzi spregiudicato, il sequel del ddl Zan...», ricordano dal Nazareno. 

Un misfatto, quello su La Russa, che resterà però senza colpevoli, visto che non si saprà mai con certezza matematica chi siano i 17 o 19 franchi tiratori. Per questo, è il Var, ovvero il nastro riavvolto della camera fissa puntata sul «catafalco», da cui entrano ed escono i votanti in aula, che assurge al ruolo di protagonista di questo processo: e la sentenza del Pd è che sono Matteo Renzi e Giuseppe Conte, ad aver salvato la maggioranza. Silvio Berlusconi però si concentra sul suo ex pupillo: «È stato Renzi e i senatori a vita...» , dice convinto.

Parte la querelle, toni acidi e veleni copiosi. I nove voti di Azione e Iv finiscono nel mirino, chi invoca il «Var» giura di aver visto i senatori del Terzo Polo fermarsi a votare nel catafalco senza sfilare via veloci, segno che hanno scritto qualcosa sulla scheda. E in effetti, a guardar bene, sorgono dubbi. 

«Ora si capisce meglio il no dei giorni scorsi a siglare un patto delle opposizioni», insinua Andrea Orlando. «Autolesionisti allo sbaraglio, soccorrono la maggioranza alla prima votazione», nota Pierferdinando Casini da ex presidente della Camera. Un j' accuse, il suo, che fa il paio con l'autodifesa a colpi di Var, dove si vede che si è intrattenuto pochi secondi nella cabina.

I 5stelle sono indignati. «Renzi ci vuole fregare - commenta uno dei big uscendo dall'Aula - ha fatto il patto con Meloni e Salvini per toglierci la presidenza della Vigilanza Rai e darla alla Boschi». Conte è furioso: «Un accordo contro di noi non ci sorprenderebbe, hanno dato prova di potersi coalizzare, guardate chi ha lanciato il primo sasso e capirete», insinua riferendosi all'accusa di Renzi di inciucio M5s-Pd per spartirsi le commissioni. «In Aula iniziano i primi giochini di palazzo e qualcuno si prepara ad una finta opposizione», sibila Conte. E la teoria del complotto, in serata, si gonfia: «Abbiamo la consapevolezza che c'è stata anche la complicità del Pd», sostengono i vertici grillini, «e questo non farà bene ai rapporti».

Letta è sicuro della disciplina dei dem sulla scheda bianca: «Il voto di oggi certifica tristemente che una parte dell'opposizione non aspetta altro che entrare in maggioranza. Un comportamento irresponsabile». 

Lui, Matteo Renzi il grande accusato, esce dall'aula prima del discorso di La Russa e tiene una lezione di tattica parlamentare agli astanti. Sostiene che non avrebbe alcun interesse a soccorrere la maggioranza, perché per avere qualche carica istituzionale servono un accordo e i voti delle opposizioni, non della maggioranza.

«L'eventuale voto dei nostri franchi tiratori, che non esiste, non inciderebbe per nulla sulle vicepresidenze», spiega il leader di Italia Viva svelando un retroscena: «Ho parlato con Dario Franceschini e con il grillino Stefano Patuanelli», per stoppare la tentata spartizione dei ruoli istituzionali spettanti alle opposizioni. 

«A me una vicepresidenza - spiega Renzi - me la possono dare solo Franceschini o Patuanelli, previo accordo. Un concetto che è l'abc delle regole: io come forza di opposizione ho diritto ad una vicepresidenza, loro ci hanno provato a mettersi d'accordo a fare metà e metà, io gli ho detto che non esiste».

Risultato, il Terzo Polo punta ad una vicepresidenza del Senato e in quel caso Renzi e Calenda indicheranno Maria Stella Gelmini. Il Copasir, prevede l'ex premier, andrà al Pd, a Lorenzo Guerini o Enrico Borghi. Il resto si vedrà. In ogni caso, Renzi sostiene che non avrebbe avuto motivo di soccorrere la maggioranza senza alcun tornaconto. In pochi gli credono. E invocano il Var.

Silvio Berlusconi e Ignazio La Russa, altro che vaffa: quanti affari tra le due famiglie. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 13 ottobre 2022.  

Geronimo, figlio maggiore del presidente del Senato, è stato per anni consigliere di società controllate dal Milan e ora amministra una delle holding azioniste di Fininvest. Poco importano gli screzi a Palazzo Madama

Sarà pure un gran tifoso dell’Inter il neo presidente del Senato Ignazio La Russa. In famiglia però quando si tratta di affari non c’è tifo che tenga. E infatti Geronimo La Russa, 42 anni, avvocato, il meno giovane dei tre figli dello storico leader milanese della destra, è stato per anni consigliere di alcune società che facevano capo al Milan, all’epoca controllato dalla Fininvest di Silvio Berlusconi. Nomi come Milan entertainment, ACM servizi assicurativi e Milan Real estate.

Chiusa la parantesi calcistica, è rimasto il legame d’affari con la famiglia del capo di Forza Italia. E infatti dal 2020 La Russa junior è consigliere della Holding Italiana Quattordicesima, il veicolo societario controllata da Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi, i tre figli del Cavaliere nati dall’unione con Veronica Lario. La Holding Quattordicesima, oltre a varie partecipazioni minori, possiede il 21 per cento di Fininvest. Difficile che lo screzio di questa mattina al Senato, con il presunto vaffa di Berlusconi a La Russa padre, riesca quindi a incrinare un rapporto d’affari tra le famiglie che sembra consolidato negli anni. 

Del resto il giovane Geronimo, che anni fa con Barbara Berlusconi fondò anche una onlus benefica (Milano Young) era già stato ambasciatore di famiglia anche nel gruppo di un’altra dinastia storicamente molto legata ai La Russa. E infatti a soli 25 anni, il figlio maggiore del neo presidente del Senato entrò nel consiglio di amministrazione di Premafin, holding quotata in Borsa dell’allora potentissimo Salvatore Ligresti. La Russa junior prese il posto in consiglio di suo nonno Antonino, morto nel dicembre 2004, anche lui avvocato e per 20 anni, fino al 1992, senatore nelle fila del Movimento sociale italiano.

Ramelli, Fausto, Iaio e la fine degli anni di Piombo. Erano in molti ad aver già messo nel mirino il primo discorso da seconda carica dello Stato di Ignazio La Russa, per sfregio in questi giorni chiamato Benito, il suo secondo nome. Giannino della Frattina il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Erano in molti ad aver già messo nel mirino il primo discorso da seconda carica dello Stato di Ignazio La Russa, per sfregio in questi giorni chiamato Benito, il suo secondo nome. «Sono stato sempre un uomo di parte. Di partito più che di parte, ma in questo ruolo non lo sarò». Arringa da principe del foro con cui ha disinnescato le munizioni citando l'insegnamento del padre Antonino, già senatore della Repubblica e di quel «ministro dell'armonia» che fu Pinuccio Tatarella. Solo la premessa del passaggio con cui chiede all'aula e al Paese di chiudere gli Anni di piombo (e di spranghe) ricordando «la drammatica stagione delle violenze, del terrorismo politico e dei tanti ragazzi, di ogni colore politico, che hanno perso la vita solo perché credevano in degli ideali». Citando studenti, servitori dello Stato, giornalisti, imprenditori e politici. «Le loro storie rappresentano un portato che ancora oggi è e deve essere una stella polare. Di nomi dovrei forse farne tanti», ma alla fine farà quello di Luigi Calabresi che nell'emozione chiamerà ispettore anziché commissario e «per restare nella mia Milano, quelli di tre ragazzi: un militante di destra, Sergio Ramelli che ho conosciuto e di cui sono stato anche avvocato di parte civile e due di sinistra, i cui assassini non sono mai stati trovati, Fausto e Iaio. Mi inchino anche davanti alla loro memoria». Abbastanza per leggere la sua intenzione di rivestire la carica di presidente del Senato con i crismi della pacificazione, nonostante il suo evidentemente coinvolgimento anche personale nella tragedia del diciottenne esponente del Fronte della gioventù sprangato a morte dai militanti rossi di Avanguardia operaia sotto gli occhi della mamma Anita. Parole che rimandano a un predecessore illustre come il presidente della Camera Luciano Violante che nel discorso di insediamento nel 1996 chiese a tutti di sforzarsi di capire i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della libertà». Con gran scandalo a sinistra, mentre ieri a destra si è applaudito. Istituzionalizzando senza più dubbi il faticoso percorso degli ex missini che di lezioni di democrazia non hanno bisogno. Soprattutto dai trinariciuti della sinistra.

Ignazio, dal Msi al vertice. Il primo comizio a dieci anni, la "tribù indiana" dei tre figli. Nel ’70 era già iscritto al partito, sulle orme del padre, volontario in Africa. Poi la carriera da legale e i processi ai brigatisti. Stefano Zurlo il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Cinquant'anni fa era già come è oggi. La telecamera di Marco Bellocchio lo riprende nel 1972 nella sequenza iniziale di Sbatti il mostro in prima pagina: Ignazio La Russa arringa la folla, c'è solo un barbone barricadiero a segnare la stagione tumultuosa, al posto del pizzetto mefistofelico dei decenni successivi, per il resto poco cambia.

Dicono che abbia tenuto il primo comizio a dieci anni e può essere che questa sia una leggenda ma certo la politica ce l' ha nel sangue: suo padre Nino, volontario in Africa, catturato a El Alamein, prigioniero fino al 1946, segue Almirante nel Movimento sociale italiano, insomma si colloca da parte degli sconfitti e dei reduci di Saló. Il figlio segue la stessa traiettoria e nel 1970, ancora prima delle riprese di Bellocchio, è già iscritto al partito.

Studia nella svizzera tedesca, si laurea in giurisprudenza a Pavia, comincia a fare l'avvocato. Penalista.

Tifa Inter, di un tifo sfegatato, si sposa due volte, con Marisa e poi con Laura, ha tre figli i cui nomi coniugano la tradizione con la sua passione smodata per gli indiani: Geronimo, Lorenzo Cochis, Leonardo Apache. Insomma, ha una formazione poliedrica con una vena libertaria, anche se è ancorato al filone della destra postfascista che mai rinnegherà. Siciliano di Paternò, dove è nato nel 1947, diventa amico di Salvatore Ligresti che è nato nello stesso paese. Anzi, a dirla tutta eredità rapporti che risalgono ai padri e ai nonni. Tutti gli anni a Natale è a casa Ligresti per gli auguri e i tre rampolli di Salvatore - Jonella, Giulia, di cui celebrerà il matrimonio in seconde nozze a Taormina, Paolo - lo considerano un fratello maggiore.

Un'altra voce sostiene che è proprio lui a presentare a Ligresti Enrico Cuccia, ma l'ingegnere in famiglia ripeterà sempre un'altra versione: «L'ho conosciuto in aereo».

Nel 1992, ormai all'inizio della tempesta di Mani pulite, entra in Parlamento in una sorta di staffetta ideale: il padre, senatore per vent'anni di fila, lascia idealmente lo scranno a Ignazio.

In realtà c'è anche il fratello Vincenzo, pure lui preso dallo stesso demone ma democristiano, la pecora bianca del clan, e poi con il Ccd, Vincenzo, al centro di penose polemiche oggi che non c'è più, perché gli è appena stata negata l'iscrizione al Famedio; e poi c'è un terzo fratello, Romano, assessore regionale, pure lui nel mirino per un presunto saluto in tono col nome.

Chincaglierie ma non solo, nella biografia di Ignazio c'è anche la forza dell'impegno professionale. Assiste la mamma di Sergio Ramelli, lo studente ucciso a sprangate da un gruppo di Avanguardia operaia e morto dopo una straziante agonia.

Persino il suo funerale è una cerimonia clandestina, in una Milano livida e impaurita. La Russa è con la sua famiglia, ed è parte civile nel processo ai brigatisti che hanno ammazzato due militanti missini a Padova, nel 1974, un episodio che segna il battesimo di sangue delle Br.

É la grande cronaca che torna con la difesa di Cesare Previti in un drammatico incidente probatorio in cui Stefania Ariosto, il teste Omega della procura, scappa in lacrime e poi sviene.

Il resto è la storia della destra nelle sue evoluzioni: l'Msi, An con Gianfranco Fini, poi l'esperimento fallito del Pdl, la stagione in cui è ministro della difesa, infine FdI, fondato con Guido Crosetto e Giorgia Meloni e dove ben presto arriva Daniela Santanché, sua storica amica. L'avventura di una minoranza che oggi, come testimonia la commozione incredula nel discorso di insediamento, va alla guida del Paese.

La via imparziale segnata da Crispi. Se c'è un uomo che ha fatto della militanza politica la ragione della propria esistenza, ebbene questi è Ignazio La Russa. Paolo Armaroli il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Se c'è un uomo che ha fatto della militanza politica la ragione della propria esistenza, ebbene questi è Ignazio La Russa. Non gli si addicono i ni. Per lui valgono gli evangelici sì sì, no no. Perciò sembrerebbe il meno indicato per la presidenza di una delle due assemblee legislative. Anche se la sua vita politica si è il più delle volte incrociata con la vita delle istituzioni. Ma le istituzioni riescono a fare miracoli: a trasfigurare un personaggio, grande o piccolo che sia. E per l'appunto questo è il caso del neoeletto presidente di Palazzo Madama.

Siciliano lui, nato a Paternò, siciliano Francesco Crispi, nato a Ribera, nei pressi di Agrigento. Come La Russa, anche Crispi, fiero dei suoi principi, non si può dire che fosse un uomo accomodante, incline ai compromessi cari ad Agostino Depretis, suo presidente del Consiglio. No e poi no. Eppure, la presidenza della Camera dei deputati lo cambia da così a così. Basterà citare le parole pronunciate nella seduta del 26 novembre 1876 in occasione del suo discorso d'insediamento ai Montecitorio: «Accanto all'ardore dell'animo, all'eccitabilità della fibra ho posto il dominio sicuro di una ferma volontà, e questa adoprerò tutta per mantenere la più stretta imparzialità nel presiedere e regolare le vostre discussioni. Con tale proponimento dimenticherò il posto da cui venni, ricorderò quello in cui sono. Essendo alla Presidenza di questa Camera, rammenterò sempre che ebbi da voi un sacro deposito, la libertà della tribuna ed integro lo trasmetterò al mio successore. A destra, a sinistra, al centro e sui seggi ministeriali io non distinguo partiti, io non riconosco che uomini devoti al bene della patria comune».

Crispi non parlava mai a vanvera e presto farà seguire i fatti alle auliche parole di cui sopra. Così nella seduta della Camera del 2 marzo 1877 si fece togliere dalla chiama. E da allora prima i presidenti di Montecitorio e poi i presidenti di Palazzo Madama non presero più parte alle votazioni proprio allo scopo di rimarcare la loro più assoluta imparzialità. Ecco, ieri La Russa non è stato da meno del suo illustre conterraneo. Ha pronunciato parole apprezzate sia da coloro che lo hanno votato sia da coloro che hanno votato scheda bianca. All'insegna della pacificazione nazionale.

Il candidato di Meloni eletto presidente del Senato con i voti dell'opposizione. Berlusconi barcolla, manda a quel paese La Russa e il voto è uno show: ma la strategia di Forza Italia affonda. Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2022 

Va a votare barcollando, supportato dalla Santanché, litiga con La Russa, battendo i pugni sui banchi di Palazzo Madama e detta la linea di Forza Italia che alla prima votazione si è quasi completamente astenuta ad eccezione proprio dell’ex premier e dalla presidente uscente Casellati. E’ un Silvio Berlusconi che nonostante le 86 primavere e l’andamento claudicante, è uno dei protagonisti dalla diciannovesima legislatura.

In Senato c’è stata la fila per salutarlo, stringergli la mano e parlare qualche secondo con lui. L’unica visita poco gradita, così come immortalato in più video diventati virali sui social, è Ignazio La Russa, la cui candidatura alla guida di palazzo Madama non convince appieno l’intera coalizione di centrodestra.

Fratelli d’Italia (che l’hanno proposto) e Lega sono concordi, Forza Italia storce invece il naso e nella prima votazione lo ha dimostrato anche se l’ostruzionismo non è bastato ad evitare l’elezione del candidato di Fdi, eletto dopo la prima votazione con 116 voti (quorum 104), molti dei quali arrivati dall’opposizione (probabilmente di parte del Movimento 5 Stelle e del Terzo Polo). Casellati e Berlusconi sono gli unici ad aver votato per Forza Italia (sono 18 i senatori azzurri).

Il voto di Berlusconi si è rivelato più complicato del previsto. Il presidente di Forza Italia accompagnato verso il catafalco da Daniela Santanchè, tra gli applausi dei senatori di Fi e FdI, è entrato nella cabina, ha votato ed è uscito, in precario equilibrio, dalla parte sbagliata, ovvero dall’entrata, cogliendo in contropiede la stessa Santanché. Berlusconi è così rientrato in cabina ed è uscito dalla parte giusta, ma una volta fuori ha avuto qualche difficoltà a individuare l’urna per depositare la scheda. E’ intervenuta la Santanchè che gli ha mostrato dove depositare il voto prima di accompagnarlo verso i senatori di centrodestra con cui si è fermato a parlare per qualche minuto.

L’ex premier è stato il più cercato tra i banchi di palazzo Madama. Ha ascoltato in prima fila il discorso di Liliana Segre con al suo fianco Lidia Ronzulli, ago della bilancia della maggioranza del prossimo governo Meloni perché Forza Italia continua a insistere per la sua presenza nella nuovo Consiglio dei Ministri.

Dopo l’elezione di La Russa, lo stesso Berlusconi suoi social corregge il tiro: “Sono lieto per l’elezione di Ignazio La Russa a presidente del Senato della Repubblica. Non solo non ho mai avuto alcuno scontro con lui, ma stiamo collaborando lealmente e in pieno accordo per dare al nostro Paese un assetto istituzionale stabile e un governo forte e coeso. Congratulazioni, Presidente!”.

Il biglietto del Cav sulla Meloni. Cosa ha scritto Berlusconi sulla Meloni: “Supponente, prepotente, arrogante e offensiva” rischia di far saltare il governo. Claudia Fusani su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

Un appunto dice tutto: “Giorgia è supponente, prepotente, arrogante e offensiva”. Sono parole scritte da Silvio Berlusconi in queste ultime 48 ore. Il Cavaliere si porta dietro una cartellina in pelle che giovedì ha squadernato sui banchi del Senato. Gli zoom dei fotografi hanno fatto il resto. Che comunque s’era anche capito dall’espressione del volto e dai gesti, da quel “vaffa” scandito in faccia a La Russa con tanto di cartellina sbattuta sul banco. Il neo presidente del Senato, davanti al foglietto, questa volta si arrabbia. E chiede a Berlusconi di dire che è un fake…

Giorgia Meloni sta indubbiamente vincendo tutto: al primo colpo il presidente del Senato, il post-fascista Ignazio La Russa; al primo colpo la presidenza della Camera, l’antiabortista e filoputinista Lorenzo Fontana, amico personale di Matteo Salvini. Ieri mattina, alla quarta e prima votazione della seconda giornata, Fontana è passato con 222 voti. Il centrodestra ha risposto in modo compatto: mancano all’appello 14 voti ma, a differenza del Senato, non ci sono stati strappi né ferite. Nessun giallo da parte delle opposizioni che hanno tutte votato un loro candidato di bandiera (non lo hanno fatto giovedì al Senato sprecando l’occasione di far inciampare subito la maggioranza di centrodestra).

Si potrebbe così ritenere chiusa la prima fase di avvio della legislatura, l’elezione dei presidenti di Camera e Senato a cui poi seguiranno tra martedì e mercoledì la nomina dei vicepresidenti e dei capigruppo. A quel punto sarà pronta la squadra che dovrà salire al Colle per le consultazioni (tra il 19 e il 20 ottobre). Ma per quanto una buona fetta di azzurri berluscones si affretti a minimizzare “giovedì è stato solo un episodio per rivendicare maggior rispetto ad una forza della coalizione”, la maggioranza ha un problema grosso come una casa. Il partito fondatore della coalizione rischia la balcanizzazione. “Giorgia non è disponibile a cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo” ha scritto colui che nel 1994 ha fondato la Casa delle libertà, tolse dal limbo della storia An e dette proprio alla giovane Meloni l’onore di un ministero. Si chiama riconoscenza.

In politica è certamente un lusso. E Giorgia Meloni sta dimostrando, secondo Berlusconi, di non avere questa sensibilità. Un dato questo oggettivo non solo perché immortalato dagli appunti galeotti del Cav ma perché così stanno andando le cose in queste tre settimane. E se questo vale per i nomi della squadra di governo – come dimostrano i ripetuti no all’upgrade nel Consiglio dei ministri di Licia Ronzulli, di Casellati e Sisto alla Giustizia, Guido Bertolaso alla Sanità e tanti altri – il timore fondato è che la stessa modalità “prepotente” sarà applicata anche ai dossier governativi. “Ricevo risposte offensive a qualunque cosa io chieda. Non lo merito” è un’altra frase detta da Berlusconi in queste ore.

Se qualcuno spera che i temi identitari cari a Fratelli d’Italia (“Ignazio, un vero patriota siede nella seconda carica dello stato”) e alla Lega (famiglia e amicizia con la Russia blindati dalla figura di Fontana) si possano considerare esauriti con l’elezione di La Russa e Fontana, altri temono che invece la prepotenza proseguirà oltre i nomi anche sui temi economici, sociali, dei diritti, in politica estera. Per Forza Italia sarebbe la fine: il suo ruolo di garanzia e resistenza rispetto a pulsioni nazionaliste, sovraniste, antidemocratiche sarebbe ogni giorno umiliato. Di tutto questo si è ragionato giovedì sera nella cena a Villa Grande con i senatori e nelle riunioni dove si è rivisto anche Gianni Letta. Che fare allora? “Meglio restare dentro, seppure umiliati, con la speranza poi di intervenire in qualche modo? O far saltare il banco subito dicendo che Forza Italia non c’entra nulla con questa gente” sono le domande che interrogano deputati e senatori, anche chi è rimasto fuori dalle liste, motivo questo di infinite tensioni e rivendicazioni.

Il partito è diviso in due. Da una parte chi sta con Antonio Tajani, gradito a Meloni e candidato alla Farnesina dove si porterebbe come consiglieri alcuni pezzi importanti della storia del partito come Valentino Valentini e prendere quello che viene. Sono i sostenitori del “meglio stare dentro che fuori”. Poi si vedrà. Dall’altra parte ci sono i filo-Ronzulli, pronti da subito a vendere cara la pelle. Questa parte “resistente” è rimasta un po’ spiazzata nelle ultime ora dalle scelte di Matteo Salvini con cui Ronzulli aveva stretto un patto di acciaio. Il leader della Lega, tutto sommato soddisfatto dei ministeri che avrebbe ottenuto (Infrastrutture, Agricoltura, Affari regionali e Autonomie e all’Interno il prefetto Piantedosi, capo di gabinetto ai tempi di Salvini al Viminale) ha fatto una scelta pragmatica: stare dentro e iniziare la partita del governo di centrodestra.

Non può esistere alternativa. Nelle ultime 48 ore ha consigliato Berlusconi, molto adirato e offeso, di fare altrettanto. Al momento è la linea destinata a prevalere. I tre partiti saliranno insieme al Quirinale. I 14 voti mancanti sono di chi avrebbe “sbagliato” a scrivere il nome nella scheda (solo Fontana invece che Lorenzo Fontana) e di chi nella Lega avrebbe preferito Molinari. Andranno avanti in tre. Ma la ferita è profonda, non si può curare. Il suggerimento a Berlusconi è questo: “Deve cambiare gestione del partito e nominare al governo qualcuno dei fedelissimi rimasti fuori dalle liste per via di scelte scellerate dell’attuale dirigenza”. La parola più ripetuta: malcontento.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

I rapporti tesi tra alleati. “Non sono ricattabile”, Meloni risponde al foglio degli appunti ‘al veleno’ di Berlusconi: nel centrodestra volano stracci. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

“Mi pare che tra quegli appunti mancasse un punto e cioè non ricattabile”. Parole di fuoco che rendono il clima nel centrodestra ancora più incandescente. Sono quelle pronunciate da Giorgia Meloni ai giornalisti lasciando il suo ufficio alla Camera.

Dichiarazioni che sono una risposta agli appunti del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi fotografati nella seduta di giovedì al Senato. Su un foglio catturato dagli scatti dei fotografi il Cav definiva la presidente del Consiglio ‘in pectore’ come “supponente, prepotente, arrogante e offensiva”, cancellando con un tratto di penna l’aggettivo “ridicola”.

“Nessuna disponibilità ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo”, si leggeva ancora nel foglio scritto da Berlusconi. Frasi che forse servivano a ‘cristallizzare’ l’umore del presidente di Forza Italia, forse appunti in vista di dichiarazioni, poi mai avvenute.

Ma soprattutto frasi mai smentite dal partito o dallo stesso Berlusconi, nonostante il tentativo fatto da Ignazio La Russa, neo presidente del Senato pur senza i voti di Forza Italia, che ha tentato di invitare l’ex premier a dichiarare che quella foto fosse “una fake”. 

Che quella foto sia un falso, tra l’altro, l’ha smentito lo stesso autore dello scatto, Alessandro Serranò dell’AGF. “Questa mattina è stato pubblicato su La Repubblica un mio scatto che ritrae Berlusconi mentre sfoglia un “pizzino” che ha per protagonista Giorgia Meloni. L’onorevole La Russa ha classificato quella foto come fake, un falso. Come se avessi tempo di mettermi a contraffare pure un foglio di carta intestata”, ha scritto sui social.

Sullo sfondo c’è la partita dei ministri, che ha ovviamente influenzato anche il comportamento nell’aula del Senato degli eletti di Forza Italia. I fedelissimi del circolo berlusconiano sono una ‘singola voce’ nel denunciare la mancanza di ‘concertazione’ nelle scelte per i dicasteri, con Berlusconi che dopo il voto che ha eletto a presidente di Palazzo Madama La Russa aveva parlato di “forte disagio disagio per i veti espressi in questi giorni in riferimento alla formazione del governo“.

La lista della spesa che avrebbe presentato l’ex premier alla Meloni è particolarmente lunga, almeno stando ad un appunto intercettato dai fotografi al Senato: in primis quello sulla Giustizia, visto che sul Cav. incombe lo spettro della legge Severino e che Berlusconi chiede fortemente a Meloni per affidare a Maria Elisabetta Casellati. Qui agli Esteri Antonio Tajani, all’Università Anna Maria Bernini, alla Pubblica Amministrazione Maurizio Gasparri, altro Ministero ad Alessandro Cattaneo, l’ex sindaco di Pavia, a cui Berlusconi in alternativa assegnerebbe il Ministero per Ambiente e Transizione ecologica.

Ma il nome che compare più volte sulla lista è quello di Licia Ronzulli, non solo alle Politiche europee ma anche al Turismo e ai Rapporti con il Parlamento: per l’ex infermiera, ora diventata regista delle strategie del partito e per questo criticata nella fila di Forza Italia dopo il fallimento del piano allestito al Senato, Berlusconi vuole assolutamente un posto nel prossimo esecutivo, ma su questo Meloni fino ad oggi ha tenuto il punto rifiutando categoricamente di fare concessioni all’alleato. Ad oggi solo Tajani agli Esteri avrebbe il via libera della leader di Fratelli d’Italia.

Estratti dalla autobiografia di Giorgia Meloni “Io sono Giorgia” il 16 ottobre 2022.

Il rapporto tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni non è mai stato idilliaco. A febbraio, dopo lo scontro sulla rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, Meloni era andata in tv, su Retequattro, e aveva spiegato: "Io a Berlusconi nella mia vita non debbo niente". Parole che avevano fatto infuriare Berlusconi che aveva bandito per qualche giorno gli esponenti di FdI dalle sue televisioni e aveva replicato: "È un'ingrata".

Diffidenze e scontri che emergono anche da aneddoti raccontati da Meloni nella sua autobiografia Io sono Giorgia, pubblicata da Rizzoli nel 2021 e di cui riportiamo qui di seguito alcuni stralci. 

Irriconoscente. "Molte volte, in questi anni, quando da presidente di un partito alleato ma distinto da quello di Berlusconi ci sono stati momenti di frizione, mi sono sentita dire che ero 'irriconoscente' con il Cavaliere che mi aveva fatto ministro. A parte che sono convinta che un buon politico debba essere leale con gli uomini ma ciecamente fedele solo alle proprie idee, le cose non stanno comunque così (…). Ho sempre avuto con il Cavaliere un rapporto franco e leale e ho di lui una grande considerazione, ma la mia storia appartiene a un mondo che lui non ha mai capito davvero…

B. e le donne. "Poche ore prima erano uscite delle intercettazioni di telefonate tra aspiranti soubrette e Berlusconi, da cui si intuiva che queste ragazze erano in cerca di raccomandazioni. (...) In quella telefonata con Roncone dissi quello che pensavo e penso, e cioè che le raccomandazioni sono frutto di una società che non premia il merito, che le protagoniste della storia mi facevano tristezza e che il comportamento di Berlusconi, in quel frangente, da donna di destra, proprio non mi era piaciuto. (…)

La mattina dopo, all'alba, mi chiamò Ignazio La Russa, capo delegazione di Alleanza Nazionale al governo. Io stavo ancora dormendo, risposi assonnata e sentii lui dire, con la voce ferma: 'Ma come ti viene in mente? C'è Berlusconi fuori dalla grazia di Dio'. (…) Aprii la porta di casa per prendere il Corriere della Sera e a pagina 5 trovai la mia intervista, con richiamo in prima. Titolo: 'Questo Silvio non mi piace'. All'alba, Berlusconi aveva chiamato La Russa arrabbiatissimo: 'La ragazza mi ha già rotto le palle'.

"Cosa vuoi in cambio? "A un certo punto di questo percorso decisi di comunicare personalmente a Berlusconi la nostra decisione (di uscire dal Pdl per fondare Fratelli d'Italia, ndr). Quando glielo dissi, a Palazzo Grazioli, mi rispose con quel suo fare pragmatico da uomo d'affari che ha imparato come tutto, e quasi tutti, abbiano un prezzo. 'Va bene, ho capito... Allora, dimmi: che cosa vuoi, che cosa vuoi fare?'. 'Voglio essere fiera di quello che faccio. Lo dico con rispetto, ma davvero non mi sento più a casa”.

No ai ricatti. "Non sono ricattabile, perché non faccio cose delle quali dovrei vergognarmi e non accetto aiuto da chi potrebbe chiedermi qualcosa in cambio".

Mario Tafuri per blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2022.

Giorgia Meloni e Licia Ronzulli? Perché la futura premier storce il naso? Forse pesa quella telefonata di 12 anni fa con Nicole Minetti? 

Su tutti i giornali e siti abbiamo letto del fastidio di Giorgia Meloni davanti alla insistenza di Berlusconi su un ministero di peso da assegnare a Licia Ronzulli, oggi potentissima figura di Forza Italia e dell’inner circle del Cavaliere. 

“Per me è una questione d’onore. Piuttosto questo governo non nasce” era arrivata a dire la Meloni. Sottolineando con questo la sua totale avversione alla Ronzulli ministro. La vicenda si è poi conclusa, pare, con una ritirata strategica di Berlusconi dopo una scenata furiosa con Ignazio La Russa. e lo sgarro di non farlo votare presidente del Senato dal suo partito. Quel che interessa oggi capire è il perché di tanta ostilità.

Una bega tra donne? Non si direbbe. Forse la spiegazione ha radici nella cronaca di oltre 10 anni fa, quando primo ministro era Berlusconi e dalla Procura della Repubblica di Milano uscivano le intercettazioni delle indagini sul caso Ruby nipote di Mubarak e sulle cene eleganti nella villa di Arcore. 

Ne pubblicammo parecchie pagine su Blitz. La numero 52 aveva questo titolo: “Nicole Minetti e Licia Ronzulli: ragazze per il dopo-partita cercansi”. 

Sotto si leggeva: Sono da poco passate le 18:30 del 22 agosto 2010. Nicole Minetti parla al telefono con Licia Ronzulli. L’argomento è: quali ragazze ci saranno in serata ad Arcore? 

Nicole: io sono ancora in alto mare perchè ho superato da poco Bologna e c’è un traffico disumano.

Nicole: per cui io sicuramente non riesco ad essere lì per quell’ora, ho sentito le ragazze all’inizio… all’Annina mi aveva detto che voleva venire, poi però è a piedi, una cosa e un’altra né lei né la Maristelle vengono lì allo stadio, perchè sono a piedi entrambe, quindi aspettano che arrivo io, vado a prenderle io e poi dopo andiamo dove dobbiamo andare insomma

Licia: okey, ascolta, la cena non è da Giannino, è a casa del capo ad Arcore, quindi stai tranquilla.

Nicole: no, l’unica cosa ho provato a chiamarlo per dirgli che comunque anche loro non venivano perchè mi dispiaceva, solo che non risponde, quindi magari se riesci ad avvisarlo tu, gli dici

Licia: glielo dico io, sì. 

Il testo poi prosegue con lo scambio di una serie di informazioni sulle ragazze la cui presenza era prevista quella sera.

La sua rilettura, oggi, 12 anni dopo, può essere illuminante. 

Roberto Gressi per corriere.it il 16 ottobre 2022.

«Può la donna permettersi di stare alla pari con l’uomo? No! È aperto il dibattito». Nella casa del popolo del film d’esordio di Roberto Benigni si consumava l’eterno confronto, che ora, anche in politica, vede sul ring il campione non più in carica e la sfidante. Eccoli: Silvio Berlusconi, 86 anni, da Milano, Bilancia, 165 centimetri per 84 chili, pantaloncini azzurri. E Giorgia Meloni, 45 anni, da Roma, Capricorno, 163 centimetri per 54 chili, pantaloncini tricolore con Fiamma. 

Non solo pugni, sul quadrato, ma anche guerra psicologica. Mohamed Alì fustigava con il dispregiativo di «zio Tom» i suoi avversari neri. E i duellanti di oggi non sono da meno. «Supponente, prepotente, arrogante, offensiva», ferisce Berlusconi, «con lei non si può fare nessun accordo». «Non mi piaci, non ti devo nulla, io non sono ricattabile», sferza Meloni.  

Sembrano a prima vista coltellate dell’ultimo minuto, un c’eravamo tanto amati finito a carte bollate, con la «ragazzina che si è montala la testa» (copyright Gianfranco Fini) da una parte e il patriarca che, con un filo di machismo, difende il suo onore e la sua prediletta, Licia Ronzulli.

E invece no. A pelle non si sono mai sopportati. Lui che la fa ministra per i Giovani a nemmeno trent’anni. Lei che chiede agli atleti di non partecipare alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino nel nome del Tibet oppresso. 

Lui che la smentisce, Franco Frattini, il ministro degli Esteri di allora, pure. Lei che abbozza ma non abiura. Racconta che già al giuramento qualcuno del cerimoniale aveva avuto l’idea di metterla in fila in ordine di altezza, come i ragazzini delle colonie negli anni Cinquanta. «Tra Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo e Mariastella Gelmini sembro il brutto anatroccolo, qualcuno fa anche uno strepitoso fotomontaggio dove al mio posto c’è Kermit, la rana dei Muppet». 

Non è l’unico fake. Diventa virale un video durante il congresso del Pdl. Si sente la voce di Berlusconi, che la chiama in prima fila: «Dov’è la piccola?». Viene deformato in «Dov’è la zocc*?». E incredibilmente in tanti ci credono. Ma comunque, è convinta lei, mi chiamava piccola perché non si ricordava il mio nome. 

Fastidiosamente irritante, nella sua insignificanza, pare che la giudichi fino da allora Silvio Berlusconi. Ma il primo incidente vero arriva a firma di un giornalista del Corriere, Fabrizio Roncone. La chiama e le racconta delle intercettazioni di telefonate tra aspiranti soubrette e Berlusconi, le ragazze erano in cerca di raccomandazioni. «Io ero al mare e dissi quello che pensavo e penso, e cioè che le raccomandazioni sono frutto di una società che non premia il merito, che le protagoniste della storia mi facevano tristezza e che il comportamento di Berlusconi, in quel frangente, da donna di destra, proprio non mi era piaciuto». 

Poi si rimette al sole. Ma all’alba la sveglia la telefonata di Ignazio La Russa: «Giorgia, ma come ti è venuto in mente? C’è Berlusconi fuori dalla grazia di Dio. Hai visto il titolo? “Questo Silvio non mi piace”. Lo sai che mi ha detto? Questa ragazza mi ha già rotto le palle». Nel suo libro Giorgia riconosce l’imprudenza, ma in realtà si appunta la lite al petto come una medaglia.

Poi c’è il capitolo primarie, chi se le ricorda? Si preparavano le elezioni del 2013 e Berlusconi, magari per gioco, aveva fatto credere a tutti che il leader del centrodestra sarebbe stato scelto con una consultazione popolare. Ci cascarono in tanti: almeno undici, se non di più, erano pronti a candidarsi. L’ultima a non voler credere che fosse tutto uno scherzo fu Giorgia Meloni, testarda fino all’ultimo, tra qualche inquietudine e tanti sberleffi. Racconta allora che salì le scale di Palazzo Grazioli, per dire a Silvio che si metteva in proprio. Lui le rispose, pragmatico: «Va bene, ho capito. Dimmi: che cosa vuoi?». Sono fatti così, nati per non capirsi. 

Lei andò a fondare Fratelli d’Italia, lui la guardò allontanarsi, con la pena di chi vede una che va a buttarsi dal ponte dell’Ariccia. Ma anche sulle cose piccole il rapporto è sempre urticante. Ha raccontato La Russa a Tommaso Labate: «Ce ne andiamo a pranzo a Villa Certosa, con Giorgia. Lui ci fa vedere le sue farfalle, vive e imbalsamate. E lei, rivolta a Silvio: tu sì che potevi invitare una ragazza a casa e mostrarle per davvero la collezione di farfalle...».

Quando Salvini scavalca Forza Italia alle elezioni del 2018 si prende il diritto di parlare lui dalla tribunetta del Quirinale. Berlusconi lo tratta da ragazzo di bottega e mentre parla mima con le dita: uno, due, tre... come a controllare che abbia ripetuto bene la lezione. Matteo ne esce irritato, ma è Giorgia che, a favore di labiale, si rivolge a Silvio furiosa. Lui, a sua volta, non è mai tenero con lei. Liquidatorio: «Meloni? È leader a casa sua». Glaciale: «Non sostiene Draghi? Ne prendo atto con rispetto e con rammarico». Augurante: «Si isola e farà la fine della Le Pen».

L’ultima puntata si chiude con Berlusconi che sbatte la penna e digrigna i denti, e con Meloni glaciale, tanto da far rimpiangere di non essere su Netflix, che le serie le dà tutte di fila, e non devi aspettare per sapere come va a finire. Nel frattempo vale, metaforicamente (e pacificamente) parafrasando, il comandamento di Lee Van Cleef, il cattivissimo dei film western: «Se spari a un alleato uccidilo, o prima o poi lui ucciderà te».

 Berlusconi e Meloni: la storia del non si sono mai amati. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 16 ottobre 2022

La leader di Fratelli d’Italia non ha mai davvero cercato di costruire un feeling politico con l’ex presidente del Consiglio. Portando a compimento l’obiettivo di Gianfranco Fini: la rottamazione di Berlusconi.

Un dato accertato è che FdI è nato, nel 2012, con una scissione nel Pdl in dissenso con la decisione berlusconiana di annullare le primarie del centrodestra.

Il punto di non ritorno è stato sicuramente raggiunto all’inizio di quest’anno, nei giorni in cui Berlusconi ambiva all’elezione al Quirinale. Ma la leader di FdI non sostenne pienamente la sua candidatura.

Il foglio scritto a mano di Silvio Berlusconi a palazzo Madama e la replica all’insegna del «non sono ricattabile» di Giorgia Meloni sono solo l’ultimo atto di un feeling politico mai sbocciato. E che la leader di Fratelli d’Italia non ha mai davvero cercato di costruire, portando nei fatti a compimento quello che era l’obiettivo di Gianfranco Fini: la rottamazione del Cavaliere.

Le cronache di questi giorni consegnano un ribaltamento della scena: adesso è Berlusconi a pronunciare, metaforicamente, il «che fai mi cacci?», di finiana memoria, dal governo. L’operazione di Meloni prevede dei passaggi ben precisi: mettere ai margini Forza Italia nella squadra dei ministri, che saranno scelti in base al proprio gradimento.

RIPICCHE E INSULTI

Ma al netto di quel che sarà nelle prossime settimane, è la storia a raccontare di una relazione sempre sul filo del rasoio. Con un peccato originale: la mancata fascinazione da parte di Meloni verso il padre nobile del centrodestra, come ama definirsi l’ex presidente del Consiglio.

Le ragioni sono molteplici. Ci sono aspetti personali, per esempio il carattere molto diverso, e generazionali, con una evidente differenza anagrafica, 45 anni lei e 86 anni lui. E infine c’è un dato politico: la numero uno di FdI è consapevole di aver conquistato la guida della coalizione senza aver dovuto chiedere il permesso all’anziano leader forzista. Verso di lui non ha dunque alcuna sudditanza psicologica. Berlusconi non ha mai tollerato questo approccio, considerandolo un affronto.

Anche per questo ha mostrato, spesso in maniera plateale, la propria preferenza nei confronti di Matteo Salvini. Un caso significativo risale a marzo, nel corso della cerimonia che ha suggellato, seppure non ufficialmente, il legame con la deputata Marta Fascina.

In quell’occasione, tra gli invitati, c’è un’assenza pesante: Giorgia Meloni. E Berlusconi non perse l’occasione per definire Salvini «il leader più sincero». Un modo per tracciare il parallelo a distanza con Giorgia Meloni, che era già stata etichettata come «ingrata e irriconoscente». Aggettivi che rappresentavano il preludio, per certi versi soft, al «supponente e arrogante», affibbiato nell’ormai celebre foglietto compilato sui banchi del Senato.

Nella galleria delle ripicche c'è l'affermazione del presidente degli azzurri, che recitava: «Giorgia farà la fine della Le Pen», in riferimento alla capacità di aumentare i consensi senza poi poterli tradurre in possibilità di governare.

Addirittura nei primissimi giorni di campagna elettorale Berlusconi sosteneva una tesi polemica: «Meloni spaventa gli elettori», resistendo all’ipotesi di cederle la guida del centrodestra. Da parte sua, la premier in pectore ha assunto una linea chiara verso Berlusconi: «Non gli devo niente»; lasciando così intendere che il ruolo da ministra delle Gioventù, nel governo formato nel 2008, non fu una gentile concessione, bensì il frutto di un accordo politico.

SPACCATURA QUIRINALE

Il punto di non ritorno è stato sicuramente raggiunto all’inizio di quest’anno, nei giorni in cui Berlusconi ambiva all’elezione al Quirinale. Aveva chiesto una prova di compattezza all’intera coalizione per presentarsi come un profilo credibile, appoggiato titubanze dal centrodestra.

Puntava a realizzare il sogno di una vita: la scalata al Colle. Per questo convocò gli alleati a Villa Grande, proponendo le fotografie con sorrisi a favore di telecamere. Il tentativo era palese: ostentare una granitica compattezza. Il progetto è naufragato in malo modo. In quelle ore il leader di Forza Italia percepì lo scetticismo della presidente di FdI, che del resto non aveva perso tempo a dichiarare: «Se Berlusconi rinuncia, abbiamo altri nomi», scalfendo il muro creato sul nome del leader forzista.

Non che in passato ci sia stato un idillio. Anzi, sempre al Quirinale, proprio all’interno del palazzo, nel 2018 si è verificato un altro momento di tensione acuta.

Erano i giorni delle consultazioni dopo le elezioni politiche. Matteo Salvini, come previsto, parlò con i giornalisti a nome della coalizione, al termine dell’incontro con il presidente Sergio Mattarella. Al suo fianco c’era Berlusconi che fece lo show con l'enumerazione dei punti del discorso del leghista. E chiuse la conferenza stampa con un altro fuori programma: spostò Meloni, prendendosi il microfono e rivolgendosi ai cronisti con l’invito a «fare i bravi». Un gesto con cui si prese definitivamente la scena del momento.

Pochi minuti dopo, un video svelò come, parzialmente coperti da una tenda, Meloni e Berlusconi stessero animatamente discutendo mentre Salvini assumeva un’espressione perplessa e infastidita. Nulla di nuovo, peraltro.

Le cronache del 2016 riportano alla memoria il modo con cui Berlusconi chiuse all’ipotesi di puntare su Meloni per la corsa a sindaco di Roma, adducendo come motivazione la sua imminente maternità. «È una cosa chiara a tutti che una mamma non può dedicarsi a un lavoro che, in questo caso, sarebbe terribile perché Roma è in una situazione disastrosa», disse l’ex premier che sponsorizzava con forza la candidatura di Guido Bertolaso.

TUTTO NASCE CON UNA SCISSIONE

Ma non è certo un caso isolato. Un fatto politico ne è diretta testimonianza: Fratelli d’Italia è nato da una scissione nel Popolo delle libertà, causata dalla fuoriuscita di Meloni e di altri esponenti come Guido Crosetto, nome caldo del totoministri, e il neo presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Fu un’iniziativa di dissenso verso Berlusconi, che nonostante le dimissioni da presidente del Consiglio volle ripresentarsi come leader del centrodestra alle elezioni del 2013, annullando le primarie che erano già state convocate. La spaccatura è in parte finita nel dimenticatoio, ma fin da allora il rapporto si è deteriorato.

Certo, c’è qualche traccia nella storia di Meloni che ha usato parole a favore di Berlusconi. Per esempio all’epoca dell’inchiesta sul caso Ruby. In quell’occasione, l’allora ministra per le Politiche della gioventù soccorse il premier: «Si sta delineando un'operazione giudiziaria che non sembra interessata a perseguire dei reati, ma solo a sfregiare l'immagine del premier eletto dai cittadini italiani».

E agli atti resta qualche dichiarazione di stima berlusconiana nei confronti di Meloni, come nell'intervista del 2017 al settimanale Tempi: «Di Giorgia ho sempre apprezzato determinazione, la competenza, il coraggio intellettuale, la capacità di analisi». Una delle eccezioni, di complimenti generosi, che confermano la regola di tensioni costanti. All’insegna del non c’eravamo mai amati. STEFANO IANNACCONE

Salvatore Merlo per “Il Foglio” il 16 ottobre 2022.

Ci sono sempre una “fidanzata” e una “assistente” particolare, volgarmente detta badante. Le due sono figure stereotipiche, come nella commedia dell’arte. E infatti a prescindere da chi siano e come si chiamino, assistente e fidanzata sono sempre amiche (è però l’assistente che ha portato la fidanzata ad Arcore). Entrambe esercitano molto potere e sono molto temute dunque anche assai odiate, si muovono di concerto come complici, sono autoritarie (specie la badante) e ovviamente secondo tutti i cortigiani del Castello e del partito entrambe portano il Sultano a sbagliare.

Già nel 2010, scherzando, Fedele Confalonieri chiamava il suo amico Silvio Berlusconi “il prigioniero di Arcore”. E già allora accadeva che una di queste signore, era Mariarosaria Rossi, l’assistente di dodici anni fa, in accordo con la fidanzata di allora, che era Francesca Pascale, non passasse al Cavaliere il telefono. Persino quando all’altro capo c’era il gran visir Gianni Letta. Oggi succede con Licia Ronzulli e Marta Fascina. 

Dura, durissima, la vita accanto a Berlusconi, uomo che vive al di sopra del rigo, mago e circense capace di tramutare la Fininvest in un partito, lo share in voti, l’acqua in vino, le zucche in parlamentari. Duro il vivere degli ondeggiamenti della volontà capricciosa di un Sultano bugiardo ma sincero, sempre impigliato nelle sue troppe contraffazione della realtà. E stata la badante di oggi, Licia Ronzulli, a farlo sbattere malamente contro Giorgia Meloni? A farlo perdere giovedì in Senato? Sì. Ma anche no.

Il Caimano zoppica, ma è ancora vivo. Tutto ciò che succede oggi, è già successo ieri. E certo Silvio Berlusconi è sempre più anziano, sempre più malfermo, sempre meno forte dal punto di vista elettorale, ma nessuna delle meccaniche di corte che in queste ore stanno alimentando il gossip di Palazzo e anche i retropensieri di Giorgia Meloni, sono una novità. Sembra quasi, anzi, di rivedere di nuovo lo stesso film di sempre. Oggi come ieri vuole la Giustizia e le Telecomunicazioni. 

E già circa dodici anni fa si diceva che il Cavaliere fosse nelle mani di un gruppo di Erinni e di un cerchio magico che lo orientavano. Il che era vero, perché lui voleva che fosse così. E infatti lo è stato, vero. Finché lui stesso, il Sultano diverso (e anche un po’ perverso), non si è poi scocciato e da un giorno all’altro ha deciso di cambiare sia la fidanzata sia la badante. Secondo una routine stabilita e immutabile che deriva dalla natura anomala, per non dire asiatica, della sua leadership così lontana dai codici delle istituzioni e della politica classica.

A cominciare dal fatto che la politica, Berlusconi la fa a casa sua da sempre, mica in Parlamento dove lo ha costretto ad andare Meloni giovedì mattina. Bonaiuti, Verdini, Cicchitto, Bondi, andavano tutti a casa del Cavaliere. E Niccolò Ghedini aveva addirittura una stanza tutta sua per restare pure a dormire: colazione alle dodici, il punto sulla giornata tra un boccone di carne e di verdura, la riunione della sera con un Crodino e le pizzette. Perché è così che al Sultano piace di più esercitare la sua funzione di capo. A casa. Con la badante e la fidanzata dunque. Da sempre. E’ lui che vuole così.

Ed è lui che alimenta tutte le leggende sulla sua vera o presunta prigionia. D’altra parte chi di noi non vorrebbe poter dare la colpa a un altro per le telefonate perse, per le chiamate rimaste senza risposta? Quando Mario Draghi ha chiamato Arcore, nei giorni disperati in cui il governo stava per cadere, non è riuscito a parlare con il Cavaliere. Questo lo sanno in molti. Ebbene il Sultano ha dato la colpa a Licia Ronzulli. Ed ecco la leggenda: “La Ronzulli non gliel’ha passato, voleva evitare che Berlusconi cambiasse idea. Voleva proprio far cadere Draghi”. 

Figurarsi se qualcuno può fare cambiare idea a Berlusconi, ben altri santi ci hanno provato. Ma la badante, assieme al cerchio magico, serve a questo. Uno scudo. Che dura finché il Sovrano, che non ama perdere, non si scoccia. D’altra parte a chi è andata la colpa del disastro di Forza Italia giovedì in Senato? A chi è stata imputata l’ostinazione di voler affrontare Giorgia Meloni in Aula? Alla Ronzulli, ovviamente. Come se la ex infermiera del Galeazzi di Milano fosse dotata di qualche autonomia o di intelligenza politica.

Come se l’ostinato, orgoglioso (e un po’ capriccioso) non fosse il Sultano di Arcore in persona, la cui forza e il cui carisma, benché senile o acciaccato, si riverberano nell’arroganza e nell’antipatia che Ronzulli suscita praticamente in tutti i suoi interlocutori politici e non. Compresa Giorgia Meloni. Anche quando volle rompere con Denis Verdini, con l’amato Verdini, il Cavaliere utilizzò la Rossi/Ronzulli, insomma la figura stereotipica della badante di Arcore. Gliela scagliò addosso. Perché lui non ama perdere e nemmeno licenziare. Lo fa fare agli altri.

Era il 23 luglio 2015, e le ultime parole di Denis, pronunciate nello studio di Palazzo Grazioli, poco prima che si rompesse il famoso patto del Nazareno e con questo anche il sodalizio tra lui e il Cavaliere, furono queste: “Presidente, io non posso prendere ordini da una ragazzina”. Certo, un tempo l’ostinazione di Berlusconi poteva essere aggirata perché esistevano mediatori come Gianni Letta e altri collaboratori con i quali gli avversari parlavano. Ora tutto il gruppo intorno al Cavaliere è più piccolo, scarno, quasi una ridotta.

Ma le meccaniche sono sempre quelle. “Guardi non esiste niente. Non ci sono Erinni, né badanti. E’ tutto Berlusconi. C’è solo Berlusconi. E se mi devo incazzare con qualcuno, io mi incazzo con lui”, diceva Daniela Santanchè dieci anni fa. E le badanti? “Recitano la parte che Berlusconi le assegna. Siamo tutti tasti di un pianoforte suonato da lui”. E non è certo al pianoforte che si possono attribuire le colpe del pianista.

Carlo Tecce per espresso.repubblica.it il 24 Ottobre 2022.  

Lo si può dire brutalmente, e finanche con sentimento liberatorio, che le poltrone (le cadreghe, le sistemazioni o le serissime responsabilità!) guidano la lettura dei fatti politici. E dunque si può dire brutalmente che il governo di Mario Draghi cadde anche perché in quel momento la coppia forzista Antonio Tajani e Licia Ronzulli era in piedi, non valorizzata, non cooptata, delusa, forse rancorosa.

Antonio, che ha l’agenda del partito: candidature, alleanze, strategie. Licia, che ha l’agenda di Berlusconi: filtro per incontri, telefonate, interviste. Ronzulli ha sfogliato per settimane il catalogo dei ministeri e però si è arresa (fino a che punto lo vedremo) dinanzi al veto di Giorgia Meloni. Oggi la senatrice si è seduta alla testa del gruppo di Forza Italia a palazzo Madama. Ha perso la guerra governativa, può rilanciare con la guerriglia parlamentare. 

Cos’è successo in questi giorni di conversioni è il tema che può aiutare a comprendere - e semmai a prevenire - quel che succederà. Con Berlusconi che prima annota a favore di fotocamera pesanti insulti per Meloni e poi va umile pellegrino alla sede di Fratelli d’Italia per omaggiare Giorgia. 

S’è scritto che è intervenuta la famiglia di Arcore con il primo maschio e la prima femmina del primo matrimonio e cioè Pier Silvio e Marina, s’è scritto che gli affari di famiglia sono ancora prevalsi, s’è scritto che il mediatore Gianni Letta ha esercitato di nuovo il suo potere di levigatore di angoli e fustigatore di asprezze. Quando si parla - nello specifico, si scrive - di Silvio Berlusconi non c’è mai una versione che conduce a una verità, ma ci sono più versioni che spesso non conducono a mezza verità.

Per motivi di ancestrale pudore, i cortigiani hanno sempre  taciuto sul decadimento politico (e fisico) del capo Silvio che girava col sole in tasca. Le molteplici figuracce in Senato (proseguono, come per i regali di Putin), inaugurate col vaffa a Ignazio La Russa, hanno allarmato la famiglia di Arcore e l’unico di cui la famiglia di Arcore si fida. 

A Letta hanno consegnato il duplice compito di «rifare l’immagine e fare il governo». Certo, Fininvest e Mediaset hanno sempre l’esigenza di avere rapporti eccellenti con Palazzo Chigi. Ovvio, non ci si deve abituare al conflitto di interessi (benché gran parte dei politici l’abbia dimenticato da tempo). Sì, esatto: c’è un però. 

Stavolta Marina e Pier Silvio con lo sherpa Letta hanno sbrogliato una complicata faccenda politica intrecciata a una delicata situazione privata. E le conseguenze di ciò non si fermano al patto con Giorgia in via della Scrofa, passano per il castigo dorato di Ronzulli e arrivano alla  gestione di Forza Italia e delle varie residenze dove regnano Ronzulli e la quasi moglie nonché deputata Marta Fascina. Ci si è domandato per vent’anni a chi Berlusconi avrebbe lasciato il suo patrimonio politico. Pare agli stessi a cui ha lasciato il suo patrimonio economico.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 17 ottobre 2022.

Il dubbio di Pulcinella: e se in tutto quello che è successo ci fosse anche lo zampino dell'onorevole Marta Fàscina, o Fascìna, la quasi moglie di Berlusconi?

Da una trentina di anni ormai l'osservazione e di conseguenza l'informazione politica hanno dovuto assumere i codici e lo sguardo con cui si cerca di decifrare le dinamiche di corte. 

È uno scrutinio al tempo stesso appassionante e ingrato perché, più che la razionalità dei progetti e delle alleanze, è la vita stessa che entra nuda e cruda nella contesa in termini di favoritismi, ambizioni, gelosie, tradimenti e ripicche ai quali, nel caso del Cavaliere, si sommano i circuiti famigliari, per giunta di primo e di secondo letto.

A farla breve, l'ipotesi è che l'altra settimana il vecchio e malconcio sovrano sia stato mandato a sbattere dalla coppia Ronzulli-Fascina, cuore del cuore di quel cerchio magico che in varie accezioni (giglio, raggio, tortello) comunque accompagna il processo di regressione tribale dei partiti in Italia. A differenza di Ronzulli, che dopo tutto voleva accomodarsi su una poltrona ministeriale di serie A, non è del tutto chiaro il movente che avrebbe spinto la muta e ieratica favorita a perseguire il fallimentare disegno di votare scheda bianca contro La Russa e quindi ai danni di Meloni. 

Si è letto che sulla faccenda sono intervenuti i figli, Marina e Piersilvio, più che scontenti della gestione politica e della figuraccia paterna: ed ecco che sull'orizzonte post-cortigiano della sconfitta s' intravede, con sintomatica puntualità, l'immagine di una Fascina espiatoria, con possibili intrugli e ripercussioni tali da rendere il momento ancora più aggrovigliato, sorprendente e teatrale - commedia e melodramma, tanto per cambiare.

Ora, non sono cose che si certificano dal notaio, ma pure a costo di allungare il tavolo del famigerato gossip assegnandogli respiro, funzione e perfino dignità, può tornare utile l'analogia, o se si vuole la serialità con cui vanno in scena le crisi nell'ambito del berlusconismo. Per cui tocca ricordare come nel giugno del 2016, allorché dopo la debacle alle amministrative il Cavaliere dovette subire una rischiosa operazione all'aorta, già all'ospedale Marina figlia, insieme ai vecchi amici e consiglieri tagliati fuori, puntò il dito sul precedente cerchio magico, cioè sull'accoppiata Francesca Pascale e Mariarosaria Rossi: «Stava morendo per colpa vostra!». 

Sono, come ovvio, questioni delicate e nulla impedisce di pensare che Silvione, cui aldilà di ogni convenienza le due si erano in fondo affezionate, fosse in qualche modo disposto a farsi "spremere come un limone" fino al cedimento fisico. Fatto sta che mentre giaceva al San Raffaele, fu fatta ritornare a villa San Martino la fedele segretaria Marinella, si affidarono i conti a un manager con un cognome degno di Flaiano, il dottor Cefariello, e soprattutto venne dato il benservito a Rossi.

Come molti ex di quel mondo (il maggiordomo Alfredo, il cuoco Michele, Walterino Lavitola e la stessa Ruby) la penultima "badante" si è poi lanciata nella ristorazione aprendo una pizzeria dalle parti di Caserta, "Codice Rossi". Ma fu proprio allora che per sostituirla accanto a Berlusconi, per scelta anche famigliare arrivò Licia Ronzulli che, oltre al vantaggio di essere un'infermiera, aveva dimostrato una certa abilità nella vendita del Milan. 

È dall'ufficio stampa della squadra rossonera che, forse non a caso, proviene Fascina, a quei tempi in versione assai meno compassata e capigliatura spensieratamente ricciolona. Nel 2018 le fu garantito un super collegio, venne quindi eletta e di lì a poco scalzò Pascale dal cuore del sovrano inaugurando in un nuovo cerchio magico.

A riprova di come tali entità della post-politica tendano a farsi soggetti autonomi, tanto la pariglia Rossi- Pascale favoriva l'ala moderata di Forza Italia, in primis Carfagna, quanto quella Ronzulli-Fascina virò verso un asse preferenziale con Salvini. E qui ci si ferma - magari in attesa di un terzo cerchio magico e cortigiano.

Goffredo Buccini per corriere.it il 16 ottobre 2022.

In fondo sono finestre sulla nostra anima, i pizzini: lasciate aperte talvolta per sbaglio, talaltra proprio perché ci si guardi dentro. E certo fa molta differenza politica stabilire se i cinque punti di censura vergati da Berlusconi contro Giorgia Meloni e lasciati lì, in quel foglio pasticciato sul banco del Senato in favore di zoom fotografico, siano sfuggiti al suo ego ammaccato o siano, com’è più plausibile, un deliberato preavviso di divorzio esibito urbi et orbi.

Ma, di sicuro, sono già una crepa nell’epica forzista: perché datano senza pietà il nostro eroe che, tre legislature fa, nel 2008, all’apice del successo politico e di una ritrovata effervescenza emotiva, era estensore di ben altri messaggi alle colleghe in piena seduta parlamentare: «Care Nunzia e Gabry, state molto bene insieme! Grazie per restare qui ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione vi autorizzo ad andarvene… molti baci a tutte e due!!!», scriveva, sottolineando la parola «autorizzo» e firmandosi «il vostro presidente».

Chissà se un po’ di quella strategia da attempato sciupafemmine avrebbe alleviato o aggravato la crisi nel nuovo centrodestra di governo. La storia della nostra Repubblica — prima , seconda o terza che sia — è comunque costellata da pezzetti di carta, coriandoli di trattative e minacce, amori e rancori, che passano di mano in mano, suscitando curiosità, polemiche, talvolta sorrisi. 

Clemente Mastella ne ricorda una precisa liturgia che poteva costituire notizia in sé: «Tu davi il biglietto al commesso e tutti nell’emiciclo ne seguivano con lo sguardo il percorso per scoprire il destinatario e da lì il senso politico eventuale. Cossiga era un grande estensore di pizzini. Anche Andreotti lo era». 

Il Picconatore si dilettava a distribuire salaci commenti durante i fluviali interventi di Romano Prodi, strappando un sorriso perfino al prodianissimo Parisi (ma non a D’Alema, che alla lettura pare non facesse vibrare nemmeno un pelo del baffo). Persino per il Divo scudocrociato non tutto era politica politicante. Se ne ricordano sulfurei messaggi su Emma Bonino, «metà Giovanna D’Arco e metà Vispa Teresa» e irridenti bigliettini a Ingrao per gli scarsi voti raggranellati dal Pci nel suo paese natale, Lenola: 7 su 3000!

Mutuati dal codice di comunicazione mafioso («carissimo Zio», scrivevano i picciotti a Binnu Provenzano ricevendone ordini segreti sui pezzetti di carta, pizzini in siciliano, appunto), nell’elusivo gergo della politica questi sussurri d’inchiostro hanno subìto spesso un rovesciamento di senso. Si nasconde per mostrare, magari senza assumersene diretta responsabilità. «Nel caso di Berlusconi e Meloni non ci sono dubbi, il pizzino era in favore di telecamera», ridacchia Claudio Velardi, altro navigatore di lungo corso in questi mari: «Ma talvolta è frutto di ingenuità».

Caso di scuola, manco a dirlo, è Enrico Letta che, assai prima di scoprirsi occhi di tigre prese un notevole abbaglio esponendosi in un sostegno a Monti degno di un’accaldata cheerleader: «Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede di interagire per la questione dei vice) sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!».

Si era nel novembre del 2011 e il professore in loden, appena nominato premier tecnico con l’incarico (consueto) di salvare l’Italia, lesse il biglietto in favore di fotografi, forse per inesperienza, forse per malizia. E Letta, allora numero due del Pd, fu sommerso dagli aspiranti viceministri: «Aiuto! Mai più letterine in vita mia», giurò sui social.

Berlusconi aveva pochi giorni prima concluso la sua ultima travagliata permanenza a Palazzo Chigi con un altro pizzino famoso, sugli «8 traditori» sfilatisi dalla maggioranza all’atto di votare per il Rendiconto generale dello Stato. Poiché alle nostre latitudini riusciamo spesso a rendere gravi le cose non serie e grottesche quelle serie, le incursioni fotografiche produssero una sorta di fatwa parlamentare contro i colleghi muniti di zoom o telecamera, con tanto di immancabile codice di autoregolamentazione. «Che davvero si tratti di pizzini è ora provato da questa voglia dilagante di proteggerli per regolamento», annotò Francesco Merlo su Repubblica.

E tuttavia tali reiterati tentativi di bavaglio liberticida non hanno mai funzionato davvero, come provano gli ultimi nostri giorni avvelenati. Anzi, questo nascondere per scoprire non fa altro che alzare la curiosità e la pressione politica sugli scritti galeotti o clandestini dei nostri rappresentanti, come nella danza dei sette veli, che per gli anglosassoni ha assunto anche il senso di metafora della rivelazione graduale, di spogliarello dell’informazione.

«Una volta, finite le riunioni, i cronisti si mettevano a frugare nei cestini. Le notizie erano lì, nei pizzini incautamente gettati via», ricorda Velardi. E sugli alberi c’erano ancora le sorbe… Ma quando Renzi, da premier, provò a circuire un Di Maio ancora in modalità vaffa («Scusa l’ingenuità, caro Luigi,ma è impossibile confrontarsi? Giusto per capire, voi fate sempre così?»), quello mise tutto su Facebook, chiosando: «Basta con questi biglietti berlusconiani, ci vediamo alla prova dei voti, davanti al Paese intero». Otto anni dopo, «Giggino» è fuori dal Parlamento e i pizzini del Cavaliere ancora ci fanno battere il cuore.

Il grazie alla senatrice Liliana Segre. Cosa ha detto Ignazio La Russa nel discorso di insediamento: le parole del neo presidente del Senato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Ottobre 2022

Sono da poco trascorse le 13:30 quando il Senato applaude l’elezione del suo nuovo presidente, Ignazio La Russa. Sullo scranno più alto, a coordinare le operazioni, la senatrice più anziana, Liliana Segre. Si fa avanti, il colonnello di Fratelli d’Italia, con un mazzo di rose bianche in mano. “Non ci crederete ma non avevo preparato alcun discorso”, fa spallucce. E difatti è poco credibile.

Inizia con un ringraziamento per tutti, anche per “chi mi ha votato pur non essendo di centrodestra”, chiaro riconoscimento del fatto che la sua elezione è dovuta al “soccorso” dell’opposizione nel segreto del voto. Poi inizia a svestire l’abito dell’uomo di partito e a vestire quello delle istituzioni: “Grazie alla presidente morale del Senato, la senatrice Segre. Non c’è una sola parola che non abbia meritato il mio applauso”. E una mano tesa “al mio amico Roberto Calderoli (suo competitor per Palazzo Madama, ndr) che considero seduto qui accanto a me”.

Nel suo intervento dopo l’elezione a presidente del Senato, La Russa ha citato in Aula anche Sandro Pertini: “Nella vita è necessario saper lottare non solo senza paura ma anche senza speranza”. “Una frase – ha detto La Russa – che mi ha sempre ispirato su come comportarmi, una frase di un presidente di estrazione non proprio come la mia”. Quindi il neo presidente fa sue le parole di Luciano Violante pronunciate 25 anni, quando fu proclamato dallo stesso La Russa presidente della Camera. “Esse sono, nella parte più condivisibile da tutti, quelle nelle quali, riferendosi alla necessità del superamento di qualunque odio, ebbe testualmente a dire che ‘questo clima coeso aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro Paese, a costruire la Liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fatto di vivere in questo Paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, conclude Violante, all’interno di questo sistema potranno esserci tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni”.

“Grazie, Violante, per questo lascito ancora attualissimo, forse ancora più attuale di quando ebbe a pronunciare queste parole”, ha detto La Russa nel suo discorso. Rievocando gli anni bui del terrorismo Ignazio La Russa ha reso omaggio alla memoria alle vittime di ogni parte politica oltre che dello Stato: dal militante di destra Sergio Ramelli a quelli di sinistra Fausto e Iaio (Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci), fino al commissario Luigi Calabresi. Quindi la proposta che richiama all’omaggio fatto nel suo discorso dalla senatrice a vita Liliana Segre, che aveva parlato di tre date da celebrare e vivere non come “divisive” ma con “autentico spirito repubblicano”, ovvero il il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica. A queste, ha spiegato La Russa, “vorrei aggiungere la data di nascita del Regno d’Italia (il 17 marzo, ndr ) che prima o poi dovrà assurgere a festa nazionale. Queste date tutte insieme vanno celebrate da tutti perché solo un’Italia coesa e unita è la migliore precondizione per affrontare ogni emergenza e criticità”.

Non è poi mancato – in un discorso che La Russa pretende di aver improvvisato – uno spazio per l’attualità, con il conflitto in corso a Kiev e in Ucraina. “Ai patrioti ucraini va il mio pensiero, così come ai profughi e ai rifugiati ucraini e che da ogni parte del mondo scappano da quella guerra e dalle guerre e devono essere accolti con onore”. Pensiero che poi si allarga a tutti i conflitti nel mondo, presenti e passati: “Nella mia lunga vita politica i momenti più toccanti e che ricordo con più tristezza e dedizione sono quando ho portato sulle mie spalle le bare dei soldati morti in Afghanistan e a loro e a tutti i caduti di ogni guerra va il mio deferente omaggio”.

Parole accolte da una standing ovation dell’Aula. Non si è fatto attendere il messaggio di congratulazioni di Giorgia Meloni: “Siamo orgogliosi che i senatori abbiano eletto un patriota, un servitore dello Stato, un uomo innamorato dell’Italia e che ha sempre anteposto l’interesse nazionale a qualunque cosa. Per Fratelli d’Italia Ignazio è punto di riferimento insostituibile, un amico, un fratello, un esempio per generazioni di militanti e dirigenti”, afferma la leader di Fdi. “Grazie a tutti coloro che, con senso di responsabilità e in un momento nel quale l’Italia chiede risposte immediate, hanno consentito di far eleggere già alla prima votazione la seconda carica dello Stato. Continueremo a procedere spediti”. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Le parole a Palazzo Madama tra citazioni e omaggi. Il discorso di La Russa da presidente del Senato, dalle citazioni di Pertini e Violante alla festa per il Regno d’Italia: “Grazie a chi mi ha votato”. Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2022 

Contento, forse anche per un risultato che stava diventando improbabile visto il non-voto del gruppo parlamentare di Forza Italia, con l’eccezione di Silvio Berlusconi ed Elisabetta Casellati. Sono da poco trascorse le 13:30 quando Ignazio La Russa viene eletto presidente del Senato con 116 voti (su una maggioranza di 104), con l’evidente soccorso delle opposizioni.

Poco dopo il ‘colonnello’ di Fratelli d’Italia sale sul più alto scranno di Palazzo Madama per assumere l’incarico, portando un mazzo di rose bianche per Liliana Segre, che fino a quel momento aveva condotto le operazioni in quanto senatrice più anziana presente in Aula.

I ringraziamenti

“Non ci crederete ma non avevo preparato discorsi”, sono le prime parole di La Russa da presidente del Senato. Quindi i ringraziamenti a tutti coloro che lo hanno votato, tutti quelli che “non” lo hanno fatto e anche “chi mi ha votato pur non essendo di centrodestra”, chiaro riconoscimento del fatto che la sua elezione è dovuta al ‘soccorso’ dell’opposizione nel segreto del voto. Parole al miele destinate anche a quella che La Russa definisce “la presidente morale del Senato, la senatrice Segre. Non c’è una sola parola che non abbia meritato il mio applauso“.

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Ma nel “suo” giorno La Russa ha voluto anche rendere omaggio “al mio amico Roberto Calderoli”, l’esponente della Lega che è stato il suo principale competitor nella sfida per la presidente del Senato, “che considero seduto qui accanto a me”.

Le citazioni di Pertini e Violante

Nel suo intervento dopo l’elezione a presidente del Senato, la Russa ha citato in Aula anche frase di Sandro Pertini: “Nella vita è necessario saper lottare non solo senza paura ma anche senza speranza”. “Una frase – ha detto La Russa – che mi ha sempre ispirato su come comportarmi, una frase di un presidente di estrazione non proprio come la mia”.

Quindi il neo presidente fa sue le parole di Luciano Violante pronunciate 25 anni, quando fu proclamato dallo stesso La Russa presidente della Camera, in cui parlo anche dei “ragazzi di Salò”, parte che La Russa accuratamente evita di riproporre in Aula. “Esse sono, nella parte più condivisibile da tutti, quelle nelle quali, riferendosi alla necessità del superamento di qualunque odio, ebbe testualmente a dire che ‘questo clima coeso aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro Paese, a costruire la Liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fatto di vivere in questo Paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, conclude Violante, all’interno di questo sistema potranno esserci tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni“. “Grazie, Violante, per questo lascito ancora attualissimo, forse ancora più attuale di quando ebbe a pronunciare queste parole“, ha detto La Russa nel suo discorso.

L’omaggio alle vittime del terrorismo

Rievocandogli anni bui del terrorismo Ignazio La Russa ha reso omaggio alla memoria alle vittime di ogni parte politica oltre che dello Stato: dal militante di destra Sergio Ramelli a quelli di sinistra Fausto e Iaio (Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci), fino al commissario Luigi Calabresi, che il neo presidente del Senato chiama erroneamente “ispettore”.

Celebrare il Regno d’Italia

Quindi la proposta che richiama all’omaggio fatto nel suo discorso dalla senatrice a vita Liliana Segre, che aveva parlato di tre date da celebrare e vivere non come “divisive” ma con “autentico spirito repubblicano”, ovvero il il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica. A queste, ha spiegato La Russa, “vorrei aggiungere la data di nascita del Regno d’Italia che prima o poi dovrà assurgere a festa nazionale. Queste date tutte insieme vanno celebrate da tutti perché solo un’Italia coesa e unita è la migliore precondizione per affrontare ogni emergenza e criticità”.

Le guerre e i caduti

Quindi non è mancato uno spazio per l’attualità, con il conflitto in corso a Kiev e in Ucraina. “Ai patrioti ucraini va il mio pensiero, così come ai profughi e ai rifugiati ucraini e che da ogni parte del mondo scappano da quella guerra e dalle guerre e devono essere accolti con onore”. Pensiero che poi si allarga a tutti i conflitti nel mondo, presenti e passati: “Nella mia lunga vita politica i momenti più toccanti e che ricordo con più tristezza e dedizione sono quando ho portato sulle mie spalle le bare dei soldati morti in Afghanistan e a loro e a tutti i caduti di ogni guerra va il mio deferente omaggio”. Parole accolte da una standing ovation dell’Aula.

Presidente di tutti

Quindi la promessa di svestire i panni del politico di parte, sottolineando come il suo è “un compito di servizio, non devo cercare oggi agli applausi, non devo dire parole roboanti o captare la vostra benevolenza”. “Lo dovrò fare ogni giorno, le scelte che dovrò fare a volte piaceranno a volte non piaceranno. Non c’è bisogno di parole che suscitano un applauso, ma solo di una sincera promessa: cercherò con tutte le mie forze di essere il presidente di tutti“, ha concluso il suo discorso da presidente del Senato La Russa, terminato da un lungo applauso.

Redazione

Chi erano Fausto Tinelli e Iaio Iannucci, le due vittime dei neri. Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

L’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, due diciottenni militanti di sinistra frequentatori del centro sociale “Leoncavallo”, venne commesso a Milano il 18 marzo 1978. Lasciato il centro sociale circa alle 19 e 45, i due ragazzi si trovavano in via Mancinelli alle 19 e 55 quando furono affrontati da tre persone una delle quali, come riferirono testimonianze postume, indossava un impermeabile chiaro.

I tre ignoti aprirono il fuoco su Iannucci e Tinelli uccidendo il primo e lasciando gravemente ferito sul selciato il secondo che morì poco dopo in ospedale. Uno degli attentatori, nella fuga in motocicletta, lasciò cadere un’arma poi recuperata dalla polizia. Inizialmente si pensò a un revolver per via del fatto che non si trovarono bossoli sulla scena, ma solo un proiettile, conficcato in un muro, di calibro 7,65; l’arma del delitto fu successivamente identificata in una Beretta. Benché mai formalmente provata la matrice politica dell’atto, è opinione comune che esso sia attribuibile a elementi dell’estrema destra; il caso, che vide indagato Massimo Carminati, poi archiviato, fu chiuso senza un colpevole nel 2000.

Matteo Cassol per mowmag.com il 31 ottobre 2022.

Bionda, slanciata, con completi vistosi: impossibile non notare l'assistente del presidente del Senato Ignazio La Russa. Si chiama Camilla Bianca Mattioli, arriva da Finale Emilia e si è laureata con una tesi su... Silvio Berlusconi.  

Accanto al nuovo presidente del Senato Ignazio La Russa è spesso presente da un po’ di tempo una ragazza bionda e slanciata che non può passare certo inosservata. Chi è? È la sua giovane assistente Camilla Bianca Mattioli, 29 anni, che affianca l’esponente di Fratelli d’Italia, attualmente seconda carica dello Stato, da qualche anno nelle sue mansioni parlamentari.

Camilla Bianca Mattioli, originaria di Finale Emilia, è entrata nello staff del senatore La Russa, seguendone gli impegni politico-istituzionali, dopo un percorso universitario tra la Lumsa (Libera università Maria SS. Assunta) e la Luiss Guido Carli di Roma. 

La politica di centrodestra aveva già segnato anche il percorso di studi di Camilla Bianca Mattioli: la sua tesi di laurea magistrale in relazioni internazionali, nell’anno accademico 2016/2017 con relatore Massimiliano Panarari, si intitolava infatti “Come Berlusconi ha cambiato le campagne elettorali in Italia”. 

La tesi di Camilla Bianca Mattioli parte dalla crisi di sistema, per passare poi a Tangentopoli e la crisi dei partiti della prima Repubblica, a Silvio Berlusconi imprenditore economico e politico e a Berlusconi tra politica e impresa, con l’organizzazione di Forza Italia.  

Quindi l’analisi del berlusconismo come fenomeno socioculturale e politico, della tv come strumento di egemonia subculturale, della strategia comunicativa, delle declinazioni e degli strumenti della comunicazione berlusconiana in campagna elettorale, per finire poi con la campagna elettorale del 1994 e con il come e il perché della campagna elettorale vincente. In tutto 180 pagine.

Le cronache locali parlano di lei come persona stimata, al pari della sua famiglia, papà Gary e mamma Simonetta. Sulle cronache nazionali è passata per esempio per qualche secondo sulla Rai, sul Tg1, dove l’attenzione degli spettatori è stata senz’altro attratta dal suo look con completo rosa shocking. 

Il profilo Instagram di Camilla Bianca Mattioli, camiweiss, è privato: al momento in cui scriviamo ha 1.369 follower e ha pubblicato 966 post. 

Sul suo Facebook, dove ha un migliaio di amici, non pare essere particolarmente attiva, almeno nella visualizzazione aperta a tutti, e le foto pubblicate risalgono a qualche anno fa.

Dagospia il 30 ottobre 2022. IL VERO PROBLEMA DELL’OPINIONE PUBBLICA ITALIANA È CHE NESSUNO LEGGE GLI ARTICOLI, MA SOLTANTO I TITOLI  – UN ESEMPIO CALZANTE? LA POLEMICA SU LA RUSSA CHE DICE “NON FESTEGGIO IL 25 APRILE”. “LA STAMPA” CI HA FATTO UN TITOLONE SPARATO IN PRIMA PAGINA, MA LUI NELL’INTERVISTA RILASCIATA A PAOLO COLONNELLO NON HA MAI PRONUNCIATO QUELLE PAROLE. IL VIRGOLETTATO ESATTO È “NON SFILERÒ NEI CORTEI PER COME SI SVOLGONO OGGI” - IL PRESIDENTE DEL SENATO: "TITOLO FUORVIANTE" - IL DIRETTORE, MASSIMO GIANNINI: "PRENDO ATTO DELLA RETROMARCIA, MA IL NOSTRO TITOLO NON HA FUORVIATO UN BEL NIENTE..."

(ANSA il 30 ottobre 2022) -  ''Prendo atto della retromarcia del Presidente La Russa, che da seconda carica dello Stato deve essersi reso conto dell'enormità delle sue parole'', dice il direttore de La Stampa Massimo Giannini in replica alla smentita del presidente del Senato al titolo dell'intervista del suo giornale.

''Il nostro titolo, infatti - continua Giannini -, non ha "fuorviato" un bel niente. Valuti chiunque se un titolo che dice "Non celebrerò questo 25 aprile" travisa il senso di una risposta che, a domanda del nostro Paolo Colonnello "celebrerà il 25 aprile?", recita testualmente "Dipende. Certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi". Dunque, se ne deduce che, ad "oggi", non lo celebrerà. Quanto al "domani", chissà, magari il Presidente La Russa ha in animo di festeggiarlo privatamente, nella sua casa in cui troneggia il busto del Duce, oppure di organizzare qualche suo corteo alternativo, cosa che a questo punto dell'avventurosa transizione italiana, purtroppo, non si può escludere''. 

(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Alla presidente Malpezzi che rispetto e di cui apprezzo l'onestà intellettuale e a chi in queste ore mi sta attaccando, chiedo cortesemente di leggere non il titolo volutamente fuorviante de La Stampa ma il testo della mia intervista correttamente riportata dal giornalista Colonnello in cui emerge chiaro il mio rispetto per la ricorrenza del 25 aprile tanto da averlo celebrato da ministro della Difesa. 

La mia contrarietà è semmai solo al modo in cui finora si svolgono molti cortei che lungi dal celebrarlo, ne fanno manifestazione appannaggio della sinistra". Lo afferma il presidente del Senato, Ignazio La Russa.

"A chi strumentalmente si ferma a leggere il titolo errato e ignora le mie parole - prosegue La Russa - dopo questa mia nota, sarò invece costretto a riservare - a differenza delle mie abitudini - una risposta nelle sedi più opportune a tutela del ruolo che ricopro. Da oggi ho dato mandato che questa sia la regola per chi traviserà parole e fatti che mi riguardano".

(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Ricordo al Presidente @Ignazio_LaRussa il significato del #25aprile: la libertà dal nazifascismo. Un giorno che è festa e che dovrebbe vederci uniti. Il Presidente del Senato è la seconda carica dello Stato. Non lo dimentichi". Lo scrive su Twitter la capogruppo del Pd al Senato, Simona Malpezzi commentando l'intervista del presidente di Palazzo Madama a La Stampa. 

(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Il Presidente del Senato farebbe bene a ricordare che il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché è la festa della democrazia e della libertà dal nazifascismo conquistata con il sacrificio di tantissime donne e uomini. E come tale va celebrata. La Russa eviti parole divisive. Il Paese ha bisogno di unità, soprattutto attorno ai suoi momenti fondativi". Così Debora Serracchiani, capogruppo Pd alla Camera.

"Presidente La Russa, non "dipende". Il #25Aprile lei lo deve celebrare perché senza quella data non siederebbe lì. Perché se avessero vinto i fascisti non avremmo le istituzioni che abbiamo, non avremmo la democrazia. E quel sacrificio va celebrato e onorato, senza se e senza ma". Lo scrive su Twitter la deputata e vicepresidente Pd, Anna Ascani in replica all'intervista rilasciata dal presidente del Senato a La Stampa. (ANSA).

Paolo Colonnello per “La Stampa” il 30 ottobre 2022.  

Presidente La Russa, cos' ha fatto per il centenario della marcia su Roma?

«Ho preso il treno da Roma a Milano, ho fatto tre incontri politici e la sera sono andato a vedere l'Inter». 

Niente commemorazioni?

«Ma cosa c'è da commemorare, scusi? Gli altri anni non se ne era mai accorto nessuno mi pare». 

È vero che questa era la casa di Benito Mussolini che lei si è ricomprato?

«Mussolini qua non ci ha mai messo piede in vita sua. Un'altra leggenda. La verità è che ero venuto per comprare un attico e mi hanno proposto questo appartamento al primo piano che era stata la sede della Le Petit e che lo aveva conservato come negli anni '30».

Uno vede Ignazio La Russa nella sua casa di Milano, tra boiserie, soffitti altissimi e divani sterminati, e subito diventa inevitabile parlare di fascismo: forse perché La Russa, con quel pizzetto mefistofelico, una certa dose di antica aggressività, i cimeli sparsi per casa, per anni è stato un po' l'icona del neofascismo italiano. Lui alza gli occhi al cielo: «Venga - dice con quell'accento reso celebre da Fiorello - le faccio vedere il famoso "busto" di Mussolini, eccolo: non è nemmeno un busto!».

In effetti è una statuetta poco ingombrante del Duce, con stivaloni e mani sui fianchi, appoggiata su una mensola di un corridoio in penombra.

«È un oggetto che apparteneva a mio padre, persona che adoravo, e che ho ereditato: avrei dovuto buttarlo? È sempre stato in questo corridoio insieme a un elmetto dell'esercito popolare cinese e un fregio comunista dell'Urss. Invece sembra che io abbia in casa il mausoleo di Mussolini. Ecco, mi dica lei...». 

Oggi La Russa è diventato presidente del Senato, la seconda carica dello Stato («Devo dire che, per la parte politica da cui provengo, non me lo sarei mai aspettato e non ci pensavo proprio...») ed è inevitabile chiedere conto di come intenderà esercitare il suo ruolo di super partes.

Allora Presidente, ci spiega come si concilia consegnare le rose bianche a Liliana Segre, riconoscere il valore del 25 aprile e poi tenere in casa la statuetta del Duce?

«La statuetta del Duce l'ha vista, non ha niente che vedere col discorso di Liliana Segre, che non mi ha sorpreso. La cosa che mi stupisce è che qualcuno si stupisca della mia assoluta vicinanza alla Segre e al dramma della Shoah». 

Forse per il suo passato?

«Guardi che da quando sono nato, in famiglia e nella mia parte politica, ho sempre sentito una condanna feroce delle leggi razziali e da sempre ho un rapporto strettissimo con la comunità ebraica milanese di amicizia personale, per esempio con Walker Meghnagi e già con suo padre Isacco, esponenti di spicco della comunità ebraica. E non solo con loro.

Potrebbe limitarsi ad essere un fatto personale, ma dal punto di vista politico la destra italiana è sempre stata per l'esistenza e l'indipendenza d'Israele, quando altri ne minacciavano l'integrità, ed è sempre stata senza titubanze pronta a condannare le leggi razziali, per non parlare del dramma della Shoah». 

Anche lei come il presidente Meloni non ha mai avuto simpatie per le dittature, fascismo compreso?

«Non mi sono posto il problema: la mia scelta per la libertà e la democrazie è sempre stata totale». 

Lei ha avuto il coraggio nel suo discorso di riconoscere come data fondante il 25 aprile. Parliamone.

«Non c'è stato bisogno di coraggio ma semplicemente di memoria. Con Pinuccio Tatarella e Gianfranco Fini, ho contribuito a scrivere le tesi di Fiuggi, ed era il 1995! Già allora riconoscemmo il valore della lotta per la Libertà. Con una importante annotazione che riguardava una parte di quella Resistenza, la parte comunista che non lottava per restituire all'Italia libertà e democrazia ma per un sistema certo non migliore di quanto era avvenuto col fascismo». 

Celebrerà il 25 aprile?

«Dipende. Certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi. Perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia ma qualcosa di completamente diverso, appannaggio di una certa sinistra. Non ho avuto difficoltà come Ministro della Difesa a portare una corona di fiori al monumento dei partigiani al cimitero Maggiore di Milano. e non era un atto dovuto».

Quanto è cambiato dal comizio del 1972 che compare nel film di Bellocchio?

«Sono cambiati i tempi, siamo cambiati tutti, le parole che dicevo allora però potrei ripeterle oggi: "Viva l'Italia e bisogna superare fascismo e antifascismo". Già allora il desiderio era di pacificazione». 

Veniamo alla sua maggioranza: che ne pensa del contante a diecimila euro? Davvero aiuterà l'economia e i più poveri?

«Intanto il tetto sarà a cinquemila euro e poi più che i poveri aiuterà l'economia tutta.

Non ha senso un provvedimento limitativo del contante come quello attuale che non ha uguale in tutta Europa, dove per altro l'indicazione è di un tetto a diecimila. Non aiuta i turisti, ad esempio. E poi in Austria e Germania non hanno limiti».

Ma nemmeno gli evasori che abbiamo noi e neanche le mafie.

«Non credo che le mafie facciano affari a 5.000 euro». 

Ma gli evasori fiscali sì.

«Io dico che l'evasione si combatte con la cultura della legalità e la fiscalità. Fosse così facile, dopo questi provvedimenti avremmo dovuto sconfiggere l'evasione ma non mi pare accada. Vuol dire che ci vuole un approccio diverso». 

Come quello per i medici No Vax? Non le sembra che togliere le penalizzazioni sia uno schiaffo a chi ha rispettato le regole?

«Non credo che qualcuno si senta schiaffeggiato. Chi come me si è vaccinato e ha vaccinato anche i propri figli, lo ha fatto a prescindere dal fatto che si trattasse di un obbligo. Oggi non è più necessario e allora continuare a tenere una sanzione per i medici No Vax credo sarebbe un danno più per le strutture sanitarie che per i medici stessi. Abbiamo sempre pensato che il convincimento valga più della coercizione»

Il Presidente Mattarella, però, su questo tema ha messo in guardia.

«Il Presidente ha fatto benissimo a sottolineare che si debba continuare a vigilare. Ma il problema non è che si debba o meno, ma come». 

Per molti lei è apparso più un capo del partito che la seconda Carica dello Stato, non crede dovrebbe fare un passo indietro?

«Contesto questa cosa e rivendico di poter mantenere la promessa solenne davanti al Senato di essere presidente di tutti, sforzandomi di garantire sia maggioranza che opposizione. Solo a me hanno cominciato a guardare dove metto i piedi! Ricordo che Bertinotti, Fini e Casini erano capi di partito e facevano i Presidenti della Camera.

Oppure ricordo il Presidente del Senato Forlani: altro che La Russa! Per quanto mi riguarda, si devono abituare: se nella forma sarò meno paludato, nella sostanza potete stare sicuri che saprò essere imparziale e possibilmente non del tutto escluso dalla vita politica».

Chi era Sergio Ramelli, vittima dei rossi citata da La Russa. Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

L’omicidio di Sergio Ramelli avvenne a Milano nel 1975 durante gli anni di piombo. Ramelli, studente milanese di 19 anni e militante del Fronte della Gioventù, il 13 marzo 1975 stava ritornando a casa, in via Amadeo a Milano; parcheggiato il suo motorino poco distante, in via Paladini, si incamminò verso casa.

All’altezza del civico 15 di via Paladini, fu assalito da un gruppo di extraparlamentari comunisti di Avanguardia operaia armati di chiavi inglesi, e con queste colpito più volte al capo; a seguito dei colpi perse i sensi e fu lasciato esangue al suolo. Gli aggressori, tra cui Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Antonio Belpiede, Brunella Colombelli, Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari. provocarono numerosi traumi alla vittima, che morì il 29 aprile, oltre un mese e mezzo dopo l’aggressione.

I responsabili furono identificati dieci anni dopo l’accaduto e, dopo un’iniziale condanna per omicidio preterintenzionale in primo grado, furono riconosciuti colpevoli di omicidio volontario al termine dei tre gradi di giudizio del processo, durato da 1987 al 1990.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Milano, La Russa e il caso Ramelli. Così il processo per la morte di Ramelli cambiò La Russa per sempre. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

Se c’è uno che è sempre stato capace di farsi uno e trino, e poi anche concavo e convesso, non secondo gli insegnamenti di Silvio Berlusconi, ma quelli del suo maestro Pinuccio Tatarella, “ministro dell’armonia” ma anche un vero doroteo secondo alcuni, questo è Ignazio La Russa, da due giorni Presidente del Senato. Un fascistone è dunque diventato il numero due dello Stato, quello che dovrebbe assumere le vesti del Presidente della repubblica, in caso di impedimento di quest’ultimo? Uno che non solo non è di sinistra, e questo pare già grave per chi deve rivestire quel ruolo, ma che addirittura vanta quella fiamma che gli arde nei sentimenti, oltre che nel simbolo dei suoi vari partiti, dal Movimento sociale, passando per Alleanza Nazionale e infine Fratelli d’Italia.

Negli anni Settanta, ricchi di ideali e di tragedie, a Milano, nel mondo della sinistra, soprattutto quella cosiddetta “extraparlamentare”, quando sentivi parlare dei “fratelli La Russa”, la mente ti correva subito a violenza e pestaggi dei fascisti. Un po’ il contraltare dei “fratelli Bellini” del quartiere Casoretto, frange estreme di Lotta Continua, che evocavano non certo momenti di pace sociale. Un po’ erano esagerazioni, ma anche un po’ no. Poi in realtà i fratelli La Russa erano tre e uno di loro, Vincenzo, era un democristiano placido, cui di recente una commissione conciliare milanese di sprovveduti ha negato la sepoltura al Famedio, il luogo in cui si rende onore a chi ha contribuito a far grande Milano, con l’argomento idiota del momento politico particolare. Cioè quello in cui un fratello del defunto stava per diventare Presidente del Senato. Ma gli altri due fratelli La Russa, Ignazio (e chi se ne frega del suo secondo nome) e Romano erano decisamente ragazzi di piazza. Ma anche, come si direbbe a sinistra, “di lotta di governo”. Dentro e fuori le istituzioni.

A Milano la figura di Ignazio La Russa è legata soprattutto alla storia di Sergio Ramelli, della sua morte tragica, del processo che ne è seguito, delle lacerazioni che quegli eventi hanno portato nella sinistra molto più che nella destra. Le due parti contrapposte per lunghi decenni, e in parte ancora, sono rimaste ibernate nei propri giacigli, le une vincolate dalla coazione a ripetere, a ogni anniversario, quel “presente” con o senza braccio alzato, gli altri a leccarsi le ferite per una presunta ingiustizia subita per quella morte non voluta nelle intenzioni. Anche se, pure il più scapestrato superficiale dovrebbe essere in grado di sospettare che una chiave inglese di 36 centimetri scagliata ripetutamente sul cranio di un essere umano può portare alla tragedia.

Ignazio La Russa a Milano è la vicenda Ramelli. Non solo perché ogni anno onora l’anniversario, ormai anche con il sindaco e le istituzioni. Ma perché è cresciuto “con” e “in” quel processo. Lì c’è anche un pezzo di mia storia, di cronista giudiziaria del manifesto, che si ritrovava a scrivere, giorno dopo giorno, udienza dopo udienza, di ragazzi della sua età, di un gruppo politico contiguo, Avanguardia Operaia, che avevano compiuto il gesto più spregevole. Non l’uso delle armi, come sarà successivamente con il terrorismo, ma il corpo a corpo in condizione dispari. Uno, l’aggredito, da solo e a mani nude, gli altri vigliaccamente in gruppo, forniti di spranga. Nella nostra mentalità di allora, di militanti di sinistra, questi erano gesti da fascisti, non da compagni. Pure purtroppo capitava anche quello, soprattutto negli ambienti dell’Università Statale di Milano, dove imperava il Movimento studentesco di Capanna e Cafiero. Ho assistito una volta al dopo-massacro, che aveva lasciato sul pavimento di una toilette una profonda scia di sangue, di un tizio perché “entrava mentre gli altri uscivano”. Sicuramente una spia. Quelli come me, estranei a quei comportamenti, tacevano ammutoliti. Incapaci di altro.

Il processo Ramelli ci ha fatti crescere. Intanto perché i responsabili dell’aggressione erano stati arrestati dieci anni dopo i fatti, quando ormai il servizio d’ordine della facoltà di medicina non esisteva più e neanche la stessa Avanguardia Operaia. Gli arrestati erano ormai diventati medici, avevano messo su famiglia, molti erano lontani dalla politica. Il processo pareva ormai un assurdo, tanti anni dopo. L’avvocato La Russa fu fondamentale. Se qualcuno pensa oggi che le parole di conciliazione da lui dette due giorni fa in Senato, quando ha ricordato gli anni settanta a Milano, sintetizzandoli nel delitto Calabresi, oltre alla tragedia del diciottenne Ramelli e alla scomparsa di due simboli della sinistra, Fausto e Iaio (forse vittime di spacciatori più che di fascisti) siano state di comodo, non conosce la persona.

Al processo Ramelli l’avvocato La Russa, legale di parte civile della famiglia offesa, non ha mai chiesto vendetta, non ha rivendicato ergastoli né punizioni esemplari. Era sempre al fianco della signora cui avevano strappato un figlio che ancora andava a scuola, e non fu soddisfatto della prima sentenza che aveva qualificato il delitto (come forse era giusto) come omicidio preterintenzionale. Quando poi però l’appello, cui erano ricorsi tutti, accusa e difese, riportò la vicenda nel canale della premeditazione ma riducendo drasticamente le pene, il legale di parte civile non cercò il terzo grado di giudizio per avere più carcere. Quegli ex ragazzi ancora alla sbarra dopo tanti anni erano stati suoi avversari politici e avevano ammazzato in modo brutale un suo giovane camerata.

Ma lui disse: “Non ricorreremo in Cassazione, siamo soddisfatti perché abbiamo avuto giustizia. Proprio partendo da questa sentenza si potrà avviare una definitiva pacificazione degli animi, ripensando criticamente le violenze che hanno avvelenato il passato. Non era solo l’omicidio di Ramelli a essere giudicato ieri”. Era il 2 marzo 1989. Sette anni prima di un analogo evento da lui citato in Senato, quello del 10 maggio 1996, quando Luciano Violante fu eletto presidente della Camera. Il caso ha voluto che anche quel giorno io fossi presente, e ho applaudito convinta il discorso di un esponente di una maggioranza cui il mio partito, Forza Italia, si opponeva. L’ho applaudito proprio per quel discorso sui “vinti”, che mi era parso da subito non strumentale, come del resto la storia successiva dell’ex magistrato piemontese dimostrerà.

Violante non era stato un giovane “di piazza” come La Russa, ma aveva avuto un percorso di pubblico ministero “di lotta” da farsi perdonare, per lo meno agli occhi di noi garantisti. Nel mio passato, e in quello della mia famiglia (padre liberale, nonno socialista) non c’è traccia di appartenenza alla destra. Ma mi sono commossa quel giorno nel ricordo di quelle “migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze che, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà”. Sono quelli i momenti in cui riesci a sentirti vicini, proprio come due giorni fa al Senato, anche il “comunista” Violante e il “fascista” La Russa. Concavi e convessi, ma positivi. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da tpi.it il 14 ottobre 2022.

Un giovanissimo Ignazio La Russa – nominato ieri presidente del Senato –  compare nella scena iniziale del film di Marco Bellocchio “Sbatti il mostro in prima pagina”. Il regista riprese il comizio durante una manifestazione a Milano.

I partecipanti erano missini, monarchici ma anche liberali e democristiani, appartenenti alla cosiddetta ‘Maggioranza silenziosa’, un movimento politico anti-comunista. L’anno era il 1972, La Russa aveva 25 anni e dal 1971 era il responsabile del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. Di questo, dell’elezione a presidente del Senato e del futuro che si aspetta, ne abbiamo parlato con Marco Bellocchio, il regista. 

Cosa pensa di queste elezioni?

Sono rimasto un po’ indifferente a queste elezioni.

Se l’aspettava che 50 anni dopo (il film “Sbatti il mostro in prima pagina”, ndr.) quel giovane missino sarebbe arrivato alla seconda carica dello Stato?

Certo che no, non è che ci pensassi, né io ci ho pensato per 50 anni. È arrivato. Mi sembra innocuo, non mi sembra che possa instaurare il regime fascista. Semmai quell’altro, Fontana, è più giovane, più reazionario, lo vedo peggio. Però di solito le persone quando vanno al potere si ammorbidiscono, devono mediare.

Perché il “potere logora chi non ce l’ha”?

Penso che logori anche chi non ce l’ha. 

Come mai all’epoca scelse quelle immagini?

Stavo girando “Sbatti il mostro in prima pagina”, era un clima di grande agitazione, la politica era una cosa che coinvolgeva molto i giovani, c’erano ideali, il comunismo, il marxismo, la rivoluzione. 

Mentre giravamo il film – per la cui sceneggiatura avevo chiesto la collaborazione di Goffredo Fofi – riprendemmo alcune immagini perché potessero diventare di repertorio, c’erano le elezioni imminenti, e per puro caso filmammo il palco dell’MSI in cui c’era La Russa, ma io non sapevo neanche chi fosse. Poi, molti anni dopo, qualcuno lo ha riconosciuto. Ricordo in quei mesi filmammo anche i funerali di Feltrinelli, era un clima incandescente.

Per il ministero della Cultura avrebbe un nome da suggerire?

No, non ce l ‘ho. Non sono così catastrofico. E’ chiaro che il governo di destra cercherà di non inimicarsi tutto un popolo geneticamente e tiepidamente di sinistra che è pieno di idealisti ma che poi pensa anche agli affari suoi. E a cui interessa soltanto che tutta una serie di benefici restino elargiti al cinema. 

Benefici che sono tanti, c’è un grande boom, per cui c’è questa cosa paradossale della piena occupazione; arrivano anche dall’estero, tutti si improvvisano attori per godere di una serie di vantaggi, e quindi sperano che il nostro ministro della Cultura non dirotti verso altre attività tutti i vantaggi che ha il cinema, la televisione, lo spettacolo in generale.

La mezz’ora più buia. Il discorso di La Russa, l’interminabile fine delle ideologie e l’eterno ritorno degli anni 90. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 14 Ottobre 2022

Il neo-presidente del Senato spazia non agilmente dall’ambiente («che non è solo flora e fauna») alla violenza sui minori e sulle donne (che è «lo squallore della società»), ma soprattutto, citando Violante, esorta alla riconciliazione, come se negli ultimi trent’anni non fosse accaduto nulla

Ignazio La Russa comincia il suo primo discorso da presidente del Senato dicendo: «Non ci crederete, ma non l’ho preparato minimamente». E infatti non ci crede nessuno. Quindi inizia a ringraziare «tutti quelli che mi hanno votato, quelli che non mi hanno votato, quelli che si sono astenuti e, se me lo consentite, quelli che mi hanno votato pur non facendo parte della maggioranza di centrodestra» (verosimilmente il ringraziamento più sincero, e certo non l’unico che i destinatari attendono), per poi passare, con «pensiero deferente», al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al suo predecessore, Giorgio Napolitano, e di qui ai predecessori dello stesso La Russa, Maria Elisabetta Alberti Casellati («una cara amica, ma più che un’amica una persona di grande spessore umano e culturale») e Marcello Pera («che saluto e ringrazio, come tutti i presidenti che lo hanno preceduto»).

E poi ancora «coloro che con me hanno fatto i vicepresidenti della presidente Casellati: la senatrice Rossomando, la senatrice Taverna e, in particolare, lo capirete benissimo, il mio amico Roberto Calderoli» (il motivo è chiaramente il suo passo indietro nella corsa alla presidenza del Senato), e infine, un attimo prima che il discorso prenda definitivamente la piega del saluto alla quinta B e a tutti quelli che mi conoscono, un «deferente omaggio» al Papa, seguito da un pensiero per le forze armate, in particolare ai caduti, con «deferente omaggio» anche a loro.

La lunghezza e la solennità dei ringraziamenti preliminari si accorda perfettamente con i quasi trenta minuti di discorso – la mezz’ora più buia, almeno dal punto di vista retorico – che spazia non agilmente dall’ambiente («che non è solo flora e fauna») alla violenza sui minori e sulle donne (che è «lo squallore della società»), dalla guerra in Ucraina agli anni di piombo, con diverse incursioni autobiografiche, quasi intimiste, che ruotano però sempre attorno allo stesso tema: le divisioni del passato e la necessità di una riconciliazione nazionale.

Al riguardo, La Russa cita in conclusione il famoso discorso pronunciato da Luciano Violante dopo l’elezione a presidente della Camera, omettendone tuttavia, pudicamente, i passaggi più controversi (come quello in cui Violante invitava a «sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà»). Discorso che risale tuttavia al 1996, quasi trent’anni fa. Possibile che siamo ancora a quel punto? Ovviamente no.

Per convinzione o per consunzione, la questione della riconciliazione nazionale direi che possiamo darla per chiusa, almeno quella, che si tratti della guerra civile combattuta ottant’anni fa o anche dei suoi rigurgiti degli anni settanta (anacronistici già allora, e comunque risalenti pure quelli, ormai, a mezzo secolo fa).

La Russa è già stato ministro della Difesa nel 2008 e vicepresidente della Camera addirittura nel 1994. È un decano del parlamento e sarebbe ridicolo considerare la sua elezione al vertice di Palazzo Madama come un pericolo per la democrazia o anche solo il simbolo di chissà quale cambiamento intervenuto nella politica italiana, che questa è, piaccia o no, da almeno tre decenni.

Quel che preoccupa di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia sono le parole ambigue su Donald Trump e l’assalto al parlamento americano del 6 gennaio 2021, assai più che quelle su Benito Mussolini e la marcia su Roma del 1922. È l’ammirazione e l’amicizia per gli autocrati ungheresi e polacchi di oggi, che dopo essere stati eletti hanno tentato di imprimere, spesso con successo, una torsione autoritaria e illiberale alle loro democrazie. Ma questo è un problema che riguarda la stretta attualità, un ambito cui la politica italiana si conferma ancora una volta perfettamente impermeabile.

Il nome de La Russa. Ignazio Benito Maria e l’ossessione del conduttore tv con uso di bigiotteria. Guia Soncini su L'Inkiesta il 15 Ottobre 2022.

Sono sempre più stupita dall’incapacità degli adulti di criticare le persone per ciò che dicono e fanno e non per quel che hanno fatto o detto i loro parenti. Ci sono sufficienti ragioni per giudicare chiunque senza bisogno di scomodare le ideologie di un secolo fa

In uno degli incipit più famosi della storia della letteratura, Vladimir Nabokov fa soffermare il suo protagonista sulla pronuncia delle sillabe che compongono il nome della sua ossessione sessuale, Lolita: le prime due con la lingua che batte sul palato, e la terza sui denti.

È con la stessa voluttà, ma purtroppo con nessuna lingua che batta dove la B duole, che Corrado Formigli pronuncia Benito, le tre sillabe che compongono il terzo (forse) nome del presidente del Senato. Sette volte, in apertura di puntata. Fa un monologhetto che dovrebbe dirci quanto impresentabile sia La Russa, e in realtà ci dice: che in gioventù un Formigli nel ruolo di protoGabibbo andò a rompere i coglioni a La Russa che giustamente lo liquidò (temo che Formigli sia convinto che, da quel filmato, a non uscire bene sia La Russa); che il fratello di La Russa (di cui ignoriamo secondo e terzo nome) fa il saluto romano (spero che Formigli sia figlio unico); che i genitori di La Russa gli hanno dato come terzo nome Benito (sette volte, ce lo rimarca).

Di La Russa in sé, pochino, giusto le piccole cose di pessimo gusto fascista con cui arreda casa. Anzi, fra il sesto e il settimo «Ignazio Maria Benito» Formigli dice anche «magari sarà anche una buona carica dello Stato, non ho grandi motivi per dubitarne». Ah, quindi è come quelli che leggono i titoli degli articoli e poi commentano sui social «d’altra parte cosa vuoi aspettarti, da una che si chiama Guia». Colpevoli per battesimo, chi me lo doveva dire che avevo qualcosa in comune con La Russa.

Al decimo minuto, Formigli presenta (come «grande editorialista principe», qualunque cosa questo trittico di parole significhi) Ezio Mauro, e la domanda che gli fa, ovviamente su La Russa, gliela fa senza dire «Ignazio Maria Benito»: era affaticato dal dover ripetere secondo e terzo nome? Si è reso conto della ridicolaggine e, inibito dalla seriosità di Mauro, si è vergognato? Non lo saprò mai, perché a quel punto ho spento, stremata dai secondi e terzi nomi, dall’incapacità degli adulti di criticare le persone per ciò che dicono e fanno e non per quel che hanno fatto o detto i loro parenti, dagli anelli d’argento del conduttore.

Però ieri mattina ho aperto Repubblica, e le prime parole dell’articolo di Stefano Cappellini erano «Ignazio Benito Maria» (secondo e terzo nome si erano invertiti nella notte? Si era sbagliato Formigli? Si era sbagliato Cappellini? Non lo saprò mai – non verificano l’anagrafe i protoGabibbi, mica pretenderete le verifichi io che non ho mai dato una notizia in vita mia – ma punto un soldino su un errore di Formigli: l’altro giorno Ceccarelli aveva scritto di La Russa «di secondo nome fa pur sempre Benito», e tendo a fidarmi più di Ceccarelli che dei conduttori con uso di bigiotteria).

Cappellini, diversamente da Formigli, non ripete per tutto l’articolo i tre nomi, dopo quello che gli sarà sembrato un eloquente incipit si limita a chiamarlo «La Russa»: sarà perché è meno nabokoviano di Formigli, o perché una pagina di giornale contiene un numero limitato di caratteri tipografici e il povero editorialista cartaceo non può permettersi le voluttà di quello televisivo?

Scriveva ieri Francesco Cundari che sarebbe saggio concentrarsi su cosa l’imminente governo pensi di quel che è successo a Washington due anni fa, più che su cosa pensi di quel che è accaduto in Italia cent’anni fa (ignorare il presente e occuparsi di cent’anni fa è utilissimo per vendere libri, questo va riconosciuto: ogni volta che Formigli batteva la lingua sui denti dicendo «Benito» pensavo a quell’articolo d’un paio di settimane fa in cui Ernesto Galli della Loggia dava ai bestselleristi che scrivono di fascismo oggi degli orecchianti della storia, il che ha fatto sussultare i lettori, considerato che quei bestselleristi scrivono per il suo stesso giornale, e avrà fatto piangere i bestselleristi, che si saranno asciugati le lacrime con banconote da cinquecento euro).

È interessante anche notare come funzioni la memoria: ci interessa solo il passato ma ne ricordiamo parti scelte. Ci ricordiamo che «Benito» è un nome brutto e cattivo e che il fascismo ci fa schifo, e troviamo quindi scandaloso che una carica dello Stato vada a uno che è fascista (che lo è stato? «Fascista» è per sempre, come i grandi amori?); ma nel farlo dimentichiamo che Gianfranco Fini è stato presidente della Camera (e c’erano pure già i social, quando lo diventò: non avevano ancora imparato a creare scandali da tre quarti d’ora, o ce ne siamo dimenticati giacché appunto le indignazioni di questo secolo durano tre quarti d’ora?).

Nel frattempo, ieri i siti dei giornali pubblicavano gli appunti di Berlusconi sul comportamento di Giorgia Meloni. Silvio, come me, ha bisogno d’annotarsi perché non può soffrire le persone che non può soffrire, sennò mica se ne ricorda. Nella lista c’erano (non sapremo mai se in ordine d’importanza o di smemoratezza) «supponente, prepotente, arrogante, offensivo». Non c’era «fascista», essendo Silvio Berlusconi ormai l’ultimo baluardo del reale e del razionale, consapevole che ci sono sufficienti ragioni per criticare le persone al presente senza bisogno di scomodare le ideologie dei loro nonni.

Da repubblica.it il 15 ottobre 2022.

Uno striscione contro il neo presidente del Senato, Ignazio La Russa, è stato esposto a Roma - a quanto si apprende poco dopo le 21.30 di ieri - nei pressi del Colosseo, sul Ponte degli Annibaldi. Una pattuglia dei carabinieri del centro lo ha notato, rimosso e sequestrato. 

Sullo striscione, firmato da 'Cambiare Rotta', è scritto "Benvenuto presidente La Russa (il nome è a testa in giù rispetto alle altre parole, ndr). La resistenza continua". 

Sul profilo Fb di Cambiare Rotta Roma si legge: "Saremo ben lieti di mostrare a questo e a questo parlamento il significato di Antifascismo Militante. Ai nostri posti ci troverete, nelle strade, nelle piazze delle città".

Lo striscione è stato esposto in quelle stesse ore in cui sono comparse la stella a cinque punte e le scritte, sempre contro La Russa, sulla saracinesca della sede di FdI nel quartiere romano della Garbatella. 

In merito allo striscione, sul profilo Facebook di 'Cambiare Rotta Roma', nel post pubblicato ieri sera si legge: "Ci tenevamo a portare i nostri sentiti auguri di benvenuto al nuovo presidente del Senato, Ignazio La Russa ( anche in questo caso il nome è a testa in giù rispetto alle altre parole, ndr). A quanto pare, la sua figura è ben apprezzata anche dai partiti della fantomatica 'opposizione antifascista'. Saremo ben lieti di mostrare a questo e a questo parlamento il significato di Antifascismo Militante. Ai nostri posti ci troverete, nelle strade, nelle piazze delle città". 

La Russa sotto tiro di Br e antagonisti. Per Letta è colpa del centrodestra: logica incendiaria. Meloni: no all'odio. Dopo la scritta con la stella a cinque punte alla Garbatella, compare uno striscione con il nome dell’esponente Fdi a testa in giù. E l’opposizione si accanisce pure su Fontana: "Troglodita". Massimo Malpica il 16 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Uno da Ignazio diventa Benito, e si ritrova scritto «a testa in giù» in nome dell'antifascismo militante. L'altro finisce nel mirino degli avversari politici che più che criticarlo lo insultano, arrivando a dargli del «troglodita». E di fronte a minacce e stelle a cinque punte, pure la solidarietà fa fatica ad accendersi, e per qualcuno non si accende affatto.Perfetto inizio di legislatura, dopo una campagna elettorale tesa e dai pessimi toni. L'elezione dei presidenti di Senato e Camera, Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana, riaccende un clima avvelenato. Il cofondatore di Fdi finisce messo alla berlina per il suo secondo nome, Benito, ostentato come «prova» della nostalgia del ventennio, nonostante un discorso d'insediamento nel segno della pacificazione. Va anche peggio a Fontana, le cui posizioni soprattutto nei confronti dell'ideologia gender vengono rimarcate, marchiando la sua elezione come «divisiva», e sfociando nell'insulto. Ci ha pensato per esempio il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, a Capri per la convention dei giovani imprenditori di Confindustria. Prendendosela proprio con «Benito» La Russa, ma anche con più veemenza con Fontana: De Luce definisce Ferdinando di Borbone «un rivoluzionario» se «paragonato a lui», e poi bolla la terza carica dello Stato come «troglodita». Il tutto mentre Laura Boldrini, che ha occupato la stessa sedia di Fontana, ringhia contro l'elezione «di un putiniano, estremista, in sfregio alla Costituzione antifascista».Nel frattempo, però, a Roma spuntano minacce stile anni di piombo contro La Russa. Il primo è una scritta apparsa sulla serranda della sede Fdi a Garbatella, «La Russa Garbatella ti schifa», seguita dalla stella a cinque punte, simbolo reso tristemente famoso dalle Brigate rosse, e dalla firma «antifa». Poco dopo, a due passi dal Colosseo, ecco uno striscione ancora più inquietante, che riporta il nome della seconda carica dello Stato scritto «a testa in giù», in odore di Piazzale Loreto.«Benvenuto presidente La Russa (a testa in giù)». La firma, stavolta, è di Cambiare Rotta, «organizzazione giovanile comunista» che accanto al nome ha anch'essa una stella a cinque punte e sulla sua pagina Facebook ribadisce il concetto annunciando di voler mostrare «il significato di Antifascismo Militante». «Spero che il senso di responsabilità della politica prevalga sull'odio ideologico, perché l'Italia e gli italiani devono tornare a correre, insieme», sospira la presidente di Fdi, Giorgia Meloni, mentre Matteo Salvini, leader del Carroccio, denuncia«un clima di odio che va avanti da mesi e che continua a produrre attacchi fisici, minacce e insulti, in un momento in cui servirebbero unità e serenità». Nonostante Roberto Della Rocca, presidente dell'associazione vittime del terrorismo, gambizzato dalle Br nel 1980 inviti a non sottovalutare l'allarme, La Russa, si dice «non turbato» e ringrazia per la solidarietà. Che arriva, ma col contagocce e non da tutti. La più decisa è la presidente dei senatori di Azione/Iv Raffaella Paita, che condanna il «gravissimo atto di intimidazione» e dice «basta con l'infame clima di odio e con la politica urlata». Dai Dem arriva la solidarietà a La Russa dal coordinatore della segreteria Marco Meloni, dalla senatrice Simona Malpezzi e dalla capogruppo a Montecitorio Deborah Serracchiani, che si scaglia «contro l'uso delle minacce e della violenza politica chiunque ne sia vittima». Spicca il silenzio dai pentastellati. Anche nel Pd qualcuno non si allinea. Andrea Orlando ironizza: «La Meloni ha detto che sono impegnati ad unire il Paese e non a dividerlo. E hanno eletto La Russa e Fontana. E se volevano dividerlo che facevano?». Enrico Letta, da Berlino, accusa il centrodestra di «logica incendiaria» e avverte, quasi minaccioso: «Chi ha vinto, invece di riappacificare il Paese, lo sta dividendo. Ma chi semina vento non può che raccogliere tempesta».Parole pesanti, che spingono la leader di Fdi a chiedere «scuse immediate», definendo«gravissime» le affermazioni di Letta, che tra l'altro per Meloni rappresentano «un danno per l'Italia, le sue più alte istituzioni e la sua credibilità internazionale». Le scuse non arrivano. Ma, via Twitter, Letta almeno si accorge delle minacce, esprimendo la solidarietà«mia e di tutto il Pd» per quelle «scritte inaccettabili». 

"Un errore la campagna sull’antifascismo. Gli anni ’70 insegnano". Lo storico di sinistra stigmatizza le minacce "C’è ignoranza, quei presidenti sono legittimi". Felice Manti il 16 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Stelle a cinque punte, minacce, scritte sotto sopra. «Non credo sia il preludio al ritorno agli anni Settanta ma non sottovalutiamo questi imbecilli perché le derive si inseriscono sempre nelle smagliature della coscienza pubblica». Gianni Oliva è uno storico di sinistra, si definisce «votante, non più militante»: «Ho trovato assurdo fare campagna elettorale sull'antifascismo, così come trovo assurdo gridare al lupo, al lupo. Non mi piace quel che ha detto Lorenzo Fontana né i trascorsi di Ignazio La Russa ma nessuno ha messo in discussione la legittimità con cui sono stati eletti presidenti di Senato e Camera. Il 28 ottobre ricorreranno i 100 anni dalla Marcia su Roma. Quella data dovrebbe essere l'occasione per un ragionamento su cosa è stato il fascismo». 

Ce lo dica lei... 

«Un atto rivoluzionario? Una spallata al regime liberale? No. Togliamo il fascismo dalla rappresentazione che ne è stata fatta finora. Non per rivalutarlo o fare una revisione in senso positivo. Il fascismo nasce con un governo di coalizione ma dietro ha il mondo liberale e moderato. Quando Mussolini giura alle Camere nel suo governo di coalizione ci sono tre ministri fascisti, due popolari, due democratico-sociali e un giolittiano. Prende 359 voti, con soli 116 no. Nessuno ha avuto una maggioranza così bulgara. Pensavano fosse l'uomo necessario per rimettere le cose a posto, anche per evitare derive filosovietiche. Erano convinti che dopo due anni si sarebbe potuto metterlo da parte, poi le cose sono andate diversamente». 

E perché è durato 20 anni? 

«Il fascismo ha fatto tanti danni ma il fascismo erano gli italiani. Il 10 giugno 1940, quando siamo entrati in guerra, le piazze erano piene ovunque, non solo a Roma, da gente educata a certi riti, a certi valori. Il fascismo era un'intera classe dirigente. Non era Mussolini a tenere unito insieme il Paese col fil di ferro, non c'era solo la repressione ma la seduzione di un modello totalitarista che poi ha fatto scuola, basato sul controllo di formazione e informazione». 

Come ha fatto la sinistra negli ultimi anni... 

«Con la differenza che la sinistra ha occupato un campo in cui altri avevano abdicato, mentre nel Ventennio non c'erano abdicazioni ma spazi preclusi». 

Chi ha criticato la Resistenza è stato messo all'angolo... 

«La Resistenza è stata un alibi. Fatta da una minoranza, per lo più al Nord, e usata dalla maggioranza per far finta di aver vinto la guerra. Tacere la sconfitta, negare le foibe, è servito a normalizzare il Paese in chiave antisovietica». 

Quand'è che faremo pace con la Storia? 

«Quando finiremo di prendercela con i fascisti che diventano repubblichini, quando immaginiamo di poter ascrivere tutte le colpe a Mussolini e al Re per rifarci una verginità, quando smetteremo di mettere le bandierine sul passato». 

Perché è fallito il tentativo di Violante e Ciampi tra il 1996 e il 1999? 

«Quelle aperture sono state solo trangugiate, non assimilate». 

Gli autori delle scritte sono altri compagni che sbagliano? 

«Non ci sono stati compagni che sbagliano o cattivi maestri. Sono nato nel 1952, ho fatto tutti i cortei del Sessantotto. Ho sentito scandire gli slogan più truci. Tra chi urlava allora quelle frasi c'è chi pontifica oggi. Non possiamo pensare che i cattivi fossero solo quelli che hanno sparato, c'è stata una responsabilità collettiva per quelle parole in libertà. Una volta Alberto Franceschini delle Br ha affermato: Noi abbiamo fatto ciò che molti dicevano». 

Qual è stata la molla scatenante? 

«Bisognava modernizzare il Paese e mettere in sintonia le due velocità, il Sud rurale e l'Autostrada del Sole, chi schiaffeggiava una donna per un decolleté e chi aveva il telefono a casa. Il centrosinistra di Moro, Fanfani e Nenni ha nazionalizzato l'energia, creato la scuola media... e basta. Tutte le riforme la sinistra le ha minacciate e discusse ma mai approvate. Quando due mondi disarmonici arrivano allo scontro scoppia il Sessantotto che si salda con l'autunno caldo del 1969». 

Come facciamo a fare i conti con il passato ed evitarne il ritorno? 

«I ragazzi non sanno nulla di Piazza Fontana o di Moro. Insegniamo nell'ultimo triennio della scuola superiore la Storia dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri. L'esecrazione morale degli -ismi non vuole dire niente».

Contro la Russa insorgono anche i neoborbonici. I nostalgici del Regno delle due Sicilie gli rimproverano di aver affermato, nel suo primo discorso da presidente, di voler festeggiare l'Unità d'Italia, che per loro è una vera e propria bestemmia. Orlando Sacchelli il 15 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

L'elezione di Ignazio La Russa a presidente del Senato ha acceso numerose contestazioni da parte della sinistra, con una parte del Paese che non gli perdona le simpatie per il Ventennio, dimenticando, però, che il politico milanese, ma nativo di Paternò (Catania), siede tra i banchi parlamentari da trent'anni: nel 1992 fu eletto per la prima volta alla Camera dei deputati, nelle file del Movimento Sociale italiano, passò poi in An, nel Pdl e infine in Fratelli d'Italia.

Contro la seconda carica dello Stato sono spuntate minacce, offese e persino stelle a cinque punte, riportando le lancette della storia indietro nel tempo, ai famigerati anni di piombo. A questa ondata di proteste, più o meno sguaiate, si aggiunge la rabbia dei neoborbonici, i nostalgici del Regno delle due Sicilie e di re Ferdinando II. Per quale motivo? Lo spiegano gli stessi neoborbonici.

"Con un presidente del Senato che dichiara di voler festeggiare il 17 marzo 1861, ossia la nascita del Regno d’Italia – spiega in una nota Emilio Caserta, responsabile del Movimento neoborbonico giovanile – la data dell’inizio della fine del Sud, della questione meridionale e dell’emigrazione mai fermata fino ad oggi e con un presidente della Camera che ha, fin da subito, manifestato il suo appoggio all’autonomia differenziata, possiamo giungere alle conclusioni che questa legislatura infliggerà l’ultimo pesante colpo mortale al meridione d’Italia, dopo aver sottratto 840 miliardi al Sud a favore del Nord in 17 anni secondo i dati di Eurispes, con la Spesa storica".

La rabbia contro La Russa, dunque, non riguarda solo il fascismo ma addirittura l'Unità d'Italia. Del resto, si sa, in Italia la categoria dei "nostalgici" è molto ampia e variegata, e tra questi c'è anche chi non ha mai considerato Garibaldi un eroe e Cavour uno statista, e continua a pensare che Vittorio Emanuele II fosse solo un usurpatore.

“Il presidente La Russa dovrebbe spiegarci – prosegue Caserta – anche perché il primo Re d’Italia si chiamava Vittorio Emanuele Secondo. Il Regno d’Italia, premesso che nel 1861 non includeva parte del Lazio e del Nord-Est, esisteva già da prima, considerando che la prima legislatura del Regno d’Italia in realtà fu l’VIII, ed ebbe inizio un mese prima della nascita ufficiale del Regno... Ormai anche le pietre sanno che non ci fu la nascita del Regno d’Italia ma un’annessione di gran parte della penisola italica al Regno di Sardegna, con guerre e saccheggi, basta seguire anche logica e numeri. Insomma, risulta difficile pensare che un siciliano come il presidente La Russa, tra i primi rappresentanti della Repubblica italiana, possa ancora pensare di festeggiare la nascita del Regno d’Italia, motivo quindi del risentimento di tanti cittadini meridionali in queste ore".

I neoborbonici sono una sparuta minoranza, e pur essendo monarchici mai e poi mai hanno voluto rendere onore ai Savoia. Si capisce dunque perché il loro astio, a distanza di più di 160 anni, non si plachi affatto. E riaffori ogni qual volta se ne presenti l'occasione, anche solo per riaffermare la propria identità.

"Antifascismo Militante". Striscione e scritta “Antifa” contro La Russa, Meloni attacca il “clima d’odio contro bersaglio politico per le sue idee”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Ottobre 2022. 

Prima uno striscione poi una scritta contro il nuovo Presidente del Senato Ignazio La Russa. Uno striscione su un ponte nei pressi del Colosseo e una scritta sulla serranda della sede di Fratelli d’Italia alla Garbatella. “Scritta contro La Russa firmata con la stella a 5 punte: chiaro riferimento ad anni drammatici che non vogliamo rivivere. Il nostro impegno sarà per unire la Nazione, non per dividerla come sta tentando di fare qualcuno”, ha scritto sui social Giorgia Meloni, leader di Fdi e Presidente del Consiglio in pectore dopo l’affermazione alle ultime elezioni.

Ignazio Benito Maria La Russa è stato eletto Presidente del Senato, seconda carica dello Stato, giovedì scorso. Una elezione che ha scatenato duri scontri all’interno del centrodestra tra Forza Italia e Fratelli d’Italia. E che ha rimesso al centro del dibattito le origini politiche di Fdi: La Russa è esponente della destra italiana che ha attraversato 50 anni della storia politica. Figlio di un ex segretario locale fascista, quindi parlamentare dell’Movimento Sociale Italiano, è cresciuto lui stesso nel Fronte della Gioventù, in Alleanza Nazionale, è stato ministro con Berlusconi e ha fondato Fdi con Meloni e Guido Crosetto.

Lo striscione contro La Russa è stato esposto poco dopo le 21:30 di ieri nei pressi del Colosseo, sul Ponte degli Annibaldi. Una pattuglia dei carabinieri lo ha notato, lo ha rimosso e sequestrato. Sullo striscione, firmato dal movimento “Cambiare Rotta”, la scritta: “Benvenuto Presidente La Russa. La Resistenza continua”. Il cognome era scritto a testa in giù, come in altri casi a richiamare la fine di Benito Mussolini, Duce del Fascismo, il cui cadavere è stato appeso a testa in giù a Piazzale Loreto a Milano. Sul profilo Fb di Cambiare Rotta Roma è stato pubblicato un post, come una sorta di rivendicazione: “Ci tenevamo a portare i nostri sentiti auguri di benvenuto al nuovo presidente del Senato, ɐssnɹ ɐ˥ oᴉzɐuƃI. A quanto pare, la sua figura è ben apprezzata anche dai partiti della fantomatica ‘opposizione antifascista’. Saremo ben lieti di mostrare a questo e a questo parlamento il significato di Antifascismo Militante. Ai nostri posti ci troverete, nelle strade, nelle piazze delle città”.

Oltre allo striscione una scritta è comparsa sulla sede che era stata prima dell’Msi e oggi di Fdi nel quartiere Garbatella a Roma, dove tra l’altro è cresciuta Meloni che in gioventù frequentava proprio quella sede. “La Russa Garbatella ti schifa”, si legge. A seguire la stella e la sigla “Antifa”. La reazione della leader del centrodestra, che ha alzato ulteriormente il livello dello scontro con Berlusconi con le sue parole di ieri sera “Non sono ricattabile” – è arrivata subito, comparsa sulla bacheca della sua pagina Facebook.

“Le prime parole di Ignazio La Russa come presidente del Senato sono state quelle di un uomo che conosce bene il peso delle Istituzioni e che farà di tutto per rappresentare con imparzialità e autorevolezza la seconda carica dello Stato. Eppure diversi esponenti politici hanno deciso di renderlo un bersaglio, come persona e per le sue idee, rinfocolando un clima d’odio, già ben alimentato durante una campagna elettorale costruita sulla demonizzazione dell’avversario politico. E così, accade che in una sede di Fratelli d’Italia compaia una scritta contro di lui, firmata con la stella a 5 punte, chiaro riferimento ad anni drammatici che non vogliamo rivivere. Il nostro impegno sarà per unire la Nazione, non per dividerla come sta tentando di fare qualcuno. Spero che il senso di responsabilità della politica prevalga sull’odio ideologico, perché l’Italia e gli italiani devono tornare a correre, insieme”

A condannare le parole contro La Russa anche la capogruppo del Partito Democratico alla Camera Debora Serracchiani: “Le minacce contro il senatore La Russa rappresentano un atto vile che va condannato fermamente. Dalle deputate e dai deputati democratici, solidarietà al presidente del Senato. I democratici sono stati e saranno sempre contro l’uso delle minacce e della violenza politica chiunque ne sia vittima”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Quel che non sanno di "Ignazio Benito". La gratitudine della famiglia di Iaio. Insulti e minacce di morte a Ignazio La Russa che si è permesso di farsi democraticamente eleggere seconda carica dello Stato. Giannino della Frattina il 16 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Insulti e minacce di morte a Ignazio La Russa che si è permesso di farsi democraticamente eleggere seconda carica dello Stato, togliendo il posto a compagni e cattocomunisti che dopo decenni su quel cuscino hanno lasciato l'impronta dei loro glutei progressisti. E mal sopportano di dovervi rinunciare.

Eppure c'è forse qualcosa di nuovo oggi nel sole e nulla d'antico, perché ad aprire l'edizione milanese di Repubblica si trova a firma di Massimo Pisa un capitolo di bel giornalismo, quello che sa mandare a gambe all'aria l'ovvio dell'ideologia e la banalità del nero diviso dal bianco. Anzi dal rosso in questo caso, perché a parlare e a ringraziare La Russa è Bruno Tinelli, il fratello di Fausto che con Iaio Iannucci divise una tragica e misteriosa fine in quel cupo 1978.

Ricapitolando. Nel suo primo discorso da presidente del Senato La Russa, velenosamente ribattezzato in questi giorni «Benito» da stampa e politici di sinistra, ha archiviato gli Anni di Piombo, ricordando tre diciottenni milanesi: Sergio Ramelli sprangato a morte dalle chiavi inglesi rosse di Avanguardia operaia e i due militanti di sinistra che frequentavano il centro sociale Leoncavallo e furono freddati da tre misteriosi killer mai scoperti. Un duplice delitto rimasto senza giustizia, come senza colpevoli sarebbe rimasto quello di Ramelli se non fosse stato per la caparbietà di La Russa che divenne l'avvocato di parte civile della famiglia e al lavoro scrupoloso e controcorrente dei giudici istruttori Maurizio Grigo e Guido Salvini che portarono alla condanne dei colpevoli.

E tutto questo si sapeva. Non si sapeva, come rivela adesso Bruno Tinelli dopo aver consultato anche Maria Iannucci sorella di Iaio, che «al contrario di quello che ho letto e sentito in giro, delle tante reazioni indignate, noi non possiamo che essere grati a Ignazio La Russa». E questo perché «oggi, riguardando indietro, non può fare differenza tra un ragazzo morto ammazzato di destra, com'era Sergio Ramelli e uno di sinistra. Erano vite spezzate e famiglie distrutte».

Un grande esempio di come la vita, quando è vera (e spesso lo è quando attraversa una morte) sappia tessere trame che nessun romanziere o sceneggiatore riuscirebbe nemmeno lontanamente a immaginare. E così ci fa anche scoprire, raccontato da fonti non certo sospette, che senza farsi troppa pubblicità, è stato proprio Ignazio «Benito» La Russa a scrivere più volte «a mia madre. L'ha incontrata personalmente, ha continuato a interessarsi a noi, al di là dell'ideologia, di divisioni che oggi no ci sono più». Ecco, «Ignazio la Russa fu uno dei pochissimi».

Ohibò, e quindi? Forse che il male assoluto non ha più il ghigno dei post missini. Che in quel simbolo che in tanti chiedono di eliminare dal simbolo di Fratelli d'Italia ci sia anche un'idea cavalleresca dello scontro politico, la persuasione che in politica non ci siano nemici, ma avversari. E che, piuttosto, i nemici tramino in quelle zone oscure anche dello Stato nella quali si nascondono i veri malvagi che per i propri lordi interessi hanno mandato a morire giovanissimi diciottenni che forse combattevano per una stessa idea. Quella di un mondo migliore, più giusto e più attento ai loro sogni di adolescenti. La dimostrazione che le barricate non aiutano a conoscersi e a capirsi perché spesso sono solo armi per delegittimare e cercare di abbattere l'avversario. Calpestando anche la morte di tre poveri diciottenni.

E li chiamano democratici. Insulti e minacce a La Russa: è il risultato degli attacchi della sinistra. Daniele Di Mario su Il Tempo il 16 ottobre 2022

Alla fine, inevitabilmente, spunta anche la stella a cinque punte delle Brigate Rosse con annessi insulti al presidente del Senato Ignazio La Russa. Accade alla Garbatella, quartiere d'origine di Giorgia Meloni ma anche feudo rosso della Capitale dove la sinistra da anni a mani basse. Nel quartiere più comunista di Roma, sulla serranda della sezione di Fratelli d'Italia appare la scritta: «La Russa Garbatella ti schifa», con annessa stella a cinque punte. Firmato: «Antifa». Gli antifascisti. 

Un episodio su cui sta indagando la Digos. C'era da aspettarselo. Dopo una campagna elettorale in cui il Pd ha gridato un giorno sì e l'altro pure al pericolo fascista, gli ultimi due giorni sono stati caratterizzati da ripetuti attacchi al presidente del Senato Ignazio La russa e a quello della Camera Lorenzo Fontana. «Peggio di così nemmeno con l'immaginazione più sfrenata. L'Italia, non merita questo sfregio», aveva twittato Enrico Letta venerdì. Letta lo spiega da Berlino, dove partecipa al congresso del Pse, un appuntamento incentrato tutto sui temi dell'Europa e sul ruolo dei socialisti e democratici europei. Parlando ieri da Berlino al congresso del Pse, il segretario del Pd va giù ancora più duro, giudicando l'elezione di La Russa e Fontana «una logica perversa e incendiaria che va contro l'interesse del Paese».

Troppo per Giorgia Meloni, che giudica «gravissime» le parole pronunciate dal leader Dem. «Affermare all'estero che l'elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento italiano sia motivata da una sedicente "logica perversa" e "incendiaria" e che la scelta dei parlamentari italiani confermi "le peggiori preoccupazioni in giro per l'Europa" è scandaloso e rappresenta un danno per l'Italia, le sue più alte istituzioni e la sua credibilità internazionale.

Letta si scusi immediatamente», dice il presidente di Fratelli d'Italia.

Una dichiarazione che accende ancora di più gli animi. «Non è la maggioranza a dire all'opposizione cosa dire e come dirlo», replica Letta su Twitter. Tutto lo stato maggiore del Nazareno - da Debora Serracchiani a Nicola Zingaretti e Beppe Provenzano-invitano il leader FdI a «governare e non a dire cosa deve fare il Pd. Si assuma la responsabilità di aver diviso il Paese con scelte estremistiche ai vertici delle Istituzioni».

Ma anche la Lega critica aspramente «le dichiarazioni offensive» di Letta e Laura Boldrini «contro l'elezione di Lorenzo Fontana a presidente della Camera dei Deputati». «Sono offese contro il libero voto democratico dei cittadini espresso il 25 settembre e contro i deputati eletti che li rappresentano. Da un ex presidente del Consiglio e da un ex presidente della Camera, figure che hanno ricoperto ruoli istituzionali così importanti e delicati, ci si aspetterebbe un atteggiamento più democratico, civile ed equilibrato. Ora si abbassino i toni, abbassiamoli tutti», dice Fabrizio Cecchetti, vicecapogruppo del Carroccio alla Camera.

Ad accendere il dibattito politico però non sono solo le dichiarazioni di Letta, ma anche le scritte contro La russa. Meloni, pur senza citare esplicitamente il Pd, critica «diversi esponenti politici» che «hanno deciso di rendere» il presidente del Senato «un bersaglio, come personae perle sue idee, rinfocolando un clima d'odio, già ben alimentato durante una campagna elettorale costruita sulla demonizzazione dell'avversario politico. E così», sottolinea il presidente FdI, «accade che in una sede di Fratelli d'Italia compaia una scritta contro di lui, firmata con la stella a 5 punte, chiaro riferimento ad anni drammatici che non vogliamo rivivere». Meloni assicura che «il nostro impegno sarà per unire la Nazione, non per dividerla come sta tentando di fare qualcuno. Spero che il senso di responsabilità della politica prevalga sull'odio ideologico, perché l'Italia e gli italiani devono tornare a correre, insieme».

La risposta alle opposizioni arriva anche da Matteo Salvini: «La sinistra non si rassegna e attacca con violenza la seconda e la terza carica dello Stato, appena democraticamente elette», scrive il segretario di via Bellerio su Twitter assicurando che «la Lega e il centrodestra risponderanno col sorriso e col lavoro a questi violenti attacchi, e sono sicuro che anche fra Giorgia e Silvio tornerà quell'armonia che sarà fondamentale per governare, bene e insieme, per i prossimi cinque anni».

Tutto il centrodestra manifesta vicinanza a La russa. E in serata anche Enrico Letta su Twitter esprime «solidarietà mia e di tutto il Pd al Presidente del Senato. Quelle scritte sono inaccettabili».

Dietro le parole pronunciate da Enrico Letta a Berlino al congresso del Pse c'è tutta la difficoltà politica del Pd sonoramente sconfitto alle elezioni del 25 settembre. Ma c'è, soprattutto, l'affanno di un segretario che da mesi ha perso il timone del proprio partito e, di conseguenza, la bussola della linea politica. Sfiduciato dagli elettori prima e dai suoi stessi dirigenti poi, il leader del Nazareno dimostra di non aver imparato la lezione della sconfitta elettorale e di non avere idea di come riportare il Pd al ruolo che gli competerebbe: quello di un grande partito progressista ancorato ai valori delle moderne formazioni socialdemocratiche occidentali.

Da Berlino, Letta torna sull'elezione dei due presidenti delle Camera sottolineando come le scelte compiute dal centrodestra rappresenterebbero dei messaggi allarmanti per l'Europa. Per il leader Dem è «una logica perversa e incendiaria» quella che ha portato alla scelta di La Russa e Fontana, «che va contro l'interesse del Paese».

Un discorso francamente assurdo. Primo: il segretario del principale partito di opposizione non dovrebbe screditare le Istituzioni del proprio Paese in un alto contesto istituzionale. La Russa e Fontana rappresentano rispettivamente la seconda e la terza carica dello Stato italiano e come tali andrebbero rispettati e difesi. Magari legittimamente criticati se non dovessero assolvere al loro ruolo (l'opposizione serve anche a questo), ma rispettati in quanto alti rappresentanti della Repubblica. Per un partito che si dichiara democratico dovrebbe essere la base.

Letta, pronunciando quelle parole, dimostra invece scarso senso delle Istituzioni, si dimostra «colpevole» proprio di ciò di cui accusa il centrodestra. Se alla presidenza della Camera va, tanto per fare un esempio, Laura Boldrini tutto a posto. Se ci va un esponente della Lega o di Fratelli d'Italia si grida allo scandalo. Dimenticando che il centrodestra le elezioni non le ha vinte, le ha stravinte. E che gli italiani hanno scelto che a rappresentarli al governo e nelle maggioranze dei due rami del Parlamento sia la coalizione di Meloni, Salvini e Berlusconi.

I senatori e i deputati eletti dagli italiani hanno a loro volta eletto i presidenti delle Camere. La Russa, per altro, ha preso almeno venti voti di senatori dell'opposizione: il 10% dell'Aula di Palazzo Madama. Si chiama democrazia rappresentativa. Letta ha condotto tutta la campagna elettorale chiedendo agli italiani il voto per difendere la Costituzione. Dia l'esempio rispettando le Istituzioni democratiche, anziché delegittimarle solo perché non hanno latessera del Pd o perché La Russa e Fontana non la pensano come lui. Presunzione, complesso di superiorità morale e culturale, attaccamento al potere sono i mali di un Pd che il suo quasi ex segretario non è riuscito a curare. Anzi, li ha acuiti.

Il segretario dem compie anche un errore politico. Avrebbe gioco facile oggi a criticare il centrodestra. Gli basterebbe dire che nell'elezione di La Russa Forza Italia non ha votato con la maggioranza. O potrebbe far notare la crisi in atto tra Berlusconi e Meloni. Potrebbe muovere critiche politiche parlando di maggioranza già spaccata. Non vogliamo fargli la lezione, ci mancherebbe. Però la lezione della campagna elettorale dovrebbe bastare per fargli capire che gridare al fascismo non porta voti.

Letta ha agitato il pericolo fascista per un mese e mezzo, ha puntato tutto su ddl Zan, ius scholae, legge elettorale, diritti civili. Non ha detto quasi nulla su gas, energia elettrica, caro-bollette, tasse (anzi, voleva introdurre patrimoniale e tassa di successione). Il centrodestra ha parlato di temi concreti. E ha vinto. Letta ha costruito una coalizione sgangherata «non per governare» puntando sul sostegno all'Ucraina con chi ha votato contro l'invio di aiuti militari a Kiev e sull'agenda Draghi alleandosi con chi era all'opposizione di quel governo. Votando, gli italiani hanno giudicato insufficiente la sua proposta politica e non in grado di risolvere i problemi del Paese. Lettali rispetti: non recupereràvotiinfangando e delegittimando le Istituzioni della Repubblica.

La Russa, l'ipocrisia di Letta: scatena l'odio poi esprime "solidarietà". Il Tempo il 15 ottobre 2022

Poco dopo le 18, una notte e una giornata intera dopo le minacce a suon di stella a 5 punte all'indirizzo di Ignazio La Russa, arriva la stringata notarella di Enrico Letta. "Solidarietà mia e di tutto il PD al Presidente del Senato #LaRussa. Quelle scritte sono inaccettabili", twitta il segretario del Partito democratico in riferimento alle scritte d'odio - con l'inquietante rimando alle Brigate Rosse - comparse alla sede di Fratelli d'Italia alla Garbatella, il quartiere romano dove tra l'altro è cresciuta Giorgia Meloni. Le parole di Letta non possono che essere lette con le lenti della doppia morale dem, prima la sinistra scatena lo tsunami d'odio rosso, poi si lava la coscienza con una manciata di parole di circostanza. 

Dopo prima era stato sequestrato uno striscione al Colosseo, rivendicato agli "antifascisti militanti" di Cambiare Rotta Roma che scrivono il nome di La Russa a rovescio (un rimando inequivocabile a Piazzale Loreto) e annunciano azioni eclatanti.

Il presidente del Senato, intanto, ha ringraziar per la solidarietà ricevuta (prima che Letta, in colpevolissimo ritardo, desse la sua e quella del Pd...) ma è scontro aperto fra il segretario dem e la presidente del consiglio in pectore, Giorgia Meloni. Da Berlino, dove si trova per il congresso del Pse, Letta ha affermato che le scelte fatte, ossia l'elezione di La Russa e del leghista Lorenzo Fontana alla presidenza di Montecitorio, rappresentano dei messaggi allarmanti anche per il resto dell’Europa. La risposta di Meloni non si fa attendere, con la leader di FdI che definisce "gravissime" le parole pronunciate dal segretario del Partito democratico.

La Russa, writer che sbagliano, ma per una buona causa: doppia morale. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 17 ottobre 2022.

 Nel Paese che da settant' anni distribuisce cattedre, stipendi, direzioni di giornali e di tiggì, e premi, e coccarde, e consulenze, e posti fissi e diritti acquisiti per meriti da 25 Aprile (anzi 26, che era più sicuro), e simultaneamente va a caccia di fascismo rimontante nella strategia della tensione della testa rapata, o quella organizzata nella trattoria in cui si canta Faccetta Nera e nelle soffitte col busto del Duce, in un tale Paese, che purtroppo è il nostro, è del tutto normale che passi tranquillo, in modo quasi routinario, il caso di ieri: una bella minaccia con simbolo simil-brigatista ben pittato sull'ingresso di una sede di Fratelli d'Italia. E il problema, come al solito, non è l'atto di sopruso vandalico in sé, né il supplemento di apologia criminale che lo caratterizza, né ancora la grave violenza che ne firma il contenuto intimidatorio: il problema è il clima di sostanziale noncuranza in cui quel gesto matura, a paragone di quel che succede immediatamente e con strepito quando le persone, l'immagine e le proprietà di chi subisce aggressione appartengono alla cerchia protetta dell'antifascismo con sigillo Bella Ciao.

Quel clima di noncuranza non si produce per caso, ma in forza del malcostume politico e civile per cui se dici che bisogna cambiare una virgola della Costituzione fondata sulla Resistenza sei un pericoloso eversore, mentre se devasti un banchetto politico dell'avversario di destra o se, appunto, gli annunci il ritorno nelle fogne sventolando il simbolo che ammicca al terrorismo comunista, magari non sei proprio beneducatissimo ma insomma c'è da difendere la democrazia in pericolo e qualche intemperanza si può anche capire.

Ed è sempre quel clima a giocare il suo ruolo bastardo, quando si ingrassa dell'ipocrisia di quelli che lo denunciano avendo abbondantemente contribuito a determinarlo: perché puoi criticare anche ferocemente, e fino a denigrarlo, un rappresentante istituzionale democraticamente eletto, ma a patto che tu sia intransigente nel condannare chi lo fa destinatario di gesti e parole che non possono assolversi giusto perché a riceverli è chi ti sta sul gozzo.

L'indignazione sperequata, infatti, l'allarme democratico per la desinenza patriarcale e le spallucce per la frase sulla donna di destra con la schiena lardosa, sono l'esempio ordinario e leggero di un pregiudizio che informa ugualmente i fenomeni più gravi: vale a dire il pregiudizio per cui giudichi la sopraffazione e la violenza non in base all'azione di chi le commette, ma in base al profilo di chi le subisce. Che poi questo andazzo prosegua e si impenni, non casualmente, ogni qual volta la vicenda democratica italiana smetta di essere democratica solo perché non è presidiata dalla parte che la garantisce per forza, cioè il centrosinistra, e solo perché visi affaccia la parte che la mette in pericolo per forza, cioè il centrodestra, dimostra molto semplicemente che una parte non irrilevante del Paese ha un rapporto fondamentalmente disturbato con l'ordinamento rappresentativo. E dimostra che in buona sostanza l'Italia è una Repubblica democratica in cui la sovranità appartiene al popolo che vota a sinistra. E se poi da lì gemma qualche escrescenza a cinque punte, vabbè, è un writer che sbaglia, ed è comunque per una buona causa. 

Marco Gasperetti per corriere.it il 13 ottobre 2022.  

Un corso di cinque lezioni con tanto di locandina di presentazione di color rosso che più rosso non si può accompagnata dal pugno chiuso e dalla falce e il martello, per «riconoscere e scovare i fascisti». Lo ha promosso la sezione di Rifondazione comunista di Empoli insieme ai Giovani comunisti ed è stato organizzato nel circolo Lido Bagnoli della cittadina in provincia di Firenze. Il titolo del corso è «Conoscerli per stanarli !!!», con sottotitolo «I simboli del fascismo e dell’estrema destra».

Appena annunciata, l’iniziativa ha provocato una raffica di polemiche. La prima a intervenire è stata l’europarlamentare della Lega, Susanna Ceccardi, che sul suo profilo Facebook ha dato degli alieni ai promotori del corso stana-fascista. «Con tutti i problemi che ci sono in Italia, Rifondazione comunista organizza un corso, nella zona dell’Empolese Valdelsa, per “stanare i fascisti”.

A me pare che questi vivano fuori dal mondo – scrive Ceccardi». Infine, la parlamentare si chiede «se non sarebbe stato meglio pensare alle priorità degli italiani?». Apriti cielo. Sui social ecco arrivare una raffica di proteste per la trovata di Rifondazione ma anche post a favore che mettono in guardia dai pericoli di un ritorno dei «neri nostalgici».

Rifondazione Comunista ha risposto che ciò che è accaduto è stato un fraintendimento finito per essere strumentalizzato. «Non ci riferivamo a persone o partiti come Fratelli d’Italia o Lega – ha spiegato l’attivista di Rifondazione, Manuel Carraro – ma abbiamo soltanto organizzato un corso di formazione completamente gratuito. Che ha come obiettivo la conoscenza della storia, a cominciare proprio dai simboli utilizzati dai partiti di destra e di estrema destra». Polemica finita? Macché.

Ancora sui social infuriano le accuse e le contraccuse. «Parole come “stanarli” con tre punti esclamativi rievocano periodi oscuri di intolleranza, odio e violenza – spiega Francesco Torselli, capogruppo in consiglio regionale per FdI - e un corso sui simboli del fascismo organizzato da Rifondazione comunista è oltremodo ridicolo e antistorico».

Boldrini inchiodata da Specchia: "Sosteneva gli anarchici". Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022

Il clima si fa incandescente a Otto e Mezzo, dove tra Laura Boldrini e Francesco Specchia non se le mandano a dire. Ad aprire le danze, Lilli Gruber. La conduttrice di La7, nella puntata di martedì 18 ottobre, ricorda una frase pronunciata dalla firma di Libero: "Lei ha definito 'legittima e democratica la scelta dei presidenti di Camera e Senato, aggiungendo che quando la Boldrini sosteneva gli anarchici andava bene'". "Sì", conferma Specchia in studio, mentre la deputata del Partito democratico si scalda. "Io - dice l’ex numero uno di Montecitorio - ho sentito questa frase mentre ero a casa, pensavo di non aver capito bene. Io avrei appoggiato anarchici violenti ed Hezbollah? Specchia aveva detto veramente queste frasi, farebbe ridere se non fossero menzogne, non ho mai appoggiato anarchici, violenti o Hezbollah. È una frase offensiva, come si fa ad andare in giro in televisione a dire cose false? Come si fa? Io non le ho mai frequentate queste persone". 

Ecco allora che il giornalista, tablet alla mano, smentisce la dem: "L’11 febbraio del 2020 ha visitato i centri sociali romani, una conferenza contro la politica dell’odio. In prima fila c’erano anarchici che dicevano ‘Matteo Salvini lo dobbiamo ammazzare e gambizzare’". "Ma che sta dicendo?", dice a quel punto la Boldrini. "Non lo so - interviene la Gruber -, perché non so chi siano questi anarchici". Ma non finisce qui, Specchia cita altri episodi: "Il 29 ottobre del 2020 ha appoggiato in una conferenza sull’accoglienza Luigi Preiti, il signore che ha sparato al carabiniere, dicendo che aveva ragione. La sua dichiarazione era sostenuta dai centri sociali. Quel mondo le appartiene".

La Boldrini però continua a negare: "Io arrivo alla presidenza della Camera dopo 25 anni di esperienza in politica internazionale. Se lei mi associa agli anarchici lei dice il falso. Se mi associa ai violenti dice una menzogna. Se dice che appoggio Hezbollah dice un’altra cosa falsa, io ho fatto una visita istituzionale in Libano, ho stretto le mani della delegazione del Parlamento. Io non sostengo questi gruppi. Fontana ha discriminato prima di essere presidente della Camera". "Io ho detto che lei era una figura identitaria che poi seduta su quella poltrona è salita sopra le parti, come è giusto che sia nel suo ruolo istituzionale. Lo stesso ha fatto Fontana, prima Napolitano e Fico" conclude Specchia prima che la Gruber riporti in studio la calma. 

L'assurda resistenza alla Repubblica. Paolo Guzzanti il 16 Ottobre 2022 su Il Giornale.

In origine l'odio era giustificato perché tutte le vittime e tutti i carnefici e tutti i testimoni ancora viventi avevano se non il diritto almeno motivi e memorie che ancora grondavano sangue.

In origine l'odio era giustificato perché tutte le vittime e tutti i carnefici e tutti i testimoni ancora viventi avevano se non il diritto almeno motivi e memorie che ancora grondavano sangue. Era l'odio della guerra e del dopoguerra, l'odio della guerra civile combattuta con duplice ferocia fino all'annientamento dell'avversario e dunque con una lunghissima scia insanguinata. Da allora sono passati tre quarti di secolo ed è rimasta una memoria di seconda mano non più connessa alle ragioni dell'odio, raramente consapevole dei fatti e del contesto cui si riferisce. E che si riduce a grumi di parole statiche, prive di qualsiasi referente e fuori da qualsiasi contesto.

Un esempio per tutti, la macabra e sciagurata impiccagione di Mussolini e di alcuni gerarchi insieme alla sua amante Claretta Petacci giustiziata a colpi di mitra per nessuna ragione ed esposta con le sue intimità all'oltraggio della folla. Quella macelleria, nel momento e nel contesto in cui è avvenuta ha avuto il suo macabro senso (il luogo era quello in cui il giorno precedente erano stati fucilati dei partigiani) ma nessuno ha mai giustificato quella messinscena, se non l'odio attuale e reale di allora. Ma la grafica, il logos, di quella esibizione sono rimasti come colpo in canna con cui tentare di uccidere un'effige. Così, «a testa in giù» o «capovolto», «appeso per i piedi» sono sinonimi di Piazzale Loreto e di esecuzione con dileggio del giustiziato.

È avvenuto ieri al Colosseo dove è comparso uno striscione con la scritta «benvenuto presidente» e poi il cognome La Russa capovolto per essere l'equivalente di «a testa in giù». Sulla seconda riga le parole «la Resistenza continua». Non c'è da strapparsi i capelli e gridare allo scandalo quanto piuttosto viene la voglia di chiedere ai creativi aspiranti carnefici da chi si sentano autorizzati a far prevalere i loro narcisismi sul primato assoluto delle istituzioni repubblicane. Augurare o augurarsi la morte violenta della seconda carica dello Stato legalmente eletta dal Senato, è un gesto di resistenza soltanto alla Repubblica. È un gesto che presuppone strati di ignoranza e nessuna relazione con il contesto di oggi né con quello di ieri. Unico legame, l'amore per l'odio. L'odio come sostituto della politica e l'odio come minaccia terrorista. Sarà difficile che questo Paese faccia grandi passi avanti se non saprà disinnescare l'odio come oggetto di culto e come pratica comune. Di fronte a queste ed altre simili violenze si può a buon diritto gridare: allarmi, son fascisti.

Mirella Serri per Dagospia il 16 ottobre 2022.

Per carità! Basta con l’odio, basta con le divisioni! Soprattutto basta con l’uso strumentale dei fatti storici. Le scritte apparse alla Garbatella contro il presidente del Senato Ignazio La Russa sono frutto di ignoranza, cialtronaggine e pure di stupidità. Quelli che scrivono non conoscono nemmeno le modalità dell’esecuzione di Mussolini. Il quale non avrebbe dovuto mai essere giustiziato in quel vile e barbaro modo ma avrebbe dovuto essere sottoposto a un giusto processo. Una Norimberga italiana meritava anche la donna che per tanti anni fu al fianco del Duce, Claretta Petacci.

Paolo Guzzanti, nel suo articolo di oggi su “il Giornale”, ha ragione quando depreca l’esecuzione sommaria di Claretta e l’esposizione del suo corpo a Piazzale Loreto, “giustiziata a colpi di mitra per nessuna ragione ed esposta con le sue intimità all’oltraggio della folla”. Ma ha torto marcio quando sostiene che non c’era “nessuna ragione per giustiziarla”, ovvero che la Petacci aveva la sola “colpa” di essere l’amante di Mussolini, una “non colpa” insomma. 

In realtà di ragioni per sottoporre il suo operato a una Suprema Corte di giustizia ve n’erano di sostanziose e numerose. E’ vero: Clara è passata alla storia per essere stata una donna giovane, assassinata innocente a fianco del Duce. Ma si tratta di una mistificazione: la Petacci non si tenne affatto fuori dai giochi politici del Ventennio, né fu solo o soprattutto l’amante-trastullo esclusivamente asservita ai voleri del Duce. Come hanno dimostrato Pasquale Chessa e Barbara Raggi ne “L’ultima lettera di Benito” (Mondadori) e come chi scrive ha cercato di documentare nel volume “Claretta l’hitleriana. 

La donna che non morì per amore di Mussolini” (Longanesi), la compagna di Benito fu profondamente e “radicalmente antisemita”, come diceva lei stessa, fu un’ascoltata consigliera politica del despota e fu un’attiva collaborazionista dell’esercito che occupava l’Italia (cosa per cui era prevista la pena capitale). 

Ma come accade spesso alle donne, nel Bene e pure nel Male, il loro ruolo viene sminuito e trascurato. Il vero operato di Clara venne denunciato da gran parte della stampa italiana nell’agosto del 1943, dopo la caduta del regime: insieme alla famiglia, e in particolare al fratello, aveva compiuto furti e ruberie, aveva praticato il vietatissimo contrabbando di oro, aveva goduto di assegnazione di terreni pubblici, aveva messo in piedi un traffico di certificati in modo da concedere agli ebrei più benestanti colpiti dalle leggi razziali, a fronte di grossi compensi, l’arianizzazione, ovvero il passepartout per sfuggire alla persecuzione.

Trasferitasi a Salò per stare a fianco di Benito fu confidente e collaboratrice di Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno (che emanò l’ordine di polizia per internare tutti i gli ebrei, sia italiani sia stranieri, nei campi di concentramento provinciali). Inoltre fu la longa manus dell’ambasciatore plenipotenziario di Hitler, Rudolf Rahn, nel governo di Salò e svolse un ruolo di sottogoverno, mettendo in posti cruciali i fedelissimi dei nazisti. Si propose addirittura a Mussolini come interlocutrice di Hitler per andare a Berlino e convincere il Cancelliere del Reich a spedire nuovi contingenti militari in Italia. Il suo attivismo nazifascista era assai noto: come le scrisse il Duce poco prima di morire, “tu sei odiata dagli italiani al pari di me e anche più di me”.

Ha raccontato Aldo Lampredi, responsabile dell’assassinio di Mussolini e della Petacci, che anche i partigiani ben conoscevano le sue responsabilità e non ebbero esitazioni nell’eseguire gli ordini emanati dal CLNAI nei suoi confronti. L’omicidio però non fu la strada giusta. Bisognava rendere edotti tutti gli italiani del suo agire efferato, facendo emergere la verità in un’aula di giustizia. Ma in Italia, complici anche gli antifascisti, si preferì non fare i conti con il passato. Clara era una donna astuta e intelligente: la sua vocazione al Male e le sue nefandezze sono state per tanto tempo cancellate.

(AGI il 14 ottobre 2022) - Lorenzo Fontana è stato eletto presidente della Camera con 22 voti. la maggioranza di centrodestra dispone sulla carta di 237 voti, che scendono però a 236 in quanto un deputato di Forza Italia, Orsini, è assente per Covid. Dunque, salvo altre assenze non segnalate, mancano all'appello 14 voti. Durante lo spoglio, il presidente provvisorio Rosato ha letto un voto assegnato al capogruppo leghista Riccardo Molinari.

12.15 – Salvini: “Fontana pro Putin? È pro Italia”

«Non è giorno di polemiche: essere cattolico non è un disvalore. Pro Putin? Fontana è pro Italia». Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini interpellato sulle critiche del centrosinistra al neopresidente della Camera Lorenzo Fontana in Transatlantico a Montecitorio.

12.17 – Meloni: “Anche alla Camera buona la prima, procediamo spediti”

«Anche qui alla Camera buona la prima. Stiamo procedendo in modo spedito, sono contenta e faccio le mie congratulazioni a Fontana». Lo afferma la leader di Fdi Giorgia Meloni commentando in Transatlantico l'elezione di Lorenzo Fontana alla presidenza della Camera.

12.20 – Renzo Bossi di Francesco Moscatelli

Alla Camera per accompagnare il Senatùr Umberto Bossi c’era anche il figlio Renzo, un tempo il famigliare più attivo sul fronte politico. «Oggi però faccio altro - mette le mani avanti lui, intercettato dai giornalisti mentre il padre è impegnato a votare per il presidente della Camera -. Ho le mie attività, un’azienda agricola e un’altra società a Milano, e ho già abbastanza problemi da gestire. Tra la guerra e il Covid oggi per chi fa l’imprenditore sono momenti complicati: il prezzo delle semenze sono raddoppiati e pure le bollette sono alle stelle».

12.29 – Meloni: “Opposizione? Dice quello che ritiene dire”

«L'opposizione fa l'opposizione. Mi sembra normale che dica quello che ritiene di dire. Se mi dovessi soffermare su quello che dice l'opposizione non farei il governo». Lo ha detto Giorgia Meloni dopo l'elezione di Lorenzo Fontana alla presidenza della Camera.

12.30 – Fontana: "Tutelerò diritti maggioranza e opposizione”

Il neo eletto presidente della Camera, Lorenzo Fontana, garantisce il «rispetto assoluto della parità dei diritti di tutti i deputati, siano essi di opposizione e maggioranza».

12.31 – Applausi a Fontana di Francesco Olivo

Quando il neo presidente della Camera, Lorenzo Fontana ricorda l'elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, applausi del centrodestra e dei deputati del Terzo Polo, ma non di M5S, Pd e Sinistra italiana. Poi Fontana, oltre al presidente della Repubblica, ricorda l'opera di Papa Francesco: tra i parlamentari del centrodestra scatta la standing ovation, seguiti più timidamente da quello del Pd.

12.32 – Fontana: “Papa Francesco è riferimento maggioranza italiani”

«Volevo dedicare un primo saluto al pontefice Francesco che rappresenta un riferimento spirituale per la maggioranza dei cittadini italiani». Così il neoeletto presidente della Camera Lorenzo Fontana nel discorso dopo la proclamazione. Applauso dell'Aula. «Il Papa sta svolgendo un'azione diplomatica a favore della pace senza uguali», ha aggiunto. 

12.33 – Banchi vuoti tra le file dell’opposizione mentre Fontana pronuncia il discorso di insediamento di Carlo Bertini

Banchi vuoti tra le fila dell'opposizione mentre Lorenzo Fontana pronuncia il suo discorso di insediamento. La maggior parte dei deputati di PD non è presente e tra gli altri non si vede Enrico Letta. Nessun applauso finora dalle opposizioni. Entra in aula però Alessandro Zan, protagonista nella scorsa legislatura di una battaglia per i diritti Lgbtq, che ha visto Fontana su posizioni diametralmente opposte.

12.34 – Letta non è in Aula Di Niccolò Carratelli

Il segretario Enrico Letta non è in Aula. Dall'opposizione due soli applausi durante il discorso di Fontana, riservati agli omaggi per Sergio Mattarella e Papa Francesco.

12.35 – Niente applauso dalle opposizioni di Carlo Bertini

Una scena inedita nella storia della Repubblica. Nessun applauso finale dai banchi, mezzi vuoti, delle opposizioni al neo presidente Fontana. Tutti seduti al loro posto di fronte alla standing ovation della maggioranza. Una manifestazione di ostilità di cui non si ha memoria negli ultimi decenni.

12.40 – Fontana: “Recuperare l'orgoglio degli italiani”

«La paura del futuro e l'insicurezza sono minacce. Quando si smette di credere nel futuro migliore è il momento in cui ci si ferma: dobbiamo offrire agli italiani un futuro possibile, l'orgoglio di un Paese creatore di bellezza e di gusto. Gli italiani hanno saputo rialzarsi dalla seconda guerra mondiale: serve recuperare orgoglio di quello che siamo». Lo afferma il Presidente della Camera, Lorenzo Fontana, nel suo intervento dopo la proclamazione.

12.45 – Fontana: “Sforzo per rialzare l'Italia”

«Serve uno sforzo per rialzare l'Italia». Lo ha detto il presidente della Camera Lorenzo Fontana. «La legislatura che si apre dovrà affrontare temi fondamentali per il futuro del Paese», ha aggiunto citando guerra e pandemia. Servirà un «rinsaldarsi dell'Italia quale stato fondatore dell'Unione europea» con il Pnrr tenendo conto dell'«aumento dei costi dei beni primari delle materie prime». Fontana si è impegnato a svolgere questo «alto incarico con profondo senso di responsabilità avendo come riferimento la promozione e la tutela della persona». Questo, ha concluso «richiede leale collaborazione tra le istituzioni» per la «massima coesione politica e sociale».

12.47 – Fontana: “Mercoledì 19 elezione vicepresidenti”

«L'aula della Camera è convocata mercoledì 19 ottobre alle 14 per l'elezione dei vicepresidenti, dei questori e dei segretari d'Aula». Lo ha annunciato il presidente della Camera Lorenzo Fontana.

Monica Guerzoni per corriere.it il 14 ottobre 2022.

Ore 12.50 Il leghista Claudio Borghi contro «quelli str. che non hanno applaudito». Ce l’ha con il centrosinistra 

Ore 12.10 La battuta di un cronista in tribuna: «Eletto Fontana. Menomale che al Senato c’è il moderato La Russa»

Da video.repubblica.it il 14 ottobre 2022.  

Così il segretario del Pd Enrico Letta ha commentato l'elezione a presidente della Camera dei Deputati del leghista Lorenzo Fontana. "La scelta fatta dalla Camera va contro gli interessi dell'Italia e la sposta sempre più lontana dal cuore dell'Europa", ha detto Letta. "E' una scelta che troverà fuori dall'Italia alcuni che saranno sicuramente contenti - ha aggiunto -, Putin sarà sicuramente il primo a esserlo".

Da lastampa.it il 14 ottobre 2022.  

Letta: “Fontana? Putin sarà primo ad essere contento”

«Ci hanno raccontato che starebbe stata una legislatura di moderatismo, di continuità nelle scelte nell'interesse del Paese. Mi sembra che il voto alla Camera oggi sia contro gli interessi del Paese, che ci allontana dal cuore dell'Europa, una scelta sbagliata che conferma che questa è una maggioranza spostata verso la destra, verso il sovranismo. 

Fuori dall'Italia qualcuno sarà contento, sicuramente Putin sarà il primo ad esserlo. Una scelta profondamente sbagliata per noi e siamo continuamente ancora di più all'opposizione». Così il segretario Enrico Letta dopo il voto in Aula per la elezione del presidente della Camera, Lorenzo Fontana. 

(ANSA il 14 ottobre 2022) "Con l'elezione di Lorenzo Fontana a presidente della Camera è a rischio la democrazia e i diritti di donne e Lgbt+" . A sostenerlo è Fabrizio Marrazzo, portavoce Partito Gay Lgbt+, Solidale, Ambientalista, Liberale, il quale ricorda, allegando anche un video, che "nel 2017 al congresso della Lega Fontana disse "vogliamo un Europa dove il matrimonio sia solo tra mamma e papà e altre schifezze non le vogliamo sentir nominare". Marrazzo ricorda anche che Fontana si è "distinto per la vicinanza al Governo di Putin e per le sue posizioni anti Lgbt+ e contro l'aborto.

Purtroppo la sua elezione segue quella al Senato di Ignazio Benito La Russa, anche lui anti Lgbt+, che oltre a dire a molte frasi omofobe e rigurgiti fascisti vanta anche busti ed immagini di Mussolini nella propria casa". 

"Mi domando in quale altra nazione europea e democratica sia possibile che un presidente della Camera - aggiunge Marrazzo - abbia a casa la foto di un dittatore sanguinario o definisca schifezze le coppie Lgbt+, con una premier in pectore che si ispira alla Polonia, con queste premesse i diritti civili e la nostra democrazia sono a rischio. Ciò non fermerà quel che da oggi sarà la nostra resistenza: nel 2022 non permetteremo che si ritorni indietro".

Chi è Lorenzo Fontana, l’idolo dei Pro-Vita e dell'estrema destra veronese eletto presidente della Camera. L’ex ministro ha un lungo curriculum fatto di rapporti con Putin e i suoi uomini e strette alleanze con i partiti neofascisti di mezza Europa. Oltre a prese di posizione contro Lgbt, aborto, eutanasia e Peppa Pig. E ora è la terza carica dello Stato. Simone Alliva su L'Espresso il 14 Ottobre 2022.

Convinto che la caduta dell’Impero romano sia stata causata dalla scarsa natalità. Graniticamente certo che l’immigrazione e le unioni civili puntino a «dominarci e cancellare il nostro popolo». Lorenzo Fontana, classe 1980, è stato eletto come terza carica dello Stato della Repubblica Italiana, dopo quella di presidente della Repubblica e quella di presidente del Senato. Di sé dice “veronese e cattolico”. E basta scorrere i social per capirlo, tra foto di santi e sante, invoca spesso l’arcangelo Michele per «difenderci nella battaglia» (l’arcangelo Michele è colui che conduce gli angeli nella battaglia contro il drago, cioè il demonio), il 25 aprile festeggia San Marco e non la Liberazione dal nazifascismo (quasi in sintonia con il neo-presidente del Senato). 

Con una traiettoria politica nel segno della croce e della Russia di Putin («è il riferimento per chi crede in un modello identitario di società») il deputato si è già distinto negli anni come vicesegretario responsabile esteri della Lega dal 2016, eurodeputato dal 2009 al 2018. Nel 2014 quando la Lega Nord entrò nel Gruppo ENF (Europa delle Nazioni e delle Libertà) con il Front National di Marine Le Pen si vantò: «Un’alleanza storica che ho contribuito a stipulare». 

Nel 2018 è stato ministro per la famiglia (rigorosamente al singolare) e le disabilità sino al 2019. Alla Camera ha già ricoperto il ruolo di vicepresidente ed è stato titolare degli Affari europei dal 10 luglio al 5 settembre 2019 nel governo Conte I. 

Di Verona, città laboratorio dell’estrema destra e dell’integralismo cattolico è prodotto e produttore. Sin da giovane si unisce alla Liga Veneta e ai Giovani Padani. Qui, una delle capitali della Repubblica di Salò e sede del comando generale della Gestapo, ricopre il ruolo di consigliere comunale tra il 2007 e il 2009 e di vicesindaco.

Dopo l’invasione della Russia in Ucraina, l’ex ministro ha assunto toni moderati e dialoganti, nascondendo come polvere sotto il tappetto la giostra di dichiarazioni pro-Putin e soprattutto di incontri con Alexey Komov braccio destro dell'oligarca russo Malofeev.

Il 7 dicembre 2013 al Congresso Federale Lega Nord, c’era anche Komov, a nome dell'associazione ultracattolica World Congress of Families, responsabile internazionale della Commissione per la Famiglia del Patriarcato ortodosso di Mosca e grande amico dell'oligarca Konstantin Malofeev, già molto attivo nei rapporti tra il Cremlino e i francesi del Front National. E mentre Salvini sposta definitivamente il baricentro della Lega verso la Russia, Fontana esporta in Italia i suoi contenuti (guerra alle persone Lgbt e ai diritti riproduttivi). Un rapporto fertile, quello tra il neo-presidente della Camera e l’emissario di Putin, lungo quasi un decennio. A raccontare del loro incontro su La Padania del 10 dicembre 2013 era stato un ancora sconosciuto Gianluca Savoini, che come racconterà anni dopo L’Espresso, ricoprirà un ruolo chiave durante il meeting avvenuto il 18 ottobre all’Hotel Metropol di Mosca al fine di strappare un accordo con una società petrolifera collegata a Malofeev per tentare di finanziare la Lega in vista della campagna elettorale per le elezioni europee di maggio. 

Il 10 ottobre 2016 Fontana accoglie Komov nelle vesti di eurodeputato per un dibattito dal titolo “La famiglia sotto attacco”. Una relazione ben concreta, basti pensare all’invito ricevuto dal partito “Russia Unita” a partecipare come “osservatore” (insieme ad altri leghisti) al referendum sull’annessione della Crimea e nella battaglia contro le sanzioni dell’Europa alla Russia (si presentò al Parlamento Europeo indossando la maglia “No sanzioni alla Russia”). 

Il sigillo di questa unione è visibile nella realizzazione del Congresso di Verona nel 2019, definito da Human Right Watch: “La più influente organizzazione americana esportatrice di odio”. 

Anti-scelta lo è da sempre. Molti ricordano il suo attacco alle famiglie arcobaleno (“Non esistono”) ma nello stesso giorno da neo-ministro liquidò l’aborto come "uno strano caso di ‘diritto umano’ che prevede l’uccisione di un innocente. Fino a quando ci sarà chi vuole eliminare la persona umana, scendere in piazza è doveroso”. 

Durante la presentazione del suo libro, scritto con l’economista ed ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, “La culla vuota della libertà”, disse: “La crisi demografica in Italia sta producendo numeri da guerra. È come se ogni anno scomparisse dalla cartina geografica una città come Padova. Noi non ci arrendiamo all’estinzione e difenderemo la nostra identità contro il pensiero unico della globalizzazione, che oggi ci vuole tutti omologati e schiavi”. Sull’immigrazione è netto da sempre: “la nostra azione politica sull’immigrazione si ispira al catechismo: ‘ama il prossimo tuo‘ ovvero in tua prossimità e per questo dobbiamo occuparci prima dei nostri poveri“. Di più, nel 2020 presentò anche una proposta di legge contro la cristianofobia e un ordine del giorno per impegnare il governo a occuparsi delle discriminazioni anti–cristiane.

«Oltre alla passione politica, questi anni sono legati ad un’altra grande passione: il tifo per l’Hellas Verona, rigorosamente e da sempre in curva sud», racconta lui stesso. Un dettaglio non da poco per Verona dove i politici hanno difficoltà a dichiarare fedeltà alla squadra e allo stadio, da vivaio dell’estrema destra. 

Ma con l’estrema destra Fontana ha un rapporto ben radicato, nel 2015 partecipò al “Family Pride” di Verona, un evento anti-lgbt organizzato da Forza Nuova e dal circolo Christus Rex. Al suo fianco Yari Chiavenato (ex responsabile di Forza Nuova) e Luca Castellini (un capo degli ultrà che è anche il coordinatore del Nord Italia di Forza Nuova e che alla festa dell’Hellas del luglio 2017 aveva gridato dal palco: «Chi ha permesso questa festa, chi ha pagato tutto, chi ha fatto da garante ha un nome: Adolf Hitler!»). 

Nel 2016 salutò l’ascesa degli “amici” di Alba Dorata, il movimento di estrema destra greco, di ispirazione fascista, che nel 2020 è stato dichiarato dal Tribunale di Atene come una “organizzazione criminale“. È contro l’eutanasia (è stato molto attivo sul caso di Alfie Evans: «Se non si rispetta la vita dal concepimento alla fine naturale, si arriva ad aberrazioni»), contro le adozioni da parte di coppie omosessuali e contro la cosìddetta ideologia del gender (la fake-news diffusa dall'estrema destra per contrastare gli interventi contro il bullismo omotransfobico). Durante un'intervista a L’Arena, quotidiano di Verona, spiegò che «la resistenza oggi è contro chi vorrebbe un mondo al contrario, un mondo che vorrebbe negare l’esistenza di mamme e papà, di bambine e bambini (…) i bambini vanno educati sul modello della famiglia naturale…altre formule strane non mi piacciono». 

Elogiato dall’associazione Pro-Vita che negli ultimi mesi chiedeva a gran voce che diventasse nuovamente ministro. Sempre a Verona ha partecipato ad alcune iniziative di Fortezza Europa, associazione nata quando un gruppo di militanti della sezione veronese di Forza Nuova aveva deciso di sostenere Federico Sboarina (sostenuto da Fontana, che ne è diventato vicesindaco) alle amministrative del 2017. Festung Europa, in tedesco, era il termine impiegato dalla propaganda del Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale per indicare l’Europa nazista: la parte di Europa continentale dominata dalla Germania in contrapposizione con gli Alleati anglosassoni. Nel 2019 da ministro approva e incoraggia la “Processione di pubblica riparazione per lo scandalo del Modena Pride”. 

In una delle sue ultime apparizioni pubbliche in veste da ministro, in occasione di un dibattito del Moige, Fontana, quasi a voler leggere nel futuro di una delle ultime polemiche di questa campagna elettorale, espresse dei dubbi sul cartone di Peppa Pig: «Non so se va bene per mia figlia, mi informerò». Chissà se sarà pronto a battersi anche da Presidente della Camera con la famiglia di porcellini omogenitoriali, come già annunciato su un post Facebook: «La prima e fondamentale educazione è un DIRITTO delle famiglie e non spetta né allo Stato, né alle scuole né ai mass media. Come disse Chesterton (Gilbert Keith Chesterton, scrittore inglese di inizio Novecento, ndr): “Verrà un tempo in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”. Chi difende la normalità oggi è un eroe!».

La rete di reazionari dietro Lorenzo Fontana. Dal cardinale Burke, nemico di Bergoglio, al guru di ultradestra Steve Bannon: l’inchiesta dell’Espresso del 2018 nell’internazionale sovranista con centro a Roma che costituisce il fondamento culturale del nuovo presidente della Camera. Elena Testi su L'Espresso il 26 settembre 2018.

La luce entra flebile, in lotta con le tenebre, a simboleggiare quanto avviene nelle anime dei presenti. Sei persone, quattro uomini e due donne con il capo coperto da un velo bianco. Pregano, sussurrando un’antica litania, mentre il pugno chiuso percuote il petto in segno di contrizione per tutti i peccati di cui si sono macchiati. Sono le sette e un quarto del mattino, dentro l’antica chiesa romana dalla facciata imponente a due passi da palazzo Farnese, ponte Sisto e via Giulia, le preghiere sono in latino, il prete che dice messa rivolge le spalle ai fedeli, un altro celebra per conto suo a un altare laterale, in prima fila c’è un uomo in disparte genuflesso, con il busto rivolto verso la panca. La bocca in un bisbiglio, le ginocchia rimangono inchiodate nel legno duro, senza fodera, tra le mani stringe un messale consumato, sfoglia le pagine logore velocemente, in cerca del passaggio. «Ite, missa est». Si volta e nel buio si riconosce la linea del volto. È il più ascoltato consigliere di Matteo Salvini, il senatore della Repubblica Lorenzo Fontana, il ministro della Famiglia. 

Ogni mattina all’alba, quando si trova a Roma, Fontana si dirige nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, affiancato da un collaboratore meno esperto di antichi riti, all’uscita colazione e poi si incammina verso il suo ufficio di ministro della laica Repubblica italiana. Prima, però, ogni giorno, dopo la liturgia ecclesiastica, rimane in contemplazione per alcuni minuti, si alza e si dirige verso l’altare, dove si inginocchia di nuovo. Infine apre la porta della sacrestia e parla con la sua guida spirituale, nonché politica, don Vilmar Pavesi. 

Prete della Fraternità Sacerdotale di San Pietro, fondata dal vescovo scismatico Marcel Lefebvre, scomunicato da papa Giovanni Paolo II nel 1988. La congregazione venne salvata e riammessa nella Chiesa nel 2008 da Benedetto XVI: da quel momento la Fraternità ha il permesso di celebrare la messa in latino, con l’antico rito tridentino, rifiutando la riforma della liturgia voluta dal Concilio Vaticano II che ha introdotto la messa in volgare con la possibilità per i laici di partecipare attivamente. Un’eresia per gli ultra-reazionari cattolici che fino a qualche anno fa sembravano un residuo della storia, una pattuglia di nostalgici della Tradizione. Oggi, invece, sono un’avanguardia. Il fronte più avanzato di un esercito che sta sconvolgendo la Chiesa e l’Europa. Nel buio della pluri-secolare chiesa dei Pellegrini, dove predicò san Filippo Neri, si gioca qualcosa di più di una semplice devozione a un rito passato. Si fanno vedere ministri della Lega, cardinali nemici di papa Bergoglio, americani alla Steve Bannon. In questa chiesa l’esercito si sta organizzando: qui si è visto Matteo Salvini, il porporato Raymond Leo Burke, amico di Bannon, è di casa, il vescovo Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, ha celebrato le cresime in abito porpora. L’Internazionale sovranista ha qui, nel cuore di Roma, tra madonne, crocifissi e evangelisti, uno dei suoi nascosti punti di riferimento.

Fontana è uno di loro. Un crociato che si è candidato nel 2014 al Parlamento europeo nella Lega per bloccare l’ingresso nella Ue della Turchia. Un fedele che ripudia l’epoca moderna. Un nemico acerrimo dei progressisti e amico fidato dei prelati anti-bergogliani che tessono trame politiche nel sogno di ricostituire una guida cattolica per il gregge smarrito e per l’Europa. Ma Fontana è oggi l’uomo scelto dal Governo del Cambiamento per ricoprire un ruolo strategico in tema di diritti civili. Per lui è stato creato un ministero ad hoc, la Famiglia, insieme al compagno di partito Simone Pillon, suo sottosegretario. Amici fraterni e tradizionalisti convinti, tanto da lasciare insieme, ma non prima di aver parlato alcuni minuti davanti a palazzo Grazioli, la festa della Lega offerta dal vice-premier Salvini nel super attico del ministero dell’Interno. Don Vilmar Pavesi è la sua guida spirituale, la più influente. 

Tra il ministro e il prete tradizionalista c’è un’amicizia che dura da tempo. «Veniva tutte le mattine a messa alla chiesa di Santa Toscana», confida il prelato, «ma ancora non era nessuno, lavorava alla Fiera di Verona». Era il 2005. “Lorenzo”, come lo chiama bonariamente padre Pavesi, scala i vertici del partito. Don Pavesi, arrivato dalla Spagna, nato in Brasile ma da una famiglia lombarda, viene precettato dal Carroccio come guida spirituale. Benedice sedi di partito, organizza cortei insieme a Mario Borghezio, stringe mani e partecipa alla vita politica della città. Nella sua chiesa, oltre a santi e feste comandate, si festeggia anche il 7 ottobre, l’anniversario di Lepanto, la battaglia del 1571 che, secondo i tradizionalisti, salvò l’Europa dall’invasione islamica, preservando così la fede cristiana e evitando l’infezione. Nostalgico, apertamente monarchico e intransigente verso qualsiasi apertura che non rispetti l’antica dottrina della Chiesa. Con lui il ministro per conto di Dio, ogni giorno, si consiglia, si confida, si confessa e parla di politica. 

In quegli anni il futuro ministro conosce un altro personaggio: Maurizio Ruggiero, fondatore del movimento Sacrum Romanum Imperium, per cui «la democrazia è una grande pagliacciata», dovremmo tornare «a instaurare le antiche monarchie ispirate al principio divino o alle repubbliche patrizie». Ruggiero ha sempre votato Lega e dalla Liga Veneta è sempre stato appoggiato. Insieme a lui Fontana da euro-parlamentare fonda nel 2014 il comitato “Veneto Indipendente” per chiedere l’autonomia della regione e il ritorno dell’antica repubblica di Venezia. Nel programma, tra i punti di rilievo, si legge: «Basta al disfacimento morale e spirituale della società; riaffermare i valori della Tradizione e dei nostri Padri, pienamente espressi nella Religione Cattolica tradizionale». Presidente onorario del comitato è Fontana che in quell’occasione chiarisce quale sia il suo ruolo a Bruxelles: «Il mio impegno in Europa è quello di far valere il diritto dei popoli ad essere liberi e poter vivere secondo i valori della propria storia e tradizioni, anche come entità statuali nuove e non di essere omologati ad una pseudocultura individualista e nichilista, che annienta le comunità locali imponendo modelli di vita relativisti, contronatura e immorali». 

Si costituisce un gruppo composto da veronesi di razza. Con un amico e una guida in comune: padre Pavesi. Mentre Lorenzo inizia la sua scalata dentro il Carroccio e al Parlamento, con l’intento di evitare l’annessione della Turchia all’Europa (il contagio con l’antico Impero Ottomano sarebbe fatale) e ripristinare gli stati antichi (il profilo Facebook del ministro è costellato di bandiere della Serenissima Repubblica di San Marco), a Verona continuano le bizzarre battaglie del prete tradizionalista e Ruggiero. Nell’aprile del 2011, quando il capo del Sacrum Romanum Imperium organizza nella piazza le celebrazioni delle Pasque veronesi, c’è chi irrompe e mette fine alla manifestazione. Don Pavesi non la prende bene: «Si abbatterà un cataclisma sulla città, saprete il perché», maledice. 

Diventa un problema per la Chiesa e per la stessa Lega. Nel 2009 l’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, che pure non è un progressista, decide di bloccare la benedizione della sede del partito di Villafranca, bloccando il parroco che della Lega era diventato un protagonista onnipresente. Nel 2011 Il vescovo Giuseppe Zenti, impaurito dalle sue idee, decide di allontanarlo. Lascia la città senza salutare i fedeli. Ma c’è chi sa benissimo dove si trova, ed è Fontana che ogni giorno si reca alla chiesa dei Pellegrini di Roma per incontrarlo. È stato lui a presentare Matteo Salvini a padre Pavesi ed a far in modo che l’amicizia e le consulenze continuassero negli anni. 

Non è l’unico. Nella chiesa che fu di San Filippo Neri si intrecciano giochi di potere e personaggi che lavorano per una nuova Europa cattolica. Tra questi il cardinale Raymond Leo Burke che nella parrocchia di culto tridentino celebra messa nelle festività più importanti. Nemico dichiarato di Papa Francesco, astuto e tradizionalista convertito, firmatario dei Dubia, i quesiti teologici che mettono in discussione l’infallibilità del Papa, dipingendolo come eretico per la sua eccessiva modernità. È Burke, il porporato guerriero in aperta polemica con papa Francesco, tanto da fondare un gruppo dal nome i “Guerrieri del Rosario” che hanno il compito di portare avanti la “Operation Storm Heaven”. La battaglia si svolge pregando il rosario il primo giorno di ogni mese, in unione spirituale con il cardinale Burke. L’obiettivo finale, stando alla mailing list quotidiana, è quello di «formare un esercito spirituale di Guerrieri del Rosario per assediare il Cielo con le preghiera». L’intento vero è indottrinare i fedeli, riportandoli alla retta via e ricordare loro i principi fondanti della dottrina cattolica e, quindi, secondo i tradizionalisti, dell’Occidente intero. 

È Raymond Leo Burke il cardinale di riferimento della Lega, come ammette Fontana: «A papa Francesco, preferisco lui». Amante dei salotti, conteso negli inviti della Roma che conta, e simpatizzante aperto della linea salviniana, è il porporato dagli occhi allegri e l’astuzia machiavellica che ha attratto il capo del Carroccio. Burke si è più volte lasciato andare, ammettendo sui migranti che «non dobbiamo ospitare tutti», aggiungendo poi: «Bisogna distinguere se gli immigranti siano rifugiati o se vengano solo per stare meglio». 

È Burke quel “qualcuno” che ha contattato Matteo Salvini con l’invito «di andare avanti sulla strada cominciata». Il cardinale americano è un tessitore esperto. È amico di Steve Bannon, il guru ex trumpiano, consigliere per la sicurezza nazionale, direttore del sito di ultra-destra Breitbart, che ha lasciato l’incarico per i contrasti con il presidente Trump, oggi tra gli sponsor dell’istituto cattolico retto dal porporato, la Dignitatis Humanae Institute. E così, mentre Matteo Salvini aderisce a “The Movement”, partito euro-populista ideato da Bannon, con una forte impronta cattolica, l’ex stratega della Casa Bianca, appoggiato dal cardinale Burke, parte alla conquista della politica, lanciando un nuovo progetto: una serie di corsi di formazione per giovani leader politici con l’intento di favorire la nascita di una corrente di pensiero populista e nazionalista. E cattolico tradizionalista. Nel frattempo Bannon fa sapere che passerà d’ora in avanti la maggior parte del suo tempo in Europa. Lo scopo è la conquista di Bruxelles e il ritorno all’antica Europa cattolica. Andrà a pregare per la riuscita dell’impresa sugli inginocchiatoi della Santissima Trinità dei Pellegrini? Chissà. Di certo i nuovi crociati che disprezzano la modernità vanno all’attacco, in Italia e in Europa. Il ritorno a un passato oscuro con mezzi contemporanei, potentissimi, inquietanti.

Nel discorso del presidente Fontana le omissioni sono più importanti delle parole lette. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 18 ottobre 2022 

DA TIFOSO del Verona Hellas, Lorenzo Fontana, il 14 ottobre, ha giocato a Montecitorio la ‘’partita della vita’’. È giovane, plurilaureato, in grazia di Dio, devoto della Madonna; pertanto può aspirare ad un futuro ancor più radioso. Essere stato eletto presidente della Camera ovvero terza autorità dello Stato è comunque un viatico di tutto rispetto.

È in queste circostanze che un leader politico deve dare il meglio di sé preparando, con i suoi collaboratori, un discorso che trapassi le mura di Montecitorio e, attraverso i mezzi di diffusione di massa, trasmetta ai cittadini una visione di futuro per la Repubblica. Non servono parole difficili, citazioni non comuni, perché “di parole che tutti odono sono scritte le frasi che nessuno ha udito mai’’.

Nel caso del discorso del presidente Fontana le omissioni sono molto più importanti e significative delle parole lette. Il neo presidente doveva presentarsi agli italiani smentendo le preoccupazioni che la sua elezione – a torto o a ragione – aveva suscitato. Prima di lui, al Senato, Ignazio La Russa si era accorto di questa esigenza e si era sforzato di riportare la sua storia personale e quella del suo partito all’interno dei valori della Costituzione, che non è mai neutra nei confronti della guerra civile che divise gli italiani tra il 1943 e il 1945, ma è intrisa dei valori che risultarono vincitori e bandisce in modo permanente quelli di coloro che combatterono “dalla parte sbagliata’’.

Fontana sa bene che esiste un’intera letteratura riguardante la sua vicinanza ideale a Vladimir Putin. In tante occasioni ha riconosciuto alla Russia una missione rigeneratrice della decadenza occidentale, con i medesimi argomenti del Patriarca Kirill. Molti italiani – che Fontana dovrà rappresentare – in merito alla sua elezione la pensano come Enrico Cisnetto che nella newsletter settimanale di Terza Repubblica ha scritto: “Vorrei essere una mosca a Mosca. Per poi entrare al Cremlino da qualche finestra lasciata aperta, superare i plotoni di esecuzione – se tanto mi dà tanto, devono farle fuori con la stessa ferocia con cui ammazzano gli ucraini – e infilarmi nelle stanze di Putin e dei suoi tirapiedi, per vedere lo spettacolo delle risa sguaiate e delle mani sfregate fino a consumar la pelle all’ascolto delle notizie provenienti da Roma. Figurati come se la ridono – ha aggiunto Cisnetto – nel vedere che un paese pilastro dell’Europa e della Nato – cioè quelli che Putin considera i suoi arcinemici – manifesta limiti clamorosi di tenuta della maggioranza uscita vincitrice dalle urne solo tre settimane fa, prima ancora che il Capo dello Stato abbia conferito l’incarico di formare il governo. E sai che piacere avrà fatto a quei signori trovarsi eletto presidente della Camera un fido amico della Russia, uno che ha indossato le t-shirt con la scritta “no sanzioni alla Russia”, che al tempo dell’annessione della Crimea bacchettava la Ue cattiva che non capisce la volontà di un popolo che “sente di essere tornato alla casa madre”, e che ancora dieci giorni prima della criminale invasione dell’Ucraina spendeva parole al miele per Putin. Così è, anche se non vi pare. Nel suo discorso il neo presidente non ha mai nominato Putin, non ha fatto riferimenti all’aggressione dell’Ucraina, ma la guerra era ricordata per l’esigenza di cercare la pace, con un occhio attento al Vaticano. «Il Papa sta svolgendo un’azione diplomatica a favore della pace senza uguali».

Poi, ricordando gli impegni iscritti all’ordine del giorno della XIX legislatura, il neo presidente è tornato sull’argomento con toni generici: “la prosecuzione dell’impegno nella ricerca della pace nel generale quadro della comunità internazionale e nei rapporti tra Ucraina e Russia’’. Un auspicio che rimane al di sotto di qualsiasi “minimo sindacale’’, tenuto conto delle critiche nei confronti dello zar del Cremlino, pronunciate in decine di occasioni ufficiali dal capo dello Stato: quel Sergio Mattarella definito da Fontana “perno della nostra nazione e fondamentale garante della nostra Costituzione’’. Poi dopo la più grave delle omissioni sulla guerra, il presidente ha lanciato la ‘’dottrina delle diversità’’, echeggiando vagamente concetti d’antan del Senatur, pubblicamente elogiato come Maestro.

“La ricchezza dell’Italia risiede proprio nella sua diversità e il compito delle istituzioni italiane è proprio quello di sublimare tali diversità, di valorizzarle attraverso le autonomie, nelle modalità previste e auspicate nella Costituzione. Il ruolo del Parlamento – ha proseguito un Fontana ispirato – sia all’interno delle aule che nella rappresentanza esterna, non deve prescindere dalla valorizzazione delle diversità e non deve cedere all’omologazione’’.

Poi il peana. “L’omologazione è uno strumento dei totalitarismi, delle imposizioni centrali sulle espressioni della volontà dei cittadini’’. Come la mettiamo con l’accusa di omofobia, di razzismo, di suprematismo bianco? Anche qui sarebbe stato opportuno fornire dei chiarimenti; chiedere delle scuse. Certo, sui “nuovi diritti civili’’ (che nel pensiero della sinistra hanno incautamente sostituito il marxismo-leninismo), Fontana ha delle opinioni diverse da quelle di Alessandro Zan (il che non è una colpa); ma nel momento in cui si arriva al vertice delle istituzioni sarebbe stato opportuno un po’ di revisione autocritica rispetto ad affermazioni discutibili più volte ribadite. Limitiamoci a riportare alcune performance di Fontana quando era ministro. “Abroghiamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”.

E ancora: “I burattinai della retorica del pensiero unico se ne facciano una ragione: il loro grande inganno è stato svelato”. “I fatti degli ultimi giorni – scrisse ancora Fontana – rendono sempre più chiaro come il razzismo sia diventato l’arma ideologica dei globalisti e dei suoi schiavi (alcuni giornalisti e commentatori mainstream, certi partiti) per puntare il dito contro il popolo italiano, accusarlo falsamente di ogni nefandezza, far sentire la maggioranza dei cittadini in colpa per il voto espresso e per l’intollerabile lontananza dalla retorica del pensiero unico. Una sottile e pericolosa arma ideologica studiata per orientare le opinioni’’.

Poi ecco riemergere, sia pure in modo equivoco il demone del sovranismo. “L’Italia deve dare forza alla propria peculiare natura, senza omologarsi a realtà estere più monolitiche e a culture che non diversificano. Vedete la diversità non è rottura, non è indice di superiorità di alcune realtà su altre viste erroneamente come inferiori, ma è espressione di democrazia e di rispetto della storia’’. A questo punto diventa chiaro che “i gravi problemi e le minacce esterne che provano a indebolire il nostro Paese’’, non provengono – secondo Fontana – dal Cremlino, ma da chi attraversa, con mezzi di fortuna, quei confini che Matteo Salvini vorrebbe difendere.

Non solo Fontana: tutte le volte che la Lega si è schierata contro le sanzioni alla Russia. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 19 ottobre 2022

«Bisogna fare attenzione alle sanzioni: potrebbero essere un boomerang. Loro, la Russia erano preparati da tempo, noi in Europa no» ha detto il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, a “Porta a Porta”. Di fatto continua la linea ufficialmente non a favore di Putin, ma nemmeno delle sanzioni che il presidente russo non vuole

«Bisogna fare attenzione alle sanzioni: potrebbero essere un boomerang. Loro, la Russia erano preparati da tempo, noi in Europa no», ha detto il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, a “Porta a Porta”. Comincia così il mandato del leghista appena eletto terza carica dello stato. Il suo curriculum politico e i suoi rapporti con la Russia, sin da subito avevano suscitato perplessità.

Nel 2014 insieme ai colleghi leghisti Matteo Salvini e Gianluca Buonanno si era messo la maglietta per fermare le sanzioni inscenando una protesta a Bruxelles. Da allora la Lega si è detta sempre contraria e, dopo l’invasione del 24 febbraio ha moderato i toni sottolineando solo i disagi che comportano all’Italia e all’Europa.

«Abbiamo rapporti commerciali importanti con la Russia e per questo abbiamo interesse a mediare», diceva lo stesso Fontana a metà di quel mese.

DOPO L’INVASIONE

Salvini nei mesi ha aggiustato la linea del partito nei confronti di Mosca. Né a favore di Putin, ma nemmeno delle sanzioni. Il 23 febbraio si lanciava contro Josep Borrell: «Per il capo della politica estera dell'Unione europea, le sanzioni contro la Russia servono a bloccare lo shopping dei russi a Milano e i loro party a Saint Tropez siamo al ridicolo. O forse al tragico».

In campagna elettorale il tenore è lo stesso: «Ho cambiato idea su Putin? Chi scatena una guerra ha sempre torto». Prima, «tutti, me compreso prima avevano ottima idea. Poi, quando scateni una guerra passi dalla parte del torto. Quello che mi preme è che le sanzioni che l'Ue ha giustamente messo in campo contro la Russia per metterla in ginocchio non siano pagate dagli italiani. Bisogna fermare la guerra con ogni mezzo, ma non possono essere gli italiani a pagare».

Il 7 settembre proseguiva: «La Lega ha votato tutti i provvedimenti per proteggere l'Ucraina e chi fa la guerra ha torto». Ma ribadiva che la Russia stava continuando a raccogliere denaro «mentre l'Italia e l'Europa stanno soffrendo, le sanzioni oggettivamente non servono, noi facciamo parte della squadra internazionale dei paesi liberi democratici occidentali, non decide l'Italia da sola e se si decide di andare avanti così io chiedo solo che a rimetterci non siano gli italiani».

Le sanzioni «stanno mettendo in ginocchio i miliardari a Mosca o i pensionati a Roma? È nei fatti che più che punire Mosca puniscano Milano, Roma, Palermo. Allora io dico: andiamo avanti insieme, non voglio portare l'Italia sul cucuzzolo di una montagna, ma chiedo protezione per gli italiani, perché  le bollette della luce e del gas sono un’emergenza nazionale per tutti».

Anche al meeting di Comunione  e liberazione, durante il confronto fra i leader inclusa l’atlantista Giorgia Meloni, collega di coalizione, il problema era l’Unione europea: «Non vorrei che le sanzioni stiano alimentando la guerra. Spero che a Bruxelles stiano facendo una riflessione», concludeva.

Il 6 settembre: «L'idea sulla guerra quale sarebbe? Noi continuiamo con le sanzioni; tu ti arrendi, fermi i carri armati, ti ritiri e la smetti di rompere le scatole al mondo. I primi 6 mesi di sanzioni alla Russia hanno provocato questo effetto ? No». La richiesta resta sotto traccia: «Facciamo finta che non sia così? Andiamo avanti con le sanzioni? Andiamo avanti con le sanzioni. Mettiamo al tetto al vostro gas, e ve lo paghiamo quanto diciamo noi. Piccolissimo problema: quello là cosa può fare? Chiudere il rubinetto».

SALVINI AL GOVERNO

«Dal governo spero di potere presto raccogliere l’appello del presidente della Confindustria Russia: via queste assurde sanzioni», si leggeva sul Corriere della Sera quattro anni fa. Il piano per abbattere le sanzioni è stato quasi attuato. Dopo le elezioni del 2018 il contratto di governo tra Movimento e Lega recitava: «Si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tal proposito, è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)».

Da lì la visita di stato di Vladimir Putin e del leader della Lega a Mosca. Mentre organizzava incontri con gli imprenditori di Confindustria Mosca si parlava addirittura di veto, l’ultima carta da usare nella partita con l'Ue, senza poter «escludere nulla». Il governo con il Movimento si è sciolto poche settimane dopo che si è scoperto che l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, trattava un finanziamento con Mosca per il partito attraverso la compravendita di gasolio.

A febbraio 2020: «Continuo a pensare che la Russia debba essere un partner che non va lasciato nelle braccia della Cina: credo che la politica delle sanzioni sia demenziale. Lo dico da 4 anni e non ho cambiato idea».

Il 20 settembre del 2021 preconizzava: «Ci saranno tanti cambiamenti sulla politica estera penso che avere buoni rapporti con la Russia sia fondamentale, soprattutto dopo il problema in Afghanistan». Quindi «rinnovare a vita le sanzioni contro la Russia non è utile per nessuno», concludeva Salvini.

L’intenzione di togliere le sanzioni è rimasta fino all’inizio della invasione. La delusione per il fatto che la Lega al governo non ci sia riuscita è arrivata direttamente da Silvio Berlusconi, che nel 2019 se la prendeva con lui: «Salvini aveva promesso, una volta al governo, che avrebbe tolto le sanzioni: non l'ha fatto. Bisogna riportare la Russia in Occidente. Non possiamo girare la testa dall'altra parte», aveva sottolineato il leader di Forza Italia nel corso della kermesse #IdeeItalia organizzata dal partito a Milano. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Dalla Russia, ai gay, all’aborto. Fontana spiegato da Fontana. Il Domani il 14 ottobre 2022

Abbiamo scelto 14 citazioni che in passato sono state pronunciate dal nuovo presidente della Camera. Spiegano meglio di tanti commenti quali sono le sue idee politiche

«No a un presidente omofobo e pro-Putin». Così il deputato Alessandro Zan e alcuni suoi colleghi hanno accolto l’elezione di Lorenzo Fontana a presidente della Camera. Ma chi è veramente il deputato leghista? Una carrelata delle sue frasi migliori può sicuramente essere utile per avere un’idea.

«Lo diciamo da sempre: i detenuti stranieri devono scontare la pena nei rispettivi paesi d’origine. Certo non basta dirlo e sarebbe anche importante non essere i soli. Gli altri preferiscono parlare di amnistia e indulto. Noi no».

17 maggio 2013 

«Il capo dello stato è il servo intelligente di questi potentati europei che stanno impoverendo la nostra economia. Napolitano, ricordo, è colui che mette prima Monti e poi Letta al governo per desiderio di Bruxelles. Ma adesso quelli come lui hanno paura, temono la forza della Lega e dei suoi alleati europei. Napolitano è un simpatico 88enne, ma forse è ora che se ne vada in pensione mentre la Lega manderà a casa i suoi amici europei».

4 febbraio 2014

«La battaglia contro l’euro ovviamente è il primo punto del nostro programma perché rimanendo nella moneta unica le nostre economie non potranno mai ripartire. Poi però vogliamo cambiare la rotta dell’Europa anche sull’immigrazione clandestina, sulla politica di allargamento dell’Unione a paesi che poco o nulla hanno a che fare con noi e sulla difesa dei nostri prodotti dalla concorrenza sleale dei prodotti esteri, se occorre anche con l’introduzione di barriere doganali».

27 marzo 2014

«È giusto avere una limitazione del numero degli stranieri, anche europei, nelle squadre di calcio italiane. Quando c’erano al massimo due-tre stranieri andava bene, questa è la direzione per far tornare il calcio uno sport con sentimenti di appartenenza».

31 luglio 2014

«La vittoria di Russia Unita, il partito di Putin, nelle elezioni regionali in Crimea è l’attestazione di come il popolo della Crimea sente di essere tornato alla casa madre. Non si tratta di essere pro o contro Putin, ma pro o contro un popolo».

16 settembre 2014

«Presepe e crocifisso appartengono alla nostra cultura, fanno parte della nostra tradizione e andrebbero spiegati nelle scuole. Invece abbiamo insegnanti e presidi che forse non conoscono gli usi e i costumi del proprio paese e addirittura vorrebbero vietare l’esistenza del Natale».

1 dicembre 2015

«Dietro lo ius soli si cela solo un interesse elettorale della sinistra, che non si fa scrupoli a far politica sulla pelle dei bambini. Quella legge è un incentivo all’invasione. È il cavallo di troia per la sostituzione dei nostri popoli che rischiano la colonizzazione nel giro di una generazione».

12 ottobre 2016

«Viktor Orbán ha ragioni da vendere: il governo italiano, con la sua politica delle porte aperte e dell’accoglienza facile, sta mettendo in pericolo tutta l’Europa».

28 ottobre 2016

«La proroga delle sanzioni alla Russia è l’ennesimo atto autolesionistico dell’Europa. Mentre l’America si prepara a una nuova stagione di apertura alla Russia, grazie al presidente eletto Trump, l’Europa continua a fomentare la guerra contro Mosca».

15 dicembre 2016

«Nelle università non vedo la necessità di tutti questi laboratori gender che interessano a una sparuta minoranza di persone. Non comprendo il libretto alias che riguarda pochissime persone. Queste iniziative servono agli studenti o sono un laboratorio di indottrinamento? A me pare che ci sia la volontà specifica da parte di un nucleo di persone di educare alla teoria del gender».

25 aprile 2017

«La Lega è contro l’Europa della massoneria, dei Soros, della grande finanza, della globalizzazione, dell’omologazione, di chi vuole l’invasione islamica delle nostre terre».

21 maggio 2017

«Restringere il diritto all’aborto è un tema che nel Contratto non c’è, credo anche che nella maggioranza non esista una sensibilità di questo tipo. Purtroppo, a mio modo di vedere».

2 giugno 2018

«Abroghiamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano».

3 agosto 2018

«La sinistra s’indigna per la visita del primo ministro di un paese europeo (Viktor Orbán ndr). Soros invece era il benvenuto!»

29 agosto 2018 

VITA E OPERE DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA. Lorenzo Fontana, dall’amico dell’oligarca di Putin al padre spirituale contro i gay. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 14 ottobre 2022

Vicino all’organizzazione mondiale che si batte per la famiglia tradizionale, Fontana è notoriamente filorusso. E ha come guida un parroco durissimo contro gay e aborto

Lo spirito filorusso di Lorenzo Fontana è secondo solo a Gianluca Savoini, il regista, cioè, della trattativa all’hotel Metropol di Mosca che aveva l’obiettivo di portare denaro fresco del Cremlino nelle casse della Lega di Salvini in ottica campagna elettorale per le Europee del 2019. Fontana, oltre a essere putiniano di ferro, è il collante del partito con i cattolici radicali di Pro Vita e con i collaboratori più stretti dell’oligarca ortodosso Konstantin Malofeev, pure lui coinvolto in alcune trattative con Savoini. 

Fontana durante il suo mandato da europarlamentare ha stretto queste relazioni soprattutto attraverso l’ambiente del World Congress of family, l’organizzazione mondiale che si batte per la famiglia tradizionale, contro le coppie gay e l’aborto. Del Wcf fa parte Alexey Komov, fedelissimo di Malofeev, ospite d’onore al congresso della Lega Nord del dicembre 2013, ossia l’evento di incoronazione di Salvini a segretario del partito.

L’AMICO CARO DELL’OLIGARCA

Non è un caso che il Wcf abbia organizzato uno degli eventi annuali più importanti a Verona nel 2019, l’anno in cui la Lega governava il paese insieme ai Cinque stelle. E Fontana era ministro della famiglia. Al congresso veronese hanno partecipato le sigle più estreme dalla destra politica e religiosa. Dalle associazioni pro vita alle sigle collegate ai neofascisti di Forza Nuova e di altri gruppi “neri” internazionali. 

Il ministero di Fontana all’epoca ha concesso il patrocinio all’evento non senza polemiche. Tanto che poi è stato ritirato, perché la presidenza del consiglio dei ministri si smarcò da Fontana: «Una sua iniziativa personale». L’allora ministro della Famiglia e disabilità era tra i relatori presentati nel programma, insieme al suo leader Salvini. Tra gli speaker, naturalmente, c’era anche Komov. 

Una vecchia conoscenza, dicevamo, quella tra Fontana e Komov, l’uomo dell’oligarca considerato lo stratega del Cremlino nei rapporti con i partiti di estrema destra in Europa e sotto sanzioni per essere uno dei più violenti sostenitori dell’invasione russa in Ucraina. 

Uno dei primi incontri pubblici tra Fontana e Komov risale al 2014. A Rovereto, in provincia di Trento, erano seduti allo stesso tavolo nel palazzo della fondazione cassa di Risparmio, il leghista originario di Verona, al tempo europarlamentare, e il russo, console di Malofeev in Occidente. Titolo del convegno: «Russia ed Europa, le sfide del terzo millennio». Tra gli sponsor dell’evento troviamo una serie di associazioni collegate a gruppuscoli radicali con radici neofasciste, l’organizzazione Pro Vita (molto vicina anche a Forza Nuova), il World congress of family e il consolato russo a Bolzano. 

Fontana ha avuto anche rapporti con Palmarino Zoccatelli, leader dell’associazione Veneto-Russia, e imprenditore che ha investito nella piccola repubblica di Calmucchia, zona

meridionale della Federazione, Mar Caspio, l’unico distretto russo a maggioranza buddhista. Qui Zoccatelli aveva fondato una società con Eliseo Bertolasi, di recente presentato tra gli osservatori “imparziali” del referendum farsa di annessione dei territori ucraini alla federazione russa. 

L’EX BANCHIERE DELLO IOR

Di Fontana pochi ricordano una sua fatica letteraria. Un libro scritto con il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, il forziere del Vaticano. Economista cresciuto in McKinsey, è stato consigliere dell’allora ministro Giulio Tremonti, membro del consiglio d’amministrazione di Cassa depositi e prestiti, presidente del fondo F2I.

Il tema del libro è la famiglia. Vero e proprio manifesto politico sulla famiglia intesa in senso sovranista e tradizionale. È stato pubblicato a febbraio del 2018 da Fede e Cultura, una piccola cooperativa editoriale di Verona.

Si chiama La culla vuota della civiltà e ha l’ambizioso scopo di spiegare l’origine della crisi del nostro paese. La risposta? Gli italiani fanno pochi figli, questa la principale causa del declino economico della nazione. Tesi a cui segue un corollario caro ai sovranisti: invece di incentivare le nascite, i governi precedenti hanno scelto di colmare il gap demografico con i flussi migratori.

Il libro è accompagnato da una prefazione firmata da Matteo Salvini. Le tesi espresse sono quelle che Fontana ha ribadito più volte schierandosi contro l’interruzione volontaria di gravidanza, i matrimoni gay, le unioni civili. 

IL PADRE SPIRITUALE

Un’inchiesta del settimanale L’Espresso nel 2018 aveva intercettato il padre spirituale di Fontana, Vilmar Pavesi. Parroco di riferimento del mondo pro vita, durissimo contro gay e aborto. Sui primi diceva: «Sono istigati dal diavolo, dietro ogni peccato di sensualità e lussuria c’è la mano del maligno».

Pessimo pure il suo giudizio sulle donne: «In questa chiesa vengono solo uomini, perché le ragazze e le donne si sono molto adeguate a questo mondo e non vogliono andare controcorrente. E poi ci vuole uno sforzo mentale per seguire una messa in latino. I ragazzi con i libri in mano si trovano più a loro agio».

Infine sull’aborto: «È un crimine. Una società che uccide i propri figli, lo fa per un capriccio. Cosa era un principe? Era un padre di tutti i padri. È ereditario, perché quella era la famiglia e questo dà un grande senso di stabilità. L’aborto va a distruggere l’idea di civiltà. È un capriccio. Non esiste famiglia senza rinuncia».

Così parlava la guida religiosa dell’allora ministro, oggi eletto dalla destra presidente della Camera di tutti gli italiani. 

GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini. 

Camera, Fontana eletto presidente con l’ok di Forza Italia: ma mancano almeno 15 voti dal centrodestra. Carmine Di Niro su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

È il grande giorno di Lorenzo Fontana. Il vicesegretario della Lega è stato eletto presidente della Camera dei Deputati nella seconda giornata di lavori del nuovo Parlamento, in cui era prevista la fumata bianca dopo i tre voti di ieri andati a vuoto per l’impossibilità del centrodestra di raggiungere il quorum qualificato.

 A sancire il superamento del traguardo, mentre ancora il presidente provvisorio Ettore Rosato sta scrutinando le schede, è un lungo applauso in aula da parte dei deputati del centrodestra, che si sono alzati anche in piedi, mentre dall’altro lato dell’emiciclo nessuna reazione e nessun applauso per il neo-presidente.

A Fontana sono andati 222 voti, ben 15 sotto la maggioranza di centrodestra uscita dalle urne del 25 settembre. ‘Franchi tiratori’ anche per Enrico Letta e il PD: la candidata di bandiera Maria Cecilia Guerra, appoggiata anche da +Europa e Sinistra-Verdi, ha ottenuto 77 voti contro gli 84 a disposizione. In linea invece i voti per i candidati di 5 Stelle e Terzo Polo: Cafiero de Raho ha ottenuto 52 voti, Matteo Richetti 22, tre in più della sua base parlamentare contando l’assenza di Elena Bonetti e il non-voto di Ettore Rosato presidente di turno della Camera.

Un voto è andato a Debora Serracchiani, capogruppo uscente del PD, uno a Riccardo Molinari, che aveva lo stesso ruolo nella Lega e che era stato il candidato in pectore del Carroccio fino alla svolta su Fontana. Sono state sei invece le schede bianche e undici le nulle.

IL DISCORSO DI LORENZO FONTANA

Su Fontana, ex ministro e figura al centro delle polemiche per le sue posizioni anti-aborto, anti-Lgbt e favorevoli alla Russia di Putin, è arrivata la convergenza anche Forza Italia. Un voto “per non sprecare altro tempo, ma da noi devono passare. Giorgia Meloni non può mica pensare di andare avanti con i voti dell’opposizione“, la posizione di Berlusconi espressa ai suoi.

Un riposizionamento rispetto al voto di ieri al Senato, dove gli azzurri avevano clamorosamente fatto mancare l’appoggio a Ignazio La Russa, il ‘colonnello’ di Fratelli d’Italia eletto con 116 voti, di cui 17 arrivati a sorpresa dalle opposizioni dopo la defezione di Forza Italia. A votare per La Russa, negli azzurri, i soli Berlusconi e l’ex presidente del Senato Elisabetta Casellati.

L’opposizione oggi nell’Aula di Montecitorio ha invece provato a “contarsi”. Il Partito Democratico ha annunciato tramite il suo segretario Enrico Letta, che ha riunito i suoi nell’assemblea dei deputati, il voto per Maria Cecilia Guerra come candidata di bandiera.

“Tra ieri e oggi abbiamo cercato un nome condiviso che potesse andare anche oltre il nostro schieramento. Ho tenuto contatti con gli altri su un profilo autorevole e un nome il meno divisivo possibile. Questo nome è quello di Maria Cecilia Guerra. L’ho comunicato alle altre opposizioni. Non so se saremo in grado di avere il consenso di tutti, alcuni segnali sono stati positivi, ma è stata una mossa nell’interesse collettivo. Questa proposta deve trovare il consenso di tutti noi, dobbiamo dimostrare compattezza. In questo momento bisogna essere uniti e determinati”, ha detto Letta.

Una proposta accolta da Sinistra Italia-Verdi e da +Europa, che hanno annunciato il voto su Guerra. Appello respinto invece dalle altre opposizioni. Azione e Italia Viva hanno votato infatti per Matteo Richetti, già destinato a diventare capogruppo a Montecitorio, ma anche il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ha scelto un proprio candidato: si tratta dell’ex magistrato Federico Cafiero De Raho, già Procuratore nazionale antimafia.

In Aula è andata in scena anche la protesta del Partito Democratico. Tre deputati, tra cui Alessandro Zan e Rachele Scarpa, hanno esposto uno striscione a Montecitorio su cui si legge: “No a un presidente omofobo pro Putin”, con chiaro riferimento allo stesso Lorenzo Fontana. Il presidente provvisorio Ettore Rosato ne ha chiesto la rimozione ai commessi, che lo hanno sottratto ai deputati Dem che lo avevano esposto in apertura dei lavori per la quarta votazione.

Proprio le note posizioni di Fontana sulla Russia restano comunque un fronte aperto nel centrodestra. Un avvertimento lo si legge chiaramente nelle parole di Giorgio Mulè, sottosegretario alla Difesa uscente di Forza Italia, tra gli uomini più vicini a Berlusconi, che pur sottolineando che “su Fontana non c’è nessun tipo di disaccordo“, sulle posizioni politiche pro-Russia del futuro presidente della Camera “ove mai dovesse prendere delle posizioni che andassero in contrasto con quello che è la storia e il nostro ancoraggio totale ai valori come l’atlantismo e l’europeismo, non mancheremo di segnalarlo e di intervenire con tutta la forza che sarà necessaria“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Le parole della terza carica dello Stato. Il discorso di Lorenzo Fontana neo presidente della Camera: i riferimenti ai santi e al Papa, il passaggio su “diversità” e “diritti”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Ottobre 2022. 

Tanto spazio alla diversità, territoriale ma non sessuale, molteplici riferimenti ai santi e un richiamo alla centralità del Parlamento. Sono alcuni dei punti chiave del discorso di Lorenzo Fontana, neo presidente della Camera dei Deputati eletto con 222 voti, che si è insediato oggi sullo scranno più alto di Montecitorio.

Un profilo profondamente divisivo, quello di Fontana, noto per le sue posizioni ultracattoliche: entrando in Aula per assumere la presidenza, per lui gli applausi sono arrivati solo dalla parte di emiciclo occupata dal centrodestra, con vistosi spazi vuoti tra i banchi dell’opposizione. Fontana contestato anche all’inizio della seduta di questa mattina, con alcuni deputati del PD che hanno esposto lo striscione “No a un presidente omofobo pro Putin”.

I ringraziamenti

Un discorso che si è aperto con i ringraziamenti di rito, “chi mi ha votato e chi no, sarà mio onore dirigere il parlamento”, sono state le prime parole di Fontana.

Il neo presidente della Camera ha rivolto quindi un “vivo saluto” al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, definito “perno della nostra nazione e fondamentale garante della Costituzione”, e rivolto congratulazioni al neoeletto presidente del Senato Ignazio La Russa ma anche un ringraziamento al suo predecessore Roberto Fico.

Tra i ringraziamenti anche quello a Umberto Bossi, il ‘senatur’ fondatore della Lega (all’epoca ancora Nord), “senza il quale non avrei iniziato la mia attività politica”.

I riferimenti cattolici

Tra i saluti, il primo di Fontana è andato “al pontefice Francesco, che rappresenta un riferimento spirituale per la maggioranza dei cittadini italiani e promuove il rispetto dei più alti valori morali nel mondo”. Un Papa, ha aggiunto Fontana rifacendosi ai temi di attualità come la guerra in Ucraina, che “sta svolgendo un’azione diplomatica a favore della pace senza uguali”.

A differenza di Ignazio La Russa, da Fontana non sono arrivate parole di solidarietà nei confronti dell’Ucraina né un esplicito riferimento alla Russia: una questione oggetto di polemiche visto il passato da ‘fan’ di Vladimir Putin del neo presidente della Camera.

E da ultracattolico Fontana ha poi citato altre figure religiose. Prima Carlo Acutis, ragazzo morto a quindici anni e beatificato pochi anni fa, quindi una citazione di san Tommaso d’Aquino: “Il male non è il contrario del bene, è la privazione del bene”.

La centralità del Parlamento

Un richiamo forte è arrivato anche sul ruolo centrale delle due Camere rispetto all’esecutivo. La legislatura che sta iniziando, sono state le parole di Fontana, “dovrà riaffermare il ruolo centrale del Parlamento come luogo delle decisioni politiche” e servirà una “rinnovata attenzione sulla qualità delle leggi che saremo chiamate a elaborare: leggi oscure o imperfette si traducono in costi per i cittadini, dispendio energie e nei casi più gravi negazione dei diritti”. Il neo presidente ha aggiunto quindi che servirà “una inversione di tendenza tra potere normativo del governo e del Parlamento”.

Diversità e diritti

Spazio anche a due temi ‘difficili’ per un politico con la storia di Lorenzo Fontana, i diritti e la diversità. In entrambi i casi, e non è casuale, il neo eletto presidente della Camera evita ogni riferimento all’universo Lgbt.

Fontana nel suo intervento dopo la proclamazione parla di una Camera che “rappresenta le diverse volontà dei cittadini”. “La nostra è una nazione multiforme con diverse realtà storiche e territoriali che l’hanno formata e l’hanno fatta grande: la grandezza dell’Italia è la diversità. Interesse dell’Italia è sublimare le diversità”, le parole del presidente. Quello che bisogna evitare, ha affermato Fontana, è “l’omologazione, strumento dei totalitarismi”.

Quindi la riflessione sui diritti, con Fontana che ricorda come “bisogna assicurare a tutti i cittadini la pari dignità sociale: il Parlamento sia promotore dei diritti di tutti, soprattutto i più vulnerabili e fragili”. Qui è arrivato anche un appello al lavoro congiunto di maggioranza e opposizioni, che “dovranno dialogare e garantire piena collaborazione con gli altri organi costituzionali”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di polit

Eletto il presidente della Camera. Chi è Lorenzo Fontana: l’erede di Pertini e Ingrao che ti fa rivalutare La Russa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

Negli anni Sessanta anche i ragazzini si interessavano alla politica. Credo che nacque così la generazione del ‘68. Leggevamo i giornali, sentivamo la radio. Calcio, ciclismo e politica. Quando facevo la prima media seguii con grande passione l’elezione del presidente della Repubblica. Ascoltavo lo scrutinio alla radio e segnavo i voti con una crocetta sul quaderno a quadretti di matematica. Segni, Segni, Segni, Terracini.

Mi sembrava una sfida quasi alla pari. Facevo tifo per Terracini non per comunismo infantile ma perché Segni era in vantaggio e a me piaceva l’idea della rimonta. Non sapevo che era impossibile. Vinse Segni, infatti. L’anno dopo seguii anche la campagna elettorale, quella del ‘63, e cercai di capire che differenza ci fosse tra comunisti e socialisti; poi assistetti all’elezione del presidente della Camera. Aveva un gran nome: Leone. Non aveva solo un gran nome, era un personaggio di straordinario rilievo, come giurista e come avvocato. Io non ero ancora in grado di apprezzare queste doti, e qualche anno dopo, ormai ventenne, andai su tutte le furie per la sua elezione al Quirinale, contro Moro, grazie ai voti dei fascisti di Almirante.

Leone durò poco alla presidenza di Montecitorio, perché lo chiamarono – lo facevano spesso quando non sapevano che pesci pigliare – a palazzo Chigi per fare un governo di transizione. Stava nascendo il centrosinistra e c’era un bel casino. Al posto suo elessero al vertice della Camera un ex magistrato, molto stimato: Brunetto Bucciarelli Ducci. Lo votarono anche i comunisti. Togliatti dichiarò che Bucciarelli “dava tutte le necessarie garanzie di competenza, prestigio e responsabilità”. Tra qualche riga ci torno su queste parole del feroce “Ercoli”.

Bucciarelli Ducci tenne con saldezza la presidenza, anche in momenti difficilissimi come il minacciato colpo di Stato del 1964 e poi l’inizio del travolgente ‘68. Se ne andò in punta di piedi e restò una figura di alto profilo anche se all’inizio degli anni 80 fu un po’ travolto dallo scandalo della P2.

Dopo di lui venne Pertini, partigiano e comunicatore e tempra senza paragoni nella sua generazione. Poi Ingrao, tra i politici del dopoguerra forse il più colto e il più nemico del potere, e poi il monumento Nilde Jotti, rispettato da tutti, ma proprio da tutti. Ecco, scusate se ho fatto un po’ di cronaca antica. Ma ieri, quando ho sentito che era stato eletto presidente della Camera Lorenzo Fontana, chissà perché, mi sono tornati in mente quei nomi lì: Bucciarelli, Leone, Pertini, Ingrao, Iotti, Napolitano… e poi i nomi più recenti: Boldrini, Fico, Fontana. Ho avuto un lieve giramento di testa. Ho pensato: deve essere passato ormai senza freni il motto e l’ideologia grillina: uno vale uno. Fico vale Ingrao.

Fontana lo ho conosciuto qualche giorno fa, perché abbiamo partecipato insieme a una trasmissione televisiva. Mi è sembrato un ottimo ragazzo. Poi ho sentito il suo discorso di insediamento, mi è sembrato sempre un ottimo ragazzo, col quale giocherei con piacere a calcetto, anche se temo che sia molto più forte di me. (Più forte a calcetto, dico…). Ma davvero sarà lui l’erede di Pertini? E in che modo è stato scelto? Mi tornano in mente le parole di Togliatti: “competenza, prestigio, responsabilità”. Bucciarelli aveva fatto parte della Democrazia cristiana clandestina, a Bari, insieme al giovane Moro. Non vi voglio nemmeno raccontare i precedenti politici di Pertini e Ingrao. E Fontana? Dicono che sia celebre per la sua opposizione all’aborto. Andiamo bene…

Mi son riletto l’articolo che ho scritto ieri su La Russa. E poi ho riletto anche l’articolo che ha scritto il mio amico David Romoli. Credo che sia necessaria una correzione. Netta. Siamo stati molto critici con La Russa. Errore. Dopo aver ascoltato Fontana ho pensato che Ignazio sia un gigante. Sì, sì, fascista, fascista finché vi pare, ma un bel tipo, che fa parte della storia della Repubblica, che l’ha vissuta, che la conosce, che sa anche parlarne, che ha dimestichezza con le idee e con le ideologie… se poi gli scappa l’idea di fare la festa del regno, e un pizzico di nostalgia per il ventennio non la nasconde mai, francamente glielo perdoniamo. Contrordine, compagni: dopo aver ascoltato Fontana ti viene spontaneo dire così: per fortuna che c’è La Russa… 

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La diversità sottratta al politically correct. Adesso che Lorenzo Fontana è diventato presidente della Camera, improvvisamente, per molti è diventato il babau assoluto. Francesco Maria Del Vigo il 15 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Adesso che Lorenzo Fontana è diventato presidente della Camera, improvvisamente, per molti è diventato il babau assoluto. Non solo per quelli che per anni hanno partecipato alla caccia alle streghe nei confronti di coloro i quali non fossero di sinistra e, quindi, lo avevano già messo ampiamente nel mirino per le sue posizioni conservatrici e tradizionaliste. «È divisivo», accusano i suoi detrattori che poi sono gli stessi che hanno elevato allo stesso ruolo politico e a una sorta di santità morale ed istituzionale Laura Boldrini, talebana della sinistra più radicale, pauperista, immigrazionista e laicista. E quindi ultra divisiva. Ma lei si aggirava per quei bassifondi, molto ben frequentati, del politicamente corretto e quindi non le si poteva dire niente. Era ed è una intoccabile. Il leghista Fontana, invece, è, e temiamo sarà, il bersaglio perfetto per il tiro al bersaglio dei radical chic annoiati: difende la famiglia tradizionale, è religioso e critica la lobby lgbtq+. Insomma, le ha proprio tutte, ma soprattutto gliene manca una fondamentale: non è di sinistra. Anzi è trucemente leghista, come direbbero quello che abitano i salotti buoni. Eppure il babau, nel suo primo discorso da numero uno di Montecitorio, ha detto una frase che è il contrario della biografia non ufficiale che la sinistra cerca di appiccicargli sulla fronte: «La Camera rappresenta le diverse volontà dei cittadini: la nostra è una nazione multiforme con diverse realtà storiche e territoriali che l'hanno formata e l'hanno fatta grande: la grandezza dell'Italia è la diversità. Interesse dell'Italia è sublimare le diversità». Vi sembra un discorso da babau? A noi sembra un elogio delle specificità e delle differenze, delle unicità che arricchiscono e ci consegnano un Paese ricco di sfaccettature, un esercizio di addizione e non di sottrazione. Ma anche un giusto atto di accusa nei confronti della livella del luogocomunismo, del politicamente corretto che tutto ottunde e della cancel culture che tutto elimina. Fontana, se muove da questi presupposti, parte bene: perché la sublimazione delle diversità è innanzitutto difesa della democrazia, specialmente in un periodo così minacciato dall'omologazione culturale e intellettuale. Ed è proprio nel nome della diversità che gli italiani, lo scorso 25 settembre, hanno consegnato con decisione il governo nelle mani del centrodestra che ora - senza perdersi in liti interne - deve dimostrare di essere differente da chi lo ha disastrosamente preceduto.

Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa citano Papa Francesco: ma le loro idee sono all’opposto di quelle di Bergoglio. Angela Azzaro su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

Omofobo, antiabortista, filo Putin. Lorenzo Fontana questo Papa non lo ha mai amato. Anzi, quasi nessuno nella destra lo ama. Francesco appena è stato eletto è andato a posare una corona di fiori nel Mediterraneo, in quel cimitero senza croci dove continuano a morire i migranti e dove – è nel programma di Fratelli d’Italia e Lega – si vuol continuare a respingere gli uomini e le donne che arrivano in Italia in fuga da guerre e povertà. Ma respingere vuol dire condannare a morte: una condanna contro cui il papa si è scagliato e non smette di farlo.

Francesco sta da una parte, Fontana sta dalla parte opposta. Due parti non solo inconciliabili ma antagoniste: due idee di mondo che confliggono. Quella di papa Francesco non solo parla di accoglienza, ma di fratellanza, di solidarietà, di redistribuzione della ricchezza, di rispetto dell’ambiante. L’idea di mondo di Fontana è fondata sull’odio: dei migranti, delle donne, della comunità lgbtq+ e sottende una società fondata sui confini, sui muri, sul potere di chi ha di più. Il fatto che, nel suo discorso iniziale, il neo presidente della Camera abbia citato papa Francesco, definendolo una guida, colpisce perché si coglie l’uso strumentale che viene fatto di una figura così autorevole, al di sopra di qualsiasi propaganda di partito. Strumentale perché Fontana propone una politica lontana anni luce dal Vaticano. E lo è anche sulla guerra e sulla pace.

Filo putiniano, Fontana non aderisce alla cultura della pace, né alle richieste dei movimenti contro il riarmo. La sua posizione è tutt’altra anche se silenziata dalle decisioni assunte prima da Draghi e che ora ispirano Giorgia Meloni: Fontana tifa per Putin, tifa per l’aggressore, per chi vuole ricostruire la grande Russia. Niente a che vedere con il prezioso lavoro diplomatico e intellettuale fatto da Bergoglio fin dall’invasione dell’Ucraina. In totale solitudine rispetto ai media mainstream e alla diplomazia internazionale Francesco ha chiesto di costruire la pace, di far di tutto per intraprendere questa strada. Ma è rimasto inascoltato.

Prima al Senato Ignazio La Russa, poi ieri Fontana alla Camera, i due neo presidenti ci hanno tenuto a citare nel loro discorso di insediamento proprio lui, quel papa che punta il dito contro i potenti, contro coloro che non hanno a cuore l’Altro. Mai citazione è risultata più retorica. Forse Fontana pensa di potere tirare dalla sua parte le posizioni del papa su famiglia e aborto. Ma anche su questo, sbaglia di grosso perché sono lontane, lontanissime da rigurgiti reazionari del Family day. Quella piazza che incita all’odio e che piace tanto al presidente della Camera.

Il governo di Giorgia Meloni avrà – dicono – poco spazio di manovra rispetto alle scelte economiche e di carattere internazionale. La crisi è troppo pericolosa per perseguire sogni sovranisti, quelli vanno bene durante la campagna elettorale per prendere voti, ma quando si governa è tutt’altra cosa. La battaglia politica e delle idee si giocherà soprattutto sui temi della libertà, dei diritti, dei migranti, sulla idea di convivenza. La scelta di Fontana come presidente della Camera indica una strada molto chiara, preoccupante.

Il messaggio di Francesco su migranti, pace, carcere, poveri verrà ascoltato? Verrà accolto? Suggerirà un cambiamento? Temiamo di no, non accadrà. E a quel punto le parole del papa, le sue battaglie per un mondo più giusto saranno ancora più preziose, ma cadranno in un silenzio ancora più forte. La sua solitudine di cui abbiamo parlato sembrerà ancora più intollerabile.

Ps: Ottima l’ipotesi di Zan vicepresidente alla Camera!

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Camere, La Russa e Fontana divisivi? I Dem dimenticano tanti predecessori. Riccardo Mazzoni su Il Tempo il 17 ottobre 2022

La sinistra non cambia mai verso: resta abbarbicata ai suoi pregiudizi ideologici che la portano a rifiutare sia la realtà delle sconfitte che le lezioni della storia. Il centrodestra ha stravinto le elezioni e ha eletto alla presidenza delle Camere due personaggi identitari dei due partiti della coalizione che hanno ottenuto più seggi.

La Russa è orgogliosamente un politico di destra proveniente dalle file missine, ma ha già rivestito ruoli istituzionali importanti, e il suo discorso d'investitura è stato un impeccabile manifesto di equilibrio e di sobrietà; Fontana è sicuramente un integralista cattolico ostile al mondo Lgbt e con un passato filoputinista, dal quale ha però da tempo preso le distanze. Comunque la si pensi, si tratta di due scelte su cui è ovviamente lecito dissentire, ma pienamente legittime, ed è quindi imperdonabile che un ex premier come Enrico Letta abbia scelto un palcoscenico internazionale per denunciare la «logica incendiaria» che avrebbe portato alla loro elezione, perché attaccare in modo così virulento le istituzioni significa fare un danno all'Italia, come ha prontamente rimarcato Giorgia Meloni.

Ma se La Russa e Fontana sono considerati due personaggi «divisivi» e quindi inadatti a ricoprire le più alte cariche dello Stato - come se la sinistra avesse il diritto esclusivo di distribuire patenti di agibilità democratica - allora viene spontaneo ricordare un precedente speculare e molto più sgrammaticato proprio dal punto di vista politico-istituzionale: le elezioni del 2013 - a differenza delle ultime - si erano concluse con un sostanziale pareggio (la leggendaria «non vittoria»), ma il Pd non esitò ugualmente ad eleggere Laura Boldrini alla presidenza della Camera e l'ex magistrato Pietro Grasso al Senato con una mossa del cavallo che avrebbe dovuto aprire la strada a un governo del cambiamento con Bersani premier e l'appoggio del MoVimento.

Fu un autentico azzardo, fallito poi fragorosamente nel famoso confronto in streaming con la delegazione grillina che segnò l'umiliazione del leader piddino e la sostanziale fine della sua segreteria. Mentre l'unica soluzione realistica, a cui stava lavorando Napolitano, era un governo di larghe intese, il Pd mise quindi due dita negli occhi del centrodestra imponendo alla guida delle Camere una pasionaria della sinistra radicale e un alfiere del giustizialismo giacobino, che sarebbe risultato determinante, operando una forzatura regolamentare, nel determinare la cacciata di Berlusconi dal Senato.

Non a caso, il Pd, prima del voto sulle presidenze, aveva consultato solo i grillini e i montiani, ma non il leader della coalizione arrivata seconda e che rappresentava, esattamente come il centrosinistra, un terzo degli italiani. Una palese scorrettezza che fece maturare un accordo surrettizio grazie al quale anche i tre presidenti delle bicamerali furono eletti tagliando fuori il centrodestra: all'antimafia, ad esempio, doveva andare un galantuomo come Donato Bruno - non certo un personaggio divisivo - e invece fu eletta Rosy Bindi, che divisiva lo era eccome, con i voti di Scelta Civica e dei Cinque Stelle.

Questa è da sempre la realtà: piuttosto che aprire a un governo col centrodestra, Bersani bloccò il Paese per due mesi nel tentativo di convincere Grillo a un accordo allora impossibile, e mise in campo per Camera e Senato due figure che tutto dimostrarono durante il loro mandato meno che l'imparzialità, almeno di facciata, dovuta per chi occupa quegli alti ruoli. Grasso si dimise addirittura dal Pd, in aperto dissenso con la linea di Renzi, conservando però gelosamente la carica istituzionale, e la Boldrini, icona della sinistra dura e pura, lo raggiunse nella ridotta di Leu cavalcando l'immigrazione incontrollata, il terzomondismo ed ergendosi a paladina delle donne e dei diritti umani. La sua presidenza fu peraltro oggetto di ripetute critiche da parte delle opposizioni: Grillo la definì «lady Ghigliottina», oltre che «inadeguata, impropria, miracolata», mentre per Salvini "una gestione del genere non si vede nemmeno in Corea del Nord".

Non furono forse quelle del Pd due scelte "incendiarie", per dirla con le parole dello smemorato Letta, che di quella stagione politica fu uno dei principali protagonisti? Il centrodestra le subì, restando però responsabilmente aperto al confronto per non affossare la legislatura. Ma il Pd non lo farà, prigioniero dell'atavico complesso di superiorità a dispetto delle sconfitte ed evidentemente immemore che gettare discredito contro gli avversari alimenta un pericoloso clima di odio politico. 

Se le donne di sinistra scoprono di odiare il potere quando perdono il potere. Tra le formule più amate dai bambini ce n'è una che serve a cambiare le regole d'ingaggio nei giochi di ruolo. "Facciamo che..." Valeria Braghieri il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tra le formule più amate dai bambini ce n'è una che serve a cambiare le regole d'ingaggio nei giochi di ruolo. «Facciamo che...». «Facciamo che... adesso io sono una sirena e ho una lunga coda ricoperta di squame e allora abito negli abissi ma mi sono innamorata di un marinaio»; «facciamo che... adesso io sono un poliziotto e allora ho le manette, la pistola, il distintivo e vengo ad arrestarti perché tu sei un ladro e hai rubato le caramelle».

«Facciamo che... adesso Giorgia Meloni diventa presidente del Consiglio e allora le donne decidono che il potere non interessa più. Che è meglio essere libere piuttosto che potenti». Le donne a cui non interessa più giocare, a gioco ormai perso, sono ovviamente quelle del Pd. E attorno al nuovo ruolo del partito, il quotidiano la Repubblica ha aperto un dibattito a puntate. Un susseguirsi di importanti interventi raccolti giorno dopo giorno sotto l'autoincensante occhiello «Idee». E dai quali, ci pare di capire, a questo punto della storia si cerca disperatamente di cambiare le regole d'ingaggio. Anche le donne di sinistra, superate a destra «da quella di destra», tentano di mettere ordine nello sgomento, di riorganizzare la sconfitta: dalle stesse colonne dello stesso quotidiano.

Ieri, dopo anni di battaglie per le quote rosa, la parità di genere, le pari opportunità, le piazze infuocate, i consigli d'amministrazione occupati, contrordine compagne. Sapete cosa c'è di nuovo? «Facciamo che...» il potere (che non abbiamo più) non ci interessa più.

«Il potere non porta da nessuna parte», «Toglie libertà, sacrifica valori autentici», «C'è sempre chi ha maggior potere di chi è al potere»... Tutte citazioni da Repubblica che a sua volta cita il Blabla di Eugenio Montale, e inorridisce andando ad analizzare il vero, profondo significato della posizione «ancillare» nella società, concludendo che certo non si può relegare al grembo femminile, arginare nella sola metà del mondo. Perché ancillari non sono solo le ancelle. Si è ancillari in un sacco di modi, in un sacco di ruoli. Si è ancillari in politica tanto per cominciare. Ma anche quello, al Pd, non è servito a nulla. Alle donne del Pd, tanto meno.

«Facciamo che...» non si ancilla più. Tanto è inutile, faticoso, umiliante e non porta da nessuna parte. Ora si sta perennemente a schiena dritta, si schifa il potere, ci si sfila dalle logiche millenarie e soprattutto si dismettono le cause femminili.

«Facciamo che...» avete perso, ma imparate lo stesso a rimanere composti.

Io sono Cordelia. Meloni è una donna forte, ma le femmine vittimiste non se ne sono ancora accorte. Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

La prossima premier conosce le regole del gioco della politica e ce ne farà dono. Non ha tempo per le lagne, e pazienza se re Silvio si sarebbe scelto un altro erede: ha vinto lei, decide lei

Verrà il giorno in cui Giorgia Meloni ne sbaglierà una (più di una, in più di un giorno, immagino); neanche venerdì, però, è stato quel giorno.

Non so come siano, in queste settimane, le vostre schermate di messaggi. Le mie sono quasi tutte composte da un qualche vecchio video di Giorgia Meloni, commentato da chi invia e chi riceve con analoghi «Ma come abbiamo fatto a non accorgercene prima».

Ho una scusa: erano quasi tre anni che non guardavo la televisione. Avevo smesso al principio della pandemia, quando il contagio era diventato l’unico tema di conversazione, il tema meno interessante nella storia del mondo. Guardereste un palinsesto la cui trama consiste nel dirvi di lavarvi bene le mani?

Tuttavia non è una scusa sufficiente. Alcuni dei più illuminanti video di Giorgia Meloni, alcuni di quelli in cui dimostra d’essere una che sa fare benissimo l’unica parte di sicuro consenso oggi, quella sono-proprio-come-voi, vengono da Belve, programma del quale fu ospite nel 2018: era prima che decidessi che, se i virologi erano le nuove soubrette, io preferivo leggere un buon libro; eppure non l’avevo vista. Come ho potuto essere così distratta?

Venerdì, quando Giorgia Meloni è diventata Cordelia in un universo in cui Re Lear è Silvio Berlusconi (l’universo che ci possiamo permettere), abbiamo assistito a uno spettacolo di cui Shakespeare ci aveva privati: la ribellione di Cordelia.

Ha scritto Concita De Gregorio che il ribaltamento di ruoli è imprevisto a destra come a sinistra: entrambe collocazioni dove, se hai i gameti sbagliati, solo damsel in distress puoi essere. Solo in tailleur puoi stare, e solo gli ottusi credono che quello degli abiti sia argomento secondario.

Mai come in questi giorni, in cui sembra non avessimo mai avuto una beghina per presidente della Camera, penso ai tailleur di Irene Pivetti, a quel disastro estetico causato dagli anni Ottanta, dagli spot dello shampoo ma pure da capolavori come Una donna in carriera, che è il cliché delle donne di potere; donne di potere nessuna delle quali, fino a Kamala Harris, ha più osato vestirsi come una donna normale.

Due mesi fa, al Meeting di Comunione e Liberazione, Giorgia Meloni aveva una gonna a pieghe verde, e tutte quelle con uno straccio di spirito d’osservazione hanno pensato: ma quindi si può. Si può vestirsi normalmente e vincere le elezioni, invece di perderle coi tailleur pantalone di Hillary Clinton.

Quando Silvio Berlusconi ha tenuto a farsi fotografare con gli appunti che spiegavano quanto l’avesse deluso Cordelia, nessuno gli ha chiesto come potesse essere accaduto, «l’amore della vostra vecchiaia, la figlia più cara e più stimata, ha dunque potuto, in sì breve tempo, commettere opra tanto rea da meritare che la spogliate fino alla nudità, che la priviate di tutti i doni di cui la vostra tenerezza l’avea rivestita? Certo l’offesa sua deve essere contro natura, dev’essere un prodigio d’atrocità; ovvero l’affezione che le avevate qui solennemente giurata, si è inesplicabilmente pervertita».

Certo, qualunque studioso di Shakespeare (o di Berlusconi) direbbe che, più che Cordelia, Giorgia è Regan, la figlia che tradisce: se sei maschio e tradisci, diventi il santo più importante della mia religione e la pietra su cui fondo la mia Chiesa; se sei femmina e tradisci, sei una schifosa consumata dall’ambizione.

(A proposito di schifose consumate dall’ambizione, ma se invece il parallelismo giusto fosse quello in cui la Ronzulli è Lady Macbeth? O lo è la Meloni? E se invece restiamo a Lear: se la Meloni è Regan, la Ronzulli è Goneril che la avvelena? Ci sono altri ruoli, per le femmine, che uccidersi l’un l’altra devastate dal sopravvenuto disamore del sovrano? Comunque Goneril alla fine si ammazza, e muore pure Cordelia: lo dico per non studiosi di Shakespeare che pensino a un lieto fine possibile per le femmine in scena).

Quindi venerdì Giorgia Meloni ha aspettato tutto il giorno, mentre giornalisti sempre più in calore bramavano un commento su quegli appunti al teleobiettivo (non) sfuggiti, mentre Ignazio La Russa diceva che erano certamente un fotomontaggio, Berlusconi taceva, e una di sinistra al posto suo avrebbe immediatamente dichiarato indignata che quell’orrido sessista non tollera d’avere davanti una donna di carattere, una donna di successo, una donna non a sua disposizione (cit. Rosy Bindi), una donna non ridotta a lista, come ti permetti, e anche voi che nei titoli scrivete «Giorgia» invece di «Meloni», schifosi patriarchi.

Giorgia Meloni non dice mai «è perché sono una donna». Non quando racconta a Francesca Fagnani che Berlusconi le ha suggerito di farsi il botulino alla fronte o che Ignazio La Russa la sgrida se non mette i tacchi; non quando Salvini e Berlusconi proprio non si capacitano che tocchi far governare lei, una pischella bionda; non quando i giornali intervistano la sua manicure. Giorgia Meloni conosce le regole del gioco e ce ne farà dono: è donna, è madre, è una che non ha tempo per le lagne, è quella che quando vince ha vinto lei e si fa come dice lei.

Quindi venerdì ha aspettato d’essere sotto tg, come sa fare la gente di potere, è uscita da un cancello, si è fatta alzare la palla da un inviato televisivo, e l’ha schiacciata come la Mimì Ayuhara che un’epoca di femmine vittimiste non sperava più di vedere. La mattina dopo, in tv, ho visto donne chiedersi sospirose se alla Meloni quella risposta fosse scappata. Ma certo: era in premestruo, era confusa, era fuori controllo. Siamo così: sempre più emozionate, delicate, non sappiamo dettare alla stampa risposte gelide come teste di cavallo.

Verrà il giorno in cui le femmine di quest’epoca saranno disposte a riconoscere una donna forte, quando la vedono. Purtroppo, neanche la settimana scorsa è venuto quel giorno.

I trogloditi e i lanciafiamme le parole disperate del Pd. Edoardo Sirignano su L'Identità il 17 Ottobre 2022

Disperazione. Non è il titolo di un film, ma quanto sta accadendo nelle ultime ore all’interno del campo progressista. L’elezione, prima di La Russa al Senato e poi di Fontana alla Camera, mette sotto scacco un’intera area politica. Nessuno sa cosa fare e quindi l’unica strategia è infiammare il clima, diffondere odio. Un autunno che doveva essere freddo per il caro bollette diventa caldo per le tensioni. Se tutti pensavano, che le conseguenze delle sanzioni, avrebbero fatto dimenticare la destra e la sinistra dei tempi di Gaber non è così. Anzi sembrano tornare, all’improvviso, i famosi anni di piombo. Basta qualche parola del nuovo Parlamento, infatti, per far ricomparire la stella a cinque punte nella capitale. C’è una chiara scritta contro la seconda carica dello Stato. “La Russa – appare su un muro – Garbatella ti schifa”, con lo storico simbolo delle Br e la famosissima sigla Antifa. Messaggio, tra l’altro, cancellato da volontari e non dalla prima istituzione della città, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Ignorato finanche uno striscione sul Colosseo, raffigurante l’ex ministro della Difesa e oggi primo inquilino di Palazzo Madama a testa in giù. A infuocare il tutto, secondo i più, sarebbero gli stessi piddini. Non contribuiscono, ad esempio, a spegnere le fiamme le ultime dichiarazioni di Enrico Letta. Il segretario dei dem parla addirittura di “logica incendiaria da parte di chi ha vinto”. Il docente di Parigi, in queste ultime ore, abbandona i panni del moderato, indossati fino al 25 settembre e si rimette sul binario dei compagni, scimmiottando il capo politico del Movimento Giuseppe Conte. La dimostrazione plastica è quanto accaduto alla chiusura del congresso del Partito Socialista Europeo, dove il numero uno del Nazareno insieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz e all’alto rappresentate Ue Josep Borrell, intona “Bella Ciao”. Nulla contro la canzone, che certamente non appartiene a una cultura politica. Considerando il clima che si respira nel Paese e tenendo conto che le stesse parole dal pisano erano già state utilizzate davanti l’ambasciata iraniana solo pochi giorni prima, sarebbe stato meglio avere un atteggiamento più sobrio in una fase in cui tutto può essere travisato. Il modus operandi, infatti, viene emulato dagli Scientologist di quella che qualcuno chiama “ la nuova setta”. Gara sui social per mettere hashtag con le parole “fascismo” o “lotta per cambiare”. I meme che ricordano il passato di destra dei neo eletti presidenti delle Camere inondano gli stati di WhatsApp. Ricompaiono addirittura i lanciafiamme di Vincenzo De Luca. Il presidente della Regione Campania, ospitato dai Giovani Imprenditori di Confindustria, senza giri di parole, definisce Fontana “pericoloso” e La Russa “troglodita”. A quest’ultimo critica addirittura il look: “Mi auguro – ribadisce l’ex sindaco di Salerno – che vada vestito un po’ meglio, senza la camicia e la panza di fuori per motivi estetici”. La differenza rispetto al passato è che stavolta il bodyshaming non può essere nemmeno pensato. Alla leader di Fdi, poi, le viene contestata addirittura l’onestà intellettuale. Sulla stessa linea d’onda del governatore la conterranea Valeria Valente, indicata dai più come la prossima capogruppo al Senato, che al posto di mediare definisce i colleghi parlamentari “profili estremisti” di una “destra reazionaria, illiberale e oscurantista”. L’avvocato napoletano si candida come Wonder Woman: “A noi il compito di vigilare, arginare e impedire derive che porterebbero l’Italia indietro di decenni”. Ecco perché inizia una vera e propria gara al veleno tra chi si candida a succedere Letta. Dopo la Schlein, che parla di “eredi del duce”, Andrea Orlando accusa gli avversari di “dividere il paese”. A creare non poche tensioni, però, sono le parole del primo cittadino di Empoli Brenda Bernini, che dalla sua pagina Facebook definisce gli uomini della Meloni “neri per sempre”. Altro che integrazione. La scelta di lanciare la finta bandiera del mondo Lgbt Zan al ruolo di vice Fontana non basta a riconquistare la fiducia di un popolo che in una stagione critica, tutto vuole tranne che divisioni. A dirlo gli ultimi sondaggi. Secondo una rilevazione di YouTrend/Agi, i dem, in sole tre settimane, avrebbero perso oltre un punto percentuale, a vantaggio del Movimento di Conte che è ormai a un passo dal prendere la leadership del centrosinistra.

(ANSA il 18 ottobre 2022) - "C'è anche al ministero della Difesa, c'è scritto anche al foro italico che facciamo cancel culture anche noi". Risponde così il presidente del Senato Ignazio La Russa a proposito della polemica sulla foto di Mussoloni al mise (ANSA).  

(ANSA) - Il ministero per lo sviluppo economico celebra i 90 anni e la fotografia che ritrae Benito Mussolini, presente nel palazzo perché uno dei ministri del passato, sarà tolta "per evitare polemiche e strumentalizzazioni". Lo afferma il Mise in una nota. 

Alessandro Sala per corriere.it il 18 ottobre 2022. 

Pierluigi Bersani non vuole che la sua foto e quella di Benito Mussolini stiano sulla stessa parete. La circostanza, che sulla carta sembrerebbe impossibile, sembra invece verificarsi al Mise, il ministero dello Sviluppo economico, dove in occasione della presentazione di un libro sul palazzo che lo ospita sarebbero stati esposti i ritratti di tutti i ministri che vi si sono succeduti.

Tra cui, appunto, anche il duce, che fra il 1932 e il 1936 assunse tra i vari interim aggiuntivi al suo ruolo di capo del governo, anche quello di ministro delle Corporazioni, a cui erano state affidate le competenze su industria, commercio e lavoro. Proprio ai tempi del ministero delle Corporazioni era stata individuata come sede del ministero Palazzo Piacentini, di cui si celebra in queste settimane il 90esimo anniversario (venne inaugurato il 30 novembre 1932).

A dare notizia della presenza della foto di Mussolini era stata su La 7 la giornalista del tg Alessandra Sardoni, che ha poi postato anche una foto della parete incriminata, la stessa che riproduciamo in questa pagina. La notizia ha scatenato la reazione della Cgil Funzione Pubblica che ha parlato di «atto gravissimo oltre che deplorevole» e ha chiesto la rimozione della fotografia. 

«Abbiamo appreso da una rete televisiva nazionale, e ci risulta confermato da lavoratrici e lavoratori — fa sapere il sindacato — , che all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico, nel corso dell’inaugurazione di un libro sul palazzo, venivano appesi quadri che ricordavano e mostravano i ministri dell’industria succedutisi. Fin qui nulla di preoccupante, se non fosse che tra i vari quadri ce ne sarebbe anche uno di Benito Mussolini».

Poi è toccato, appunto, a Bersani, che fu ministro allo Sviluppo economico nel secondo governo Prodi, tra il 2006 e il 2008: «Mi giunge notizia che al Mise sarebbero state esposte le fotografie di tutti i ministri, Mussolini compreso. In caso di conferma — scrive su Twitter —, chiedo cortesemente di essere esentato e che la mia foto sia rimossa».

Il caso non è rimasto sotto traccia, al punto che lo stesso Mise ha fatto sapere con una nota che «per evitare polemiche e strumentalizzazioni, la foto di Mussolini sarà rimossa». E il ministro Giancarlo Giorgetti, parlando con i giornalisti alla Camera: «La foto di Mussolini c’è anche a palazzo Chigi. Ahimè, è stato il primo ministro delle corporazioni. Ci sono tutti i ministri». 

Ritratti del Duce, fastidi oppure no. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera l'1 Novembre 2022.

Romano Misserville ne aveva uno nello studio al Senato, ma non provocò grandi reazioni

Ricordate Romano Misserville? Era un avvocato ciociaro dai capelli a spazzola come certi personaggi di Jacovitti, dava battaglia nei tribunali del Lazio e non solo, organizzava spettacolari processi a personaggi storici dei secoli remoti, si vantava d’essere fascista da quando era ragazzino, si era fatto le ossa facendo il sindaco di Filettino (il luogo di nascita del maresciallo fascista Rodolfo Graziani, il macellaio dell’Eritrea) e citava spesso ridendo una vecchia battuta che girava tra i missini: «Il fascismo è un po’ come il mobilio della nonna. Quello buono non si butta mai via».

Insomma, un capoccione tutto d’un pezzo che un giorno, dopo forti contrasti con Gianfranco Fini, sbatté la porta e se ne andò dal partito che l’aveva eletto («Con An ho chiuso: io sono di destra, loro non più», spiegò al Giornale) per fondare «Destra di Popolo». Dopodiché, accusato dai camerati di essersi impossessato d’una «quota di finanziamento pubblico di 169 milioni di lire destinato al partito», ricorda Wikipedia, «rispose esibendo decine di copie di assegni: aveva dato tutto in beneficenza ad ospedali, fondazioni umanitarie, istituti per l’assistenza degli anziani...»

Fatto sta che a un certo punto entrò nell’Udr tra «gli straccioni di Valmy» di Francesco Cossiga e Clemente Mastella fino ad appoggiare il secondo governo guidato da Massimo D’Alema. Tirandosi addosso un diluvio di insulti ma guadagnandosi addirittura la nomina a sottosegretario alla difesa. Nomina alla quale rinunciò, dando le dimissioni, dopo la deflagrazione della notizia che tutti già in realtà conoscevano. E cioè che aveva nel suo stesso studio al Senato un gran ritratto di Benito Mussolini. Spiegò: «Il quadro volò giù dal ministero delle corporazioni il 25 luglio 1943, un passante lo raccolse, lo tenne per 34 anni e me lo donò nel 1987». D’Alema, raggiunto dalla notizia a Betlemme alla vigilia della messa di Natale, non fece una piega. Anzi, ringraziò il senatore per il generoso apporto parlamentare. Direte: che c’entra con l’attualità di oggi? C’entra. Scatenando le invettive contro Ignazio La Russa per una statuetta di Mussolini tenuta oggi su un ripiano accanto «a elmetto dell’esercito popolare cinese e un fregio comunista dell’Urss», forse, sarebbe stato opportuno ricordare quella sinistra non infastidita da quel gran quadro del Duce...

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 18 ottobre 2022.

Alle 16 e 40 di ieri pomeriggio, l'unto del Signore ha consegnato all'unta del Signore la sua Italia, che non è mai stata la nostra Italia, e "la patonza ha smesso di girare".

L'uomo della provvidenza della destra ha infatti ceduto lo scettro alla donna della provvidenza della destra, una creatura che da 14 anni non capisce e disprezza, una bizzarria di cui non ammetteva neppure l'esistenza e addirittura, quand'era sua ministra, non ricordava neanche il nome. 

E perciò tagliava corto e chiedeva «dov' è la piccola?», ma non nel senso affettuoso di Fred Buscaglione, ehi, ehi, ehi le grido piccola , ma in quello della statura di una senza-nome. Giorgia lo ricambiò con un «non mi piace questo Berlusconi» dichiarato con impudenza a Retequattro. Era il Berlusconi che invadeva la politica con le Olgettine.

E invece ieri Berlusconi l'ha incoronata come fosse la regina del Trono di Spade che è nata nella tempesta postfascista e proprio come la piccola e bionda Khaleesi, madre dei draghi, mantiene un fondo oscuro nonostante la luce che cerca di propagare intorno a sé. E meno male che ci hanno regalato i presidenti mostri La Russa e Fontana, se no ci toccava recitare Kavafis: E ora, che ne sarà di noi senza Barbari? / Loro erano una soluzione . 

È stato dunque falso, come può essere falsa solo la politica, l'allegro e sorridente duetto, il "vorrei e non vorrei" della cerimonia della pace, sorrisi e ministeri, con quel comunicato congiunto cha traduce in sordo burocratese la bugia di Mozart: là ci darem la mano, là mi dirai di sì . Il "là" ieri era via della Scrofa, presa d'assedio come una volta succedeva solo in via del Plebiscito quando il cavaliere si affacciava con la panza stretta al balcone di Palazzo Grazioli.

Via del Plebiscito era la strada del potere romano, seconda sola ad Arcore, sangue e terra, dove, prima che diventasse il tempio del Berlusconi- Satyricon, si andava per scalare le classi sociali e per risolvere i conflitti: «Venite con le signore», diceva il padrone di casa, e addirittura Matteo Renzi ci andò per far carriera a sinistra. Via del Plebiscito rimase il Palazzo della metafora pasoliniana anche quel pomeriggio quando Berlusconi si mise a denunziare i magistrati nella sfigatissima ora della condanna e dietro il vetro si indovinava allegro solo il musetto di Dudù: «La gente è con me e non con loro». 

Perciò ieri la giornata è stata storica pure per la via della Scrofa, la strada stretta e lunga che era già la tana dei fascistoni ai tempi di Piazza del Gesù, Botteghe Oscure e via del Corso, e oggi tutti dicono: «È Canossa, è Canossa, è Canossa». E vogliono dire che la stanza che fu di Almirante e poi di Fini è il castello di Matilde di Canossa dove si umiliò Enrico IV («Sono il solo che tutte le settimane va a Canossa», mi disse Maurizio Landini che lì vive con la moglie a San Polo d'Enza).

E però ieri non è stata una banale "andata a Canossa", che dai tempi di Craxi-De Mita ne avevamo già viste tante, e neppure una resa all'avversario-alleato come fu tra Letta e Renzi. Berlusconi in via della Scrofa è, come dicevamo, "la patonza che ha smesso di girare", la fine delle donne in politica come contante, come buca keynesiana, e va detto che nessuno in Italia ne aveva mai immesse e promosse così tante. «Ingrata», era già sbottato Berlusconi in quel lontano 2008 contro «la piccola»: «Viene a parlar male di me proprio a Retequattro, a casa mia». E già allora non era un'antipatia e neppure uno scontro di caratteri, ma l'incomunicabilità di Antonioni.

Lei muoveva le truppe del congresso di Viterbo, primo trampolino della sua carriera, lui faceva muovere le Olgettine (dalla Ronzulli, dissero le intercettazioni) nel parcheggio di San Siro; lei saltava nel cerchio di fuoco e lui compensava le Olgettine con l'utilitaria, il mutuo, seimila euro, l'appartamentino, un posto di deputato e forse, chissà, di ministro per far pagare agli italiani il compenso - "il regalino" al "corpo speciale" dove ci si esercitava anche nel doppio gioco e nello spionaggio. Di questo "grande gioco alla matriciana", dove Berlusconi era il Doctor No, Giorgia Meloni pensava malissimo ma le mancava il coraggio di dirlo anche se ogni tanto qualcosa le scappava.

E quando Forza Italia e An si fusero e lei divenne segretaria degli "azzurrini-neri", le diversità antropologiche esplosero in disprezzo reciproco: i giovani per Berlusconi erano il Kindergarten e lei invece apriva le riunioni gridando «siamo i ribelli»; lui fondò la scuola per la svalvolata, per la scombiccherata, per la mitomane, e lei faceva i seminari Atreju sulla punta più alta del Colle Oppio. E figuriamoci come reagiva lui quando gliela raccontavano in jeans strappati e maglietta, maleducata, aggressiva e lontanissima dal "tipo" non solo della donna-capo, che nelle cene eleganti si esibiva alla pertica della lap dance in stivali neri, frusta in mano e cappello di poliziotta, ma più in generale della donna in politica.

Un giorno, per sedurre tutti quei ragazzi, azzurri e neri, Berlusconi si presentò senza doppiopetto di Caraceni e senza cravatta, in camicia nera, e si lanciò in un discorso nostalgico sulle cose buone del fascismo e sulla forza dell'anticomunismo. E forse la sfida iniziò proprio quella sera del 2010 quando i due mondi, che si erano formalmente fusi, entrarono davvero in cortocircuito. Il Secolo d'Italia perfidamente definì Giorgia Meloni la «leader dei giovani di Forza Italia» e lei, intervistata da Luca Telese: «Sono incazzatissima. Ma non per me. 

Per tutti quelli che sono qui, perché credono in qualcosa, nella politica, nella passione, nella loro storia, e si vedono scippati e irrisi. Il fatto è che io sono la leader di migliaia di giovani, e loro lo sanno benissimo».

Le azzurrine in minigonna e borsetta tiravano i bigliettini con il numero di telefono al premier. Mentre le militanti nere lo interrompevano e fece scalpore l'intervento irridente di Carolina Varchi: «Ma davvero lei viene da noi a fare il nostalgico sul fascismo? ». 

Mai Berlusconi perdonò a Giorgia Meloni la risata collettiva che quella sera lo umiliò e mai Giorgia gli perdonò il voltafaccia del 2015, quand'era candidata a sindaco di Roma e Berlusconi all'ultimo momento cresimò o forse "scresimò" Alfio Marchini: «Piace alle donne e dunque appoggeremo lui». Vinse Virginia Raggi. 

Ebbene sono tutti lì, i ragazzi che ridevano, sono il quartier generale di via della Scrofa, compreso il presidente La Russa che era già con Giorgia e non solo perché era la grande amica di suo figlio Geronimo. Berlusconi li sente ancora ridere: Donzelli era il responsabile degli universitari, Fazzolari era l'organizzatore dei congressi, Augusta Montaruli era responsabile degli studenti di Torino, e poi Carlo Fidanza, Carolina Varchi, sperduta militante catanese, Marsilio, il responsabile di Colle Oppio e oggi governatore dell'Abruzzo.

Berlusconi e Giorgia Meloni non si prenderanno mai e se a entrambi trema un poco il cor è perché entrambi pensano l'uno dell'altra che può burlarmi ancor . 

 Nella sua autobiografia Giorgia ricorda pure quel video divenuto virale, con la voce di Berlusconi che, rifiutandosi per l'ennesima di ricordarne il nome, chiede dov' è la piccola e «la voce veniva distorta per far diventare "piccola" "zoccola"». E «ancora oggi - conclude Meloni - stento a capire come una persona sana di mente abbia potuto ritenere che avrei accolto quell'insulto di fronte a milioni di persone sorridendo».

Ecco, chissà se Berlusconi ha capito che consegnandosi nella stanza di Giorgia ha dato l'addio al laboratorio che per quasi trent' anni è stato per Italia di destra al femminile quel che l'Ecole Nationale d'Administration è stato in Francia. Comunque vada a finire, da ieri "la patonza ha smesso di girare".

R.R. per “Avvenire” il 18 ottobre 2022.

Impossibile non cogliere la portata simbolica della sede dell'incontro di ieri, che almeno in parte chiude idealmente il quasi trentennio berlusconiano. Un'era che ha visto le abitazioni del leader di Forza Italia, dalla storica residenza di Arcore fino a villa Certosa in Sardegna, ritrovo fisso di cene e vertici estivi, passando per la Capitale dove è tornato di recente: sono tanti i luoghi "nati" come dimore di Berlusconi e diventati simbolo della politica del centrodestra negli ultimi 30 anni. Quasi mai il "gran capo", Silvio, era andato in trasferta.

Via dell'Anima, l'attico alle spalle di piazza Navona dove il Cavaliere abitò negli anni 90, per alcuni mesi fu il luogo dei vertici prima che si trasferisse a via del Plebiscito. Una casa che fu del pittore Franco Gentilini e probabilmente scelta per la posizione: strategica, rispetto ai palazzi della politica e casualmente a 100 metri dall'hotel Raphael, che a suo tempo ospitava Bettino Craxi. Una sede stretta, però, per vertici politici in cui - si racconta - i leader si incrociavano spesso con lo chef Michele o lo storico maggiordomo Alfredo. 

Un anno dopo la discesa in campo del '94, il trasloco a via del Plebiscito. A due passi da piazza Venezia, Berlusconi prende in affitto il secondo piano di palazzo Grazioli (si narra per 40mila euro al mese) e lo trasforma nel quartier generale della politica sua e del governo di centrodestra fino al 2020. Altri due luoghi immutati della sua politica sono villa San Martino ad Arcore e villa Certosa, in Gallura.

La prima è di sua proprietà dal 1974. Per anni accoglie incontri a sorpresa e vertici annunciati, oltre che confronti con i suoi fedelissimi (da Gianni Letta allo stato maggiore del partito). Lo scorso marzo è lì che si celebra il suo "quasi matrimonio" con Marta Fascina. 

D'estate invece "spopola" villa Certosa, magione da "mille e una notte" con 68 vani, set di cene memorabili e incontri diventati iconici. Come quello del '94 con Umberto Bossi, immortalato in canottiera. Oppure le visite di Putin e Blair negli anni 2000. Berlusconi, dominus del centrodestra con Fi che sfiora il 30% dei consensi, è sempre il rispettato padrone di casa. Qualche precedente di Berlusconi ospite comunque esiste.

La casa e lo studio romani del suo amico e avvocato di fiducia Cesare Previti, soprattutto negli anni 90, sono diventati il cuore di molti incontri al vertice sull'asse piazza Farnese - via Cicerone. E proprio nello studio dell'avvocato, poi diventato nel 1994 ministro della Difesa (non essendo riuscito ad andare alla Giustizia) del Berlusconi 1, il Cav. tentò di convincere Antonio Di Pietro ad entrare nel suo governo. 

Una appendice di casa Previti, più di una volta utilizzata per vertici "segreti" , è stato l'ormai famoso veliero d'epoca dell'avvocato romano, il Barbarossa avvistato, negli anni d'oro della politica berlusconiana, tra la Sardegna del Nord e l'Argentario. Nella casa alla Camilluccia del braccio destro storico del Cav., Gianni Letta, fu invece siglato quello che allora le cronache definirono il "patto della crostata" ( quella fatta e offerta dalla moglie di Letta) con Massimo D'Alema, in tema di riforme.

Di recente il ritorno a Roma. Dopo il Plebiscito, la scelta cade su Villa Grande, sull'Appia antica, prima offerta in comodato d'uso a Franco Zeffirelli. Dopo il Covid, è lì che accoglie amici e politici, soprattutto a pranzo. Compresi Salvini e Meloni che varcano più volte il cancello, ma con la leader di Fdi mai troppo contenta. Fino all'ultima volta, la settimana scorsa alla vigilia dell'elezione del presidente del Senato.

(ANSA il 18 ottobre 2022) - "I ministri russi hanno detto che siamo già in guerra con loro perché forniamo armi e finanziamenti all'Ucraina. Però sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato un po' i rapporti con il presidente Putin, un po' tanto, nel senso che per il mio compleanno mi ha mandato venti bottiglie di vodka e una lettera dolcissima. 

Gli ho risposto con bottiglie di Lambrusco e una lettera altrettanto dolce. Sono stato dichiarato da lui il primo dei suoi cinque veri amici". Lo ha detto il leader di FI, Silvio BERLUSCONI, nell'incontro con i deputati azzurri, come si può ascoltare in un audio pubblicato sul sito di LaPresse.

(9Colonne il 18 ottobre 2022) - Il presidente di Forza Italia Silvio BERLUSCONI smentisce la notizia su una presunta ripresa dei rapporti con Vladimir Putin. Il presidente Berlusconi, spiega una nota, ha raccontato ai parlamentari una vecchia storia relativa a un episodio risalente a molti anni fa. 

(LaPresse) - "Putin per il mio compleanno mi ha mandato 20 bottiglie di Vodka e una lettera dolcissima. Io gli ho risposto con bottiglie di Lambrusco e con una lettera altrettanto dolce. Io l'ho conosciuto come una persona di pace e sensata...". Così Silvio Berlusconi secondo quanto apprende LaPresse durante il suo intervento alla riunione dell'assemblea di Forza Italia alla Camera per l'elezione del capogruppo. 

(LaPresse il 18 ottobre 2022) - "I ministri russi hanno già detto in diverse occasioni che siamo noi in guerra con loro, perché forniamo armi e finanziamenti all'Ucraina. Io non posso personalmente fornire il mio parere perché se viene raccontato alla stampa viene fuori un disastro, ma sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato i rapporti con il presidente Putin, un po' tanto". Così Silvio Berlusconi secondo quanto apprende LaPresse durante il suo intervento alla riunione dell'assemblea di Forza Italia alla Camera per l'elezione del capogruppo.

(ANSA il 19 ottobre 2022) - "In 28 anni di vita politica la scelta atlantica, l'europeismo, il riferimento costante all'Occidente come sistema di valori e di alleanze fra Paesi liberi e democratici sono stati alla base del mio impegno di leader politico e di uomo di governo. Come ho spiegato al Congresso degli Stati Uniti, l'amicizia e la gratitudine verso quel Paese fanno parte dei valori ai quali fin da ragazzo sono stato educato da mio padre. Nessuno, sottolineo nessuno, può permettersi di mettere in discussione questo". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi.

(ANSA il 19 ottobre 2022) - Per il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi la propria fedeltà ai valori europei e atlantisti non può essere messa in discussione e - chiarisce in una nota - "non può certamente permettersi di farlo la sinistra, che tante volte è stata dalla parte sbagliata della storia. Tantomeno la sinistra del Partito democratico, che anche alle ultime elezioni, meno di un mese fa, era alleata con i nemici della Nato e dell'Occidente".

(ANSA il 19 ottobre 2022) - "La mia posizione personale e quella di Forza Italia non si discostano da quella del governo italiano, dell'Unione europea, dell'Alleanza atlantica né sulla crisi ucraina, né sugli altri grandi temi della politica internazionale. Lo abbiamo dimostrato in decine di dichiarazioni ufficiali, di atti parlamentari, di voti alle Camere". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi in una nota in cui, aggiunge, ha dovuto "ribadire l'ovvio" dopo le dichiarazioni audio diffuse.

(ANSA il 19 ottobre 2022) - "La colpa non è degli organi di informazione, ovviamente costretti a diffondere queste notizie, è di chi usa questi metodi di dossieraggio indegni di un Paese civile". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi riferendosi alla diffusione delle sue dichiarazioni audio.

Berlusconi ha aggiunto: "Tutto questo però non esisterebbe, se non vi fosse in Italia la pessima abitudine di trasformare la discussione politica in pettegolezzo, utilizzando frasi rubate registrate di nascosto, e appunti fotografati con il teleobbiettivo, con un metodo non solo sleale ma intimidatorio. Un metodo soprattutto che porta a stravolgere e addirittura a rovesciare il mio pensiero, usando a piacimento brandelli di conversazioni, attribuendomi opinioni che stavo semplicemente riferendo, dando a frasi discorsive un significato del tutto diverso da quello reale"

(ANSA il 19 ottobre 2022) - "Interrogarsi sulle cause del comportamento russo, come stavo facendo, e auspicare una soluzione diplomatica il più rapida possibile, con l'intervento forte e congiunto degli Stati Uniti e della Repubblica cinese, non sono atti in contraddizione con la solidarietà occidentale e il sostegno al popolo ucraino. Del resto alla pace non si potrà giungere se i diritti dell'Ucraina non saranno adeguatamente tutelati". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, in una nota dopo le sue dichiarazioni audio sul conflitto in Ucraina.

Cav chiama Mentana, "parole su Ucraina frutto preoccupazione". (ANSA il 19 ottobre 2022) - "Era Silvio Berlusconi come avete intuito e ci pregava di riassumere quello che dirò, cercando di essere il più fedele possibile. Le parole registrate vanno inquadrate in un discorso più generale di cui si è preso solo questo aspetto, che era il racconto di una preoccupazione generale, sto citando Berlusconi, riguardo al clima che si è creato nel rapporto tra Russia, Europa ed Occidente, con il governo degli Stati Uniti che ha disatteso le premesse multilaterali date da Donald Trump e con una situazione che è diventata sempre meno favorevole, anche perché dopo 23 anni si è creata una situazione con un solo beneficiario, la Cina". Così il direttore Enrico Mentana, in diretta tv, sintetizza il contenuto di una telefonata appena ricevuta dal Presidente Berlusconi, pochi minuti dopo che lo stesso Tg aveva diffuso il suo secondo audio shock, stavolta contro il Presidente ucraino. "La preoccupazione generale di Berlusconi - prosegue Mentana - era che ci fosse la rottura tra Europa e Russia, che in qualche modo interrompeva una spirale già rallentata dopo gli accordi di Pratica di Mare, con il fatto che la Cina potesse approfittare di tutto questo. Questa è - conclude - la contestualizzazione dell'interessato e che era alla base delle sue parole". "Una posizione che - chiosa Mentana - è diversa da quella del governo italiano e dalla leader del futuro governo di centrodestra".

UCRAINA, BERLUSCONI: “ZELENSKY? NON DICO QUELLO CHE PENSO”. Da lapresse.it il 19 ottobre 2022. 

Silvio Berlusconi parla a ruota libera della guerra ucraina durante il suo intervento alla riunione dell’assemblea di Forza Italia alla Camera, ripreso in un audio ottenuto in esclusiva da LaPresse.”Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Perché non c’è nessun modo possibile. Zelensky, secondo me… lasciamo perdere, non posso dirlo…”.  

“Zelensky ha triplicato attacchi a repubbliche Donbass”. Questa la versione del leader di Forza Italia sullo scoppio della guerra in Ucraina: “Sapete com’è avvenuta la cosa della Russia? Anche su questo vi prego, però, il massimo riserbo. Promettete? (…) La cosa è andata così: nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l’Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l’altro. L’Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, mi si dice, a 5-6-7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche.

I morti diventano (…). Disperate, le due repubbliche (…) mandano una delegazione a Mosca (…) e finalmente riescono a parlare con Putin. Dicono: ‘Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu’. Lui – aggiunge – è contrario a qualsiasi iniziativa, resiste, subisce una pressione forte da tutta la Russia. 

E allora si decide a inventare una operazione speciale: le truppe dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo in carica, Zelensky eccetera, e mettere un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso, un’altra settimana per tornare indietro. È entrato in Ucraina e si è trovato di fronte a una situazione imprevista e imprevedibile di resistenza da parte degli ucraini, che hanno cominciato dal terzo giorno a ricevere soldi e armi dall’Occidente. E la guerra, invece di essere una operazione di due settimane, è diventata una guerra di duecento e rotti anni. Quindi, questa è la situazione della guerra in Ucraina”. 

“Non ci sono più leader, né in Europa né negli Usa”

Berlusconi, inoltre, ha aggiunto: “Quello che è un altro rischio, un altro pericolo che tutti noi abbiamo: oggi, purtroppo, nel mondo occidentale, non ci sono leader, non ci sono in Europa e negli Stati Uniti d’America. Non vi dico le cose che so ma leader veri non ce ne sono. Posso farvi sorridere? L’unico vero leader sono io…”. 

“Strage di soldati e cittadini, serve intervento forte”

“La guerra condotta in Ucraina è la strage dei soldati e dei cittadini ucraini. Se lui diceva ‘Non attacco più’, finiva tutto (…). Quindi se non c’è un intervento forte, questa guerra non finisce”.  

Da lastampa.it il 19 ottobre 2022.

«Su una cosa sono stata, sono, e sarò sempre chiara. Intendo guidare un governo con una linea di politica estera chiara e inequivocabile». Così in una nota, Giorgia Meloni. Per la presidente di Fratelli d’Italia «l'Italia è a pieno titolo, e a testa alta, parte dell'Europa e dell'Alleanza atlantica. Chi non fosse d'accordo con questo caposaldo non potrà far parte del governo, a costo di non fare il governo».

Da open.online il 19 ottobre 2022. 

«È una testa di cazzo, in un giorno ha rovinato tutto». «Un povero rimbambito». In questi due commenti attribuiti a dirigenti di Fratelli d’Italia e fedelissimi di Giorgia Meloni dal Fatto Quotidiano c’è tutto lo sconcerto interno al centrodestra per l’ennesimo show di Silvio Berlusconi. 

E se la frase del Cavaliere su Andrea Giambruno (il compagno della premier in pectore) che lavora a Mediaset denota, secondo la maggioranza, «una concezione padronale della coalizione», Meloni è arrabbiatissima per il riferimento: «Cos’è, un ricatto? Pensa di minacciarci così? Andrea lavorava a Mediaset prima di conoscerci». Il primo modo per farla pagare al Cavaliere è lasciare Elisabetta Casellati fuori da via Arenula: al ministero della Giustizia andrà Carlo Nordio. Il secondo mette in gioco il ruolo di Antonio Tajani. Che vede in bilico sia il ruolo di vicepremier che la nomina alla Farnesina.

Il ruolo di Tajani

Il nuovo governo è ancora in bilico. Domani, giovedì 20 ottobre, il centrodestra unito è atteso al Quirinale per le consultazioni. L’incarico alla nuova premier potrebbe arrivare già il 21, mentre il week end successivo potrebbe essere dedicato a mettere a punto i dettagli prima del varo ufficiale dell’esecutivo. «L’Italia è e resterà nel solco dell’Unione europea e dell’alleanza atlantica. Berlusconi, come tutti, ha avuto rapporti con Putin per provare ad avvicinarlo alle democrazie liberali. Ma quella fase storica è finita quando Putin ha deciso di invadere l’Ucraina con i carri armati. Ora il solco è incolmabile», è la posizione di Fratelli d’Italia ribadita ieri da Fabio Rampelli.

Per questo La Stampa oggi racconta che adesso Tajani è di nuovo in bilico. «Berlusconi potrebbe averlo ammazzato», sussurrano dentro Fdi. Il ragionamento è semplice. Come può il numero due di Forza Italia essere il rappresentante dell’Italia all’estero quando il numero uno ha rapporti «riallacciati» con Putin? Per ora la linea di Meloni prevede il silenzio. Mentre qualcuno sussurra all’orecchio della presidente di Fdi di evitare una presentazione a tre al Quirinale. Perché l’imprevedibilità di Berlusconi potrebbe riservare altre brutte sorprese davanti alle telecamere. 

Silvio, la rana e lo scorpione

Di più. Meloni evoca anche il fantasma di Gianfranco Fini: con l’ex leader di Alleanza Nazionale Giorgia aveva avuto contatti nei giorni precedenti. Ora, è il ragionamento, il trattamento che subì l’ex alleato potrebbe essere riservato anche a lei. Anche se per ora i giornali di destra sembrano piuttosto schierati contro il Cav. E quello di famiglia (“Il Giornale“) getta acqua sul fuoco con evidente imbarazzo.

Il retroscena del Corriere della Sera aggiunge che Meloni scherzando già nei giorni scorsi aveva detto che «Berlusconi è come lo scorpione con la rana: punge anche se sa che morirà anche lui, come lo scorpione è “fatto così”, è più forte di lui». Ma «quando ha parlato con me sembrava molto più ragionevole. Poi torna dai suoi fedelissimi ed ecco qui…». La favola sull’immutabilità degli istinti spinge la nuova premier a rimettere in gioco la lista dei ministri. Oltre a Tajani, che alla fine comunque dovrebbe farcela, è in bilico il ministero dello Sviluppo assegnato a Guido Crosetto. Così come la Salute, per la quale si cerca un tecnico. 

Da iltempo.it il 18 ottobre 2022. 

"Qui ci sono solo due possibilità - commenta il filosofo ed ex sindaco di Venezia ad affaritaliani.it - o Berlusconi vuole liquidare il governo Meloni ancora prima che nasca o si tratta di problemi senili di chi non riesce a controllare le proprie dichiarazioni". Su Ronzulli capogruppo di Forza Italia al Senato, Cacciari aggiunge che "quelli sono cavoli di un partito. 

Però se il leader di una forza politica che fa parte di una coalizione che si appresta a far nascere un esecutivo fa questo tipo di dichiarazioni o è in una situazione precaria di equilibrio psicologico o ha come obiettivo quello di far saltare il governo e Meloni".

Qualora saltasse clamorosamente tutto, secondo il filosofo "verrebbe meno la sceneggiata, come era probabile fin da prima delle elezioni, di un governo di Centrodestra. Attraverso vari passaggi si tornerebbe a Mattarella che darebbe vita a un altro esecutivo di unità nazionale con chi ci sta". 

 Infine una battuta sull'eventualità di un ritorno di Mario Draghi a Palazzo Chigi. "No, è impossibile - chiude Cacciari - non accetterebbe mai. Avremmo un avatar di Draghi come presidente del Consiglio". 

Dagonews il 19 ottobre 2022.

Chi ha passato a LaPresse, l’agenzia di Marco Durante, l’audio in cui Berlusconi sproloquia della "corrispondenza di amorosi sensi" con Putin? E’ stato un deputato di Forza Italia, di tendenza Tajani. 

La registrazione nascosta, effettuata nel chiuso dell'assemblea con i deputati forzisti, è stata una ritorsione per l’atto di forza del Cav che, presentandosi a Montecitorio, ha di fatto obbligato i suoi onorevoli a eleggere come capogruppo il ronzulliano Alessandro Cattaneo (con conseguente furia del tajaneo Paolo Barelli).

Prima di uscire dalla Camera dei deputati, Berlusconi si è ritrovato circondato dal solito drappello di adoranti subalterni tra cui c’era anche il deputato "infedele" che ha registrato  il vaniloquio del fu Sire di Arcore girandolo subito dopo alla direttrice dell’agenzia LaPresse, Alessia Lautone. 

L'azione da guastatore del parlamentare infingardo si è interrotta poco prima di registrare la spacconata più grossa rifilata da Berlusconi: “Tra i primi cinque amici di Putin, io sono il primo”. Una pralina di follia somministrata in piena guerra tra Ucraina e Russia, proprio mentre tutto l’Occidente guarda al futuro governo italiano con apprensione per eventuali sbandante filo-Cremlino.

Alla diffusione dell’audio, Giorgia Meloni s’è infuriata come neanche le Erinni, ha telefonato a Tajani e con quel misto Oxford-Garbatella gli ha urlato: “Col cazzo che vai alla Farnesina!”. D’altronde piazzare il ciambellano del Cav putinizzato al ministero degli Esteri sarebbe vissuto sia Washington che a Bruxelles come un cazzotto nello stomaco.

Se abbiamo fatto uscire tutti gli audio su Berlusconi? “Ci sarà qualcosa più tardi. Di cosa si parla? Vedremo più tardi, posso solo dire che non si parla di donne, non ci sono donne”. A parlare, a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Alessia Lautone, direttrice dell'agenzia La Presse, che ieri ha diffuso gli audio del leader di Forza Italia che hanno provocato un terremoto nel c.destra. 

Ronzulli: criminale fare uscire audio Berlusconi. Da repubblica.it il 19 ottobre 2022.

"Trovo vergognoso che all'interno di 45 persone ci sia qualcuno che abbia sfregiato il presidente Berlusconi divulgando l'audio alla stampa. Non si sa in cambio di cosa...". Lo ha detto la capogruppo al Senato di FI, Licia Ronzulli. Secondo Ronzulli far uscire l'audio sarebbe "criminale".

Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 19 ottobre 2022.

Ma Berlusconi è diventato matto? Nel tempo delle semplificazioni la circostanza che ieri si sia prodotto in una serie di esternazioni a capocchia non sembra sufficiente a declinare la giornata politica sotto il segno della psichiatria o, come frequentemente si sente mormorare nel Palazzo, della demenza senile. […] 

Ma il caso di Berlusconi è troppo particolare, e non solo perché con il tema della pazzia ha giocato fin dagli esordi in politica. Basti pensare al suo primissimo discorso, alla Fiera di Roma, 6 febbraio 1994. A quei tempi non aveva in volto il sorriso-rictus del joker, ma cominciò con le seguenti parole: "Mentre venivo qui, pensavo, lo penso ancora, che c'era un matto che stava andando a incontrarsi con altrettanti matti!". Applausi.

Camminava su e giù per il palco, il microfono nella mano destra: "Ebbene, pensando a questa follia che sembra aver contagiato tutti noi e tanti altri dietro a noi, io pensavo che si era verificata ancora una volta quell'affermazione che è contenuta in un bellissimo libro, l'abbiamo editato ancora da poco, l'Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, dove io in una prefazione dicevo: è vera la tesi che viene fuori da queste pagine. Le decisioni più importanti, le decisioni più giuste, la vera saggezza - e qui nuoveva l'altra mano per rafforzare il discorso - non è quella che scaturisce dal ragionamento, dal cervello, ma quella che scaturisce da una lungimirante visionaria follia!". 

Hai capito che paravento? Vaglielo a spiegare adesso a Meloni, Salvini, Giorgetti e Lollobrigida quante volte il Cavaliere ha dispensato alle folle e nei momenti più difficili questa storia della visionaria follia, che in lui soltanto è destinata a convertirsi in lungimiranza.

Ecco dunque che, poche ore dopo aver fatto il bravo, ti fa acclamare Ronzulli presidente dei senatori, annuncia la lista dei "suoi" ministri in barba al Capo dello Stato e alla premier in pectore, di nuovo insiste con le sue preoccupazioni per la guerra, racconta di aver fatto pace con Putin rivelando uno scambio di doni alcolici e alla fine, previa mezza smentita del tutto implausibile, come estremo dono di sé invoca "Silenzio!" e dopo nemmeno un mese ripropina la solitissima barzelletta sui potenti nell'aereo in panne.

Domanda: ma non è il Berlusconi di sempre? Quindi l'uomo che ha fatto di sé un personaggio, un po' a somiglianza propria, un altro po' sforzandosi di assomigliare a ciò che gli italiani vogliono che egli sia: l'attore, appunto, del suo personaggio. Forse voleva pareggiare il conto mediatico della Canossa a via della Scrofa, forse adesso prova a tenere la piccoletta sulla graticola, forse intende farle intorno terra bruciata. 

Beato chi è convinto che ieri abbia dato i numeri. E se invece, come mille altre volte accaduto per mezzo di gaffe, numeracci clowneschi, fissazioni dissennate e frequentazioni pericolose avesse messo in scena il consueto e lucido azzardo replicando quel suo potere ipnotico, furbastro, piratesco, eppure a suo modo glorioso?

E certo che c'è di mezzo la realtà. Eppure sono ormai trent'anni che Silvione - in questo interprete sublime e assoluto del carattere nazionale - viene a patti con essa, quindi ora l'aggiusta, ora l'abbellisce, ora l'ignora, ora la distorce, ora l'addomestica, ora la nega; e lo fa con tale maestria e selvaggia naturalezza che a volte sembra matto anche solo nel credere che gli si possa credere; ma nel frattempo questa benedetta realtà finisce per confondersi con la sua rappresentazione. Così nessuno è mai in grado di capire "come andrà a finire", eterno e vano interrogativo dell'epoca berlusconiana, col risultato di restare l'imprevedibile Signore della Meraviglia. […]

E se siamo fuoriusciti dalla logica, beh, è pur vero che la politica non è fatta solo di razionalità, ma anche di sogni, simboli, inconscio, suggestioni, effervescenze, allucinazioni, paranoia, nichilismi. La "parte maledetta" è sempre lì, sul bordo, e spesso proprio chi riesce a farsela tornare utile purtroppo vince e rivince, fino a quando qualcuno o qualcuna, col permesso di Erasmo, non gli toglie il fiato e allora addio, addio.

“Colpevoli trovati, ecco chi sono”. Chi ha tradito Berlusconi, arrivano i nomi. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 20 ottobre 2022

No, il peggio non era alle spalle. Chi pensava che il pirotecnico martedì romano di Silvio Berlusconi avesse costituito il momento più difficile del centrodestra in questo faticoso avvicinamento alle consultazioni, non aveva fatto i conti col nuovo audio diffuso ieri da LaPresse, se possibile ancora più deflagrante di quelli del giorno prima. La scena è sempre la stessa, il colloquio coi deputati azzurri in occasione dell'elezione del capogruppo. E medesimo è pure l'argomento, la politica estera. Ma se martedì ci si era limitati solo al presunto riavvicinamento personale a Putin - forse più millantato che reale - ieri Berlusconi ha fatto un passo ulteriore: ha esposto la sua idea sull'origine del conflitto ucraino. Una tesi, la sua, del tutto opposta non solo a quella dell'attuale governo. Ma anche a quella della premier in pectore Giorgia Meloni. Questa la trascrizione delle frasi del Cav, partite, ironia della sorte, con la richiesta di «massimo riserbo» puntualmente disattesa: «La cosa è andata così: nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l'Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l'altro. L'Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, misi dice, a 5-6-7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche».

E ancora: «Disperate, le due repubbliche (...) riescono a parlare con Putin. Dicono: "Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu". Lui è contrario a qualsiasi iniziativa, resiste, subisce una pressione forte da tutta la Russia. E allora si decide a inventare una operazione speciale: le truppe dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo incarica, Zelensky eccetera, e mettere un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso, un'altra settimana per tornare indietro. È entrato in Ucraina e si è trovato di fronte a una situazione imprevista e imprevedibile di resistenza da parte degli ucraini, che hanno cominciato dal terzo giorno a ricevere soldi e armi dall'Occidente. E la guerra, invece di essere una operazione di due settimane, è diventata una guerra di duecento e rotti anni. Quindi, questa è la situazione della guerra in Ucraina». Poi, come se non bastasse, il giudizio tranchant sui partner «atlantici»: «Oggi, purtroppo, nel mondo occidentale, non ci sono leader, non ci sono in Europa e negli Stati Uniti d'America». Infine, un «non mi fate dire quello che penso di Zelensky» accolto, peraltro, da un fragoroso applauso dai deputati azzurri.

La situazione deflagra a livello internazionale. In Russia le dichiarazioni del Cav vengono rilanciate con toni trionfalistici. A Strasburgo i Socialisti attaccano il Ppe. E se i vertici Popolari si trincerano dietro un no comment, il deputato polacco Halicka chiede a Berlusconi di «rimandare la vodka a Putin che è un criminale di guerra e non un amico». In Italia, invece, nel mirino finisce Antonio Tajani. Da Conte a Letta fino a Calenda, tutta l'opposizione chiede che la Farnesina non sia affidata a un uomo di un partito «ambiguo». A poco servono le retromarce forziste. Berlusconi telefona a Mentana in diretta tv per chiedere che le sue dichiarazioni siano «contestualizzate», e in serata pubblica una lunga nota per denunciare l'utilizzo di «frasi rubate» e di un «dossieraggio intimidatorio» che ha «capovolto il suo reale pensiero». Mentre Licia Ronzulli apre il fronte interno al partito: «È spregiudicato, per non dire criminale, che qualcuno tra i 45 eletti alla Camera riferisca parole del presidente, che andavano contestualizzate». Ma che i gruppi siano spaccati è evidente. Al «falco» Giorgio Mulè, eletto vicepresidente della Camera con 217 voti, e a Maurizio Gasparri, scelto al Senato con 90, mancano almeno una ventina di preferenze dal centrodestra. E c'è chi giura che i franchi tiratori vadano cercati proprio trai forzisti. Magari tra quelli vicini a Tajani e Barelli, marginalizzati negli incarichi di partito. Una situazione balcanizzata, sulla quale a gettare ulteriore benzina, in serata, arriverà la durissima nota di Giorgia Meloni. 

Audio di Silvio Berlusconi, individuati i responsabili. Forza Italia: “Ecco i colpevoli”. Il Tempo il 19 ottobre 2022

Dopo la diffusione del primo audio di Silvio Berlusconi e le sue parole su Vladimir Putin è subito partita dentro a Forza Italia la caccia ai responsabili che hanno fornito la registrazione a Lapresse. Ieri è stato pubblicato un altro spezzone riguardante i rapporti con Giorgia Meloni, mentre in giornata sono giunte le dichiarazioni sulla guerra tra Russia e Ucraina e su Volodymyr Zelensky, parole che hanno costretto la stessa premier in pectore a fare una precisazione sull’indirizzo di politica estera del nuovo governo.

Ma intanto dentro il partito azzurro sono stati individuati i nomi di coloro che hanno passato il file ai giornalisti. Fonti di Forza Italia all’agenzia Nova fanno sapere che “gli audio sono stati registrati da due parlamentari non ricandidati alle elezioni dello scorso 25 settembre. Il tutto sarebbe stato registrato durante l’assemblea dei deputati e - aggiunge la comunicazione arrivata dai fedelissimi di Berlusconi - ci sarebbe un terzo spezzone ancora non uscito, sempre riguardante l’Ucraina. Il tutto sarebbe stato fatto per ripicca, con Berlusconi furibondo, che sta pure valutando un intervento televisivo a Porta a Porta”.

Ugo Magri per “la Stampa” il 19 ottobre 2022.

L'ultima tecnica del Cavaliere consiste nel farsi credere un po' scordarello e giustificare così certe enormità che gli scappano dalla bocca. Per esempio: non ci sarebbe niente di vero nel racconto ai suoi deputati e senatori circa lo scambio di doni con Vladimir Putin («Per il compleanno mi ha regalato 20 bottiglie di vodka e una lettera dolcissima»). 

Altrettanto falso che Silvio abbia ricambiato il pensiero con del lambrusco e un bigliettino mieloso. Lo scambio di alcolici effettivamente ci fu, certo, però risale al 2008: altri tempi altre bevute. Fonti di Arcore lo declassano a un vuoto di memoria che può capitare ai giovani, figurarsi ai nonni come lui.

Quanto ai contatti con Putin («abbiamo riallacciato i rapporti, anche un po' tanto») pure quelle pare sia tutta farina del sacco berlusconiano. Una sparata tanto per sbalordire l'audience, per catturare un po' d'attenzione. A giudicare dal clamore, il Cav c'è riuscito alla grande, sebbene allo staff non risulti alcun filo diretto, nessun contatto recente col Cremlino, al massimo di rimbalzo; comunque nulla di cui le potenze occidentali si debbano preoccupare specie ora che la destra ha sbancato il governo e Forza Italia rivendica la sua quota di bottino.

Viene fatto notare: Berlusconi non comanda dentro il partito, che è ridotto a un Circo Barnum; figurarsi se può imporre una svolta filo-Putin a Giorgia Meloni, leader volitiva dalla quale viene trattato a pesci in faccia. Nemmeno un fedelissimo come Antonio Tajani lo seguirebbe per quella strada, a Mosca lo sanno. 

Come sanno che nei passaggi chiave dell'ultimo quarto di secolo l'uomo s' è sempre schierato con gli Usa. Quando lo Zio Sam ha reclamato prove di fedeltà, ha risposto «signorsì»: sull'Afghanistan, sull'Iraq, perfino sulla Libia tradendo il colonnello Gheddafi. Lo Zar non farebbe eccezione.

Però Putin gli manca. Gli manca eccome. In molti si sono meravigliati del legame tra due personaggi talmente agli antipodi, chiedendosi come possa essere sbocciato del tenero tra un tycoon della Brianza e un gelido agente del Kgb. La risposta è racchiusa nella domanda. Silvio rimase affascinato da certi tratti straordinari, da caratteristiche non banali di Vlad tra le quali, insieme all'intelligenza, spiccava la crudeltà. 

Mitico il racconto che fece, davanti a testimoni, di una battuta di caccia in cui Putin gli mise in mano un fucile («Non sapevo nemmeno come tenerlo, me la facevo sotto») e lo portò nel bosco, loro due da soli. Quando passò un cervo, Vladimir «fece pumm e lo ammazzò al primo colpo; poi a balzi corse dall'animale morente, con un coltello gli strappò il cuore e me lo diede perché lo portassi a cucinare; io, senza farmi vedere, lo buttai in un cespuglio».

Però poi gli regalò una carabina di precisione Beretta; e per compiacerlo Berlusconi fece l'inqualificabile gesto del mitra a una giornalista russa che, in conferenza stampa, aveva osato chiedere a Putin se stesse per divorziare (giustamente preoccupata la cronista scoppiò in lacrime). Il business, certo, anche quello. Nei loro incontri si scambiavano dossier su energia, petrolio, automotive, progetti aerospaziali. Fiumi di gas e di miliardi. Gli Stati Uniti a lungo hanno sospettato che ben altro si nascondesse dietro quegli affari.

Ma chi ha conoscenza dei fatti li giudica più fumo che arrosto, fantasticherie con poca sostanza (si pensi al gasdotto South Stream mai realizzato); il Cav portò a casa poco al confronto di altri nostri premier che alla Russia, zitti zitti, hanno spalancato vere autostrade. Non è mai stato nei soldi il segreto del loro feeling. 

Sta semmai nella sensazione, per Berlusconi impagabile, di avere trovato in Vladimir un partner, un socio, un complice con cui architettare piani grandiosi, mirabolanti, inconcepibili per le menti normali. Nelle interminabili giornate trascorse insieme a Soci sul Mar Nero, o sulle rive del lago Valdai, oppure in Sardegna a Villa La Certosa, qualche volta con figli e consorti, più spesso e volentieri senza, il Cavaliere si sentiva nell'ombelico del mondo. Per questo adesso soffre che l'amico non gli risponda al telefono, trascuri i suoi consigli, faccia a meno di lui proprio mentre vuole conquistare il pianeta. In attesa di una chiamata lo giustifica e gli copre le spalle, come ai vecchi tempi.

Ilario Lombardo per “La Stampa”’ il 19 ottobre 2022. 

Tutto è saltato in aria di nuovo, tutto potrebbe tornare in gioco, nomi, ministeri, quote tra partiti. Lo si intuisce dallo sguardo di Antonio Tajani, mentre attraversa lento e preoccupato il Transatlantico semideserto. Il coordinatore di Forza Italia sa che ora, dopo le parole di Silvio Berlusconi, gli audio rubati e le dichiarazioni in chiaro dell'ex premier, c'è in ballo anche il suo di destino. Da ministro degli Esteri e da vicepremier. 

«Io sono un chierichetto, so che se uno entra papa, poi esce cardinale». Prova a scherzarci su, Tajani, sui due ruoli di vertice che sembrano a un passo, ma che potrebbero evaporare se le ferite tra Berlusconi e Giorgia Meloni dovessero incancrenirsi di nuovo. Ci scherza su, consapevole però che la cosa è serissima. Se c'è un equilibrio che non va toccato, è quello atlantico. Se c'è un argomento tabù, è la Russia.

È Vladimir Putin, i suoi legami italiani, le simpatie reciproche che fanno inorridire i partner occidentali. Le bottiglie di Vodka rivendicate con orgoglio da Berlusconi non sono un semplice aneddoto godurioso, ma un brindisi che può affogare in culla il governo Meloni. 

E infatti. Puntuale arrivano prima lo sgomento, poi la rabbia della premier in pectore. «Berlusconi potrebbe aver ammazzato Tajani», dicono gli uomini della leader di Fratelli d'Italia. La tesi è: come può il numero due del padre-padrone di FI vestire i panni del ministro degli Esteri, o, se dovessero cambiare i piani, di ministro della Difesa, dopo che il suo capo ha rivelato gli amabili contatti riallacciati con Putin, un paria per America, Regno Unito ed Europa, che tale resterà almeno finché non ritirerà le truppe dall'Ucraina?

La linea di Meloni, consegnata in una riunione ristretta, è di non replicare. Silenzio assoluto, evitare di dare altre sponde alle intemperanze di Berlusconi. Il problema però resta. Il leader azzurro è uno dei tre soci della maggioranza e la futura presidente del Consiglio dovrà portarlo con sé alle consultazioni al Colle assieme a Matteo Salvini, per dare l'idea di una compattezza della coalizione che si sta sgretolando. Per questo, qualcuno dei dirigenti avrebbe suggerito a Meloni di valutare l'ipotesi di andare divisi al Quirinale. Sostenendo che l'imprevedibilità di Berlusconi potrebbe riservare altre brutte sorprese davanti alle telecamere. 

Meloni non vorrebbe, ma è furiosa. Anche per quel riferimento dell'ex premier al compagno, Andrea Giambruno, padre di sua figlia, dipendente Mediaset, azienda che fa capo al figlio di Berlusconi, Pier Silvio. Meloni ritiene tutto questo molto volgare. Non vuole credere a un ricatto implicito, ma più di uno dentro FdI ha già evocato il trattamento che subì l'ex alleato di An Gianfranco Fini sulla casa di Montecarlo, attraverso le testate giornalistiche della family di Arcore.

La convivenza di Berlusconi si sta rivelando un incubo, su più fronti. I conflitti di interessi, sulla giustizia - visti i processi a suo carico - e sulle tv di famiglia, sono già una scocciatura non da poco. Ma il tema dei rapporti con Mosca è pura dinamite, tanto più che l'altro partner di governo è Salvini, il leader a cui si deve la scelta di nominare presidente della Camera Lorenzo Fontana, che alla prima intervista ha messo in dubbio le sanzioni contro Putin. 

Chi le ha parlato la descrive pronta a tutto. Persino a minacciare di tornare al voto, sicuramente pronta a rimescolare la cabala dei ministeri. C'è chi suggerisce di sostituire Tajani agli Esteri con Guido Crosetto, per rassicurare gli alleati americani. Ma è una reazione a caldo, frutto dell'indignazione collettiva verso Berlusconi.

È probabile, invece, che in squadra entrerà Luca Ciriani, capogruppo in Senato di FdI, mentre sulla Giustizia Meloni è decisa a difendere la scelta dell'ex magistrato Carlo Nordio. La smentita, fatta filtrare dal partito, di aver siglato un accordo con Berlusconi per cedere il dicastero di Via Arenula alla ex presidente del Senato Elisabetta Casellati, potrebbe non bastare. Il presidente azzurro lo ha ribadito ieri ai suoi parlamentari: «La Giustizia tocca a noi».

Una pretesa che nelle prossime ore potrebbe fare da inciampo alla voglia di Meloni di chiudere il più in fretta possibile le trattative e giurare davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella già questo week-end. Ma serve almeno una giornata senza scossoni, però. Bisogna placare Berlusconi, evitare che i suoi show compromettano la nascita dell'esecutivo di destra.

Berlusconi senza freni cerca il palcoscenico. Meloni furiosa sospende le trattative ed anche la nomina Tajani torna in discussione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Ottobre 2022.

La presenza di Berlusconi nell'alleanza di centrodestra si sta rivelando un incubo, su più fronti. I conflitti di interessi, sulla giustizia (visti i processi in cui il Cavaliere è imputato) e sulle tv di famiglia, costituiscono già una mina vagante pronta ad esplodere.

Tutto è di nuovo in discussione e potrebbe tornare in gioco, nomine, ministeri, quote tra partiti dopo le esternazioni da “prima donna” mancata (o stagionata) di Silvio Berlusconi. Lo si intuisce dalla faccia di Antonio Tajani, intercettato mentre attraversa lento e preoccupato il Transatlantico della Camera dei Deputati semideserto. Il coordinatore di Forza Italia intuisce che adesso, dopo le esternazioni irresponsabili di Berlusconi, gli audio rubati e le dichiarazioni pubbliche dell’ex premier, adesso anche il suo destino politico è in ballo.

Da quasi certo ministro degli Esteri e vicepremier, adesso di certo non c’è più nulla.”Io sono un chierichetto, so che se uno entra papa, poi esce cardinale”. dice Tajani provando a scherzarci su, riferendosi ai due ruoli di vertice che sembravano conquistati, ma che adesso potrebbero svanire se i veleni di Berlusconi con Giorgia Meloni dovessero continuare di nuovo. Antonio Tajani ci scherza su, ma è ben consapevole che a questo punto la vicenda si fa serissima.

Se c’è un punto che non va toccato, è quello dell’alleanza atlantica. E se c’è un argomento da non sfiorare minimamente, è la Russia, Vladimir Putin, i suoi legami italiani, le simpatie reciproche che fanno inorridire i partner occidentali. Le bottiglie di Vodka rivendicate con orgoglio da Berlusconi non sono un semplice aneddoto goliardico, ma un brindisi che può affogare le aspettative dei forzisti. 

“Il ministero della Giustizia alla ex presidente del Senato Elisabetta Casellati. L’accordo è stato trovato assolutamente”. Silvio Berlusconi, lasciando la Camera, si è espresso così ‘assegnando’ senza alcun titolo ed accordo la poltrona di ministro della Giustizia all’ex presidente del Senato. Giorgia Meloni ha dunque detto sì sul nome di Casellati ? “Sì, sì”, ha replicato sicuro il Cavaliere aggiungendo: “Nordio lo incontro per conoscerlo e vedere qual è l’apporto che può dare alla riforma della giustizia“. Solo che la Meloni non ha mai detto di si sulla Casellati alla Giustizia, e Nordio non ha mai nè incontrato, nè ricevuto alcuna indicazione o invito ad incontrare Berlusconi.

Puntualmente emergono prima lo sgomento, quindi la rabbia della premier in pectore vincitrice indiscussa delle elezioni politiche. “Berlusconi potrebbe aver ammazzato Tajani”, dicono gli uomini più vicini alla leader di Fratelli d’Italia. Il punto è questo: come può il numero due del padre-padrone di Forza Italia assumere il ruolo di ministro degli Esteri, o, se dovessero cambiare i piani, di ministro della Difesa, dopo che il suo leader ha rivelato gli amabili contatti riallacciati con Putin, il nemico numero uno per America, Regno Unito ed Europa, e che tale resterà sino a quando non ritirerà le truppe dall’Ucraina? 

L’indicazione di Giorgia Meloni affidata ai suoi in una riunione ristretta, è quella di non replicare. Silenzio assoluto, evitare di dare altre sponde alle intemperanze di Berlusconi. Ma il problema resta ed è pesante. Il leader azzurro è uno dei tre soci della maggioranza e la futura presidente del Consiglio dovrà portarlo con sé alle consultazioni al Colle assieme a Matteo Salvini, per dare un’immagine di una compattezza della coalizione che in realtà si sta sgretolando per le gelosie di Berlusconi con la Lega e l’invidia con Fratelli d’ Italia. Per questo motivo qualcuno dei dirigenti avrebbe suggerito alla Meloni di valutare l’ipotesi di salire divisi al Quirinale, preoccupati che l’imprevedibilità ormai ingestibile di Berlusconi, a cui inizia a mancare saggezza ed equilibrio politico, davanti alle telecamere potrebbe riservare altre brutte sorprese.

Giorgia Meloni non vorrebbe salire al Colle divisa dagli alleati, ma in realtà è giustamente furiosa. Anche per quel riferimento dell’ex premier al compagno, Andrea Giambruno, padre di sua figlia, “dipendente Mediaset”, azienda che fa capo alla famiglia Berlusconi. La Meloni ritiene tutto questo molto volgare. E secondo noi e non solo, ha più che ragione. Non vuole credere a un ricatto sotterraneo, ma più di uno dentro FdI ha già ricordato il trattamento che l’ex alleato di An Gianfranco Fini subì sulla casa di Montecarlo, attraverso le testate giornalistiche della famiglia di Arcore, ed i Servizi utilizzati a proprio uso e consumo.

Silvio Berlusconi all’uscita del Tribunale di Bari dove è imputato

La presenza di Berlusconi nell’alleanza di centrodestra si sta rivelando un incubo, su più fronti. I conflitti di interessi, sulla giustizia (visti i processi in cui il Cavaliere è imputato) e sulle tv di famiglia, costituiscono già una mina vagante pronta ad esplodere. La questione dei suoi rapporti con Mosca è puro “tritolo”, tanto più che l’altro partner di governo è Matteo Salvini, il leader a cui si deve la scelta di nominare presidente della Camera Lorenzo Fontana, che alla prima intervista ha messo in dubbio le sanzioni contro Putin .

Chi ha parlato in privato con la Meloni la descrive pronta a tutto. Persino a minacciare di tornare al voto, sicuramente pronta a rimescolare la lista dei ministeri. C’è chi suggerisce di sostituire Tajani agli Esteri con Guido Crosetto, per rassicurare l’ alleanza atlantica. Ma è una reazione a caldo, frutto dell’indignazione generale verso Berlusconi. È probabile che in squadra entrerà Luca Ciriani, capogruppo in Senato di FdI, mentre sulla Giustizia Meloni è decisa e rigida a difendere la scelta dell’ex magistrato Carlo Nordio. 

La smentita circolata ufficiosamente di aver siglato un accordo con Berlusconi per cedere il dicastero di Via Arenula alla ex presidente del Senato Elisabetta Casellati, potrebbe non bastare. Il presidente azzurro lo ha ribadito ieri ai suoi parlamentari: “La Giustizia tocca a noi”. E non si discute.

La pretesa di Berlusconi data in pasto ai cronisti, come accordo raggiunto con la Meloni (contrariamente al vero) che nelle prossime ore potrebbe fare da ostacolo alla voglia di Meloni di chiudere il più in fretta possibile le trattative e giurare davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella già durante questo week-end. Serve però almeno una giornata di chiarezza, senza scossoni. Bisogna frenare le esternazioni di Berlusconi, evitare che i suoi show da avanspettacolo, compromettano ancora una volta la nascita dell’esecutivo di destra. 

Redazione CdG 1947

I problemi a livello internazionale dai nuovi audio «pro Putin» di Berlusconi. Luciano Tirinnanzi il 19 Ottobre 2022 su Panorama.

Sono stati diffusi nuovi stralci dei discorsi del leader di Forza Italia in cui di fatto si schiera accanto a Putin e contro Zelensky. E scoppiano le polemiche in Italia ed all'estero. Meloni: «O un governo pro Nato o niente governo». Berlusconi in serata: «Io atlantista».

Saranno pure opinioni personali estorte da un incontro riservatissimo. Ma le frasi pronunciate da Silvio Berlusconi – che vengono fatte uscire a singhiozzo in queste ore convulse dall’Agenzia Lapresse – creeranno inevitabilmente un incidente politico nazionale ed internazionale, giusto a poche ore dall’incarico che il presidente della Repubblica dovrebbe conferire a Giorgia Meloni per la formazione di un governo di centrodestra. Anche perché gli audio di quei commenti sono arrivati alla stampa grazie a un parlamentare luciferino, che - vuoi per ragioni personali o perché è in realtà un guastatore doppiogiochista – ha prima registrato e poi girato quel nastro scottante alla stampa, dove il leader di Forza Italia discetta di politica estera e offre la sua visione agli accoliti forzisti, tendendo a giustificare Vladimir Putin praticamente in ogni passaggio della storia recente e attaccando il presidente ucraino («Zelensky? Lasciamo perdere...» seguito dagli applausi e dalle risatine dei presenti)

Il punto più scivoloso, su cui si crogiolano i cronisti politici, attiene all’infelice commento relativo al fatto che l’Ucraina abbia «buttato al diavolo» il trattato di Minsk per porre fine alla guerra nell’Ucraina orientale, e che un anno dopo abbia cominciato «ad attaccare le frontiere delle due repubbliche del Donbass», triplicando le operazioni belliche. Come se non bastasse, Berlusconi rincara la dose, affibbiando al presidente russo addirittura un apostolato salvifico: «Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu» avrebbero pigolato i presidenti delle Repubbliche del Donbass di fronte al titolare del Cremlino, secondo Berlusconi. Al che, Putin avrebbe risposto a quell’appello accorato, e si sarebbe deciso a «inventare l’operazione speciale», che poi altro non è se non l’invasione dell’Ucraina. Ecco perché, secondo il capo forzista, Putin in fondo «è una persona per bene», com’ebbe a dire già qualche tempo fa davanti a un compunto Bruno Vespa nel salotto di Porta a Porta. Mentre sul leader ucraino l’opinione di Berlusconi non è delle migliori: «Zelensky secondo me... lasciamo perdere, non posso dirlo...». Almeno su un fatto, però, l’ex premier ha completamente ragione: «Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Perché non c'è nessun modo possibile». Ora, di là dalla disamina geopolitica, dalle strumentalizzazioni e dalle facili ironie sul senatore Berlusconi, il fatto che il fondatore del centrodestra assuma una posizione non in sintonia (per usare un eufemismo) con quella che sappiamo essere quella ufficiale – in ordine: di Washington, dell’Unione Europea, del Partito Popolare Europeo, della presidenza della Repubblica, del governo italiano, del partito di maggioranza Fratelli d’Italia, eccetera – è piuttosto grave, soprattutto per le conseguenze internazionali. Giorgia Meloni si sente giustamente sotto ricatto e per questo ha diramato una nota in cui lascia spazio zero ai dubbi, arrivando persino a ipotizzare di far saltare tutto: «"Su una cosa sono stata, sono, e sarò sempre chiara. Intendo guidare un governo con una linea di politica estera chiara e inequivocabile. L'Italia è a pieno titolo, e a testa alta, parte dell'Europa e dell'Alleanza atlantica. Chi non fosse d'accordo con questo caposaldo non potrà far parte del governo, a costo di non fare il governo". L'Italia con noi al governo non sarà mai l'anello debole dell'occidente, la nazione inaffidabile tanto cara a molti nostri detrattori. Rilancerà la sua credibilità e difenderà così i suoi interessi. Su questo chiederò chiarezza a tutti i ministri di un eventuale governo. La prima regola di un governo politico che ha un forte mandato dagli italiani è rispettare il programma che i cittadini hanno votato». Insomma, tutto rimesso in gioco per la terza volta in tre giorni, anche se la sensazione è che alla fine l'accordo si farà, non fosse altro per mancanza di alternative. Dunque, non saranno certo le parole di Berlusconi a minare la nascita del governo o ad allontanare Roma dalla fedeltà all’Alleanza Atlantica e dal sostegno all’Ucraina. Semmai saranno i singoli parlamentari un minuto dopo che il governo sarà nato a dar vita a quelle bagarre, ribaltoni, fughe verso i gruppi misti, che hanno caratterizzato da sempre la vita parlamentare in quel di Montecitorio (e c’è, da giurarci, ancor prima accadeva a Palazzo Carignano a Torino e a Palazzo Vecchio a Firenze). In tutto questo, immediate, sono arrivate sull'Italia le reazioni estere, poco piacevoli. Non è un caso che domani Antonio Tajani (che forse si sta giocando quella che sembrava una certa nomina al Ministero degli Esteri e non a caso con un tweet si è subito schierato a fianco di Zelensky) andrà a Bruxelles per spiegare ai colleghi del Partito Popolare Europeo che la posizione anche di Forza Italia è filo-atlantista e pro Ucraina, come dimostrato dai voti di Forza Italia a fianco e sempre favorevoli alle decisioni del Governo di Mario Draghi. Diversi paesi e cancellerie comunque hanno già colto la palla al balzo per gettare scredito e dubbi sul Governo Meloni, non ancora nato. Difficoltà internazionali e difficoltà interne. Il tutto con sempre meno tempo a disposizione, per Giorgia Meloni e non solo per lei. Ps. Poco fa Silvio Berlusconi ha condiviso una nota: In 28 anni di vita politica la scelta atlantica, l’europeismo, il riferimento costante all’Occidente come sistema di valori e di alleanze fra Paesi liberi e democratici sono stati alla base del mio impegno di leader politico e di uomo di governo. Come ho spiegato al Congresso degli Stati Uniti, l’amicizia e la gratitudine verso quel Paese fanno parte dei valori ai quali fin da ragazzo sono stato educato da mio padre. Nessuno, sottolineo nessuno, può permettersi di mettere in discussione questo. Non può certamente permettersi di farlo la sinistra, che tante volte è stata dalla parte sbagliata della storia. Tantomeno la sinistra del Partito Democratico, che anche alle ultime elezioni, meno di un mese fa, era alleata con i nemici della NATO e dell’Occidente. Tutto questo però non esisterebbe, se non vi fosse in Italia la pessima abitudine di trasformare la discussione politica in pettegolezzo, utilizzando frasi rubate registrate di nascosto, e appunti fotografati con il teleobbiettivo, con un metodo non solo sleale ma intimidatorio. Un metodo soprattutto che porta a stravolgere e addirittura a rovesciare il mio pensiero, usando a piacimento brandelli di conversazioni, attribuendomi opinioni che stavo semplicemente riferendo, dando a frasi discorsive un  significato del tutto diverso da quello reale. La colpa non è degli organi di informazione, ovviamente costretti a diffondere queste notizie, è di chi usa questi metodi di dossieraggio indegni di un Paese civile. Senza questo, non sarebbe necessario ribadire l’ovvio. La mia posizione personale e quella di Forza Italia non si discostano da quella del Governo Italiano, dell’Unione Europea, dell’Alleanza Atlantica né sulla crisi Ucraina, né sugli altri grandi temi della politica internazionale. Lo abbiamo dimostrato in decine di dichiarazioni ufficiali, di atti parlamentari, di voti alle Camere. Interrogarsi sulle cause del comportamento russo, come stavo facendo, ed auspicare una soluzione diplomatica il più rapida possibile, con l’intervento forte e congiunto degli Stati Uniti e della Repubblica cinese, non sono atti in contraddizione con la solidarietà occidentale e il sostegno al popolo ucraino. Del resto alla pace non si potrà giungere se i diritti dell’Ucraina non saranno adeguatamente tutelati.

Zar per una notte. Berlusconi precisa e rettifica, ma non si smentisce mai (e noi italiani nemmeno). Francesco Cundari su L'Inkiesta il 19 Ottobre 2022.

Il Cavaliere parla a ruota libera di Meloni e del governo, ma soprattutto di Putin e della guerra. E come al solito dice quello che molti pensano ma non hanno, giustamente, il coraggio di dichiarare. Tranne Fontana, che purtroppo ce l’ha.

Silvio Berlusconi, come al solito, passa un’enorme quantità di tempo a precisare, puntualizzare e rettificare, ma non si smentisce mai. Non ha mai detto che Giorgia Meloni avesse tenuto un comportamento «supponente, prepotente, arrogante, offensivo», come scritto, a caratteri ben leggibili, nel famoso foglietto fotografato in Senato (quelle erano le opinioni degli altri parlamentari di Forza Italia che lui si era diligentemente appuntato; il suo personale giudizio era «su un altro foglio», ed era, ovviamente, «assolutamente positivo»). Non ha mai avuto l’intenzione di non far eleggere Ignazio La Russa presidente del Senato, e la scelta di non partecipare alla prima votazione – compiuta del resto dai senatori di Forza Italia, com’è noto, indipendentemente dalla sua volontà – sarebbe comunque rientrata alla seconda, perché l’unica cosa che intendevano fare era dare un segnale. E mentre questo articolo va in stampa (si fa per dire) scopriremo certamente che non avrà detto nulla neanche sulla lista dei ministri, su Elisabetta Casellati alla Giustizia al posto di Carlo Nordio, sui suoi battibecchi con Meloni e su tutti gli altri argomenti con cui ieri ha riempito agenzie, telegiornali e talk show.

Soprattutto, stando almeno a quanto prontamente spiegato da una nota di Forza Italia, Berlusconi non ha mai detto di avere riallacciato i rapporti con Vladimir Putin, come rivelato dall’agenzia La Presse, essendosi limitato piuttosto a raccontare «una vecchia storia relativa a un episodio risalente a molti anni fa».

Questa la trascrizione dell’audio pubblicato, subito dopo la smentita, da La Presse: «I ministri russi in diverse occasioni hanno detto che noi siamo già in guerra con loro, perché? Perché forniamo armi e finanziamenti all’Ucraina. Io personalmente non posso esprimere il mio parere perché se poi viene raccontato alla stampa o altro, eccetera, viene fuori un disastro, però sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato un po’ i rapporti con il presidente Putin, un po’ tanto, nel senso che per il mio compleanno mi ha mandato venti bottiglie di vodka e una lettera dolcissima, io gli ho risposto con delle bottiglie di Lambrusco e una lettera altrettanto dolce. Io ero stato dichiarato da lui il primo dei suoi cinque veri amici».

Queste le parole che ciascuno può ascoltare dalla viva voce di Silvio Berlusconi, quattro volte presidente del Consiglio, leader di un importante partito della maggioranza impegnato nelle trattative sulla formazione del nuovo governo.

Del resto, non è un caso che quest’uomo abbia dominato come nessun altro la politica italiana per quasi trent’anni: non perché qualcuno abbia mai creduto alle sue smentite, ma per l’esatto contrario. Nessuno dei suoi elettori si è mai bevuto la storia della nipote di Mubarak, il che non vuol dire affatto che non l’abbiano apprezzata, probabilmente perché convinti che fossero sempre altri, gli odiati avversari, a doverla mandar giù.

Berlusconi è Berlusconi anche grazie alle sue storie e alla sua impudenza, ai suoi qui lo dico e qui lo nego, e proprio per questo è stato ed è ancora oggi capace di rappresentare milioni di italiani, persino più di quelli che poi effettivamente lo votano.

Con il suo stile, ancora una volta, dice quello che molti pensano ma non hanno, giustamente, il coraggio di dichiarare. Tranne Lorenzo Fontana, che quel coraggio purtroppo ce l’ha, e da neoeletto presidente della Camera giusto oggi dice che le sanzioni alla Russia «potrebbero essere un boomerang».

Eppure, nonostante tutto, molto più di Matteo Salvini o di Nicola Fratoianni, è Berlusconi a rappresentare il sentimento profondo di tanti italiani che vorrebbero abbandonare l’Ucraina al suo destino, non per ragioni ideologiche e tanto meno geopolitiche, forse nemmeno per timore della bomba atomica, ma perché intendono il pacifismo semplicemente come il diritto di essere lasciati in pace, e lo considerano l’unico diritto davvero inalienabile.

Berlusconi li rappresenta non nonostante, ma grazie alle sue reiterate smentite, così simili a quelle di tanti altri sostenitori della medesima causa, sempre pronti a scattare gonfi d’indignazione al primo che si permetta di definirli putiniani, solo perché ripetono tutte le balle della propaganda putiniana, così come fino a ieri facevano tanti intellettuali, di destra e di sinistra, con i loro dubbi e i loro distinguo sui vaccini o sul green pass, quando qualcuno si azzardava a dar loro di no vax.

Silvio Berlusconi, in realtà, li rappresenta tutti, da sempre, più e meglio di quanto essi stessi siano capaci di rappresentarsi e di riconoscersi per quello che sono. Ed è per questo, forse solo per questo, che è ancora là.

Putiniani per procura. L’insopportabile ipocrisia di chi dice da mesi le stesse cose di Berlusconi, ma s’indigna se le dice lui. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 20 Ottobre 2022

Conte, che appena un mese fa invitava a non dire che il leader russo non volesse la pace, si scandalizza perché il Cavaliere lo definisce, per l’appunto, un «uomo di pace». Ma che differenza c’è tra queste parole e i tanti discorsi sulla «guerra per procura» e l’«oltranzismo atlantico»? 

Mentre continuano a uscire spezzoni sempre più inquietanti del discorso pronunciato da Silvio Berlusconi davanti ai parlamentari di Forza Italia, la prima domanda che vien fatto di porsi è come qualificarlo: lo si potrà definire putiniano?

Sinceramente, sarei tentato di rispondere di no. Non perché non pensi che attribuire la responsabilità della guerra a Volodymyr Zelensky, che si sta difendendo, anziché a Vladimir Putin, che attacca, non sia più che sufficiente a meritare il titolo. Ma perché non lo abbiamo ritenuto sufficiente finora, accettando che discorsi dal significato assolutamente identico, appena dissimulato in formulazioni soltanto un filo più furbe, cioè più ipocrite, venissero spacciati per qualcosa di diverso da quello che erano. Pura e semplice propaganda putiniana.

Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 stelle che appena un mese fa dichiarava testualmente: «La pace va costruita, nessuno ci dica che Putin non la vuole» (per la precisione il 6 settembre, dagli studi di Telelombardia), s’indigna oggi perché Berlusconi definisce Putin un «uomo di pace». Facendo cioè esattamente quello che aveva chiesto Conte.

Da giorni la Russia utilizza droni iraniani per uccidere quanti più civili possibile a Kiev e in altre città ucraine lontanissime dal fronte. Attacchi privi della benché minima utilità militare, che hanno l’unico scopo di seminare panico e morte tra uomini, donne e bambini. Putin fa sparare su ospedali e ambulanze, ma soprattutto prende di mira le centrali elettriche, con il trasparente obiettivo di far morire di freddo la popolazione.

Ma tutto questo non viene nemmeno notato, come se non avesse alcuna importanza, tanto meno da parte dei tanti che oggi s’indignano per le vergognose parole di Berlusconi.

Di certo, tutto questo non sembra interferire affatto con le loro disquisizioni sulla necessità di fermare subito le armi e portare le due parti al tavolo del negoziato, perché la pace si fa in due, e non possiamo mica rischiare una guerra nucleare, no? Tanto meno scalfisce i loro ragionamenti quello che nel frattempo accade nelle zone occupate, dove ora Putin ha dichiarato la legge marziale.

Che differenza c’è, se guardiamo alla sostanza, alle premesse logiche e alle conseguenze pratiche, tra quanto dichiarato da Berlusconi e quanto dichiarato da chi continua a parlare di «guerra per procura», a parlare di Zelensky come di una marionetta degli americani, a dire o lasciar intendere in mille modi che il vero motivo per cui alla pace non si arriva è «l’oltranzismo atlantico», l’atteggiamento «bellicista» dell’Europa, l’aggressività della Nato o dello stesso Zelensky (che nei giorni pari è la marionetta degli americani e nei giorni dispari è il vero responsabile dell’escalation, contro il volere degli stessi Stati Uniti).

Che differenza c’è, in concreto, tra quanto dichiarato da Berlusconi e quanto dichiarato mille volte da Conte, dai firmatari del recente appello per un «negoziato credibile» pubblicato su Avvenire (tra cui fior di intellettuali di sinistra), da tutta l’eletta schiera degli opinionisti fissi di La 7 e Fatto quotidiano, da tutti quelli che continuano a denunciare la presunta «subalternità» dell’Italia agli Stati Uniti, all’Europa, alla Nato o ai paesi maggiormente impegnati nel sostegno all’Ucraina, squalificandoli come «bellicisti»? Qual è il succo di tutti questi discorsi, se non che il problema non è fermare Putin, ma fermare Zelensky? E quindi, cos’hanno tanto da indignarsi con Berlusconi, se stanno dicendo, in forme neanche tanto diverse, la stessa cosa?

L’unica differenza, molto labile, è che loro non dimenticano mai di premettere che condannano l’aggressione di Putin, che riconoscono il fatto che c’è un aggredito e un aggressore, e che insomma, come suol dirsi, hanno tanti amici ucraini.

Cosa ha detto Berlusconi su Putin e ministri e cosa vuol dire che ha picconato l’accordo con Meloni. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 19 Ottobre 2022.

Due dichiarazioni che fanno traballare l’accordo da poco trovato per il nuovo governo. Berlusconi prima dice «ho riallacciato i rapporti con Putin» e poi che Casellati sarà la ministra della Giustizia. Due uscite non gradite a Giorgia Meloni.

Inizia e finisce con due cose dolci, l’una in senso lato, l’altra in senso stretto. La prima, entrando alle 13.41 a Palazzo Madama, è il dichiararsi «assolutamente a disposizione» rispetto all’idea di diventare il consigliere di Giorgia Meloni; la seconda sono le crêpes a cui non resiste mentre la compagna Marta Fascina prende un gelato, il tutto suggellato da una foto sui social network pubblicata alle 18.38. 

Nelle 4 ore e 57 minuti che separano i consigli dalle crepes, Silvio Berlusconi trasforma in un incrocio tra «drammatico», «giallo» e per certi aspetti «grottesco» il film della costruzione del governo Meloni. Perché candidamente rivela di «a ver riallacciato i rapporti con l’amico Putin». E perché poi rivendica - come acquisita - l’assegnazione del ministero della Giustizia alla forzista Maria Elisabetta Casellati. Una dopo l’altra, in onda o con la sola voce registrata, l’ex presidente del Consiglio infila una serie di dichiarazioni che riportano l’orologio dello scontro con Meloni al drammatico faccia a faccia di giovedì scorso a Montecitorio quasi cancellando l’accordo di pace siglato a via della Scrofa. Torna altissima la tensione nel centrodestra e l’opposizione va all’attacco. 

La cifra stilistica con cui il Cavaliere spazia da un campo all’altro, dal censimento sulla distribuzione dei ministeri alle «lettere affettuose» con Vladimir Putin, ricordano le «picconate» del suo vecchio e compianto amico Francesco Cossiga. Ne basterebbe una sola, quella dell’annuncio (smentito) da Fratelli d’Italia sull’«accordo con Meloni sull’ex seconda carica Casellati al ministero della Giustizia», per far tremare tutti i tavoli della trattativa. Ne arriveranno parecchie altre. 

«Se il ministro della Giustizia sarà Nordio? No», risponde Berlusconi a un gruppo di cronisti che lo avvicina al Senato. Quindi non c’è l’accordo? «L’accordo c’è. Meloni mi ha chiesto di incontrare Nordio, “che è bravissimo, magari ti convince”. E io lo incontrerò. Ma sono già convinto sulla Casellati». Sono da poco passate le 15. Il primo dello staff della Meloni che vede il lancio di agenzia sbianca, chiede lumi alla leader e ritorna davanti a un computer con la consegna di smentire. In realtà sarà impossibile correggere in tempo reale tutte le fughe in avanti di un Cavaliere loquace come non mai. Prima di lasciare Palazzo Madama, il leader di Forza Italia - rompendo la consegna del silenzio pubblico sui nomi dei ministri - elenca la sua personalissima lista della delegazione azzurra: Tajani vicepremier e ministro degli Esteri; Saccani all’Università, Bernini alla Pubblica amministrazione, Pichetto Fratin alla transizione ecologica e, per l’appunto, Casellati alla Giustizia. In serata, quest’ ultima riceverà una telefonata di Meloni: «Nulla contro di te ma per la Giustizia ho già deciso». 

«Vedo che sopravvivete alle vostre balle. Tutto quello che è stato scritto in questi giorni, compreso l’intervento dei miei familiari, non è vero», argomenta il Cavaliere una volta fuori dal Palazzo. In un pezzo dell’intervista già rilasciata dentro, che però ancora non è stata diffusa, ha dichiarato che «la signora Meloni è amica di mio figlio (Pier Silvio, ndr)», frase che suonerà come una conferma indiretta al lavorio dei familiari per far rientrare le crisi. E ancora: «Anche il suo uomo (Andrea Giambruno, ndr) lavora a Mediaset». Quella formula - «signora Meloni» - ritorna parecchie volte. Tolta, forse, la ricostruzione parziale della vicenda del foglietto con gli aggettivi, «riportavo frasi ascoltate dai miei senatori», versione che il Cavaliere aveva già anticipato a Meloni nel faccia a faccia di lunedì. 

Dall’assemblea dei gruppi del Senato arrivano in differita, pubblicati da LaPresse, altri fendenti che Berlusconi indirizza alla «signora Meloni». «Mi ha riso in faccia», spiega il Cavaliere raccontando della trattativa di giovedì scorso, quando chiedeva una compensazione in termini di caselle di governo («Tre ministeri in più») rispetto alle presidenze delle Camere finite a FdI e Lega. Poi il giallo si fa intrigo internazionale: l’amicizia ritrovata con Putin, «mi ha scritto per il compleanno una lettera affettuosa, ho risposto con una lettera altrettanto affettuosa», venti bottiglie di vodka che hanno viaggiato da Mosca ad Arcore, venti bottiglie di Lambrusco che hanno percorso la tratta in senso contrario. 

I l prequel del film si gira lunedì sera a cena, a Villa Grande. Presenti, oltre a Berlusconi e Marta Fascina, Licia Ronzulli, Alessandro Cattaneo e Antonio Tajani. Per tutta la sera, il titolare il pectore della Farnesina respingerà attacchi che arrivano da tutti i lati. «Dobbiamo lavorare per arrivare presto al governo», dice lui. «Eccolo, parla già come la Meloni, dice le stesse cose che dice la Meloni», risponderanno a turno gli altri commensali. Sarebbe stata proprio la fidanzata di Berlusconi a suggerire il declassamento della «colomba» Anna Maria Bernini a ministero di fascia B (Pubblica amministrazione) e l’ascesa di Gloria Saccani Jotti, «che sarebbe un ottimo ministro dell’Università». Al momento dei saluti il fronte dei governisti subisce l’annuncio di Ronzulli come prossima capogruppo al Senato. Rimane aperta la possibilità che Paolo Barelli possa fare il capogruppo alla Camera. «Domani vediamo, dai», dice Berlusconi. Ieri mattina l’annuncio che il prescelto è Alessandro Cattaneo. E poi, a seguire, le picconate. Fino alle crepes.

"Se Ucraina entra nella Nato sarebbe la guerra mondiale". L’audio di Berlusconi: “Da Putin lettera dolcissima per il mio compleanno. Meloni? Mi ha riso in faccia, impari a parlare”. Redazione su Il Riformista il 18 Ottobre 2022. 

Non c’è pace per Giorgia Meloni e per il centrodestra. Dopo il vertice con Silvio Berlusconi e l’annuncio di salire insieme al Quirinale dal presidente della Repubblica per presentare la nuova, possibile, squadra di governo, è la pubblicazione di un audio esclusivo di LaPresse a creare nuovamente scompiglio nella coalizione che alle scorse elezioni politiche ha ottenuto il 44% dei consensi.

Un audio smentito da Forza Italia che chiarisce le dichiarazioni di Berlusconi su una ripresa dei rapporti con il presidente russo Vladimir Putin. Secondo la versione diffusa dal partito azzurro, l’ex premier “ha raccontato ai parlamentari una vecchia storia relativa a un episodio risalente a molti anni fa”.

LaPresse, tuttavia, ha pubblicato l’audio, relativo all’intervento del Cavaliere alla riunione dell’assemblea di Forza Italia alla Camera per l’elezione dei capogruppo, dove Berlusconi parla al presente, facendo riferimento alla guerra in corso in Ucraina: “I ministri russi hanno già detto in diverse occasioni che siamo noi in guerra con loro, perché forniamo armi e finanziamenti all’Ucraina. Io non posso personalmente fornire il mio parere perché – spiega – se viene raccontato alla stampa viene fuori un disastro, ma sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato i rapporti con il presidente Putin, un po’ tanto”.

Poi racconta il regalo ricevuto per il suo compleanno. Berlusconi è nato il 29 settembre. Non è chiaro se il riferimento è alle 86 primavere festeggiate poche settimane fa o se a un episodio avvenuto in passato. “Putin per il mio compleanno – racconta -mi ha mandato 20 bottiglie di vodka e una lettera dolcissima. Io gli ho risposto con bottiglie di Lambrusco e con una lettera altrettanto dolce. Io l’ho conosciuto come una persona di pace e sensata…”, ha raccontato ancora Berlusconi che parlando del conflitto in Ucraina ha poi aggiunto: “Troppo spesso sentiamo parlare di interventi con bombe nucleari. Dio ci salvi e scampi da questo pericolo. L’Ucraina ha chiesto addirittura di entrare nella Nato. Se entrasse nella Nato la guerra sarebbe guerra mondiale”.

Un passaggio anche sull’incontro di ieri, lunedì 17 ottobre con Giorgia  Meloni: “Ieri con la signora abbiamo parlato anche di ministri, che erano quattro e sono saliti a cinque. Ma io ho insistito perché la Lega ha già avuto qualcosa più di noi perché la signora Meloni si è tenuta la presidenza del Senato, e io le ho detto che deve imparare da capo di un governo almeno ad usare il condizionale. Quando parli dei tuoi alleati dovresti dire ‘il Senato mi piacerebbe tenerlo per Fdi’ e non ‘il Senato è mio‘, perché così non si fa”.

Poi aggiunge: “Io ho fatto quattro volte il presidente del Consiglio, e il presidente del Consiglio deve essere aperto e generoso nei confronti degli alleati se vuol tenere unita la coalizione. La presidenza della Camera l’ha data alla Lega e, da che mondo è mondo, in Italia la presidenza del Senato vale due ministeri per chi non ce l’ha, vale un ministero la presidenza della Camera. Quindi noi gli abbiamo chiesto tre ministeri, mi ha riso in faccia, ne ho chiesti due, ha riso ancora, ne ho chiesto uno, ha detto ok. Questa è la situazione che ho trovato“. 

Sui rapporti amichevoli con Putin, che da settimane chiede al governo di Zelensky di negoziare la fine della guerra, Berlusconi si era già espresso nel recente passato. Pochi giorni prima del voto dello scorso 25 settembre, il leader di Forza Italia ha dovuto chiarire un suo intervento nella trasmissione “Porta a Porta” su Rai 1 condotta da Bruno Vespa. Le sue parole iniziale sono state: “Putin doveva solo sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky”. Poi la precisazione: “Riferivo parole di altri, io contrario ad aggressione Kiev”.

Lo stesso Berlusconi, a poche settimane dall’inizio della guerra, condannò l’invasione di Putin: “Non posso e non voglio nascondere di essere profondamente deluso ed addolorato dal comportamento di Vladimir Putin, che si è assunto una gravissima responsabilità di fronte al mondo intero”. Posizione, almeno inizialmente, contro il governo Draghi anche per quanto riguarda l’invio delle armi: “Siamo in guerra anche noi perché mandiamo le armi” a Zelensky. Poi il dietrofront: “Kiev va aiutata a difendersi”. In altre occasioni Berlusconi, così come Salvini e altri leader politici ed esponenti della classe imprenditoriale, avevano criticato le sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Russia a causa delle forti ripercussioni sull’economia italiana.

Berlusconi resta ancora quell’anomalia politica con cui fare i conti. Il Cav vuole esercitare ancora una funzione proprietaria sulla coalizione, reclamando il ruolo di chi decide in ultima istanza. Paolo Delgado su Il Dubbio il 20 ottobre 2022

Non è normale che un papabile ministro della Giustizia venga ricevuto nella villa di un capo partito che con la giustizia ha un conto sempre aperto, presumibilmente per esporgli il suo programma, presumibilmente per ottenere l’approvazione e forse la correzione del medesimo programma e il semaforo verde sulla sua nomina. Non è neppure normale che un leader di partito metta in piazza i propri «dolcissimi» rapporti con un capo di Stato, col quale incidentalmente l’Italia è in quasi guerra, non per invocare un cambio nella politica del suo schieramento ma solo per far valere una minaccia volta a strappare un’importante postazione nel governo. Neppure è normale che, per risolvere una crisi politica, ci si rivolga ai figli del capo riottoso tra cui la pargola che guida le aziende di papà.

Tutto ciò non è normale, più precisamente è in clamoroso contrasto con qualsiasi regola di correttezza politico istituzionale e con ogni chimera di limpidezza politica, e allo stesso tempo è normalissimo, consueto. È la normalità nella quale la politica italiana naviga da tre decenni e dunque quasi non fa più sensazione. È significativo che, nel commentare il braccio di ferro tra Berlusconi e Meloni, nessuno di quelli che avevano strillato a pieni polmoni per decenni denunciando il conflitto di interessi e i criteri di selezione delle cariche in Forza Italia abbia segnalato che proprio quella anomala normalità Giorgia Meloni prova oggi a revocare in dubbio.

Raccontarsi il conflitto Meloni-Berlusconi solo come il braccio di ferro fra un leader in declino che non vuole passare la mano e una giovane in ascesa che fatica a trovare la via diplomatica per far ingoiare all’ex sovrano l’amara pillola non è in sé sbagliato ma non è neppure esaustivo. In ballo c’è molto di più. C’è l’anomalia che, in tandem con l’eterno rifiuto del PdS- Ds- Pd di dotarsi di un’identità politica precisa, ha precipitato il sistema politico italiano nella confusione totale in cui sta annegando. La guerriglia berlusconiana di questi giorni è solo l’ultima incarnazione della anomalia costituita dalla presenza in campo, con ruoli diversi a seconda delle circostanze storiche però sempre determinanti, di un leader sceso in politica per difendere i propri interessi aziendali, costruendosi un partito di cui è sempre stato non solo il leader, per quanto carismatico, ma a tutti gli effetti il proprietario.

Berlusconi non pretende oggi solo il rispetto dovuto al fondatore della moderna destra italiana, rispetto che in ultima analisi gli sarebbe dovuto. Chiede però di esercitare ancora una funzione proprietaria, subordinando la politica ai propri interessi e reclamando il ruolo di chi decide in ultima istanza. La rigidità della leader tricolore si spiega proprio con la consapevolezza di essere impegnata in un braccio di ferro che ha per posta in gioco non questo o quel ministero ma la natura stessa della coalizione che sosterrà il suo governo e dunque i margini di autonomia e la libertà d’azione stessa di quel governo.

In una partita del genere sono possibili tregue, come quella che con ogni probabilità permetterà comunque di formare il governo in tempi brevi. Non è però contemplata una vera pace perché Berlusconi non può permettere che la destra si emancipi dal berlusconismo e perché Giorgia Meloni non può adottare il berlusconismo senza trasformarsi automaticamente in una pedina la cui stella sarebbe destinata a tramontare con la stessa rapidità con cui è sorta.

È dunque facilmente prevedibile che la tensione continuerà a crescere, a tratti in piena vista, in altri momenti sotto pelle, ma a un certo punto, e non in tempi biblici, si dovrà arrivare a una risoluzione, che può passare per un ventaglio limitato di esiti concreti. Il primo è la resa del Cavaliere, che potrebbe rivelarsi inevitabile se l’asse in realtà fragile tra FdI e Lega resistesse ma diventerebbe molto meno probabile ove quell’intesa si spaccasse.

Il secondo è una scissione di Forza Italia che metterebbe fine alla lunga parabola del partito azzurro, anche se in quel caso non è affatto detto che Meloni disporrebbe ancora di una maggioranza. Il terzo esito è un ritorno in tempi piuttosto brevi alle urne e a quel punto tutto tornerebbe in ballo anche se difficilmente Berlusconi potrebbe ripetere il miracolo che lo salvato il 25 settembre. L’ultima ipotesi è un’ennesima formula ambigua, basata su una qualche maggioranza improbabile. È un’eventualità remota nella situazione data. Ma nella politica italiana l’impossibile non esiste.

Berlusconi emulo di Cossiga, fa impazzire i giornali: ma picconare è rischioso. Il leader di Forza Italia dovrebbe sapere che il Quirinale, e quindi Sergio Mattarella, non accetterà un governo dalle basi precarie. Francesco Damato su Il Dubbio il 20 ottobre 2022

Le notizie “da”, ma anche “su” Silvio Berlusconi arrivano ai e sui giornali come le picconate del compianto Francesco Cossiga nell’ultimo anno, all’incirca, del suo settennato al Quirinale: sempre in tempo per sfasciare le prime pagine, far deperire come frutta marcia un bel po’ di articoli, aggiornarli più volte, farne cestinare irreparabilmente alcuni e improvvisarne altri in una rincorsa affannosa fra le redazioni e, spesso, il presidente della Repubblica in persona. Che si compiaceva ogni tanto a telefonare ai quotidiani per verificare gli effetti delle sue sortite, fasi anticipare i titoli e quant’altro.

Alla fine eravamo davvero sfiniti lui e noi, rassegnati a replicare la sera o la notte successiva. Ogni tanto torno a sognarmele quelle notti come in un incubo. E temo che accada anche all’ambasciatore Ludovico Ortona, ottant’anni belli che compiuti, che dalla sua postazione quirinalizia di portavoce doveva paradossalmente assecondare ma al tempo stesso contenere quel fiume in piena che era diventato il Capo dello Stato.

Per sua e nostra fortuna Berlusconi è stato appena rieletto soltanto senatore della Repubblica, ma sta facendo una bella concorrenza, a suo modo, al compianto Cossiga in questo avventuroso avvio della nuova legislatura, montando e smontando tregue più o meno armate, spiazzando persino gli amici, sino a farsi invitare da alcuni di provata fede come Alessandro Sallusti a smetterla per carità, perché – ha stampato Libero in rosso sulla prima pagina- “avanti così finisce male”. Anche per Berlusconi, temo, e non solo per gli altri, a cominciare naturalmente dalla “signora Meloni”, come lui ha ripreso a chiamare con una certa distanza la sua ex ministra della Gioventù in attesa dell’incarico di presidente del Consiglio.

L’attenuante che gli amici del Cavaliere sufficientemente in confidenza come Alessandro Sallusti per invocarlo pubblicamente a fermarsi gli riconoscono in questa piena di sorprese e di rivelazioni, dalla lista dei ministri alle lettere e ai doni di Putin, è che Forza Italia ha ancora bisogno del suo fondatore per non dissolversi. E che il centrodestra, a sua volta, avrebbe ancora bisogno di Forza Italia per non essere tutto e solo destra, costretto dalle circostanze a governare nel passaggio più difficile del Paese, fra emergenze di ogni tipo rispetto alle quali forse impallidiscono anche quelle gestite da Mario Draghi, purtroppo rimosso di fatto anzitempo.

In questa situazione “assicurare entro questa settimana un governo al Paese non è un’opzione, ma un obbligo, un dovere”, ha scritto sul Giornale di famiglia di Berlusconi il direttore Augusto Minzolini ripetendo un po’, se non ricordo male, le parole proprio di Draghi al suo esordio da presidente del Consiglio davanti alle Camere nel 2021.

Ma il problema di Giorgia Meloni in questo avvio – ripeto- di legislatura è di formare appunto un governo, di solida e ben definita maggioranza, dopo un passaggio elettorale col quale si è voluto chiudere la stagione degli esecutivi di una certa anomalia. Il problema non è di formare un governo comunque e di lanciarlo come un oggetto misterioso su un Parlamento dove peraltro una delle due Camere non si è neppure attrezzata alle nuove, ridotte dimensioni con un regolamento aggiornato.

Un simile governo – temo per chi lo volesse mettere nel conto derubricando magari a folclore quello che sta accadendo nel centrodestra non sarebbe permesso da Mattarella, cui spetta di nominarlo, per quanto sollevato – come scrivevo ieri- dalla decisione dello stesso centrodestra di partecipare unito alle consultazioni di rito al Quirinale.

Sul Presidente ucraino: "Lasciamo perdere". Il nuovo audio di Berlusconi sulla guerra in Ucraina: “Putin contrario, ha subito pressioni in Russia: Zelensky aveva triplicato attacchi in Donbass”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

“Promettete?”, chiede Silvio Berlusconi ai parlamentari di Forza Italia nel nuovo audio diffuso in esclusiva da Lapresse: chiedeva massimo riserbo ai suoi, riserbo che evidentemente non è stato osservato. La verità di Berlusconi sulla guerra in Ucraina, sulle ragioni dell’amico Vladimir Putin che lo scorso febbraio ha lanciato la sua “operazione speciale” su Kiev. Non una versione inedita tuttavia considerate le parole che l’ex Presidente del Consiglio aveva detto a Porta a Porta in piena campagna elettorale e che già allora avevano scatenato polemiche, e non soltanto in Italia.

“La cosa è andata così: nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l’Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l’altro. L’Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, mi si dice, a 5-6-7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche. Disperate, le due repubbliche mandano una delegazione a Mosca e finalmente riescono a parlare con Putin. Dicono: ‘Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu’”.

Lui è contrario a qualsiasi iniziativa, resiste, subisce una pressione forte da tutta la Russia. E allora si decide a inventare una operazione speciale: le truppe dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo in carica, Zelensky eccetera, e mettere un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso, un’altra settimana per tornare indietro. È entrato in Ucraina e si è trovato di fronte a una situazione imprevista e imprevedibile di resistenza da parte degli ucraini, che hanno cominciato dal terzo giorno a ricevere soldi e armi dall’Occidente. E la guerra, invece di essere una operazione di due settimane, è diventata una guerra di duecento e rotti anni (sic). Quindi, questa è la situazione della guerra in Ucraina”.

Destinato a far discutere anche il no comment sul Presidente ucraino Volodymyr Zelensky: “Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Perché non c’è nessun modo possibile. Zelensky, secondo me … lasciamo perdere, non posso dirlo …”. Il nuovo audio viene pubblicato all’indomani di altre dichiarazioni di Berlusconi sul presumibile prossimo governo di centrodestra e sulla relazione con Putin, amico di vecchia data del Cavaliere, che già avevano fatto discutere.

Berlusconi aveva detto di aver ricevuto bottiglie di vodka e un biglietto “dolcissimo” in occasione del suo compleanno, cui lui aveva risposto a sua volta con bottiglie di Lambrusco e un suo biglietto “altrettanto dolce” – il caso è stato oggetto di discussione questa mattina in Commissione Europea viste le sanzioni per quanto riguarda import ed export con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Parole che rischiano di aumentare le tensioni all’interno della maggioranza: la premier in pectore Giorgia Meloni continua a confermare la sua posizione atlantista.

Il leader di Forza Italia ha descritto nel nuovo audio una mancanza di leadership nel mondo occidentale: “Quello che è un altro rischio, un altro pericolo che tutti noi abbiamo: oggi, purtroppo, nel mondo occidentale, non ci sono leader, non ci sono in Europa e negli Stati Uniti d’America. Non vi dico le cose che so ma leader veri non ce ne sono. Posso farvi sorridere? L’unico vero leader sono io …”.

Berlusconi, dopo la diffusione dell’audio nel corso della trasmissione Diario Politico su La7 ha telefonato in studio chiedendo di precisare “il contesto”, “le parole registrate vanno inquadrate in un contesto più largo di preoccupazione generale, con gli Stati Uniti che hanno disatteso le premesse multilaterali di Trump”. E poi quelle parole erano state pronunciate a una riunione di partito e non un’occasione ufficiale. “Io non posso personalmente esprimere il mio parere perché se viene raccontato alla stampa viene fuori un disastro, ma sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato un po’ i rapporti con il presidente Putin, un po’ tanto”, le dichiarazioni che erano emerse negli audio diffusi ieri.

Berlusconi ha avuto un lungo rapporto di amicizia con Putin. L’ex premier lo andò a trovare nella sua prima visita ufficiale all’estero poco dopo essersi insediato nel 2001. I due si incontrarono poi più volte negli anni successivi e non soltanto per ragioni istituzionali. Numerosi scatti e momenti di quel rapporto sono diventati molto noti, in alcuni casi virali e ricordati ancora oggi. Nel caso delle dichiarazioni rilasciate a Porta a Porta Berlusconi aveva poi precisato di esser stato frainteso per quelle parole. Il nuovo audio si inserisce nelle complicate e turbolente trattative per la formazione di un governo di centrodestra. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 21 ottobre 2022.

Altro che audio «manipolato»: è tutto vero, «un gran pezzo giornalistico». Alessia Lautone, direttrice di LaPresse, difende orgogliosa lo scoop di Donatella Di Nitto, la giornalista che ha pubblicato la registrazione di Silvio Berlusconi. Non fornisce indizi su «finestre aperte» o ex parlamentari rancorosi, ma ragiona: «La leggerezza di Berlusconi è sospetta». 

C'è un terzo audio bomba?

«No. Abbiamo il discorso integrale di Berlusconi, venti minuti. Potremmo pubblicarlo solo per dimostrare che non è stato manipolato, come dice qualcuno. Siamo alla follia».

Come lo avete avuto?

«Non lo dirò mai». 

Registrato da una finestra, come suggerisce Mulè?

«Non lo dico, ma se davvero ci fossero state delle finestre aperte e tanta gente nella stanza sarebbe stato ancora più surreale per Berlusconi fare quei discorsi». 

È la vendetta di qualcuno dentro FI?

«Non lo so. Trovo strano che non si parli del contenuto ma ci si impegni di più per capire da dove viene». 

Cosa ha pensato ascoltando l'audio la prima volta?

«Quando ho sentito i passaggi su Putin e quelli sulla vodka e il lambrusco ho capito di avere in mano un grande pezzo giornalistico». 

E le risate dei deputati?

«Gli applausi mi hanno lasciato stupita, Berlusconi non lo contraddice mai nessuno. Il grande problema di Forza Italia è che tutti sono scolaretti di Berlusconi, dicono sempre sì». 

Perché darlo in due parti?

«Era molto lungo, l'audio era sporco e volevo essere certa che si sentisse bene. Nessuna dietrologia né complotti». 

Berlusconi l'ha fatto uscire apposta?

«Quel giorno aveva rilasciato molte dichiarazioni, senza considerare il famoso biglietto su Meloni. Aveva voglia di parlare. Una leggerezza sospetta c'è».

Un disegno per mettere in difficoltà Meloni?

«Lui fa fatica a non dare le carte, gli brucia tanto. Ancora di più con Meloni. La loro è un'incompatibilità caratteriale». 

Quante telefonate furiose ha ricevuto da Forza Italia?

«Non ho ricevuto nessunissima pressione». 

Qualche politico contento?

«Nemmeno. Hanno paura di finire tra i sospettati».

Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 21 ottobre 2022.

Gazprom, la tv russa, Yukos, i servizi russi. Per capire la connessione tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin bisogna esplorare questo quadrato e i suoi grandi filoni, alcuni ancora da chiarire nei dettagli, ma certo ogni volta che i due si sono avvicinati, una serie impressionante di alert si è accesa nelle diplomazie e nei servizi internazionali. 

Uno, su Gazprom e la rivendita del gas russo in Europa (dall'Austria all'Ucraina, passando per l'Italia) attraverso strati di società complesse che appaltavano una parte dei profitti ad amici personali di Putin. Due, sul ruolo di uomini di Berlusconi nella costruzione della tv di stato del Cremlino e l'infrastruttura di rete delle tv russa. Tre, sull'esproprio putiniano di Yukos, il gigante petrolifero di Mikhail Khodorkovsky, e aziende italiane che ne acquisirono pezzi.

Ma innanzitutto bisogna capire una cosa: i rapporti del Cavaliere con la Russia iniziano da molto prima di questi sciagurati audio contro Zelensky, partono quando l'Urss è ancora in piedi, nella seconda metà degli anni ottanta, e Berlusconi entra a far parte di un network di influenza sovietico, prima che russo. 

Secondo Catherine Belton, che ha scritto il libro fondamentale sulla materia, nel 2005 (quando scoppia il caso Centrex, la presunta rivendita di favore di gas russo ad amici del Cavaliere), «gli uomini di Putin stavano ricostruendo relazioni sulla base delle connessioni forgiate tanto tempo prima, nell'era sovietica, quando Berlusconi era stato uno degli intermediari che lavoravano in contatto ravvicinato con il Politburo sovietico».

Belton non è mai stata smentita dal Cavaliere. L'iniziale intento di queste operazioni «era creare una piattaforma dalla quale la Russia poteva cercare di influenzare la politica europea», come ha rivelato a Belton Michel Seppe, un ex capo dell'intelligence austriaca, che un tempo aveva lavorato strettamente con un uomo del Kgb. Di nome Andrey Akimov. 

Cosa accade nel 2005? Due uomini di Putin, Andrey Akimov, appunto, e Alexander Medvedev, due finanzieri legati al Kgb (il secondo solo omonimo di Dmitry, il presidente delle esternazioni ultra guerrafondaie di questi mesi), insediati a capo di Gazprombank e del braccio per le esportazioni, Gazpromexport, cominciano a creare una serie di società estere da usare nella rivendita di gas con creazione di fondi offshore e corruzione all'estero. A Berlino Gazprom Germania viene riempita di ex uomini della Stasi. Stessa cosa in Rosukrenergo (piena di ex di Kgb e Stasi), l'azienda a cui viene concessa la rivendita di gas russo in eccesso dall'Ucraina all'Europa.

A Vienna l'uomo chiave del network Akimov-Medvedev è Martin Schlaff, ex agente della Stasi, che aveva lavorato a Dresda (come Putin). In Italia Akimov e i suoi settano una società, Centrex Central Energy Italian Gas Holding, che aveva questa struttura societaria di base: al 41,6 per cento aveva come azionista Centrex e Gas AG (la casa madre a Vienna), al 25 per cento Zmb (la sussidiaria tedesca di Gazprom Export, in pratica il Cremlino), e al 33 per cento due società milanesi, Hexagon Prima e Hexagon Seconda, che avevano il medesimo indirizzo societario a Milano, intestate a Bruno Mentasti Granelli, l'ex patron di San Pellegrino, grande amico di Silvio.

Una commissione parlamentare se ne accorse. L'accordo Centrex, accettato prima dell'estate 2005 dall'Eni (Vittorio Mincato, che non voleva, era stato sostituito con Paolo Scaroni, oggi in pista per il ministero dell'Energia del governo Meloni), a ottobre fu messo in stand by indefinito per i rilievi del Cda e dell'Antitrust. Ma lo schema era chiaro. L'anno successivo Scaroni rinnova fino al 2035 l'appalto di gas da Gazprom, a prezzi non proprio convenienti, se si considera che in quegli anni emergono le potenzialità dello shale gas, e i prezzi si abbassano ovunque.

Parlamentari italiani, anche del partito di Berlusconi se ne lamentarono con l'ambasciata Usa. Tre anni dopo, in un cablo svelato da Wikileaks, l'allora ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli scrisse che la vera natura dei rapporti tra Berlusconi e Putin era «difficile da determinare»: «L'ambasciatore georgiano a Roma ci ha detto che il governo della Georgia ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti da eventuali condotte sviluppate da Gazprom in coordinamento con Eni». 

Il Cavaliere ha sempre smentito tutto, ma la cosa arrivò anche al Parlamento europeo, attraverso il report di Roman Kupchinsky. Gli americani lamentavano che le affermazioni putiniane di Berlusconi indebolivano l'alleanza atlantica, e i dialoghi per uno scudo missilistico comune Ue.

Antonio Fallico, il capo di Banca Intesa russa, insignito da Putin della cittadinanza onoraria russa, e uno degli uomini cruciali in varie vicende di influenza del Cremlino in Italia - a partire dal prestito da Banca Intesa a Rosneft per il finanziamento di una tranche della finta "privatizzazione" dell'azienda di Igor Sechin - ha raccontato che Fininvest già a fine anni '80 vinse il lucrosissimo appalto per trasmettere film in prime time sulla tv di stato sovietica. Com' era possibile, senza far parte di un network sovietico? 

C'è un uomo poco noto, Angelo Codignoni, che è stato un vero boss di Berlusconi presso Putin, stavolta attorno alla tv e a Yuri Kovalchuk. Un anno fa, da leaks dei Pandora Papers, è emerso che circa due milioni di euro sono finiti dalla Russia su società a Montecarlo di Codignoni. Ma le misteriose consulenze, su cui consorzi di reporter internazionali stanno indagando, sarebbero molte, davvero molte di più.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 21 ottobre 2022.  

Il giallo della non gelida manina che ha diffuso gli audio delle putinate di Berlusconi è già risolto. Sono stato io. Anzi, un po' tutti. Ma davvero, nell'era degli smartphone, esiste ancora qualcuno che, entrando in contatto con qualcosa di interessante, non schiaccia subito il tasto «inoltra» per inviarlo a un amico? Naturalmente a uno solo, e con la promessa che non lo giri a nessun altro: le stesse regole d'ingaggio con cui l'amico lo girerà a qualcun altro.

Fa sorridere questa ricerca spasmodica del colpevole, utilissima a spostare l'attenzione dalle cose che Berlusconi ha detto (e che peraltro aveva già anticipato da Vespa poche settimane prima). «Perché mai un parlamentare di Forza Italia avrebbe dovuto mandare in circolo le esternazioni filorusse del Capo?» si domandano i complottisti. Ma per la stessa umanissima ragione per cui il Capo le aveva pronunciate: illudersi di essere al centro del mondo.

Berlusconi non ha esaltato Putin per far cacciare la Meloni dalla Nato, ma per far sapere a tutti che lui è il miglior amico del leader più temuto del momento. Anche «la manina» ha ragionato allo stesso modo: voleva che tutti sapessero che era lei la depositaria dei segreti di Berlusconi. Dovremmo dunque concludere che, più ancora dei soldi, degli interessi e delle passioni, è il narcisismo a muovere il mondo? Sì. Ormai l'unico modo per non dire una cosa è non pensarla, perché appena la pensi ti viene voglia di dirla. E, appena la ascolti, di condividerla con qualcuno.

(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Berlusconi riallaccia con Putin e imbarazza la coalizione": questo il titolo di un articolo che il quotidiano francese Le Monde consacra alla situazione politica dell'Italia, con particolare riferimento alle registrazioni audio dell'ex premier che "perturbano la formazione del governo". 

Secondo Le Monde, "questa sequenza potrebbe minare seriamente la credibilità dell'Italia sulla scena europea, in un contesto in cui Giorgia Meloni ha fatto del suo sostegno all'Ucraina e alla Nato una linea forte del suo programma politico". 

E ancora: "Antonio Tajani, ex presidente del Parlamento europeo e coordinatore del partito, potrà ottenere il portafoglio degli Affari esteri come era stato previsto? Molti osservatori vedono allontanarsi quest'ipotesi". "Qualunque siano i nomi dei ministri che comporranno il governo di Giorgia Meloni - conclude Le Monde - l'Italia è appena riuscita nell'impresa di un governo non ancora nato ma già in piena crisi".

Annalisa Girardi per fanpage.it il 20 ottobre 2022.  

Le ultime affermazioni di Silvio Berlusconi su Vladimir Putin, che stanno causando fibrillazioni all'interno della maggioranza, nono sono passate inosservate all'estero. Diversi giornali stranieri hanno infatti ripreso la notizia. "Berlusconi dice di essersi scambiato una ‘dolce lettera' con Putin", "Berlusconi dice che Putin gli ha mandato della vodka e una dolce lettera", "Berlusconi si è riavvicinato a Putin, gli ha mandato del vino e una dolce lettera": sono solo alcuni dei titoli apparsi nelle principali testate internazionali.

Il Financial Times, ad esempio, ha commentato la notizia scrivendo che queste ultime dichiarazioni del Cavaliere "che suggeriscono il riaccendersi de suo ‘bromance' con Putin, non faranno che riaccendere le ribollenti preoccupazioni sulla direzione della futura politica estera italiana e sull'approccio del Paese alla guerra in Ucraina dopo che il governo di Meloni prenderà il sopravvento". 

E ancora, il quotidiano britannico sottolinea come nonostante la leader di Fratelli d'Italia abbia criticato ferocemente l'invasione russa dell'Ucraina, "i due alleati da cui dipende la sua coalizione, Berlusconi e Matteo Salvini della Lega, sono entrambi ammiratori di lunga data di Putin, che hanno messo in chiaro il loro disagio verso la dura posizione dell'Ue nei confronti di Mosca".

Anche Reuters ha riportato la notizia, scrivendo che "Berlusconi spesso si è spesso vantato della sua amicizia con Putin fino all'invasione dell'Ucraina, e ha creato una tempesta il mese scorso quando ha detto che Putin è stato spinto alla guerra per mettere ‘gente decente' al governo a Kiev". 

E ancora: "Le relazioni tra la coalizione di destra in Italia e la Russia sono sotto osservazione. Matteo Salvini, leader del partito anti-migranti della Lega, ha spesso elogiato Putin e ha anche indossato una maglietta con stampata la faccia del leader russo". Reuters ha anche citato altre affermazioni di Lorenzo Fontana, neo eletto presidente della Camera, che ha avvertito delle conseguenze che potrebbero avere le sanzioni contro la Russia.

Il quotidiano spagnolo El Pais ha cominciato l'articolo scrivendo che il ritorno di Silvio Berlusconi in Senato dopo nove anni di assenza ha sollevato le polemiche: "Nell'ultima delle sue controversie il protagonista è il presidente russo", si legge. Non solo, il giornale sottolinea come Berlusconi abbia definito il presidente russo come "un uomo di pace".

Infine, il tedesco Die Welt, ha scritto che "l'ex presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, con delle dichiarazioni sull'amico Vladimir Putin ha alimentato ancora una volta i dubbi sulla determinazione del futuro governo ad agire contro Mosca". E ancora: "Alcuni italiani e ucraini sono preoccupati per il sostegno del Paese mediterraneo a Kiev nella guerra contro la Russia, una volta che si sarà insediato il nuovo governo guidato dalla vincitrice delle elezioni Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, partito di estrema destra. Solo poche settimane fa, Berlusconi aveva affermato che Putin fosse stato spinto ad attaccare".

 Da adnkronos.com il 20 ottobre 2022.

"Berlusconi sembra il protagonista di Viva l’Italia. In quel film Michele Placido interpreta un importante politico italiano il quale, dopo una seratina con l’amante, perde qualsiasi freno inibitorio. Così inizia a raccontare verità che mai aveva osato render pubbliche. Tangenti, favori, raccomandazioni, balle raccontate a favore di telecamera". Lo scrive su Facebook Alessandro Di Battista. 

"Così Berlusconi, dopo aver mentito per una vita intera, oggi, non solo dice quel che pensa ma osa raccontare alcune verità su quel che è accaduto in Ucraina prima dell’invasione russa che molti altri politici dentro Forza Italia e, più in generale in tutto il centrodestra, pensano ma per la salvaguardia della loro carriera, non hanno il fegato di dire" aggiunge Di Battista.

"Mi piacerebbe adesso ascoltare Tajani (il futuro pessimo ministro degli Esteri) che ultimamente sembra il social media manager di Biden più che un parlamentare della Repubblica italiana. Anche perché l’incontinenza senile di Berlusconi è, paradossalmente, più dignitosa della pavidità di un mucchio di politici che dovrebbero fare gli interessi italiani ma che pensano solo ad ossequiare la NATO", conclude l'ex parlamentare M5S.

(ANSA il 20 ottobre 2022) -  "Qualsiasi crisi apre la strada ai leader veri. Mentre il signor Berlusconi è sotto l'effetto della vodka russa in compagnia di 'cinque amici di Putin' in Europa, Giorgia Meloni dimostra quali sono i veri principi e la comprensione delle sfide globali. Ognuno sceglie la propria strada". Lo ha twittato in italiano Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. 

Luca Bottura per “La Stampa” il 20 ottobre 2022.

I prossimi audio di Berlusconi, da oggi nei principali cabaret.

"Zelensky in realtà si chiama Zielinsky e gioca nel Napoli".

"A Putin gliel'avevo detto: butta una bella atomica su Kiev e sono tutti contenti".

"Mio fratello Paolo in realtà non è il vero editore de Il Giornale". 

"Non dico la verità dal 1963".

"In confronto a Tajani, Licia Ronzulli è un premio Nobel".

"Non è vero che ho abolito l'Imu".

"I giornalisti cui pago lo stipendio tendono a non essere esattamente aggressivi quando parlano di me". 

"Le cene eleganti non è che fossero davvero cene eleganti".

"Il lettone di Putin è arrivato già frequentato".

"Sì, sono io che da 40 anni rincoglionisco gli italiani con le mie televisioni".

"Milano 2 è un posto così noioso che i cigni del laghetto dei cigni si sono tutti suicidati".

"Dell'Utri è quello che pensate voi".

"I miei capelli non sono completamente naturali". 

"Salvini in realtà è Davide Mengacci travestito".

"Certe volte il Grande Fratello Vip mette i brividi persino a me".

Dagospia il 20 ottobre 2022. Dall’account facebook di Enrico Mentana 

La verità sulle frasi di Berlusconi carpite dagli audio filtrati in questi giorni - per quanto possa sembrare disarmante - è che si tratta semplicemente di quel che il leader di Forza Italia pensa.

Smentite, contestualizzazioni, messe a punto, correzioni sono solo dettate dalle pressanti richieste di collaboratori e alleati, in vista della formazione del governo. 

Ma quel che Berlusconi ha raccontato ai deputati di Forza Italia, vincolandoli al più assoluto riserbo, su Putin e Zelensky è parola per parola quello che aveva detto in tv, senza ovviamente vincoli di sorta, da Vespa tre giorni prima delle elezioni. 

Nella sostanza - che è ciò che conta - si tratta della narrazione sulla guerra di Ucraina più vicina alla versione russa che si possa ascoltare da un politico europeo, in totale contraddizione con le posizioni del governo ancora in carica e delle deliberazioni parlamentari a cui anche Forza Italia ha dato il suo sostegno.

Poi Berlusconi può rivendicare, atti alla mano, la sua 28ennale adesione ai principi euroatlantici e tutto il resto. Ma nessun altro leader occidentale si vanta di ricevere regali e dolcissimi lettere da Vladimir Putin, e di ricambiare. E nessun altro leader si permette allusioni negative sul presidente di un paese aggredito, dopo averlo accusato di aver provocato la guerra "triplicando gli attacchi alle regioni del Donbass". 

Coi riflessi condizionati della politica italiana si prova a ipotizzare quali siano i motivi tattici di queste uscite: contro Meloni, o per andare a un governo a maggioranza diversa, eccetera. 

Dovrebbe invece interessare di più il fatto in sé: parlando per la prima volta agli eletti del suo partito, Berlusconi ha fatto un discorso, "impreziosito" dal vincolo di riservatezza, che non avrebbe stonato in quella ormai nota trasmissione del primo canale della tv russa. 

Non solo: ha ripetuto tesi che aveva già espresso tre settimane prima, confermando che quella è la sua opinione radicata, altro che sbandamenti o travisamenti. 

E fino a prova del contrario quella è la linea di Forza Italia, ascoltati gli applausi e verificata l'assenza di dissensi.

Anche perché quelle tesi, simpatizzanti per Putin, severe con Zelensky, preoccupate per un aiuto agli ucraini che ci porta grandi spese e in cambio un salasso energetico e economico, sono in sintonia con una corrente minoritaria ma ben presente nell'opinione pubblica italiana. In sprezzo a leggi e trattati, in omaggio alla legge del più forte, fedeli a un solo principio, quello del "cosa mi conviene", e magari simulando già il battito di denti per un inverno freddissimo senza gas, nel bel mezzo dell'ottobre più caldo di tutti i tempi. 

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 20 ottobre 2022.  

[…] È dal 2001 che B. è il compare preferito di Putin. E da allora non ha fatto altro che lodarlo come uomo di pace, farci bisbocce nelle sue ville e nelle di lui dacie e asservirci vieppiù al gas russo: prima, durante e dopo l'assassinio Politkovskaja, l'invasione della Crimea, le mattanze in Cecenia, in Siria e in Ucraina.

Il tutto fra gli applausi della stampa di destra e nell'indifferenza di quella "indipendente" (per non parlare di Rep che pubblicava le veline a pagamento del Cremlino nell'inserto Russia Today). Anche il Pd, che ora cade dal pero e si straccia le vesti (anche per le cose vere dette dal fuori di testa nel fuorionda sui rischi mortali che ci fa correre la Nato e sugli otto anni di massacri ucraini in Donbass), era molto distratto: infatti con B. governò tre volte (Monti 2011, Letta 2014, Draghi 2021). Ad agosto, mentre cacciava Conte dal campo largo per lesa draghità e filoputinismo, Letta disse che invece "con Forza Italia abbiamo lavorato bene". […]

 (ANSA il 20 ottobre 2022) - "Noi supporteremo qualsiasi governo che abbia un chiaro approccio a favore dell'Ue, a favore dell'Ucraina e a favore dello Stato di diritto. Sono felice che Antonio Tajani sia qui, lui è la garanzia dell'atlantismo di Fi". Lo ha detto il capogruppo e presidente del Ppe Manfred Weber entrando al summit dei Popolari a Bruxelles.

(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Incontrerò Tajani, ho parlato con tutti i leader politici italiani e il mio messaggio all'Italia è restare nel cuore dell'Europa, non ho dubbi che lo faccia e sul suo atlantismo" nonché "sul suo supporto all'Ucraina". Lo ha detto la presidente del Pe Roberta Metsola prima di entrare al vertice del Ppe.

(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Le parole di Berlusconi non contribuiscono certamente all'unità del Ppe, ho capito che l'audio è stato una fuga di notizie, sarà importante capirne di più". Lo ha detto il premier croato Andrej Plenkovic, arrivando al summit dei Popolari a Bruxelles. Sul punto si è soffermato anche l'ex premier irlandese, Leo Varadkar: "Questo fatto è un problema, ne discuteremo, ho piena fiducia in Tajani", ha detto.

(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Conosco Tajani da molti anni, è un convinto europeista e convinto atlantista. E sono convinta che lavorerà per tenere l'Italia al centro dell'Europa". Lo ha detto al presidente dell'Eurocamera Roberta Metsola prima di entrare al summit del Ppe.

(ANSA il 20 ottobre 2022) - L'audio di Berlusconi? "Posso dire che il supporto del Ppe all'Ucraina resta ferreo". Lo ha detto il primo ministro lettone Krisjanis Karins arrivando al summit del Ppe.

(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Da quello che sembra, sono convinto che la nuova premier italiana sarà più ragionevole di altri membri della maggioranza...". Lo ha detto il premier lussemburghese Xavier Bettel al suo arrivo al prevertice dei liberali di Renew Europa rispondendo ad una domanda circa le parole di Silvio Berlusooni sull'Ucraina e su Putin. "L'unità" europea nella risposta all'aggressione russa "è stata la nostra forza", ha evidenziato Bettel.

Anais Ginori per repubblica.it il 20 ottobre 2022.

"Non ci stancheremo mai di dire che Putin è un criminale di guerra". Le parole di Manfred Weber sconfessano Silvio Berlusconi e il suo "riavvicinamento" con il leader russo, con tanto di scambio di vodka e lambrusco. 

"La Russia ha attaccato nuovamente Kiev con quasi trenta droni, uccidendo innocenti, tra cui una donna incinta", sottolinea il capogruppo del Ppe, di cui fa parte Forza Italia. 

"Non passa giorno senza che Putin e il suo regime diano notizie terribili e menzogne" prosegue Weber, intervenendo nella plenaria di Strasburgo, dove il dibattito ha anche toccato le dichiarazioni del Cavaliere. "Putin deve perdere e l'Europa non smetterà mai di sostenere l'Ucraina. Mai. Questo messaggio ci unisce" aggiunge Weber, sancendo di fatto l'esclusione di Berlusconi dalla linea della destra europea di cui fa parte Forza Italia.

Le reazioni nel Ppe

La famiglia del Ppe deve correre ai ripari davanti alle nuove, imbarazzanti dichiarazioni che arrivano da Roma, aggravate dal nuovo attacco a Zelensky diffuso ieri attraverso un nuovo audio. "Penso che le parole di Berlusconi siano tristi per tutti gli europei che soffrono per la tirannia di Putin", commenta il vicepresidente dell'eurogruppo, il portoghese Paulo Rangel, che però le ridimensiona a "opinioni personali" e si appella al "ruolo di garanzia" svolto da Antonio Tajani. 

D'altro avviso è un altro deputato del gruppo, l'estone Riho Terras, secondo il quale "è ora che il veterano della politica Berlusconi si ritiri". Il parlamentare polacco Andrzej Halicki è ancora più netto e lancia un invito al Cavaliere: "Rimandi la vodka a Putin che è un criminale di guerra e non un amico". 

Il dono di una ventina di bottiglie arrivate da Mosca potrebbero anche, secondo la Commissione, comportare una violazione delle sanzioni che si applicano all'import di beni russi. "Nel quinto pacchetto di sanzioni abbiamo deciso di estendere il bando all'importazione di alcool, che include la vodka" ha spiegato la portavoce Arianna Podestà. "Chiaramente l'implementazione delle sanzioni è responsabilità degli Stati membri e la Commissione lavora con loro in tale implementazione". 

La linea della Commissione Ue

Nello scrutare la tormentata formazione del nuovo governo italiano, con il filo putinismo degli alleati di Giorgia Meloni sempre più scoperto, da Bruxelles viene ribadita la linea della Commisione: piena condanna dell'aggressione illegale dell'Ucraina. "Gli Stati membri sono liberi di condurre contatti bilaterali come ritengono opportuno, rispettando però sempre la posizione politica dell'Ue e tra queste c'è il rispetto del diritto internazionale" conclude la portavoce. 

Anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ricorda: "La posizione dell'Ue è chiara: sosteniamo l'Ucraina, condanniamo la Russia e non accettiamo una guerra ingiustificata". Mentre la capogruppo dei socialisti e democratici europei, Iratxe Garcia Perez, esorta il Ppe a tagliare i legami "con gli amici di Putin, che violano i diritti umani e promuovono movimenti anti-sistema in Europa", la tensione è palpabile nella destra europea.

Berlusconi-Putin, amicizia imbarazzante

L'amicizia rivendicata del Cavaliere per il leader russo diventa sempre più imbarazzante per i vertici del Ppe. E non è un caso che nel giorno in cui si scopre un attacco di Berlusconi a Zelensky, il premio Sakharov sia stato attribuito dal parlamento dell'Ue al popolo ucraino e al leader di Kiev che dal 24 febbraio fronteggia l'aggressione russa. Una decisione annunciata dalla presidente del parlamento Roberta Metsola, dopo la conferenza dei presidenti dei gruppi in cui ha pesato il voto della destra europea decisa a respingere qualsiasi ambiguità nei confronti di Mosca. 

Estratto dell'articolo di Micol Flammini per “il Foglio” il 20 ottobre 2022.  

[…] Se fino a quel momento i compagni del Ppe erano quasi pronti a chiudere un occhio, le nuove dichiarazioni li hanno costretti a sbarrarli gli occhi, chi incredulo, chi preoccupato, chi furioso. Andreas Schwab, europarlamentare della Cdu, fa parte degli increduli.

L’eurodeputato racconta al Foglio che l’atmosfera in Ue nei confronti dell’esecutivo che deve ancora nascere è di sfiducia, ma lui non è d’accordo: “Devono avere la possibilità di lavorare, per questo mi astengo dal giudicare. Ma con Berlusconi è un’altra questione”. 

Schwab dice di aver apprezzato il commento di un collega che “sosteneva che il presidente di FI avesse mandato lambrusco perché non voleva inviare a Putin il miglior vino italiano. Ecco, vorrei poter dire che abbia fatto la scelta del lambrusco perché in qualche modo nutriva dei dubbi sull’opportunità del gesto”.

E forse ci si sarebbe potuti anche fermare a questa battuta se non fossero arrivate le altre dichiarazioni. “Berlusconi non ha parlato per il Ppe in Italia, il partito a Roma ha un altro interlocutore: Antonio Tajani”, dice Schwab per rimarcare che tra i popolari c’è la convinzione che linea di Forza Italia sia diversa da quella di Berlusconi. “Il Ppe è dalla parte della libertà del popolo ucraino, come FI”. […] “Mi piacerebbe poter dire che quelle frasi siano state dette dopo aver bevuto una bottiglia di lambrusco. Ma non va bene, nessuno nel Ppe può condividere certe posizioni”, conclude Schwab.

Silvio Berlusconi, l'imbuto della democrazia italiana. Della "pacifica rivoluzione liberale" annunciata nei suoi governi non si hanno notizie. Né è stata realizzata alcuna riforma delle istituzioni. Assomiglia alla Wanna Marchi della politica italiana: un venditore di nulla a milioni di creduloni. VITTORIO FERLA su Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2022 

QUELLO in corso tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni può sembrare, banalmente, il più classico esempio di conflitto generazionale. Un leader anziano ma ancora influente grazie a un manipolo di seggi gioca le sue ultime carte per ostacolare l’ascesa della giovane concorrente che si candida a estrometterlo definitivamente dal suo piedistallo. Ma c’è qualcosa di più.

Silvio Berlusconi è da trent’anni il padre padrone della destra italiana. In virtù di questa primazia, è diventato anche il principale ostacolo allo sviluppo economico e culturale del paese.

Nel 1994 il fondatore di Forza Italia fa il salto in politica con la promessa della ‘rivoluzione liberale’. Nelle sue parole risuona l’eco della rivoluzione condotta dieci anni prima da Margaret Thatcher nel Regno Unito. Durante gli anni 80, il governo conservatore britannico aveva privatizzato la maggior parte delle imprese pubbliche, aveva ridotto drasticamente tasse e spesa pubblica e aveva realizzato un massiccio programma di deregolamentazione del mercato del lavoro e dei servizi finanziari. Thatcher riuscì a resistere per un anno intero allo sciopero dei minatori che si opponevano alla privatizzazione e alla chiusura delle miniere di stato.

E in Italia? Della “pacifica rivoluzione liberale” annunciata da Berlusconi non si hanno notizie. L’obiettivo del capo di Forza Italia è banale: impedire allo Stato di entrare “nella vita privata dei cittadini”. In pratica, dice Berlusconi, lo stato “non ci può chiedere di togliere dai bilanci personali più di un terzo del totale. È un furto se lo stato chiede più della metà. Diventa un’estorsione se chiede più del 60%”. Questa rivoluzione “si può fare solo modificando la struttura dello stato”. La verità è che non se ne fa nulla. Il Cavaliere salva il suo patrimonio personale, ma la pressione fiscale italiana rimane tra le più alte d’Europa.

Né è stata realizzata alcuna riforma delle istituzioni. Nel 1997, la terza Commissione bicamerale per le riforme, frutto del patto tra D’Alema e Berlusconi, prefigura un sistema semipresidenziale ispirato a quello francese con la revisione delle competenze legislative delle due Camere. Dopo aver trovato pure l’accordo sulla riforma elettorale a casa di Gianni Letta (il famigerato ‘patto della crostata’), tutto precipita per il voltafaccia di Silvio Berlusconi. Insomma, dopo decenni di false promesse di liberalismo e di riforme, più che alla lady di ferro Margaret Thatcher, Berlusconi assomiglia, in tutta la sua negativa grandezza, come la Wanna Marchi della politica italiana: un venditore di nulla a milioni di creduloni.

Ma non finisce qui. Le conseguenze delle mancate riforme, sia economiche che istituzionali, appaiono in tutta la loro gravità appena l’Italia deve affrontare le crisi economiche internazionali. Il  4 agosto  2011 lo  spread  tra BTP-Bund decennali tocca i 389 punti, nell’ambito della  crisi finanziaria globale del 2007  e della successiva crisi strutturale italiana del 2011. Così, l’immobilismo conservatore dell’ultimo governo Berlusconi diventa un prezzo troppo alto da pagare per il nostro paese.

Il  5 agosto  2011, al culmine di una drammatica crisi delle borse europee e di un forte ampliamento del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, il governatore uscente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, e quello in pectore, Mario Draghi, scrivono una lettera riservata al governo italiano, indicando una serie di misure da attuarsi al più presto. All’ottemperanza di tali misure viene implicitamente condizionato il sostegno della Bce, attuato attraverso l’acquisto massiccio di titoli di Stato italiani. Sappiamo com’è finita. Il terremoto finanziario globale colpisce l’economia italiana. L’inazione del governo Berlusconi e la perdita di credibilità fa sprofondare l’Italia in un abisso (differenziale dello spread BTp-Bund oltre i 550 punti e titoli pubblici biennali al tasso del 7,25%). Il risparmio degli italiani rischia di andare in malora. Berlusconi diventa un tappo che bisogna far saltare per consentire l’intervento di un governo di emergenza nazionale.

Nonostante il totale fallimento politico e i numerosi guai giudiziari, Silvio Berlusconi si inabissa, ma resiste per dieci anni. E quest’anno ritorna in quell’aula parlamentare dalla quale era stato interdetto. Nel frattempo, molte cose sono cambiate. Tra queste, per esempio, i rapporti di forza tra i diversi partner della coalizione di centrodestra e il rapporto della Russia con l’Europa. Vladimir Putin si rivela per quello che è sempre stato: un despota, refrattario al diritto internazionale e nemico dei valori di libertà dell’Occidente. Così, l’ammirazione e l’amicizia di Berlusconi nei confronti del capo del Cremlino – nate quando il Cav era presidente del consiglio e sospette già da allora – devono essere rilette sotto una nuova luce.

L’atteggiamento del Cavaliere verso lo ‘Zar’ non è – non è mai stato – quello appropriato di un leader liberale e popolare. Popolare, nel senso di membro della famiglia del Partito popolare europeo, erede della tradizione degasperiana. Piuttosto, quella di Berlusconi si rivela oggi sempre meglio come l’attrazione (e, quasi, l’invidia) di un leader populista italiano per un suo omologo più fortunato di lui, in quanto sciolto dai lacci e lacciuoli della democrazia liberale. Le “dolcissime” parole che i due compari si scambiano in questi giorni – con il capo di Forza Italia che denigra la resistenza di Volodymyr Zelensky e ripropone la resa dell’Ucraina alla volontà di potenza del despota di Mosca come unica soluzione alla guerra – ricacciano di nuovo l’Italia indietro di anni. In un colpo solo, Berlusconi spegne i lumi del governo di Mario Draghi, capace di ridare uno standing autorevole al nostro paese. Mentre l’Italia ripiomba nelle tenebre del discredito e del sospetto internazionali.

Dall’altra parte, nonostante la zavorra di una serie di limiti politici e culturali, Giorgia Meloni sta tentando di ricostruire la sua immagine affinché diventi accettabile dai governi dei paesi europei e degli alleati atlantici. La sua posizione sulla guerra in Ucraina è netta: condanna dell’aggressione russa, sostegno al governo di Kiev, solidarietà con le democrazie occidentali, riconferma degli impegni atlantici. Lo sforzo di costruire un esecutivo ispirato alle logiche del buon governo, della competenza e del buon senso vanno apprezzate. L’insieme di questi elementi segnala un tentativo di uscire dal ghetto del populismo di destra più bieco e di intraprendere la strada di un conservatorismo compatibile con il quadro delle alleanze con gli Stati Uniti e con i paesi membri della Unione europea.

Silvio Berlusconi avrebbe l’ennesima occasione per favorire l’evoluzione politico-culturale della destra italiana, accompagnando il processo in corso dentro Fratelli d’Italia, e per non disperdere il patrimonio di credibilità accumulato dal nostro paese durante la breve parentesi del governo uscente. E invece che fa? Sceglie, ancora una volta, di fare il tappo della democrazia italiana, impedendone una positiva evoluzione. Forse, oggi, i “pupazzi prezzolati” svergognati da Mario Draghi hanno finalmente un nome.

Berlusconi-Putin: la dacia, il cuore di cervo. Silvio e il caro «Volodya», quell’attrazione fatale. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022 

Il legame ventennale che unisce il Cavaliere Silvio Berlusconi con il leader russo Vladimir Putin 

Come nelle favole, si narra a un certo punto addirittura di un cuore di cervo in dono. Tra Silvio e «Volodya», quei due. E insomma è una specie di attrazione fatale: mai spiegata appieno né dalla politica politicante né dagli affari segreti e presunti che pure insospettirono molto il Dipartimento di Stato americano al tempo di Hillary Clinton.

Del resto, per Berlusconi la via più breve tra due punti non è la retta ma il salto mortale: sicché era ineludibile la fascinazione per un maestro della specialità come Vladimir Putin, balzato via Kgb da una sgarrupata kommunalka di Leningrado ai fasti da satrapo del Cremlino. E per l’ex criminale di strada (parole di una delle sue vittime, l’oligarca Mikhail Khodorkovsky) doveva essere irresistibile la malia di un signore italico dalla «coreografia medicea» quale è il Cavaliere, non potendo coglierne il tratto da nouveau riche che tanto fa arricciare il naso ai democratici nostrani e ai loro intellettuali di complemento.

Il resto è razionalità o elogio della follia, dipende dai punti di vista. Nel nuovo eppure eterno putinismo di Berlusconi, fatto di scambi vodka-lambrusco e dolcissime parole, ci sono ragioni forse interne, regolamenti di conti in ciò che resta di Forza Italia: ad usum Ronzulli, per dire, perché Tajani intenda e magari inciampi sulla via della Farnesina. Ma ci sono conseguenze esterne, assai gravi per il governo di Giorgia Meloni che verrà: Tass e Ria Novosti fanno già festa rilanciando le frasi al miele del nostro antico premier sul dittatore moscovita, «amante della pace», con tanti saluti a Zelensky, all’America e alla nostra postura internazionale dell’era di Mario Draghi. Imputare le esternazioni all’età è, oltre che un po’ canagliesco, pure improvvido, perché sempre Berlusconi ha straparlato, a sessanta come a ottantasei anni, sempre mirando però in ogni fuor d’opera a un bersaglio preciso, studiato.

Qui due sfere s’intersecano, come sempre è stato nelle sue relazioni, fatti suoi e fatti nostri, fino a diventare la stessa cosa. Galeotta fu Pratica di Mare, il trattato del 2002 che Silvio rivendica come una Yalta del nuovo millennio, avendo messo attorno a un tavolo un Bush Junior annichilito dall’11 settembre e un Putin ancora stordito dalla vertiginosa caduta della madre Russia a rango di mendicante: ciascuno vedeva nell’altro una scialuppa di salvataggio e il premier italiano si preoccupò di apparecchiarne il desco. Erano i tempi, oggi fantascientifici, in cui il Cavaliere immaginava una Russia nell’Unione europea, «la sua posizione naturale accanto alle democrazie occidentali» (sic): certo non potendo scrutare il buio nell’anima dell’amico Volodya che dall’infanzia portava con sé il ricordo di quel ratto di Leningrado il quale, sentendosi messo all’angolo, gli saltò al collo come una tigre. Putin si è sempre sentito quel ratto, in fondo. E tuttavia l’incontro con Berlusconi ne ha a lungo ammansito la ferocia, è innegabile. Per amore o per soldi.

I due si sono scambiati per vent’anni così tanti ammiccamenti e regalini zuccherosi che, non fossero due maschi affetti da machismo conclamato, farebbero sollevare il sopracciglio al nostro nuovo presidente della Camera. E invece. Eccoli nella dacia di Valdaj assieme a uno che non passava per caso, l’ex cancelliere tedesco Schroeder, presidente pagato a peso d’oro del Consorzio North Stream: ad allietarli, le ragazze dell’Armia Putina, l’Armata di Putin, camicia bianca e slip, torta cioccolato e panna, roba che le Olgettine sarebbero apparse Orsoline. Eccoli a tracannare vino che a noi servirebbe un mutuo per annusarlo. Silvio che dona a Volodya un piumone con la foto di loro due. Putin che ricambia con il lettone reso poi celebre da Patrizia D’Addario. Silvio che spiega urbi et orbi come Volodya sia «un dono del Signore alla Russia». E l’amico che lo difende quando in Italia montano gli scandali: «Fosse gay non lo toccherebbero, è sotto processo per invidia, perché vive con le donne…». Insomma, l’intesa è tale da far superare al nostro «Unto dal Signore» qualsiasi gelosia verso l’amato autocrate che annovera addirittura nella regione di Nizhny Novgorod una setta da cui è venerato quale reincarnazione di San Paolo.

Il dubbio che sotto tanta melassa ci sia ben altro balena nella testa della segretaria di Stato americana Hillary Clinton nel 2009, quando chiede ai suoi ambasciatori «quali investimenti hanno fatto i due che possano in qualche modo guidare le loro scelte politiche ed economiche». Agli atti c’è già lo strabiliante caso di un amico di Berlusconi esperto in acque minerali ma arrivato a un passo dall’intermediare affari miliardari col colosso energetico russo Gazprom nel 2005, il sospetto (mai provato) di affari comuni in Kazakistan, la sponda italiana nella spoliazione degli asset della Yukos, la compagnia di Khodorkovsky rivale di Gazprom. Di certo quelli sono gli anni in cui la nostra dipendenza energetica da Mosca s’impenna. Conosciamo tramite Wikileaks i devastanti cable spediti nel 2010 a Washington dall’ambasciatore a Roma, Reginald Spogli: «La voglia del primo ministro Berlusconi di essere percepito come un importante giocatore europeo in politica estera» sta portando l’Italia a «sostenere gli sforzi russi di danneggiare la Nato (…). Il suo preponderante desiderio è rimanere nelle grazie di Putin e ha frequentemente dato voce a opinioni e dichiarazioni che gli sono state passate direttamente da Putin».

Parole gravi. Che prescindono tuttavia dall’italico genius loci, incomprensibile al candore degli americani: la machiavellica doppiezza, nostra unica speranza in questo pantano. Putin regalò il famoso cuore di cervo ancora grondante di sangue a Silvio, dopo averlo strappato dal petto della povera bestia uccisa in una partita di caccia a due, solo loro, senza scorta: «Per te, amico mio». Pare che il nostro eroe inorridito, al sentiero dopo, lo gettò non visto nel primo cespuglio. Alla fine, non si sa per conto di chi o di cosa, lui li frega sempre, o così si spera. Citofonare Gheddafi.

La manina. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2022.

Il giallo della non gelida manina che ha diffuso gli audio delle putinate di Berlusconi è già risolto. Sono stato io. Anzi, un po’ tutti. Ma davvero, nell’era degli smartphone, esiste ancora qualcuno che, entrando in contatto con qualcosa di interessante, non schiaccia subito il tasto «inoltra» per inviarlo a un amico? Naturalmente a uno solo, e con la promessa che non lo giri a nessun altro: le stesse regole d’ingaggio con cui l’amico lo girerà a qualcun altro. Fa sorridere questa ricerca spasmodica del colpevole, utilissima a spostare l’attenzione dalle cose che Berlusconi ha detto (e che peraltro aveva già anticipato da Vespa poche settimane prima). «Perché mai un parlamentare di Forza Italia avrebbe dovuto mandare in circolo le esternazioni filorusse del Capo?» si domandano i complottisti. Ma per la stessa umanissima ragione per cui il Capo le aveva pronunciate: illudersi di essere al centro del mondo. Berlusconi non ha esaltato Putin per far cacciare la Meloni dalla Nato, ma per far sapere a tutti che lui è il miglior amico del leader più temuto del momento. Anche «la manina» ha ragionato allo stesso modo: voleva che tutti sapessero che era lei la depositaria dei segreti di Berlusconi. Dovremmo dunque concludere che, più ancora dei soldi, degli interessi e delle passioni, è il narcisismo a muovere il mondo?

Sì. Ormai l’unico modo per non dire una cosa è non pensarla, perché appena la pensi ti viene voglia di dirla. E, appena la ascolti, di condividerla con qualcuno.

Cameriere, lambrusco! I social ci hanno privato della capacità, che già era deficitaria, di considerare i contesti (e Berlusconi). Guia Soncini su L'Inkiesta il 21 ottobre 2022 

È mai possibile che ci voglia Tajani per ricordarci che se Silvio la spara grossa, anche sul vino regalato a Putin, non va preso alla lettera?

Se vivi abbastanza a lungo, ti ritrovi a dar ragione a Tajani. Se te l’avessero detto quando avevi poco più di vent’anni – e Antonio Tajani era il portavoce di Berlusconi, che a vent’anni ti sembrava il principale problema di questa derelitta nazione – avresti riso fortissimo.

Ho già scritto di avere opinioni che non condivido: in me convivono una tossica delle intercettazioni che legge con bramosia un po’ tutto ciò che non era stato detto per venire ascoltato dal pubblico – da Carlo e Camilla a Falchi e Ricucci – e una moralista che sa che se ti mancano il tono e il contesto e i rapporti tra gli interlocutori non potrai che equivocare ciò che ascolti e leggi e che non era stato detto perché tu lo ascoltassi e lo leggessi.

Quindi in questi giorni sono scissa tra me stessa e Tajani. Me stessa è quella che ascolta con voluttà Berlusconi che racconta d’aver mandato a Putin del lambrusco (quello in offerta al Carrefour a cinque euro e 99, spero), nei monologhi registrati a una riunione di Forza Italia e pubblicati da un’agenzia di stampa. Tajani è quello che fa un tweet che tutti giudicano imbarazzato, e io valuto sia un trattato sul mondo che abitiamo: un mondo in cui tutto l’inedito diventa prima o poi edito, in cui tutti hanno in tasca telecamere e registratori e tutto ciò che dovrebbe essere privato diventa presto o tardi pubblico.

Il tweet di Tajani era questo: «Domani sarò al Summit del @epp per confermare la posizione europeista, filoatlantica e di pieno sostegno all’Ucraina mia e di @forza_italia. In tutte le sedi istituzionali non è mai mancato il nostro voto a favore della libertà e contro l’invasione russa». Vi consiglio di annotarvelo, «in tutte le sedi istituzionali», perché un giorno o l’altro a tutti noi toccherà usarlo come linea di difesa.

Al telefono col tuo amante devi essere impeccabile quanto in diretta sulla Bbc? Conta quel che diciamo a cena o quel che diciamo in parlamento? (Ora mi diranno che era una riunione di partito, mica una cena o una telefonata con l’amante: è faticosissimo scrivere per lettori determinatissimi a non capire mai niente).

Una sera della settimana scorsa ho discusso per lunghi quarti d’ora con un elettore di sinistra davvero convinto che esista il pericolo fascista (è circa la sessantesima volta che ne è convinto negli ultimi trent’anni). Era parecchio su di giri, e continuava ad accusare me e altri di non capire la deriva autoritaria e il fatto che la democrazia sia a rischio. Tuttavia persino lui – molto meno scettico di noialtri convinti di vivere in un posto troppo cialtrone per riuscire ad accroccare una dittatura – a un certo punto è sbottato, ha smesso il tono che avrebbe tenuto in diretta televisiva o in sede istituzionale, e ha detto quel che si dice nelle cene private: «Questi sono talmente stronzi che neanche ci faranno la flat tax».

Anche questo l’ho già scritto (prendetevela con la cronaca, che mi costringe a ripetermi): non c’è convinto elettore di sinistra – tra quelli che frequento io: benestanti – che non si sia preparato alla vittoria della destra rallegrandosi perché almeno ci avrebbe guadagnato la flat tax. Lo direbbero in un’intervista? Certo che no. Potrei io pubblicare gli audio delle cene e sputtanarli? Certo che sì. Verrei, in questo caso, considerata una cafona che non sa valutare i contesti e i toni? Probabilmente no: è sempre più scivoloso il confine tra maleducazione e schienadrittismo, in un posto che quanto a giornalismo è sempre stato così scarso da, quando è arrivato il Gabibbo, scambiarlo agevolmente per Carl Bernstein.

I social questa incapacità di considerare i contesti l’hanno peggiorata. Me ne sono ricordata di recente, a causa di una polemica su Roman Polanski. Sua moglie, Emmanuelle Seigner, ha dato un’intervista in cui ha detto che suo marito non aveva nessun bisogno di stuprare: c’era la fila di donne disposte a dargliela. «La fila» mi ha ricordato il tweet che fece di me lo scandale du jour per tre quarti d’ora nell’autunno 2017.

Il tweet faceva così: «Sogno un pezzo su Weinstein d’una sola riga: quello sarà un vecchio porco, ma voi gliela tiravate con la fionda, finché pensavate servisse». Essendo un tweet, non approfondiva tutto quel che si sarebbe potuto approfondire: che, come sa chiunque andasse ai festival cinematografici negli anni Novanta, le stanze d’albergo di Weinstein erano più assediate di quelle degli attori bellocci; e che quindi, a voler fare un’indagine sociale, non si possa che partire da lì: perché uno con la fila di ragazze disponibili si riduca a violentare le indisponibili, e quanto il condizionamento sociale del MeToo abbia poi indotto anche le già disponibili a urlare tardivamente allo stupratore.

Negli anni successivi qualche articolo che indagava la scivolosità del consenso nel caso Weinstein è uscito, ma in quelle settimane si poteva scrivere solo che quello era un porco schifoso e le donne ontologicamente tutte vittime sempre.

Qualche settimana dopo quel tweet, pubblicai sul New York Times un editoriale sui limiti del femminismo italiano. Fu allora che Asia Argento (vi ricordate il quarto d’ora in cui Asia Argento fu guida morale della nazione? Che tempi meravigliosi abbiamo attraversato) e i suoi accoliti, indignati per il mio tweet, chiesero al NYT di ritirare il mio articolo. Ma non è della meravigliosa ipotesi che un giornale americano facesse ritirare le copie dalle edicole e dicesse «Scusateci, la persona di cui abbiamo pubblicato un’opinione non ha diritto ad avere un’opinione», che voglio parlare ora.

È dell’indignazione con cui un assortimento di Vongola75 mi scriveva «ora non vorrai cavartela dicendo che era una battuta». E cosa ti sembrava, di grazia? Un discorso alla nazione? Una lettera d’amore? Una proposta di legge? Quand’è stato che abbiamo smesso di riconoscere i registri lessicali e i contesti? È su Twitter: certo che è una battuta.

Com’è successo che ci voglia Tajani per ricordarci che uno divenuto famoso per l’arte dello spararla grossa, se racconta ai suoi accoliti di aver mandato a Putin il lambrusco (all’apposita casella postale in cui Putin riceve gli omaggi, immagino), non va preso proprio proprio alla lettera? Quand’è che ha cominciato a contare la tua privata eccitazione per la flat tax, e non il fatto che tu al seggio elettorale, e nei posizionamenti pubblici, e negli editoriali che scrivi, stia dalla parte opposta? È successo prima o dopo che cominciassimo a rinfacciare alla Meloni di non essere sposata come si vorrebbe da una devota cristiana? Siamo proprio sicuri che questo faccia di noi gente seria e coerente, e non la polizia morale?

Da liberoquotidiano.it il 20 Ottobre 2022

Silvio Berlusconi ha un piano in testa. Ne è convinto Vittorio Feltri, che in collegamento con Myrta Merlino a L'aria che tira, a La7, dà la sua lettura su quanto accaduto nelle ultime ore. Gli audio rubati al leader di Forza Italia nel corso dell'incontro con i deputati azzurri a Montecitorio, con le parole pesanti su Putin, Russia, Ucraina e Zelensky, risponderebbero a un disegno ben preciso.

 In studio dalla Merlino Goffredo Buccini del Corriere della Sera anticipa il tema: "Berlusconi mira sempre a qualcosa, dietro all'ammuina tiene sempre grande sostanza, non poteva non sapere che su 45 persone e assistenti uno che accenda il cellulare è molto difficile non trovarlo", insinua il cronista politico. E Feltri va dritto al punto: "Berlusconi non è cretino, si è accorto che sui ministri non tocca palla e ha deciso di puntare a qualcosa di più grande". 

Cosa? Diventare l'uomo della pace, "una impresa che lo trasformerebbe non in eroe dell'Italia ma eroe del mondo", chiosa Feltri. "Mi sono giunte notizie in questo senso", spiega Feltri: Berlusconi avrebbe intenzione di volare a Mosca e diventare il mediatore con Vladimir Putin, per convincerlo a siglare perlomeno una tregua con Volodymyr Zelensky. Da qui, il sospetto delle sue uscite particolarmente spericolate sulla guerra in Ucraina e i giudizi morbidi sul capo del Cremlino.

 Una posizione che non sarebbe dettata solo dalla vecchia amicizia personale. "Sì ma a nome di chi lo farebbe?", chiede Buccini. "A nome di se stesso, è chiaro", conclude il ragionamento Feltri. E le parole del Cav ricordate da Vittorio Sgarbi, "sarei il miglior ministro degli Esteri possibile", suonano oggi tutt'altro che una boutade.

STORIA DELLA «STRANA COPPIA». Berlusconi e Putin, un audio d’amore durato vent’anni. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 20 ottobre 2022

Non ci sono solo le registrazioni uscite in questi giorni: per tutta la campagna elettorale Berlusconi ha difeso il suo amico Putin e accusato gli ucraini di aver provocato la Russia.

Non è una sorpresa per chi conosce la relazione tra i due: dopo essersi conosciuti al G8 di Genova tra loro è nata un’amicizia personale che ha avuto spesso conseguenze politiche.

È una relazione che nessuna invasione o crimine di guerra sembra poter intaccare: Berlusconi associa a Putin quello che considera il più alto momento della sua carriera politica e questo ha creato tra loro un legame indissolubile.

La pubblicazione degli audio in cui Berlusconi parla in toni amichevoli di Vladimir Putin e accusa il presidente Volodymyr Zelensky di aver provocato l’invasione del suo paese ha suscitato commenti di indignato stupore. È difficile distinguere quanto siano sentimenti genuini e quanto siano dettati dal tentativo di parte di Giorgia Meloni di costringere il suo riottoso partner di coalizione a una serie di umilianti passi indietro.

Ad esempio, sembra che in molti dalle parti di Fratelli d’Italia abbiano dimenticato che il 22 settembre, tre giorni prima del voto, Berlusconi diceva a Porta a porta più o meno le stesse cose riportate negli audio carpiti: Putin avrebbe lanciato l’attacco dopo essere stato informato da una delegazione del Donbass degli attacchi ordinati da Zelensky che avevano causato «16mila morti». La verità è fino ad che Berlusconi non ha mai nascosto la sua ventennale “relazione speciale” con il presidente russo Putin – e fino ad oggi gran parte dei suoi alleati non ha avuto nulla da eccepire.

DALLA PARTE DELL’AGGRESSORE

Berlusconi ha sempre avuto difficoltà a criticare Putin, non importa quanto criminali fossero le sue azioni. Dopo l’invasione dell’Ucraina, ad esempio, ha trascorso 38 giorni giorni in silenzio prima di condannare «la criminale aggressione russa» senza mai nominare suo vecchio amico. C’è voluta la scoperta delle fosse comuni di Bucha per fargli dire di essere «profondamente deluso» dal comportamento di Putin.

In poche settimane, però, è tornato sui suoi passi. A metà maggio, già parlava dei rischi economici delle sanzioni, accusava Stati Uniti ed Europa di intransigenza e l’Italia di essere di fatto entrata in guerra fornendo armi all’Ucraina. Per il resto dell’estate Berlusconi ha continuato a chiedere la pace, in termini altrettanto espliciti di qualsiasi “putinista” inserito nelle famigerate liste pubblicate dai giornali. A maggio, ad esempio, diceva che bisognava «far accogliere agli ucraini le domande di Putin».

È lo stesso canovaccio che Berlusconi ripeteva nel 2014, durante la prima invasione dell’Ucraina. In quell’occasione, Berlusconi è volato nella regione recentemente annessa della Crimea e ha festeggiato il colpo di mano bevendo insieme a Putin una bottiglia di vino vecchia di 260 anni considerata dagli ucraini patrimonio nazionale.

Ancora prima, nel 2008, era stata la Georgia aggredita dalla Russia a ricevere questo trattamento. In quell’occasione, il ministro degli Esteri del suo governo, Franco Frattini, aveva pronunciato la memorabile frase: «Noi diciamo cessate il fuoco subito, integrità territoriale della Georgia, ma diciamo anche rifiuto delle armi per difendere l'integrità territoriale».

«LA STRANA COPPIA»

Berlusconi si schiera da sempre con la Russia per via del suo fiuto per la politica interna, ci sono molti più italiani scettici sulla posizione ufficiale sulla guerra di partiti che li rappresentano, per ragioni di realpolitik internazionale, che vanno dalle forniture energetiche agli effetti delle sanzioni sulle imprese italiane, ma almeno ci sono almeno altrettante ragioni umanissime e personali.

Nel 2015, dopo aver intervistato Putin, Berlusconi e una serie di loro importanti collaboratori, il giornalista Alan Friedman li ha battezzati «la strana coppia»: l’imprenditore playboy e l’austero ex agente del Kgb (nel frattempo, la scoperta dei giganteschi palazzi che Putin si è fatto costruire hanno rivelato che forse i due hanno in comune anche il gusto per gli eccessi kitsch).

Nella sua biografia di Berlusconi, Friedman scrive che i due si sono incontrati per la prima volta al G8 di Genova nel 2001. Già nel 1994 Berlusconi si era dimostrato uno dei leader europei più filo-russi, un orientamento che non dispiaceva affatto alla diplomazia italiana. Il nostro paese ha una lunga tradizione italiana di collaborazione con l’Unione sovietica (nella città russa di Togliatti c’è ancora l’impianto costruito dalla Fiat negli anni Settanta)  che dopo la caduta del muro di Berlino si è trasformata nell’asse italo-tedesco per una maggiore integrazione internazionale della Russia in cambio di forniture di energia a buon prezzo. Ma a Genova nel 2001 gli interessi nazionali si sono mischiati con l’amicizia personale. In 19 mesi tra 2001 e 2003, Friedman ha contato otto incontro tra i due, a cui si aggiungono le vacanze delle figlie di Putin a Villa Certosa e la tradizione dello scambio di regali in occasione dei reciproci compleanni (distanti solo un paio di settimane) che, come confermano i famigerati audio, è proseguita anche quest’anno.

Il culmine dell’amicizia tra i due è l’ormai mitologico incontro nella base militare romane di Pratica di Mare, dove Berlusconi ha fatto incontrare Putin con George W. Bush in occasione del primo storico accordo di collaborazione tra Nato e Russia. Come Berlusconi ha ripetuto un numero ormai incalcolabile di volte, quell’incontro simboleggerebbe la fine di cinquant’anni di Guerra fredda. Più modestamente, gli storici lo ritengono il punto più alto raggiunto nelle relazioni tra Russia e Nato, quando sembrava se non probabile, almeno possibile l’ingresso della Russia nella Nato. La storia poi, come sappiamo, ha preso un altro corso.

Ma per Berlusconi, quel momento non è mai finito. «Di tutte le cose che ho fatto nella mia vita, questa è probabilmente quella di cui sono più orgoglioso», ha raccontato Berlusconi a Friedman. E questa è probabilmente la chiave di tutta la storia. Le fondamenta della strana coppia non affondano nella geopolitica o nella realpolitik, nemmeno nei loschi affari o nei party selvaggi insinuati dai messaggi dei diplomatici americani rivelati da Wikileaks. Non è chiaro nemmeno quanto davvero il rapporto sia reciproco se è vero quanto raccontato da Berlusconi, ossia che da febbraio Putin non gli ha mai risposto al telefono nonostante molteplici tentativi. Probabilmente, alla base del rapporto c’è la più grande ossessione di Berlusconi: sé stesso. E di fronte a questo, non ci sono Meloni, governi, Nato o ucraina che tengano.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Concetto Vecchio per repubblica.it il 21 Ottobre 2022

Paolo Guzzanti, ha capito quale è il disegno di Berlusconi?

"Azzoppare Giorgia Meloni direi". 

Ma non devono fare il governo insieme?

"Non è detto". 

Come non è detto?

"Meloni, con l'elezione di La Russa, ha dimostrato che può fare a meno dei voti di Forza Italia". 

Pensa a un'altra maggioranza?

"Più in là potrebbe accadere. C'è una riserva indiana pronta a correre in soccorso". 

E Berlusconi?

"Non è disposto ad inghiottire un simile rospo. Perdipiù lei gli ride in faccia". 

Quanto possono durare?

"Non avranno vita lunga. Il governo nasce morto o gravemente malato. È già pieno di rancori". 

Oggi sono tutti al Quirinale

"I ministri decisivi alla fine li suggerirà Mattarella". 

Lei Berlusconi lo conosce bene.

"Non sono mai stato uno del suo cerchio magico, ma mi considero un suo amico. Ho fatto il parlamentare del Pdl e scritto un libro intervista Guzzanti vs Berlusconi.

L'anno prima dell'uscita di quel libro avevo però lasciato Forza Italia".

Perché?

"Nel 2008 Putin invase la Georgia. Il Cavaliere ci riunì nella sala del Mappamondo e disse che "Putin avrebbe attaccato per le palle il presidente georgiano"". 

E lei?

"Gli spiegai che ero sconvolto. Da presidente della Mitrokhin ero stato attaccato dai russi. "Guarda che Vladimir è un uomo dolcissimo", mi disse lui". (Guzzanti imita la voce di Berlusconi) 

Nell'audio dice che Putin gli ha scritto una lettera dolcissima.

"Ha usato lo stesso aggettivo di allora. Non dubito della sua sincerità emotiva". 

Politicamente non è devastante?

"Mette una zeppa sul cammino della Meloni, per renderle difficile la vita". 

Ma perché?

"Penso che lui si sia sentito offeso che lei non abbia accettato i suoi ministri". 

Non è stupito dell'audio?

"Ma no, è un canone della sua comunicazione: lui sa bene che poi esce fuori. Escludo che sia stato un incidente". 

Cosa glielo fa dire?

"La psicologia di Berlusconi mira all'approvazione anche da un punto di vista emotivo, così ottiene un grande ascolto e ruba la scen a tutti". 

Bisogna fare ancora i conti con lui?

"Quante volte è stato scritto che il berlusconismo è morto? Ed eccolo ancora in prima pagina". 

Però Forza Italia può stare al governo?

"Lui si fa forte del fatto che ha sempre votato i provvedimenti pro Ucraina".

Berlusconi soffre il decisionismo di Meloni?

"Si capisce. La volle nel suo governo quando lei era una ragazza. C'è anche l'elemento dell'ingratitudine". 

Sono compatibili?

"Meloni discende dalla destra sociale, è una statalista, non ha nulla di liberale". 

Berlusconi lo è?

"Si vanta di averli tolti dalla polvere. È geloso di un patrimonio ideologico ed elettorale svanito. Gli brucia ancora l'esclusione dal Parlamento nove anni fa". 

È una ferita aperta?

"Sì, lo vedo dalle espressioni del viso". 

Sull'Ucraina ha taciuto per mesi.

"Poi ha rotto il silenzio affermando che nel 2008 sconsigliò Putin di aggredire l'Ossezia. Era un modo per dire: se mi avessero coinvolto lo avrei dissuaso anche stavolta". 

Berlusconi è in affari con Putin?

"Quando ruppi divenni molto popolare coi georgiani, loro erano convinti che fosse in affari con Putin sul gas. Provarono ad indagare ma non trovarono niente". 

È ricattabile, insinua Meloni.

"I tempi del lettone e di Silvio col colbacco mi sembrano finiti". 

Perché l'ha detto?

"Andrebbe chiesto a lei, che però si guarda bene dal dirlo. Perché non spiega a cosa allude?".

Il caso degli audio del Cav. Cosa accadde con la commissione Mitrokhin: quando ruppi con Berlusconi per l’amicizia con Putin. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Ottobre 2022 

Di questo passo in Italia non si farà alcun governo e in mancanza di altre maggioranze andremo a votare a gennaio. Intanto, le dichiarazioni di Berlusconi che hanno fatto trasalire molti e con grande risonanza in Europa e nel mondo, disegnano un quadro politico e non delle esuberanze inopportune. Berlusconi irrompe sulla scena mediatica parlando dell’amico recuperato Putin e poi subito dopo dichiarandosi pubblico nemico del presidente ucraino Zelensky in un momento particolare e drammatico della guerra in Ucraina, e cioè quando si accredita la voce specialmente presso i servizi di intelligence inglese, che Putin starebbe seriamente pensando ad una esplosione atomica dimostrativa nelle acque del Mare nero usando un ordigno a bassa intensità fatto brillare allo scopo di mettere il fronte occidentale di fronte all’alternativa di una guerra totale.

Ieri, Berlusconi ha messo in onda il secondo tempo delle sue opinioni spiegando la sua assoluta disistima per il presidente ucraino Zelensky, del tutto colpevole di aver provocato le giuste reazioni di Putin, in difesa dei russofoni del Donbass che si dicevano perseguitati. Naturalmente queste parole oltre ad aver fatto un grandissimo clamore sull’opinione pubblica sia italiana che europea, determinano un evento politico che è sotto gli occhi di tutti: uno dei tre componenti dell’alleanza è schierato in politica estera dalla parte opposta a quella maggioritaria di una Meloni atlantica, e non in un momento di stasi della guerra, ma quando si profila la possibilità di una escalation militare.

Io ho un’esperienza personale e unica, da quando nel 2002 proprio mentre il Parlamento approvava la legge che istituiva la Commissione Mitrokhin di cui sarei stato eletto presidente, il capo del governo Silvio Berlusconi inaugurò l’eccezionale rapporto con il presidente Vladimir Putin, ex tenente colonnello del KGB di stanza a Dresda nell’allora Repubblica democratica tedesca. Fu l’anno del celebrato incontro di Pratica di Mare con Berlusconi, come il Dio romano Giano, a stringere le mani del presidente americano George Bush e di quello russo Putin dichiarando chiusa la guerra fredda. Ciò che forse Berlusconi ignorava, o forse lo seppe quando ormai non c’era nulla da fare, è che Putin odiava la commissione Mitrokhin perché non tollerava che qualcuno all’estero, per non dire in patria, investigasse su ciò che la polizia segreta sovietica aveva combinato sia all’estero che in Russia.

Da allora cominciò una sofferenza pesantissima nella commissione perché arrivavano continui messaggi sotto forma di articoli dei giornali russi riciclati su insospettabili giornali italiani in cui una commissione del Parlamento della Repubblica veniva dileggiata, additata al disprezzo insieme al suo presidente e ai più attivi dei quaranta commissari che rappresentavano tutti i partiti in Parlamento. Putin era furioso e mandava messaggi rabbiosi in tutti i modi possibili perseguitando alcuni amici russi fuggiti a Londra che si preoccupavano delle sorti della nostra commissione. Il più importante di tutti fu Alexander Litvinenko anche lui ex tenente colonnello del KGB e per un breve periodo di tempo collega d’ufficio del suo parigrado Putin. Litvinenko che fu assassinato orrendamente con un veleno radioattivo, a quei tempi, non rintracciabile.

“Vladimir è un uomo dolcissimo, caro Paolo”, mi disse Berlusconi con un sorriso luminoso quando io gli chiesi aiuto per capire che cosa si muovesse dietro quelle quinte e quelle matrioske. E aggiunse: “Guarda, se qualcuno mi venisse a dire che tu, Paolo, hai assassinato o potresti assassinare qualcuno io proverei la stessa incredulità se fosse detto a proposito di Putin.” Ciò accadeva nel 2006 quando la commissione parlamentare da me presieduta concluse i suoi lavori nei tempi prefissati dalla legge. Qualche anno dopo il governo inglese ordinò a un procuratore speciale della regina, Sir Robert Owen, di condurre un’istruttoria sulla morte di Litvinenko che terminò con una sentenza di responsabilità diretta di Vladimir Putin.

Fu dopo l’invasione della Georgia nel 2008 che io completamente sopraffatto dall’indignazione per la generale acquiescenza di fronte alla prima invasione di un paese europeo da parte di un altro paese europeo capii troppo tardi di aver sbagliato strada. Anche perché Berlusconi, che più tardi rivelerà di aver fermato l’amico un po’ troppo disinvolto nel lanciare carri armati e fanteria, durante una riunione plenaria dei gruppi di maggioranza, rivelò di aver ricevuto una telefonata in cui Putin si riprometteva di “inchiodare per le palle su un albero il presidente georgiano Shakasvilij”. E fu così che io interruppi i miei rapporti con il presidente del consiglio tirandomi dietro qualche anno di insulti. Nel frattempo, ero diventato vicesegretario del partito liberale italiano e ricevetti in quel partito la visita del presidente georgiano che era venuto a Roma per ringraziarmi.

Poi passò molta acqua sotto i ponti e anche la mia amicizia personale con Silvio Berlusconi sì rigenerò con molto affetto anche perché io non cessai di combattere la stessa battaglia liberale in cui era compresa la mia solidarietà per una persecuzione giudiziaria mai conosciuta in una democrazia occidentale e che si concluse con la cacciata di Berlusconi dal Parlamento. Un Parlamento che anziché difendere un suo membro come nel codice delle democrazie parlamentari, consegnò il senatore Berlusconi agli esecutori di giustizia. Di Putin con Berlusconi non ho mai più parlato, ma certo che in questi ultimi due giorni sono avvenuti dei fatti nuovi di cui sfugge spesso la sostanza, sommersa dagli aspetti scenici tra cui l’uso generoso dell’aggettivo “dolce” e del suo superlativo “dolcissimo”, riemersi con il riemergere dichiarato dell’affetto di Silvio.

Ma ieri mattina una delle prime notizie che ho letto è stata quella dell’improvvisa e non preannunciata visita del ministro della Difesa del Regno unito Ben Wallace a Washington per discutere urgentemente con gli americani la notizia, che si era diffusa nella notte precedente, secondo cui Vladimir Putin starebbe valutando di far esplodere un ordigno nucleare nelle acque del Mar Nero, un ordigno “a basso rendimento”. Inoltre, il ministro della Difesa di Mosca avrebbe annunciato di lì a poco l’istituzione della legge marziale nelle quattro province ucraine dichiarate annesse alla Federazione russa, giustificando tale decisione come una dolorosa necessità, amara e indispensabile.

L’Occidente, intendendo per esso Unione europea, Regno Unito e Stati Uniti, hanno da tempo notificato anche per via diplomatica a Mosca che qualsiasi uso di armi nucleari nella guerra in Ucraina avrebbe messo in moto una reazione militare di fortissimo impatto dissuasivo ovvero, detto in parole semplici, una guerra. Qui siamo e non è ancora chiaro se qui saremo ancora domani a quest’ora, benché è ciò che speriamo tutti per quanto le nostre vite possano essere deludenti o tormentate. Come spiegava un plebeo romanesco in un sonetto del Gioachino Belli “stamo tutti attaccati a st’ammazzata vita”, dove curiosamente quella “ammazzata” sta per amatissima.

Sono otto mesi che viviamo sull’orlo dell’abisso e da ieri quell’abisso si è fatto più vicino, almeno come minaccia che provoca una catena di conseguenze sia politiche che militari capaci di mettere il governo della Repubblica di nuovo di fronte alla scelta: o di qua o di là. Il Cavaliere ha giocato di sorpresa ed ha reso pubblico il fatto di essere in contatto con Putin e questa ripresa si è tradotta immediatamente, immaginiamo, in dichiarazioni, certamente non sfuggite di labbra, dall’immediato effetto politico e militare.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

(ANSA il 30 ottobre 2022) - Si può arrivare a una trattativa di pace nel conflitto ucraino? "Forse: solo se a un certo punto l'Ucraina capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l'Occidente promettesse di fornirle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione delle sue città devastate dalla guerra. In questo caso Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa". Lo ha detto intervistato da Vespa per il suo ultimo libro, il leader di Fi, Silvio Berlusconi.

"In questa situazione - spiega Berlusconi a Vespa nel libro "La grande tempesta" - noi non possiamo che essere con l'Occidente nella difesa dei diritti di un Paese libero e democratico come l'Ucraina". Sullo stop alle armi, preferendo l'invio di massicci aiuti economici per la ricostruzione, Vespa obietta che Putin dovrebbe almeno lasciare le due regioni (Kherson e Zaporizhzhia) occupate e annesse dopo le altre due del Donbass (Donetsk e Luhansk). 

Berlusconi sembra d'accordo, pensa però che non si dovrebbe discutere l'appartenenza alla Federazione Russa della Crimea e fare un nuovo referendum nel Donbass con il controllo dell'Occidente. E' convinto che Putin sia 'un uomo di pace', confessa a Vespa che ha provato a chiamarlo due volte senza esito all'inizio della guerra e dopo non ha più insistito.

Sulle venti bottiglie di vodka e di lambrusco, ricorda che dopo aver raccontato ai suoi deputati delle lettere di auguri, uno di loro gli chiese: "E vi siete fatti anche dei regali?" E lui sorridendo rispose divertito: "Si certo, venti bottiglie di vodka e venti di lambrusco". Ma tutti , dice, avevano capito che scherzava" 

Alla domanda, infine, di Vespa se si senta più vicino all'America o alla Russia, Berlusconi ricorda che una delle cinque standing ovation riservategli dal Congresso degli Stati Uniti il 19 giugno 2011 fu quando raccontò del giuramento di fedeltà agli USA chiestogli dal padre quando dopo la maturità classica lo portò a visitare il cimitero militare americano di Anzio.

(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Nessun disagio" nel vedere per la prima volta dopo 28 anni un leader del centrodestra diverso da lui. "Era logico e naturale che andasse a Palazzo Chigi il leader del partito che ha ottenuto più voti di quelli di Forza Italia e della Lega messi insieme. D'altra parte avevo già detto più volte che Giorgia Meloni aveva tutti i requisiti per guidare il governo".

Lo dice Silvio Berlusconi nel libro di Bruno Vespa "La grande tempesta". Perché Giorgia Meloni ha avuto questo successo? "Perché rappresenta il nuovo ed è stata molto brava nelle sue apparizioni televisive". Berlusconi parla del ministro della giustizia Carlo Nordio, definendolo "uno straordinario professionista. Condivido le sue posizioni sulla riforma della giustizia. La priorità assoluta è la riduzione della durata dei processi" anche se "il no al Ministro della Giustizia ci ha deluso…. Ci è stato chiesto quali sarebbero stati i nostri ministri e noi abbiamo risposto: Tajani agli Esteri, Casellati alla Giustizia e Bernini all'Università. Poi si è parlato dei ministri senza portafoglio E io ero certo che ci fosse l'accordo". Infine, parlando del governo, "il mio intervento per la fiducia al Senato ha garantito una partecipazione appassionata e leale a sostegno del Governo per i prossimi 5 anni di lavoro". (ANSA).

Berlusconi e la ricetta per far trattare Kiev: miliardi per ricostruire invece che dare armi. Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Le dichiarazioni sulla guerra rilasciate da Berlusconi a Bruno Vespa suscitano l’immediata e aspra reazione delle opposizioni, che contestano al leader di Forza Italia una visione putiniana del conflitto

Basta armi, meglio fornire aiuti economici all’Ucraina. Crimea alla Russia e sorti del Donbass da decidere con un referendum. Qualche settimana dopo le polemiche per gli audio rubati sul conflitto, emerge una nuova strategia di Silvio Berlusconi per risolverlo. Questa volta si tratta di dichiarazioni ufficialmente rilasciate a Bruno Vespa per il libro che il giornalista darà alle stampe a breve «La grande tempesta». Immediata e aspra la reazione delle opposizioni che contestano a Berlusconi una visione putiniana del conflitto, e a Meloni di non avere una maggioranza sull’Ucraina.

Al presidente di Forza Italia, Vespa chiede se si possa avviare una trattativa di pace: «Solo se a un certo punto l’Ucraina capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l’Occidente promettesse di fornirle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione delle sue città devastate dalla guerra. In questo caso Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa». Vespa obietta che Putin dovrebbe almeno lasciare le due regioni (Kherson e Zaporizhzhia) occupate e annesse insieme alle altre due del Donbass. Berlusconi concorda ma ribatte che fuori discussione dovrebbe essere l’appartenenza alla Russia della Crimea e che per il Donbass si potrebbe decidere con un referendum sotto il controllo dell’Occidente.

Quindi il Cavaliere ribadisce la definizione di Putin «uomo di pace» anche se, confessa a Vespa, ha provato a chiamarlo senza esito all’inizio della guerra. Riguardo al recente scambio di doni — venti bottiglie di vodka da parte del capo del Cremlino alle quali l’ex premier avrebbe ricambiato con il lambrusco — trapelato attraverso l’audio rubato durante un confronto con i neodeputati di Forza Italia, chiarisce che «tutti avevano capito che scherzavo».

Per Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, la misura è colma: «Meloni e Tajani non possono più fare finta di nulla, sull’Ucraina la maggioranza non c’è». Per una volta sulla stessa linea Italia viva-Azione, attraverso il capogruppo alla Camera, Matteo Richetti: «La presidente del Consiglio ha un problema non più tollerabile per le nostre istituzioni. Si chiama Berlusconi». Il leader di Azione, Carlo Calenda, chiosa: «Non esiste maggioranza di governo senza una linea di politica estera comune. Berlusconi fa propaganda per Putin incurante delle conseguenze».

E parole non molto diverse usa il Pd. «Per Berlusconi — osserva Lia Quartapelle — la pace in Ucraina passa dalla resa, togliendo gli aiuti militari a Zelensky e riconoscendo Donbass e Crimea come Russia. Un bel problema per Meloni». L’eurodeputata Pina Picierno sollecita Meloni, attesa a Bruxelles a breve, a prendere «immediate distanze» dalle «parole vergognose» dell’alleato.

Nel libro di Vespa Berlusconi parla anche del rapporto con chi ne ha ereditato il ruolo, assicurando di non provare «alcun disagio» per l’avvicendamento. «Era logico e naturale che andasse a palazzo Chigi il leader del partito che ha ottenuto più voti di FI e Lega messi insieme. Giorgia Meloni ha tutti i requisiti per guidare il governo. Ha avuto successo perché rappresenta il nuovo ed è stata molto brava in tv». Nonostante la «delusione» per la scelta di un ministro della Giustizia diverso da Casellati, che Berlusconi avrebbe voluto in quel ruolo, il Cavaliere assicura «partecipazione appassionata e leale a sostegno del governo per i prossimi cinque anni».

Il Cavaliere Arcobaleno. Berlusconi, Conte e l’irritante doppiezza del putinismo italiano. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022

Il leader di Forza Italia sostiene che per fermare la guerra bisognerebbe togliere le armi all’Ucraina, che è esattamente quanto chiede Conte. Non si capisce perché il 5 novembre non dovrebbero marciare uniti 

L’ennesima sfilza di dichiarazioni filo-putiniane pronunciate da Silvio Berlusconi, questa volta dalle pagine del nuovo libro di Bruno Vespa, confermano quello che tutti avevano capito sin dall’inizio. E cioè che il leader di Forza Italia ha sempre inteso dire esattamente quello che ha detto, prima nell’intervista a Porta a Porta del 22 settembre e poi nella riunione con i suoi parlamentari del 18 ottobre, da cui erano filtrati i famigerati audio.

Anche stavolta Berlusconi ripete che Vladimir Putin è «un uomo di pace», sostiene che quella dello scambio di Vodka e Lambrusco fosse una risposta ironica alla domanda di un parlamentare (dimenticandosi probabilmente che l’audio è tutt’ora disponibile on line), ma soprattutto spiega qual è secondo lui l’unico modo di fermare il conflitto: «Forse, solo se a un certo punto l’Ucraina capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l’Occidente promettesse di fornirle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione delle sue città devastate dalla guerra. In questo caso Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa».

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla provenienza di una simile paccottiglia, dovrebbe concentrarsi sul passaggio più grottesco, ma proprio per questo più rivelatore. E cioè la proposta di togliere agli ucraini le armi con cui si difendono dai bombardamenti che stanno radendo al suolo le loro città in cambio dei soldi per ricostruirle, presumibilmente dopo che siano state occupate dai russi. Un miscuglio di spudoratezza e illogicità che possiamo considerare il vero marchio di fabbrica della propaganda putiniana. Non per niente, l’offerta di un simile piano di ricostruzione era anche l’unica concessione all’Ucraina, se di concessione si può parlare, contenuta nell’assurdo appello degli intellettuali rosso-bruni pubblicato su Avvenire qualche settimana fa.

La posizione di Berlusconi rappresenta con ogni evidenza un problema gigantesco per la maggioranza, tanto più grave perché si tratta di una posizione tutt’altro che isolata, come ci hanno recentemente ricordato le primissime dichiarazioni da presidente della Camera pronunciate dal leghista Lorenzo Fontana, a proposito delle sanzioni alla Russia e il rischio che si rivelino un «boomerang». Certo è che il problema non riguarda soltanto il centrodestra.

Può apparire un episodio minore, ma è forse degno di qualche attenzione il fatto che il 27 ottobre sulla pagina facebook di Unione popolare, il partito di Luigi de Magistris, sia apparso un post sulla manifestazione per la pace del 5 novembre in cui si diceva: «Condanniamo l’aggressione di Putin, rispettiamo la resistenza ucraina, siamo a fianco delle vittime, ma più armi, più distruzione, più morti non sono la soluzione». E che poco dopo dallo stesso post siano scomparse sia la condanna dell’aggressione sia il rispetto per la resistenza ucraina e la solidarietà con le vittime. Adesso infatti il paragrafo comincia direttamente con le parole «Più armi». Evidentemente la condanna dell’aggressore e il rispetto per la resistenza – espressioni riprese dalla piattaforma della manifestazione del 5 novembre – non sono condivise da tutti i partecipanti.

Questo infatti il passaggio che si trova nell’appello pubblicato dagli organizzatori: «Condanniamo l’aggressore, rispettiamo la resistenza ucraina, ci impegniamo ad aiutare, sostenere, soccorrere il popolo ucraino, siamo a fianco delle vittime». Ma a leggerne il resto, onestamente, viene quasi voglia di dar ragione al curatore delle pagine social di Unione popolare, o a chi per lui abbia deciso di espungere quelle espressioni, perché evidentemente fuori contesto. Tanto almeno quanto le reiterate professioni di atlantismo e solidarietà con l’Ucraina che anche oggi, inevitabilmente, pioveranno da tutti i dirigenti di Forza Italia e del centrodestra.

La verità è che la linea esposta da Berlusconi non differisce in nulla da quella di Giuseppe Conte, un altro che certamente rispetta moltissimo la resistenza ucraina ed è stato tra i primi a promuovere la manifestazione del 5 novembre. Non per niente, Conte ha fatto esattamente quel che dice il leader di Forza Italia, chiedendo al governo di smettere di inviare agli ucraini le armi con cui resistono, e senza le quali non ci sarebbe nessuna resistenza. Non si capisce dunque per quale motivo in piazza dovrebbe esserci Conte e non Berlusconi.

Resta invece da stabilire se sia peggiore il sospetto che una larga parte della politica e dell’informazione italiana sia direttamente influenzata da Putin o l’impressione che molti politici, intellettuali e giornalisti aderiscano sinceramente e spontaneamente alle tesi del Cremlino.

Berlusconi contro Meloni, Sallusti: "Questo è troppo, non la riconosco più". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022.

Caro presidente Berlusconi, ieri ci ha informato, tra l'altro, di uno scambio di "dolcissime lettere" tra lei e Vladimir Putin in occasione del suo compleanno. Dal basso dell'affetto e della riconoscenza che nutro nei suoi confronti mi permetto, nel mio piccolissimo, anche io di inviarle una letterina, spero altrettanto dolce. Per dirle una cosa molto semplice: non la capisco più, e non essendo l'unico penso che il problema non sia mio.

Lei, presidente, poche settimane fa ha compiuto l'ennesimo miracolo della sua vita tenendo - i voti raccolti sono tutti suoi personali - Forza Italia in vita e al centro dell'arena politica. Chapeau, e se la pattuglia parlamentare non è risultata all'altezza del consenso raccolto lo si deve immagino esclusivamente a errori da voi fatti al tavolo dovevi eravate spartiti i seggi con gli alleati.

Lei ora dice, uso parole mie: Giorgia Meloni non ci rispetta. Non entro nel merito, ma certo svelare a due giorni dalla nascita di un governo già nel mirino di suo l'affettuoso carteggio tra lei e Putin non agevola certo il compito che aspetta la futura premier, e quindi l'Italia, nei consessi internazionali occidentali, né il lavoro del suo Antonio Tajani nel caso, come probabile, andasse a ricoprire il ruolo di ministro degli Esteri.

So bene poi che quando lei dice che "l'uomo della Meloni" è un suo dipendente a Mediaset non intende offendere nessuno, né si può leggere come una malignità di cui so non esserne capace. Ma sta di fatto che, al netto che quell'uomo era suo dipendente ben prima di conoscere Giorgia, più d'uno userà quelle parole per costruire castelli di sabbia che rischiano solo di mettere in imbarazzo la famiglia Meloni.

Ovvio infine che lei è Silvio Berlusconi, che lei può fare e dire ciò che crede come del resto ha sempre fatto. Ma chi non la conosce come ho avuto io l'onore e il privilegio di conoscerla potrebbe equivocare ogni sua parola e pensare che davvero lei in questo momento voglia affossare il sogno non di Giorgia Meloni ma di una buona parte di italiani. Ecco, caro Presidente, questo sarebbe troppo anche per Silvio Berlusconi. Se a lei fosse concesso di incontrare la sua gente, i suoi imprenditori che ancora la seguono, lo verificherebbe di persona. Tanto le dovevo, con affetto.

Da repubblica.it il 19 ottobre 2022. 

Camera, il nuovo ufficio di presidenza

Nominato il nuovo Ufficio presidenza della Camera. Sono stati eletti vicepresidenti Fabio Rampelli, di Fratelli d'Italia (231 voti); Giorgio Mulè, di Forza Italia (217); Anna Ascani, del Pd (138); Sergio Costa, del Movimento 5 stelle (118): Voti dispersi 6, schede bianche 4, schede nulle 1. 

Questori sono stati eletti: Paolo Trancassini, di Fratelli d'Italia (231 voti); Alessandro Manuel Benvenuto, della Lega, (216); Filippo Scerra, del Movimento 5 stelle (132). Hanno ottenuto voti anche Rachele Scarpa (34) e Piero Fassino (30), del Pd; Marco Pellegrini, del M5S (27), Alessandro Colucci, di Noi Moderati (17). Voti dispersi 15, schede bianche 5, nulle 4.

Segretari sono stati eletti: Fabrizio Cecchetti, della Lega (188), Chiara Colosimo (186), Giovanni Donzelli (185) e Riccardo Zucconi di Fratelli d'Italia: Annarita Patriarca (177) di Forza Italia; Gilda Sportiello (127) e Roberto Traversi (127), del Movimento 5 stelle; Chiara Braga (126) del Pd. Stefano Vaccari, del Pd, ha ottenuto 125 voti. Voti dispersi 3, schede bianche 3, schede nulle 1. I presenti e i votanti sono stati 367. Non essendoci nessun rappresentante del Terzo polo nell'Ufficio di presidenza, occorrerà procedere ad una nuova votazione per l'elezione di un segretario che lo rappresenti. Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha subito convocato la prima riunione dell'Ufficio di presidenza. 

Senato, eletti vicepresidenti Gasparri, Centinaio, Rossomando e Castellone

Secondo quanto si apprende Maurizio Gasparri (FI), Gianarco Centinaio (Lega), Anna Rossomando (Pd) e Mariolina Castellone (M5S) sono stati eletti vicepresidenti del Senato. 

Camera: Rampelli, Mulè, Ascani e Costa vicepresidenti

Alla Camera sono stati eletti vicepresidenti i deputati Fabio Rampelli di Fratelli d’ Italia (231 voti ), Giorgio Mulè di Forza Italia (217), Anna Ascani del Pd (138) e Sergio Costa del M5S (118).  Nei voti dei vicepresidenti della Camera indicati dal centrodestra mancano 14 voti all'esponente di FI Giorgio Mulè rispetto a quello di Fdi.

Nasce il Governo.

(ANSA il 21 Ottobre 2022) - "La delegazione del centrodestra che ha incontrato il presidente ha convenuto sulla necessità di dare un nuovo governo nel minore tempo possibile perchè le urgenze sono moltissime a livello nazionale e internazionale. Tutta la coalizione che non a caso si è presentata insieme alle consultazioni, ha dato indicazione unanime proponendo la sottoscritta". Così la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni al termine delle consultazioni al Quirinale, parlando a nome della delegazione del centrodestra

(ANSA il 21 Ottobre 2022) - Il centrodestra ha proposto "al presidente della Repubblica l'indicazione della sottoscritta come persona incaricata a formare il governo. Attendiamo le determinazioni del Presidente della Repubblica e già da ora siamo pronti, vogliamo procedere nel minor tempo possibile". Così la leader di FdI, Giorgia Meloni, dopo le consultazioni con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con il centrodestra.

(ANSA il 21 Ottobre 2022) - "Attendiamo le determinazioni del presidente Mattarella, che ringraziamo per il suo magistero in questo momento importante per la Nazione". Lo dice Giorgia Meloni al termine della consultazione al Quirinale con il Capo dello Stato.

(ANSA il 21 Ottobre 2022) - Consultazioni rapidissime per la coalizione di centrodestra, al Quirinale. Il colloquio di tutti i leader con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella sarebbe durato 11 minuti, una ventina compreso il tempo dell'arrivo nel cortile del palazzo e l'uscita con l'altrettanto breve dichiarazione letta da Giorgia Meloni alla stampa.

(ANSA il 21 Ottobre 2022) - Breve scambio di battute tra i leader di centrodestra nel cortile del Quirinale appena dopo aver svolto le consultazioni per la formazione del Governo con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Silvio Berlusconi, aiutato da Matteo Salvini a scendere gli scalini, è apparso sorridente e ha stretto la mano a Giorgia Meloni mentre attendeva la sua auto. Gli altri leader, subito dopo, hanno lasciato il Quirinale a piedi per recarsi nel piazzale per prendere le loro auto senza fermarsi con i giornalisti.

Caterina Stamin per lastampa.it il 21 ottobre 2022.

Meno di un'ora. Tanto è durata complessivamente la permanenza al Quirinale della delegazione del centrodestra, convocata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in vista della formazione del nuovo governo. Dall’arrivo della premier in pectore Giorgia Meloni sulla Cinquecento bianca alla foto di Berlusconi nella sala dello Zodiaco: vediamo i 10 momenti salienti dalla mattina al Colle.

Berlusconi il “primo” al Colle

Silvio Berlusconi è stato il primo a giungere al Colle. Il leader azzurro, alle 10.10, è arrivato in auto fin nel cortile d'onore del Quirinale, sfoggiando sorrisi e accompagnato dai capigruppo del Senato e della Camera, Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo. Antonio Tajani, coordinatore nazionale del partito, è arrivato pochi istanti dopo a piedi, come Antonio De Poli e Maurizio Lupi, dell'Udc e di Noi moderati. 

L’arrivo della Meloni al Quirinale sulla Cinquecento bianca

Completo blu e camicia di identico colore, Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, è arrivata al Quirinale a bordo di una Fiat Cinquecento bianca. Ha rivolto solo un breve saluto ai fotografi che la aspettavano all'ingresso poi, accompagnata da Luca Ciriani e Francesco Lollobrigida, capi dei gruppi di FdI del Senato e della Camera, è entrata al Colle 10 minuti prima delle 10.30, l'orario dell'appuntamento con Mattarella.

Consultazioni al Quirinale, Giorgia Meloni sale al Colle con la sua Cinquecento bianca 

Il leader di Forza Italia e la foto sul trono della sala dello zodiaco

«La delegazione di Forza Italia al Quirinale per le consultazioni del Presidente della Repubblica. Daremo un contributo decisivo per far nascere il governo del centrodestra». Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, festeggia il giorno in cui nasce il nuovo governo pubblicando su Twitter una foto in cui si ritrae seduto su una poltrona con alle spalle tutta la delegazione azzurra nella Sala dello Zodiaco. La fotografia è stata scattata prima dell'incontro fra le delegazioni del centrodestra e il presidente della Repubblica.

Gli undici minuti da Mattarella

È stato molto rapido, circa undici minuti, l'incontro tra Sergio Mattarella e la coalizione del centrodestra. Nel corso dell'incontro, l’unica a prendere la parola è stata Giorgia Meloni, mentre gli altri leader si sono limitati a confermare la loro condivisione. Meloni, Berlusconi, Salvini e gli altri esponenti del centrodestra si sono poi fermati qualche minuto nella sala del Bronzino, prima della dichiarazione fatta dalla premier in pectore davanti ai giornalisti. 

La stretta di mano Mattarella-Meloni

Sorride e appare emozionata Giorgia Meloni mentre stringe la mano a Sergio Mattarella al Quirinale. Inizia così il giorno del suo governo. Il suo giorno. 

Il discorso della leader di FdI

«La delegazione del centrodestra, che ha incontrato il presidente della Repubblica, ha convenuto sulla necessità di dare un nuovo governo nel minore tempo possibile, perché le urgenze sono moltissime a livello nazionale e internazionale. Tutta la coalizione che non a caso si è presentata insieme alle consultazioni, ha dato indicazione unanime proponendo la sottoscritta». Così la presidente di Fratelli d'Italia al termine delle consultazioni al Quirinale, parlando a nome della delegazione del centrodestra. Come da slogan di campagna elettorale, ha ripetuto «siamo pronti» fino all’ultimo giorno.

Scambio di battute Meloni-Berlusconi

Dopo l'incontro con il capo dello Stato, c'è stata una lunga chiacchierata nel cortile d'onore del Colle tra i leader del centrodestra. Sorrisi e alcune battute: sembra che dopo il terremoto Berlusconi sia tornato il sereno. 

Il buffetto del Cav a Enrico Lucci

Temuto fino alla fine, nessuno show del Cav questa mattina, tranne per il buffetto a Enrico Lucci, storico volto del programma televisivo Striscia La Notizia. 

L’uscita dal Quirinale

Il Cav ha preso a braccetto il segretario della Lega per poi salire in auto e lasciare il Quirinale. Gli altri hanno raggiunto il portone principale a piedi, dopo aver percorso il lungo porticato che costeggia il cortile d'onore interno al palazzo. L'ultimo ad uscire, qualche minuto prima delle 11, è stato il segretario leghista. Dal Quirinale non si aggiunge altro, ma fonti parlamentari comunicano che, con ogni probabilità, la formalizzazione non avverrà fino alla conclusione del Consiglio Europeo di Bruxelles dove è impegnato a rappresentare l'Italia Mario Draghi.

Il foto racconto del centrodestra al Quirinale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Ottobre 2022 

Dalle consultazioni del mattino con il centrodestra schierato alla lettura della lista dei ministri: Giorgia Meloni apre una nuova era politica, la sua. La prima donna premier per l'Italia. Un racconto della giornata. per immagini, con degli scatti fotografici che parlano.

Con l’arrivo sul Colle a bordo di una Fiat 500 bianca è iniziata l’avventura di governo di Giorgia Meloni, prima donna a diventare premier in Italia. Un’ utilitaria da perfetta rappresentante del popolo che usa per muoversi un mezzo economicamente alla portata di tutte le classi sociali. Mentre i politici italiani hanno una passione per le flotte automobilistiche tedesche, l’ex premier grillino Conte ama farsi scorazzare a bordo del Suv di Stato, la nuova premier ci mette un pizzico di italianità. Una maniera buona per indicare la strada del sovranismo economico che, però, nella fattispecie è più patriottismo.   

Il centrodestra tutto schierato insieme al cospetto del Capo dello Stato sembrano il muro invalicabile del consenso popolare. Un colpo d’occhio da famiglia allargata, del pluralismo del “marciare divisi per colpire uniti” hanno fatto tesoro (elettorale).      

Il nuovo governo di destra che quando era ancora centrodestra nasceva “azzurro” sotto le effige berlusconiane ha scelto il blue navy del tailleur Armani indossato da Giorgia Meloni, un nuovo cromatismo politico necessario per archiviare il nero, ma anche come segno unificante nel giorno solenne della formalizzazione dell’incarico per la Meloni. Sguardi e atteggiamenti impettiti nella delegazione di Fratelli d’ Italia, il sorrisino compiaciuto ed equivoco di Matteo Salvini e quello trattenuto da Berlusconi reduce dalla “esternazione” imbarazzante su Vladimir Putin. 

 Silvio Berlusconi non si rassegna ancora al pensiero di non essere più il Re Mida del consenso elettorale, colui che trasformava ogni decisione politica in oro elettorale, adesso è destinato solo a resistere, uscendo dalle ultime elezioni del 25 settembre scorso con un tesoretto di voti. Unico problema è che voleva farlo fruttare con un ritorno più elevato di quelli che la nuova leader – che lui in realtà dietro le quinte non vuole riconoscere – è disposta a concedergli. Questa immagine da “Re Sole” circondato dalla corte dei favoriti non basta per cancellare specialmente dopo le esternazioni filoputiniane l’immagine di un Cavaliere malconcio alle prese con il suo “finale” politico. 

Una stretta di mano e degli sguardi pieni di emozioni che dicono tutto con una foto che ha buone probabilità di diventare testimonianza di un vero passaggio generazionale di stagione politica. L’uomo delle istituzioni Mattarella, che proviene dalla cultura politica della 1a Repubblica e della sinistra DC. Di fronte la prima donna italiana presidente del Consiglio, rampante figlia della destra sociale e leader di quella neopopulista, alle prese col dilemma: usare il cuore o la ragione nella consapevolezza che con la responsabilità ed i vincoli di compatibilità, che voglia o no, prima o poi dovrà scendere a patti.  

E’ fatta, l’ultimissimo passo formale è di fronte a lei. Giorgia Meloni, la nuova premier , la prima premier donna nella storia d’ Italia, esce dal colloquio con il Capo dello Stato per annunciare la lista dei ministri scelti a entrare nel suo governo. Dopo tante tensioni la magia politica finale, e la suddivisione dei ministeri, è stata raggiunta. Questa smorfia di concentrazione e tensione è troppo umana, ma dura un solo attimo, e subito dopo quella donna che dice: “io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono una cristiana….”. E lei la prima donna a presiedere un governo in Italia. E’ la nuova leader di quello che alcuni lustri politici fa, veniva chiamato il centrodestra…Redazione CdG 1947

 Estratto dell’articolo di Chiara Lalli per ilfoglio.it il 21 ottobre 2022.

Immaginate un uomo descrivere una donna come una culona o come una coatta. Le reazioni sarebbero di biasimo e di riprovazione. Che cosa c’entrano i particolari fisici o quanto siamo educate nel parlare e nel (non) gesticolare? 

Se abbiamo finito le scuole medie e ancora pensiamo che “cicciona” sia un argomento, o siamo un po’ tonti oppure siamo del tutto impreparati ad affrontare una discussione. 

[…] Immaginate poi un uomo di destra descrivere una donna di sinistra come una culona o come una coatta. Alle prime reazioni forse si aggiungerebbe anche un velo di Maya di posizionamento morale e di superiorità politica. 

Come ti permetti tu che sei uomo e pure di destra di offendere e denigrare una donna illuminata e sempre dalla parte dei giusti? (Basterebbe lo scenario precedente e questa parte di indignazione sarebbe già superflua, come superflui sarebbero gli hashtag qualcosashaming, ma abbiate pazienza).

Ora immaginate un uomo, autoposizionato tra i buoni e schierato per le cause perse (anche se persi sono sempre gli argomenti e mai le cause), descrivere una donna di destra come una culona e come una coatta. 

Le stesse persone sdegnate e offese nei casi precedenti metterebbero cuoricini e commenterebbero orgogliose. Guarda come gliele ha cantate! Ah, ma ha proprio ragione! Lo avevo detto io, quella culona coatta quattrocchi! (Tratto da una storia vera: Oliviero Toscani ha detto in un’intervista alla Stampa che non sopporta “esteticamente” Giorgia Meloni, “la regina di coattonia”, e via con i cuori). 

Mi chiedo se questa sindrome abbia un nome, se sia una specie di scotoma cognitivo, se sia intenzionale oppure no. E non so decidere quale delle due ipotesi sia peggiore, perché se la sbadataggine è in genere sempre più grave di una fallacia intenzionale, mi pare anche che strategicamente sia così perdente mettersi a tirare gavettoni che mi vengono dei dubbi.

Magari non se ne accorgono proprio? Magari non si rendono conto che un cattivo argomento vale sia contro i cattivi sia contro i buoni? […] E se pensi di aver affondato e sconfitto il tuo avversario forse quello che sta affogando sei tu (perdonate la metafora bellica, ci si abitua a tutto col tempo). […] poi è difficile rimediare a questa regressione argomentativa, è difficile recuperare un po’ di credibilità quando domani difenderai una posizione o una proposta di legge. Poi forse l’errore è il mio o di chi crede che non possa essere tutto posizionamento, schieramento aprioristico, più simile a un derby che a una discussione. E allora lì le regole sono molto elementari: vince chi ha più tempo da perdere e chi ha meno senso del ridicolo […]

Da Mattarella incarico a Meloni, presentata lista. 

Serenella Mattera per repubblica.it il 21 ottobre 2022.

Gli alleati non sanno cosa Giorgia Meloni ha scritto nell'agendina che ha portato sotto braccio al Quirinale, al colloquio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Matteo Salvini non conosce i nomi dei ministri che la leader di Fratelli d'Italia intende indicare per il suo governo, non ne ha idea probabilmente neanche Silvio Berlusconi. Così coperta dal riserbo, la scelta finale della leader di FdI, che Salvini poco fa avrebbe telefonato, a quanto viene riferito a Repubblica, al presidente del Senato Ignazio La Russa, per provare a capirci qualcosa, saperne di più, almeno i nomi dei leghisti. Tentativo, a quanto pare, andato a vuoto. "Non posso dirti nulla", la risposta.

Negli ultimi due giorni Meloni è sparita dalla scena politica e ha lavorato alla composizione della squadra nel massimo riserbo. Ieri è rimasta a casa, continuamente al telefono per riempire tutte le caselle. Ma invano a Villa Grande il Cavaliere ha aspettato che la sua linea squillasse, di essere consultato sui nomi. Aveva raccolto i desideri degli alleati, aveva detto i suoi no. La premier incaricata ha completato l'ultimo miglio da sola. Pare non abbia svelato nulla neanche stamattina, a margine delle consultazioni, alla folta delegazione della coalizione. Dunque tutti in attesa davanti alla tv.

Un dettaglio per nulla marginale trapela intanto dal colloquio di questa mattina al Colle. Berlusconi ha chiesto a Mattarella, viene riferito, di potergli parlare a tu per tu. Lo ha preso in disparte e gli ha assicurato la sua assoluta linea atlantista, la fedeltà ai valori della Nato. Una precisazione non di poco conto, dopo gli audio a favore di Putin e contro Zelensky trapelati negli ultimi giorni. Un passaggio necessario per il leader di un partito che aspira a indicare il nome del futuro ministro degli Esteri. Tanto più che nelle ultime ore sembrava tornare in bilico il nome di Antonio Tajani.

MATTARELLA,BUON LAVORO A GOVERNO CON SPIRITO COLLABORAZIONE

(ANSA il 21 ottobre 2022) - "Rivolgo con lo stesso spirito di collaborazione il buon lavoro al nuovo governo che domani mattina con il giuramento inizierà a svolgere i suoi compiti". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Quirinale. 

MATTARELLA, GRAZIE ANCORA A DRAGHI

(ANSA il 21 ottobre 2022) - Mario Draghi "ha fatto fronte all'esigenza di guida de Paese, concludendo la sua attività col consiglio europeo, lo ringrazio ancora una volta". Lo ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

MATTARELLA, GOVERNO IN MENO DI 1 MESE, ESITO VOTO CHIARO

(ANSA il 21 ottobre 2022) - "Vi ringrazio per l'attenzione con cui avete seguito i lavori per la formazione del nuovo governo. Questa volta il tempo è stato breve, non è passato nemmeno un mese dalla data delle elezioni e questo è stato possibile per la chiarezza dell'esito elettorale". Lo ha detto il capo dello Stato Sergio Mattarella.

MATTARELLA, VELOCI PER CONDIZIONI INTERNE E INTERNAZIONALI

(ANSA il 21 ottobre 2022) - "E' stato necessario procedere velocemente anche in considerazione delle condizioni interne e internazionali che esigono un governo nella pienezza dei suoi compiti". Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Sorprese, esclusi e nomi sbagliati. Tajani e Salvini vicepremier. Scambiati i ministeri degli azzurri Pichetto e Zangrillo. Pasquale Napolitano il 22 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Sorrisi, lacrime (di gioia e rabbia) ed errori accompagnano la nascita del governo Meloni che questa mattina alle ore 10 presterà il solenne giuramento nelle mani del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Poco dopo le 18 di ieri la leader di Fdi esce dallo studio della Vetrata per leggere la lista dei ministri. Nella squadra di Meloni ci sono tante conferme. Soprattutto nelle caselle più importanti: Esteri, Interno, Giustizia. Ma anche tante sorprese ed esclusioni eccellenti.

E poi un incidente di percorso. Alla lettura dei nomi Meloni assegna il ministero per la Transizione ecologica al senatore di Fi Paolo Zangrillo. Spostando il deputato azzurro Gilberto Fratin Pichetto alla Pubblica amministrazione. Doppia sorpresa. La prima: l'ingresso di Zangrillo al governo. La seconda: il declassamento di Pichetto in un ministero senza portafoglio. In realtà si tratta di un errore di trascrizione: Pichetto resta al Mite. Zangrillo va alla Pubblica amministrazione. La sorpresa resta una.

La nascita di un governo rispetta spesso il vecchio copione del «chi entra papa esce cardinale». Uno scenario che una vecchia volpe della politica e dei Palazzi come Antonio Tajani (vicepremier insieme con Matteo Salvini) aveva già evocato quando il suo approdo alla Farnesina era in forse. Fa scuola il caso del magistrato Nicola Gratteri arrivato a Roma da Guardasigilli e rientrato in Calabria con la toga. Destino simile, ma meno crudele, è toccato ad Adolfo Urso, dato alla Difesa ma traslocato al Mise per Guido Crosetto.

Le sorprese dell'esecutivo Meloni sono almeno quattro: Zangrillo, Gennaro «Genny» Sangiuliano, Luca Ciriani, Francesco Lollobrigida. Quattro ministri piazzati nella squadra nell'ultima notte. Il classico blitz al fotofinish. Per la Cultura i due nomi caldi per tutta la lunga trattativa sono stati Giampaolo Rossi e Giordano Bruno Guerri. Poi dal cilindro Giorgia Meloni ha tirato fuori Sangiuliano, direttore del Tg2. Nome imprevisto, fuori dalle «rose» degli ultimi giorni, anche quello del manager Andrea Abodi (Sport).

Lollobrigida e Ciriani, sono altre due novità dell'ultim'ora. Entrambi sembravano fuori dalla partita, dopo la riconferma per acclamazione alla guida dei gruppi di Fdi di Camera e Senato. Lollobrigida sarà il ministro delle Politiche agricole: casella chiave e al centro di uno scontro con la Lega. Ciriani sarà il ministro per i Rapporti con il Parlamento, incarico di vitale importanza. Sorpresa, ma non tanto, è la nomina di Alfredo Mantovano, magistrato, in passato esponente di punta di Alleanza nazionale, che sarà sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una poltrona che tutti davano al fido Giovanbattista Fazzolari, che per ora non figura tra nella squadra di governo. Tra le esclusioni eccellenti anche quella della leghista Giulia Bongiorno, esclusa per far spazio a Giuseppe Valditara, che si accomoda al ministero dell'Istruzione. A sorpresa esce dall'esecutivo (dopo l'annuncio di Silvio Berlusconi all'assemblea con i parlamentari di Fi) Gloria Saccani data in pole per il ministero dell'Università.

Altri due big di Fratelli d'Italia sono fuori: Fabio Rampelli ed Edmondo Cirielli. Due fondatori del partito che sperano di essere ripescati con le poltrone di viceministri e sottosegretari. 

Governo, "errore nella lista dei ministri": mai accaduto prima. Libero Quotidiano il 21 ottobre 2022

"Incredibile, c'è un colpo di scena". Enrico Mentana interrompe il dibattito a Diario politico, la maratona-Consultazioni su La7, per annunciare un'ultim'ora francamente clamorosa: due ministeri sono stati scambiati per sbaglio. 

La regia di La7 inquadra l'inviata al Quirinale Alessandra Sardoni, che mostra a favor di telecamera il suo smartphone con in sovrimpressione la nota ufficiale dell'ufficio stampa del presidente Giorgia Meloni. Lo staff della premier ormai non più in pectore "precisa che, a causa di un errore di trascrizione nella stesura della lista dei ministri, sono stati erroneamente invertiti due nomi". Di seguito, sempre come si spiega in una nota, l'indicazione corretta: il senatore Gilberto Pichetto Fratin, di Forza Italia, non è il ministro della Pubblica amministrazione come annunciato dalla Meloni al Colle, subito dopo il lungo faccia a faccia con il presidente Sergio Mattarella, bensì il ministro dell'Ambiente e della sicurezza energetica. Viceversa, il deputato azzurro Paolo Zangrillo, fratello del medico Alberto, non sarà il ministro "delle bollette" ma quello della PA.  

Poco male, forse per Zangrillo cambierà poco, visto che come confessato dal fratello Alberto "non lo sapeva nemmeno lui che sarebbe diventato ministro". Festeggia anche Forza Italia Piemonte per i suoi due corregionali: "Dopo tanti anni finalmente un governo ha una degna rappresentanza della nostra regione sia in termini di quantità e qualità", si legge nella nota dei forzisti piemontesi. Anche loro però dovranno correggere l'attribuzione dei ministeri. "Esprimiamo la nostra più profonda soddisfazione per l'indicazione a ministri del prossimo Governo Meloni di Paolo Zangrillo e Gilberto Pichetto Fratin. Due piemontesi alla guida di due dicasteri strategici per il Paese rappresenta una giornata unica per la nostra regione, per la politica piemontese e per il nostro partito".

Governo Meloni, quanti ministri sono senatori. E da Mentana scoppia il caso. Il Tempo il 21 ottobre 2022

Sono 24 i ministri del nuovo governo di centrodestra annunciati dalla neo presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Di questi 6 sono donne: Maria Elvira Calderone al Lavoro e alle politiche sociali, Annamaria Bernini all'Università, Daniela Santanché al Turismo, Maria Elisabetta Alberti Casellati alle Riforme istituzionali, Alessandra Locatelli alle Disabilità ed Eugenia Maria Roccella alla Famiglia, natalità e pari opportunità. Ma quello che salta subito all'occhio è che molti sono anche senatori. A sollevare il caso in diretta è Enrico Mentana che col suo Speciale La7 Diario Mentana, commenta in diretta la formazione del nuovo esecutivo gudiato dalla leader di Fratelli d'Italia. L'inviata in Quirinale Alessandra Sardoni dopo l'annuncio dei nomi da parte di Meloni commenta: "A occhio, ma non li abbiamo ancora contati, sono molti i senatori nominati ministri". Quando la linea torna in studio Mentana domanda ai suoi ospiti, il direttore de La Verità Affari Franco Bechis e al vicedirettore di HuffPost e conduttore Francesco De Angelis cosa significhi questa scelta. "Il Senato è da sempre un terreno scivoloso" dice. "Non mi sembra in misura così clamorosa, poi saranno in missione e si abbassa il quorum" ribatte Bechis. "Potrebbe anche essere una dimostrazione i fiducia, significa che non hanno paura lì dove è successo che i numeri ballano" esclama il direttore.

Governo, "sono una enormità". Ministri, perché Meloni "rischia al Senato". Libero Quotidiano il 21 ottobre 2022

Giorgia Meloni è ufficialmente la prima presidente del Consiglio donna. La leader di Fratelli d’Italia ha accettato senza riserva l’incarico che le è stato conferito da Sergio Mattarella e ha presentato la lista dei ministri, che giureranno domani - sabato 22 ottobre - alle 10 nelle mani del presidente della Repubblica. Un governo-lampo, quello costruito dalla Meloni, che sa di dover correre per affrontare tutte le situazioni emergenziali che la attendono.

C’è però un dettaglio sulla squadra di governo che è stato messo in evidenza dagli analisti politici, a partire da Lorenzo Pregliasco: “I senatori al governo sono un’enormità, ben 9. Un rischio, visti i numeri della maggioranza al Senato. Peraltro mancano ancora viceministri e sottosegretari…”. I senatori ministri sono i seguenti: Urso, Zangrillo, Salvini, Bernini, Santanché, Ciriani, Calderoli, Musumeci e Casellati. La maggioranza di centrodestra è a quota 115 al Senato: potrebbe esserci il rischio di finire sotto durante le votazioni in Aula, se dovessero esserci defezioni per missioni all’estero o per impegni al ministero.

Un rischio che però non sembra preoccupare la Meloni, che anzi proprio nominando così tanti senatori ha dato l’ennesima prova di leadership: non teme di andare sotto, sicura com’è che la sua coalizione regga. Intanto Mattarella ha parlato dopo averle conferito l’incarico: “È stato necessario procedere velocemente anche in considerazione delle condizioni interne e internazionali che esigono un governo nella pienezza dei suoi compiti”.

Dal «Merito» alla «Natalità»: i ministeri che cambiano nome nel governo Meloni. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022 

L’aggiunta di Sovranità alimentare all’Agricoltura e di Sicurezza energetica all’Ambiente: la scelta di un lessico che usa le parole chiave della destra 

Nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenti alle cose, voleva Giustiniano e scriveva Dante. Tranne che in politica, dove di solito si pretende che siano le cose a venire di conseguenza ai nomi. Di qui la fregola di cambiarli. Dalla toponomastica cittadina, per la quale all’alternarsi delle amministrazioni comunali si accendono furiose guerre culturali, e una via Bettino Craxi o una piazza Italo Balbo sono chiamate a rispolverare identità ammuffite. Fino ai nomi dei partiti, continuamente mutati per alludere a cambiamenti solo mimati, con il Nord che entra ed esce dalla denominazione ufficiale della Lega, la sinistra che cade dal Partito democratico e il Popolo della libertà buttato in un cassonetto della storia come un abito sdrucito. Da un certo punto in poi perfino ai decreti legge hanno cominciato a dare un nome: Dignità, Sicurezza, Ristori.

Così tra le molte novità, alcune effettivamente storiche, del governo Meloni I, ecco un massiccio ricorso all’innovazione nei titoli dei ministeri: un modo a costo zero per parlare all’elettorato prima di fare (o di poter fare) ciò che gli è stato promesso. E anche di dimostrare che, nonostante la moderazione nei conti e in Europa che la realtà delle cose imporrà perfino a Giorgia Meloni, questo resta fieramente un governo «di destra», capace dunque di usare le parole chiave della destra.

I risultati sono però diseguali. Per la Famiglia, per esempio, l’aggiunta di quella parolina «Natalità» ha un potente significato valoriale, perché propone il tema del sostegno pubblico alle scelte procreative delle famiglie. Nonostante sia ormai una prassi in molti grandi Paesi europei, resta una questione scabrosa nel nostro, dove a sinistra spesso la si presenta come una riproposizione dell’antico motto sui «figli alla patria». Farà scalpore e solleverà strali, sopratutto da parte di chi finora ha preferito puntare sulle «Pari opportunità» (che però la prima donna presidente del Consiglio ha prudentemente lasciato nel titolo). È la scelta dunque più coraggiosa, sopratutto perché affidata a Eugenia Roccella, una che farà di tutto perché la Natalità non resti solo un nome.

Anche Sicurezza energetica ci sta bene, a fianco dell’Ambiente: ci stiamo accorgendo sulla nostra pelle che le guerre di questa epoca si combattono anche col gas e il petrolio, e una nazione (con la destra al governo ora si dice così, non più Paese) dipendente per l’approvvigionamento energetico è meno sicura e meno sovrana. Pleonastica invece pare l’aggiunta del Merito accanto all’Istruzione: dovrebbe già comprenderlo, perché è scritto nella Costituzione. E del resto la scuola risponde anche al Bisogno: deve certamente premiare i meritevoli, ma senza abbandonare chi non ha i mezzi per farcela.

Decisamente enfatico è invece l’effetto che fa il ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. Va bene che l’uomo è ciò che mangia, ma se c’è qualcosa che scavalca le frontiere nei mercati globalizzati quello è il cibo. A meno di non voler boicottare mango e papaya, effettivamente poco sovranisti, anzi pericolosamente multiculturali, o pretendere di esportare all’estero il nostro made in Italy mentre in patria mangiamo autarchicamente solo pasta e pomodoro, forse sarebbe stato meglio lasciare la sovranità per altri e più meritevoli obiettivi.

Un caso di comicità involontaria è invece il nome del ministero del Mare e del Sud, dove mancano solo il Sole, il Mandolino e il Putipù per completare un antico stereotipo sul Mezzogiorno d’Italia; che — come siamo certi il neo ministro Musumeci sa — comprende anche vaste e neglette aree interne e appenniniche, dove si lavora e si produce pure nei giorni uggiosi. 

"Sovranità" e "merito", nuova identità ai ministeri. Per un Presidente del Consiglio (non si farà mai chiamare "presidentessa"...) che preferisce parlare di "nazione" più che di "Paese" e che celebra l'Europa dei "patrioti", le parole hanno un fortissimo valore identitario. Luigi Mascheroni il 22 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Per un Presidente del Consiglio (non si farà mai chiamare «presidentessa»...) che preferisce parlare di «nazione» più che di «Paese» e che celebra l'Europa dei «patrioti», le parole hanno un fortissimo valore identitario. E tanto più lo hanno le denominazioni dei ministeri del nuovo Governo. Nomina sunt consequentia rerum significa essere convinti, e Giorgia Meloni lo è, che i nomi rivelino l'essenza delle cose. E lo ha spiegato molto bene agli italiani ieri sera quando ha letto la composizione della sua squadra. Lo Sviluppo economico diventa il ministero delle Imprese e del Made in Italy (con un certo orgoglio nazionale e un'attenzione alla tutela del «territorio»). Quello della Transizione ecologica - termine che Giorgia Meloni lascia volentieri alle sinistre di lotta e di greenpeace - si chiamerà Ambiente e sicurezza energetica. Le Politiche agricole, per la gioia di Matteo Salvini e non solo - cambiano in Agricoltura e sovranità alimentare (la parola «sovranità» non mancherà di infastidire più d'uno), e del resto già i cugini francesi hanno istituito un Ministère de l'Agriculture et de la Souveraineté alimentaire, anche se lì la contiguità sovranità-sovranismo è molto più debole che da noi. Ancora. Al ministero dell'Istruzione viene aggiunta - e non va sottovalutata - la dicitura «del merito»: l'ala conservatrice del Paese sarà più che contenta. Le politiche europee tornano a essere un ministero e includeranno anche la Coesione territoriale e il Pnrr; mentre il ministero del Sud sarà - attenzione - anche ministero del Mare (mare nostrum?). Ma, soprattutto, al ministero della Famiglia si aggiunge la natalità (e per terze, nella dicitura, le Pari opportunità).

Dietro il linguaggio, in particolare quello politico, non c'è mai nulla di casuale. E le denominazioni dei ministeri, un governo che sarà più che mai identitario, parlano - è il caso di dirlo -da sole. E infatti il segretario del Pd Enrico Letta ha subito twittato: «Dopo aver ascoltato lista, nomi e denominazioni del Governo Meloni dico ancora più convintamente opposizione, opposizione, opposizione».

Il confronto maggioranza-opposizione, che significa ancora una volta destra-sinistra, la quale è da anni che conduce una battaglia per imporre un linguaggio il più progressista e corretto possibile, parte da qui. Dalle parole. Dentro le quali si celano le cose.

Chi entra e chi esce. In squadra sei donne e cinque tecnici. Il caso dei nomi cambiati in corsa. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2022.

Il pollice all’insù di Giorgia Meloni, e il suo sorriso soddisfatto, magari non garantiscono la certezza che tutto sia filato senza scosse e secondo copione. Però, una cosa è certa: il governo è politico. I tecnici ci sono, sono cinque, ma sull’impianto generale è difficile avere dubbi. Matteo Piantedosi, Orazio Schillaci, Maria Elvira Calderone, Andrea Abodi e Gennaro Sangiuliano nascono nel mondo delle professioni, non c’è dubbio. Ma la loro vicinanza, a diverso titolo, al centrodestra sembra altrettanto confermata. Tecnico non è più, ma da poco, il neo Guardasigilli in pectore, il giurista Carlo Nordio: dopo una vita in procura, era candidato con FdI alle elezioni dello scorso 25 settembre. Mentre Sangiuliano, che pure è direttore del Tg2, del conservatorismo è considerato un ideologo.

Due delle sorprese più significative riguardano le esclusioni. , di Noi moderati, non sarà il ministro per i Rapporti con il Parlamento. Il risultato elettorale ha penalizzato i centristi e il loro leader, che probabilmente sarà vice ministro o sottosegretario. Allo stesso incarico andrà un uomo di grande fiducia di Giorgia Meloni (e apprezzato per il savoir-faire anche dalle opposizioni) come il friulano Luca Ciriani. Un nome che invece non è stato letto ieri dalla neo premier è quello di Gianbattista Fazzolari, che le previsioni indicavano stabilmente come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Al suo posto ci sarà il rispettatissimo Alfredo Mantovano, cattolico acceso e già viceministro dell’Interno nel governo Berlusconi quater. Altra assenza a sorpresa, quella dell’anatomopatologa Gloria Saccani Jotti, considerata vicina a Marta Fascina, la compagna di Silvio Berlusconi.

Tra gli ingressi, l’altra sorpresa è quella che riguarda , già commissario azzurro in Piemonte dove aveva sostituito nello stesso incarico Gilberto Pichetto Fratin. Dopo che la premier ha letto il suo nome come ministro all’Ambiente, lui ringrazia e si dice pubblicamente «onorato». Poi, la chiama affannato e le dice qualcosa come: «Non è il mio mestiere». Lei non ci pensa che pochi istanti: lo sostituisce con Pichetto Fratin e lo indirizza alla Pubblica amministrazione. Dopodiché, fa partire una nota in cui si legge che «a causa di un errore di trascrizione nella stesura della lista dei ministri, sono stati erroneamente invertiti due nomi». L’avvicendamento è compiuto. Anche se non si può escludere che dietro non ci sia il perdurante scontro tra le anime («governisti» e «ronzulliani») di Forza Italia. In ogni caso, se il cambio dei ministri in extremis conta su un ricco repertorio di leggende, quello post lettura dell’elenco dei ministri forse è inedito. 

Altra nuova entrata tutt’altro che scontata alla vigilia, quella del presidente dell’Istituto di credito sportivo Andrea Abodi. Il suo nome era anche circolato, ma nelle ultime ore sembrava eclissato. C’è anche chi è deluso dalla presenza di donne nel governo: sono sette, inclusa Meloni. Come nel governo Draghi, che però aveva meno ministri: la percentuale, dunque, scende. Il record resta quello del governo di Matteo Renzi, in cui le ministre erano quante i ministri.

E poi, c’è la questione, peraltro non ignorata, dei ministri-senatori: sono ben nove, infatti, gli uomini di governo che siedono anche a Palazzo Madama. Qui la maggioranza c’è — il centrodestra può contare su 115 senatori a fronte di una maggioranza di 101 — ma senza largheggiare, anche in considerazione del fatto che Berlusconi e Bossi non è detto che saranno sempre presenti. Il problema potrebbe arrivare a mettere in difficoltà il voto d’aula, ma la questione riguarda soprattutto le commissioni: assenze e missioni costringeranno i futuri presidenti a non distrarsi. Quella che non è una sorpresa è l’indicazione di Roberto Calderoli a ministro degli Affari regionali e delle Autonomie. Ma la coincidenza sì. Oggi giurerà a esattamente a cinque anni dai referendum di Veneto e Lombardia: «Una cosa che mi dà una carica ancora più grande».

La smorfia. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2022.

Quando davanti alle telecamere ha detto che sul suo nome c’era stata una «indicazione unanime» degli alleati, Berlusconi ha stretto ancora di più le labbra per essere sicuro che non gli uscisse una parolaccia in russo. Poi ha cercato gli occhi di Salvini e ha inarcato le sopracciglia in una smorfia che non diceva nulla ma che voleva dir tutto, alla quale l’altro maschio alfa coupé ha risposto accennando un sorrisetto d’intesa. Dietro quegli sguardi complici e in fondo increduli c’era un mondo, anzi la fine di un mondo. C’erano due maschi dominanti che per tutto un complesso di cose si ritrovavano sull’attenti come valletti, ad ascoltare il Capo che parlava in mezzo a loro, e quel Capo — roba da matti! — era una donna. E non una donna piovuta all’improvviso da chissà dove, ma proprio colei che per anni avevano trattato con sufficienza, come una ruota destra di scorta. La smorfia dei due maschi spodestati sembrava voler dire: per l’Italia la prima donna a Palazzo Chigi sarà pure un salto evolutivo paragonabile al passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano, ma doveva succedere proprio adesso, e proprio addosso a noi? Avranno bisogno di tempo per smaltire la stizza e la sorpresa, ma alla lunga potrebbero trarne giovamento, come esseri umani e persino come politici. Se invece tengono il punto e continuano a strabuzzare gli occhi, un altro Matteo disposto a sostituirli senza tante smorfie si trova sempre.

Berlusconi, l’insofferenza di fronte al nuovo governo Meloni: «Guardate voi, io poi arrivo». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022

Berlusconi ha assistito senza alcuna voglia al grande giorno di Meloni, davanti alla tv. Ma anche se, per la prima volta, il premier di centrodestra non è lui, del «picconatore» degli ultimi giorni non c’è traccia. Le rassicurazioni a Mattarella sulla politica estera 

«Presidente, dovremmo esserci, viene a vedere?».

«Guardate voi, intanto, io poi arrivo». 

Lo spettacolo d’arte varia, come lo avrebbe chiamato Paolo Conte, ha raggiunto un numero significativo di repliche. Per ora. E i numeri da trasformista navigato, disseminati in ogni dove per i lunghi decenni di una carriera da «numero uno», si sono visti anche adesso che nel campionato della politica quel gradino più alto del podio da secondo (dopo il sorpasso della Lega nel 2018) s’è fatto terzo (elezioni 2022). 

Ma nel giorno della vera «destituzione», quello in cui la prima figura del centrodestra italiano che non è lui riceve nientemeno che l’incarico di guidare il governo del Paese, ecco, del Silvio Berlusconi «picconatore» degli ultimi giorni non c’è traccia.

Niente «vaffa» come quello riferito in pubblico a Ignazio La Russa perché Giorgia Meloni intendesse, niente liti al chiuso delle stanze di Montecitorio, niente aggettivi messi in fila in un foglio in bella vista per i fotografi, niente fuori onda, audio più o meno rubati, niente «signora Meloni», nulla. 

Più semplicemente, ma anche sorprendentemente, quando alle 16.30 sono iniziate in tv le dirette dal Quirinale, nella lunghissima attesa che separava l’ingresso della leader di Fratelli d’Italia nella stanza del presidente della Repubblica dall’uscita della stessa con la lista dei ministri, il Cavaliere ha preferito non vedere. «Guardate voi, io poi arrivo». Al pari di Salvini, aveva provato a mettersi in contatto con Giorgia Meloni per scongiurare «qualche scherzo dell’ultimo secondo», poi rassegnandosi a un telefono muto. 

Qualche ora prima, attraversando i lunghi corridoi del Quirinale insieme alle delegazioni del centrodestra e alla designanda presidente del Consiglio, Berlusconi invece non era riuscito a frenare l’insopprimibile voglia di mostrarsi ancora una volta come il «primus» che relega gli altri al ruolo di «pares» (pari tra di loro, mica con lui), quello che le cose le conosce non per averle studiate ma per averle vissute, e prima e meglio e più volte degli altri. 

E quando, passando dalla Sala degli Arazzi di Lille, aveva iniziato a dire rivolto a Meloni «sai, la prima volta che sono passato di qua...» — con implicito richiamo alla primavera inoltrata del 1994, il suo primo governo — all’altra, che evidentemente temeva interventi scomposti nel colloquio con Mattarella, erano venuti i sudori freddi. 

Poi qualcosa è successo, di significativo: il silenzio durante la consultazione collettiva, qualche secondo di rassicurazioni sulla politica estera appartato col solo capo dello Stato e infine quel sopracciglio inarcato, con diabolico scambio di sguardi con Matteo Salvini, mentre Meloni parlava ai giornalisti della «indicazione unanime sul mio nome».

È possibile che neanche Berlusconi sappia quale, delle tante volte che la vita gli si è presentata davanti con la scritta «the end», sia stata più dolorosa delle altre. Se la bruciante caduta per mano di Bossi del primo governo del ’94, gli scandali del 2009, il «golpe» (copyright suo) del 2011 col passaggio della campanella a Mario Monti, la condanna definitiva del 2013, il sorpasso della Lega nel 2018 o adesso che una donna cresciuta nel centrodestra da lui fondato per la prima volta prende il suo posto a capotavola, relegandolo lontano dalla tv nel momento dell’annuncio finale. 

Nel corso degli anni la scena nella sua testa era un’altra: «Io presidente della Repubblica che do l’incarico al miglior presidente del Consiglio possibile, e cioè Gianni Letta». Ecco, da questo sogno è passato talmente tanto tempo che ora è ingiallito come una vecchia fotografia. A colori, adesso, c’è quella televisione che Berlusconi ha raggiunto in tempo per assistere senza alcuna voglia, e con apparente distrazione, al momento clou del grande giorno di Meloni. 

Per tornare a mettere in pratica lo stile delle «picconate» mutuato dal suo compianto amico Francesco Cossiga, stile che ha usato per apporre (insieme a Conte e Salvini) anche la sua firma sulla fine anticipata del governo di Mario Draghi, ci sarà spazio e tempo nei prossimi mesi. D’altronde, a quelli che lo guardano come se fosse al tappeto, ha ricominciato a raccontare la vecchia storiella sull’origine della sua fortuna, quando si sdraiava per terra su un terreno appena acquistato, per mostrare ai possibili acquirenti l’esatta metratura del soggiorno nella casa che gli avrebbe venduto. Fedele Confalonieri, accanto a lui, reggeva un metro.

Governo Meloni, ecco chi sono i 24 ministri. La Puglia sorride, in campo Fitto e Mantovano. E i nomi dei dicasteri rimarcano l’identità della destra. Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Ottobre 2022.

Ventiquattro ministeri, uno in più del governo Draghi. E un rimescolamento di alcune deleghe - scompare, ad esempio, il ministero dell’Innovazione e della Transizione digitale - oltre al cambio di alcuni nomi di dicasteri che marcano l’identità del nuovo esecutivo di centrodestra, dall’Istruzione a cui viene aggiunta la dicitura del «merito» alle politiche agricole, che diventeranno Agricoltura e sovranità alimentare.

Accettato senza riserva l’incarico, Giorgia Meloni presenta i ministri del suo governo. Al termine di un’ultima girandola di confronti con gli alleati, alcuni nomi sono cambiati rispetto ai vari totoministri, soprattutto per le caselle assegnate a Forza Italia. Sulle quali peraltro arriva a fine giornata una correzione rispetto alla lista letta al Quirinale: non sarà Paolo Zangrillo ma Gilberto Pichetto all’Ambiente e alla sicurezza energetica, mentre il fratello del medico personale di Silvio Berlusconi andrà alla Pubblica amministrazione

Entra in squadra, anche se aveva sempre detto di essere orientato a restare fuori, Guido Crosetto, mentre nell’elenco non compare uno dei fedelissimi, Giovanbattista Fazzolari, che aveva però espresso negli ultimi giorni l’intenzione di mantenersi in un ruolo più defilato, da dove continuare a essere però il braccio destro della leader.

Confermate le scelte per i ministeri su cui più alta era l’attenzione del Colle: superato l’incidente delle parole di Silvio Berlusconi su Putin e l’Ucraina, che avevano fatto traballare il suo nome, Antonio Tajani andrà quindi alla Farnesina e sarà anche vicepremier, come Matteo Salvini. All’Interno ci sarà il prefetto Matteo Piantedosi, che torna al Viminale dopo essere stato il capo di gabinetto del leader leghista nel governo gialloverde. Dopo il braccio di ferro con il Cavaliere, che ha insistito fino all’ultimo su Elisabetta Casellati, il nuovo ministro della Giustizia sarà l’ex magistrato Carlo Nordio, neoeletto nelle file di Fdi alla Camera. 

Alla Difesa arriverà invece Crosetto, nonostante il nome più quotato fosse stato per giorni l’ex presidente del Copasir Adolfo Urso, che andrà al Mise, ribattezzato delle Imprese e del Made in Italy, a sostituire Giancarlo Giorgetti, che a sua volta traslocherà all’Economia, dove inizialmente si era immaginato Fabio Panetta. Il bocconiano ha ricevuto anche l’endorsement del solitamente riservato ministro Daniele Franco, che ha detto di Giorgetti che «sarebbe adattissimo» a succedergli a via XX Settembre.

Al neo ministero dell’Agricoltura e della sovranità alimentare - ambito dalla Lega - approda uno dei suoi fedelissimi della premier incaricata, Francesco Lollobrigida, che lascerà il ruolo di capogruppo di Fdi alla Camera nel quale era appena stato riconfermato. Un altro dei più vicini alla leader, Raffaele Fitto, ricoprirà la casella delle Politiche Ue, che con il governo Meloni tornano ad essere un ministero ad hoc che sovrintenderà anche al Pnrr. E sempre a due fedelissimi andranno due ruoli cruciali, quello dei Rapporti con il Parlamento, destinato a Luca Ciriani (anche lui dovrà lasciare il ruolo di capogruppo al Senato), e quello di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, dove arriva Alfredo Mantovano.

Due dei ministeri chiave invece per la realizzazione del Pnrr andranno agli alleati. All’Ambiente ed energia c’è il colpo di scena dello switch tra Zangrillo e Pichetto, che dovrebbe comunque essere accompagnato nei primi mesi da Roberto Cingolani, che rimarrà come una sorta di advisor. Alle Infrastrutture ci sarà Salvini. A esponenti di via Bellerio andranno anche gli Affari Regionali e Autonomia, con Roberto Calderoli, l’Istruzione, dove arriva Giuseppe Valditara, la disabilità ad Alessandra Locatelli, già ministro per un brevissimo periodo nel governo Conte 1 dopo essere subentrata a Lorenzo Fontana. A Forza Italia oltre a Farnesina e Mite vanno invece l’Università, dove arriva Anna Maria Bernini anche se inizialmente era stata indicata Gloria Saccani Jotti, Gilberto Pichetto dato al Mite va invece alla Pubblica amministrazione, mentre al nuovo ministero delle Riforme approda la ex presidente del Senato Casellati.

Nelle file di Fdi vengono promossi ministri ancora Daniela Santanché, al Turismo, Nello Musumeci, al Sud che acquista anche la nuova delega al Mare e Eugenia Roccella che va alla Famiglia, mantenendo le pari opportunità cui si aggiunge la natalità. Quattro i dicasteri in cui approdano tecnici di area: al Lavoro c’è Marina Calderone, attuale presidente dei consulenti del Lavoro, la Cultura va al direttore del Tg2 Gennaro Sangiugliano, alla Salute va il rettore di Tor Vergata Orazio Schillaci mentre allo Sport (cui vengono unite le politiche giovanili) arriva Andrea Abodi, indicato in un primo momento come nuovo ad della Milano-Cortina. 

LA PUGLIA SORRIDE: NOMINATI FITTO E MANTOVANO, MALE LA BASILICATA

La Puglia sorride, la Basilicata piange. È questo, in sintesi, il bilancio «geografico» prodotto dall’illustrazione del nuovo governo Meloni. I conti sono presto fatti: il Tacco, che non vantava ministri nell’esecutivo Draghi, incassa una doppia nomina salentina. Quella dell’ex governatore Raffale Fitto agli Affari europei e Pnrr e quella di Alfredo Mantovano - cattolico, magistrato e da quattro anni consigliere della Corte di Cassazione - a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nel solco di una recente tradizione che, in quel ruolo, ha spesso premiato proprio i pugliesi.

Dall’altra parte, invece, l’amaro lucano della «quota zero». Dopo aver espresso due ministri di straordinaria rilevanza come Luciana Lamorgese agli Interni e Roberto Speranza alla Salute, la Basilicata non raccoglie infatti nulla dalle nuove indicazioni e spera nella complessa infornata dei sottosegretari da cui la Puglia pescherà quasi certamente altri assi.

Terminato, almeno parzialmente, il toto-nomi resta la sfida politica. Particolarmente delicata quella di Fitto - copresidente del gruppo europeo dei Conservatori e riformisti (Ecr) - che saluta la nomina con un tweet: «Dal giorno dopo le elezioni - scrive - eravamo consapevoli tutti, Giorgia Meloni in testa, che il momento è difficile e non bisognava perdere tempo. Da domani il Governo sarà già al lavoro! Ringrazio Giorgia per la fiducia, sono onorato ma anche consapevole della responsabilità». Uomo di collegamento tra Roma e Bruxelles, a Fitto spetterà il difficile compito di tenere una linea che si annuncia europeista sui grandi temi (a cominciare dal conflitto ucraino) ma critica nel merito di molte questioni, con aperture di credito a Ungheria e Polonia senza però compromettere gli equilibri nella stanza dei bottoni. Non meno complesso sarà poi completare l’altro capitolo, quel del Piano nazionale di ripresa e resilienza su cui. nei giorni scorsi. si è consumata l’unica polemica fra l’entrante (Meloni) e l’uscente (Draghi) con accuse di ritardi e secche smentite. All’appello mancano ora solo i sottosegretari. Poi, si apriranno davvero le danze.

Alessandro Sala per corriere.it il 22 ottobre 2022.

Il governo Meloni è il primo della storia repubblicana ad essere guidato da una donna e questa, a prescindere dai risultati che saprà ottenere, sarà la caratteristica che passerà agli annali. La proverbiale rottura del «soffitto di cristallo» è arrivata a 76 anni dalla nascita della Repubblica, un’attesa lunghissima pensando a quanto prima ci siano arrivate altre nazioni affini alla nostra. 

Nell’esecutivo, tuttavia, il numero di ministre si è leggermente ridotto, passando dalle 7 su 23 del governo Draghi (Gelmini, Carfagna, Dadone, Bonetti, Stefani, Lamorgese, Messa) alle attuali 6 su 24 (Calderone, Bernini, Santanché, Roccella, Casellati, Locatelli). Sono sempre tre quelle titolari di ministeri con portafoglio, anche se di peso specifico politico minore: oggi sono a guida femminile Lavoro, Università e Turismo; nel precedente esecutivo lo erano Interno, Giustizia e Università. 

PROVENIENZA GEOGRAFICA

La premier Meloni è notoriamente romana doc, cresciuta nel quartiere Garbatella. Il suo esecutivo è però sbilanciato verso il Nord: sono infatti 15 i ministri provenienti da regioni settentrionali (cinque lombardi, peraltro tutti leghisti: Salvini, Giorgetti, Locatelli, Calderoli, Valditara; quattro piemontesi: Crosetto, Santanché, Pichetto Fratin e Zangrillo, quest’ultimo rivendicato anche dalla Liguria per le sue origini genovesi; tre veneti: Nordio, Urso, Casellati; due emiliani: Bernini e Roccella; uno friulano, Ciriani).  

Dal Centro, e nello specifico solo dal Lazio oltre a Meloni, provengono Tajani, Lollobrigida, Abodi e Schillaci. Sei gli esponenti del governo provenienti dalle regioni meridionali: ovviamente il ministro per il Sud, Nello Musumeci, che è siciliano; i due campani Sangiuliano e Piantedosi; la sarda Calderone e il pugliese Fitto. Dal Salento arriva anche il sottosegretario a Palazzo Chigi, che di fatto ha il rango di un ministro, Alfredo Mantovano.

ETÀ ANAGRAFICA

Con i suoi 45 anni Giorgia Meloni è sul podio nella graduatoria dei presidenti del Consiglio più giovani. È al terzo posto, preceduta da Matteo Renzi, che lo diventò a 39 anni, e da Giovanni Goria, che salì a Palazzo Chigi a 44 anni. Aveva 45 anni anche Amintore Fanfani, quando divenne presidente del consiglio il 18 gennaio 1954, ma quel governo ebbe vita davvero breve perché in realtà non ottenne la fiducia in Parlamento e quindi decadde il 10 febbraio dopo soli 22 giorni. 

 L’età media dei ministri di Meloni è tuttavia tendenzialmente alta: ci sono 12 over 60, 10 over 50 e solo 3 quarantenni (oltre alla leader ci sono Matteo Salvini che ha 49 anni e Alessandra Locatelli che ne ha 46).

TITOLI DI STUDIO

Quanto al titolo di studio, il governo conta una elevata percentuale di laureati. Solo la premier Meloni, il suo vice Matteo Salvini e Guido Crosetto non lo sono. Salvini e Crosetto avevano iniziato a frequentare l’università (Scienze Politiche il primo, Economia il secondo), ma non erano arrivati alla laurea. Tra le facoltà prevale su tutte Giurisprudenza (10), seguita da Economia e commercio (4), Medicina (2), Sociologia (2), Scienze Politiche (1), Lettere(2), Comunicazione (1).

PARLAMENTARI E TECNICI

Un tema emerso durante la concitata fase di formazione del governo riguarda la tenuta della maggioranza nei lavori parlamentari. Giorgia Meloni ha infatti scelto 9 ministri tra i neo-eletti senatori (Ciriani, Pichetto Fratin, Calderoli, Musumeci, Casellati, Urso, Salvini, Bernini e Santanché) e 7 tra i deputati (Tajani, Nordio, Crosetto, Urso, Lollobrigida, Musumeci, Fitto». 

Eventuali problemi potrebbero manifestarsi a Palazzo Madama, dove la maggioranza conta su 115 senatori su 200 — e maggioranza a 104 contando anche i senatori a vita —, per cui le assenze dovute a impegni istituzionali potrebbero farsi sentire, soprattutto in caso di fibrillazioni interne alla coalizione. I ministri non parlamentari sono 8: Abodi, Locatelli, Piantedosi, Crosetto, Calderone, Sangiuliano, Schillaci e Valditara.  

Praticamente tutti tecnici tranne Valditara che in passato ha ricoperto diversi incarichi elettivi con An, Pdl e Futuro e Libertà, mentre ora è in quota Lega. Il peso dei ministri politici rispetta il risultato delle elezioni: 9 di Fratelli d’Italia, 5 della Lega e 5 di Forza Italia. Nessun centrista nella prima linea.

I «REDUCI» DI BERLUSCONI

Quello varato oggi è il primo governo politico di centrodestra che entra in carica 11 anni dopo l’ultimo presieduto da Silvio Berlusconi, il quarto guidato dal fondatore di Forza Italia, che giurò l’8 maggio 2011. Sono quattro gli esponenti dell’attuale esecutivo che erano già ministri allora: Raffaele Fitto (Regioni), Roberto Calderoli (Semplificazione amministrativa), Anna Maria Bernini (Politiche Ue, ma subentrò in un secondo tempo a Andrea Ronchi) e la stessa Giorgia Meloni (Politiche giovanili). 

Ma di quell’esecutivo facevano parte anche Urso, come viceministro dello Sviluppo economico, e diversi sottosegretari: Santanché, Mantovano, Crosetto, Casellati, Musumeci, Roccella. Insomma, 11 degli attuali ministri sono degli ex di quel governo. Di cui era ministro anche Ignazio La Russa, alla Difesa, diventato nei giorni scorsi presidente del Senato. E ne facevano parte Renato Brunetta, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, che fino a poche ore fa erano ministri di Mario Draghi.

Un governo del nord e a maggioranza maschile: i numeri della squadra di Giorgia Meloni. Il Domani il 21 ottobre 2022

Il governo di Giorgia Meloni sarà composto di 26 membri, ovvero la stessa presidente del Consiglio, il sottosegretario della presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e 24 ministri, di cui due con anche il ruolo di vicepresidente del Consiglio

Il governo di Giorgia Meloni sarà composto di 26 membri, ovvero la stessa presidente del Consiglio, il sottosegretario della presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e 24 ministri, di cui due con anche il ruolo di vicepresidente del Consiglio.

Secondo i dati elaborati da YouTrend, l’età media dei membri del governo è di 60 anni, con la stessa Giorgia Meloni che sarà la più giovane (45 anni) e Maria Elisabetta Alberti Casellati che sarà la più anziana (76 anni). Il Consiglio dei ministri sarà composto da 19 uomini e 7 donne (che sono dunque il 27 per cento).

Saranno quindi:

10 membri di Fratelli d’Italia,

5 per Lega e Forza Italia e

6 indipendenti,

mentre resta senza rappresentanti Noi Moderati.

In 7 hanno già fatto parte di un governo, mentre per 19 (il 73 per cento del totale) sarà la prima volta. L’anzianità media in anni trascorsi nel parlamento italiano è di 9 anni.

Sarà un governo a trazione settentrionale, con 5 membri provenienti dalla Lombardia (regione più rappresentata insieme al Lazio), 3 dal Veneto e dal Piemonte, 2 da Emilia-Romagna, Campania e Puglia, uno da Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna. Il 35 per cento viene dunque dal nord ovest, il 23 per cento dal nord est, il 19 per cento dal centro, il 15 per cento del sud e l’8 per cento dalle Isole.

Il nuovo governo. Governo Meloni, chi vince e chi perde. Il nuovo esecutivo è conservatore e senza compromessi. Meloni abbatte l’egemonia culturale di sinistra. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 22 Ottobre 2022

È come se all’improvviso si fosse rotto un incantesimo. Sapevamo che il sentimento comune degli italiani batteva in maggioranza a destra, ma è come se, almeno da dieci anni a questa parte, tutto cospirasse a che la destra politica non assumesse mai il pieno potere. E quando, dopo il 25 settembre, finalmente tutte le porte sembravano spianate, divisioni e lotte interne ai vincitori, sapientemente montate o cavalcate dalla sinistra dei giornali e del deep state, ci avevano per un momento fatto temere il peggio.

Se se ne è usciti e ci si è fatti trovare prontissimi alle consultazioni e alla successiva nomina del Capo dello Stato, lo si deve  in primo luogo alla capacità di leadership dimostrata sul campo da Giorgia Meloni. Gliene va dato atto! La quale ha saputo fare di necessità virtù, convertendo l’improvvida uscita del Cavaliere sulla guerra di Ucraina nell’opportunità di decidere in perfetta autonomia i nomi dei componenti del suo governo. E facendolo, fra l’altro, con giustizia e misura anche nei confronti degli alleati.

In particolare, alla Lega di Matteo Salvini sono stati assegnati ministeri non solo di peso, ma anche tali da esaltarne quella vocazione alla fattività e alla concretezza che è nel suo dna. Inutile dire che chi ne esce sconfitta è la sinistra, la quale è essa sì divisa e letteralmente allo sbando. Una sconfitta che è politica e culturale insieme, ma di cui sarà bene però non fidarsi troppo: sia perché i tentacoli della piovra sinistra nel deep state e nella comunicazione sono notevoli, sia perché alla destra non sarà perdonato il minimo errore. La sconfitta della sinistra è ancora più cocente perché questo non ha l’intenzione di essere minimamente un governo che abbia timore reverenziale o paura di apparire per quello che è, cioè con la propria identità. Un governo che non rinuncia per accreditarsi alla sua natura di destra e non vuole piacere per forza ai suoi avversari (vedi anche i nomi nuovi e identitari dati a molti ministeri).

Anche se il primo problema da affrontare sarà ora quello dell’incipiente crisi economica, il successo di Meloni e alleati si vedrà già dai primi passi. Anche se poi il vero obiettivo è collocato sulla lunga distanza. E starà nella capacità di scalfire una egemonia pluridecennale della sinistra che è culturale prima ancora che politica, di rifondare su basi più solide e meno improvvisate una destra che deve essere liberale e conservatrice insieme, di ridisegnare con ciò stesso un sistema politico che è stato fino ad oggi contrassegnato dalla delegittimazione morale dell’avversario e da un “fascismo” strisciante che si è dato il nome di antifascismo.

Gli italiani hanno dimostrato che la retorica dei diritti ha le armi spuntate, soprattutto se essa serve per zittire le opinioni divergenti e favorire gli interessi di pochi. Che a fronte di tanto parlare di femminismo e genere, la prima donna presidente del consiglio in Italia sia di destra, non sia stata cooptata da nessuno e non sia il risultato di nessuna quota, deve ferire non poco la supponenza e l’arroganza della sinistra. La quale sarebbe opportuno che ora lasciassimo ai suoi destini, a rosicare e a riflettere (ammesso e non concesso che ne sia capace). Da domani dobbiamo concentrarci su noi stessi: dobbiamo dimostrare di essere all’altezza di quel che abbiamo voluto essere e ora siamo. Senza distrarci. Corrado Ocone, 22 ottobre 2022

La parità di genere nella scelta dei ministeri. FILIPPO TEOLDI su Il Domani il 21 ottobre 2022

In attesa del voto di fiducia al governo è giusto ricordare come è variata la quota di ministre donne negli ultimi anni. Con il governo Meloni, la percentuale di ministre sarà meno del 25 per cento. Solo nel governo Renzi il numero di ministre era uguale a quello di ministri.

Bisogna torna indietro di 9 esecutivi (Prodi II – dal 2006 al 2008) per avere la stessa percentuale di donne ministre. 

Meloni al Quirinale ha accettato l’incarico di premier. Ecco la lista dei ministri del suo governo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Ottobre 2022

Dopo un'ora e mezzo di colloquio con il Presidente Mattarella, Giorgia Meloni ha ricevuto l'incarico ha accettato e presentato la lista dei ministri, ed uscendo dinnanzi ai giornalisti ha annunciato la formazione del suo governo, diventando la prima donna a diventare premier nella storia della Repubblica Italiana.

La leader di Fdi, Giorgia Meloni, è arrivata puntuale al Quirinale per essere ricevuta dal capo dello Stato. La Meloni potrebbe avere con se la lista dei ministri se da sottoporre al Capo dello Stato, quindi accetterebbe l’incarico senza riserva, e si trova ora a colloquio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 

Dopo un’ora e mezzo di colloquio con il Presidente Mattarella, Giorgia Meloni ha ricevuto l’incarico ha accettato e presentato la lista dei ministri, ed uscendo dinnanzi ai giornalisti ha annunciato la formazione del suo governo, diventando la prima donna a diventare premier nella storia della Repubblica Italiana. 

“Siamo pronti, vogliamo procedere nel minor tempo possibile“, aveva detto Giorgia Meloni chiudendo stamane il suo breve intervento al Quirinale al termine dell’incontro tra la delegazione di centrodestra e il presidente. “La delegazione del centrodestra che ha incontrato il presidente Mattarella ha convenuto sulla necessità di dare un governo nel minore tempo possibile perché le urgenze che abbiamo di fronte sono moltissime a livello nazionale e internazionale”, ha quindi sottolineato la leader di Fratelli d’Italia. “La coalizione si è presentata, non a caso, unita la Colle – ha aggiunto – proponendo al presidente della Repubblica l’indicazione del mio nome per formare il nuovo governo“.

Presidente del Consiglio on. Giorgia Meloni (Fratelli d’ Italia)

Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri on. Antonio Tajani (Forza Italia)

Vice Presidente del Consiglio e Ministro delIe Infrastrutture Matteo Salvini (Lega)

Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dr. Alfredo Mantovano (Fratelli d’ Italia) 

I ministri con portafoglio:

Ministro dell‘ Interno prefetto Matteo Piantedosi (tecnico – Lega)

Ministro della Giustizia On. Carlo Nordio (Fratelli d’ Italia)

Ministro della Difesa Guido Crosetto (Fratelli d’ Italia)

Ministro Economia e Finanze On. Giancarlo Giorgetti (Lega)

Ministero Imprese e Made in Italy On. Adolfo Urso (Fratelli d’ Italia)

Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara (Forza Italia)

Ministro Agricoltura e della Sovranità alimentare On. Francesco Lollobrigida (Fratelli d’ Italia)

Ministro dell‘ Ambiente e della Sicurezza energetica, Paolo Zangrillo (tecnico – Forza Italia)

Ministro del Lavoro Marina Calderone (tecnico – Fratelli d’ Italia)

Ministro della Università e della Ricerca,Annamaria Bernini (Forza Italia)

Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano (tecnico – Fratelli d’ Italia)

Ministro del Turismo Sen. Daniela Garnero Santanchè (Fratelli d’ Italia)

I ministri senza portafoglio:

Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, Eugenia Maria Roccella (Fratelli d’ Italia)

Ministro della Disabilità Alessandra Locatelli (Lega)

Ministro delle Riforme Istituzionali Sen. Elisabetta Casellati (Forza Italia)

Ministro della Università Sen. Annamaria Bernini (Forza Italia)

Ministro della Salute prof. Orazio Schillaci (tecnico – Fratelli d’ Italia)

Ministro Rapporti con il Parlamento Sen. Luca Ciriani (Fratelli d’ Italia)

Ministro Pubblica Amministrazione Gilberto Pichetto Fratin (Forza Italia)

Ministro Affari regionali Roberto Calderoli (Lega)

Ministro Affari europei e Pnnr On. Raffaele Fitto (Fratelli d’ Italia)

Ministro Sport e Giovani Andrea Abodi, (tecnico – Fratelli d’ Italia)

Ministro delle Politiche del mare e sud Sen. Nello Musumeci (Fratelli d’ Italia)

Mattarella: “Governo in tempi brevi. Auguri al nuovo esecutivo”

“Questa volta il tempo è stato breve è passato meno di un mese dalla data delle elezioni: è stato possibile per la chiarezza dell’esito elettorale ed è stato necessario procedere velocemente anche in considerazione delle condizioni interne e internazionale che esigono un governo nella pienezza dei suoi compiti”. ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dopo aver conferito l’incarico alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. “Il governo uscente, nei tre mesi esatti dalla data di scioglimento delle Camere, ha fatto fronte alle esigenze di guida del Paese concludendo la sua attività con il Consiglio europeo – ha aggiunto Mattarella – lo ringrazio ancora una volta“. “Rivolgo con lo stesso spirito di collaborazione gli auguri di buon lavoro al nuovo governo che da domani mattina dopo il giuramento inizierà a svolgere il suo lavoro”, ha concluso il capo dello Stato. 

Il giuramento del Governo al Quirinale è previsto domani alle 10, come ha annunciato il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica Ugo Zampetti. Si svolgerà domenica 23 ottobre, alle ore 10.30 a Palazzo Chigi, la tradizionale cerimonia del passaggio di consegne tra il presidente uscente, Mario Draghi, e il presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni. Al termine della cerimonia, alle ore 12.00, si terrà la prima riunione del Consiglio dei Ministri.

Governo: 9 ministri a FdI, 5 a Lega e Forza Italia e 5 tecnici

Luca Ciriani, Adolfo Urso, Guido Crosetto, Raffaele Fitto, Daniela Santanchè, Eugenia Maria Roccella, Carlo Nordio, Francesco Lollobrigida, Nello Musumeci. Sono i 9 ministri di Fratelli d’Italia del governo guidato da Giorgia Meloni. È il ‘drappello’ più nutrito.

Sono cinque i ministri di Forza Italia e della Lega, nessuno per Noi moderati. Per gli azzurri entrano in squadra Antonio Tajani, Gilberto Pichetto Fratin, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Paolo Zangrillo e Anna Maria Bernini.

I ministri della Lega sono Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, Roberto Calderoli, Alessandra Locatelli, Giuseppe Valditara. I tecnici ministri sono Andrea Abodi, Matteo Piantedosi, Gennaro Sangiuliano, Orazio Schillaci e Marina Elvira Calderone.

Le prime dichiarazioni della Meloni presidente del Consiglio lasciando la Camera dopo aver incontrato il presidente della Camera Lorenzo Fontana che le ha regalato un mazzo di fiori bianchi.  “Ho iniziato a fare politica il giorno dopo la strage di via D’Amelio, oggi scendo le scale e vedo l’immagine di Paolo Borsellino. Curioso…è un cerchio che si chiude“. Nei corridoi di Montecitorio in queste settimane è allestita la mostra fotografica A testa alta, con immagini dello stesso Borsellino, di Giovanni Falcone, Pio la Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa.

La presidente Meloni dopo aver lasciato Montecitorio, si è recata al Senato per un colloquio con il presidente Ignazio La Russa. Al suo arrivo diverse persone da dietro le transenne hanno applaudito e gridato: «Daje Giorgia!». Lei ha risposto salutando e facendo il gesto di mandare un bacio.

Le reazioni dei neo-ministri

Tajani (Esteri vicepremier): “Pronto a servire l’Italia con lealtà e fedeltà“

“Con grande emozione ricevo dal presidente Mattarella, su indicazione del presidente del Consiglio incaricato Giorgia Meloni, la nomina a ministro degli Esteri. Sono pronto a servire l’italia con lealtà e fedeltà. Grazie al presidente Berlusconi per la fiducia nei miei confronti“. Lo scrive Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia e vicepresidente del Partito popolare europeo. su Twitter

Crosetto (Difesa): “Liquiderò tutte le mie società”

“Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo: mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia societa (tutte legittime). Rinuncio al 90% del mio attuale reddito”. Lo scrive in un post il neo ministro della Difesa, Guido Crosetto.

Salvini (Infrastruttere e vicepremier): “Di ottimo livello. Nato per durare 5 anni”

“È un governo di ottimo livello, nato per durare 5 anni, al di là di quello che dicono le opposizioni“. Lo ha detto il neo ministro alle Infrastrutture e vice premier, Matteo Salvini, a Rtl. “Siamo qua a lavorare per 5 anni. Già stare per l’intera legislatura sarà un passo in avanti rispetto al passato“, ha affermato. E sul suo ruolo: “Mi piacciono le sfide, ma non prometto miracoli in 15 giorni”.

Zangrillo (ministro all’Ambiente): “Energia è priorità,c e la metterò tutta”

 “Una nomina inaspettata che mi riempie di orgoglio e soprattutto di senso di responsabilità”. Così all’Adnkronos il neo ministro all’Ambiente e sicurezza energetica, Paolo Zangrillo che sottolinea: “Si tratta di una delega importante, su un tema, la transizione e sicurezza energetica, che oggi penso sia la priorità numero uno non solo per l’Italia ma per l’Europa“. “Ce la metterò tutta come ho sempre fatto” aggiunge osservando che “in questo momento prevale più il senso di responsabilità che mi pervade che la voglia di festeggiare“. Redazione CdG 1947

(ANSA il 21 ottobre 2022) - "Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito l'incarico a formare il governo a Giorgia Meloni che ha accettato l'incarico e ha presentato l'elenco dei ministri". Lo ha detto il segretario Generale del Quirinale, Ugo Zampetti. 

Giuramento governo Meloni domani alle 10

I MINISTRI 

SENZA PORTAFOGLIO

Ciriani – Rapporti con il Parlamento

Pichetto – Pubblica amministrazione

Calderoli – Affari regionali/Autonomie

Musumeci – Politiche del mare e Sud

Fitto – Affari europei, Coesione e Pnrr

Abodi – Sport e giovani

Roccella – Famiglia e natalità

Locatelli – Disabilità

Casellati – Riforme 

CON PORTAFOGLIO

Tajani – Esteri, vicepremier

Piantedosi – Interno

Nordio – Giustizia

Crosetto – Difesa

Giorgetti – Economia

Urso - Sviluppo (Imprese e made in italy)

MELONI BERLUSCONI SALVINI AL QUIRINALE

Lollobrigida - Agricoltura e sovranità alimentare

Zangrillo - Transizione ecologica

Salvini – Infrastrutture, vicepremier

Calderone – Politiche sociali

Valditara - Istruzione e del merito

Bernini – Università e ricerca

Sangiuliano – Cultura

Schillaci – Salute

Santanché – Turismo 

Sottosegretario alla presidenza: Alfredo Mantovano

Giorgia, prima donna premier, è già nella storia. E se farà bene sarà leggenda. Daniela Missaglia su Panorama il 22 Ottobre 2022

Accettando l’incarico dalle mani del Presidente della Repubblica, l’Italia ha finalmente un Premier donna: Giorgia Meloni. Il primo della sua storia. Un Premier, una Premier, maschile, neutro, femminile, fate un po’ come volete. Non ci incistiamo sul lessico di ‘boldriniana’ memoria: andiamo alla sostanza. La sostanza dice che il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana, dopo 74 dalla Costituente, è una donna, giovane ma fortissima.

Giorgia Meloni è la riprova che l’Italia è finalmente matura e ha abbattuto tutte quelle barriere culturali che ci hanno legato ad un atavico maschilismo patriarcale in cui appartenere all’altra ‘metà del cielo’ significava obbligatoriamente rinunciare a coltivare i sogni più grandi. Giorgia Meloni è anche la dimostrazione che le avversità della vita temprano. In pochi erano al corrente della sua triste e incredibile vicenda familiare fino a che, un’altra donna, la giornalista e volto televisivo Rula Jebreal, ha odiosamente evocato, in un tweet, la storia di suo padre, arrestato in Spagna per traffici illeciti. Curioso che proprio colei che, da palestinese ed esponente di sinistra, si è battuta quotidianamente contro la discriminazione, abbia ceduto alla tentazione di cadere in una così meschina sortita che riassume l’essenza stessa del razzismo più becero, attribuendo una sorta di impronta generazionale all’On Meloni. Come se le colpe dei padri ricadessero geneticamente sui figli. Voglio sperare che Rula Jebreal non sapesse che Giorgia Meloni fu abbandonata dal padre quando aveva solo un anno e che lo vide, per l’ultima volta, nel 1988, in un giardino pubblico romano, nemmeno riconoscendolo. Un uomo che si è limitato a fornire il seme per generare Giorgia Meloni e la sorella e poi se n’è fuggito, lasciando nel cuore delle figlie un vuoto doloroso che, come ha chiarito la madre della nostra Premier, “a Giorgia è costato solo lacrime”. Rula Jebreal non si è nemmeno scusata ma ha rilanciato denunziando un clima di misoginia, islamofobia e razzismo, come un bambino che prima brucia casa e poi censura la reprimenda dei genitori. Lasciamo stare e torniamo al dolore di Giorgia Meloni, strumentalmente solleticato solo per denigrarla.

Quelle lacrime hanno irrorato le radici di una guerriera che, cresciuta nel quartiere ‘rosso’ della Garbatella, si è saputa distinguere, lottare per i propri obiettivi senza avere santi in paradiso o conoscenze altolocate, scalando uno a uno i gradini che l’hanno issata sullo scranno più alto del Parlamento italiano. Qualcuno ha scritto che le donne hanno un solo difetto: dimenticano sempre quanto valgono. Credo che Giorgia Meloni non l’abbia mai dimenticato e abbia usato, con pazienza e umiltà, la caparbietà che la grande maggioranza degli elettori italiani hanno riconosciuto tributandole il loro voto. Ci sono voluti anni, certo, ma come ebbe a dire il primo sindaco donna di Ottawa, in Canada, qualsiasi cosa facciano le donne devono farla due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà. L’Inghilterra ha esultato per la prima donna Premier dopo l’indimenticabile Margareth Tatcher, Liz Truss, ma è durata meno di un gatto in tangenziale; la Germania non ha più nemmeno nel mirino un’erede della Merkel e gli Stati Uniti d’America ancora devono eleggere un Presidente donna. Auguri quindi a Giorgia Meloni, pur con tutte le riserve politiche che ognuno di noi ha il diritto di serbare nella logica di un Paese libero e democratico. Auguri all’Italia in questo momento difficile in una congiuntura internazionale connotata da guerre e crisi energetiche.

Se Giorgia vincerà la sfida, ciò che è già storia potrebbe addirittura diventare leggenda.

Giorgia Meloni, parla Silvano Moffa: vi svelo gli esordi della premier. Pietro De Leo su Il Tempo il 22 ottobre 2022.

«Eravamo alla vigilia del 2000». Racconta nella letizia dei ricordi Silvano Moffa. Nome storico della destra, tra i protagonisti della fase di An di cui fu parlamentare e soprattutto uomo che espugnò la Provincia di Roma, quando ancora era un ente a elezione diretta. In quell'occasione, con la sua presidenza della Giunta, in consiglio provinciale entrò Giorgia Meloni.

Facciamo un po' di amarcord, onorevole Moffa?

«13 dicembre 1998. La destra vince a Palazzo Valentini e c'era una giovanissima consigliera, la più giovane di tutti Giorgia Meloni. Peraltro, a quei tempi sperimentammo la formula delle primarie, quindi anche lei conquistò la sua candidatura vincendole».

Cosa ricorda della Giorgia Meloni «esordiente»?

«Profonda attitudine allo studio, all'approfondimento. Era costantemente presente sia in aula che in commissione, ed era molto concentrata su tutto ciò che riguardava le politiche giovanili. Non trascurava, poi, la militanza autentica, tra il suo quartiere e la storica sezione di Colle Oppio. Insomma, una ragazza che dimostrava grande dedizione e abnegazione, e un profondo senso di responsabilità. Poi allora le Province avevano ben altro peso rispetto a quello attuale».

Ha qualche aneddoto in particolare?

«Poteva capitare che in consiglio provinciale trattassimo anche di qualche specifico tema internazionale, che magari avesse a una particolare rilevanza culturale o sul piano dei diritti. Allora ci occupammo del popolo dello Sahrawi e dei contrasti con il Marocco. A Giorgia Meloni affidai la guida di una delegazione che si recò su quella terra. E quando tornò lavorammo a una conferenza, che poi effettivamente si tenne, per far incontrare i rappresentanti delle due parti. Era davvero una cosa inedita per una giovane della sua età».

Ora, alla guida del governo per la leader Fdi si apre un momento non facile. C'è un contesto socio economico molto complicato, e la coalizione non sempre va d'amore e d'accordo. Cosa prevede?

«Conosco il suo essere animata da una profonda sensibilità sociale, e l'attenzione verso i più deboli. Quanto agli alleati, è molto maturata. Sa quello che vuole ed è molto determinata, ma nel contempo ha anche una profonda perspicacia politica e sa trovare i P.D.L. punti di equilibrio»

L'ex capogruppo al Senato di Fratelli d'Italia. Chi è Luca Ciriani, il ministro per i Rapporti con il Parlamento del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

È un big di Fratelli d’Italia Luca Ciriani, il ministro per i Rapporti con il Parlamento del governo guidato da Giorgia Meloni. La Presidente del Consiglio ha accettato senza riserva l’incarico dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È stato capogruppo Fdi al Senato della Repubblica nella scorsa legislatura, noto secondo i cronisti politici per le sue qualità di mediatore.

È nato a Pordenone il 26 gennaio del 1967, ha cominciato da militante e dirigente giovanile del Movimento Sociale Italiano (Msi). Quindi il passaggio ad Alleanza Nazionale. Nel 1995 è stato eletto consigliere comunale di An a Fiume Veneto, tre anni dopo è diventato consigliere regionale.

Ciriani è stato assessore allo sport nella giunta regionale friulana guidata da Roberto Antonione. È stato capogruppo in Regione di An, per poi confluire nel Popolo della Libertà. Nel 2008 ha aderito infatti al Pdl ed è entrato a far parte come vicepresidente e assessore alla Protezione civile della giunta regionale di Renzo Tondo. Rieletto nel 2013, nel 2015 è passato a Fdi. Nel 2018 è stato eletto nel collegio di Udine.

Del 2018 l’elezione al Senato e quindi l’assunzione del ruolo di capogruppo, facendo inoltre parte prima della commissione Difesa e poi Giustizia. Ciriani è stato anche membro della commissione straordinaria per il contrasto all’intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio, oltre che della commissione Antimafia. Solo tre giorni fa era stato confermato per acclamazione presidente dei senatori Fdi, che ora dovranno eleggere un’altra guida. Il fratello Alessandro Ciriani, indipendente di destra, è l’attuale sindaco di Pordenone.

Il fedelissimo di Silvio Berlusconi. Chi è Gilberto Pichetto Fratin, il nuovo ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Era già trapelato da indiscrezioni e retroscena dall’incontro in via della Scrofa tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni il suo nome: Gilberto Pichetto Fratin è il nuovo ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica. Sarà il fedelissimo dell’ex Presidente del Consiglio e leader di Forza Italia a sostituire il ministro Roberto Cingolani. Il nome suo nome era già trapelato per il ministero dello Sviluppo Economico e per quello della Transizione Ecologica.

Pichetto Fratin è nato a Veglio, in provincia di Biella, ha 68 anni e ha cominciato con la politica a livello locale. Laureato in Economia e Commercio, era entrato nel consiglio regionale del Piemonte prima di essere eletto assessore e vicesindaco di Biella. Ha aderito a Forza Italia nel 1995 nel Consiglio Regionale del Piemonte. Due anni più tardi ha ottenuto l’assessorato a Industria, Artigianato e Commercio.

Pichetto Fratin è entrato in Parlamento tra i 147 parlamentari eletti dal Popolo della Libertà alle elezioni politiche del 2008. Al Senato. Per incompatibilità si è dimesso dalle cariche regionali e nel 2010 è tornato alla giunta come assessore al Bilancio. È stato dal 2013 vicepresidente del Piemonte, dal 2014 coordinatore regionale del partito. Proprio quello stesso anno sembrava fatta per la sua candidatura per il centrodestra a correre alle regionali in Piemonte ma Fratelli d’Italia, che voleva le primarie, scelse la corsa in solitaria con Guido Crosetto – quelle elezioni vennero vinte dal candidato di centrosinistra Sergio Chiamparino.

Alle elezioni del 2018 è stato rieletto a Palazzo Madama. Pichetto Fratin è stato nel 2019 tra i primi firmatari per il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. Dal febbraio 2021 è sottosegretario, con titolo di “viceministro”, del ministero dello Sviluppo Economico guidato dal ministro della Lega Giancarlo Giorgetti. Con delega alle politiche industriali e alle piccole e medie imprese. Alle elezioni dello scorso 25 settembre è stato eletto alla Camera dei deputati come capolista nel collegio plurinominale di Chieri-Moncalieri.

Quando il suo nome era trapelato per il ministero della Transizione Ecologica i due portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli ed Eleonora Evi hanno accusato in una nota congiunta il deputato di sostenere “posizioni negazioniste, contro l’auto elettrica e contro i piani verdi UE Fit for 55, insomma un segnale chiaro di quello che la Meloni vuole per le politiche sul clima. Esattamente l’opposto del necessario per fronteggiare la crisi climatica”.

Per un errore, corretto dalla Presidenza del Consiglio, Meloni aveva dato al momento della comunicazione della squadra di governo il nome di Fratin alla Pubblica amministrazione, dove è invece stato nominato Paolo Zangrillo.

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 12 dicembre 2022.

In ogni governo di questo Paese, fatalmente, dopo qualche mese, emerge un ministro destinato a diventare personaggione (poi, certo, possono esserci stagioni memorabili: nel Conte 1, ad esempio, esplosero in tanti, dal mitico Di Maio a Toninelli, tutta gente strepitosa di cui noi cronisti abbiamo ormai una nostalgia canaglia). 

La notizia però è che stavolta, con l'esecutivo guidato da Giorgia Meloni, forse temendo di essere superato da altri, si è già portato in zona "cult" Gilberto Pichetto Fratin, il responsabile dell'Ambiente. Tipo notevolissimo. Potenzialità pazzesche. Autentica rivelazione anche se ormai ha 68 anni suonati. È un berluscones biellese, un commercialista che, avendo insegnato per un po' ragioneria negli istituti tecnici ed essendo poi diventato vicepresidente del Piemonte e viceministro dello Sviluppo economico, il Cavaliere ha imposto alla guida delle politiche green di questo Paese.

Perché, come sappiamo, la competenza è tutto. Ma va bene. Si fa finta di niente. Solo che subito Pichetto Fratin comincia ad esibirsi in numeri da vero fuoriclasse. Prima confonde il Consiglio d'Europa con il Consiglio europeo. Poi ribattezza il Ttf (il mercato all'ingrosso del gas naturale) in Tte.

Quindi, a Bruxelles, a margine della riunione del Consiglio Ue sull'energia, ecco un video memorabile. Conferenza stampa volante: giornalista (fuoricampo) che chiede - ovviamente in inglese - se sia possibile trovare «un compromesso» («Do you think it's possible to find a compromise?»») e Pichetto Fratin - sguardo basito, tipo incontro con marziano - che prova a fare il simpatico, e risponde (in italiano): «Complimenti.. insomma» avendo chiaramente confuso il termine compromise con complimenti. Segue silenzio fantozziano, poi Pichetto Fratin se ne va. Ma dove? Come fa questo ministro a rappresentare gli interessi del nostro governo in giro per il pianeta se non spiccica mezza parola di inglese? 

Interrogativi imbarazzanti. Allora Pichetto Fratin decide di buttarsi sulle faccende interne. E, dopo la tragica frana di Ischia invece di spiegarci il suo piano per metter in sicurezza il nostro territorio, dice: «Contro l'abusivismo, io sono per mettere in galera sindaco!». Non specifica nemmeno se dopo un regolare processo. Una frase da bar. Il famoso bar Italia.

Chi è Gilberto Pichetto Fratin, possibile ministro della Transizione ecologica. NICOLA BRACCI su Il Domani il 18 ottobre 2022

Il nome dell’ex vicepresidente della regione Piemonte compare nella lista dei ministri di Forza Italia stilata da Silvio Berlusconi. Nel 2014 fu rifiutato come candidato alle regionali da Giorgia Meloni

Dalla storica sede della destra di via della Scrofa 39, dove Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni si sono incontrati per riconciliarsi, esce il nome di un altro possibile ministro. Gilberto Pichetto Fratin, fedelissimo del leader di Forza Italia, dal ministero dello Sviluppo economico potrebbe traslocare alla Transizione ecologica.

Dal febbraio 2021 è sottosegretario, con titolo di “viceministro”, del dicastero guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti. Nome noto della politica piemontese, alle elezioni del 25 settembre è stato eletto alla Camera dei deputati come capolista nel collegio plurinominale di Chieri – Moncalieri. Nel 2019 era tra i firmatari per il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. 

GLI ESORDI

Nato in provincia di Biella, in un comune di 400 anime, l’attività di Pichetto Fratin, 68 anni, inizia dalla politica di paese. Da laureando in economia e commercio entra nel consiglio comunale di Gifflenga, minuscola frazione del biellese con un centinaio di abitanti.

Nel 1985 è eletto assessore e vicesindaco di Biella e mantiene le cariche per nove anni. Agganciato al treno della neonata Forza Italia, nel 1995 esordisce nel consiglio regionale del Piemonte e due anni più tardi ottiene l’assessorato a Industria, Artigianato e Commercio. 

IL SALTO IN PARLAMENTO

Il successo della coalizione di centrodestra alle politiche del 2008 porta all’elezione di 147 senatori del Popolo della Libertà. Tra questi Pichetto Fratin, che per incompatibilità deve dimettersi dalle cariche regionali, ma che nel 2010 torna comunque ad avere un posto nella giunta, come assessore al Bilancio. Tre anni più tardi è vicepresidente nel suo Piemonte. 

A inizio 2014 Silvio Berlusconi lo vuole coordinatore regionale del partito. Il patrocinio del cavaliere sembrerebbe assicurargli il ruolo di candidato unico del centrodestra alle regionali del maggio di quell’anno, ma la posizione gli sfuma tra le dita a causa del rifiuto di Fratelli d’Italia – all’epoca intorno al 3 percento dei voti a livello nazionale – che sceglie la corsa solitaria con Guido Crosetto. 

Oggi Crosetto è la prima scelta di FdI per il Mise e il partito di Giorgia Meloni vale il 26 percento, mentre Gilberto Pichetto Fratin resta uomo fidato di Berlusconi e il suo nome potrebbe comparire nella prossima squadra di governo, come ha confermato lo stesso Berlusconi.

NICOLA BRACCI. Ha 25 anni. È nato e cresciuto a Pesaro e si è poi trasferito a Milano. Legge e scrive di tematiche sociali e geopolitica per interesse, di sport per passione

Pichetto, l'uomo dei conti per uno sviluppo "green". Già viceministro al Mise, il forzista è l'esperto di ambiente, ma senza ideologia. Il nodo bollette. Pierluigi Bonora il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Nella passata legislatura, da viceministro dello Sviluppo economico, con la filiera automotive ci ha messo più volte la faccia. A lui, promotore del Tavolo specifico, è infatti toccato il compito di «front man» del Mise e, come tale, raccogliere istanze, timori e soprattutto lamentele, cercando allo stesso tempo di indirizzare le associazioni di categoria verso l'obiettivo comune di tutelare il settore e i relativi posti di lavoro.

Gilberto Pichetto, classe 1954, biellese, riconosciuto da tutti un «Berlusconiano doc» e neo ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica, ha dovuto fare in particolare i conti con il complesso impatto sulle imprese di una transizione ecologica, così come impostata dalla Commissione Ue, molto sbilanciata sull'ideologia e con scarsa attenzione alla sostenibilità economica e sociale.

«Green» e sviluppo industriale non possono procedere disgiunti: non è stata dunque casuale la scelta di porre Pichetto alla guida del ministero che dovrà seguire due linee di azione: salvaguardare l'ambiente e ripensare rapidamente una strategia energetica che per il Paese si è rivelata disastrosa. Percorrere, in proposito e come lui stesso ha sottolineato, la linea pragmatica del suo predecessore Roberto Cingolani il quale, tra l'altro, aveva «spiazzato» chi (i «grillini») si era adoperato per la sua candidatura.

Laureato in Economia e Commercio a Torino, ex insegnante di ragioneria e già senatore, Pichetto nel governo Draghi ha seguito i dossier legati al settore automotive, al commercio e alle politiche industriali. Nel lasciare il suo ufficio al Mise, il neo ministro aveva voluto sottolineare come «in questi mesi il mio sostegno al cuore produttivo del Paese non è mai mancato». E, ieri, riferendosi al nuovo incarico: «Le linee programmatiche che il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, illustrerà alle Camere nei prossimi giorni, rappresenteranno la bussola per il percorso che ci attende, nel solco di quanto fatto sinora, soprattutto in termini di energia, dal premier Draghi e dal ministro Cingolani». Quest'ultimo, tra l'altro, che si è sempre definito un tecnico prestato alla politica, si è detto pronto ad assicurare «qualunque aiuto da advisor per le materie che mi competono: sono totalmente a disposizione». Pichetto, dal canto suo, dalle prossime settimane dovrà incrociare il proprio lavoro con il suo ex capo al Mise, Giancarlo Giorgetti, nominato ministro dell'Economia; Adolfo Urso, a capo del dicastero dello Sviluppo economico; ma anche Matteo Salvini, preposto alle Infrastrutture e alla Mobilità sostenibili. Crisi energetica e obiettivo indipendenza da altri Paesi; imprese da tutelare e rilanciare; transizione ecologica legata all'automotive da rivedere alla luce delle tensioni geopolitiche, dei nuovi scenari e della sempre più pressante minaccia cinese: gli allarmi che l'ad di Stellantis, Carlos Tavares, ha lanciato dal Salone di Parigi («La decisione dogmatica dell'Ue di vendere solo auto elettriche nel 2035 ha conseguenze sociali ingestibili») parlano chiaro. Ripartenza degli ecobonus e pacchetto di 8,7 miliardi per il comparto sono tra i provvedimenti che Pichetto ha portato a termine.

«C'è bisogno di scelte equilibrate e compatibili con gli interessi economici del secondo Paese manifatturiero d'Europa, ispirandosi ai principi della neutralità tecnologica e della sostenibilità industriale»: il mantra del neo ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica dice tutto.

Da eroe verde a traditore: la sinistra lincia Cingolani perché collabora col "nemico". Grillino, il "più grillino di tutti" secondo lo stesso Beppe Grillo. E poi draghiano, renziano, filo-leghista e infine consulente meloniano. Domenico Di Sanzo il 25 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Grillino, il «più grillino di tutti» secondo lo stesso Beppe Grillo. E poi draghiano, renziano, filo-leghista e infine consulente meloniano. La corsa a mettere il cappello su un tecnico super partes come l'ex ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani ha portato la sinistra in un vicolo cieco. La nomina di Cingolani nel ruolo di «advisor» del governo di centrodestra, al fianco del forzista Gilberto Pichetto Fratin, nuovo ministro dell'Ambiente e della sicurezza energetica, ha fatto perdere la bussola all'opposizione. Ecco il M5s che mastica amaro e sparla a mezza bocca, il Pd dove ognuno dice tutto e il contrario di tutto, la sinistra radicale alleata dei dem urla al traditore e al «climafreghista», il Terzo polo si accoda e fa i complimenti alla maggioranza. Tutti nel pallone perché il presidente Meloni e il ministro azzurro Pichetto Fratin - d'accordo con Mario Draghi - hanno deciso di avvalersi della collaborazione gratuita di Cingolani per gestire il delicato dossier dell'energia.

Fin dall'inizio, il nome del ricercatore è stato accostato, suo malgrado, a questo o a quel partito. Il fondatore dell'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova compare per la prima volta nelle cronache politiche perché inserito da Giuseppe Conte nel 2020 nella task force di esperti guidata da Vittorio Colao per risollevare l'Italia dopo il disastro della pandemia. Si dice che lo studioso all'epoca sia stato suggerito a Conte da Grillo in persona, che lo considerava a lui vicino e perfino concittadino acquisito, dati i proficui anni genovesi trascorsi da Cingolani alla guida dell'Iit del capoluogo ligure. Ed è ancora il Garante dei 5S a tentare di accaparrarsi il fisico, quando a febbraio 2021 viene nominato da Draghi a capo del ministero della Transizione Ecologica. Doveva essere il dicastero su misura degli stellati, la zolletta di zucchero per far trangugiare ai militanti l'ingresso nell'esecutivo del banchiere. E se Grillo era l'Elevato, Cingolani era «il supremo», secondo la definizione appioppata dal fondatore del M5s. Solo che l'esperto va dritto per la sua strada, apre al nucleare, contesta gli «ambientalisti radical chic».

Conte si imbarazza allora come adesso che si ritrova il «grillino» consulente della Meloni. L'ex verde Alfonso Pecoraro Scanio, ora vicino a Conte, insinua: «Cingolani da ministro a consigliere della Meloni, Conte ieri parlava di lobby». Nicola Fratoianni, alleato del Pd, bolla l'ex ministro come «climafreghista». Protesta anche il verde Angelo Bonelli. Il senatore dem Enrico Borghi dice che Cingolani ha «spondato le lobby del nucleare, fatto le nomine che pretendeva la destra, traccheggiato sul price cap, assecondato le pulsioni leghiste sull' idroelettrico». Chiara Geloni, pugnace ex portavoce di Bersani, lo definisce «ministro inutile». A sinistra volevano il monopolio sulla Transizione Ecologica e Cingolani, scravattato e con lo zainetto, aveva rappresentato una speranza. E invece oggi accompagnerà Pichetto a Lussemburgo al Consiglio dei ministri dell'Energia Ue. La deputata Pd Lia Quartapelle prova a metterci una pezza: «Che Meloni chieda aiuto a Cingolani vuole dire una cosa: che quello contro cui lei si è opposta forse non era per nulla il governo dei Peggiori, come invece lo chiamava nella foga dei suoi comizi». Migliori o peggiori, Cingolani non è una figurina.

Roberto Calderoli ministro: le mille vite dell’highlander leghista e la sfida all’autonomia. Simone Bianco su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022

Il nuovo incarico dopo trent’anni di Parlamento e tante uscire sopra le righe: dalla maglietta di Maometto alla sparata sulla Kyenge 

Roberto Calderoli, 66 anni, è il nuovo ministro degli Affari regionali e Autonomie

A casa di Roberto Calderoli erano leghisti prima della Lega. È stato lui a ricordarlo, con divertito orgoglio, durante l’ultimo raduno di Pontida. Il nonno, Guido Calderoli, patriarca di una stirpe di dentisti, negli anni Cinquanta fondò il Movimento autonomista bergamasco. «Per lui, già a Brescia erano stranieri», ha detto ghignando dal palco del raduno il neo ministro degli Affari regionali e delle Autonomie. Una delega che è il coronamento di trent’anni di Parlamento e di quasi quaranta di adesione alla causa. Ma che, soprattutto in ottica leghista, non è affatto un’onorificenza. Intorno alla questione dell’autonomia la Lega si gioca un pezzo decisivo del proprio futuro.

Calderoli arriva a questo ennesimo snodo della sua carriera politica a 66 anni e di vite sembra averne vissute mille. La prima è quella del chirurgo maxillofacciale con la passione per l’autonomismo risvegliata dai primi vagiti del movimento fondato da Umberto Bossi, l’altro superstite di un’era ormai consegnata alla storia ma le cui istanze sono ancora vive sul territorio. Anzi, oggi al Nord le richieste di maggiore autonomia sono diventate patrimonio comune a tutte le forze politiche. Chiedere ai sindaci del Pd che in questi giorni hanno scoperto che la quota di fondi Pnrr per le opere nei comuni sotto i 15 mila abitanti, per la provincia di Bergamo, è pari a zero.

La seconda vita di Calderoli, quella nella carovana dei pionieri leghisti, parte da un consiglio comunale, quello di Bergamo dove siede tra il 1990 e il 1995. Nel frattempo esplode Tangentopoli ed esplode la Lega, alle elezioni del 1992. Calderoli viene eletto alla Camera, dove rimane fino al 2001, prima di traslocare al Senato per i successivi 21 anni.

Calderoli la sua partita per l’autonomia del Nord, da ministro, l’ha anche già tentata. Tra il 2004 e il 2006 è responsabile nel governo Berlusconi delle Riforme istituzionali e della Devoluzione. Un termine, devolution, completamente dimenticato oggi e che in quegli anni sintetizza il tentativo di modifica della Costituzione in senso federale da parte del centrodestra. Finirà male, con la bocciatura al referendum del 2006. Finirà malissimo anche l’esperienza di ministro per Calderoli, che in quegli anni si distingue per le prese di posizione sopra le righe. La maglietta raffigurante Maometto mostrata al Tg1, con conseguenti proteste (anche violente) dal mondo islamico per la quale dovrà dimettersi a febbraio 2006. L’idea del Maiale-Day, cioè di andare a passeggiare con un suino su un’area destinata a moschea a Bologna. Il commento post vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006 su una Francia «piena di giocatori islamici e di colore» (la parola usata è un’altra). Propone a più riprese la castrazione chimica per gli stupratori.

Eppure, proprio mentre gli avversari politici lo identificano come un estremista, nei palazzi romani l’autorità istituzionale di Calderoli aumenta. E, secondo un paradosso della politica, il rispetto bipartisan è figlio di una «porcata», come lui stesso definirà la sua legge elettorale: il risultato è che, nel 2006, il centrosinistra vincerà di pochissimo ma avrà una maggioranza parlamentare così risicata da non durare al potere nemmeno due anni. Effetti del Porcellum, appunto, che nel 2008 consegnerà una vittoria schiacciante alla coalizione di centrodestra. Un altro governo Berlusconi e un altro ministero per Calderoli, questa volta alla Semplificazione normativa. Un compito che sa un po’ di beffa, per uno che solo pochi anni prima sognava la secessione: dare da semplificare il corpus legislativo italiano a un leghista deve essere stato un po’ come mandare un vegano a ripulire una macelleria. Alla fine Calderoli annuncia di aver abrogato 375 mila leggi ormai inutili e per chiarire il concetto si fa riprendere mentre dà fuoco a una montagna di scatoloni contenenti i testi delle norme, con giubbotto da aviatore e ascia da pompiere in mano: una performance degna di un artista post contemporaneo, in che modo utile ad alleggerire la schiavitù del popolo italiano rispetto alla giungla normativa è tuttora ignoto.

Finiti gli anni di governo, Calderoli è di nuovo vicepresidente del Senato, una carica che ricopre per manifesta superiorità nella conoscenza di regolamenti e meccanismi dell’aula. Competenza riconosciuta anche da diversi avversari politici. Non che lui sia diventato nel frattempo più morbido. Nel 2013, durante la festa della Lega a Treviglio, dal palco fa un accostamento tra l’allora ministra Cecile Kyenge e un orango, generando uno tsunami di indignazione che arriva fino in America e una condanna per diffamazione aggravata dall’odio razziale, di recente annullata con processo da rifare.

Comunque, è un uomo cambiato, per altri versi e per altre ragioni. Dal 2012 combatte con il cancro, si sottopone a diversi interventi e a prolungate terapie. Dice di aver ritrovato la fede. Ora si trova davanti la sfida politica forse più delicata, per la sua storia e per il futuro del suo partito. Era il 2017 quando in Lombardia e Veneto si votarono i referendum sull’autonomia. Da allora, nulla s’è mosso e anche questa è una delle cause alla base del crollo di consenso della Lega salviniana. Recuperare terreno con le parole d’ordine della Lega delle origini non sarà facile, in un momento così delicato per il Paese.

Roberto Calderoli ministro: le mille vite dell’highlander leghista e la sfida all’autonomia. Simone Bianco su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

Il nuovo incarico dopo trent’anni di Parlamento e tante uscite sopra le righe: dalla maglietta di Maometto alla sparata sulla Kyenge. 

Roberto Calderoli, 66 anni, è il nuovo ministro degli Affari regionali e Autonomie

A casa di Roberto Calderoli erano leghisti prima della Lega. È stato lui a ricordarlo, con divertito orgoglio, durante l’ultimo raduno di Pontida. Il nonno, Guido Calderoli, patriarca di una stirpe di dentisti, negli anni Cinquanta fondò il Movimento autonomista bergamasco. «Per lui, già a Brescia erano stranieri», ha detto ghignando dal palco del raduno il neo ministro degli Affari regionali e delle Autonomie. Una delega che è il coronamento di trent’anni di Parlamento e di quasi quaranta di adesione alla causa. Ma che, soprattutto in ottica leghista, non è affatto un’onorificenza. Intorno alla questione dell’autonomia la Lega si gioca un pezzo decisivo del proprio futuro.

Calderoli arriva a questo ennesimo snodo della sua carriera politica a 66 anni e di vite sembra averne vissute mille. La prima è quella del chirurgo maxillofacciale con la passione per l’autonomismo risvegliata dai primi vagiti del movimento fondato da Umberto Bossi, l’altro superstite di un’era ormai consegnata alla storia ma le cui istanze sono ancora vive sul territorio. Anzi, oggi al Nord le richieste di maggiore autonomia sono diventate patrimonio comune a tutte le forze politiche. Chiedere ai sindaci del Pd che in questi giorni hanno scoperto che la quota di fondi Pnrr per le opere nei comuni sotto i 15 mila abitanti, per la provincia di Bergamo, è pari a zero.

La seconda vita di Calderoli, quella nella carovana dei pionieri leghisti, parte da un consiglio comunale, quello di Bergamo dove siede tra il 1990 e il 1995. Nel frattempo esplode Tangentopoli ed esplode la Lega, alle elezioni del 1992. Calderoli viene eletto alla Camera, dove rimane fino al 2001, prima di traslocare al Senato per i successivi 21 anni.

Calderoli la sua partita per l’autonomia del Nord, da ministro, l’ha anche già tentata. Tra il 2004 e il 2006 è responsabile nel governo Berlusconi delle Riforme istituzionali e della Devoluzione. Un termine, devolution, completamente dimenticato oggi e che in quegli anni sintetizza il tentativo di modifica della Costituzione in senso federale da parte del centrodestra. Finirà male, con la bocciatura al referendum del 2006. Finirà malissimo anche l’esperienza di ministro per Calderoli, che in quegli anni si distingue per le prese di posizione sopra le righe. La maglietta raffigurante Maometto mostrata al Tg1, con conseguenti proteste (anche violente) dal mondo islamico per la quale dovrà dimettersi a febbraio 2006. L’idea del Maiale-Day, cioè di andare a passeggiare con un suino su un’area destinata a moschea a Bologna. Il commento post vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006 su una Francia «piena di giocatori islamici e di colore» (la parola usata è un’altra). Propone a più riprese la castrazione chimica per gli stupratori.

Eppure, proprio mentre gli avversari politici lo identificano come un estremista, nei palazzi romani l’autorità istituzionale di Calderoli aumenta. E, secondo un paradosso della politica, il rispetto bipartisan è figlio di una «porcata», come lui stesso definirà la sua legge elettorale: il risultato è che, nel 2006, il centrosinistra vincerà di pochissimo ma avrà una maggioranza parlamentare così risicata da non durare al potere nemmeno due anni. Effetti del Porcellum, appunto, che nel 2008 consegnerà una vittoria schiacciante alla coalizione di centrodestra. Un altro governo Berlusconi e un altro ministero per Calderoli, questa volta alla Semplificazione normativa. Un compito che sa un po’ di beffa, per uno che solo pochi anni prima sognava la secessione: dare da semplificare il corpus legislativo italiano a un leghista deve essere stato un po’ come mandare un vegano a ripulire una macelleria. Alla fine Calderoli annuncia di aver abrogato 375 mila leggi ormai inutili e per chiarire il concetto si fa riprendere mentre dà fuoco a una montagna di scatoloni contenenti i testi delle norme, con giubbotto da aviatore e ascia da pompiere in mano: una performance degna di un artista post contemporaneo, in che modo utile ad alleggerire la schiavitù del popolo italiano rispetto alla giungla normativa è tuttora ignoto.

Finiti gli anni di governo, Calderoli è di nuovo vicepresidente del Senato, una carica che ricopre per manifesta superiorità nella conoscenza di regolamenti e meccanismi dell’aula. Competenza riconosciuta anche da diversi avversari politici. Non che lui sia diventato nel frattempo più morbido. Nel 2013, durante la festa della Lega a Treviglio, dal palco fa un accostamento tra l’allora ministra Cecile Kyenge e un orango, generando uno tsunami di indignazione che arriva fino in America e una condanna per diffamazione aggravata dall’odio razziale, di recente annullata con processo da rifare.

Comunque, è un uomo cambiato, per altri versi e per altre ragioni. Dal 2012 combatte con il cancro, si sottopone a diversi interventi e a prolungate terapie. Dice di aver ritrovato la fede. Ora si trova davanti la sfida politica forse più delicata, per la sua storia e per il futuro del suo partito. Era il 2017 quando in Lombardia e Veneto si votarono i referendum sull’autonomia. Da allora, nulla s’è mosso e anche questa è una delle cause alla base del crollo di consenso della Lega salviniana. Recuperare terreno con le parole d’ordine della Lega delle origini non sarà facile, in un momento così delicato per il Paese.

Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Conosciuto per le sue numerose uscite stravaganti, il senatore leghista Roberto Calderoli è il nuovo ministro per gli Affari regionali e le Autonomie del governo guidato da Giorgia Meloni.

Nato a Bergamo nel 1956, Calderoli si laurea alla facoltà di medicina e chirurgia a Milano ma senza mai esercitare la professione. Gli esordi politici sono nella Lega di Umberto Bossi, di cui diventa presidente nel 1993 e segretario nazionale nel 1995 fino al 2002, anno in cui diventa coordinatore delle Segreterie nazionali della Lega Nord e membro con diritto di voto nel consiglio federale del partito.

Dal 1990 al 1995 è stato consigliere comunale a Bergamo. Viene eletto deputato alla Camera con la Lega Nord dal 1992 al 1994 nella circoscrizione Brescia-Bergamo, dal 1994 al 1996 nel collegio uninominale di Bergamo per il Polo delle Libertà, dal 1996 al 2001 nel collegio uninominale di Albino per la Lega Nord.

Nel 2011 l’esordio al Senato, di cui diventa vicepresidente fino a luglio 2004, quando prende la carica di ministro per le Riforme istituzionali e la Devoluzione. È tra gli ideatori della riforma costituzionale bocciata con il referendum del 2006 e volta ad attribuire più poteri alle regioni, a superare il bicameralismo perfetto e a ridurre il numero dei parlamentari.

Calderoli è stato anche uno dei firmatari del disegno di legge elettorale approvato il 21 dicembre 2005 “Porcellum“, definita da lui stesso “una porcata”. Nel 2006 viene eletto senatore per la Lega Nord nella circoscrizione Piemonte e torna a ricoprire la carica di vicepresidente del Senato. Poi alle elezioni del 2008 viene riconfermato e diventa ministro per la Semplificazione normativa nel quarto governo Berlusconi.

Nel febbraio 2009 annuncia di aver soppresso 29mila leggi considerate inutili, poi nel marzo 2010 dà simbolicamente fuoco a 375mila leggi abrogate in 22 mesi di legislatura, raccolte in circa 150 scatole contenenti i soli titoli. Un’operazione, quella dell’eliminazione delle leggi, che riceve molte critiche.

Alle elezioni del 2013 viene riconfermato senatore per la Lega Nord e diventa per la terza volta vicepresidente del Senato. Nel settembre 2015 presenta la cifra record di 82 milioni di emendamenti al ddl Boschi, disegno di legge volto a riformare il Senato, realizzati tramite l’utilizzo di un software, con lo scopo di paralizzare per diverso tempo l’attività del Senato.

Calderoli viene poi rieletto al Senato nel 2018 e diventa per la quarta volta vicepresidente di Palazzo Madama. Alle elezioni politiche del 2022 è ricandidato dalla Lega al Senato in prima posizione nel Collegio plurinominale Lombardia – 03 dove viene rieletto.

Chi è Nello Musumeci, il ministro del mare e per il Sud del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Sebastiano Musumeci, detto Nello, ex presidente della regione Sicilia, è diventato ministro del sud e del mare del governo guidato da Giorgia Meloni. Un ‘risarcimento’ per il sacrificio di aver dovuto rinunciare lo scorso settembre al bis da governatore dopo un lungo braccio di ferro con gli alleati (Forza Italia in testa). La ricompensa è arrivata in due tranche, prima con la carica a senatore e ora con il ruolo di ministro del Sud e per il mare per uno dei più esperti naviganti delle tempestose acque della destra italiana.

Musumeci nasce a Militello in Val di Catania il 21 gennaio 1955. A soli 15 anni entra nelle file della Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del partito Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale” (MSI). A vent’anni, viene eletto consigliere comunale nella sua città di origine, Militello in Val di Catania. Nel frattempo lavora come bancario per il Gruppo Unicredit ed è giornalista pubblicista dal 1977.

Nel 1987 viene eletto segretario provinciale del MSI di Catania, dove ricopre anche l’incarico di consigliere comunale dal 1990 fino al 1993, sempre nelle liste del MSI. Dal 1994 al 2033 è  presidente della Provincia di Catania dal 1994 al 2003, nonché europarlamentare fino al 2009. Dal 15 aprile al 16 novembre 2011 ha ricoperto il ruolo sottosegretario al Ministero del lavoro e delle politiche sociali nel governo Berlusconi IV.

Dal 18 novembre 2017 al 13 ottobre 2022 ricopre la carica di Presidente della Regione Sicilia. Nel giugno 2022 annuncia il suo ingresso in Fratelli d’Italia mentre il 4 agosto scorso si è dimesso dalla carica di presidente della Sicilia facendo coincidere le elezioni regionali con le politiche fissate per il 25 settembre 2022. Diventa eletto senatore dopo aver vinto al collegio uninominale Sicilia 4 (Catania). La colazione di centrodestra lo sostituirà con Renato Schifani, ex presidente del Senato.

Antonio Fraschilla per espresso.repubblica.it il 21 ottobre 2022.

Il primo ha sempre detto che sì, va bene l’autonomia delle regioni, «ma prima lo Stato deve investire al Sud come ha fatto al Nord». Il secondo invece vuole l’autonomia ora e subito e con la spesa storica che di fatto fotografa la situazione attuale condannando le regioni del Mezzogiorno alla differenza di servizi essenziali con il resto del Paese. Il primo viene da una storia politica legata all’ex Movimento sociale italiano e fondata sul concetto di Patria, il secondo la parola “patria” forse non l’ha mai pronunciata. 

Ma entrambi da oggi siedono nello stesso governo e già si annunciano tensioni sull’asse Fratelli d’Italia-Lega: Nello Musumeci, neo pupillo di Giorgia Meloni in Fdi sarà il ministro per il Sud e per il non meglio definito “mare”, e  Roberto Calderoli avrà invece la delega agli Affari regionali e alle Autonomie. 

In passato l’ex governatore siciliano sul tema dell’autonomia differenziata è stato chiaro: «Se l’autonomia sarà solo risorse al Nord allora salta il patto costituzionale – ha detto – vogliono più autonomia? Allora lo Stato investa al Sud come al Nord. Noi però in Sicilia invece di utilizzare l’autonomia come opportunità, l’abbiamo utilizzata per privilegi. Io non difendo certo questo, frutto di una pessima classe dirigente.

Ma difendo un’autonomia corretta. E non temo l’autonomia del Nord: chiedo livelli minimi uguali per tutti». Musumeci arriva da una storia, che parte dall’ex Movimento sociale italiano per approdare solo recentemente a Fratelli d’Italia dopo aver lasciato An poco prima della fusione nel Pdl. Una storia di patria ecc ecc. 

Adesso si troverà al fianco di un ministro, Calderoli, che sull’autonomia e sul Sud non le ha mai mandate a dire. Come quando l’ex Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, definì la gente del sud «buona e intelligente», e lui si inalbero definendo quella frase «razzista nei confronti del resto della popolazione». Durante la campagna elettorale per i referendum di Renzi davanti ad una platea di leghisti disse: «Oggi sono fortunatamente in Valtellina, ma la settimana prossima, pensate, devo andare in Calabria, in Puglia, in Campania... Già, perché votano anche loro.

Di sicuro Calderoli al primo consiglio dei ministri vuole parlare di autonomia differenziata, anche come scambio per l’avvio della riforma presidenzialista tanto cara a Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni: «Il governo di centrodestra approverà l'autonomia differenziata, grazie alla quale qualsiasi regione a statuto ordinario - non quelle a statuto speciale che necessitano di una legge costituzionale che modifichi il loro statuto - potranno chiedere da una a 23 materie, molte concorrenti e qualcuna anche esclusive», ha detto in una intervista ad Affaritaliani.

 Calderoli e Musumeci ministri, è già scontro Nord e Sud: sull’autonomia si annuncia alta tensione nel governo. L’ex governatore siciliano ha spesso criticato il modello leghista, il braccio destro di Salvini invece ha già annunciato che la porterà subito in consiglio dei ministri. La prima grana per Meloni. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 21 Ottobre 2022

Il primo ha sempre detto che sì, va bene l’autonomia delle regioni, «ma prima lo Stato deve investire al Sud come ha fatto al Nord». Il secondo invece vuole l’autonomia ora e subito e con la spesa storica che di fatto fotografa la situazione attuale condannando le regioni del Mezzogiorno alla differenza di servizi essenziali con il resto del Paese. Il primo viene da una storia politica legata all’ex Movimento sociale italiano e fondata sul concetto di Patria, il secondo la parola “patria” forse non l’ha mai pronunciata. Ma entrambi da oggi siedono nello stesso governo e già si annunciano tensioni sull’asse Fratelli d’Italia-Lega: Nello Musumeci, neo pupillo di Giorgia Meloni in Fdi sarà il ministro per il Sud e per il non meglio definito “mare”, e  Roberto Calderoli avrà invece la delega agli Affari regionali e alle Autonomie.

In passato l’ex governatore siciliano sul tema dell’autonomia differenziata è stato chiaro: «Se l’autonomia sarà solo risorse al Nord allora salta il patto costituzionale – ha detto – vogliono più autonomia? Allora lo Stato investa al Sud come al Nord. Noi però in Sicilia invece di utilizzare l’autonomia come opportunità, l’abbiamo utilizzata per privilegi. Io non difendo certo questo, frutto di una pessima classe dirigente. Ma difendo un’autonomia corretta. E non temo l’autonomia del Nord: chiedo livelli minimi uguali per tutti». Musumeci arriva da una storia, che parte dall’ex Movimento sociale italiano per approdare solo recentemente a Fratelli d’Italia dopo aver lasciato An poco prima della fusione nel Pdl. Una storia di patria ecc ecc.

Adesso si troverà al fianco di un ministro, Calderoli, che sull’autonomia e sul Sud non le ha mai mandate a dire. Come quando l’ex Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, definì la gente del sud «buona e intelligente», e lui si inalbero definendo quella frase «razzista nei confronti del resto della popolazione». Durante la campagna elettorale per i referendum di Renzi davanti ad una platea di leghisti disse: «Oggi sono fortunatamente in Valtellina, ma la settimana prossima, pensate, devo andare in Calabria, in Puglia, in Campania... Già, perché votano anche loro.

Di sicuro Calderoli al primo consiglio dei ministri vuole parlare di autonomia differenziata, anche come scambio per l’avvio della riforma presidenzialista tanto cara a Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni: «Il governo di centrodestra approverà l'autonomia differenziata, grazie alla quale qualsiasi regione a statuto ordinario - non quelle a statuto speciale che necessitano di una legge costituzionale che modifichi il loro statuto - potranno chiedere da una a 23 materie, molte concorrenti e qualcuna anche esclusive», ha detto in una intervista ad Affaritaliani. 

Primi problemi nell'esecutivo. Meloni e lo sgarbo a Salvini: col ministero per il Mare di Musumeci a rischio il controllo di porti e Capitanerie. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

Il day one del nuovo governo a guida Giorgia Meloni crea già scompiglio nella focosa maggioranza di destra. La linea decisionista della neo presidente del Consiglio, che sulla lista dei ministri non ha accettato grandi mediazioni con gli alleati, riserva delle sorprese amare per Lega e Forza Italia.

È in particolare il Carroccio, e il suo segretario Matteo Salvini, a dover fare i conti col boccone più amaro. Tutta colpa del ministero del Sud e delle politiche del Mare, un dicastero ‘senza portafoglio’ affidato all’ex governatore della Regione Sicilia Nello Musumeci.

Un ministero che porta in dote competenze variegate e che non a caso fa scattare un campanello d’allarme in casa Lega, che si è vista affidare il ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili a Salvini, per poter così controllare porti e Capitanerie nella ‘battaglia identitaria’ sull’immigrazione, dopo la doccia fredda del ‘no’ al ministero dell’Interno ricevuto dalla Meloni.

“Le deleghe del ministro Musumeci non assorbiranno alcuna competenza attualmente in capo al ministero delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili, che sarà guidato da Matteo Salvini”, fa sapere a stretto giro il partito, che non ne vuole sapere di perdere le competenze sul tema, da sfruttare a livello politico-elettorale per ribadire la linea dura sui migranti.

In realtà, nonostante la nota del Carroccio e rassicurazioni della Meloni, la partita sulle competenze dei due ministeri resta apertissima. Basta infatti un decreto per spostare le deleghe da Infrastrutture ‘salviniane’ al dicastero del Sud di Musumeci.

A giocare contro questa ipotesi è la questione del ‘portafoglio’: il ministero del Mare e del Mezzogiorno farebbe pesare sul bilancio di Palazzo Chigi tutti i costi di gestione delle capitanerie, non avendo fondi suoi a disposizione.

D’altra parte il ‘no’ della Meloni all’ipotesi di un Salvini bis al Viminale, giustificato per la nota faccenda di Open Arms e del processo in corso contro il leader della Lega, che impedisce per una questione di opportunità un suo ritorno agli Interni, vale anche per la gestione dei porti. 

Non è un caso se, lasciando il Quirinale, il ministro del Sud Musumeci di fronte ai giornalisti che gli chiedevano se la delega ai porti sarebbe stata in capo al suo ministero o alle Infrastrutture di Matteo Salvini si è lasciato andare ad un serafico “avremo tempo per parlare di questo”. Anche perché al momento la delega “non c’è”, ha commentato il governatore siciliano.

C’è poi un secondo problema per la Lega, ovvero la gestione dei fondi del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Con un colpo di mano la gestione di questa delega è stata affidata dalla premier al fedelissimo Raffaele Fitto, anche ministro degli Affari europei. L’ennesimo boccone amaro da mandare giù per Salvini che, scrive Repubblica, aveva programmato un tour in giro per l’Italia, seguendo la mappa dei progetti finanziati da Bruxelles per piazzarci sopra la ‘bandierina’ del Carroccio.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il più giovane presidente di Regione in Italia. Chi è Raffaele Fitto, il ministro agli Affari europei del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Già eurodeputato, presidente della Regione Puglia e ministro per gli Affari regionali nel quarto governo Berlusconi. E’ questa una parte del curriculum politico di Raffaele Fitto, il nuovo ministro agli Affari Europei, Coesione Territoriale e Pnrr del nuovo governo di centrodestra.

Ad annunciare la nuova carica la neo premier Giorgia Meloni al Quirinale, subito dopo aver accettato l’incarico di formare il governo conferitole dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Raffaele Fitto occuperà la cruciale casella degli Affari europei – ministero sena portafoglio – dopo una lunga carriera politica iniziata con la militanza nella Dc a soli 19 anni, passata per Forza Italia e approdata poi in Fratelli d’Italia.

Nato a Maglie nel 1969, Raffaele è figlio del politico democristiano Salvatore Fitto, presidente della Regione Puglia dal 1985 fino alla sua morte, nel 1988. Ed è proprio questo l’anno in cui il giovane Fitto a soli 19 anni inizia la sua militanza nella Dc, con cui viene eletto nel consiglio regionale della Puglia nel 1990.

Nel 1994 si laurea in giurisprudenza e, con lo scioglimento della Dc, aderisce al Partito Popolare Italiano di Rocco Buttiglione, che seguirà nell’alleanza con la neonata Forza Italia. Nel 1995 viene riconfermato in Regione, dove diventerà assessore al Turismo e vicepresidente.

Nel 1999 approda al Parlamento europeo con Forza Italia. Rimane in carica solo per un anno perché nel 2000 si candida alla guida della Puglia, diventando il più giovane presidente di Regione in Italia. Alle regionali del 2005 si ricandida ma viene sconfitto da Nichi Vendola. L’anno dopo viene eletto in Parlamento come deputato di FI e nel 2008 è nominato ministro per gli Affari regionali nel governo Berlusconi IV.

Nel 2014 torna a Strasburgo con la vittoria alle europee, ma rompe con Forza Italia a causa del patto del Nazareno. Nel 2017 nasce l’esperienza di Direzione Italia, ma dopo il fallimento alle elezioni del 2018, il partito si federa con Fratelli d’Italia per le europee del 2019, in cui Fitto risulterà rieletto.

Nel 2020, Fitto si ricandida a governatore della Puglia, ma perde contro il presidente uscente Michele Emiliano. Finché alle politiche del 25 settembre scorso viene rieletto deputato con Fratelli d’Italia.

Andrea Abodi, un vero manager ministro dello Sport. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Ottobre 2022 

Lo sport torna ad avere un Ministero ad hoc, ed il mondo degli atleti avrà un interlocutore istituzionale e competente alla guida di un Dicastero specifico; stop alle deleghe affidate ad altri ministri o a sottosegretari. E' stata questa la decisione assunta dalla neo Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni che l'ha indotto ad affidare l'incarico ad Abodi.

Nato a Roma, una laurea in economia alla Luiss, una vita da manager principalmente nel settore di cui ora è ministro. Andrea Abodi è il nuovo titolare del dicastero dello Sport nel governo Meloni, e la sua nomina segna tra l’altro il ritorno del ministero, a venti mesi dalla caduta del Conte 2. Abodi è attualmente presidente dell’Istituto per il Credito Sportivo, un incarico giunto all’apice di una lunga carriera nel mondo della dirigenza sportiva, che in passato lo aveva portato tra l’altro ad essere tra i co-fondatori di Media Partners, presidente della Lega calcio di serie B, consigliere della Figc, e consigliere di Coni Servizi. 

Lo sport torna ad avere un Ministero ad hoc, ed il mondo degli atleti avrà un interlocutore istituzionale e competente alla guida di un Dicastero specifico; stop alle deleghe affidate ad altri ministri o a sottosegretari. E’ stata questa la decisione assunta dalla neo Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni che l’ha indotto ad affidare l’incarico ad Abodi.

Giornalista iscritto nell’ Albo dei Pubblicisti è nato a Roma il 7 marzo del 1960, Abodi è stato direttore marketing della filiale italiana del Gruppo IMG-McCormack, società americana leader nell’organizzazione di grandi eventi, fra i quali per molti anni i Campionati Internazionali di Tennis d’ Italia al Foro Italico di Roma ed il Concorso Ippico Internazionale di Piazza di Siena, sempre nella Capitale. 

Dal 2010 a febbraio del 2017 è stato presidente della Lega calcio di Serie B promuovendo nel 2015 la costituzione di B Futura s.r.l., società di scopo della Lega dedicata allo sviluppo infrastrutturale, ricoprendo il ruolo di presidente.  Dal 2017 era alla guida dell’Ics-Istituto per il Credito Sportivo, banca sociale per lo sviluppo sostenibile dello sport e della cultura e leader nel finanziamento all’impiantistica sportiva.

Nella sua carriera di manager è stato fondatore e vicepresidente esecutivo di Media Partners Group, una delle principali agenzie di marketing dello sport, ed ha ricoperto il ruolo di presidente in varie società italiane (Arcea Spa, Medialazio srl ed Astral Spa); dal 2002 al 2008 è anche stato consigliere di amministrazione di Coni Servizi spa, mentre nel 2009 si è occupato dell’organizzazione della Coppa del Mondo di baseball a Pescara. Redazione CdG 1947

(ANSA il 21 ottobre 2022) - "La nomina di Andrea Abodi, al quale auguro buon lavoro, è una straordinaria notizia per lo sport italiano e per il calcio in particolare. E' un dirigente di spessore che sa coniugare visione e pragmatismo, quello che ci vuole per sostenere le migliaia di società sportive attualmente in difficoltà". Il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, commenta così all'ANSA l'incarico di ministro per lo Sport affidato all'ex numero uno della Lega B. 

"Ringrazio la Presidente Meloni per aver dato dignità al nostro mondo con l'indicazione di un vero e proprio Ministero e per aver scelto un serio professionista che conosce i reali problemi che affliggono lo sport italiano - prosegue Gravina -. Con Abodi abbiamo condiviso idee e progettualità, non ultime quelle che stavamo mettendo in pratica sull'impiantistica sportiva, che rappresenta la vera grande sfida da vincere per rilanciare il sistema Italia, anche grazie all'assegnazione del Campionato Europeo 2032".

(ANSA il 21 ottobre 2022) - Romano, una laurea in economia alla Luiss, una vita da dirigente principalmente nel settore di cui ora è ministro. Andrea Abodi è il nuovo titolare del dicastero dello sport nel governo Meloni, e la sua nomina segna tra l'altro il ritorno del ministero, a venti mesi dalla caduta del Conte 2.

Abodi è attualmente presidente dell'Istituto per il Credito Sportivo, un incarico giunto all'apice di una lunga carriera nel mondo della dirigenza sportiva, che lo ha portato tra l'altro ad essere tra i cofondatori di Media Partners, presidente della Lega calcio di serie B, consigliere della Figc, e consigliere di Coni Servizi. Nato a Roma il 7 marzo del 1960, Abodi - che è iscritto all'albo dei giornalisti pubblicisti - è stato direttore marketing della filiale italiana del Gruppo McCormack, azienda specializzata nell'organizzazione di grandi eventi.

Dal 2010 a febbraio del 2017 ha guidato come presidente la Lega calcio di Serie B. Dal 2017 è alla guida dell'Ics, banca sociale per lo sviluppo sostenibile dello sport e della cultura e leader nel finanziamento all'impiantistica sportiva. Nella sua carriera di manager è stato inoltre fondatore e vicepresidente esecutivo di Media Partners Group, una delle principali agenzie di marketing dello sport, ed ha ricoperto il ruolo di presidente in varie società italiane (Arcea Spa, Medialazio srl ed Astral Spa); dal 2002 al 2008 è anche stato consigliere di amministrazione di Coni Servizi spa, mentre nel 2009 si è occupato dell'organizzazione della Coppa del Mondo di baseball a Pescara. Da presidente di Lega B ha promosso nel 2015 la costituzione di B Futura s.r.l., società di scopo della Lega dedicata allo sviluppo infrastrutturale, ricoprendo il ruolo di presidente.

Estratto dell’articolo di Matteo Pinci per “la Repubblica” il 22 ottobre 2022.

Erano tutti nello stesso albergo, non più tardi di un mese fa. Giorgia Meloni, Giovanni Malagò, presidente del Coni. E Andrea Abodi, l'uomo che la leader del governo ha scelto come ministro dello Sport […]. Era il 29 settembre, l'hotel era il Parco dei Principi, a Villa Borghese. 

A Roma era in visita il presidente del Comitato olimpico internazionale Thomas Bach, preoccupato per il ritardo che l'Italia sta accumulando sul dossier Milano-Cortina, le Olimpiadi invernali 2026. Al piano di sotto, Abodi con Diana Bianchedi elaborava piani e strategie, convinto di essere l'ad designato per la Fondazione dei Giochi (e di certo lo avrebbe preferito). Ma alla fine della scorsa settimana, Meloni lo ha chiamato annunciandogli che i piani erano cambiati: «Mi servi come ministro dello sport». A lui non è rimasto che obbedire.

Solo un anno fa la leader di Fdi lo avrebbe voluto candidare a sindaco di Roma, lui declinò dopo lunga meditazione per seri problemi personali. Ma Abodi, 62 anni, presidente della Lega Serie B fino al 2017, resta uomo vicinissimo alla premier. Come Malagò […]. 

E infatti la scelta di Abodi è anche una mano tesa al n. 1 del Coni dopo anni in cui lo sport era stato in mano al ministro Spadafora e poi alla sottosegretaria Vezzali, nemici giurati di Malagò. Con Abodi è tutto diverso. Perché i due sono amici da anni: estrazione Roma nord, quella dei circoli - entrambi all'Aniene sono di casa - e, per citare un esempio, quando nel 2017 c'era da scegliere il presidente del Credito Sportivo fu Malagò a suggerire al governo Gentiloni il nome di Abodi.

Che ora si trova nella stessa coalizione di Claudio Lotito, eletto al senato con Forza Italia e candidato serissimo alla poltrona di presidente della Commissione Finanze e tesoro. Quel Lotito che due volte gli impedì la scalata ai vertici del calcio italiano. Prima lo bruciò come antagonista di Tavecchio alla presidenza della Federcalcio, nel 2017, quando Abodi era candidato dalla coalizione di Gabriele Gravina, oggi a capo della Figc. Poi, a gennaio 2022, ha sostenuto contro di lui Lorenzo Casini come presidente della Lega Serie A.  La scelta di Abodi si lega anche a un preciso indirizzo del governo che punta fortemente sull'Europeo di calcio del 2032. […]

IL DIRIGENTE SPORTIVO. Chi è Andrea Abodi, il nuovo ministro dello Sport. GIULIA MORETTI su Il Domani il 21 ottobre 2022

Il presidente dell’Istituto di credito sportivo avrà un peso importante nel governo Meloni e la premier in pectore avrebbe deciso di affidarlo all’esperienza di un dirigente sportivo di lungo corso

Sarà con ogni probabilità Andrea Abodi il prossimo ministro dello sport. L’attuale presidente dell’Istituto per il credito sportivo gode di una stima trasversale e ha alle spalle un lungo percorso di dirigente sportivo. Sul suo tavolo, qualora fosse davvero nominato ministro, ci saranno diversi dossier. 

CORTINA 2026

Abodi è molto apprezzato da Giorgia Meloni, che alle elezioni comunali di Roma, lo avrebbe voluto candidato, salvo poi schierare Enrico Michetti. Mario Draghi avrebbe voluto nominarlo amministratore delegato della Fondazione Milano-Cortina, ma poi ha preferito lasciare la scelta al suo successore. Ma Meloni avrebbe deciso di dare precedenza alla formazione del governo e di rimandare a un momento successivo la decisione sulle olimpiadi invernali di Cortina 2026. 

LO SPORT NEL GOVERNO MELONI

Come più volte annunciato da Giorgia Meloni in campagna elettorale nel suo esecutivo il peso dato allo sport sarà notevole ed è probabile che il futuro ministro debba non solo risolvere una serie di incombenze legate all’implementazione delle strutture sportive ma anche occuparsi, in tandem col ministro dell’istruzione, della progettazione della didattica sportiva nelle scuole. Inoltre, non appare inverosimile che, come era accaduto a Valentina Vezzali e Vincenzo Spadafora, ad Abodi siano affidate le politiche giovanili. Infine, il ministro dovrà occuparsi anche del caro bollette che sta mettendo a repentaglio la vita di mote società sportive.  

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

LA PROPOSTA DI SALVINI. Chi è Simona Baldassarre, la possibile ministra alla Famiglia. GIULIA MERLO su Il Domani il 17 ottobre 2022

L’europarlamentare leghista, Simona Baldassarre, è la possibile nuova ministra della Natalità e della famiglia, per contrastare «l’inverno demografico». Legata alle associazioni ultracattoliche come “CitizenGo” e “Family day”, difende la famiglia tradizionale e contrasta il mondo Lgbt+

In Europa ha votato contro il rapporto sulla salute riproduttiva delle donne. Ha partecipato alla manifestazione di Roma organizzata dalla Marcia per la Vita in cui la presidente dell’associazione ha spiegato che l’evento era apartitico ma di voler «cambiare quelle leggi del nostro Paese, che contrastano il diritto naturale», riferendosi alla 194.

Tra le battaglie di Baldassarre c’è anche quella contro il ddl Zan, che puntava a introdurre il reato di odio omotransfobico. «Le forze di maggioranza si dimostrano ancora una volta nemiche delle famiglie italiane».

La Lega ha chiesto a Giorgia Meloni di avere il ministero della Famiglia e natalità. In lizza per ricoprire l’incarico c’è Simona Baldassarre, medico specializzata in chirurgia estetica, europarlamentare della Lega, responsabile del dipartimento Famiglia del partito.

Matteo Salvini, come nel caso del filoputiniano Lorenzo Fontana, ha proposto un nome divisivo per la guida del dicastero. Baldassarre è vicina al mondo dell’Ugl e al senatore Claudio Durigon. L’eurodeputata è espressione di mondi cattolici conservatori, legati alla galassia pro life. Come Citizen go, associazione di ultradestra fondata nel 2013 in Spagna, si oppone al matrimonio egualitario, all’aborto e all’eutanasia. Nel 2018 a Roma ha affisso diversi manifesti con lo slogan “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo”.

Tra i punti di riferimento di Baldassarre c’è l’associazione Family Day, per la difesa della famiglia tradizionale e contro il matrimonio egualitario alle coppie omosessuali, la procreazione per altri, limitazioni all’aborto e impedire l’eutanasia. Nel suo mandato al parlamento europeo, Baldassarre ha portato avanti queste posizioni. Recentemente, nel 2021, ha anche scritto un libro, Il mondo di sotto. Donne sfruttate e bambini venduti, sulla maternità surrogata, che definisce «aberrante». 

ABORTO

Sul tema dell’aborto, Baldassarre ha fortemente criticato il rapporto Matic sulla salute riproduttiva, approvato dal parlamento europeo nel 2021. In particolare, l’europarlamentare ha attaccato la parte della risoluzione che, nel promuovere l’aborto sicuro e legale, stabiliva che «l’obiezione di coscienza individuale non può interferire con il diritto del paziente di avere pieno accesso all’assistenza e ai servizi sanitari». Baldassarre ha votato contro il rapporto e ha definito, in una intervista al sito ProVita&Famiglia, quella del parlamento Ue una «visione laicista», che «definisce l’aborto come un diritto umano».

Nel 2021 è stata anche tra i partecipanti, insieme a Isabella Rauti (altra papabile per il ministero della Famiglia), l’ex senatore ultra conservatore Simone Pillon, alla manifestazione di Roma organizzata dalla Marcia per la vita. In quell’occasione la presidente, Virginia Coda Nunziante, ha spiegato che l’evento era apartitico ma «abbiamo bisogno dei nostri uomini politici, per abrogare la 194 e per cambiare quelle leggi del nostro paese, che contrastano il diritto naturale».

FAMIGLIA TRADIZIONALE

Sul palco ha parlato anche Janusz Kotanski, ambasciatore della Polonia presso la Santa sede, che ha ricordato i «progressi» del suo paese per la tutela della vita, ponendo precise condizioni sull’ammissibilità dell’aborto. Dall’europarlamento, Baldassarre ha anche attaccato la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che nel 2020 si era espressa contro la Polonia di Andrzej Duda, dove molte città (circa un terzo del paese) si sono dichiarate «zone libere dall’ideologia Lgbt».

A fronte delle parole di von der Leyen, l’europarlamentare ha difeso la Polonia e detto che a Bruxelles, «in cambio di una manciata di voti di qualche gruppo radical-chic e delle lobby arcobaleno, sono disposti a calpestare il diritto di pensare che ogni bambino abbia bisogno di una mamma e di un papà».

Nel 2021, quando il parlamento europeo ha approvato una risoluzione che dichiara i paesi dell’Unione europea «zona di libertà» per le persone omosessuali, lei e i suoi colleghi di Lega e Fratelli d’Italia hanno votato contro, definendola un attacco a Polonia e Ungheria e hanno firmato una contro-risoluzione in cui si dice che «gli stati membri dell’Unione sono tra i paesi più sicuri al mondo per le minoranze sessuali» e che «dal punto di vista biologico, per la procreazione sono necessari entrambi i sessi».

LGBTQ+

Nel 2022, Baldassarre è intervenuta contro il Gay pride in Umbria, dicendo che «gli adulti sono liberi di fare le loro scelte nella vita privata, mai i bambini vanno lasciati fuori dalle manifestazioni come il pride, che fanno propaganda anti famiglia e per pratiche come l’adozione ai gay, l’utero in affitto e la compravendita di gameti».

Un altro dei suoi cavalli di battaglia è la cosiddetta “ideologia gender”. Nel 2021, durante la trasmissione Rai Oggi è un altro giorno, è stato commentato un libro di fiabe rivisitate dalla regista Emma Dante, in cui la bella addormentata nel bosco veniva svegliata dal bacio di una principessa e non di un principe. «Non esiste l’ideologia gender?», ha commentato Baldassarre, definendo «inconcepibile, assurdo, che il servizio pubblico, tra l’altro in fascia protetta, e senza contraddittorio, possa drogare in modo così subdolo e violento le menti dei bambini, alterando fiabe da secoli patrimonio collettivo di grandi e piccoli».

Per questo ha chiesto l’intervento della commissione parlamentare di Vigilanza Rai, definendo la trasmissione «uno scandalo a luci arcobaleno». Tra le battaglie di Baldassarre c’è anche quella contro il ddl Zan, che puntava a introdurre il reato di odio omotransfobico. «Le forze di maggioranza si dimostrano ancora una volta nemiche delle famiglie italiane», ha detto Baldassarre, sostenendo che «se passasse, non solo vedremo pesantemente ridotte le nostre libertà fondamentali, ma addirittura il gender entrerà nelle scuole». 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

LA FUTURA MINISTRA. Eugenia Roccella raccontata da sé stessa. La possibile ministra contro l’eutanasia. Il Domani il 18 ottobre 2022

Fra le future ministre del governo Meloni dovrebbe esserci anche Eugenia Roccella, figlia di un radicale ma fin da giovane più in linea con le posizioni conservatrici: no all’eutanasia, no alla procreazione medicalmente assistita, no alle unioni civili e l’aborto «non è un diritto»

Fra i nomi in pole position come possibile ministra alla Famiglia c’è anche Eugenia Roccella, di Fratelli d’Italia, ma in passato membro di Forza Italia, Pdl, Nuovo centro destra, Idea e Cambiamo Italia. È già stata sottosegretaria alla salute. Dopo un debutto nel Movimento di liberazione della donna, le sue tesi sui diritti civili hanno preso una piega decisamente più conservatrice, come emerge dalle sue stesse parole.

«Quest’idea per cui la procreazione assistita sarebbe un modo per andare incontro a un desiderio naturale della donna fa parte di un armamentario esclusivamente propagandistico. È un’accentuazione retorica per giustificare la prassi, appunto della fecondazione assistita. Se uno fosse davvero preoccupato per la salute della donna dovrebbe vietare le stimolazioni ormonali tout court. La cosiddetta libertà di scelta è stata messa in discussione perché si è cominciato a capire che da libertà di scelta di “quando e se” essere madri, sta diventando sempre più una libertà di scelta sul figlio: la libertà di “chi” essere madri, attraverso la selezione genetica».

23 aprile 2005

«C’è il rischio di farsi tutti confondere o trascinare dall’onda nera, lasciandosi strumentalizzare da un moralismo interessato e intermittente, che emerge solo quando c’è di mezzo il presidente Berlusconi. Un moralismo che nulla ha a che fare con quella “imitatio Christi” a cui la Chiesa ci invita. Chiediamo a tutti di aspettare, di sospendere il giudizio, di non farsi trascinare nella facile trappola del processo mediatico e sommario al Presidente del Consiglio, e chiediamo che si rispetti una vera presunzione di innocenza nei suoi confronti, finché il percorso di accertamento dei fatti sarà completato».

24 gennaio 2011

«Io sono femminista e le femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto. L’aborto è il lato oscuro della maternità».

25 agosto 2022

«C’è un obiettivo politico: arrivare all’eutanasia come opzione facile e libera. C’è un obiettivo culturale: distruggere l’idea di intangibilità della vita. Dobbiamo decidere se vogliamo un Paese dove la morte è un diritto del singolo, a cui possiamo essere indifferenti, o se l’Italia deve restare il Paese dove il presidente della Repubblica premia la carabiniera Martina, capace di passare tre ore su un ponte, accanto a una donna che aveva già scavalcato il parapetto, convincendola a non buttarsi».

24 novembre 2021

«Per la ex segretaria generale della Cgil l’unica libertà delle donne sembra essere quella di abortire o non concepire. Camusso si preoccupa invece di togliere il diritto all’obiezione per la 194, limitando la libertà di coscienza. E parla di potenziare l’accesso alla contraccezione, compresa quella di emergenza. Ci dica come intende potenziarla: distribuzione gratuita nelle scuole?».

1 settembre 2022

«I (pretesi) diritti di alcuni includono dunque una delle peggiori forme di sfruttamento delle donne, e una violenta negazione del diritto del bambino non solo ad avere una madre e un padre, ma, se appena è possibile, la propria madre e il proprio padre».

31 gennaio 2018

«Con la sentenza sul caso di Dj Fabo si conclude l’epoca delle grandi discussioni sui temi etici, è la fine della questione antropologica. Non ci saranno più battaglie politiche, polemiche pubbliche, grandi domande sull’uomo. Tutto sarà affidato a questioni tecniche e procedurali, inizio e fine vita saranno regolati dalla burocrazia e dalla tecnoscienza, evitando inutili rovelli morali».

28 settembre 2019

«Difficile pensare che i padri della nostra repubblica, usciti dalla tragedia della seconda guerra mondiale, si siano riuniti nell'assemblea costituente per stabilire il diritto a morire. Si distruggerebbe così il principio di solidarietà che è alla base di ogni comunità, e quella che può essere solo una richiesta d'aiuto, o una sofferenza che chiede condivisione e vicinanza, diventerebbe un gelido diritto, il diritto a morire».

15 febbraio 2018

«Non si può pensare di sostenere le unioni civili, una genitorialità fai da te via utero in affitto, il diritto a morire, il divorzio breve stile Las Vegas e tutto quello che di fatto è avverso alla cultura della vita e della famiglia, e allo stesso tempo credere che solo gli aiuti economici siano sufficienti per sostenere i nuclei familiari».

19 febbraio 2018

«Ritengo che la definizione di un nuovo reato penale – l’omofobia, appunto – all’interno della legge Mancino (che fu pensata contro il razzismo) rappresenti un reale pericolo per la libertà di espressione nel nostro paese».

29 agosto 2013

«Il punto fondamentale è che questa legge non è fatta per proteggere qualcuno, ma per censurare idee e opinioni, rendendo un reato punibile affermazioni del tipo che la famiglia è quella naturale, la stessa citata dalla Costituzione come unica e vera».

3 dicembre 2013

«Il problema sono gli ormoni che bloccano la pubertà e che anche in Italia si possono prescrivere e ottenere gratuitamente, per decidere in seguito la propria identità sessuale. Senza considerare i danni, che sono già visibili nei paesi dove queste pratiche sono in uso da tempo».

12 settembre 2022

Le battaglie per unioni civili e stepchild adoption sono solo «una questione politica e ideologica, abbracciata dalle lobby gay, ma non condivise dalla maggioranza degli omosessuali. Le unioni civili gay sono sempre poche. Quando in Europa si varano leggi del genere, i risultati sono sempre molto deludenti perché la verità è che gli omosessuali che si vogliono sposare sono effettivamente pochi».

8 maggio 2017

«Penso che la legge sulle unioni civili, approvata dal governo Renzi, sia il grimaldello per la progressiva distruzione della famiglia, della genitorialità e dell’identità sessuale definita. Le unioni civili, come prevedibile, sono un flop. Servono però alla sinistra per far passare una visione dell’uomo e un modello antropologico che rifiutiamo».

20 maggio 2017

«È doveroso ricordare che la pillola Ru486 è un aborto più economico per il servizio sanitario ma più pericoloso per la salute delle donne, considerati i numerosi effetti collaterali e una mortalità più alta, come emerge dalla letteratura scientifica in materia».

24 agosto 2022 

Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 21 ottobre 2022.

Alla fine finisce a FdI: la neo-ministra, che avrà anche la delega alle Pari opportunità, è Eugenia Roccella. Sessantotto anni, portavoce del Family Day nel 2007 (quello contro i "Dico" presentati dal governo Prodi), è appena tornata in Parlamento dopo cinque anni di assenza. Col governo di Giorgia Meloni, inizia la sua terza vita in politica. Nella prima, si divide tra i Radicali e i movimenti femministi: nel 1979, alla prima candidatura per Montecitorio, racimola 292 preferenze. Non eletta. 

La seconda stagione è nel segno di Berlusconi: sull'onda del Family Day, il Popolo della Libertà nel 2008 la candida alla Camera. Listino bloccato, centra l'elezione. Durante la legislatura, riesce a strappare anche un posto di sottogoverno: sottosegretaria prima al ministero del Lavoro, poi a quello della Salute. Alle elezioni del 2013 viene ricandidata e rieletta, sempre a Montecitorio, ma al momento della scissione Berlusconi-Alfano, sceglie il delfino "senza quid". Dura poco.

Alle Politiche del 2018 torna in area centrodestra, viene candidata nel cartello centrista "Noi con l'Italia-Udc", ma manca il seggio. Comincia così l'avvicinamento a Meloni, che la riporta nel Palazzo. E ora direttamente in Consiglio dei ministri. 

Non è difficile immaginare quale sarà la sua impostazione, su tanti temi. Negli archivi resta una carrellata di dichiarazioni contro la pillola RU 486, contro le unioni civili, contro la procreazione assistita, contro il piano Lgbt+ approvato da Draghi in uno degli ultimi Cdm. Sull'aborto, l'ultima sortita è del 25 agosto: "Io sono femminista e femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto. L’aborto è il lato oscuro della maternità

Chi è Eugenia Roccella, ministra di Famiglia, Natalità e Pari opportunità del governo Meloni. Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Sessantotto anni, si definisce femminista e promette di dedicare le sue energie alla natalità, «per ridare alla maternità il prestigio e la centralità che le spettano» 

Eugenia Roccella, 68 anni, è la nuova ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari Opportunità. 

Figlia di uno dei fondatori del Partito Radicale, Franco Roccella, e della pittrice e femminista Wanda Raheli, la deputata di Fratelli d’Italia ha mosso i suoi primi passi in politica a sinistra partecipando da leader, nei primi anni ‘70, al Movimento di Liberazione della donna, diventando, tra l’altro portavoce delle battaglie per l’aborto. 

E femminista lei si definisce ancora oggi, tanto da dichiarare: «Il primo femminismo non era agganciato alla sinistra, l’idea era di un’oppressione che attraversava tutto e c’era la ricerca di una sorellanza trasversale».

I ministri del governo Meloni

Nel 1979 fu candidata alla Camera dei Deputati, senza successo, per il partito Radicale ma negli anni ‘80 si allontanò da quel mondo in dissenso con battaglie che riteneva stessero portando alla «distruzione dell’individuo», a partire dalla questione antropologica e dall’idea di «una libertà senza limiti» in cui «tutto diventa diritto anche a costo di trasformare le donne in contenitori come avviene nella maternità surrogata». 

A quel punto Roccella passa 20 anni lontana dalla politica attiva dedicandosi soprattutto alla cura dei due figli, dei genitori, di una grande famiglia di cui era il riferimento, ma rimane presente nel dibattito culturale scrivendo articoli per «l’Avvenire», «il Foglio» e «il Giornale» soprattutto sulla biopolitica e le trasformazioni introdotte dalle biotecnologie in materia di procreazione. 

Nel 2007 è portavoce insieme con Savino Pezzotta del Family Day, la manifestazione di «sostegno alla famiglia formata da un uomo e una donna» organizzata per il 12 maggio dall’associazionismo cattolico. 

Nel 2008, senza mai prendere tessere di partito, viene eletta con il Pdl e diventa sottosegretaria al Welfare e poi alla Salute. 

Dopo un breve passaggio nel Nuovo Centrodestra di Alfano, fonda insieme a Gaetano Quagliariello ed altri il movimento Identità e Azione. Nel 2018, però, non viene rieletta in Parlamento. 

Negli ultimi anni l’avvicinamento a Giorgia Meloni: «È la prima vera leader donna, che ha rischiato — ha spiegato in un’intervista —, si è messa in gioco e ha raggiunto questo traguardo con le proprie forze. Penso a lei come a un premier che sa decidere ma anche ascoltare». 

E si dice che la nuova presidente del Consiglio tenga in alta considerazione le sue opinioni. A partire da quell’idea del «materno come forza delle donne», un ruolo che racchiude in sé «competenza, cura, concretezza, attenzione, sviluppo delle reti»: quello che, per Roccella, dovrebbe essere e rappresentare la politica. 

Sicuramente da ministra della Famiglia si dedicherà molto alla questione della denatalità: «In Italia le donne non fanno più figli, ma questo sembra non preoccupare la sinistra — ha dichiarato —. Invece dovremmo chiederci se davvero il desiderio di maternità è crollato, oppure, come ha detto più volte il Papa, se la verità è che la maternità è ostacolata in mille modi. Vorrei prima di tutto occuparmi delle donne e della maternità. Penso che ci sia molto da fare per ridare alla maternità il prestigio e la centralità che le spettano e rendere alle donne molto più facile assecondare il proprio desiderio di un figlio senza fare gravose rinunce». 

Il che, per lei, non vorrebbe assolutamente dire riportare le donne al ruolo di «angeli del focolare» ma valorizzare, seguendo il «femminismo della differenza», «la potenza simbolica e vitale del materno, dalla capacità delle donne, da sempre, di fare la storia umana, quella della quotidianità, imperniata sulla cura delle relazioni». 

E, per rimanere in tema, all’inizio del prossimo anno Roccella pubblicherà per i tipi di Rubettino il libro «Una famiglia radicale» che racconta la sua storia e quella dei suoi genitori.

Eugenia Roccella, la nomina che riapre il fronte dei diritti civili. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2022.

La ministra ha tre deleghe: e, del tutto nuova, quella della Natalità. Tre deleghe che hanno spaccato in due l’opinione pubblica.

Non si può nascondere il carattere più che conservatore di Roccella, lei che per la prima volta nel 2007 organizzò il Family Day con l’intento di prendere di mira i “Dico”, precursori delle unioni civili. E poi quando le unioni civili divennero legge la neo ministra si mise in prima fila per organizzare il referendum per abolirle.

Per lei la famiglia è solo quella di una mamma e di un papà, un valore per il quale ha già promesso si impegnerà ad ogni livello. «La famiglia è troppo spesso trascurata e penalizzata», ha detto lei subito dopo aver giurato al Quirinale. E poi ha aggiunto: «Lavorerò per contrastare l’inverno demografico che rischia di sottrarre futuro e speranza al nostro Paese».

Esulta per questo Mario Adinolfi, presidente del Popolo della Famiglia: «Eugenia è una mia cara amica: le nostre battaglie sono arrivate nel cuore dello Stato. Per far ripartire la natalità bisogna cancellare la vergogna dell’uccisione del figlio nel proprio grembo materno. So che Eugenia Roccella lo farà. Nel mondo si alza un vento contro l’aborto: pensiamo a quello che è successo negli Usa». Grande preoccupazione per questo arriva da Carlo Calenda, leader di Azione: «Roccella in passato ha preso posizioni pericolose sull’aborto, speriamo che al governo non lo faccia».

A dire il vero tra le prime dichiarazioni fatte dalla neo ministra ce ne è stata una proprio sull’aborto: «Non spetta a me, ma al ministro della Salute», ha tagliato corto per dribblare i cronisti che la incalzavano. Lei in campagna elettorale aveva dichiarato apertamente: «L’aborto non è un diritto» . E ora, già prima della conferma di Adinolfi, anche le Famiglie Arcobaleno pensano che Roccella si occuperà anche di aborto. «Cancellerà tutti i diritti», dice con preoccupazione la presidente Alessia Crocini.

Preoccupatissimi tutti gli esponenti del mondo Lgbtq. La voce di Alessandro Zan, deputato dem, è diretta: «Eugenia Roccella si comporta come un’omofoba militante. Ha detto chiaramente che vuole abolire le unioni civili». aggiunge: «Tutte le dichiarazioni fatte fino ad ora fanno pensare che Roccella sia il ministro delle Impari opportunità. È la nemica di tutti i diritti». Tranciante il giudizio di Vladimir Luxuria: «Nominare Eugenia Roccella come ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità è un po’ come mettere Crudelia Demon alla presidenza della lega protezioni animali».

Ma la neo ministra per la famiglia dice di avere in testa nuove idee. Ha affermato: «È importante che la famiglia sia trattata con maggiore equità, senza scaricare sul nucleo familiare, ed in particolare sulle donne, tutto il peso del lavoro di cura, dei figli e delle persone fragili. Noi siamo pronti a mettere in campo nuove idee».

Plauso dal Forum Famiglie. «Il fatto che vi sia un ministero della natalità e della famiglia è una piccola grande vittoria», dice Luigi De Palo, il presidente. Che aggiunge: «Io durante la campagna elettorale avevo proposto che la Natalità fosse messa come delega al ministero dell’Economia. Sono sicuro però che Eugenia Roccella saprà incidere sull’inverno demografico anche se il suo ministero è senza portafoglio».

Nel 2007 Eugenia Roccella organizzò il primo Family Day per combattere i “Dico”. Poi è arrivato Massimo Gandolfini nel 2015 e nel 2016 ad organizzarne altri (e poi il Family Day divenne un soggetto strutturato»). «In quegli anni c’era il problema delle unioni civili da risolvere», dice adesso Gandolfini. Che parlando della neo ministra della Famiglia, delle Pari Opportunità e della Natalità ha soltanto parole di notevole stima. Dice, infatti: «La conosco da molti anni, e posso dire che è una grande e autorevole rappresentante del mondo pro life e pro family».

Due movimenti che l’opposizione teme molto. E se ne fa portavoce: «Se toccano i diritti l’opposzione sarà dura e non solo in Parlamento. La presenza della Roccella è preoccupante da questo punto di vista».

L’avallo di Mattarella alla scelta dei ministri: «È stato necessario procedere in fretta» Dal «Merito» alla «Natalità»: i ministeri che cambiano nome nel governo Meloni Giorgia Meloni è la prima donna premier d'Italia. La lunga ascesa della leader di FdI Fazzolari: «Questo è un governo identitario, per la destra una giornata storica»

Eugenia Roccella, la nomina che riapre il fronte dei diritti civili. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

La neoministra della Famiglia è contraria a unioni civili e interruzione di gravidanza. Esultano gli esponenti dei Family Day e i pro life, preoccupate le associazioni arcobaleno. Lei dribbla: «Di aborto si occupa il ministero della Salute» 

Eugenia Roccella, 68 anni, bolognese, è stata sottosegretaria nel Berlusconi IV

La ministra Eugenia Roccella ha tre deleghe: la Famiglia, le Pari Opportunità e, del tutto nuova, quella della Natalità. Tre deleghe che hanno spaccato in due l’opinione pubblica.

Non si può nascondere il carattere più che conservatore di Roccella, lei che per la prima volta nel 2007 organizzò il Family Day con l’intento di prendere di mira i “Dico”, precursori delle unioni civili. E poi quando le unioni civili divennero legge la neo ministra si mise in prima fila per organizzare il referendum per abolirle.

Per lei la famiglia è solo quella di una mamma e di un papà, un valore per il quale ha già promesso si impegnerà ad ogni livello. «La famiglia è troppo spesso trascurata e penalizzata», ha detto lei subito dopo aver giurato al Quirinale. E poi ha aggiunto: «Lavorerò per contrastare l’inverno demografico che rischia di sottrarre futuro e speranza al nostro Paese».

Esulta per questo Mario Adinolfi, presidente del Popolo della Famiglia: «Eugenia è una mia cara amica: le nostre battaglie sono arrivate nel cuore dello Stato. Per far ripartire la natalità bisogna cancellare la vergogna dell’uccisione del figlio nel proprio grembo materno. So che Eugenia Roccella lo farà. Nel mondo si alza un vento contro l’aborto: pensiamo a quello che è successo negli Usa». Grande preoccupazione per questo arriva da Carlo Calenda, leader di Azione: «Roccella in passato ha preso posizioni pericolose sull’aborto, speriamo che al governo non lo faccia».

A dire il vero tra le prime dichiarazioni fatte dalla neo ministra ce ne è stata una proprio sull’aborto: «Non spetta a me, ma al ministro della Salute», ha tagliato corto per dribblare i cronisti che la incalzavano. Lei in campagna elettorale aveva dichiarato apertamente: «L’aborto non è un diritto» . E ora, già prima della conferma di Adinolfi, anche le Famiglie Arcobaleno pensano che Roccella si occuperà anche di aborto. «Cancellerà tutti i diritti», dice con preoccupazione la presidente Alessia Crocini.

Preoccupatissimi tutti gli esponenti del mondo Lgbtq. La voce di Alessandro Zan, deputato dem, è diretta: «Eugenia Roccella si comporta come un’omofoba militante. Ha detto chiaramente che vuole abolire le unioni civili». Zan, primo firmatario del ddl che porta il suo nome, aggiunge: «Tutte le dichiarazioni fatte fino ad ora fanno pensare che Roccella sia il ministro delle Impari opportunità. È la nemica di tutti i diritti». Tranciante il giudizio di Vladimir Luxuria: «Nominare Eugenia Roccella come ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità è un po’ come mettere Crudelia Demon alla presidenza della lega protezioni animali».

Ma la neo ministra per la famiglia dice di avere in testa nuove idee. Ha affermato: «È importante che la famiglia sia trattata con maggiore equità, senza scaricare sul nucleo familiare, ed in particolare sulle donne, tutto il peso del lavoro di cura, dei figli e delle persone fragili. Noi siamo pronti a mettere in campo nuove idee».

Plauso dal Forum Famiglie. «Il fatto che vi sia un ministero della natalità e della famiglia è una piccola grande vittoria», dice Luigi De Palo, il presidente. Che aggiunge: «Io durante la campagna elettorale avevo proposto che la Natalità fosse messa come delega al ministero dell’Economia. Sono sicuro però che Eugenia Roccella saprà incidere sull’inverno demografico anche se il suo ministero è senza portafoglio».

Nel 2007 Eugenia Roccella organizzò il primo Family Day per combattere i “Dico”. Poi è arrivato Massimo Gandolfini nel 2015 e nel 2016 ad organizzarne altri (e poi il Family Day divenne un soggetto strutturato»). «In quegli anni c’era il problema delle unioni civili da risolvere», dice adesso Gandolfini. Che parlando della neo ministra della Famiglia, delle Pari Opportunità e della Natalità ha soltanto parole di notevole stima. Dice, infatti: «La conosco da molti anni, e posso dire che è una grande e autorevole rappresentante del mondo pro life e pro family».

Due movimenti che l’opposizione teme molto. E Carlo Calenda se ne fa portavoce: «Se toccano i diritti l’opposzione sarà dura e non solo in Parlamento. La presenza della Roccella è preoccupante da questo punto di vista».

Estratto dell’articolo di Maria Novella De Luca per “la Repubblica” il 22 ottobre 2022.

Ci sono un nome e un volto legati indelebilmente alla biografia di Eugenia Roccella, neo ministra di Famiglia, Natalità e Pari opportunità, figura di spicco del mondo prolife e teocon, nemica dichiarata di biotestamento, unioni civili, delle sentenze che abbatterono la legge 40, dalla fecondazione eterologa alla diagnosi preimpianto, della pillola abortiva Ru486, delle famiglie arcobaleno, dei diritti Lgbtq+, del reato di omofobia, del divorzio breve, del suicidio assistito e dell'eutanasia.

Insomma di tutti i diritti civili, alcuni dei quali leggi dello Stato, che hanno caratterizzato la nostra storia negli ultimi trent' anni. Il nome di Eugenia Roccella, classe 1953, figlia di uno dei fondatori del Partito Radicale, Franco Roccella, femminista negli anni Settanta, resterà legato per sempre alla feroce battaglia che da sottosegretaria al Welfare, nel quarto governo Berlusconi, portò avanti contro Beppino Englaro, il papà di Eluana, che chiedeva di far morire legalmente sua figlia in stato vegetativo da 17 anni.

Era il 2009, il Pdl, partito delle libertà, e le destre provarono a far approvare in extremis un decreto "Salva Eluana" che il presidente della Repubblica di allora, Giorgio Napolitano, rifiutò di firmare, per impedire che fosse applicata la sentenza della Cassazione secondo la quale era legittimo che a Eluana fossero interrotte idratazione e alimentazione. Eluana invece fu sedata e morì, dal suo calvario è nata, nel 2017, una delle leggi più avanzate della storia recente, ossia la legge sul fine vita.

[…] Ecco la visione di Roccella su unioni gay e divorzio breve: «Non si può pensare di sostenere le unioni civili , una genitorialità fai da te via utero in affitto, il diritto a morire, il divorzio breve stile Las Vegas e tutto quello che di fatto è avverso alla cultura della vita e della famiglia». 

Cosa farà dunque Eugenia Roccella per Famiglia, Pari opportunità e Natalità? Esiste una strategia teocon contro le culle vuote, che non sia quella di rilanciare i metodi naturali di contraccezione o pagare le donne per non abortire?

Quali saranno i sostegni di welfare che in un Paese assediato dalla povertà faranno tornare ai giovani la voglia di avere bambini? Ma soprattutto: il governo degli «italiani al primo posto », di Dio e della Patria, secondo il quale l'unica famiglia è quella formata da madre e padre, garantirà anche alle altre famiglie, monogenitoriali, omogenitoriali, immigrate, magari non cattoliche e bianche, gli stessi diritti? Per concludere: i bambini saranno tutti uguali con il governo sovranista? Speriamo di sì.

Estratto dell’articolo di Giovanna Casadio per “la Repubblica” il 22 ottobre 2022.

Non basta dire donna. Eugenia Roccella al ministero della Famiglia, Natalità e Pari opportunità è il segno della «regressione e dell'integralismo » che caratterizzano il governo Meloni. Il mondo femminista, le donne di sinistra, le associazioni Lgbtq+ preparano la trincea. 

Le opposizioni sono in allarme. Emma Bonino, storica leader radicale, ex ministra e spartiacque in Italia con le sue battaglie per la modernità e i diritti, commenta: «Roccella è perfettamente in linea con Giorgia Meloni e la sua visione politica». 

Giorgia Serughetti, femminista storica, dice: «Si è fatta chiarezza: altro che destra normalizzata! L'attacco ai diritti che temevamo non è stato un "al lupo al lupo": eccolo qui, nell'orientamento identitario e nelle politiche ispirate alla famiglia tradizionale ». E le associazioni femministe sono pronte alla piazza, in difesa della 194 e dei diritti.

[…] Ed è l'ex ministra delle Pari opportunità, la dem Barbara Pollastrini, a indicare «la restauratrice chiusura del cerchio. È vero che c'è la prima donna premier, ma le sue scelte confermano cos' è la destra». Molte associazioni, come quelle della campagna "Libera di abortire", preparano manifestazioni. Dal circolo di Cultura omosessuale Mario Mieli un duro j' accuse : «Roccella dopo il presidente della Camera Fontana è un segnale forte verso quella parte di elettorato e di Italia che si riconosce in posizioni ultracattoliche, misogine, fortemente avverse ai diritti Lgbtq+».

Anche il presidente Gaynet Dario Coco afferma: «Inspiegabile mettere Roccella alle Pari opportunità, è stata tra le firmatarie del referendum contro le unioni civili fallito nel 2016». Ivan Scalfarotto, senatore renziano, attivista Lgbtq+, twitta: «Assegnare famiglia e pari opportunità a Roccella rappresenta la volontà del nuovo governo di far regredire l'Italia sul fronte dei diritti e delle libertà delle persone. Saremo fermissimi perché si eviti qualsiasi tentazione di una deriva polacca o ungherese ». […]

Arriva il ministero della Natalità. E torna Roccella. Alla famiglia la nemica giurata di eutanasia e aborto. Ex radicale convertita al radicalismo teo-con, la sua nomina ha già scatenato polemiche. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 22 ottobre 2022.

Se le parole sono importanti l’identikit del governo Meloni è già scritto nella toponomastica dei dicasteri. C’è la “sovranità alimentare” che meglio indirizza il ministero dell’Agricoltura affidato a Francesco Lollobridiga, Fratelli d’Italia. C’è Adolfo Urso che dalla presidenza del Copasir ora passa al governo prendendo la guida del Mise: però si chiamerà ministero delle “Imprese e del Made in Italy”. E poi c’è il ministero della Famiglia, della Natalità e delle pari opportunità. Tutto insieme, e tutto nelle mani di Eugenia Maria Roccella.

Insomma, la sovranità è una bandiera nel governo Meloni: un sigillo identitario – nome e sostanza. D’altronde la nuova premier il suo credo lo aveva già espresso a chiare lettere, aprendo il programma di Fratelli d’Italia con una citazione di Giovanni Paolo II: la Famiglia è l’elemento fondante della società – si legge – e ciò che rende “una Nazione veramente sovrana e spiritualmente forte”. Famiglia e nazione, sovranismo e familismo. Con la “famiglia naturale”, dicevamo, affidata alla ministra Roccella. Che sulla scena politica ci era tornata nell’ormai lontano 2008, quando Silvio Berlusconi la candida – e risulta eletta a Montecitorio – nelle liste del Popolo della Libertà. Nel maggio dello stesso anno diventa sottosegretario al ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, per poi passare al ruolo di sottosegretario alla Salute.

Per inquadrare Roccella però bisogna riportare il nastro indietro di un anno: è nel 2007 che la “conversione” dell’ex Radicale, figlia del radicale Franco Roccella, può dirsi compiuta. Di quell’anno è il Family Day di cui è portavoce insieme a Savino Pezzotta. Nel 2006, un anno prima, scrive con Assuntina Morresi “La favola dell’aborto facile. Miti e realtà della pillola Ru486”. La pillola abortiva, per intenderci, quella che Roccella definisce con affetto “kill pill”. «Nessuno oggi mette in discussione la legge 194», argomentava allora Roccella. «L’unica cosa che conta» è «se le donne davvero decidano liberamente, o se invece l’aborto non sia spesso l’unica offerta sul mercato truccato della libera scelta». E almeno su questo, statene certi, Roccella non ha cambiato idea.

Anzi, candidata e poi eletta nelle liste di Fratelli d’Italia, in campagna elettorale ha rispolverato in grande stile gli arnesi contro la 194: «Sono femminista – ha ribadito in agosto – l’aborto non è un diritto». Femminista conservatrice, contraria anche alle “teorie gender”, alle unioni civili, alla fecondazione medicalmente assistita. E all’eutanasia. Il matrimonio – ci spiega Roccella – è il «momento cruciale che dà valore alla differenza sessuale, l’incontro di due diversi che producono la continuità delle generazioni». Ecco «la manifesta volontà del nuovo governo di far regredire l’Italia sul fronte dei diritti e delle libertà delle persone», commenta il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto. “L’inverno demografico”, direbbe il teologo belga antiabortista Michel Schooyans, si fa più lontano.

La femminista conservatrice. Chi è Eugenia Roccella, la ministra della Famiglia e Natalità del governo Meloni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Sin dal primo momento in cui Giorgia Meloni ha letto il suo nome nell’elenco dei ministri, è scattata qualche polemica. Eugenia Roccella è la nuova ministra della Famiglia e Natalità del governo Meloni. Avrà anche la delega alle parti opportunità. È stata la portavoce del Family day nel 2007, in passato si è scagliata contro la pillola abortiva, le unioni civili, la procreazione assistita e il piano Lgbt+ approvato da Draghi in uno degli ultimi Cdm. Ma il suo percorso politico si è sviluppato in tre fasi facendo di lei una sorta di “femminista conservatrice”.

Deputata, giornalista e saggista, già sottosegretaria al Welfare e alla Salute del governo Berlusconi IV, Eugenia Maria Roccella è nata a Bologna il 15 novembre 1953, figlia di uno dei fondatori del Partito Radicale, Franco Roccella, e della pittrice e femminista Wanda Raheli, trascorre l’infanzia in Sicilia, affidata ai nonni e a una zia, per poi raggiungere a Roma i genitori in età scolare. Nei primi anni Settanta, giovanissima, è stata leader del Movimento di liberazione della donna (Mld), con cui ha condotto le battaglie del movimento femminista di quel periodo storico, dal divorzio all’aborto, dalla violenza contro le donne alle pari opportunità sul lavoro.

Laureata in Lettere, si è sposata nel 1976, e ha due figli. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, nel 1979 fu candidata alla Camera dei Deputati, senza successo, per il partito Radicale ma negli anni ‘80 si allontanò da quel mondo in dissenso con battaglie che riteneva stessero portando alla “distruzione dell’individuo”, a partire dalla questione antropologica e dall’idea di “una libertà senza limiti” in cui “tutto diventa diritto anche a costo di trasformare le donne in contenitori come avviene nella maternità surrogata”.

Dopo la militanza con i Radicali, Roccella si è allontanata per vent’anni dalla politica attiva per occuparsi della famiglia. Nel 2008 viene eletta alla Camera dei deputati per la XVI Legislatura, nelle liste del Popolo della Libertà (quota Forza Italia). Alle elezioni politiche del 2013 viene rieletta a Montecitorio per la XVII Legislatura, sempre nelle liste del Pdl, anche se poi aderisce alla componente del gruppo Misto ‘Idea’. Rientra in Parlamento in questa XIX legislatura eletta al proporzionale in Calabria per Fratelli d’Italia.

Come si legge nel profilo fatto da Repubblica, Roccella si è in passato espressa contro la pillola RU 486, contro le unioni civili, contro la procreazione assistita, contro il piano Lgbt+ approvato da Draghi in uno degli ultimi Cdm. Sull’aborto, l’ultima è del 25 agosto: “Io sono femminista e femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto. L’aborto è il lato oscuro della maternità”.

Per questo motivo poco dopo la notizia della sua nomina a ministro subito sono partite le polemiche: “Assegnare famiglia e pari opportunità a Eugenia Roccella rappresenta la manifesta volontà del nuovo governo di far regredire l’Italia sul fronte dei diritti e delle libertà delle persone. Saremo fermissimi perché si eviti qualsiasi tentazione di una deriva polacca o ungherese”. Così su Twitter il senatore di Azione-Italia Viva Ivan Scalfarotto.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

(ANSA il 23 ottobre 2022) - Considera il suo un ministero "strategico per il futuro del nostro Paese". Eugenia Roccella, neo ministra alla Famiglia, Natalità e Pari opportunità, afferma in un'intervista al Qn che "il calo delle nascite in Italia è drammatico" e che "l'inverno demografico rischia di diventare un inferno demografico". "Un Paese che non fa figli", sottolinea Roccella, "è un Paese con meno capacità di innovazione, meno energia, meno speranza nel futuro, meno solidarietà tra le generazioni, l'immigrazione non basta a colmare questo vuoto".

"Avere un figlio può essere un percorso a ostacoli, qualcosa che è visto come impedimento al lavoro e alla realizzazione di sé", rileva la neo ministra. "Noi vogliamo rovesciare questa prospettiva con i fatti". Con un passato nei Radicali, Roccella replica a chi teme ora un arretramento nei diritti. 

"Nessuno ha mai parlato di togliere diritti, ma semmai di ampliarli". "Nessuno a sinistra si accorge che il vecchio slogan femminista 'maternità come libera scelta' è totalmente disatteso", prosegue, definendo le critiche delle ultime ore "attacchi puramente strumentali". Nessun cambiamento in arrivo sulla legge 194, assicura Roccella. "Le politiche sull'aborto non hanno nessun contatto con quelle per la natalità. Diminuire il numero di interruzioni di gravidanza non serve ad aumentare il numero di nati".

"Sull'aborto - prosegue la ministra - esiste una legge che nessuno ha mai messo in discussione". La legge sull'aborto "non è attaccata dalla destra, ma dalla sinistra che vorrebbe smontarla", accusa Roccella. "Si vuole arrivare all'aborto a domicilio, con la pillola Ru486, abolendo l'obiezione di coscienza e l'obbligo di legge di eseguire gli interventi in strutture pubbliche".

Il dibattito sull'interruzione di gravidanza. L’aborto non è un diritto per la ministra Roccella: “Non sarà toccato, Meloni lo ha ripetuto alla nausea”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Ottobre 2022 

Quella di Eugenia Roccella è stata la nomina più discussa del nuovo governo guidato dalla prima Presidente del Consiglio donna, Giorgia Meloni. La più discussa perché la nuova ministra per la Famiglia, la Natalità e le pari opportunità ha posizioni ultraconservatrici sulla famiglia e l’aborto. La ministra in una lettera al quotidiano La Stampa dice di non aver rinnegato proprio nulla del suo passato e ribadisce: “Giorgia Meloni ha ribadito fino alla nausea che non vuole cambiare la legge sull’aborto, e io non solo non ho nessuna volontà di farlo, ma non ne avrei nemmeno il potere, visto che dell’applicazione della legge 194 si occupa il ministero della Salute insieme alle Regioni”.

Roccella è figlia del fondatore del Partito Radicale Francesco Roccella e della pittrice femminista Wanda Raheli. Ha militato nel Movimento di Liberazione della Donna (Mld), come radicale e femminista, a favore dell’aborto libero e gratuito. A partire dagli anni Novanta si è spostata su posizioni opposte: lasciò i radicali, comincio a scrivere per il quotidiano Avvenire e divenne grande sostenitrice del Family Day. Ha scritto libri contro l’aborto e la procreazione medicalmente assistita. È stata eletta in parlamento con il Popolo della Libertà e con Fratelli d’Italia. È stata sottosegretaria al ministero della Salute.

Roccella, che ha definito l’aborto il “lato oscuro del materno” ha risposto a un commento sul quotidiano di Loredana Lipperini in cui la giornalista e scrittrice si auspicava da parte della ministra “l’onestà”. La ministra rispondeva partendo dal fatto che la scrittrice avesse trovato nella sua libreria un libro del 1975, Aborto, facciamolo da noi, della stessa Roccella. “L’articolo di Lipperini mi invita a ‘dire la verità sull’aborto’, ma delle battaglie di quegli anni nessuno ha più memoria, e se oggi si parla di aborto è solo per usarlo come arma contundente e impropria contro un governo che non è di sinistra e non è nemmeno tecnico (un peccato assai grave), e bisogna agitare lo spauracchio dell’attacco ai diritti delle donne”.

Roccella ha definito l’aborto come “un male necessario, per non essere schiacciate in un ruolo che chiudeva le donne in una gabbia di oppressione e subalternità”, qualcosa che nelle manifestazioni era vissuto non “come una rivendicazione orgogliosa, piuttosto come una disperata via di fuga, non un diritto, ma un potere iscritto nel corpo. Non è al Mld che ho imparato che l’aborto non è un diritto, ma attraverso il femminismo della differenza”.

A chiudere una riflessione: “Non mi sembra ci sia in circolazione molta reale curiosità per chi la pensa diversamente, e dietro tutta la retorica della diversità temo si nasconda solo la voglia di rimanere ben chiusi nelle proprie certezze”. La legge che in Italia consente di interrompere una gravidanza, la 194, venne approvata nel 1978. Spesso non è applicata, considerato l’alto numero di medici obiettori di coscienza e per i limiti che dipendono dalla stessa legge. Meloni ha parlato di “piena applicazione” della legge partendo dal presupposto che vuole la gravidanza non portata avanti per alcune circostanze sfavorevoli e non per una libera scelta della persona.

Il tema è stato al centro della campagna elettorale. Avevano però fatto discutere a poche ore dalle chiusure delle urne alcune iniziative. Al Consiglio regionale della Regione Liguria Fdi si era astenuto dall’ordine del giorno presentato dal Partito Democratico sull’accessibilità all’interruzione di gravidanza nelle strutture sanitarie del territorio. La quarta commissione della Regione Piemonte aveva invece approvato una delibera per istituire il “Fondo Vita Nascente”: 460mila euro, di cui 400mila per organizzazioni e associazioni pro life, per il biennio 2022-2023, per finanziare progetti per dare un sostegno economico alle donne affinché non abortiscano. Il senatore di Forza Italia Gasparri alla prima seduta a Palazzo Madama ha presentato un Ddl per modificare “l’articolo. 1 del codice civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica del concepito”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Loredana Lipperini per “La Stampa” il 24 Ottobre 2022.

Il libro si intitola “Aborto, facciamolo da noi”, edizioni Roberto Napoleone, l’anno di uscita è il 1975, il prezzo, 1500 lire. In copertina, su sfondo rosso, due mani di donna unite e aperte nel gesto femminista. Non ci sono autori, se non le due sigle di Cisa (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto) e Mld (Movimento di Liberazione della Donna). C’è una prefatrice, Adele Faccio, e, infine, c’è una curatrice, Eugenia Roccella, attuale ministra per la Famiglia, Natalità e Pari opportunità. 

Sono andata a ricercare il libro nei piani alti della libreria: sapevo di averlo perché le ragazze della mia generazione lo avevano quasi tutte, e perché parlava di anticoncezionali, di visite ginecologiche, della conoscenza di quei nostri corpi su cui, con grande sorpresa, potevamo esercitare una libertà impensata fino a quel momento.

Quel libro era anche un gesto di militanza: nella seconda parte, le militanti del Cisa illustrano come si esegue un’interruzione di gravidanza con il metodo Karman, ovvero non con raschiamento ma con aspirazione, pratica che limitava enormemente le complicazioni nei tempi in cui l’aborto era illegale, e si finiva in assai loschi studi medici a rischiare la perforazione dell’utero e a inzuppare la camicetta di sudore e dolore, visto che non si praticava anestesia.

Quel libro era dunque un libro politico: non un invito al lato oscuro del materno, come dice oggi la ministra, ma semmai il tentativo di salvare le vite delle donne che ogni martedì e giovedì alle 17 affollavano le scale di via di Torre Argentina 18, la sede del Partito radicale dove il Cisa teneva le riunioni riservando ai casi più complessi il volo charter per Londra e distribuendo fra le case delle militanti gli interventi con il Karman.

Quelle donne in lacrime che imploravano aiuto al telefono chiedevano di non morire. Ed Eugenia Roccella questo scriveva nella prefazione: di sentirsi, come femminista, sorella di «Petruzza Lo Prete, immigrata di Genova, morta perché si è infilata un ferro nell’utero nel tentativo di evitare una gravidanza non voluta». La sua lunga dedica, peraltro, include, oltre a Petruzza, Rosalba Morandi, Antonina Vitale, Elena Lauria e «tutte le donne morte per aborto clandestino». Subito sotto, Roccella estende la dedica «a Paolo VI, Fanfani, la Dc, tutti coloro che sono contro l’aborto libero, gratuito, assistito per l’aborto clandestino, di massa e di classe, magari in nome del “principio della vita” perché ci pensino su».

Oggi che entrambe abbiamo scavallato i sessant’anni, mi chiedo quanto lei ci abbia pensato su. L’ho conosciuta nel 1976, appena arrivata al Partito radicale. La chiamavamo tutti Jenny. Era la figlia di Franco, cofondatore del partito, ma era soprattutto una ragazza compunta, precisa, abilissima nello scegliere le parole giuste, non un eccesso o una trasandatezza nel vestire, una determinazione lucida in ogni intervento come segretaria del Movimento di Liberazione della Donna. 

Prima dell’occupazione dello stabile di via del Governo Vecchio, la sede Mld era appunto in via di Torre Argentina: per l’esattezza era nel piccolo corridoio che si apriva davanti all’ascensore interno, accanto alla stanza della Lega Obiettori di Coscienza e, a futura ironia, a quella del Fuori (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano). Molti anni dopo, Roccella avrebbe parlato in più occasioni dei suoi ex vicini di corridoio come di “lobby gay”.

Ora, non è che non si possa cambiare, figurarsi: la vita riserva a tutti la possibilità di capriolare, e di diventare la stessa persona che a vent’anni si è combattuta con tutte le proprie forze. Succede, e del resto una piccola parte dei vecchi femminismi, quella che troppo spesso ha confuso sorellanza con posizioni di potere, non ha aiutato a rendere limpide le acque. Però, quel che si auspicherebbe è l’onestà. Non molto tempo fa Roccella ha detto: «Le femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto». Sì, invece. E anche lei. Pagina 18 della sua introduzione: «A difendere il diritto all’aborto dobbiamo essere proprio noi femministe». Per Petruzza Lo Prete, e per tutte le altre di ogni tempo e luogo.

Lettera di Eugenia Roccelli per “La Stampa” il 24 Ottobre 2022. 

Caro direttore, Loredana Lipperini ha ritrovato nella sua libreria «Aborto, facciamolo da noi», un libro del 1975 con la prefazione di Adele Faccio, curato da me. Anch' io l'ho conservato, ma ne ho solo una copia molto sciupata. Sciupata perché all'epoca l'ho prestato cento volte, a ragazze che nulla sapevano del proprio corpo, giovani donne degli anni Settanta che cominciavano a ribellarsi alla mistica della femminilità in modo magari confuso ma coraggioso.

Era un libro politico, certo, anzi era un libro militante, firmato dal Movimento di Liberazione della Donna, di cui ero leader, e dal Cisa, l'organizzazione di Adele Faccio che aveva inaugurato la disobbedienza civile sull'aborto. Fu Adele, con il suo plateale arresto, a dare impulso alla raccolta di firme per il referendum abrogativo delle norme del Codice Rocco sulla «integrità della stirpe» promosso dai radicali. 

Oggi ben poche donne, anche tra quelle che si professano femministe o transfemministe, sanno chi era Adele Faccio, sanno delle migliaia di autodenunce raccolte dal Mld, dei digiuni di Pannella ma anche nostri; io ho digiunato 15 giorni per un obiettivo tipicamente radicale, poi raggiunto, cioè la fissazione dei tempi di discussione della legge sull'aborto in commissione. Parlavamo di diritto? Sì, lo facevamo. In realtà erano i radicali a farlo, a differenza delle femministe storiche, e spesso erano accusati di tradire lo slogan femminista («nessuna legge sul nostro corpo») chiedendo, appunto, una legge. L'articolo di Lipperini mi invita a «dire la verità sull'aborto».

Ma delle battaglie di quegli anni nessuno ha più memoria, e se oggi si parla di aborto è solo per usarlo come arma contundente e impropria contro un governo che non è di sinistra e non è nemmeno tecnico (un peccato assai grave), e bisogna agitare lo spauracchio dell'attacco ai diritti delle donne. Che questa maggioranza sia stata votata dagli italiani ha poca importanza, così come non importa che il governo sia guidato da una donna, un fatto rivoluzionario nella storia, molto maschilista, della politica italiana.

La verità è complessa, non si può ridurre a slogan, e nemmeno a semplificazioni del tipo «ha cambiato idea», o peggio, «ha rinnegato il suo passato». Non ho rinnegato proprio nulla. Anche allora l'aborto non era la nostra massima aspirazione, ma un male necessario, per non essere schiacciate in un ruolo che chiudeva le donne in una gabbia di oppressione e subalternità. Al di là del clima gioioso che c'è sempre nelle manifestazioni, l'aborto non era vissuto come una rivendicazione orgogliosa, piuttosto come una disperata via di fuga, non un diritto, ma un potere iscritto nel corpo. 

Non è al Mld che ho imparato che l'aborto non è un diritto, ma attraverso il femminismo della differenza. Leggendo per esempio una leader carismatica come Carla Lonzi, che scriveva «L'uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire». Di citazioni potrei farne tante, ma non è questo il punto.

Il punto è: si può aprire una riflessione sulla rivoluzione antropologica, su quali siano le forme del nuovo patriarcato, su quali siano oggi gli obiettivi delle donne, senza trincerarsi dietro logiche di schieramento e accuse strumentali, false e a volte offensive? Lipperini parla anche del Fuori, una delle prime associazioni gay, ma non spiega che se allora avessi ragionato di matrimonio omosessuale con loro mi avrebbero riso in faccia, accusandomi di voler normalizzare e irreggimentare la libertà sessuale, e avrebbero rilanciato scagliandosi contro il matrimonio eterosessuale, il «pezzo di carta».

Tutto è cambiato, la sinistra sostiene il liberismo procreativo, il nuovo fiorente mercato del corpo, fatto di contratti, compravendite, affitti di parti del corpo femminile; le femministe che ritengono che la fonte dell'esclusione delle donne sia il corpo sessuato sono definite con disprezzo Terf, e non c'è spazio per un pensiero irregolare. 

Giorgia Meloni ha ripetuto fino alla nausea che non vuole cambiare la legge sull'aborto, e io non solo non ho nessuna volontà di farlo, ma non ne avrei nemmeno il potere, visto che dell'applicazione della legge 194 si occupa il ministero della Salute insieme alle Regioni. La mia storia è insolita, e sulla mia famiglia, anomala e scombinata, ho scritto un libro che uscirà nei primi mesi dell'anno prossimo.

Se davvero a qualcuno importa conoscere la verità sull'aborto che Lipperini chiede, e anche cosa ha voluto dire vivere dentro una famiglia radicale, dentro il piccolo e straordinario mondo pannelliano, potrà farlo. Ma non mi sembra ci sia in circolazione molta reale curiosità per chi la pensa diversamente, e dietro tutta la retorica della diversità temo si nasconda solo la voglia di rimanere ben chiusi nelle proprie certezze.

Eugenia Roccella, perché tutti la odiano: ciò che pochissimi sanno. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 ottobre 2022

Ci hanno messo dieci secondi a individuare il presunto «ventre molle» del governo Meloni. E chi se non Eugenia Roccella, ministro della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità? Una donna, pure femminista, persino cattolica, la quale è stata subito timbrata a sinistra, da tutte le sinistre, come la figura-chiave dell'offensiva «contro i diritti civili» che senz' altro avrebbe caratterizzato la politica «identitaria» della maggioranza. 

Era venerdì sera, quando il nome della deputata romana di FdI è stato pronunciato al Quirinale, e si sono subito formati eterogenei plotoni di esecuzione. Al primo talk show utile, "Accordi&Disaccordi" sul Nove, si è esibito un quartetto che al nome di Eugenia Roccella ha intonato un madrigale in armonia così perfetta da far sembrare quello Cetra, di venerata memoria, un manipolo di dilettanti buoni per la Corrida. Marco Travaglio, Gad Lerner, Andrea Scanzi e Mauro Corona fino a un momento prima erano divisi su Putin, su Draghi e sull'uso del sapone, poi si sono ritrovati ad essere pm e giudici di un Tribunale sovietico: imputata assente, subito identificata, con un terrificante processo alle intenzioni, come «nemica del popolo».

IL RECINTO - Per costoro era insopportabile la stessa presenza fisica al governo di una signora che andava piuttosto trascinata fuori dal recinto della civiltà per aver affermato che «l'aborto non è un diritto». Il tutto con uno scatenamento verbale che non esiteremmo, se costoro non fossero tutti famosi maschi alfa, a ritenere parecchio uterino, anche se non si dice. Roccella ha chiarito che l'aborto non rientra nelle sue competenze ma in quelle del ministro della Salute. Invano. Nessuno si è sottratto tra gli sconfitti delle elezionia tirare la sua sassata. Falli di frustrazione. Colpisce in particolare il moderato Carlo Calenda. Dev' essersi sentito scavalcato dal Corriere della Sera, che aveva usato per la neo-ministro l'aggettivo ad personam di «ultraconservatrice». Ultra. Una che mena.

Il leader di Azione definisce «le parole di Roccella sui diritti pericolose». Achtung Banditen! Quali parole precisamente? Le stesse pronunciate da Norberto Bobbio e da Pier Paolo Pasolini? Poi tocca a Laura Boldrini (Pd). La quale su twitter lancia l'anatema: «I diritti delle donne sono a rischio con la destra oscurantista al governo. Roccella... daremo battaglia #opposizione». Allega un video dove Roccella dice che «l'aborto non è un diritto».

Può persino non piacere, ma non ha in nessun modo parlato di ritocchi alla 194, dove non c'è mai la formula: «diritto all'aborto». Tocca infine ad Emma Bonino definirla «reazionaria». E dice qualcosa di molto vero: fu lei, Eugenia, ad accoglierla a Roma nella sede del Partito radicale. Non riesce a negare l'intelligenza di chi le insegnò i rudimenti del metodo pannelliano. La teme. Supplica che conservi «la memoria della sua formazione». Esatto! Questa gente ha fabbricato una bambolina voodoo chiamandola Roccella, e con la menzogna pubblica trasformi per davvero nel mostro torvo che loro desiderano sia. Per mangiarla meglio. Non rivelo nulla di nuovo.

Lei non rinnega nulla dei suoi anni e della sua formazione. Anche in quel 1975, da femminista quale è ancora, sosteneva che «l'aborto non è un diritto» ma «un potere» della donna. I diritti fondamentali sono quelli esercitando i quali una persona si realizza. Solo chi crede che l'ideale dell'essere umano sia il maschio che non può portare dentro il suo corpo un bambino, può ritenere un diritto, cioè un passo verso la felicità, quello che (anche allora!) definiva un omicidio, da lei giustificato dalla proliferazione mercantile di «mammane e cucchiai d'oro».

ORA DI RELIGIONE - Cattolica integralista? Gli atei che aveva intorno lo erano. Nata nel 1953 in una famiglia atea, non aveva mai sentito parlare di Dio e di Gesù, fino a quando a nove anni il padre, che era stato tra i fondatori del partito radicale, ritenendola vaccinata, le lasciò frequentare l'ora di religione. La bambinetta scoprì il Vangelo, ne fu sconvolta. Fece in segreto la prima comunione. Radicale e femminista per educazione, ma soprattutto per la genetica dello spirito (sua madre era iper-radicale e iper-femminista), conservò la sua fede come un fatto privato, indicibile nell'ambiente. Si vergognava di credere e di pregare, sarebbe stata rifiutata. Finché in una manifestazione dell'8 marzo (1983) sua madre, che le stava accanto, stette malissimo. La figlia intese tutto questo come un segno. Non era lì la felicità, la libertà non era data per distruggerci, inseguendo il mito dell'attimo fuggente, da afferrare e godere. Per due anni assistette la madre giorno e notte, infine la seppellì. «Dopo 23 anni da quando il Vangelo mi fece trasalire, era il 1985, accettai di essere quello che ero: cattolica, non fu una conversione, ma il riconoscimento di un fatto». Ripete agli amici, e chi è in buona fede dovrebbe prendere un appunto: «Non ho rinnegato nulla, voglio la felicita per le donne. Che possano essere come Giorgia: libere di essere madri, libere di lavorare, libere di non abortire».

Eugenia Roccella: "Così la sinistra tradisce i diritti delle donne". Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 28 ottobre 2022

Le buone maniere, innanzitutto: come dobbiamo chiamare Eugenia Roccella, cui Giorgia Meloni ha affidato il ministero per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità? «Io preferisco ministra, termine che troviamo anche in Dante», risponde la diretta interessata. «Trovo abbastanza assurdo, però, che, come è accaduto nell'aula del Senato, si accusi la Meloni, la prima donna premier, di essere subalterna agli uomini perché ha scelto di farsi chiamare "il presidente". Tra l'altro, la critica è partita da chi difende la possibilità di farsi chiamare al maschile mantenendo un corpo di donna e viceversa: sono le meravigliose contraddizioni della sinistra». Repubblica la chiama «la ministra del passato». 

Per il Corriere della Sera «il timore è che la neo ministra voglia mettere mano alle norme» che difendono la comunità Lgbt dalle discriminazioni. Le femministe del collettivo "Non una di meno" la appendono su Instagram a testa in giù. E tutte queste contestazioni provengono da donne. Si aspettava che la accogliessero così?

«In parte sì, ma devo dire che mi ha stupito la violenza e la strumentalità delle accuse, fino alla menzogna più evidente. Mi è stato imputato persino di voler far nascere solo figli bianchi, cioè di essere razzista. Sorvolo sul fatto che chi appartiene a "Non una di meno" e poi ne vorrebbe almeno tre di meno (a testa in giù ci siamo io, Giorgia Meloni e Maria Rachele Ruiu) ha, diciamo così, un'idea discutibile della solidarietà femminile».

Come si spiega un simile benvenuto?

«Credo che i motivi di tanta aggressività mediatica e politica siano due. Da una parte una buona dose di vigliaccheria (colpire una donna è quasi sempre meno pericoloso che attaccare un uomo). Dall'altra il mio passato, il fatto che non corrispondo al comodo stereotipo a cui la sinistra vorrebbe inchiodare la destra, e in particolare i cattolici. Devi essere per forza omofobo, bigotto, reazionario, e se non lo sei cercano comunque di dipingerti così».

Tra l'autrice di Harry Potter, Joanne Rowling, convinta che il sesso sia determinato dalla biologia, e le femministe che la accusano di essere una «terf», cioè una «femminista radicale che esclude i trans», e dunque «transfobica», lei da che parte sta?

«Non c'è dubbio, sto con la Rowling. E l'attacco durissimo che una donna famosa come lei ha subìto fa capire la potenza di fuoco di chi, a livello internazionale, sostiene la fluidità di genere. Le donne, in tutto il mondo, sono oppresse perché hanno un corpo sessuato, in grado di dare la vita, un corpo "pericoloso", che va mantenuto sotto controllo. Basta vedere quello che sta accadendo in Iran, e chi oggi si taglia una ciocca di capelli per solidarietà simbolica con le coraggiosissime donne iraniane che sfidano il potere islamista dovrebbe capirlo».

Scegliendo lei come ministro, Giorgia Meloni sembra voler fare anche una battaglia culturale per l'affermazione di un «femminismo di destra». È un'espressione che condivide?

«Il femminismo è tendenzialmente trasversale, perché le donne non sono una classe sociale né una categoria e nemmeno una minoranza da tutelare: sono semplicemente metà dell'umanità. La sinistra però ha ritenuto di averne il monopolio, soprattutto dopo battaglie come quella sull'aborto, e non vuole perderlo. Anche se in realtà l'ha già perso, perché oggi privilegia le richieste delle associazioni Lgbt anche quando sono in netto contrasto con l'interesse delle donne».

Si riferisce al ddl Zan?

«Anche, certo. Il ddl Zan introduce il "genere percepito", come se essere donna fosse una opzione a disposizione di chiunque, a prescindere dal corpo sessuato. Questa impostazione è molto ideologica e non c'entra affatto con la questione della transizione sessuale, con i problemi, veri e gravi, di chi si sente a disagio nel corpo in cui è nato. Ma mi riferisco pure all'ambiguità della sinistra sul mercato del corpo, la compravendita degli ovociti e l'utero in affitto, su cui pochissimi, come Stefano Fassina, hanno preso una posizione nettamente contraria».

Il femminismo di destra esiste, quindi?

«Certo, anche se a volte fatica a dichiararsi tale, proprio perché il femminismo è stato per troppo tempo schiacciato a sinistra. Ma la destra è piena di donne consapevoli, capaci di protagonismo e di schierarsi a fianco delle donne, e non è certo casuale che la prima italiana che guida un governo sia di destra. Su questo a sinistra forse dovrebbero farsi qualche domanda seria, invece di lanciare accuse insensate».

Lei si occuperà della natalità. Come pensate di fare uscire l'Italia dall'inverno demografico, cioè di convincere le italiane a fare più figli?

«Non voglio affatto convincere le italiane a fare più figli: vorrei solo che fossero libere di farli. Ma libere davvero, cioè non spinte a scegliere tra la carriera e i figli, non costrette a essere "multitasking" per forza, a fare sacrifici e rinunce troppo pesanti. È grave che le famiglie siano fiscalmente penalizzate, che fare più di un figlio aumenti il rischio di povertà, ma credo che le misure di sostegno economico, assolutamente necessarie, non siano sufficienti a incoraggiare la natalità. Inoltre la coperta è corta, oggi le preoccupazioni delle famiglie riguardano in primo luogo l'aumento delle bollette e del costo della vita. Dobbiamo fare uno sforzo di creatività, pensare a misure che creino una rete di sostegno alla genitorialità, che diano valore sociale e riportino al centro la maternità. Abbiamo delle idee, cercheremo di realizzarle velocemente»

Il suo soprannome è "la sceriffa". Chi è Alessandra Locatelli, la nuova ministra della Disabilità del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Sociologa, leghista e – manco a dirlo – fedelissima di Matteo Salvini. Alessandra Locatelli è la nuova ministra della Disabilità del governo Meloni e ha già ricoperto, anche se per poco tempo, lo stesso ruolo nel governo Conte.  Vanta un passato da educatrice specializzata nella cura delle persone affette da disabilità psichica che l’ha portata a lavorare, anche come volontaria, nei centri di sostegno per persone affette da disabilità intellettiva. Nata a Como il 24 settembre 1976 milita nella Lega dal 2016 ed è laureata in Sociologia con tesi sulla carriera delle donne nella pubblica amministrazione. Già responsabile di Comunità Alloggio a Como, è stata volontaria in Africa e volontaria del soccorso. E’ entrata in parlamento nel marzo del 2018, eletta nella circoscrizione Lombardia 2, collegio plurinominale 2.

Nel 2016 viene nominata segretaria della Lega Nord di Como, dopo essere stata consigliera dal 1998 al 2006. Single e senza figli, Locatelli è entrata nelle file del Carroccio giovanissima. Nel 2017 è diventata vicesindaco a Como e assessore. E’ in quegli anni che raggiunge la visibilità per le sue posizioni contro l’accattonaggio e per alcune proposte contro clochard e senza tetto, posizioni che le valgono la nomea di “sceriffa“. Si fa conoscere anche per i suoi post, diventati virali sui social, contro le moschee, il Ramadan e naturalmente contro il lavoro svolto dalle diverse Ong. Si scaglia anche contro Carola Rackete, l’8 marzo e i venditori di mimose per strada, che ha più volte definito degli ‘accattoni‘.

È stata nominata dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, Assessore regionale famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari Opportunità nel 2021, in sostituzione di Silvia Piani. “Sono assolutamente contenta e onorata. Ringrazio Matteo Salvini per la fiducia e la Lega, non vedo l’ora di mettermi a lavorare su temi importanti, mettendo al centro persone, famiglie e fragilità e pensando alla qualità della vita di tutti, dopo anni così difficili di isolamento e sacrifici, in cui soprattutto i fragili hanno sofferto tanto” ha dichiarato la nuova ministra della Disabilità.

Ilaria Quattrone per fanpage.it il 22 ottobre 2022.

È Alessandra Locatelli, la nuova ministra per le Disabilità scelta dalla presidente del Consiglio incaricata, Giorgia Meloni. Locatelli, originaria di Como, è in forze alla Lega per Salvini. Locatelli è già stata ministra per la famiglia e le disabilità – seppur per un breve periodo – durante il Governo Conte I. 

Chi è Alessandra Locatelli, nuova ministra delle Disabilità

Originaria di Como, Locatelli ha una laurea in sociologia e ha lavorato come educatrice. È specializzata nella cura delle persone con disturbi psichici. Ha lavorato come responsabile di Comunità Alloggio a Como, centro per la cura di persone con disabilità, e per un periodo è stata volontaria in Africa. Militante della Lega Nord, negli anni, diventa una dei fedelissimi di Matteo Salvini. 

Il curriculum politico di Alessandra Locatelli

Locatelli dà il via alla sua carriera politica con l'elezione a segretaria della Lega per la sezione di Como. Nel 2017 entra in consiglio comunale e poi viene scelta come vice-sindaca. E proprio nella sua città, durante il suo incarico, le era stato affibbiato l'appellativo di "sceriffa". 

Un soprannome dovuto ai suoi durissimi attacchi contro clochard, migranti e organizzazioni non governative. Tra questi, la richiesta di chiudere il centro-migranti di Como fino all'approvazione di regolamenti comunali che vietavano l'elemosina durante le festività di Natale. O ancora il no alla concessione di spazi pubblici per chi voleva pregare durante il Ramadan.

Era stata sempre lei, attraverso un post sul suo profilo Facebook, a chiedere a tutti gli amministratori della Lega lombardi di rimuovere dagli uffici pubblici "la foto di Mattarella che non rappresenta più un garante imparziale dei cittadini". 

Prima di essere nominata nel nuovo Governo di Meloni, e dopo l'incarico di ministra durante il Governo Conte I, Locatelli nel 2021 era stata scelta dal Governatore Attilio Fontana, come assessora regionale con delega alla Famiglia, alla Solidarietà sociale, alla Disabilità e alle Pari Opportunità.  

Andrea Sparaciari per businessinsider.com il 22 ottobre 2022.

“Il Capitano” e il “Popolo lombardo”. Sono i due sconfinati amori di Alessandra Locatelli, new entry nella giunta di Attilio Fontana. Oscurato mediaticamente dall’ingombrante ritorno di Donna Letizia Brichetto Moratti, l’ingresso della “pasionaria della Lega” nella stanza dei bottoni del Pirellone rischia di dimostrarsi deflagrante.

Perché per l’ex ministro della Famiglia del primo governo Conte, nella “squadra d’eccellenza” incaricata di “riportare a Lombardia davanti a tutti” (copyright by Fontana) è stato riservato un super assessorato: Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità.

A volerla a tutti i costi in quella posizione - che controlla i rapporti col mondo del volontariato, nonché i fondi per la disabilità e quelli per le famiglie -, Matteo Salvini in persona, il grande sponsor della Locatelli. È stato infatti sotto il Capitano che la giovane leghista ha raggiunto le vette del potere: folgorata in giovanissima età da Umberto Bossi, era diventata vicesindaco e assessore alla Famiglia nel comune di Como sotto Bobo Maroni nel 2017, per poi approdare in Parlamento nel 2018 e assurgere al ministero della Famiglia, sotto il “suo” Matteo.

E quando le cose si sono messe molto male per la Lega nella regione principe, a causa di una gestione della pandemia ormai platealmente fallimentare, così come quella delle campagne vaccinali, è lei che il Capitano ha chiamato “per rimettere le cose in ordine”. E Locatelli ha risposto. Naturalmente. 

«Ringrazio Matteo Salvini e anche Fontana (ma un po’ meno, ndr)», ha esordito collegata in teleconferenza alla presentazione ufficiale della nuova giunta sabato 9 gennaio, «sono orgogliosa di questo incarico. Grazie ai Lombardi, popolo sacrificato, che ha bisogno di rinascere», ha aggiunto. Toni da vecchia Lega, di quella che ce l’ha duro, liberi dall’ingombrante sovranismo.

Del resto Locatelli è una dura, per Repubblica la cover del suo cellulare porta la scritta “Zarina Ale”. Lo ha dimostrato non tanto nel periodo romano – troppo breve la sua permanenza in carica, per poter mostrare il meglio del suo repertorio, solo quattro mesi -, quanto nelle battaglie condotte nella sua Como. 

Di lei a Roma si ricordano soprattutto per quella petizione contro il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, colpevole di non aver nominato Paolo Savona ministro dell’Economia. “Chiederemo a tutti gli amministratori della Lega in Lombardia di rimuovere immediatamente dai loro uffici pubblici la foto di Mattarella, che non rappresenta più un garante imparziale dei cittadini”, recitava il testo che fece circolare sulla sua pagina Facebook. Solo pochi mesi dopo, si presentò al cospetto dello stesso Mattarella per firmare da ministro. Naturalmente l’incidente era stato dimenticato (da lei, da molti altri no).

Dicevamo che il meglio di sé lo ha dato da assessore e vicesindaco di Como. Nel suo mirino (aveva anche la delega al “decoro urbano”) sono entrati nell’ordine: clochard, mendicanti, venditori di rose (quelli li odiava proprio, tanto da arrivare a organizzare una vera e propria retata di vigili un 8 marzo contro i pusher di mimose).

Memorabile poi fu la guerra condotta dalla “Sceriffa Locatelli” contro quella inqualificabile piaga sociale dei “finti musicisti di strada”. Una categoria a sé, che la neo assessora lombarda aveva definito come quei suonatori di strada che ricorrono a basi pre-registrate o a piccoli stereo amplificati, facendo finta di suonare. Contro i Beethoven in playback l’allora vicesindaca aveva emesso un’ordinanza ad hoc. Aveva anche imposto ad alcuni locali della città di spegnere il Wi-fi libero, perché utilizzato anche dai migranti. Quindi niente connessione gratis. Scontata invece l’avversione per islamici e Ong.

Un amore quello per Como che non si è sopito neanche nei lunghi mesi passati nella Capitale. Anche da lì Locatelli si è preoccupata delle sorti della sua città, partecipando – da remoto – a tutte le polemiche che hanno infiammato la città del Lago. L’ultima, che risale all’autunno scorso, ha visto la Locatelli duellare con l’intero mondo del volontariato comasco, sempre a causa dei clochard. 

Motivo del contendere, un dormitorio che il comune saldamente in mano al centrodestra vorrebbe aprire per i senzatetto, in base a una delibera approvata nel luglio del 2019, grazie a una maggioranza trasversale che comprendeva Forza Italia e persino Fratelli D’Italia. L’unico partito contrario? La Lega. La neo assessora lombarda non solo si è scagliata contro l’ipotesi di concedere un rifugio ai disgraziati, ma ha rilanciato proponendo di circondare i portici della ex chiesa di San Francesco dove i senza tetto di rifugiano per dormire, con una cancellata.

«Garantire la sicurezza dei nostri cittadini è un dovere. Chi oggi a Como continua a parlare di nuovi dormitori solo perché fa più notizia – aveva detto la Locatelli lo scorso ottobre  – e vota contro la proposta della Lega di mettere cancelli davanti a chiese, palazzi e portici, dimentica che, anche attraverso questi semplici ausili, è possibile limitare il degrado e garantire il decoro della città».

Alla Locatelli rispose in quell’occasione l’associazione Civitas di Como, che si occupa di accoglienza, ricordando come l’ex assessore fosse riuscita a non spendere neppure un euro dei fondi stanziati prima del suo arrivo in carica per i progetti sociali: «Nulla di quanto messo a disposizione per la marginalità a Como è frutto del suo lavoro. Tutto esisteva da prima che lei assumesse l’incarico ai servizi sociali ed è frutto dell’impegno dell’intelligenza e delle capacità di coloro che l’hanno preceduta. Due anni non le sono bastati per utilizzare gli 840 mila euro ereditati da chi l’ha preceduta per far fronte all’emergenza sociale dei senza dimora», scriveva l’associazione in una nota.

«In due anni si è persa nel nulla la presenza del comune di Como nel progetto (ereditato e finanziato) di giustizia riparativa per ridurre i conflitti sociali (1,5 milioni di euro) – prosegue Civitas – A lei si deve imputare il ritardo colpevole nella messa a punto della ricognizione degli alloggi disponibili per l’assegnazione ai nostri concittadini. A lei va attribuita la responsabilità della costituzione di un’inutile e onerosa Azienda speciale dei servizi sociali che, solo per il fatto di esistere, sottrae ogni anno centinaia di migliaia di euro ogni anno alle persone cui sarebbero destinati».

Una piccola storia che però illustra chiaramente quale sarà l’orientamento della nuova giunta di Attilio Fontana nei confronti degli stranieri e degli ultimi. Il Popolo lombardo è avvisato.

Ex presidente del Senato. Chi è Maria Elisabetta Alberti Casellati ministro delle Riforme del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Nata a Rovigo nel 1946, Maria Elisabetta Alberti Casellati guiderà il ministero delle Riforme del governo Meloni, dopo essere stata – nella scorsa legislatura – presidente del Senato, prima donna ad essere stata eletta alla seconda carica dello Stato. Figlia di un partigiano e di una maestra elementare, Alberti Casellati si è laureata in Giurisprudenza all’Università di Ferrara e specializzata in diritto canonico nella Pontificia Università Lateranense. Ha esercitato a lungo come matrimonialista a Padova (ha seguito il divorzio del regista Gabriele Muccino) ed è sposata con Gianbattista Casellati, anche lui avvocato.

Ha aderito a Forza Italia sin dalla fondazione del partito di Silvio Berlusconi ed è stata eletta al Senato della Repubblica nel 1994, nel 2006 e nel 2018. Presidente della commissione Sanità del Senato nella XII legislatura, è stata presidente della commissione per le Questioni regionali e della commissione pari opportunità nella XIV, nel corso della quale ha ricoperto, dal 2004 al 2006, l’incarico di sottosegretario alla Salute. Per due volte ha ricoperto la carica di sottosegretaria di Stato ed è stata membro del Consiglio superiore della magistratura (Csm).

Tra il 2008 e il 2011, è diventata sottosegretaria alla Giustizia nel governo Berlusconi, di cui è stata strenua difensora durante gli anni delle polemiche per le inchieste giudiziarie del ‘caso Ruby‘, vicenda nella quale Casellati ha sempre preso le difese del Cavaliere. Il 28 gennaio 2022, durante le votazioni per eleggere il presidente della Repubblica, è stata indicata come candidata dal centrodestra; al quinto scrutinio, tuttavia, il suo nominativo non raggiunse il quorum di preferenze.

Maria Elisabetta Alberti Casellati e Giambattista Casellati hanno due figli: Ludovica, avvocato proprio come mamma e papà e Alvise Casellati che è diventato un direttore d’orchestra. Casellati è anche dama di Gran Croce di grazia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, e da sempre condanna la violenza femminile. In passato si è più volte dichiarata favorevole alla castrazione chimica per gli stupratori e si è opposta fermamente alla ‘legge Cirinnà‘ che regolamenta le unioni civili. Si è definita più volte “moderata, europeista convinta, atlantista, cattolica conservatrice e attaccata ai valori tradizionali“.

Le peripezie di Tajani agli Esteri: rinnega Berlusconi e cede la delega al commercio. Vicepremier e titolare della Farnesina, ma per il coordinatore di Forza Italia il vero obiettivo è Palazzo Chigi. Però adesso si complica la gestione del partito con Licia Ronzulli ferita per l’esclusione dal governo: che farà l’ex monarchico quando il capo Silvio vorrà rovesciare il tavolo? Carlo Tecce su L'Espresso il 21 Ottobre 2022

Una semplice avvertenza per i suoi colleghi di governo. Non ci fate caso se Antonio Tajani guarderà troppo spesso a sinistra e cioè al vicino di posto in Consiglio dei ministri. Per intenderci, la presidente Giorgia Meloni. Per l’oltremodo ambizioso Tajani il ministero degli Esteri è soltanto una tappa di avvicinamento a Palazzo Chigi, destinazione che ritiene naturale per la sua carriera e caratura internazionale di berlusconiano a lungo espatriato.

Siccome è pur sempre il coordinatore nazionale (non internazionale) di Forza Italia, i discorsi sconclusionati del capo Silvio su Vladimir Putin e la guerra in Ucraina lo stavano per tramortire. Così l’ex monarchico Tajani ha allestito un compromesso: ha abiurato le eresie di Berlusconi col solenne giuramento per l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica e ha ceduto la contesa delega per il commercio estero al meloniano Adolfo Urso, che dunque la riporta allo Sviluppo Economico. Un cartellino giallo, e via in campo.

La soddisfazione politica s’è consumata, la longevità politica è incerta o comunque pencolante. Tajani si è impadronito di Forza Italia assieme a Licia Ronzulli e assieme hanno covato un percepibile risentimento nei confronti di Mario Draghi che non li aveva coinvolti nel governo né mai davvero considerati (il suo interlocutore era Gianni Letta). A inclinare i rapporti, però, ci si mette una differenza sostanziale: Tajani è vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Ronzulli ha patito il veto di Meloni e affila le armi nella trincea di capogruppo forzista al Senato. E se vogliamo fare un passaggio raffinato in una politica abbastanza rozza, si può notare che il titolare della Farnesina pratica la politica estera teorizzata e interpretata dal presidente del Consiglio. Nonostante le comiche azioni riparatorie del Caimano dopo la diffusione del suo intervento ai deputati, è evidente che sulla guerra in Ucraina le posizioni di Berlusconi e Meloni non siano coincidenti, ma quelle di Meloni e Tajani lo devono essere tassativamente. In sintesi: Ronzulli è l’unica reduce, l’ultima berlusconiana in purezza.

In principio Tajani ha spostato le sue truppe – i parlamentari Paolo Barelli, Francesco Battistoni, Raffaele Nevi eccetera – sul fronte leghista per circondare Fratelli d’Italia e diventare il riferimento incontrastato del centrodestra. Adesso è costretto a rivedere i suoi piani di resistenza e attacco perché potrebbe finire come Di Maio e promuovere una scissione di Forza Italia per restare al governo non appena Berlusconi si stufa di Meloni e ribalta il governo. È ancora presto per rompere. Ci sono gli strumenti per addolcire gli scontenti. Per esempio potrebbe accogliere alla Farnesina diplomatici vicini a Forza Italia, come Bruno Archi, caro al capo Silvio e anche a Letta, possibile capo di gabinetto.

Ex presidente del Parlamento Europeo. Chi è Antonio Tajani, il ministro degli Esteri e vicepremier del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Vicepremier e titolare della Farnesina, ma a chi lo conosce bene è sicuro che sia solo una tappa di avvicinamento a quello che è il suo vero obiettivo: Palazzo Chigi. Il coordinatore di Forza Italia succede al dicastero a Luigi Di Maio sotto il segno della prima donna presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni. Come riporta il suo blog personale, è nato il 4 agosto del 1953 a Roma. Il padre era ufficiale dell’esercito, la madre insegnate di latino e greco. Si è laureato in Giurisprudenza all’università La Sapienza di Roma, e ha prestato servizio nell’Aeronautica militare. È sposato e ha due figli. Tajani si è occupato di politica fin dalla gioventù: da ragazzo è stato infatti un militante del Fronte Monarchico giovanile, in cui ha ricoperto anche la caricati di vicesegretario. Nel 1980 è diventato giornalista, ricoprendo tra i vari incarichi anche quello di inviato in Libano e nell’Urss per radio Rai.

Nel 1994, con l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, Tajani è uno dei fondatori di Forza Italia diventando da quell’anno e fino al 2005 coordinatore del partito nel Lazio. Con la nascita del governo Berlusconi I, diventa portavoce del presidente del Consiglio. È però sul fronte internazionale che Antonio Tajani occupa le posizioni più importanti nella sua carriera politica: nel 1994 è eletto eurodeputato al Parlamento europeo, posizione che ricoprirà fino al 2008 e poi ancora dal 2014 e fino al 12 ottobre di quest’anno. Nel 2008 entra a far parte della Commissione europea presieduta da José Manuel Barroso, occupando le cariche di commissario per i Trasporti e vicepresidente della Commissione. Nel 2010 passa poi all’incarico per l’Industria e l’imprenditoria, mantenendo la carica di vicepresidente.

All’inizio della nuova legislatura del Parlamento europeo nel 2014, Antonio Tajani diventa vicepresidente dell’Assemblea. Due anni e mezzo più tardi, nel gennaio del 2017, viene eletto dall’Aula Presidente del Parlamento europeo: manterrà la carica fino al 3 luglio del 2019, succeduto dal compianto David Sassoli. A seguito della fine del suo mandato come Presidente, Antonio Tajani diventa vicepresidente del Partito Popolare europeo, il più consistente dal punto di vista numerico nell’Assemblea. Nel frattempo assume anche l’incarico di vicepresidente e coordinatore unico di Forza Italia nel luglio del 2018.

A seguito delle elezioni politiche del 25 settembre, che vedono un’ampia affermazione della coalizione di centrodestra, Antonio Tajani è eletto per la prima volta deputato in Italia. Dopo l’elezione lascia il seggio al Parlamento europeo e la carica di vicepresidente del Ppe. Indicato più volte dalle indiscrezioni come possibile ministro degli Esteri del nuovo governo, a fronte dell’ampia esperienza maturata in campo europeo, Tajani ha visto traballare la sua candidatura a causa delle parole rubate al presidente Berlusconi negli ormai famosi audio pubblicati da LaPresse. Supera comunque la crisi e oggi succede al dicastero presidiato da Luigi Di Maio.

COME NASCE UN MINISTRO TECNICO. Chi è Matteo Piantedosi, il capo di gabinetto dei porti chiusi verso il Viminale. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 18 ottobre 2022

Salvini sostiene che hanno scritto insieme i decreti sicurezza. Durante il blocco della nave Diciotti, ha detto che c’era «un allarme generico» per cui non era stato consentito lo sbarco di migranti. Dopo l’assalto alla Cgil ha detto che non si aspettava quella partecipazione

Il curriculum di Matteo Piantedosi, il prefetto di Roma che si avvia a diventare ministro dell’Interno designato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni con l’assenso del segretario della Lega Matteo Salvini, si intreccia alla storia recente delle pagine di destra della politica italiana.

Lui il capo di gabinetto di Salvini quando era ministro dell’Interno. Lui il prefetto di Roma che è rimasto stupito dall’assalto alla Cgil guidato dai leader del partito neofascista Forza Nuova. Pronto a ricoprire la carica della ministra tecnica uscente, Luciana Lamorgese, con una nuova variante tecnico-politica, visto che Salvini ricorda che «i decreti sicurezza» per bloccare la navi delle Ong e gli sbarchi dei migranti «li abbiamo scritti insieme».

IL CAPO DI GABINETTO

Nato a Napoli il 20 aprile 1963, Piantedosi è sposato e ha due figlie, come si legge sul sito del ministero dell’Interno. Laureato in Giurisprudenza e abilitato all’esercizio della professione forense, è entrato nell’amministrazione civile dell’Interno nell’aprile 1989 ed è stato assegnato alla prefettura di Bologna.

Nel 2009 si è spostato per la prima volta a Roma: è stato chiamato al ministero dell’Interno a dirigere l’Ufficio relazioni parlamentari presso l’Ufficio affari legislativi e relazioni parlamentari. Il ministro era il leghista Roberto Maroni.

Nel 2011 gli è stato affidato l’incarico di capo gabinetto del capo dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie.

Nominato prefetto il 3 agosto 2011, con l’avvento del governo tecnico è stato destinato a Lodi. Una breve convivenza con Lorenzo Guerini, il ministro uscente della Difesa dem allora sindaco, poi nel gennaio 2012 Piantedosi è tornato al ministero. 

La ministra del governo Monti, Annamaria Cancellieri, lo ha nominato vice capo di gabinetto del ministro dell’Interno e, dal giugno 2012, vice capo di gabinetto vicario. Il 16 novembre 2012, il consiglio dei ministri lo ha chiamato a ricoprire il ruolo di vice direttore generale della pubblica sicurezza per l’attività di coordinamento e pianificazione delle forze di polizia.

Negli anni Piantedosi ha avuto responsabilità di diversi fondi del ministero dell’Interno, per poi tornare prefetto di Bologna a cavallo tra il 2017 e il 2018. La decisione l’ha presa il ministro dell’Interno Pd Marco Minniti. La lontananza è stata breve. Con l’arrivo del governo “gialloverde”, l’11 giugno 2018 Piantedosi ha fatto un salto di carriera ed è stato nominato capo di gabinetto del ministro dell’Interno Salvini. Ormai Roma è la sua casa, e dal 17 agosto 2020, su indicazione della ministra Lamorgese, Piantedosi è diventato prefetto di Roma.

LE NAVI BLOCCATE

La collaborazione con Salvini rende il suo nome noto alle cronache nel periodo dei “porti chiusi”. Il primo caso che lo vede coprotagonista è quello della nave Diciotti. Dal 20 al 25 agosto del 2018, Salvini blocca lo sbarco di 177 migranti dalla nave della guardia costiera a Catania. Il 22 agosto, vengono fatti scendere 29 minori, mentre bisogna arrivare fino al 25 per lo sbarco degli altri.

Il prefetto riferì che c’era un «allarme generalizzato» sulla possibile infiltrazione di soggetti radicalizzati in Italia attraverso i barconi: nel caso della nave Diciotti non c’era un «allarme specifico», ma «il modello di comportamento» del Viminale teneva conto del pericolo: «C’è il tema di proteggere le frontiere» aveva detto ai magistrati di Catania, era riportato nel verbale secretato risalente al 12 novembre di quell’anno. Nessun pericolo tuttavia venne mai verificato.

Il caso zero delle indagini su Salvini. Per la Diciotti, dopo la dichiarazione di incompetenza territoriale del tribunale palermitano, gli atti passarono a Catania che chiese l’autorizzazione a procedere al Senato. A salvare l’ex ministro fu il no dei parlamentari. Seguiranno altri blocchi. I più celebri, i casi Open Arms e Gregoretti.

Nel luglio del 2019 venne ritardato lo sbarco di 131 migranti dalla nave Gregoretti, ancora una volta della Guardia costiera italiana, nel porto di Augusta, nel siracusano. Salvini finirà imputato, ma il gup Nunzio Sarpietro nel 2021 ha deciso l’archiviazione.

Sempre nel 2019 in piena crisi di governo, Salvini nega ancora una volta il permesso di attracco alla ong spagnola Open Arms, costringendo i 164 migranti che erano a bordo a restare a largo di Lampedusa. La procura di Agrigento, invocando un’emergenza sanitaria in corso, sequestrò poi l’imbarcazione facendoli scendere a terra. Oggi l’allora ministro dell’Interno è imputato presso il tribunale di Palermo per questi atti.

L’ASSALTO ALLA CGIL

Nelle cronache il nome di Piantedosi passa in secondo piano per un po’, quando a un certo punto, a fine 2021, torna in occasione dell’assalto alla Cgil del 9 ottobre. Oltre 1.500 manifestanti guidati dai leader del partito neofascista Forza nuova irrompono nella sede del sindacato. Gli imputati sono più di 20, di cui sei già condannati per devastazione e saccheggio.

La ministra dell’Interno, Lamorgese, viene chiamata in parlamento a renderne conto, l’allora leader dell’opposizione Giorgia Meloni evoca in aula la “strategia della tensione” che avrebbe permesso ai manifestanti di sfondare porte e rompere i mobili. Uno stile che per l’Anpi ricorda il ventennio fascista, mentre Meloni dichiarò di non conoscerne la matrice.

«Solo nelle ultime ore prima dell’evento (...) è stato possibile rilevare un livello della partecipazione non solo quantitativamente molto elevato, ma pure caratterizzato dalla variegata composizione dell’adesione alla manifestazione», ha precisato poche ore dopo i fatti il prefetto Matteo Piantedosi che presiede il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza. 

A un anno di distanza, l’ascesa di Piantedosi non si ferma, benedetta da Meloni e Salvini. «Non nego che mi piacerebbe continuare a fare il ministro degli Interni – ha detto il leader della Lega su Rete 4 –. Perché un tecnico? Detto questo Piantedosi ha fatto il ministro (capo di gabinetto, ndr) con me, i decreti sicurezza li abbiamo scritti insieme...». Per Salvini Piantedosi è «uno dei servitori dello stato migliori che io conosca».

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Già capo gabinetto di Salvini. Chi è Matteo Piantedosi, il nuovo ministro dell’Interno del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Di tutti i nomi che erano rientrati nel toto-ministri per il governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni quello di Matteo Piantedosi è stato tra i più ricorrenti e tra i più quotati. È il nuovo ministro dell’Interno. Prefetto di Roma, in quota Lega, sarebbe stato preso in considerazione dal primo momento per il lavoro considerato dagli alleati eccellente ai tempi del governo Conte 1, quando ha ricoperto il ruolo di capo di gabinetto dell’allora vice primo ministro e ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Piantedosi è nato a Napoli il 20 aprile del 1963. Laureato in Giurisprudenza e abilitato all’esercizio della professione forense, è entrato nell’amministrazione civile dell’Interno nell’aprile 1989, assegnato alla prefettura di Bologna. Dal 2009 ha diretto l’Ufficio relazioni parlamentari presso l’Ufficio affari legislativi e relazioni parlamentari del ministero dell’Interno all’epoca guidato dal leghista Roberto Maroni. È diventato capo gabinetto del capo dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie nel 2011.

È stato nominato prefetto il 3 agosto 2011, destinato a Lodi. Dal 2012 è tornato al ministero e nominato dalla ministra del governo Monti, Annamaria Cancellieri, vice capo di gabinetto dell’Interno e vice capo di gabinetto vicario. Dal novembre dello stesso anno è stato nominato dal governo vice direttore generale della pubblica sicurezza per l’attività di coordinamento e pianificazione delle forze di polizia. È stato prefetto di Bologna tra il 2017 e il 2018.

Con l’insediamento del governo gialloverde, Lega e Movimento 5 Stelle, è stato nominato capo di gabinetto del ministro dell’interno: è il periodo dei “porti chiusi”, della nave Diciotti, di Open Arms e della Gregoretti. Su indicazione della ministra Luciana Lamorgese dall’agosto 2020 è prefetto di Roma. Piantedosi è sposato e ha due figlie.

Da open.online il 21 ottobre 2022.

«I decreti sicurezza? Li abbiamo scritti insieme». Così Matteo Salvini presentava Matteo Piantedosi, capo di gabinetto del leader della Lega al Viminale e ora destinato a ricoprire la carica di ministro dell’Interno che fu del segretario di via Bellerio. Campano di nascita, 59 anni, sposato con due figlie, si è laureato in Giurisprudenza a Bologna ed è qui che ha iniziato la sua carriera, come capo di gabinetto nella prefettura. Negli ultimi dieci anni ha ricoperto numerosi incarichi ministeriali, guidati da partiti diversi.

Nel 2011 è stato nominato prefetto di Lodi, ma già nel 2009 è stato chiamato dal ministero dell’Interno per dirigere l’Ufficio relazioni parlamentari, per poi diventare capo di gabinetto del capo dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie. Nel 2012 è tornato al ministero e, sotto il governo Monti, ha ricevuto l’incarico di vice capo di gabinetto al Viminale guidato da Annamaria Cancellieri. È poi diventato vice capo di gabinetto vicario e nel 2012 vice direttore generale della pubblica sicurezza per l’attività di coordinamento e pianificazione delle forze di polizia. 

A cavallo tra il 2017 e il 2018 è tornato a Bologna come prefetto, su indicazione del ministro del partito democratico Marco Minniti, e l’11 giugno 2018 è diventato capo di gabinetto del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una collaborazione apprezzata dal leader della Lega, che ne ha sottolineato l’importante ruolo nella stesura dei decreti sicurezza. Negli anni del suo gabinetto ha affrontato anche la crisi dei «porti chiusi». Da agosto 2020 è prefetto della Capitale e ora è destinato a sostituire la ministra Luciana Lamorgese al Viminale. 

Chi è Matteo Piantedosi, il ministro dell’Interno del governo Meloni. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022 

Il nuovo ministro dell’Interno è il «tecnico» Matteo Piantedosi, prefetto della Capitale ed ex capo di gabinetto di Salvini al Viminale nel 2018, carica che ha mantenuto anche con Luciana Lamorgese fino al 2020 

La dote che tutti gli riconoscono è la capacità di mantenere freddezza anche nelle situazioni più complicate. E soprattutto la determinazione nel difendere le proprie scelte, pure di fronte a contestazioni e accuse. Come lo scorso anno, quando di fronte alle polemiche per i festeggiamenti sull’autobus scoperto della Nazionale di calcio agli Europei, che aveva attraversato Roma creando assembramenti in piena pandemia Matteo Piantedosi, prefetto di Roma , affermò: «C’erano accordi diversi, la Figc ha violato i patti».

I ministri del governo Meloni

Appassionato di ciclismo e di Pino Daniele, lettore di Gabriel García Márquez, Alberto Savinio («Uomini di pensiero tornano alla bicicletta») e Nietzsche, dopo trentatré anni trascorsi nei ruoli del ministero dell’Interno Piantedosi entra nella stanza più importante e prestigiosa al secondo piano del palazzo del Viminale. È il secondo prefetto di fila a occupare quella poltrona dopo Luciana Lamorgese, ministro dal 2019. Una continuità per certi versi anomala, che segna la difficoltà dei partiti a trovare l’accordo per restituire a un politico di professione uno degli incarichi governativi più delicati: quello di garantire e “governare” la sicurezza degli italiani.

Nato a Napoli nel 1963, sposato con Paola Berardino - di un anno più giovane e attuale prefetto di Grosseto, figlia del prefetto Francesco Berardino che nel 1996 arrivò a guidare il Cesis, l’organismo che allora coordinava l’attività dei servizi segreti - Piantedosi ha due figlie. Ha cominciato la sua carriera nella prefettura di Bologna, dove ha ricoperto l’incarico di capo di gabinetto e, dal 2007, vice-prefetto.

Nel 2009 arriva al Viminale, come direttore dell’Ufficio Relazioni parlamentari presso gli Affari legislativi. Nel 2011 la nomina a prefetto, prima sede Lodi, ma l’anno seguente torna nel palazzo romano come vice-capo di Gabinetto del Ministro, e successivamente vicario. A fine 2012 un altro salto in avanti: vice-capo della polizia, con delega sul coordinamento e la pianificazione, e poi responsabile di vari Piani nazionali legati alla sicurezza, la legalità e i fondi europei per le frontiere esterne. Nel 2017 torna a Bologna come prefetto, ma un anno dopo il ministro dell’Interno Matteo Salvini lo richiama a Roma come capo di Gabinetto, carica che mantiene anche con la ministra Luciana Lamorgese nel 2019 e fino al 2020, quando viene nominato prefetto di Roma. Da lì ritorna al Viminale come ministro, quasi a coronamento della carriera.

Da quando il suo nome è cominciato a circolare come alternativa a quello di Matteo Salvini (per il quale è stata giudicata inopportuna una nuova nomina per via del processo in corso a Palermo nel quale l’ex ministro è accusato di sequestro di persona per il mancato sbarco dei migranti dalla nave Open Arms nell’estate 2019), il nome di Piantedosi è stato considerato in «quota leghista», ma si tratta di una semplificazione che stride con la realtà; non fosse altro per il fatto di essere rimasto al fianco della ministra Lamorgese, con lo stesso incarico, anche durante il governo Draghi. Nei procedimenti giudiziari contro Salvini per la gestione dei migranti è stato inizialmente inquisito anche lui, salvo poi essere archiviato perché la decisione contestata dalla magistratura è stata valutata di esclusiva competenza del ministro.

Anche quando ha lavorato al fianco dell’ultimo inquilino “politico” del Viminale, per l’appunto Salvini, Piantedosi ha mantenuto in pieno il ruolo di tecnico, fornendo gli strumenti e la competenza necessari a mettere in pratica gli indirizzi politici del ministro. Ora invece toccheranno a lui entrambi i ruoli, di tecnico e di politico. 

Piantedosi, l'esperto della macchina Viminale. Quei decreti sicurezza scritti insieme a Salvini. La Cancellieri lo volle vicecapo di gabinetto: "È uno che risolve i problemi". Rigoroso e freddo, ha lavorato con il Capitano ma anche con la Lamorgese. Massimo Malpica il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Una sorta di tarantiniano «mister Wolf». Uno che «risolve problemi», e che soprattutto «non li crea». La definizione del nuovo ministro dell'Interno, il 59enne Matteo Piantedosi, irpino nato a Napoli, è di Anna Maria Cancellieri, quando entrambi erano in servizio a Bologna, lei commissario straordinario e lui viceprefetto vicario. E quando lei diventa ministro dell'Interno col governo Monti, chiama Piantedosi come vicecapo di Gabinetto. E al Viminale Piantedosi tornerà poi, dopo essere stato vice capo della Polizia, come capo di gabinetto e alter-ego di Matteo Salvini, un ruolo che ricoprirà, per un po', anche quando ministro dell'Interno diventerà Luciana Lamorgese.

Ora, al Viminale, comanda lui, dopo l'esperienza da prefetto di Roma: ministro dell'Interno nel nuovo governo Meloni. Tecnico, ma graditissimo alla Lega di Salvini, che pure non ha mai nascosto l'ambizione di ottenere lui quell'incarico. Ma di fatto cambia poco, tra i due Matteo, anche se uno è campano, l'altro lombardo. Uno un politico appariscente e social, l'altro un servitore dello Stato amante del basso profilo. Nei fatti, Piantedosi ha già guidato quel dicastero nel governo giallo-verde, come una sorta di ministro ombra, al fianco di Salvini: il primo radicato negli uffici del Viminale per tenere ferma a dritta, da tecnico, la barra del programma di governo su sicurezza, immigrazione, sbarchi; il secondo impegnato a dettare quella linea e a promuovere il «nuovo corso» sul fronte politico, anche a colpi di selfie e fuori dal ministero.

La controprova si è avuta all'epoca della linea dura sugli sbarchi. Voluta dal governo Conte e da Salvini e condivisa dal capo di gabinetto. Che tra estate 2018 e primavera 2019 si ritrova indagato per lo stop allo sbarco della Diciotti e poi per il no opposto alla Alan Kurdi della Sea Eye. Ma i guai giudiziari non lo sfiorano. Imperturbabile e freddo di carattere, non si scompone. Difende gli input mandati dal Viminale per stoppare gli sbarchi, non si smarca dalla catena di comando, si dice «sereno, tranquillo, determinato», pronto a rifare tutto, non scarica sul ministro. La sua posizione viene archiviata, ma quel frangente finisce per rafforzare il suo legame con Salvini.

Come ovviamente anche la condivisione della linea da tenere su sbarchi, immigrazione e sicurezza. Anche da prefetto della Capitale, negli ultimi anni, ha mostrato che il suo credo è la legalità: è di pochi giorni fa lo sgombero di case popolari a Ostia occupate da esponenti del clan Spada, un gesto per «liberare le periferie dalla morsa della criminalità», come riporta la nota della prefettura che ha ritwittato. Non stupisce, insomma, che oggi Salvini plauda alla sua scelta e ricordi: «Abbiamo scritto insieme i decreti sicurezza sui porti chiusi». Un «tecnico leghista», insomma, un profilo moderato e istituzionale che assicura al Carroccio, e alla Meloni, la piena condivisione del programma del nuovo governo sul contrasto all'immigrazione clandestina, al terrorismo e alla criminalità, e la sua declinazione entro binari tecnicamente e istituzionalmente corretti. E poi, se sulla chiusura dei porti e sulla linea dura come la pensa Piantedosi lo sappiamo già, va anche detto che il blocco navale proposto dalla Meloni e «ammorbidito» nel quadro di una missione navale Ue interverrebbe a monte, bloccando le partenze, non gli arrivi, direttamente dai Paesi d'origine.

IL RITRATTO. Chi è Carlo Nordio, il ministro della Giustizia del governo Meloni. GIULIA MERLO su Il Domani il 20 ottobre 2022 Aggiornato, 21 ottobre 2022

Di lui si ricordano soprattutto le posizioni di minoranza: depenalizzazione di molti reati, la necessità di una legge sul suicidio assistito, il ritorno all’immunità parlamentare e la discrezionalità dell’azione penale. Con il rischio dell’eterogenesi dei fini: che per la destra Nordio diventi subito una spina nel fianco, ora che Nordio è a via Arenula

Del carattere veneto ha la giovialità. Carlo Nordio l’ha mantenuta anche durante i durissimi scontri con i colleghi della procura di Milano, a cavallo di Tangentopoli. Magistrato fuori dagli schemi correntizi, è stato presenzialista in tv e loquace sulla carta stampata, ma anche sempre pronto ad andare contro l’opinione dominante, tanto da inimicarsi equamente sia una parte della magistratura che i politici sui quali ha indagato.

Nato nel 1947 a Treviso, laureato in Giurisprudenza a Padova nel 1970 e dal 1977 procuratore a Venezia, la sua vita professionale si è svolta in un triangolo di 80 chilometri quadrati che oggi è diventato il suo collegio elettorale. Il Veneto, infatti, rimane la terra della seconda vita di Nordio: quella in politica, da capolista di Fratelli d’Italia alla Camera nel collegio plurinominale Veneto 1 – che comprende per l’appunto Treviso, Padova e Venezia – e nell’uninominale che corrisponde a Treviso.

La sua candidatura non ha stupito, come non stupisce che Fratelli d’Italia lo voglia al ministero della Giustizia. Tra i pochi magistrati apertamente di destra – anche se lui ha sempre preferito definirsi liberale ed elenca nel suo pantheon Immanuel Kant, William Shakespeare e Winston Churchill – non si è mai sottratto a incarichi politici come, ad esempio, la presidenza della fallita commissione Castelli per la riforma del codice penale. Né ha fatto mistero di guardare alla politica una volta smessa la toga. Chi lo conosce lo avrebbe collocato nell’alveo di Forza Italia, ma il tramonto del berlusconismo non avrebbe potuto offrirgli un collegio sicuro. Fratelli d’Italia invece gli ha permesso di conquistare il ministero della Giustizia.

LA VITA IN PROCURA

Silenziosamente c’è chi si interroga: non sarà troppo indipendente per un partito così rigorosamente gerarchico? Nel foro veneziano, notoriamente non tenero con la controparte in magistratura, lo descrivono come «un magistrato anche troppo libero. Uno che non ha mai sgomitato, ma che nello stesso tempo si notava». Non troppo diverso il controcanto tra le toghe: divisivo sì, ma tutti riconoscono che «non era una carrierista».

Nei suoi quarant’anni di magistratura di cui buona parte vissuti sotto i riflettori Nordio ha legato la sua carriera a una città – Venezia – rinunciando a incarichi direttivi. Fino a 65 anni è rimasto sostituto procuratore, è diventato aggiunto solo nel 2009 e ha gestito la procura veneziana come facente funzioni nell’anno del pensionamento, nel 2017, prima della nomina del nuovo capo. «Mettermi a dirigere un ufficio sarebbe stato come mettere un pilota da guerra dietro una scrivania. A me piaceva fare i processi», dice lui.

Eppure, una delle malignità di procura è che Nordio non sia mai stato uno stakanovista e che la luce del suo ufficio alle 17 fosse spesso spenta. Voci che Nordio quasi conferma: «Sono del parere che un magistrato non debba mai lavorare troppo. Sa quanti magistrati stanchi ho visto commettere errori tremendi? Meglio prendersi del tempo, piuttosto che fare danni». Del resto, non ha mai vissuto la magistratura come una missione o un sacerdozio e, al momento della pensione, ha consigliato ai giovani colleghi: «Leggete qualche libro in più e qualche saggio giuridico in meno».

LE INCHIESTE

La carriera di Nordio è legata a due grandi inchieste, che hanno colpito una a sinistra e l’altra a destra. La prima, nel 1993, ha riguardato le cosiddette “coop rosse”. In realtà l’indagine per finanziamento illecito nasceva a carico dei vertici veneti del Psi e della Democrazia cristiana, con le condanne di Gianni De Michelis e Carlo Bernini, e solo dopo si è allargata anche ai comunisti. Partendo dai fallimenti di alcune cooperative agricole venete, Nordio aveva ipotizzato che il meccanismo fosse di creare coop agricole per ottenere finanziamenti pubblici, dirottare il denaro al partito e poi farle fallire.

Nordio si è mosso con grande clamore mediatico: ha sequestrato i bilanci delle feste dell’Unità delle sette federazioni del Pds veneto e l’operazione è stata ribattezzata “Braciola pulita”, perchè si indagavano le spese per polenta, vino merlot, salsicce e bigoli.

Specularmente, a Milano, lavorava sulla stessa traccia Titti Parenti, la magistrata che nel 1994 lascerà il pool e la toga per candidarsi con Forza Italia. L’uomo chiave è Alberto Fontana, dirigente regionale delle coop venete, che poi è stato condannato a tre anni e otto mesi. Ma a fare più scalpore sono gli avvisi di garanzia a Massimo D’Alema, appena diventato premier, Achille Occhetto e Bettino Craxi. I tre vengono sentiti a Roma e D’Alema liquida l’inchiesta in modo caustico: «È stato un momento importante del dibattito sul surrealismo».

Intanto, il Pds attaccava furiosamente Nordio, accusandolo di aver costruito un teorema sul “non potevano non sapere”. Alla fine, tutto si è sgonfiato ed è finito in rivoli secondari. È stato Nordio stesso a chiedere l’archiviazione per i vertici del Pds, scrivendo che «è inaccettabile l’assioma che chi stava al vertice non potesse non sapere». Lo strascico finale è stato da commedia all’italiana: agli imputati non è stata mai comunicata l’archiviazione e, nel 2006, D’Alema e Occhetto hanno chiesto un risarcimento per ingiusto ritardo.

L’altra grande inchiesta a cui è legato il nome di Nordio è quella sul Mose, il progetto architettonico per proteggere Venezia dall’alta marea. L’indagine del 2014 ha portato a 35 arresti e i domiciliari per l’allora sindaco della città, Giorgio Orsoni (poi assolto). Giancarlo Galan, che per 15 anni era stato presidente della regione Veneto in quota Forza Italia, ha scontato due anni ed è stato condannato al risarcimento di 5,8 milioni di euro. L’inchiesta ha decapitato i vertici politici veneti e rinverdito il filone dei processi per corruzione.

Eppure, quella che Nordio ricorda con più orgoglio è una delle sue prime inchieste. Aveva 35 anni e indagava sulle sulle Brigate rosse, azzerando la colonna veneta: tutti i brigatisti condannati e poi pentiti. «Giravo scortato e armato, ricevevo lettere con la stella a cinque punte ma ricordo che sentivo che erano in gioco lo stato e la democrazia», dice.

GLI SCONTRI

Mai avaro di dichiarazioni pubbliche, il vero terreno di scontro tra Nordio e i colleghi, in particolare la procura di Milano, è stato il dibattito su Tangentopoli e la sua eredità culturale. Sul piano processuale la guerra tra lui e Paolo Ielo è arrivata fin davanti al Csm.

Milano aveva intercettato Craxi al telefono con il suo avvocato, Salvatore Lo Giudice, che gli diceva che Nordio era un giudice fidato. Ielo aveva avvertito Nordio che era stato tirato in ballo e poi una fuga di notizie aveva portato l’intercettazione sui giornali: Nordio aveva difeso l’avvocato Lo Giudice, sostenendo che l’intercettazione era illegittima perché violava il divieto di ascolto dei colloqui tra legale e assistito, e aveva attaccato l’operato di Milano, che così rischiava di sabotare la sua indagine sulle coop.

Milano si era difesa, sostenendo di non sapere che Lo Giudice fosse un avvocato e che l’intercettazione era stata mandata a Nordio per tutelarlo da illazioni. Lo scontro era finito al centro del dibattito pubblico e poi a palazzo dei Marescialli, che aveva archiviato ma senza mai risolvere l’inimicizia tra le due procure. Su quello culturale, Nordio si è scontratp soprattutto con Antonio Di Pietro quando ha proposto di chiudere la stagione di Mani pulite con una frase: «Chi vuole l’amnistia la paghi». Ovvero, la possibilità per gli imputati di evitare il carcere confessando il reato commesso e pagando ai danni.

IL GARANTISMO

La sua cifra di oggi è quella del garantismo, ma l’etichetta non gli è stata sempre propria. Negli anni di Tangentopoli è stato tra quelli che hanno utilizzato in modo diffuso la custodia cautelare in carcere e ha firmato un documento insieme ad altri 200 magistrati contro le norme che restringevano la possibilità di disporla.

Solo anni dopo ha ammesso: «Anche io ho fatto i miei bravi arresti e i miei bravi errori giudiziari». A trent’anni di distanza, Nordio fissa il momento della svolta con un suicidio: un maestro di Treviso, da lui arrestato e poi scarcerato, che un mese dopo si è suicidato. «Mi portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate».

Non a caso lui, magistrato di destra, su questi temi ha scritto il libro “In attesa di giustizia”, a doppia firma con l’avvocato di sinistra Giuliano Pisapia. Un altro volume lo ha dedicato a “Calogero Mannino e alle altre vittime di errori giudiziari”. Di lui si ricordano soprattutto le posizioni di minoranza, che ribadisce anche ora che corre in un seggio blindato per il partito dato per vincente: depenalizzazione di molti reati, la necessità di una legge sul suicidio assistito, il ritorno all’immunità parlamentare e la discrezionalità dell’azione penale. Con il rischio dell’eterogenesi dei fini che per la destra Nordio diventi subito più una spina nel fianco che un vantaggio strategico. E che proprio questo gli precluda via Arenula.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Nordio, sfida su codici e carriere dei magistrati. Il ministro: "Quello penale fu scritto dal Duce..." Il suo faro: garantismo e processi più veloci. Anna Maria Greco il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Sarà perché è un neofita della politica, sarà perché non ha intenzione di nascondersi, ma all'uscita dal Quirinale dopo il giuramento del governo Carlo Nordio finisce subito in bocca ai giornalisti. Il nuovo Guardasigilli, neodeputato di Fdi e magistrato in pensione che dovrà rimettere in riga gli ex colleghi, ha il piano d'azione davanti e sembra pronto a metterlo in atto. Senza problemi, nella sua prima dichiarazione, fa riferimento a Mussolini e alla Resistenza, che per un esponente del primo governo guidato da una leader di destra già oggetto di critiche in proposito, sono sempre argomenti scivolosi. Poi annuncia il provvedimento-bandiera per la giustizia della coalizione fin dalla sua nascita, la separazione delle carriere, ma lo subordina a quelli d'emergenza per velocizzare i processi.

«Le mie idee chiare sono quelle che avete letto nei miei libri», dice Nordio. È Giustizia ultimo atto il titolo del suo libro più recente e, ora che l'autore è al vertice del ministero di via Arenula, suona come l'avviso che una svolta è imminente.

Nordio è in un ruolo molto delicato, per la storia dell'Italia negli ultimi decenni che ha spaccato il Paese in garantisti e giustizialisti. Un ruolo che Forza Italia fino all'ultimo ha cercato di ottenere, per Elisabetta Casellati, perché è il partito che più s'identifica con questa battaglia. Giorgia Meloni ha voluto che il suo candidato incontrasse Silvio Berlusconi e così è stato pochi giorni fa a Villa Grande, per tranquillizzarlo sull'unità d'intenti.

Dunque Nordio spiega ai giornalisti il suo programma, cominciando dall'attuazione del codice di procedura penale di Giuliano Vassalli, «firmato da una medaglia d'argento della Resistenza». È quello che prevede una parità di posizioni tra accusa e difesa, in un processo sul modello americano, quindi per il neo Guardasigilli porta con sé la separazione delle carriere, che «è nel nostro programma». Di questo, dice, «sono molto convinto perché fa parte del metodo Vassalli». Poi serve la revisione del codice penale «firmato da Mussolini, di cui però nessuno parla».

Nordio è stato procuratore aggiunto a Venezia, per tanti anni ha vissuto dentro i problemi quotidiani della giustizia e a questo punto dice che prima di tutto bisogna riavviare la macchina giudiziaria. «A breve la prima emergenza è quella economica, bisogna intervenire in quella parte della giustizia per velocizzare i tempi così da aiutare l'economia, semplificando le procedure e identificando bene le competenze, facendo anche la spending review per spendere al meglio le risorse». Con i piedi per terra e non troppo condizionato dall'ideologia, sottolinea che queste sono «riforme urgenti e meno divisive verso la politica e la magistratura» e che «in questo momento è importante concentrarsi sul pratico, integrando gli organici, velocizzando i processi, rendendo la giustizia più efficiente perché questi ritardi ci costano il 2% del Pil».

Quanto a Marta Cartabia, Nordio spiega che avrà un incontro con chi l'ha preceduto a via Arenula. «Andava nella direzione giusta - dice- naturalmente aveva dei limiti, perché le leggi le fa il Parlamento e lei era limitata da un maggioranza composita e giustizialista. Oggi abbiamo delle idee molto diverse, anche perché la velocizzazione della giustizia passa per una forte depenalizzazione dei reati, eliminare questo pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelati dalla legge penale».

Chi è Carlo Nordio, il ministro della Giustizia del governo Meloni. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Il magistrato Carlo Nordio ha assunto l’incarico di ministro della Giustizia nel governo guidato da Giorgia Meloni. L’idea di ripristinare l’immunità parlamentare e il sostegno alla separazione tra giudici e pubblici ministeri 

Voleva fare il chirurgo , «ma sono patofobico e ipersensibile alle sofferenze fisiche altrui, sarei stato un pessimo medico». Oppure il direttore d’orchestra , «ma ho sospeso lo studio del violino ai tempi dell’esame di maturità». A quel punto, circondato com’era da avvocati in famiglia (padre, fratello, nipote e suocero), scelse di studiare Giurisprudenza, ma presto capì che sarebbe stato più libero facendo il magistrato: un difensore, nell’interesse dell’assistito, può trovarsi a sostenere tesi di cui non è convinto, un pubblico ministero o un giudice no.

Il ministro del governo Meloni

Fu così che Carlo Nordio, nato a Treviso nel 1947, decise di indossare la toga dell’accusatore; dopo quarant’anni di carriera è approdato alla pubblicistica, e da ultimo alla politica : deputato eletto nelle file di Fratelli d’Italia e ora ministro della Giustizia. Scelto personalmente dalla neo-premier, che ha sfidato le resistenze dell’alleato Silvio Berlusconi, deciso a indicare lui il nome per quella poltrona. Eppure, in materia di giustizia, Nordio esprime posizioni molto vicine a quelle di Forza Italia, persino più che a ad ex missini e leghisti.

Tant’è che quando, in campagna elettorale, s’è riparlato della sua idea di ripristinare l’immunità parlamentare, dentro Lega e FdI s’è registrato un certo imbarazzo. Tuttavia il pensiero dell’ex pm è ribadito nel suo ultimo libro «Giustizia ultimo atto. Da tangentopoli al crollo della magistratura», uscito a inizio 2022 da cui sono tratte le citazioni di questo articolo.

Il ritorno all’immunità parlamentare non è nell’agenda di governo, però resta il giudizio del neo-Guardasigilli sulla «subordinazione codarda della politica davanti alla magistratura e la strumentalizzazione delle inchieste per eliminare attraverso i tribunali, la stampa e le piazze gli avversari che non si riescono a battere nelle urne». Agli albori della cosiddetta Seconda Repubblica, ricorda Nordio, ci provarono con Berlusconi, e quella «irresistibile tentazione si è ripetuta venticinque anni dopo nei confronti di Matteo Salvini». Il processo in corso a Palermo contro il leader leghista per la vicenda Open Arms (e non anche contro l’allora premier Giuseppe Conte) resta per lui un «pasticcio inverosimile». 

Sulle riforme da fare, il centro-destra è compatto nel perseguire la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, di cui l’ex magistrato è un convinto sostenitore, con annessa risposta a chi paventa un pm sotto il controllo del governo: «Non se ne vede la consequenzialità logica, può benissimo restare autonomo e indipendente, diventando quello che dovrebbe essere, cioè l’avvocato dell’accusa». L’obbligatorietà dell’azione penale, sancita dalla Costituzione come garanzia dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, «di fatto si è convertita in un intollerabile arbitrio»; e l’utilizzo delle intercettazioni rese pubbliche attraverso «un sistema di diffusione selezionata e pilotata, è una porcheria indegna di un Paese civile».

Rispetto all’idea che ai tempi di Tangentopoli i suoi ex colleghi abbiano riservato «un trattamento di favore al partito comunista, concentrandosi in modo particolarmente accanito su Craxi prima e Berlusconi poi», Carlo Nordio ritiene che «c’è sicuramente un fondo di verità: ne fanno fede il numero spropositato di indagini nei confronti del cavaliere, e il loro esito quasi sempre inconcludente». In quella stagione, quando era sostituto procuratore a Venezia, proprio a Nordio capitò di indagare sulle cosiddette «tangenti rosse». Tra gli inquisiti anche i leader dell’ex Pci divenuto Pds, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, per i quali l’ex pm chiese l’archiviazione. Il giudice decise però che il fascicolo andava trasmesso a Roma per competenza, cosa che avvenne con molto ritardo perché Nordio pensava che l’invio spettasse al giudice, e viceversa. Nella capitale l’inchiesta finì in archivio: per i suoi detrattori fu un flop, ma il neo-ministro rivendica che «i finanziamenti occulti al Pci erano stati dimostrati oltre ogni dubbio, e infatti la gran parte degli indagati sarebbe poi stata rinviata a giudizio e avrebbe patteggiato la pena». 

Destino delle sue indagini a parte (famose quelle sulle Br in Veneto e sui lavori per il Mose di Venezia), dell’ex pm si ricordano anche i rapporti non sempre distesi con il Consiglio superiore della magistratura e con l’Associazione nazionale magistrati, che procedette a una convocazione davanti ai probiviri alla quale Nordio si sottrasse contestando «i metodi staliniani». E resta il suo giudizio sulla necessità di riformare nel profondo la Costituzione italiana: «Non c’è nessun reato di lesa maestà e nessuna nostalgia autoritaria nel sostenere che è venerabile ma irreversibilmente malata, meritevole di una sepoltura onorata e pacifica».

Chi è Carlo Nordio, nuovo ministro alla Giustizia. Rifiutò il "non poteva non sapere" di Tangentopoli. Il nuovo Guardasigilli è stato magistrato per 40 anni. Si è occupato di Brigate rosse, sequestri, Tangentopoli e scandalo per il Mose. Per aver detto, in un'intervista, che in un determinato periodo tutti i partiti venivano finanziati in modo illegale e clandestino, fu chiamato a giustificarsi davanti dai probiviri dell'Anm. Orlando Sacchelli il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il nuovo ministro della Giustizia è Carlo Nordio, 75 anni, ex magistrato, eletto alla Camera il 25 settembre con un record di preferenze (56,4%) in un collegio uninominale del Veneto, in quota Fratelli d'Italia. Nei suoi quarant'anni con la toga si trovò ad affrontare questioni spinose, dalle indagini sulle Br ai sequestri di persona, dalle inchieste sulle cooperative rosse durante Tangentopoli, allo scandalo per il Mose a Venezia, che portò all'arresto di 35 persone.

Convinto garantista, Nordio si è sempre occupato dei temi legati alla sua professione, scrivendo libri e articoli su diversi quotidiani e intervenendo in tv. Fautore della separazione delle carriere in magistratura, è stato uno degli esponenti di spicco del Comitato per il sì nei recenti referendum per la Giustizia.

"La prima cosa da fare - ha detto dopo essere stato eletto al Parlamento - è accelerare i processi, che hanno tra l’altro un forte impatto sull’economia, che ci costa due punti di Pil. In questo momento l’aspetto più importante, ancora più della separazione delle carriere, del Csm è l’impatto che sull’economia può avere la giustizia".

Rifiutò il "non poteva non sapere"

Nell'indagine sulle Coop rosse cercò di scavare a fondo sul sistema con cui il più grande partito della sinistra, il Pci-Pds, si finanziava illecitamente. Nei confronti di Massimo D'Alema, tuttavia, chiese l'archivazione, rifiutando di applicare la formuletta "non poteva non sapere" di cui il pool di Milano, invece, aveva fatto largo uso contro Craxi e non solo. "La magistratura ha usato una mano pesantissima - disse in un'intervista a Tempi -. Io sono stato uno dei primi ad ammettere che, qualche volta, eravamo intervenuti anche troppo pesantemente per far parlare gli arrestati. Ma è stato così perché abbiamo scoperto l’inferno. Abbiamo aperto il pentolone e visto una realtà devastante. Tutto era stato 'tangentato', da tutti. Poi era facile scoprirne alcuni e più difficile con altri, però questo era il sistema".

"L'Anm mi convocò a Roma"

Nel 1997 la giunta dell’Associazione nazionale magistrati, guidata da Elena Paciotti, lo convoca a Roma per un’audizione davanti ai probiviri. Questo il racconto che Nordio affidò al Corriere della sera nel 2008: "Mi chiamarono a causa delle interviste in cui avevo detto che la politica non era poi così corrotta come sembrava perché in Italia solo in un determinato periodo tutti i partiti, e sottolineo tutti, venivano finanziati in modo illegale e clandestino...".

"Questione morale? Espressione impropria"

Parole a dir poco sorprendenti, per quei tempi, visto che la sinistra ex comunista da anni marciava con la tesi che solo alcuni partiti si fossero sporcati con le tangenti. Nordio proseguì il racconto con questa riflessione: "Avendo indagato a fondo sul vecchio Pci posso dire che l’espressione 'questione morale' è impropria, ambigua. Perché è stata usata da un partito che non aveva nessuna legittimazione a dare lezioni di moralità tenuto conto che il Pci veniva finanziato dall’Urss, ovvero da un Paese nemico. In senso strettamente politico, si può dire che neanche Berlinguer avesse la patente di moralità visto che i soldi al partito arrivavano dall’Unione Sovietica. Non esistevano partiti peggiori e partiti migliori: in questo senso Craxi aveva ragione". Dalle Botteghe Oscure non la presero bene. "Quel magistrato adotta metodi fascisti", disse l'onorevole Pietro Folena. Quanto alle richiesta di archiviazione per D’Alema e Occhetto, chiarì: "Lo rifarei anche oggi perché il principio secondo il quale il segretario del partito 'non poteva non sapere', per me, è un principio incivile. E poi non si può addebitare ai dirigenti il finanziamento illecito: lo stesso Di Pietro, che oggi sulla polemica tra procure difende l’indifendibile, da pm trovò il miliardo arrivato a Botteghe Oscure ma poi non riuscì a trovare a chi era andata la valigetta... La responsabilità penale è personale". A farsi "interrogare" dall'Anm Nordio non andò mai. In un'interviata concessa al Tg1 disse: "Io a Roma non ci vengo neanche dipinto perché è un metodo stalinista". La querelle finì lì.

L'invasione della magistratura nella politica

"La magistratura ha occupato un vuoto di potere che già si era manifestato chiaramente - dichiarò nell'intervista a Tempi citata sopra -. Quel vuoto raggiunse il suo momento più evidente, con la subalternità se non con la viltà della politica, proprio con quei due decreti che furono entrambi ritirati. Nel secondo caso, i “quattro cavalieri” del pool andarono in tv e proclamarono: 'Questo decreto non ha da passare, altrimenti ci dimettiamo'. Lì iniziò la frana della politica. Perché la sua reazione fu: 'È un’invasione di campo intollerabile, un colpo di Stato delle toghe'. Ma il decreto venne ritirato. Una politica seria avrebbe dovuto fare il contrario, e rispondere così: 'Voi siete quattro pm che vanno in televisione a chiedere un atto politico, cioè il ritiro di un decreto. Primo: non potreste farlo se foste giudici, ma poiché siete pm noi vi riconosciamo il diritto di farlo e quindi da domani separiamo le carriere. Secondo: avete annunciato che ve ne andrete se il vostro appello non sarà accolto. Benissimo, noi manteniamo il decreto, voi fate quel che volete'. Invece è successo il contrario: la politica ha protestato, come certi cagnolini, ma poi si è tirata indietro. Le dighe si sono rotte e i magistrati hanno capito che potevano fare quello che volevano. E lì è iniziata anche la loro discesa in campo in politica, come non era mai accaduto".

Numerosi impegni collaterali

Nordio è stato consulente della Commissione parlamentare per il terrorismo, presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale e coordinatore della Commissione di studio di Palazzo Chigi e del Ministero per gli affari regionali sullo status degli amministratori locali. Editorialista dei quotidiani il Messaggero e Gazzettino, fa parte del Cda della Fondazione Venezia, della Fondazione Einaudi e del Comitato bioetico della USL2 Treviso. Nel 2018 e 2019 è stato presidente della giuria del premio letterario Campiello. Dal 5 dicembre 2018 è componente del consiglio di amministrazione della Fondazione Luigi Einaudi Onlus.

I libri scritti da Nordio

Giustizia (Guerini e Associati 1997); Emergenza Giustizia (Guerini e Associati 1999); Crainquebille di Anatole France (Liberilibri 2002); In attesa di giustizia (Guerini e Associati 2010); Operazione Grifone (2014); Overlord (2016); La stagione dell’indulgenza (Guerini e Associati 2019) Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura (Guerini e Associati 2022).

Nordio guardasigilli, inizia un’altra storia (garantista) per la giustizia. È dunque l’ex procuratore aggiunto di Venezia il titolare del dicastero di via Arenula. Con lui finisce definitivamente in archivio la lunga stagione iniziata con Mani pulite. E pur tra le difficoltà di una crisi che non lascerà molto spazio alle grandi riforme, si apre la strada verso il passaggio a una cultura liberale del diritto. Errico Novi e Valentina Stella su Il Dubbio il 21 ottobre 2022.

Inizia un’altra storia. Un’altra possibile giustizia. Carlo Nordio non è solo un nome forte, un guardasigilli dal tratto dirompente. È anche la fine di un’epoca e l’inizio di una fase completamente diversa. È l’addio a Mani pulite e la possibilità di una svolta garantista.

Nordio dunque si aggiudica la sfida con Maria Elisabetta Alberti Casellati: un magistrato, un pm, ha avuto la meglio su un’avvocata che aveva già conquistato la presidenza di Palazzo Madama, e che sarà comunque a propria volta nel nuovo governo come ministra per le Riforme.

Ma il neo deputato di Fratelli d’Italia, che per anni, con libri e articoli di giornale, ha infierito sulle contraddizioni della magistratura dall’interno dello stesso ordine giudiziario, avrà il compito forse più difficile nel nuovo esecutivo: rappresentare non una leadership o un’ambizione personali ma un progetto autonomo. In uno sforzo di equilibrio da far tremare le vene ai polsi.

Nordio succede a Marta Cartabia, con la quale si è comunque aperta una fase nuova per il processo e l’esecuzione penale, e che è stata promotrice del più ricco e articolato pacchetto di riforme della giustizia dal dopoguerra. Al successore tocca un capolavoro: proporre una storica virata garantista per il processo (che la guardasigilli uscente ha dovuto lasciare a metà), per il penale innanzitutto, ma senza infrangere il sottilissimo equilibrio che serve a Meloni per evitare il naufragio.

In un quadro internazionale pesantissimo, in una crisi già segnata dallo stigma della recessione e che mette la prima premier donna d’Italia di fronte all’incubo dell’asfissia energetica, il nuovo titolare di via Arenula dovrà sì tenere sul tavolo anche la giustizia, ma senza farne motivo di conflitti.

Quali riforme saranno accessibili a Nordio

Tradotto in altre parole, a quali dossier Nordio potrà mettere davvero mano? Può contare su una convergenza almeno parziale fra il partito con cui è diventato parlamentare, FdI, e gli altri della coalizione: tutti sono d’accordo non solo sull’ambiziosa separazione delle carriere ma anche sul più immediatamente realizzabile divieto d’appello per i pm.

Il rilancio della legge Pecorella troverebbe il terreno parzialmente arato dalla Commissione Lattanzi, che nel suggerire la riforma penale a Cartabia aveva ribadito come tra il diritto dell’imputato ad appellare e quello speculare del pm c’è un abisso a favore del primo.

Sul piano delle grandi sfide di principio, Nordio potrebbe partire da lì. Ma poi, fin dal primo minuto in cui prenderà possesso della scrivania che fu di Togliatti, l’ex magistrato dovrà impegnarsi in un lavoro assai meno appetibile per i titoloni dei giornali: l’accelerazione vera sui tempi dei processi. Dovrà partire dalle norme appena introdotte con i decreti attuativi di Cartabia sul civile e sul penale, e implementarli con straordinari investimenti e misure organizzative.

Non ultime quelle reclamate per esempio dalla magistratura lombarda che, come segnalato ieri dal Corriere della Sera, è la prima chiedersi come poter coniugare i nuovi poteri del gup previsti dalla riforma e la cronica carenza d’organico che quelle sezioni dei tribunali soffrono in tutta Italia.

E ancora, sul reclutamento Nordio avrà subito occasione di costruire un rapporto forte con l’avvocatura. Perché anche al congresso forense di Lecce, la presidente del Cnf Maria Masi e diverse altre voci della professione hanno ricordato la possibilità di introdurre un accesso diretto in magistratura per gli avvocati con un determinato grado di anzianità professionale e l’abilitazione al patrocinio nella giurisdizioni superiori.

Una rivoluzione che non riguarderebbe il penale ma l’ordinamento. E che, come l’inappellabilità delle assoluzioni, potrebbe non piacere ai magistrati. Ma che pure potrà dare la misura di quel sottile equilibrio di cui Nordio dovrà saper mantenere fra coraggio di cambiare e distanza dai conflitti.

Nordio, biografia breve di un pm fuori dagli schemi

L’ex procuratore aggiunto di Venezia nasce a Treviso il 6 febbraio 1947. È in magistratura dal 1977. Tra le indagini più importanti che ha condotto, quelle sulle Br, sulla Tangentopoli veneta, sulle coop rosse, sui sequestri di persona. Nella città lagunare è stato coordinatore delle inchieste sui reati economici, bancari, finanziari e tributari: l’indagine più rilevante resta senz’altro quella sul Mose.

Presidente della Commissione per la riforma del codice penale (2002-2006) durante il governo Berlusconi, quando a via Arenula c’era Roberto Castelli.

Si iscrive alla Gioventù liberale nel 1963, per poi stracciare la tessera quando fa il suo esordio in magistratura. Nella sua vita dice di aver cambiato spesso idea ma mai sulla sua cultura liberale. La sua ultima battaglia è stata quella per una “giustizia giusta”, in qualità di presidente del Comitato per il Sì ai referendum promossi da Lega e Partito Radicale.

Nordio nel 1997 inizia anche la sua attività di scrittore, pubblicando diversi testi in tema di giustizia, «tutti orientati ad una svolta liberale sia del diritto penale che di quello processuale». Da sottolineare la sua traduzione dal francese e il suo commento a “Crainquebille” di Anatole France, «una riflessione amara sulla fallibilità dei processi attraverso la vicenda grottescamente banale di un povero Cristo», si legge nella quarta di copertina.

Essendo anche un appassionato di storia, in particolare della seconda guerra mondiale, ha pubblicato per Mondadori “Operazione Grifone” e “Overlord”.

Tra i suoi hobby e quelli della moglie Maria Pia Manuel fino a poco fa c’erano due cavalli, morti purtroppo durante la pandemia. Continua però a praticare il nuoto, onnivoro di libri – filosofia, religione, arte, politica –  e ovviamente letteratura. Preferisce quella francese, specialmente Pascal e Voltaire, anche se al vertice mette l’inglese Shakespeare.

A suo giudizio, «un magistrato che opera nel penale deve avere due virtù: umiltà e buon senso. Queste qualità si imparano soltanto attraverso la conoscenza dei nostri limiti e difetti. La cultura generale e soprattutto i grandi classici ti ridimensionano sempre, quando assumi posizioni di potere, ad esempio quando da magistrato devi decidere se mandare in carcere una persona».

Amante anche della musica classica, oscilla tra Bach e Beethoven. Da editorialista ha scritto per Il Messaggero e Il Gazzettino di Venezia.

Il Guardasigilli. Chi è Carlo Nordio, il nuovo ministro della Giustizia del governo Meloni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Carlo Nordio è il ministro della Giustizia del governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Dopo giorni in cui la sua nomina, data per certa da tempo, era stata messa in discussione – era spuntato il nome della Presidente del Senato uscente Maria Elisabetta Alberti Casellati – la conferma è arrivata dalla premier che questo pomeriggio ha accettato senza riserva l’incarico dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Fratelli d’Italia aveva anche proposto Nordio al Quirinale alle ultime elezioni per il nuovo Presidente della Repubblica.

Nordio è nato a Treviso nel 1947. Si è laureato in Giurisprudenza a Padova e dal 1977 è diventato procuratore a Venezia. Quarant’anni in magistratura. Fino a 65 anni è stato sostituto procuratore per diventare aggiunto solo nel 2009. Ha gestito la procura veneziana come facente funzioni nell’anno del pensionamento, nel 2017. Si ricordano soprattutto due grandi inchieste nella sua lunga carriera: quella delle “coop rosse” e quella sul Mose. La prima, nel 1993, riguardava un’indagine per finanziamento illecito che nasceva a carico dei vertici veneti del Psi e della Democrazia cristiana, con le condanne di Gianni De Michelis e Carlo Bernini, e che si è andata allargando ai comunisti. Furono spiccati avvisi di garanzia ai leader della sinistra Massimo D’Alema, Achille Occhetto e Bettino Craxi. Nordio alla fine chiese l’archiviazione per i vertici del Pds.

L’inchiesta sul Mose, il progetto architettonico per proteggere Venezia dall’alta marea, nel 2014 portò a 35 arresti e ai domiciliari per l’allora sindaco, poi assolto, Giorgio Orsoni. Giancarlo Galan, che per 15 anni era stato presidente della regione Veneto in quota Forza Italia, ha scontato due anni ed è stato condannato al risarcimento di 5,8 milioni di euro. Quando aveva 35 anni Nordio indagò sulle Brigate Rosse e colpì la colonna veneta dell’organizzazione estremista di sinistra. Tutti i brigatisti, poi pentiti, furono condannati. Ha presieduto la commissione Castelli per la riforma del codice penale.

Nordio si definisce liberale. È un magistrato considerato fuori dagli schemi correntizi. Si è spesso scontrato con i colleghi su Tangentopoli e sulla sua eredità culturale. Ha intrattenuto dei rapporti altalenanti, non proprio sempre distesi insomma, con il Consiglio Superiore della Magistratura e con l’Associazione Nazionale Magistrati. Non ha mai nascosto la tendenza a guardare alla politica una volta chiusa la carriera con la toga. Considera necessario riformare nel profondo la Costituzione Italiana. Il momento di svolta per le sue convinzioni attualmente orientate al garantismo dopo il caso di un maestro di Treviso, da lui arrestato e poi scarcerato, che un mese dopo si suicidò. “Mi portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate”.

Alle ultime elezioni è stato eletto deputato nelle file di Fratelli d’Italia, candidato nel collegio plurinominale Veneto 1, Treviso, Padova e Venezia e nell’uninominale a Treviso. In campagna elettorale ha proposto il ritorno all’immunità parlamentare. Sostiene la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, giudica “una porcheria di un Paese civile” la diffusione pubblica di intercettazioni, definisce l’obbligatorietà dell’azione penale una garanzia che “di fatto si è convertita in un intollerabile arbitrio”. Ma sostiene anche la depenalizzazione di molti reati e la necessità di una legge sul suicidio assistito. Ha pubblicato diversi saggi sul garantismo e sugli errori giudiziari. A inizio 2022 ha pubblicato il suo ultimo libro: Giustizia ultimo atto. Da tangentopoli al crollo della magistratura.

Dichiarava in un’intervista a questo giornale: “La politica non si è ancora riapprovata dei poteri che ha sconsideratamente ceduto ai magistrati in tutti i campi, compresa l’abolizione dell’immunità parlamentare. Ma se la politica non si è rafforzata è vero che la magistratura si è indebolita, e quindi la bilancia si sta riequilibrando. La politica dovrebbe cogliere questa occasione non certo per punire i magistrati, ma per ritornare ai ruoli previsti dalla Costituzione”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Conchita Sannino per repubblica.it il 21 ottobre 2022.

Se non è una partenza col piede storto, poco ci manca. "Cominciamo bene", è il messaggio più lieve. Si infiammano le chat dei magistrati di fronte ai resoconti sull'incontro ufficiale tra Carlo Nordio e Silvio Berlusconi di quarantotto ore fa. Ma la questione va ben oltre la eventuale levata di scudi di questa o quella corrente dei magistrati, per ora ufficialmente silenti. 

Da un lato il ministro della Giustizia in pectore che bussa direttamente a Villa Grande, dall'altro il leader-imputato per eccellenza che teme una condanna nel suo processo a Milano, e vuole demolire la legge Severino.

[…]  "Cominciamo bene", battono le tastiere dei magistrati nelle chat.  Ma l'ex toga che si appresterebbe a diventare Guardasigilli non dovrebbe incarnare, oltre all'autonomia e all'indipendenza della magistratura, anche l'uguaglianza dei cittadini (compresi quelli mandati sul banco degli accusati)  di fronte alla legge? E la  sorpresa è che a stupirsi di un tale vis-à-vis non sono solo le cosiddette toghe rosse, i giudici progressisti di Area o di Md, ma anche autorevoli nomi di area di centrodestra, distanti però dall'agone politico.

 Un procuratore mette in fila: "Il quasi ministro incontra il politico mandato a processo per un reato contro l'amministrazione della giustizia, per cercare il suo assenso: premessa illuminante". Un giudice: "Bella partenza come senso istituzionale". Un pm: "Sapete il nostro futuro ministro su quali promesse si è impegnato?".

E ancora: "Non l'hanno nemmeno nascosto: tutto alla luce del giorno, e neanche le opposizioni sono sorprese. Incredibile". O anche: "Ricordo che sei consiglieri del Consiglio Superiore dovettero dare le dimissioni per essersi incontrati con dei politici , per la nomina di un procuratore", è il riferimento netto agli accordi dell'hotel Champagne, scena ormai iconica del disastro Palamara.  Se la linea Meloni era improntata a maggior fermezza e sventolata "certezza della pena", il pranzo Nordio-Berlusconi turba parecchio la narrazione. E la scelta di quel frugale tête-à-tête pesa come una sgrammaticatura non di poco conto.

Massimo Martinelli per “il Messaggero” il 24 Ottobre 2022. 

[…] Ministro Nordio, tutti la definiscono un uomo libero. Anche Giorgia Meloni, quando lanciò la sua candidatura, disse che lei non aveva una storia politica alle spalle ma solo una grande preparazione giuridica, e questo bastava. Da dove comincerà al dicastero della Giustizia?

«L'emergenza del Paese riguarda i costi dell'energia. Io voglio cominciare dai costi della giustizia». 

Costa molto?

«Quello che costa è la mancanza di affidabilità del nostro sistema giudiziario. Le aziende straniere non investono in Italia perché sono spaventate dalle lungaggini della giustizia. […] Io credo che debbano essere fortemente revisionati i reati che riguardano la pubblica amministrazione. Tra questi il reato di abuso d'ufficio e il traffico di influenze».

[…] «Dobbiamo partire dalla piena applicazione del codice di procedura penale introdotto da Giuliano Vassalli nel 1989, che non è mai avvenuta. Quel codice introduce il rito accusatorio cosiddetto anglosassone, funziona con principi opposti a quelli attuali, a cominciare dalle carriere separate e dalla discrezionalità dell'azione penale». 

[…] Che altri correttivi?

 «L'inappellabilità delle sentenze di assoluzione. La legge prevede che un uomo può essere condannato aldilà di ogni ragionevole dubbio. Allora mi chiedo come si possa condannare in appello qualcuno che è stato già assolto in primo grado, almeno con la procedura attuale». 

[…] «Per le intercettazioni spendiamo 200 milioni di euro ogni anno. Sono uno strumento importante ma sono diventate quasi l'unico utilizzato dai pm. In Italia le procure intercettano i cittadini quattro volte in più rispetto alla media dei paesi Ue e 30 volte in più rispetto ai paesi anglosassoni. E poi c'è il problema della segretezza».

Come si risolve?

«Semplice. Attribuendo la responsabilità sulla tutela del segreto al pm che le ha disposte. Se finiscono sui giornali ne risponde lui. Credo che potrebbe funzionare». 

Sulla custodia cautelare cosa pensa?

«Che il diritto alla libertà personale merita una garanzia in più. Credo che la richiesta di arresto formulata da un pm dovrebbe essere vagliata da un collegio di giudici, meglio se di città diverse da quelle del pm, anche per evitare ogni tipo di contiguità. Oggi la richiesta di arresto fatta da un pm viene vagliata da un gip che magari lavora nell'ufficio accanto». 

Un altro tema delicato: le correnti della magistratura. Servono?

«La libertà associativa è importante, ma non dovrebbe determinare gli equilibri nell'organo di autogoverno della magistratura. Penso che sia opportuno introdurre un meccanismo di sorteggio per i componenti del Csm, magari scegliendo in una rosa di nomi di persona autorevoli indicati dagli stessi magistrati». […]

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 24 Ottobre 2022.  

«Mai, mai e poi mai, ho pensato alla separazione delle carriere come primo passo verso un controllo del governo sul pubblico ministero. Mi fa inorridire solo l'idea». Carlo Nordio sta tornando in treno a Treviso dopo la nomina a ministro della Giustizia per fare una valigia adeguata al suo nuovo incarico. 

La notizia che il braccio di ferro tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni si era concluso giovedì sera in suo favore l'aveva avuta venerdì mattina dallo stesso Berlusconi che la mattina precedente aveva incontrato a Villa Grande, assieme con Gianni Letta. In quel faccia a faccia voluto da Meloni per convincere il leader di Forza Italia che il candidato giusto a quell'incarico era il suo Nordio, assicura che Berlusconi non aveva avanzato alcuna richiesta specifica di garanzie.

Né sull'abolizione della legge Severino né su altro. «Non occorreva. Sono dieci anni che dico e scrivo che la legge Severino è un obbrobrio giuridico. Soprattutto se approvata retroattivamente. Ho presieduto il comitato del referendum per il "no" a quella legge e alla custodia cautelare per reiterazione del reato», spiega il neo Guardasigilli. 

Racconta particolari inediti sul colloquio che ha poi convinto il leader di Forza Italia a rinunciare alla propria candidata Maria Elisabetta Alberti Casellati: «Eravamo in giardino. Il dottor Letta, che conosceva perfettamente i miei libri, ha riassunto a Berlusconi le mie posizioni. Peraltro che non coincidono in tutto con quelle di FdI, e fa onore a Giorgia Meloni avermi indicato come candidato presidente della Repubblica e alle elezioni, pur sapendolo», dice. 

Sa però che «la politica è mediazione» e lui intende seguire il programma della coalizione di centrodestra: «L'abolizione della Severino non c'è. E quindi non la abolirò. Lo stesso vale per l'ergastolo, anche se penso che andrebbe abolito. Idem per l'immunità parlamentare e per le intercettazioni che, secondo me, andrebbero limitate. Alcune sono indispensabili e altre dannose perché limitano la libertà dei cittadini».

La separazione delle carriere nel programma c'è. E Nordio intende occuparsene. Anche se lui stesso è stato all'inizio giudice e poi pm. E dice di aver «potuto fare benissimo entrambe le funzioni». 

Ma si pone il problema di come il passaggio appaia agli occhi del cittadino: «Potrebbe pensare che una mentalità accusatoria non sia tipica del giudice e viceversa». E si indigna se si pensa che la separazione sia solo un primo step per arrivare al controllo del governo sui pm: «L'indipendenza della magistratura per me è un idolo. Se non ne avessi un rispetto sacrale non avrei fatto il magistrato ma l'impiegato. Nei Paesi dove c'è la separazione delle carriere infatti non c'è il controllo dell'esecutivo sul pm. E chi lo paventa dice una balla colossale».

In ogni caso non intende occuparsene subito. Prima vuole concentrarsi su misure che possano velocizzare la giustizia, favorendo così l'economia. Il primo provvedimento? «L'urgenza è accelerare i processi. Per far questo serve innanzitutto aumentare l'organico. E visto che per quello dei magistrati servono minimo quattro anni, dal momento in cui si bandisce un concorso a quello in cui i vincitori prendono servizio, mi occuperò subito del personale amministrativo: cancellieri, segretarie». Perché, assicura, «il magistrato è come il chirurgo. 

Lui opera, ma il paziente deve arrivare in sala operatoria preparato e qualcuno se ne deve occupare anche dopo». Un provvedimento «semplice», spiega «per il quale, mi dicono ci sono anche i fondi per attuarlo». Contemporaneamente intende procedere all'ampliamento dell'organico anche con la definizione dello status dei giudici onorari. E partire da subito con una semplificazione normativa. A cominciare dalla depenalizzazione di alcuni reati. E qui sorgono gli altri timori.

C'è chi sta già accusando Nordio di volere abolire la legge sull'abuso d'ufficio. Lui spiega che non intende farlo. Ma vuole procedere a «una profonda revisione per mettere tranquillità ai pubblici amministratori che non se la sentono più di prendere decisioni». Il treno è quasi arrivato a Treviso. In due giorni ha fatto tre volte questa tratta. Appena avuta la notizia della nomina lo aveva preso al volo per poter andare a casa a prendere almeno l'abito scuro per il giuramento. Neanche il tempo di arrivare per salutare la moglie Maria Pia e gli amatissimi gatti Rufus e Romeo-Leonetto, aveva avuto però la comunicazione che il giuramento sarebbe avvenuto la mattina dopo alle 10. A quel punto insieme con la moglie ha fatto una corsa verso l'ultimo treno per Roma.

Da rainews.it il 27 Ottobre 2022.

"Le carceri sono la mia priorità “: lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio rispondendo ad una domanda dei cronisti sulle priorità da affrontare all'Università Roma Tre per la presentazione del calendario della polizia penitenziaria. Il ministro è poi entrato nell'aula magna della facoltà di Giurisprudenza, all'evento anche il capo del Dap Carlo difficoltà. 

Dev'essere un segnale della mia attenzione al problema delle carceri". dice il Guardasigilli. "Grazie al collega Carlo Renoldi capo del Dap che è stato valido collaboratore della ministra Cartabia - aggiunge - il mio esordio al servizio dello Stato è avvenuto nel 1977 come magistrato e conosco bene l'ambiente carcerario.

Sono un garantista - prosegue - e questo significa applicare il principio latino del Diritto Romano, garantire al massimo la presunzione d'innocenza ma anche la certezza della pena. Ma questo non significa una pena crudele, bensì una che deve migliorare le condizioni del condannato, evitare renderlo una persona peggiore. 

Cercheremo di potenziare le risorse economiche - promette - perché occorre una preparazione ma anche un riconoscimento economico del vostro lavoro. Al ministero lavoreremo molto per questo", conclude Nordio. Ieri sul tema delle carceri era intervenuta anche la premier Giorgia Meloni: "Non si combatte il sovraffollamento depenalizzando" ma aumentando gli spazi.

Sulla attività che lo aspetta come ministro Nordio, in una nota, ha sottolineato come non ci siano problemi circa l'età. "Ieri ho sentito in Senato una lamentela sull'età media dei componenti del governo. 

In effetti non credo che la saggezza coincida con la vecchiaia - ha osservato il ministro - perché una persona a 40 anni, come diceva Marco Aurelio, ha visto tutto ciò che è, che è stato e che sarà. Ricordo tuttavia che il giovane Napoleone fu sconfitto in Russia da Kutuzov, a Waterloo da von Blücher, che avevano il doppio della sua età e che Churchill celebrò la vittoria su Hitler all'età che ho io ora". 

Tra gli interventi in programma c'è quello sul reato di abuso d'ufficio. "È un problema che sarà affrontato in un' accurata discussione parlamentare", spiega il ministro in una dichiarazione al quotidiano 'Il Dubbio', confermando dunque l'intenzione di convocare gli amministratori locali in modo da dare seguito alla loro richiesta di tutela.

"La revisione o l'abolizione del reato di abuso, che paralizza l'amministrazione, è stata chiesta da anni da tutti i sindaci, e vedo con soddisfazione che anche il sindaco di Milano concorda su questa necessità", dice Nordio, anche a proposito delle parole con cui Giuseppe Sala aveva accolto l'ipotesi di modificare la norma. "In ogni caso, il problema", precisa appunto il ministro, andrà "affrontato in un' accurata discussione parlamentare, con il supporto di statistiche tra indagini iniziate e condanne irrogate".

Governo: Crosetto, grazie Mattarella e Meloni per la fiducia 

(ANSA il 21 ottobre 2022) -  "Voglio ringraziare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni per la fiducia che hanno riposto in me, ritenendomi degno di servire la Nazione al Ministero della Difesa. Lo farò con la serietà istituzionale che il momento richiede". Lo scrive su Twitter il cofondatore di FdI Guido Crosetto, che domani al Quirinale giurerà come ministro della Difesa. 

Chi è Guido Crosetto, il fondatore di Fdi alla Difesa

(ANSA il 21 ottobre 2022) - É il gigante gentile della destra, mediatore per vocazione. Guido Crosetto, 59 anni, è uno dei fondatori di Fratelli d'Italia insieme a Ignazio La Russa e Giorgia Meloni. Resta celebre la foto in cui lo "Shrek azzurro", come lo chiamano i suoi, prende in braccio la leader romana: è il dicembre del 2012, qualche giorno prima della creazione del "partito con la fiamma". 

Da allora è il consigliere fidato di Meloni, schietto, ma pacato, sempre pronto a smussare gli angoli. Crosetto, la politica, la sceglie per passione. Fin dalla sua giovinezza piemontese. Non vanta alcun trascorso in formazioni post-fasciste, ma un esordio nella Democrazia cristiana. Figlio di una famiglia di importanti industriali nel settore metalmeccanico, lascia l'università di economia per militare nelle giovanili dello scudo crociato. Poi una lunga carriera da indipendente: in primis, alla guida del suo comune.

É sindaco di Marene, in provincia di Cuneo, per 14 anni, dal 1990 in poi. Nel 2000, però, arriva l'iscrizione a Forza Italia, in cui ricopre subito l'incarico di coordinatore regionale. Presto comincia a frequentare la Capitale: entra a Montecitorio alle elezioni politiche del 2001 e ci resta per più di dieci anni. Nel governo Berlusconi IV è anche sottosegretario alla Difesa. 

Tutto cambia con il divorzio politico dal Cavaliere. Fonda così FdI, di cui è coordinatore nazionale fino al 2014. Sono i primi anni, quelli dei disastri elettorali. Poi giunge il momento della pausa dalla politica: Crosetto torna al suo mestiere di dirigente d'azienda. Formatosi come manager nell'impresa di famiglia, arriva a presiedere l'Aiad, federazione che rappresenta la aziende italiane nei settori aerospazio, difesa e sicurezza. Nel 2018 si riaccende la fiamma: ritorna a Montecitorio e al coordinamento di Fdi, ma nel 2019 lascia entrambe le cariche. Questa volta, però, la chiamata della politica arriva direttamente da Giorgia Meloni per un posto da ministro. Crosetto dovrà così abbandonare i suoi oltre 200 mila follower su Twitter per rimettersi al lavoro sui dossier della Farnesina.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 28 ottobre 2022.

La prima grana del governo Meloni arriva dalla Difesa. E la polemica non riguarda il posizionamento nel panorama internazionale, come alcune posizioni della Lega e di Forza Italia avrebbero potuto suggerire, ma un possibile conflitto di interessi del suo ministro, Guido Crosetto.  

A sollevarlo ufficialmente è stato ieri il parlamentare dei Verdi, Angelo Bonelli, che ieri ha detto: «Crosetto non può fare il ministro della Difesa. Ha curato gli interessi dell'industria militare: un lobbista delle armi come può ricoprire quel ruolo? ». Il caso Crosetto era esploso già nei giorni immediatamente precedenti e, poi, successivi alla sua nomina. 

Tanto che il ministro aveva annunciato di aver lasciato tutti i suoi incarichi privati: Crosetto è stato, fino alla sua nomina, presidente dell'Aiad, la federazione confindustriale che cura gli interessi delle aziende del settore dell'aerospazio e della difesa. Da quella posizione - ha rivelato ieri Il Domani in un'inchiesta - ha svolto una serie di consulenze per Leonardo e per Orizzonti sistemi navali, società partecipata da Leonardo e Fincantieri, incassando tra il 2018 e il 2021 poco meno di due milioni di euro.  

Crosetto, proprio per poter svolgere la sua attività privata, negli scorsi anni aveva rinunciato alla politica attiva e a un posto da parlamentare. Aprendo tra le altre cose anche una società di consulenza, la Csc & Partners, di cui Crosetto era rappresentante e principale azionista, con il 50 per cento delle quote. 

Gli altri soci sono sua moglie, Graziana Saponaro e suo figlio Alessandro, entrambi con il 25 per cento. L'azienda si occupava, si legge nella ragione sociale, di "servizi di lobbying, di consulenza strategica e per lo sviluppo di progetti nazionali ed internazionali, consulenza direzionale, studi di fattibilità" più altre decine di cose. Bisogna parlare dell'azienda al passato perchè Crosetto, mentre i giornali gliene chiedevano conto pochi giorni prima che fosse nominato ministro, ha deciso di metterla in liquidazione. 

«L'ho fatto nonostante tutto fosse lecito» spiega oggi a Repubblica , «perché quello era il mio lavoro. E dico di più: non fatturerò nemmeno alcuni lavori che la società aveva già svolto per alcuni clienti privati proprio per evitare polemiche. Perderò dei soldi a differenza di quello che fece il presidente Giuseppe Conte che sei mesi dopo essere stato nominato premier continuò a fatturare vecchi lavori ». 

Crosetto ieri ha annunciato querele nei confronti di chi parla di "conflitto di interessi". Cosa c'è di falso in quello che è stato scritto, ministro? È una censura preventiva? «Assolutamente no. Devo difendere l'istituzione che rappresento: nessuno può permettersi di parlare di conflitto di interessi nel mio caso, perché non esiste. E guardate: parliamo di una condizione non soggettiva ma oggettiva». 

Lei si troverà a decidere da ministro delle società con cui ha lavorato. «Falso: il ministro dà solo indirizzi politici e strategici. Le decisioni pratiche vengono prese tutte dagli uffici, così come prevede la Bassanini. Il ministro non può decidere nemmeno dell'acquisto di un proiettile. 

E poi io, nel mio lavoro da privato cittadino, promuovevo le aziende italiane all'estero: come si può parlare di conflitto di interessi? Tutto quello che ho fatto è sempre stato trasparente: la circostanza che lavorassi con Leonardo è su Linkedin, non mi sembra un segreto». Le cifre lo erano. «Le mie dichiarazioni dei redditi ora saranno pubbliche. Nulla da nascondere. Ma il mio ora è un obbligo istituzionale: devo difendere il Dicastero che rappresento».

Conflitto di interessi, la nota del ministero della Difesa: nessuna incompatibilità. Il Tempo il 29 ottobre 2022

Il ministero della Difesa fa chiarezza sul caso dei presunti conflitti di interesse per il neo-ministro della Difesa Guido Crosetto. Riflettori accessi sulle sue precedenti funzioni di presidente dell’Aiad, oggetto di recenti trasmissioni televisive e articoli di stampa. Il Ministero della Difesa, però, sottolinea che non si ravvisa sul piano tecnico-giuridico alcuna ipotesi di conflitto di interessi o incompatibilità. Infatti, per espressa previsione di legge, anche eventuali situazioni di conflitto antecedenti all’assunzione della carica non assumono alcun rilievo in quanto cessate all’atto dell’assunzione della carica stessa. Nessuno status di incompatibilità o conflitto di interessi è giuridicamente ipotizzabile nel momento in cui il Ministro non ha più cariche, proprietà aziendali o patrimoni personali che, in qualsiasi modo, possano entrare in rapporto con le attività di Ministro della Difesa.

Peraltro, il Ministro della Difesa non partecipa in alcun caso all’adozione di atti idonei ad incidere sul suo patrimonio o su quello del coniuge o dei parenti in quanto del tutto privo di poteri e funzioni negoziali. Nel pregresso incarico di presidente di AIAD, per la natura dei settori industriali rappresentati, di chiaro interesse strategico nazionale, l’attuale Ministro ha perseguito obiettivi del tutto convergenti con quelli pubblici, rafforzando le capacità delle imprese e la conseguente competitività internazionale mediante la promozione dell’industria italiana della Difesa all’estero.

Da tgcom24.mediaset.it il 29 ottobre 2022.

Per Guido Crosetto non si configura alcun conflitto di interessi. Lo afferma il ministero della Difesa, riferendosi all'ipotizzata incompatibilità "fra l'incarico del ministro (qui la lista completa dei ministri del governo Meloni) e le sue precedenti funzioni di presidente dell'Aiad (Federazione Aziende Italiane per l'Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), oggetto di recenti trasmissioni televisive e articoli di stampa". Nella nota si precisa che "non si ravvisa sul piano tecnico-giuridico alcuna ipotesi di conflitto di interessi o di incompatibilità". 

La conclusione del ministero è stata costruita sulla base "degli articoli 2 e 3 della legge n. 215 del 2004 e delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo attribuite al Ministro dagli articoli 4 e 14 del decreto legislativo n. 165 del 2001 e dal 10 al 13 del codice dell'ordinamento militare".

Niente cariche, proprietà o patrimoni "in conflitto" - Nella nota si legge che "per espressa previsione di legge, anche eventuali situazioni di conflitto antecedenti all'assunzione della carica non assumono alcun rilievo in quanto cessate all'atto dell'assunzione della carica stessa". Nessuno status di incompatibilità o di conflitto di interessi è dunque giuridicamente ipotizzabile nel momento in cui il ministro non conserva più cariche, proprietà aziendali o patrimoni personali che in qualsiasi modo possano entrare in rapporto con le attività della Difesa.

Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 21 ottobre 2022.

«Tranquilli, sono assolutamente convinto di continuare a tenermi i privilegi di privato cittadino per tanto tempo», diceva Guido Crosetto, commentando l’articolo di Domani, che lo indicava come consigliere principale della leader di Fratelli d’Italia e possibile ministro di un esecutivo di destra. 

Alla fine gli toccherà giurare da ministro e per giunta della Difesa, settore che conosce a menadito per la sua esperienza pluriennale da presidente di Aiad, la federazione confindustriale che cura gli interessi delle aziende del settore dell’aerospazio e della difesa.

Un ruolo che lo aveva portato persino a dimettersi da parlamentare per evitare possibili conflitti di interesse, vista la delicatezza del tema e i miliardi che ballano sul tavolo dei governi e delle industrie che il nuovo ministro dovrà trattare. Certamente Crosetto dovrà lasciare la presidenza di Aiad, passerà dall’altra parte: sarà il capo del ministero principale interlocutore dell’associazione che ha rappresentato fino a oggi.

 «La presidenza dell’Aiad per statuto è gratuita», aveva chiarito Crosetto. In realtà il regolamento interno dice altro. «Tutte le cariche non sono retribuite, fatta eccezione per la carica del presidente ove il cda lo ritenga opportuno», si legge. Evidentemente per Crosetto non ha deliberato conseguentemente. «Da dove vengono i miei guadagni? Dalla mia attività privata, eventuali dividendi di società, entrate da proprietà e fatturato partite Iva», aveva risposto il fondatore di Fratelli d’Italia.

Il fidato meloniano Crosetto è stato, come detto, il cofondatore del partito. Si è dimesso dal parlamento nel 2018. Ha preferito continuare a rappresentare la lobby delle aziende delle armi, della difesa e dell’aerospazio. 

Oltre a essere un imprenditore, è stato sottosegretario alla Difesa nel quarto governo Berlusconi, oggi è all’Aiad ed è, informalmente, consigliere della Meloni. Un doppio ruolo che spesso genera conflitti. Anche perché di Aiad fa parte Leonardo Spa, l’ex Finmeccanica, che gestisce larga fetta degli affari con il ministero che sarà il regno di Crosetto. 

Anche dopo essere diventato numero uno dell’Aiad, Crosetto è rimasto per molto tempo coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia, con il rischio di plurimi conflitti di interessi: dell’associazione fanno parte 186 aziende più 3 associazioni nazionali quali l’Associazione nazionale produttori armi e munizioni sportive (Anpam), l’Associazione per la normazione, la formazione e qualificazione nel settore dell’aerospazio, difesa e sicurezza (Unavia) e l’Associazione per i servizi, le applicazioni e le tecnologie Ict per lo spazio (Asas).

Aiad rappresenta il comparto ai massimi livelli. Ha un ruolo predominante nella scelta dei membri della delegazione nazionale presso Niag (Nato industrial advisory group) ossia un «gruppo consultivo ad alto livello di industriali appartenenti ai paesi membri della Nato che agiscono riportando alla Conferenza dei direttori nazionali degli armamenti (Cnad), forum principale per la cooperazione in ambito Nato sugli armamenti». 

In pratica la delegazione nazionale selezionata da Aiad ha lo scopo di riportare le istanze dell’industria nazionale nei confronti di studi e programmi richiesti o sollecitati da parte di organismi dell’Alleanza atlantica. Si tratta di spazi di confronto in cui si decidono strategie di business nel delicato settore degli armamenti che possono valere svariati miliardi di euro. 

C’è chi dice: una volta lasciata la presidenza per Crosetto ogni possibile conflitto svanirà. È davvero così? C’è da dire che all’interno di Aiad e delle aziende che ne fanno parte Crosetto ha molti amici. Per esempio in Aiad potrà sempre contare sul segretario generale, Carlo Festucci:  un dirigente che la famiglia Crosetto conosce bene, è nel consiglio di amministrazione di una azienda che ha tra i soci il 25enne figlio del fondatore di Fratelli d’Italia.

La benevolenza dell’industria degli armamenti verso Crosetto e Fratelli d’Italia è indicata anche da un altro elemento: poco tempo fa un’azienda ha versato 10mila euro al partito. Si tratta della Drass Galeazzi srl, si occupa di «tecnologia subacquea e prodotti per la difesa marina come sommergibili e veicoli per le forze speciali». Drass però membro di Aiad, il cui presidente è Crosetto, l’imprenditore e fondatore del partito di Meloni. Diventato ora il ministro della Difesa con cui Drass dovrà confrontarsi.

IL FONDATORE DI FRATELLI D’ITALIA. Crosetto nuovo ministro della Difesa: i conflitti di interesse con l’industria delle armi. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 21 ottobre 2022

Crosetto conosce il settore Difesa a menadito per la sua esperienza pluriennale da presidente di Aiad, la federazione confindustriale che cura gli interessi delle aziende del settore dell’aerospazio e della difesa.

Un ruolo che lo aveva portato persino a dimettersi da parlamentare per evitare possibili conflitti di interesse, vista la delicatezza del tema e i miliardi che ballano sul tavolo dei governi e delle industrie che il nuovo ministro dovrà trattare. Certamente Crosetto dovrà lasciare la presidenza di Aiad, passerà dall’altra parte: sarà il capo del ministero principale interlocutore dell’associazione che ha rappresentato fino a oggi. 

Ma basterà a eliminare ogni conflitto di interesse? Alcuni elementi suggeriscono che non sarà così. 

GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini. 

Guido Crosetto ministro alla Difesa: ecco gli affari del fedelissimo di Giorgia Meloni. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 27 luglio 2022

Domani ha letto verbali di cda e documenti camerali, per capire se le accuse di conflitto d’interessi sono pelose oppure no. E – come vedremo – ha scoperto alcune evidenze che potrebbero creare qualche imbarazzo al consigliere ombra della Meloni se volesse entrare davvero al governo.

Come la società avviata dal figlio di Crosetto, Alessandro, nel 2020, in piena pandemia, azienda che è in affari con industrie rappresentate dal padre nel suo ruolo di presidente di Aiad. E ha tra i suoi rappresentanti personaggi segnalati dall’antiriciclaggio e legati all’ultimo scandalo finanziario del Vaticano sulla famigerata compravendita di un palazzo a Londra.

«Il fatturato della società di cui mio figlio ha il 15 per cento delle quote ad ora è zero. Quindi mi pare evidentissimo che la società non abbia avuto collaborazioni con nessuno» chiude Crosetto «Per poi, per assurdo, quella società avesse avuto rapporti con Telespazio, utilizzandone e pagandone i servizi, avrebbe fatto una cosa sacrosanta e legittima».

Guido Crosetto lo negava senza se e senza ma. Non rientrerà in politica, nemmeno se la sua amica Giorgia Meloni stravincesse le elezioni e gli chiedesse di far parte del governo. Venerdì è stato scelto come nuovo ministro della Difesa. «Tranquilli, sono assolutamente convinto di continuare a tenermi i privilegi di privato cittadino per tanto tempo», diceva commentando l’articolo, tempo fa, che lo indicava come consigliere principale della leader di Fratelli d’Italia e possibile ministro (o persino presidente del Consiglio) di un esecutivo di destra.

Crosetto chiarisce che non è vero che viene stipendiato 400mila euro come presidente dell’Aiad, la federazione confindustriale che cura gli interessi delle aziende del settore dell’aerospazio e della difesa. «La presidenza dell’Aiad per statuto è gratuita».

In realtà il regolamento interno dice altro. «Tutte le cariche non sono retribuite, fatta eccezione per la carica del presidente ove il cda lo ritenga opportuno», si legge. Evidentemente per Crosetto non ha deliberato conseguentemente. «Da dove vengono i miei guadagni? Dalla mia attività privata, eventuali dividendi di società, entrate da proprietà e fatturato partite Iva», dice. In pratica, consulenze.

Cofondatore del partito, dimessosi dal parlamento nel 2018 per continuare a rappresentare la lobby delle aziende delle armi, della difesa e dell’aerospazio, Crosetto è considerato a ragione il volto più presentabile di FdI. Una forza politica che prova a nascondere, spesso fallendo, i rigurgiti neofascisti di alcuni suoi esponenti.

L’imprenditore fa spesso da cerniera per Meloni sia con Silvio Berlusconi sia con Matteo Salvini. È il mediatore di FdI con le élite del deep state e della partecipate di stato. Competente e pacato, è un garantista doc (talvolta ha difeso Matteo Renzi a spada tratta per le presunte aggressioni dei pm sul caso Open) e piace ai conduttori dei talk e ai boiardi che in questi giorni lo adulano per accreditarsi con il nuovo nero che avanza.

«Guido smentisce? Balle, vuole fare il ministro, e in cuor suo sogna palazzo Chigi. Fa bene: sarebbe il perfetto federatore della destra», chiosano dal cerchio magico della Meloni. Altri nel centrodestra invece non stravedono per il cofondatore che oggi si definisce un semplice «osservatore esterno dei palazzi». La causa, spiegano, è dei suoi evidenti «conflitti di interessi. Crosetto fa il lobbista dei produttori di armamenti da tempo, e certo non può fare per esempio il ministro della Difesa, altra poltrona a cui anela».

Domani ha letto verbali di cda e documenti camerali, per capire se le accuse di conflitto d’interessi sono fondate. E ha scoperto alcune evidenze che potrebbero creare qualche imbarazzo al consigliere ombra della Meloni se volesse entrare davvero al governo.

Come la società avviata dal figlio di Crosetto, Alessandro, nel 2020, in piena pandemia. Azienda che è in affari con industrie rappresentate dal padre nel suo ruolo di presidente di Aiad. E ha tra i suoi rappresentanti personaggi segnalati dall’antiriciclaggio e legati all’ultimo scandalo finanziario del Vaticano sulla famigerata compravendita di un palazzo a Londra.

IL DEMOCRISTIANO DELLA DESTRA

Crosetto è un imprenditore, è stato sottosegretario alla Difesa nel quarto governo Berlusconi, fondatore di Fratelli d’Italia, oggi è all’Aiad ed è, informalmente, consigliere della Meloni. Talvolta il doppio ruolo genera conflitti, come per esempio nel caso dell’invio di armi in Yemen.

Quando il governo Conte ha bloccato l’export, Fratelli d’Italia è intervenuto duramente con uno dei suoi parlamentari, Edmondo Cirielli: «Oltre a danneggiare l’economia italiana già provata dall’incapacità di gestione dell’epidemia si è deciso di mettere a rischio gli interessi strategici dell’occidente nella penisola arabica. È veramente una scelta incredibile e soprattutto incomprensibile sui il Governo dovrà fornire spiegazioni in parlamento».

Il provvedimento colpiva un’azienda più di altre: Rheinmetall Italia Spa, succursale italiana dell’omonimo gruppo tedesco. La società esportava bombe che l’Arabia Saudita usava contro i civili. Un danno per l’azienda che aveva perciò fatto ricorso contro il governo. Rheinmetall è membro di Aiad.

Lui alle contestazioni di opportunità ha sempre risposto con il suo stile pragmatico, affievolendo così ogni polemica: ha chiesto le dimissioni da parlamentare, e i suoi colleghi hanno impiegato quasi un anno a concedergliele. Nel frattempo ha mantenuto il ruolo in Aiad e lo stipendio da rappresentante del popolo.

Crosetto ha voluto compiere, dicono gli amici, «una scelta di trasparenza». Eppure, nel giorno in cui i deputati di Montecitorio hanno dato il via libera alle dimissioni, ha detto: «Il mio impegno politico continuerà». Attualmente non ha ruoli ufficiali nel partito, e gira le trasmissioni televisive presentato come un imprenditore-opinionista, ma quasi mai come presidente della federazione delle industrie che rappresenta. Ruoli che si confondono e lasciano il dubbio, lecito, di trovarsi di fronte a un analista della politica italiana non proprio scevro da interessi di parte.

«Non capisco quale conflitto possa esserci tra ciò che ho fatto 11 anni fa e la presidenza della rappresentanza di un settore industriale, un’organizzazione privata e non pubblica», dice Crosetto: «Ciò detto essendo un libero e privato cittadino, senza ruoli pubblici o politici, ho gli stessi diritti di qualunque altro cittadino e quindi posso lavorare, nei limiti consentiti dalla legge, con chiunque è in qualunque forma legale consentita».

TRA NATO E AFFARI DI FAMIGLIA

Anche dopo essere diventato numero uno dell’Aiad, Crosetto è rimasto per molto tempo coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia, con il rischio di plurimi conflitti di interessi: dell’associazione fanno parte 186 aziende più 3 associazioni nazionali quali l’Associazione nazionale produttori armi e munizioni sportive (Anpam), l’Associazione per la normazione, la formazione e qualificazione nel settore dell’aerospazio, difesa e sicurezza (Unavia) e l’Associazione per i servizi, le applicazioni e le tecnologie Ict per lo spazio (Asas).

Aiad rappresenta il comparto (assai caro a Meloni) ai massimi livelli. Ha un ruolo predominante nella scelta dei membri della delegazione nazionale presso Niag (Nato industrial advisory group) ossia un «gruppo consultivo ad alto livello di industriali appartenenti ai paesi membri della Nato che agiscono riportando alla Conferenza dei direttori nazionali degli armamenti (Cnad), forum principale per la cooperazione in ambito Nato sugli armamenti».

In pratica la delegazione nazionale selezionata da Aiad ha lo scopo di riportare le istanze dell’industria nazionale nei confronti di studi e programmi richiesti o sollecitati da parte di organismi dell’Alleanza atlantica. Si tratta di spazi di confronto in cui si decidono strategie di business nel delicato settore degli armamenti che possono valere svariati miliardi di euro.

Le figure del Niag sono nominate dal ministero dello Sviluppo economico su indicazione dell’Aiad, il cui segretario generale «ha il ruolo di osservatore governativo», cioè la figura garante di questo accordo. Il segretario attuale di Aiad si chiama Carlo Festucci ed è un dirigente che la famiglia Crosetto conosce bene: è nel consiglio di amministrazione di una azienda che ha tra i soci il 25enne figlio del fondatore di Fratelli d’Italia. Si tratta della ditta Entheos Worldwide srl, avviata nel 2020, in piena crisi Covid, per lo sviluppo e la commercializzazione di servizi per la telemedicina.

«È nata per esportare all’estero la piattaforma di telemedicina di una start up italiana che si chiama Entheos e per cercare device medicali in giro per il mondo», dice Crosetto, che spiega anche la genesi del progetto: «Quando l’hanno costituita hanno chiesto a me e al dottor Festucci se volevamo entrare, vista la conoscenza di alcuni mercati esteri. Io ho pensato che poteva essere una buona esperienza per mio figlio e gli ho chiesto se avesse voglia di provare».

Altro socio nonché rappresentante dell’impresa è Giancarlo Innocenzi Botti, ex manager Mediaset e già deputato di Forza Italia nel primo governo Berlusconi e poi sottosegretario nel secondo esecutivo del Cavaliere. Botti era stato coinvolto nell’inchiesta di Trani sulle pressioni di Berlusconi sull’Agcom per censurare Anno Zero di Michele Santoro.

Le accuse a suo carico sono state poi archiviate. Il nome del berlusconiano però è emerso anche in una storia molto più recente rivelata proprio dal nostro quotidiano: era uno dei soci in affari di Gianluigi Torzi, il finanziere dello scandalo Vaticano sul palazzo di Londra al centro del processo contro il cardinale Angelo Becciu. «Botti è un amico carissimo», dice Crosetto.

Innocenzi Botti fino al 2016 ha ricoperto la carica di presidente di Invitalia e da oltre 11 anni è commissario straordinario di una storica azienda di recapiti postali Defendini. Ma soprattutto ha avuto un ruolo nella Maticmind, marchio di rilievo nel settore telecomunicazioni che opera con le pubbliche amministrazioni. Con Maticmind, la Entheos di Crosetto junior vanta una partnership, almeno così si evidenzia sul sito web dell’azienda.

Il nome di Innocenzi Botti, infine, è finito nel mirino dell’antiriciclaggio per una serie di operazioni bancarie ritenute sospette: dal flusso di denaro estero-Italia emergono vendite di immobili a Miami e proprietà a Dubai, oltreché la regolarizzazione di 1,4 milioni di euro detenuti all’estero, che Botti aveva giustificato come importi «riferibili ad attività svolte all’estero in qualità di manager del gruppo Fininvest e di ceo della Titanus production e Odeon tv».

Nell’azienda di Crosetto junior troviamo anche altre figure espressione della finanza italiana e di quelle élite spesso criticate da Meloni. Tra gli altri consiglieri della ditta che dovrà occuparsi di telemedicina con i fondi del Pnrr c’è anche Eliano Lodesani, presidente di Intesa Sanpaolo real estate e in passato chief operating officer dello stesso istituto.

Il sito di Entheos, seppure sia un po’ scarno di informazioni, fornisce qualche elemento del contesto in cui si muove Crosetto junior. L’azienda, per esempio, ha partecipato all’Expo di Dubai. E avrebbe tra i partner Telespazio, società che è una joint venture tra Leonardo (che detiene il 67 per cento delle quote) e la società pubblica francese Thales (33 per cento), tra i principali operatori al mondo nel campo delle soluzioni e dei servizi satellitari.

L’ultimo bilancio disponibile di Entheos è del 2020, e disegna una srl poco vivace, praticamente inattiva, probabilmente perché analizza solo 9 mesi di attività visto che la ditta è stata costituita a marzo dello stesso anno. Zero ricavi dichiarati e perdite per poco meno di mille euro.

Che ruolo ha Telespazio nel progetto Entheos? «Quello di integrare diverse nuove tecnologie e nuovi servizi», c’è scritto sul sito dell’azienda di Crosetto junior. Da Telespazio tuttavia non ricordano collaborazioni con Entheos, «e se c’è stata una partnership in qualche progetto si tratta di poca cosa», spiegano dagli uffici della società. 

Di solito Telespazio è capofila nei progetti ed Entheos potrebbe aver fatto parte di una di queste cordate beneficiando così di parte delle risorse, è l’analisi di chi lavora dell’azienda. Abbiamo contattato anche la ditta Entheos senza però ricevere ancora risposte.

Crosetto invece prima definisce «errata» l’informazione in nostro possesso, poi – quando gli spieghiamo che l’abbiamo tratta dal sito dell’azienda – risponde che non sa perché «abbiano scritto una cavolata».

Nella stessa pagina i titolari di Entheos ricordano che «il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede per i prossimi anni una serie di investimenti strutturali in moltissimi settori, in particolar modo nella sanità.

Tra le numerose tematiche, riveste senz’altro un ruolo di primo piano l’applicazione intelligente dei sistemi di telemedicina, telemonitoraggio e teleassistenza». Si tratta di un miliardo di euro destinato allo sviluppo della telemedicina. Un buon affare, quindi, che vede in prima fila la ditta legata al fondatore di Fratelli d’Italia e capo di Aiad.

«CONFLITTI? ZERO»

La federazione rappresentata da Crosetto partecipa anche ai lavori del comitato strategico della fondazione MedOr, fondata di recente da Leonardo (ex Finmeccanica) e presieduta dall’ex ministro dell’Interno del Pd, Marco Minniti. L’obiettivo di MedOr è creare un dialogo aperto e costruttivo con i paesi del Mediterraneo e del medio oriente. E anche «rafforzare i legami, gli scambi e i rapporti internazionali tra l’Italia e i paesi dell’area del Mediterraneo allargato».

La Fondazione MedOr è nata «per unire competenze e capacità dell’industria con il mondo accademico per lo sviluppo del partenariato geo-economico e socio-culturale»: grazie alle capacità e l’autorevolezza di Minniti, in pochi mesi i suoi appuntamenti sono diventati appuntamenti imperdibili per politici di ogni schieramento, alti dirigenti pubblici, uomini dei servizi segreti e delle aziende di settore.

L’amministratore delegato di Leonardo è Alessandro Profumo, che con Crosetto condivide anche l’esperienza in Aiad: l’ex banchiere di Mps infatti è presidente onorario dell’associazione. Il fondatore di Fratelli d’Italia ha partecipato alle riunioni della fondazione MedOr all’interno dei lavori del comitato strategico assieme a prefetti, ambasciatori, rappresentanti della presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri oltreché del ministero dell’Economia e Interno.

La direttrice generale della fondazione di Leonardo si chiama Letizia Colucci e ricopre anche un altro ruolo: è segretaria generale di Telespazio, la società citata come partner dall’azienda del figlio di Crosetto.

«Il fatturato della società di cui mio figlio ha il 15 per cento delle quote a ora è zero. Quindi mi pare evidentissimo che la società non abbia avuto collaborazioni con nessuno» dice Crosetto «se poi, per assurdo, quella società avesse avuto rapporti con Telespazio, utilizzandone e pagandone i servizi, avrebbe fatto una cosa sacrosanta e legittima». 

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Così il nuovo ministro della Difesa Guido Crosetto ha incassato milioni di euro da Leonardo. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 27 ottobre 2022

Guido Crosetto ha incassato compensi notevoli dalla società del settore armamenti a partire dal 2014.

Ha avuto compensi anche da una seconda azienda partecipata da Leonardo e Fincantieri in qualità di presidente.

Conflitto di interessi? Sentito da Domani, Crosetto non nega di aver avuto compensi da Leonardo, ma spiega che era «lì come advisor in quanto presidente dell'Aiad. Per intenderci, io non avevo un ufficio a Leonardo, e non rispondevo a nessuno in Leonardo. Il mio compenso e il tipo di lavoro che svolgevo sono due cose distinte, nate dal fatto che il presidente dell'Aiad è indicato dalle aziende associate. Io sono stato indicato da Leonardo, che mi pagava per quell'incarico».

Crosetto e i 200mila euro dall’azienda che abbatte droni. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 28 ottobre 2022

Oltre agli introiti da Leonardo, il ministro della Difesa ha lavorato per anni con Elettronica della famiglia Benigni.La spa ha progetti milionari con il dicastero. E il segretario di Aiad siede nel cda di una società di Crosetto junior.

Il giro di affari che il nuovo ministro della Difesa Guido Crosetto ha gestito fino a pochi giorni fa facendo il lobbista per Leonardo e altre aziende che hanno rapporti stretti con il dicastero è niente affatto banale. Il co-fondatore di Fratelli d'Italia, sommando i contratti formati da spa e srl, ha guadagnato tra il 2018 e il 2021 ben 2,3 milioni di euro complessivi. Ai cui aggiungere gli utili della sua società di consulenza che ha promesso di chiudere.

Come svelato da Domani nella prima puntata dell’inchiesta sui potenziali conflitti di interesse in capo al nuovo capo della Difesa italiana, la maggior parte (1,8 milioni) arrivano dall'ex Finmeccanica, la società controllata dal ministero dell’Economia e leader nel settore degli armamenti. Il resto arriva in gran parte un’altra società privata di successo che produce armamenti elettronici ipertecnologici da istallare su aerei, elicotteri, fregate e navi da guerra. 

Crosetto minaccia Domani ma non smentisce il contenuto dell'inchiesta. Il Domani il 27 ottobre 2022

L’inchiesta evidenzia i compensi ottenuti da Crosetto per le consulenze all’azienda Leonardo, il colosso degli armamenti italiano e uno dei più importanti fornitori del ministero guidato dall’esponente di Fratelli d’Italia.

Il neo ministro della Difesa Guido Crosetto minaccia di querelare Domani dopo la pubblicazione dell’inchiesta firmata da Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian sul quotidiano del 27 ottobre. Non smentisce il contenuto dell’articolo ma dice di avere l’obbligo istituzionale di difendere il dicastero.

L’inchiesta evidenzia i compensi ottenuti da Crosetto nel 2021 per le consulenze all’azienda Leonardo, il colosso degli armamenti italiano e uno dei più importanti fornitori del ministero guidato dall’esponente di Fratelli d’Italia.

Conflitto di interessi? Sentito da Domani, Crosetto non nega di aver avuto compensi da Leonardo, ma spiega che era «lì come advisor in quanto presidente dell’Aiad. Per intenderci, io non avevo un ufficio a Leonardo, e non rispondevo a nessuno in Leonardo. Il mio compenso e il tipo di lavoro che svolgevo sono due cose distinte, nate dal fatto che il presidente dell’Aiad è indicato dalle aziende associate. Io sono stato indicato da Leonardo, che mi pagava per quell'incarico».

Da iltempo.it il 28 ottobre 2022.

"Abbiamo una legge sul conflitto di interessi da Repubblica delle banane”. Interviene così Emiliano Fittipaldi nel corso della puntata del 27 ottobre di Piazzapulita, il talk show del giovedì sera di La7 condotto da Corrado Formigli, che ospita il giornalista del Domani a seguito dell’articolo pubblicato su Guido Crosetto, nominato ministro della difesa.

Nel corso della puntata Nunzia De Girolamo critica quanto scritto da Fittipaldi: “Non sapevo esistesse il tribunale etico-morale, voi avete deciso che c’è il conflitto di opportunità, ma chi l’ha deciso? A me va tutto benissimo, ma non mi piace l’approccio etico-morale sulle cose”.

Il giornalista replica con tono acceso: “Non c’è niente di etica e morale, è fare i giornalisti. Siamo giornalisti e dobbiamo fare la radiografia ai nuovi potenti. Si chiama giornalismo, forse tu non lo pratichi bene. Evidentemente tu non l’hai mai fatto in vita tua, hai fatto altre cose, hai fatto il politico, hai fatto Ballando con le Stelle, adesso devi imparare a fare il giornalista. Non fare lezioni di giornalismo ad altri. Cerco di fare il cane da guardia del giornalismo, non il cane da riporto del potere”.

“Non essere misogino, non essere così maschilista, non serve che tu faccia il richiamo a Ballando, non scendo al tuo livello dicendo le cose infondate che hai fatto tu” lo redarguisce l’ex parlamentare.

Fittipaldi rispedisce l’accusa al mittente: “Non c’entra niente la misoginia o il maschilismo e lo sai benissimo”. “Calma! No vabbè dai… Non litigate adesso” cerca di calmare le acque Formigli, sorpreso dall’attacco di Fittipaldi a De Girolamo e sulla “lezione” di giornalismo.

Crosetto querela Domani e Stefano Feltri: "Con la condanna capirai". Libero Quotidiano il 27 ottobre 2022

Guido Crosetto è furibondo e passa direttamente alle vie legali: "Ho dato mandato allo Studio Legale Mondani perché sono certo che le condanne in sede civile e penale siano l’unico metodo che direttori, editori e giornalisti possano intendere, di fronte alla diffamazione", scrive in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "Il mio ora è un obbligo Istituzionale: quello di difendere il Dicastero".

Con ogni probabilità il neo ministro della Difesa e fondatore di Fratelli d'Italia insieme a Giorgia Meloni, potrebbe riferirsi al quotidiano Domani e al direttore Stefano Feltri. La prima pagina del giornale fondato da Carlo De Benedetti, infatti, presenta una inchiesta firmata da Emiliano Fittipaldi e titolata: "Così Crosetto ha incassato milioni di euro da Leonardo". E ancora: "Il nuovo ministro della Difesa solo nel 2021 ha guadagnato dal colosso delle armi 618mila euro. 'Ma non lavoravo per loro: è il compenso per il mio ruolo in Aiad'. Consulenze d'oro anche da spa controllate".

Nel suo editoriale poi, Stefano Feltri, parla di Berlusconi e di Crosetto e sul problema dell'Italia, "il Paese fondato sul conflitto d'interessi". "Il caso di Guido Crosetto rende evidente l'inadeguatezza di una disciplina del conflitto di interessi scritta dal politico col maggiore conflitto di interessi di sempre", scrive il direttore. "Crosetto è stato sottosegretario alla Difesa, poi è diventato un lobbista del settore armi, con incarichi e redditi significativi ricostruiti da Domani". Solo fango. 

Montanari insulta Crosetto: "Chi è il ministro". Libero Quotidiano il 22 ottobre 2022

Un governo "di infimo profilo". Tomaso Montanari, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, commenta la lista dei ministri del governo di Giorgia Meloni a modo suo: due minuti di puro odio nei confronti del centrodestra. "E' un governo che non ha nemmeno un nome noto non dico fuori d'Italia, ma fuori dai corridoi della politica - esordisce il rettore dell'Università per stranieri di Siena e firma del Fatto quotidiano -. E' un governo di parenti e consigliori, più che Fratelli d'Italia sembra Fratelli di Crozza: Casellati, Santanchè, Musumeci".

Montanari parla di "governo di spartizione". Salvini "ha avuto quel che voleva, a partire sostanzialmente dal Viminale". Nel mirino anche Guido Crosetto e la Santanchè: "Alla lobby dei mercanti d'armi la Difesa, che tanto valeva chiamarlo Ministero della Guerra. Agli stabilimenti balneari il Turismo". Il professore rosso contesta pure i nomi: "La sovranità alimentare? L'autarchia... Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Istruzione e merito, qui c'è l'alleanza del peggio, un fascio-liberismo. La famiglia a chi odia i gay (la ministra meloniana Roccella, ndr) e la natalità. Ma la natalità dei bianchi, perché quella dei neri non va bene?", è il delirio di Montanari.

"Io lo trovo un  governo estremista e pericoloso - conclude Montanari la sua invettiva - sicuramente un governo di bassissimo livello culturale". Anche la Gruber sembra travolta dallo tsunami di insulti. 

Crosetto, "cosa richiede il momento": prime parole da ministro, lo insultano. Libero Quotidiano il 21 ottobre 2022

Guido Crosetto è stato nominato ministro della Difesa. Nessuna sorpresa in questo caso, era noto da tempo che il fedelissimo e ascoltatissimo consigliere di Giorgia Meloni avrebbe trovato posto all’interno del governo, essendo uno dei profili più “alti” che poteva esprimere la leader di Fratelli d’Italia. Anche gli avversari riconoscono a Crosetto grandi doti da mediatore e nessun trascorso post-fascista, dato che i suoi esordi politici sono stati tra le file dei democristiani.  

“Voglio ringraziare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - ha scritto in un tweet il diretto interessato - e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni per la fiducia che hanno riposto in me, ritenendomi degno di servire la Nazione al ministero della Difesa. Lo farò con la serietà istituzionale che il momento richiede”. A stretto giro di posta è arrivato il messaggio di Lorenzo Guerini, che lascerà il posto proprio a Crosetto: “Complimenti per la nomina. A lui i miei migliori auguri di buon lavoro a servizio delle nostre Forze Armate e dell’Italia”.

C’è però chi sui social ha subito tirato fuori alcune dichiarazioni delle scorse settimane di Crosetto, che viene accusato di non essere stato “coerente”. In effetti aveva in più occasioni dichiarato che non avrebbe fatto il ministro, anche se il suo nome è sempre stato un punto fermo nel toto-ministri: “Se avessi voluto mi sarei fatto eleggere”, aveva scritto il 26 settembre.

Guido Crosetto, chi è il ministro della Difesa del governo Meloni. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

«Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo: mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia società (tutte legittime). Rinuncio al 90% del mio attuale reddito». Così Guido Crosetto, il gigante di Marene (è alto quasi due metri), co-fondatore di Fratelli d’Italia, nonché una delle voci più ascoltate da Giorgia Meloni, ha twittato pochi minuti dopo l’annuncio di essere il nuovo ministro della Difesa.

Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo:

mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo.

Liquiderò ogni mia società (tutte legittime).

Durante la campagna elettorale, Crosetto si è speso molto per conquistare i voti degli imprenditori, soprattutto quelli del Nord, e avvicinarli al programma di Fratelli d’Italia. Forse anche perché è nato in una famiglia di industriali cuneesi che produce macchine per l’agricoltura, il nuovo ministro della Difesa, 59 anni, nel tempo ha affiancato alla carriera politica quella di manager e imprenditore, con ruoli di spicco proprio nel settore della difesa e dell’aerospazio.

I ministri del governo Meloni: l’elenco completo

Nel 2014 è stato nominato presidente di Aiad, Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza. E nel 2020 è diventato presidente di Orizzonte sistemi navali, società controllata da Fincantieri e Leonardo. Incarichi per i quali è stato talvolta accusato di conflitto di interesse e che ha lasciato per tempo, proprio per evitare polemiche e «illazioni». Dopo la vittoria di Fratelli d’Italia a settembre aveva annunciato su Twitter: «Da privato e libero cittadino in questi anni ho costruito una bella società di consulenza, con mia moglie e mio figlio. Sono fatto così male che, adesso che una mia amica, che fino a 2 giorni fa non contava, conterà, ho deciso di liquidarla perché nessuno possa fare illazioni».

Quando ancora sedeva in Parlamento aveva destato polemiche il fatto che sul sito ufficiale della Camera dei deputati fosse riportato «laureato in economia e commercio», malgrado non abbia mai completato il percorso. Parlando dell’episodio, in un’intervista al Corriere della Sera, aveva detto: «Ammetto che scioccamente possa aver lasciato intendere di essere laureato».

Cresciuto nella Dc, è stato segretario regionale del movimento giovanile e responsabile nazionale della formazione. Nel 1988 è stato consigliere economico dell’allora presidente del Consiglio Giovanni Goria. Prima sindaco di Marene, poi consigliere provinciale di Cuneo, viene eletto in Parlamento per la prima volta nel 2001 tra le fila di Forza Italia, per poi essere rieletto nel 2006 e nel 2008. Le sue abilità di mediatore gli sono riconosciute in modo trasversale: oltre al mondo delle imprese conosce bene i sindacati, sa dialogare con gli avversari. Che sia apprezzato anche da colleghi di altre forze politiche lo confermano quei 114 voti, ottenuti a gennaio 2022 al terzo scrutinio per la scelta del presidente della Repubblica, molti più di quelli dei grandi elettori del suo partito.

Dal 2008 al 2011 è stato sottosegretario alla difesa nel governo Berlusconi IV. In quel periodo si fa notare per le posizioni molto critiche nei confronti dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti e delle regole di Bruxelles. Nel 2011 non condivide la scelta del Pdl di sostenere il governo Monti. La spaccatura con Forza Italia lo porta a fondare insieme agli ex-ministri di Alleanza nazionale, Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato, il nuovo movimento politico di destra Fratelli d’Italia. Il cambio di casacca inizialmente non sembra portargli fortuna: alle politiche del 2013 non viene eletto perché il partito non supera la soglia di sbarramento e neanche alle Europee due anni dopo. Viene invece rieletto alle politiche del 2018, ma dopo un anno decide di lasciare la politica per dedicarsi all’attività di imprenditore. Alle politiche di settembre non si è candidato, ma ha continuato ad avere un ruolo da regista sia prima che dopo la campagna elettorale.

Guido Crosetto: dalla Confindustria delle armi alla Difesa. Michele Manfrin il 25 ottobre 2022 su L'indipendente.

Guido Crosetto, classe 1963, è il nuovo Ministro della Difesa del Governo guidato da Giorgia Meloni. L’ex Democrazia Cristiana, poi ex Forza Italia, poi ex Popolo della Libertà, ora in Fratelli d’Italia, è passato così direttamente dal ruolo di rappresentante dell’industria delle armi (presidente in carica dell’AIAD, la Confindustria del settore della Difesa), al ruolo di responsabile delle politiche dello Stato nel medesimo settore. Per provare a fugare ogni possibilità di conflitto d’interesse, Crosetto, appena nominato Ministro della Difesa, ha dichiarato: «Mi sono già dimesso da amministratore e liquiderò ogni mia società». Quindi, tutto a posto? In realtà non si direbbe. Il suo è invece un caso di studio da manuale di un problema che attanaglia la democrazia italiana, e quelle occidentali in generale, ovvero quello delle “porte girevoli”.

Crosetto ricopre incarichi istituzionali dal 1990, come Sindaco di Marene, in Provincia di Cuneo, fino al 2004, e viene eletto per la prima volta come deputato del Parlamento nel 2001, con Forza Italia. Ex democristiano, è uno dei tre fondatori di Fratelli d’Italia, nel 2011, insieme a Giorgia Meloni e Ignazio La Russa. Guido Crosetto è stato deputato della Repubblica dal 2004 ad oggi, con una parentesi fuori dal Parlamento nella 17° legislatura, ovvero dal 2014 al 2018. In questo periodo, oltre a proseguire la sua carriera di manager ed imprenditore, viene nominato, proprio nel 2014, Presidente di AIAD (federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), la quale è membro di Confindustria. Inoltre, nel 2020, Crosetto è stato nominato Presidente del Cda di Orizzonte sistemi navali, una società controllata da Fincantieri e Leonardo.

Prima di arrivare al caso specifico che riguarda Guido Crosetto, ricapitoliamo brevemente cosa è il sistema delle porte girevoli, dall’inglese revolving doors, e facciamo un paio di esempi importanti e chiarificatori nostrani. Questo tipo di sistema vede il continuo movimento di personale tra ruoli di legislatori e regolatori, da un lato, e attività di lobbying e membri delle industrie interessate dalla legislazione e dalla regolamentazione, dall’altro. I ruoli vengono eseguiti in maniera continua nel tempo. Molti sono gli analisti politici, i sociologi e i filosofi che hanno criticato questo stretto legame, il quale viene in sostanza descritto come una relazione malsana tra settore pubblico, specie nel Governo e nel Parlamento, e il settore privato, determinando una probabile concessione di privilegi e favori reciproci a discapito dell’interesse pubblico e della Nazione. Una tale connessione fatta di interessi politici, economici e sociali porta alla così detta cattura normativa: la corruzione del processo democratico in favore di interessi commerciali, ideologici o politici di una minoranza del Paese come anche di soggetti esterni allo stesso oppure di una particolare area geografica come anche nel caso di una industria, o settore, specifica o un gruppo di pressione particolare. Così facendo, un interesse speciale o particolare rischia di divenire prioritario rispetto agli interessi generali dei cittadini, portando alla corruzione del processo democratico e ad una perdita netta per la collettività. Come nota, per quanto concerne il processo democratico e lo stato della democrazia, consigliamo anche l’approfondimento da noi pubblicato con il Monthly Report numero 14 di Settembre scorso, dal titolo “Affinità e divergenze tra capitalismo e potere democratico”.

In Italia sono due gli esempi più significativi del sistema delle porte girevoli: Mario Monti e Mario Draghi. Il primo, è stato membro della Commissione europea tra il 1995 e il 1999 come commissario per il mercato interno e tra 1999 e il 2004 come commissario per la concorrenza. Nel 2002, quindi, quando ancora era commissario nella Commissione presieduta da Prodi, ha iniziato a far parte del consiglio di amministrazione dei consulenti internazionali della banca Goldman Sachs. Come certamente ricorderemo, nel 2011, Mario Monti viene prima nominato senatore a vita e poi Primo Ministro da parte del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’altro esempio emblematico è rappresentato dall’ormai ex Primo Ministro, Mario Draghi. Nel 1991, Draghi è stato nominato Direttore Generale del Tesoro italiano, carica che ha ricoperto fino al 2001, anno in cui si dimette per andare a lavorare per Goldman Sachs. Nel 2006, viene nominato governatore della Banca d’Italia, rimanendovi fino al 2011; inoltre, è stato capo del Financial Stability Board (Consiglio per la stabilità finanziaria), dal 2009, anno della fondazione dell’organo di controllo internazionale, fino al 2011. Quando si dimette da questi ultimi due incarichi è perché passa alla guida della Banca Centrale europea. Da ultimo, Draghi è nominato Primo Ministro italiano fino all’elezione di Giorgia Meloni.

Anche Guido Crosetto è certamente esempio del sistema delle porte girevoli del nostro Paese. Come leggiamo dal sito dell’organizzazione della quale è stato presidente: “L’AIAD mantiene stretti e costanti rapporti con organi e istituzioni nazionali, internazionali o in ambito NATO al fine di promuovere, rappresentare e garantire gli interessi dell’industria che essa rappresenta. Significativa l’attività svolta a riguardo dal NIAG (NATO Industrial Advisory Group) garantita attraverso i propri esperti”. Nel 2020, Crosetto è stato nominato Presidente del cda di Orizzonte sistemi navali, una società controllata da Fincantieri e Leonardo. Inoltre, insieme alla moglie e al figlio ha aperto una società di consulenza nel medesimo settore e che adesso ha dichiarato di aver liquidato. Ma per Crosetto non è il primo incarico presso il ministero della Difesa poiché infatti vi aveva lavorato come sottosegretario di Stato, tra il 2008 e il 2011, con Silvio Berlusconi a capo del Governo. In un movimento perpetuo tra pubblico e privato nel settore della difesa, in un momento tanto delicato anche per i rischi geopolitici e per i cospicui finanziamenti che stanno investendo il settore, Crosetto rappresenta il perfetto esempio del sistema delle porte girevoli. Legislatore e regolatore, poi rappresentante delle lobby dell’industria, poi nuovamente legislatore e regolatore. [di Michele Manfrin]

Giancarlo Giorgetti, chi è il ministro dell’Economia del governo Meloni. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Leghista più di governo che di lotta, Giancarlo Giorgetti, 55 anni, di Cazzago Brabbia in provincia di Varese, passa dal ministero dello Sviluppo economico a quello dell’Economia, la casella più importante. Nelle scorse ore ha ottenuto l’endorsement del suo predecessore Daniele Franco, che in un’intervista al Corriere della Sera ha detto: «Lo conosco da parecchi anni e credo sarebbe adattissimo per questo ruolo. Con lui abbiamo lavorato fianco a fianco in questi venti mesi di governo. Abbiamo in comune l’idea che lo sviluppo economico italiano dipenda da quanto accade nel sistema produttivo, in primo luogo nella manifattura e nei servizi».

I ministri del governo Meloni: l’elenco completo

L’esperienza di certo non gli manca avendo ricoperto il ruolo di ministro dello Sviluppo economico nel governo Draghi e in precedenza quello di sottosegretario alla Presidenza del consiglio dei ministri del governo Conte I, quello nato dall’accordo tra Lega e Movimento 5 Stelle. Dal 2001 al 2006, durante il secondo governo Berlusconi, è stato il presidente della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione. Il debutto in politica risale al 1995, quando è stato eletto come sindaco del suo paese natale. Ha attraversato le varie stagioni del Carroccio, da quella di Umberto Bossi che prometteva di liberare il Nord dal giogo di «Roma Ladrona», alla Lega nazionale e sovranista di Matteo Salvini. Malgrado le divergenze con l’attuale leader leghista, Giorgetti è sempre stato fedele alla linea del partito. Quando è iniziato a circolare il suo nome per il ministero di via XX Settembre, ha detto: «Se la Lega vuole il ministero dell’Economia e mi manda lì, io ci vado», volendo sottolineare di essere pronto ad assumere l’incarico solo se la scelta fosse stata condivisa da tutto il partito, a partire da Salvini.

Padre pescatore e madre operaia in un’azienda tessile, Giorgetti è laureato alla Bocconi con una tesi in Economia aziendale sugli stadi dei Mondiali di Italia ‘90. Nel 2013 è stato uno dei «dieci saggi», il gruppo di esperti chiamato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per elaborare un programma attorno al quale far nascere una maggioranza di governo, dopo due cicli di consultazioni andati a vuoto. Carattere schivo, per le sue doti di pontiere è stato definito più volte il «Gianni Letta della Lega». Da decenni cura i rapporti con gli altri partiti, ma anche con il mondo della finanza e dell’industria. Il suo approdo al Mef è visto da molti come un segno di continuità dopo l’esperienza al Mise con Draghi e come una garanzia presso le cancellerie Ue. L’endorsement di Franco è un chiaro segnale.

Chi è Giancarlo Giorgetti, il leghista di lungo corso travestito da tecnico. Il nuovo ministro dell’Economia ha un ottimo rapporto con Draghi, molto meno con il segretario del suo partito. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 21 Ottobre 2022

È l’Americano di Varese. Il leghista più amato dai poteri forti. Il mediatore sempre a galla capace di sopravvivere a tutti i cambi di stagione politica. E infatti un motivo ci sarà se Giancarlo Giorgetti, 56 anni a dicembre, in Parlamento ininterrottamente dal 1996, nei giorni scorsi non è mai uscito dalla lista dei possibili ministri del governo di Giorgia Meloni. La nomina all’Economia, che gli consegna un dicastero di grande peso politico, nei palazzi del potere romano non viene però letta come un successo leghista. In parte perché i rapporti del lumbard varesino con Matteo Salvini sono da sempre tutt’altro che idilliaci. E in parte perché la stima incondizionata che Mario Draghi nutre nei suoi confronti fa di Giorgetti una sorta di tecnico ad honorem, un uomo di garanzia nei confronti della burocrazia romana, dal Tesoro alla Banca d’Italia, e anche di Bruxelles.

Di certo adesso la Lega, che può contare anche su Salvini alle Infrastrutture, si è vista assegnare i due dicasteri di maggior peso per quanto riguarda la spesa pubblica. Due postazioni chiave, tra l’altro, per gestire il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza che grazie ai soldi europei sarà decisivo per evitare che la recessione prossima ventura faccia troppi danni.

La sfida decisiva si giocherà sui conti pubblici, con un debito che va tenuto sotto stretto controllo in una fase in cui il governo non potrà permettersi di chiudere il rubinetto degli aiuti alle famiglie e alle imprese messe alla corda dall’inflazione e dai costi dell’energia.

Nonostante il suo inglese non proprio fluente, negli anni Giorgetti è stato capace di accreditarsi anche sull’altra sponda dell’Atlantico, grazie ai tour americani e ai rapporti intrecciati prima come componente della commissione parlamentare italiana alla Nato e poi da presidente del gruppo di collaborazione tra la Camera e il Congresso Usa. I critici lo descrivono come un don Abbondio incapace di dare la spallata finale per prendersi la Lega, ma la sua specialità è un’altra.

L’ex sindaco di Cazzago Brabbia, paesino sulla sponda sud del lago di Varese, da sempre gira alla larga dai ring ed eccelle nella maratona. In 30 anni e più di militanza leghista Giorgetti ha condiviso ogni svolta, ogni linea imposta dal vertice: dal federalismo di Umberto Bossi, a cui lo lega un rapporto quasi filiale, fino al sovranismo populista di Salvini, passando dall’interregno di Roberto “Bobo” Maroni, che lo ha sempre considerato un pericoloso avversario interno. Giorgetti, sempre un passo indietro rispetto al leader di turno, non è mai finito nel cono d’ombra del potere.

Voce bassa e modi felpati, è stato descritto come il Gianni Letta della Lega e come lo storico consigliere di Silvio Berlusconi, più volte sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi del Cavaliere, anche Giorgetti nel 2018 era arrivato al governo come sottosegretario di Palazzo Chigi nel governo gialloverde tra Lega e Cinque Stelle.

Fuori dai giochi nel Conte 2, il leghista varesino l’anno scorso era stato chiamato da Draghi al Ministero dello Sviluppo Economico, crocevia degli aiuti post pandemia per le imprese e postazione decisiva per la gestione delle grandi crisi industriali, dall’Ilva all’Alitalia. Adesso il maratoneta sale all’Economia. Sempre lontano dal ring, con la casacca da tecnico e la benedizione di Draghi.

E' il numero due della Lega. Chi è Giancarlo Giorgetti, nuovo ministro dell’Economia del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Incetta di giudizi positivi per il nuovo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, definito ‘adattissimo’ dal suo predecessore Daniele Franco che si dice convinto che farà ‘un ottimo lavoro‘. Nato a Cazzago Brabbia (Varese) il 16 dicembre 1966, si è diplomato perito aziendale e laureato alla Bocconi, diventando commercialista e revisore contabile. A 29 anni e per due mandati è stato sindaco del suo paese d’origine e poi eletto alla Camera per la prima volta nel 1996 e deputato poi per sette legislature consecutive.

E’, infatti, a Montecitorio come deputato ininterrottamente da 26 anni. E’ stato due volte presidente della commissione Bilancio (2001-2006 e 2008-2013). Nel governo giallo-verde ha ricoperto il delicato ruolo di sottosegretario alla presidenza del consiglio (2018-19), con l’esecutivo Draghi è stato ministro dello sviluppo economico. E’ considerato il mediatore che ha favorito la svolta del leader della Lega alla svolta europeista. Ha sempre smentito voci di dissidi con Salvini. Ricorrendo alla metafora del calcio ha spesso dichiarato riferendosi proprio al suo rapporto con il leder del Carroccio: “Senza attaccanti non fai gol, io ho sempre detto che mi consideravo un po’ il Pirlo della situazione, che è uno che magari si vedeva poco ma era importante“.

Un uomo forte che ha sempre portato avanti le proprie convinzioni, nel settembre 2020 ha deciso di votare convintamente “no” al referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari, andando contro alla linea del partito.  Di lui si sa che ha una moglie e una figlia, cattolico praticante, ma non ha mai messo in piazza la sua vita privata. Ha due grandi passioni. La prima è il lago di Varese dove ha casa, radici e a suo dire “splendidi ricordi”. E proprio nel maggio 2019 rispondeva così a chi gli chiedeva se ci sarebbe stato fino alla fine della legislatura: “Penso di no, ho il sogno di andare su un lago a fare il pescatore“. L’altra passione è il Southampton, squadra di calcio inglese della Premier League che Giorgetti tifa da quando era bambino e che, quando può, segue anche dal vivo.

SOLDI E SEGRETI. Chi è Adolfo Urso, il ministro dello Sviluppo economico del governo Meloni. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 21 ottobre 2022

Urso, che ha vissuto tutte le fasi della destra post fascista ed è molto attento alla storia nera d’Italia, è noto per essere stato l’ex presidente del Copasir, con qualche imbarazzo vista la sua associazione finanziata da privati e, soprattutto, per le quote della società che in passato ha operato in Iran e ha avuto rapporti con un gruppo indagato per traffico di armi

Adolfo Urso, il senatore rieletto di Fratelli d’Italia, è diventato ministro dello Sviluppo economico del governo Meloni che diventerà “delle Imprese e del made in Italy”. Parte del giro siciliano del partito di Giorgia Meloni, la sua carriera politica in realtà lo ha portato a Roma da tempo.

L’apice lo ha raggiunto con la presidenza del Copasir, il comitato parlamentare che vigila sui servizi segreti, un risultato che adesso si avvia a superare. Anche se con qualche imbarazzo, viste le sue associazioni cospicuamente finanziate da privati e, soprattutto, per la società che adesso detiene il figlio, che in passato ha operato in Iran e ha avuto rapporti con un gruppo indagato per traffico di armi.

LA STORIA

Urso ha vissuto tutte le fasi della destra post fascista. Cresciuto ad Acireale, Catania, si è laureato in sociologia all'Università "La Sapienza" di Roma e da lì non si è più mosso. Nella capitale ha scritto sul giornale “Secolo d'Italia”. Dal 1994, dirige la rivista Charta Minuta, che poi diventerà il bimestrale della fondazione da lui promossa, Farefuturo.

La sua esperienza politica comincia agli inizi degli anni ottanta, nella Direzione nazionale del Fronte della Gioventù, l'organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano (Msi) guidata da Gianfranco Fini. Alla fine degli anni '80 diventerà uno dei leader della componente interna del Msi, "Proposta Italia".

Tra i promotori di Alleanza Nazionale, il partito nato da Msi, ne è stato coordinatore nazionale dal novembre 1993 fino alla fusione con il Pdl nel 2010. Da allora aderirà prima a Futuro e libertà per l’Italia e poi a FareItalia, componente parlamentare che Urso deciderà di far confluire nel partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, nel 2015. Operazione giunta a compimento dopo il lavorio culminato nella conferenza del dicembre di quell’anno «Una Destra per la Terza Repubblica. Radici storiche, valori fondanti e scelte politiche per una nuova proposta». Per non rischiare di «finire a casa, tutti, a riflettere sul tempo perduto sciaguratamente», disse Francesco Storace.

LE FONDAZIONI

La dote di Urso non è solo politica. Una delle maggiori fondazioni che supportano Fratelli d’Italia è Farefuturo, creatura del senatore e da lui supportata in ogni iniziativa con presenza fisica e web.

Come raccontato da Domani, il dirigente e parlamentare di Fratelli d’Italia è l’uomo che ha più lavorato per intensificare le relazioni con i repubblicani americani e la fondazione è stata uno strumento di questi rapporti. Sulla rivista Charta Minuta infatti scrive spesso James Carafano, analista della Heritage Foundation, che dal 1973 è uno dei think tank conservatori più influenti al mondo. Carafano è stato indicato dalla stampa internazionale tra gli esperti scelti da Donald Trump per comporre il team di transizione dopo la sua elezione.

Tra le partnership segnalate dalla fondazione Farefuturo poi c’è anche quella con Iri, International Republican Institute, l’organizzazione espressione del partito repubblicano e presieduta per 25 anni da John McCain, l’ex candidato alla Casa Bianca morto nel 2018. Celebre il suo recente viaggio negli Stati uniti, presentato come politico di Meloni ma anche da presidente del Copasir. Una scelta che gli è costata delle critiche, visto che l’organo di vigilanza dovrebbe essere super partes.

La curva dei finanziamenti di Farefuturo è cresciuta in coincidenza della nomina di Urso al Copasir. Dal 3 agosto 2020 a oggi ha incassato 97.300 euro, dichiarati secondo le norme che regolano le erogazioni ai partiti e alle fondazioni nei cui board sono presenti degli eletti. Il 90 per cento di questa somma è arrivata da maggio 2021, cioè da quando hanno iniziato a circolare le indiscrezioni sulla possibile elezione del parlamentare a presidente del Comitato.

L’IRAN

Tuttavia il maggiore problema per il comitato, non è stata la fondazione, o i suoi viaggi, ma la Italy World Service srl, una società di consulenza in cui Urso ha avuto ruoli operativi e la rappresentanza legale, prima di cedere parte delle quote al figlio nel luglio 2017, ha raccontato Repubblica. La Iws «opera nel settore della consulenza e assistenza a professionisti e imprese», in particolare «nella internazionalizzazione delle loro attività». Dai bilanci risultò che dopo il 2018, quando venne chiusa la sede di Teheran, i ricavi calarono drasticamente nonostante il senatore sminuisse l’importanza dei legami con il paese in difficili rapporti con l’alleanza euroatlantica.

A fine 2021 l’Espresso ha raccontato un altro caso legato alla Iws: un contratto di collaborazione con una società finita sotto inchiesta per traffico di materiale «dual use», dal doppio uso civile e militare – esportabile solo con specifiche autorizzazioni ministeriali –, verso l’Iran e la Libia. Un rapporto non penalmente rilevante ma ma di cui è stata messa in discussione l’opportunità.

Adesso si aggiunge il fatto che questi materiali possono essere esportati nello specifico solo con il consenso del ministero dello Sviluppo economico, lo stesso che ora andrebbe a occupare.

LA STRAGE DI BOLOGNA

Come altri componenti di Fratelli d’Italia, Urso registra un marcato rapporto con la storia nera recente, nello specifico con la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Mollicone, in questi giorni indicato tra i papabili per il ministero dei Beni culturali, nella scorsa legislatura ha fondato l’intergruppo parlamentare, con il nome “2 agosto. La verità oltre il segreto”. La strage ha provocato 85 morti e oltre 200 feriti, per la quale sono stati condannati da tempo in via definitiva Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini (ergastolo i primi due, trent’anni il terzo, minorenne all’epoca dell’attentato) e, più recentemente e per ora solo in primo grado, Gilberto Cavallini e Paolo Bellini. Tutti neofascisti.

Urso ha deciso di presentare con altri colleghi parlamentari un disegno di legge per istituire una commissione di inchiesta che punta il dito sulle presunte ingerenze estere relative alla strage.

Dalla fondazione dell’intergruppo inoltre, Urso continua a prendere parte agli eventi che organizza. L’ultimo il 14 aprile di quest’anno: la presentazione dell’autobiografia di Gianadelio Maletti, ex generale piduista ed ex direttore dell’Ufficio D del Sid degradato a soldato semplice dopo le condanne definitive per favoreggiamento nell’ambito della strage di piazza Fontana e per la divulgazione di documenti segreti.

Urso risulta poi socio di E’uropa, osservatorio sulle politiche europee non più esistente. Insieme a lui Gabriele De Francisci, un militante “nero” nei Nuclei armati rivoluzionari che Di Fioravanti è stato «testimone delle nozze con Mambro», si legge in alcuni atti giudiziari. De Francisci, ha scritto Giovanni Tizian, è citato ampiamente in una relazione del 1989 sull’omicidio di Piersanti Mattarella come soldato neofascista legatissimo ai capi dei nuclei armati.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Grande sostenitore dell'invio di armi a Kiev. Chi è Adolfo Urso, il nuovo ministro delle Imprese e del Made in Italy del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Con la fiamma mette piede in Parlamento nel 1994 quando militava nell’Msi e con la fiamma entra nel nuovo governo guidato da Giorgia Meloni. Urso passa così dalla presidenza del Copasir al ministero dello Sviluppo Economico, rinominato ministero delle Imprese e del made in Italy. Il senatore FdI, già viceministro alle Attività produttive con delega al Commercio estero per otto anni nei governi Berlusconi II e III, approda al dicastero di via Veneto nel nuovo esecutivo guidato da Giorgia Meloni.

Giornalista, imprenditore, politico e padre di tre figli, Urso è nato a Padova e cresciuto in Sicilia. Militante dell’allora Msi, si laurea in Sociologia, con lode, a La Sapienza di Roma, nel 1983 diventa giornalista professionista e lavora per il Secolo d’Italia per poi ricoprire le cariche di vicedirettore del quotidiano Roma, caporedattore dell’Italia Settimanale e direttore del mensile Charta Minuta.

Fin dagli anni Ottanta nella Direzione Nazionale del Fronte della Gioventù, è tra i fondatori di Alleanza Nazionale. Nel 2008 è tra i fondatori del Popolo della Libertà, componente dell’ufficio di presidenza del Pdl, nel 2010 con Futuro e Libertà, nel 2011 con l’associazione FareItalia, nel 2013 aderisce a Fratelli d’Italia. Eletto in parlamento per diverse legislature, nel 2013 non si ripresenta alle politiche.

Presidente della Fondazione di cultura politica Farefuturo facente parte di European Networks Ideas, la rete delle Fondazioni popolari europee, viene rieletto nel 2018 al Senato dove, dal 9 giugno 2021, ricopre la carica di presidente del Copasir. Convinto sostenitore alla resistenza ucraina contro la Russia e dell’invio di aiuti militari a Kiev, proprio lui, politico di lungo corso tra i più vicini alla leader di FdI, vola in missione in Ucraina e poi negli Usa poco prima della tornata elettorale del 25 settembre: obiettivo rassicurare sul sostegno dell’Italia a Kiev, sulla collocazione internazionale del nostro Paese nell’Unione europea e nell’Alleanza Atlantica.

Dagospia il 30 ottobre 2022. Comunicato Stampa di Adolfo Urso

"Il senatore di Fratelli d'Italia, Adolfo Urso, ha dato mandato ai propri legali di procedere in sede civile e penale nei confronti del direttore della agenzia Dagospia in riferimento alla campagna aggressiva perpetrata nei suoi confronti con perseveranza e in modo continuativo, con notizie false e interpretazioni diffamatorie, come dimostrano una serie ripetuta di articoli privi di ogni fondamento, peraltro poi smentiti dai fatti, in ogni recente significativo passaggio politico e istituzionale.

È accaduto con la campagna denigratoria tesa a impedire l’elezione del sen. Urso a presidente del Copasir, i cui risultati peraltro sono conclamati; poi riproposta nelle stesse modalità nel tentativo, peraltro anch’esso fallito, di impedire che lo stesso realizzasse una importante missione a Washington, quindi con la nomina a ministro della Repubblica per la quale addirittura si chiama in campo persino la più alta carica dello Stato. 

Peccato che nessuno degli interlocutori a cui Dagospia fa riferimento abbia mai dato credito alle sue falsità, come dimostra persino il riconoscimento del ruolo svolto dal sen. Urso e dal Copasir da lui presieduto nei comunicati ufficiali della presidenza dell’Ucraina, il pieno successo della sua missione negli Stati Uniti, la conclamata amicizia con lo Stato di Israele, le pubbliche attestazioni degli interlocutori occidentali in incontri e meeting pubblici.

Peraltro, Dagospia aveva già oltre dieci anni fa realizzato una analoga campagna, in quel caso sul patrimonio immobiliare del sen. Urso, poi ripresa da altri quotidiani. In quella occasione, le testate e i giornalisti che attinsero a quell’articolo come se fosse notizia vera e seria, furono tutti condannati a un significativo risarcimento dei danni. 

Mentre Dagospia, lamentando mancanza di fondi ed evidentemente consapevole della non vericidità dei fatti riportati, richiese al sen. Urso una transazione con l’impegno a pubblicare una rettifica ove dichiarava espressamente che l’articolo era del tutto inveritiero. Impegno che, tra l’altro, non è stato rispettato, come è nello spirito della Testata. Anche per tali motivi stavolta non si accetterà alcun tipo di transazione". 

Lo rende noto l'ufficio stampa del senatore Adolfo Urso. 

DAGO-REPLICA

Prendiamo atto delle dichiarazioni dell’avv del ministro Urso che fa riferimento ad una  presunta e del tutto inesistente trama diffamatoria mischiando fatti attuali con eventi di oltre 10 anni fa . Lo aspettiamo in giudizio dove non avremo difficoltà a motivare le nostre affermazioni anche con ulteriori elementi e più circostanziate analisi

La sovranità alimentare è di destra o di sinistra? Ecco come nacque l’idea: era il 1996. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

La locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il neonato Wto: l’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. 

Chi frequenta Twitter è rimasto sopraffatto in questi giorni dalla consueta ondata di ironia monotematica, questa volta riservata al nuovo ministero della Sovranità alimentare. Tutti a postare carbonare e minestroni e vantarsi della loro propensione alla sovranità. Tutti ad additare il neogoverno Meloni, accusandolo di revanscismo sovranista e destrorso. Poi è arrivato Carlìn Petrini e ha dato il contrordine a nome di Slow Food: compagni, smettetela, la sovranità alimentare è di sinistra. Stupore, sconcerto, diffidenza. Ma come? Ancora ieri Chicco Testa si ritraeva con una manciata di funghi in mano e rivendicava ironicamente la sovranità alimentare. Qualche avvisaglia c’era.

Anche i francesi hanno dato lo stesso nome a un ministero: Souveraineté alimentaire. Certo, dalle parti di Macron non sono estremisti di sinistra, ma neanche post-fascisti, come i francesi amano definire Fratelli d’Italia. E allora? Allora si scopre che questa locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il Wto, appena nato. L’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. Quello contro cui si combatte è la mondializzazione (o globalizzazione) delle politiche agricole. Il modello contestato è quello degli scambi internazionali che grazie all’economia di scala riducono i costi ma tolgono sovranità e soldi ai contadini e alle organizzazioni locali, per favorire le multinazionali agroalimentari. C’è anche una definizione specifica data da Via Campesina della sovranità alimentare: «Il diritto delle persone a produrre in maniera autonoma alimenti sani, nutrienti, adatti al clima e alla cultura, utilizzando risorse locale e con strumenti ecologici, principalmente per rispondere ai bisogni alimentari locali e delle loro comunità».

Riassumendo. Sovranità non è sovranismo (come spiegava l’altro giorno il professor Roberto Vecchioni da Fabio Fazio: in soldoni, sovranità è avere il controllo di noi stessi, sovranismo è fregarsene degli altri). Sovranità non è autarchia. Non è sì all’amatriciana, no al cous cous. Non è questa la questione che sollecita l’uso di questa locuzione. Dunque, sovranità alimentare non è una nozione di destra. È un termine che si oppone ai monopoli e allo sfruttamento delle multinazionali, alla globalizzazione selvaggia delle filiere e allo sfruttamento intenso dell’ambiente. Perfetto. Ma se è così, che ci fa in un ministero di destra, retto dal fratello d’Italia Francesco Lollobrigida?

Il fatto è che le parole spesso sono ambigue. È «una fregatura lessicale», sintetizza Alice Fanti, della onlus bolognese Cefa. Evidentemente alla destra è piaciuta la parola sovranità, che infatti ha richiamato in molti lettori il sovranismo. Ed evidentemente c’è una quota di battaglie di destra che possono rientrare agevolmente in questo concetto. Quella contro il nutriscore, per esempio, che coincide con la difesa del made in Italy (fa ridere che si debba usare l’inglese per difendere i prodotti italiani ma è il nome ufficiale del ministero di Adolfo Urso). Il sistema di etichettatura a semaforo privilegia i prodotti in base a livelli di zuccheri, grassi, sale e qualità salutari. Ne escono male, per esempio, olio, parmigiano reggiano e vino. Poi c’è la lotta all’«italian sound». Per capirsi, quando vendono un «parmesan» che non ha niente a che fare con il nostro parmigiano dop. È una battaglia di destra? No. Come non lo è quella per il chilometro zero, che in origine sosteneva Petrini (poi si è pentito). Lo diventa se un’idea di buon senso, privilegiare il pomodoro sotto casa rispetto a quello fatto in Cina (peggiore, in termine di qualità e di inquinamento prodotto per farlo arrivare qui) diventa una battaglia autarchica e ariana a favore dei nostri prodotti locali contro il sushi invasore.

Il Messaggero ricordava che sulla nostra tavola, attraverso la grande distribuzione, arrivano solo sei varietà di mela, tutte straniere, e nessuna delle nostre 200 varietà autoctone. Proibire le mele straniere sarebbe di destra. Favorire il commercio locale e la biodiversità, invece, sarebbero battaglie di sinistra. Altra declinazione della sovranità alimentare: gli alimenti sintetici. La bistecca in 3D potrebbe essere utile per arricchire le diete povere, grazie al basso costo. Ma rischia di danneggiare seriamente gli allevamenti locali. La destra, semplificando, si schiera a difesa totale degli allevamenti, a prescindere dall’enorme inquinamento ambientale e dell’attenzione alla sostenibilità. Servirebbe un equilibrio, tra la difesa dell’allevamento tradizionale e l’affiancamento con nuove forme di alimentazione. Lo stesso vale per l’uso alimentare degli insetti. La destra (Matteo Salvini in primis) ne fa una battaglia molto spettacolare, come avevamo raccontato in questo pezzo, dove si lanciava l’allarme sulla «decostruzione della sacralità del cibo». In generale, la destra è per la difesa delle tradizioni, non solo agricole, ma anche e soprattutto alimentari (che poi diventa difesa di categoria e protezionista). Ma attenzione: anche certa sinistra, a partire da Slow Food, lo è.

Il corto circuito dunque c’è: destra e sinistra, su alcuni temi, si sovrappongono. E la sinistra nostalgica rischia di fare il giro e diventare reazionaria. Certi concetti, come la sovranità alimentare, possono essere di sinistra o di destra, a seconda di come vengono declinati. Insomma, cosa si nasconda davvero dietro la scelta lessicale del governo Meloni, se sia una locuzione filologicamente corretta o se sia una «fregatura», lo scopriremo nei prossimi mesi, quando le parole diventeranno fatti. E si capirà se sotto la parola «sovranità» si nascondeva «sovranismo». O, come scrive su Huffington Post Michele Mezza, se dietro c’è la «mucca Carolina», ovvero «l’emblema delle rivolte della lobby degli allevatori che pretendevano di non pagare la multe che l’Unione europea aveva comminato per le truffe perpetrate dopo aver incassato copiosi finanziamenti per limitare la produzione». 

Sovranità alimentare. Storia e geografia di un concetto. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.

L’abbiamo letto e ci siamo scandalizzati. Il nuovo Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare porta nel nome anni di contrasto alla fame e alla globalizzazione e rimanda ai movimenti per il diritto all’autodeterminazione alimentare. Chissà se avevano in mente questo, quando hanno cambiato nome

L’agricoltura è da sempre considerata un settore strategico dell’economia. E per “da sempre” intendiamo dai tempi dell’antica Roma. E nella storia più recente l’intervento degli stati ha sostenuto e incoraggiato la produzione agricola per garantire alla popolazione l’autosufficienza alimentare: qualunque cosa succeda, guerre, catastrofi naturali, epidemie, il cibo non deve mancare.

La crescita della popolazione mondiale, l’acuirsi del problema della fame nel mondo e gli squilibri nella distribuzione delle risorse alimentari hanno generato la necessità di un intervento globale attraverso le organizzazioni internazionali.

Il primo passo: contro la fame a livello globale

La Convenzione Internazionale per i Diritti Economici, Sociali e Culturali riconosce ad ogni individuo il diritto fondamentale di essere libero dalla fame. In occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, il 16 ottobre 2003, la Fao ha raccolto nella pubblicazione “Lavorare insieme per un’alleanza contro la fame” una serie di obiettivi e di raccomandazioni alle singole nazioni: gli stati devono rispettare, proteggere e garantire il diritto dei loro cittadini ad alimentarsi a sufficienza e devono intervenire se questi non saranno in grado, per motivi al di fuori del loro controllo, di provvedere a se stessi.

Oggi – scrivevano – il mondo produce cibo a sufficienza per nutrire i suoi abitanti e dispone delle conoscenze tecniche per migliorare l’alimentazione e aumentare l’accesso al cibo e tuttavia troppo pochi Paesi hanno fatto abbastanza per combattere la fame. A distanza di quasi vent’anni la situazione non è cambiata di molto, e gli ideali di cooperazione e di azione sono stati troppo spesso disattesi. Ancora la quantità di cibo in molte regioni del mondo è insufficiente, e spesso la globalizzazione ha portato a un peggioramento delle condizioni nelle aree più povere della terra.

È proprio il mercato globale dei prodotti agricoli a provocare danni pesanti alle coltivazioni di tradizione locale dei territori più poveri, portando a una sistematica sostituzione delle colture più antiche e a un’imposizione di sistemi e politiche agricole estranee al territorio e alle capacità organizzative delle aziende locali. È in questo contesto che fa per la prima volta la sua comparsa il concetto di Sovranità alimentare.

Il passo successivo: la tutela del patrimonio agricolo

«Il diritto dei popoli e degli Stati sovrani a determinare democraticamente le proprie politiche agricole e alimentari». Questa la definizione di sovranità alimentare dettata nel 2008 dall’International Assessment of Agricultural Science and Technology for Development (Iaastd) con il patrocinio delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale. Il concetto è stato introdotto in realtà già nel 1996 dal movimento contadino internazionale Via Campesina, e riaffermato nel World Food Summit di Roma.

Ancora, nel 2007 in Mali il Forum Internazionale sulla sovranità alimentare affermò «il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo». Al diritto ad alimentarsi si affiancano quindi principi come la biodiversità, la qualità, la possibilità di gestire direttamente le risorse del territorio senza interferenze da chi detiene tecnologie e risorse finanziarie superiori. Alla filosofia della sovranità alimentare fanno riferimento elementi culturali e sociali, e la volontà dei diversi popoli di affrancarsi dai condizionamenti dettati dagli interessi delle multinazionali del settore.

Si sceglie così di valorizzare e proteggere le sementi e le varietà locali, tutelando diversità che andrebbero altrimenti perdute. Si sceglie di dare spazio alle conoscenze e alle metodiche di lavorazione consolidate nel tempo e che rischiano di finire dimenticate, soffocate dall’uniformità imposta dalla globalizzazione, senza tenere conto delle necessità delle singole realtà geografiche.

Un concetto quanto mai attuale

La sovranità alimentare è un concetto oggi riscoperto e rivalutato, come dimostra la scelta del governo francese di utilizzare il nome Ministère de l’Agriculture et de la Souveraineté alimentaire. E come dimostra la scelta fatta oggi dal nuovo governo italiano. Del resto già da tempo molte comunità nel mondo seguono questa filosofia, a partire dall’attivismo in questo senso dei nativi americani, per arrivare a quegli stati che, come l’Ecuador, il Mali, la Bolivia, il Venezuela, il Senegal e l’Egitto, hanno inserito il concetto di sovranità alimentare nelle proprie costituzioni e nelle proprie leggi.

E in Italia Slow Food mette in evidenza per bocca della presidente Barbara Nappini come quello di sovranità alimentare non sia un concetto «sinonimo di autarchia: è il diritto dei popoli a determinare le proprie politiche alimentari senza costrizioni esterne legate a interessi privati e specifici. È un concetto ampio e complesso che sancisce l’importanza della connessione tra territori, comunità e cibo, e pone la questione dell’uso delle risorse in un’ottica di bene comune, in antitesi a un utilizzo scellerato per il profitto di alcuni».

Cos’è la sovranità alimentare per Giorgia Meloni. FABIO CICONTE su Il Domani il 04 ottobre 2022 Aggiornato, 21 ottobre 2022

Negli ultimi tempi ha preso piede una nuova tendenza: cambiare titolo ai ministeri. Lo abbiamo già visto con la nascita del ministero della transizione ecologica (transizione che di ecologico ha avuto ben poco). Questa volta è il turno dell’agricoltura. Francesco Lollobrigida sarà ministro alla sovranità alimentare

Negli ultimi tempi ha preso piede una nuova tendenza: cambiare titolo ai ministeri. Lo abbiamo già visto con la nascita del ministero della transizione ecologica (transizione che di ecologico ha avuto ben poco). Questa volta è il turno dell’agricoltura. Francesco Lollobrigida sarà ministro alla sovranità alimentare.

Una narrativa che ricalca un concetto elaborato dai movimenti contadini negli anni Novanta, svuotandolo però di senso per declinarlo in chiave conservatrice e antiecologica.

UTOPIA ROVESCIATA

Quello proposto dalla “Via Campesina” venticinque anni fa, è centrato su economie alimentari locali, sostenibili e in armonia con gli ecosistemi. L'idea era di rimettere il potere nelle mani delle persone che producono, distribuiscono e consumano cibo piuttosto che in quelle di grandi imprese e istituzioni del mercato.

Ora lo scenario è cambiato. Si scrive sovranità, si legge sovranismo.

«La sovranità alimentare è centrale», ha dichiarato sabato Giorgia Meloni, nella sua prima uscita pubblica all’indomani delle elezioni. «Ci hanno raccontato che il libero commercio senza regole ci avrebbe reso tutti più ricchi, ma non è andata così, la ricchezza è concentrata verso l'alto e ci siamo indeboliti, dipendiamo da tutti per tutto».

Ha anche precisato che «sull'agroalimentare ci sono tre grandi questioni, la prima è la sostenibilità ambientale, sociale ed economica: vogliamo difendere l'ambiente con l'uomo dentro». Dichiarazioni persino condivisibili, se ci si ferma all’apparenza.

SENZA VINCOLI 

La realtà è invece quella del produttivismo senza se e senza ma: bisogna spingere sulla produzione di cibo, costi quel che costi. Lo abbiamo visto all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, quando il concetto di sovranità alimentare è stato usato per mettere uno stop alle condizionalità ambientali nella produzione di grano e mais. Salvo poi scoprire, lo abbiamo scritto su questo giornale, che i documenti ufficiali della Commissione europea sostengono esattamente il contrario, ovvero che «l’Europa è sostanzialmente autosufficiente dal punto di vista dei cereali».

L’idea di sovranità alimentare del nuovo governo porta quindi con sé l’idea che la transizione ecologica non debba intralciare il sistema produttivo, ma collocarsi all’ultimo posto fra le priorità.

IL CONTADINO PATRIOTA

Il modello sembra essere quello nel quale il contadino-patriota viene dispensato dai vincoli ambientali per consentirgli di sfamare la nazione.

Se questo è l’obiettivo, dobbiamo aspettarci un contrasto alle strategie europee di riduzione dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, l’introduzione dei nuovi OGM senza etichettatura, l’allevamento intensivo di animali in spregio alle emissioni di gas serra.

Insomma, sarà una “sovranità alimentare” sempre più insostenibile, che però avrà il marchio tricolore.

Avremo prodotti realizzati (forse) in Italia, certo, ma in un sistema dove le grandi multinazionali continueranno a detenere l’oligopolio del mercato della chimica, delle sementi, della meccanica e del commercio globale.

Il sovranismo alimentare che ci aspetta sarà quindi un misto di retorica nostalgica e glifosato, un ritiro definitivo della politica dalla transizione ecologica dei sistemi alimentari per sostenere un’agricoltura intensiva sempre più fuori dal tempo.

FABIO CICONTE. È direttore dell’associazione ambientalista Terra! e portavoce della campagna #FilieraSporca contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Impegnato da anni su tematiche ambientali e sociali, ha curato e redatto diversi studi, ricerche e inchieste giornalistiche sulle filiere agroalimentari. Ha scritto Il grande carrello (Laterza, 2019 con Stefano Liberti) e Fragole d’inverno (Laterza, 2020).

Il ministero delle Politiche agricole cambia nome. Carlo Petrini: «La sovranità alimentare? Un obiettivo da perseguire». BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022

L’ex ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali cambia nome e porta con sé il concetto di «sovranità alimentare» che, per il presidente di Slow Food Carlo Petrini, è da valorizzare. «Ma non in chiave autarchica e anti europeista, sarebbe un errore» 

Carlo Petrini, il nuovo ministero dell’Agricoltura porta con sé anche il concetto di sovranità alimentare. Qual è il suo parere?

«È la stella polare per affrontare la rigenerazione dell’agricoltura nel mondo. È un concetto per cui si battono da anni tanti movimenti, compreso Slow Food».

Quindi il suo parere è positivo?

«Certo, anche se io non sto da quella parte politica, non posso dare contro a un ministero che ha dato la denominazione giusta. Allo stesso tempo, se questa è una furbizia, lo si capirà subito. L’importante è non storpiare le parole né abusarne, come si fa oggi con la sostenibilità».

È una denominazione giusta perché?

«La sovranità alimentare valorizza i prodotti del territorio e la biodiversità. E oggi va sostenuta se pensiamo che la nostra realtà agricola sta morendo e che arrivano derrate di qualità discutibili. Se poi ci sono alcuni prodotti che il nostro territorio non produce o non ce ne sono a sufficienza, allora sì bisogna pensare a importarli».

Ma può sfociare nell’autarchia?

«No, non vuol dire chiudere agli altri, ma seminare e produrre tutto ciò che può produrre un Paese, dando autonomia e un riconoscimento agli agricoltori. Se poi il concetto lo si interpreta in chiave autarchica e anti europeista si sbaglia, perché l’Europa su questo concetto ha realizzato le denominazioni di origine protetta».

Che cosa pensa del neo ministro Francesco Lollobrigida?

«Non lo conosco, vedrò come si muove».

Lollobrigida: «Difenderò le nostre eccellenze. La sovranità alimentare non è un concetto fascista». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2022.

Il neoministro: è un principio che governi socialisti hanno addirittura inserito nella Costituzione. No a degenerazioni come la carne in laboratorio 

«Ma quale autarchia? Anche Slow Food ha avuto parole di apprezzamento per la Sovranità alimentare». Francesco Lollobrigida si avvicina all’enorme portone di via XX Settembre su cui campeggia la scritta ministero dell’Agricoltura e Foreste, mentre difende quel pezzetto di denominazione in più che ha sollevato qualche perplessità: «Sovranità Alimentare non è un concetto fascista. Ma un principio che nazioni con governi socialisti hanno addirittura inserito in Costituzione: penso all’Ecuador, al Venezuela», garantisce. Ha giurato da quattro ore Francesco Lollobrigida, sposato con Meloni — Arianna, sorella di Giorgia, entrata in politica dopo di lui — coronando «il sogno di Atreju di dare voce e rappresentanza a tutti i patrioti italiani». E già deve difendersi dalle accuse.

Governo Meloni, le foto delle consultazioni del centrodestra

Colpa di quella dicitura «nostalgica». Lui replica: «È identica a quella del ministero dell’Agricoltura francese. Sa perché lo abbiamo copiato? Perché la Francia ha la capacità di difendere i propri interessi nazionali. E credo che ogni nazione dovrebbe avere il dovere e il diritto di difendere le proprie eccellenze alimentari».

Ma questo, assicura «non significa mettere al bando prodotti stranieri». Bensì proteggere i nostri da copie come il «Parmesan» o il «Prosec». Così come, dice, ha fatto l’Ungheria con il Tocai. «Questo significa autarchia e protezionismo?», chiede. Lui ritiene di no. E si accalora a dimostrarlo: «Sovranità alimentare significa tutelare l’economia e rimettere al centro della produzione il rapporto con i coltivatori non solo per proteggere una parte della filiera agroalimentare, ma la cultura rurale». Poi si ferma e contrattacca: «Se la sinistra trova questa dicitura così negativa perché non ha obiettato nulla quando ha firmato il protocollo d’intesa con la Francia in cui c’era anche il Ministère de l’Agriculture et de la Souveraineté alimentaire?».

ed ex consigliere provinciale di Subiaco — terra natìa della sorella di suo nonno, l’attrice Gina — assieme alle critiche per il cambio di logo, ha ricevuto anche apprezzamenti da categorie agricole e, rimarca «da cittadini che approvano l’idea mirata a difenderli dalle degenerazioni della globalizzazione». E chiarisce perché: «La tendenza che vogliono far passare è che l’importante è nutrirsi. A prescindere da dove e come viene prodotto il cibo. Ma noi non possiamo accettarlo. Il prodotto italiano è un’eccellenza nel mondo. E il legame con il territorio è di primaria importanza».

L’ex capogruppo FdI punta il dito contro l’hamburger clonato: «Quello che davvero ci allarma sono degenerazioni di cui nessuno parla, come la produzione di carne in laboratorio. Trovarsi nel piatto un prodotto così fa schifo. Noi di FdI avevamo firmato una petizione promossa da Coldiretti per contrastare questa aberrazione», dice il neoministro. Precisando che è una difesa della qualità e dei consumatori più deboli: «Non siamo certo per gli allevamenti massivi con migliaia di ettari di stalle in fila che sfruttano e stressano gli animali. Ma vogliamo tutelare i piccoli allevatori e un’economia di qualità che difenda anche il territorio. Parliamo di dissesto idrogeologico senza considerare che è causato dall’abbandono dei coltivatori agricoli che prima pulivano gli argini e il letto dei fiumi. Per evitare la desertificazione di quei territori dobbiamo incentivare i piccoli imprenditori».

Varca la soglia di quel Palazzo dove è scritto, in latino, «mentre rimane nella stirpe la virtù antica dei padri, la gloria divina della campagna accresca l’Italia», per il passaggio di consegne con il predecessore Stefano Patuanelli. In vista del primo consiglio dei ministri del Meloni I fissato per oggi. Al termine posta su Facebook una foto con il senatore M5S e commenta: «In difesa della produzione italiana è un sentimento che ci accomuna». Poi cita l’IPCFS — piattaforma internazionale per la Sovranità alimentare — e assicura: «Tutti i popoli hanno diritto a definire le politiche agricole, della pesca, alimentari e della terra affinché siano ecologicamente e socialmente appropriate a garantire una alimentazione sana, nutritiva e culturalmente appropriata. Anche gli italiani. È questo che voglio fare da ministro».

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 24 Ottobre 2022. 

Forse è un concetto un po' troppo sofisticato per la nostra polemica quotidiana, la «sovranità alimentare» che da adesso in poi campeggerà all'ingresso del ministero dell'Agricoltura. E il neo ministro Francesco Lollobrigida, FdI, si è subito piccato per le critiche. «Il prodotto italiano - ha detto arrivando a palazzo Chigi per il primo Consiglio dei ministri - è un prodotto di eccellenza e va tutelato. Il ministero francese aveva un bel nome che abbiamo voluto utilizzare anche noi perché la difesa del prodotto agricolo nazionale è una grande priorità». 

In effetti è un bellissimo concetto, nato tra i campesinos dell'America latina quasi venti anni fa, che teneva assieme biodiversità, produzioni locali, piccole comunità. L'ha poi recepito la Francia, che della difesa del «terroir» ha fatto un vanto e anche un business. Ed è finito nelle Costituzioni di Ecuador e Venezuela.

[…] Dice […] il ministro: «L'agricoltura è uno dei pilastri della nostra nazione e il nostro obiettivo è tutelare l'economia agricola dalle aggressioni del mercato del falso che distorce miliardi di euro, rimettere al centro il rapporto con il settore per proteggere la filiera e il concetto di cultura rurale». 

Ed ecco Angelo Bonelli, Verdi, […] ricorda che FdI in Europa ha appena approvato il rinnovo della Pac, la politica agricola comunitaria: «Il modello di agricoltura intensiva promosso dalla Pac porta direttamente alla perdita di biodiversità, all'inquinamento dell'acqua e dell'aria e contribuisce alla crisi climatica. […]». […]

Estratto dell’articolo di Gabriele Barberis per “il Giornale” il 24 Ottobre 2022.  

[…] Ministro Lollobrigida, cos' ha trovato nel dossier agricoltura ereditato dal governo Draghi? A caldo pensa di invertire la rotta o di proseguire sulla strada tracciata?

«[…] Il nostro agroalimentare ha raggiunto oltre i 500 miliardi di produzione annua per oltre 50 miliardi di esportazione, ma poggia su un sistema estremamente fragile. La combinazione di fattori come l'aumento dei costi delle materie prime, dei carburanti, dei fertilizzanti e i costi della pandemia hanno ulteriormente messo in difficoltà un settore che era già fortemente in crisi, portandolo a livelli preoccupanti».

Quale sarà il primo decreto che proporrà?

«Negli ultimi dieci anni hanno chiuso oltre 26.000 stalle, pari al 50% del totale presente in Italia. Il reddito netto delle aziende è drammaticamente sceso del 60%. Senza dimenticare l'Italian Sounding che vale 100 miliardi e sottrae risorse alla nostra economia. Bisogna togliere il limite ai terreni incolti: abbiamo 1 milione di ettari coltivabili. Dobbiamo aumentare la resa delle produzioni attraverso un piano nazionale di coltivazione che non può prescindere da contratti di filiera chiari. Attivare una legge sulle pratiche sleali, affinché non ci siano schiacciamenti sull'anello debole della filiera, ovvero il produttore. Investire sull'innovazione e mettere un freno alla speculazione sulle materie prime come il grano».

«[…] difendere le proprie eccellenze alimentari è un dovere di ogni esecutivo. Il nostro obiettivo è tutelare l'economia agricola dalle aggressioni del mercato del falso che distorce miliardi di euro, rimettere al centro il rapporto con il settore per proteggere la filiera e il concetto di cultura rurale. Tutti i popoli hanno il diritto di definire le politiche agricole e alimentare. Anche gli italiani». 

[…] Oltre a condividere una lunga militanza nel partito, siete legati da parentela come cognati. Vi siete parlati su come separare o interpretare in pubblico il ruolo familiare?

«Non ce n'è bisogno. Ci siamo conosciuti quando da tempo eravamo impegnati in politica e i rapporti familiari non sono mai stati né un particolare vantaggio né ovviamente un impedimento». […]

Estratto dell’articolo di Carlo Petrini per “la Stampa” il 24 Ottobre 2022.  

Nelle ultime ore si fa un gran parlare di sovranità alimentare, da quando i due termini sono stati affiancati nel nuovo dicastero alla parola "agricoltura". La cosa non mi può far che piacere perché la sovranità alimentare è alla base del lavoro di Slow Food da ormai trent'anni. […] si tratta di un concetto importante, essenziale per il futuro dell'umanità e che non deve essere confuso né con sovranismo e neppure con autarchia.

Innanzitutto è un'espressione che nasce e evolve dall'esperienza e analisi critica di gruppi di contadini alla luce degli effetti provocati dai cambiamenti nelle politiche agricole durante l'ultimo ventennio del secolo scorso. Correva l'anno 1986 e il gotha della politica internazionale riunito a Ginevra decise, durante una seduta plenaria dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, di includere la produzione primaria all'interno dell'Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio.

Da quel momento in poi anche le scelte in merito alla produzione e al commercio del cibo, l'ambiente, l'accesso alla terra e la cultura legata alla vita nei campi, sarebbero state assoggettate alle regole neoliberiste del mercato internazionale. Come controrisposta, a livello mondiale iniziarono a costituirsi movimenti di base del mondo contadino con l'obiettivo di difendere il vero valore del cibo non come bene da commerciare, ma come diritto umano da garantire e tutelare. 

[…] Il principio cardine è l'autodeterminazione dei popoli nella scelta delle proprie politiche agricole affinché siano in sintonia con il tessuto ecologico, economico e sociale e garantiscano l'accesso a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato. Negli anni il concetto di sovranità alimentare è stato testimoniato da milioni di contadini in tutti i continenti. […]

Sostenere la sovranità alimentare significa schierarsi contro pratiche inique e dannose portate avanti dall'agroindustria (monocoltura, uso pesante della chimica di sintesi, cibi ultraprocessati), così come anche da una buona parte della grande distribuzione organizzata; ponendo invece al centro il diritto al cibo sano e nutriente per tutti, insieme ai diritti umani fondamentali, e la salute del pianeta. 

Vuol dire riconoscere il ruolo chiave dei piccoli produttori di ogni tipo, contadini e agricoltori a conduzione familiare […] È anche rivendicare l'importanza di pratiche agroecologiche, con una maggiore facilità di accesso a terra, acqua e semi; contro la monocoltura e le pratiche di tipo estrattivista. […] 

Se applicata correttamente la sovranità alimentare crea una tensione positiva tra dimensione locale e globale e permette ai popoli di essere davvero liberi nella scelta di ciò che produrre e consumare, mettendo al centro il benessere delle persone e del pianeta. […] La sovranità alimentare quindi non vuole essere né un concetto nostalgico e passatista (il caffé di cicoria non tornerà ad essere l'unico disponibile), e nemmeno una chiusura rispetto al mondo esterno (continueremo a mangiare banane e ananas). […]

Francesco Lollobrigida, l'uomo incaricato da Giorgia di risollevare il Made in Italy. Chi è Francesco Lollobrigida e perché Giorgia Meloni lo ha voluto al Ministero dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare. Il loro sodalizio umano e politico è solidissimo, c'è solo una cosa che li divide...Elena Barlozzari il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Nella consueta lotteria dei papabili ministri, il suo nome non c’era. Riconfermato capogruppo alla Camera 72 ore prima della ufficializzazione della squadra di governo, Francesco Lollobrigida, sembrava fuori dai giochi. Non per demerito, sia chiaro, semmai per eccesso del suo contrario: per aver guidato la pattuglia parlamentare talmente bene da essersi reso quasi insostituibile. Mai una lamentela, una recriminazione, mai qualcuno che abbia sparso veleno sul suo conto o lasciato il gruppo sbattendo la porta. Appariva scontato e naturale, insomma, che sarebbe rimasto al suo posto, a maggior ragione adesso che il gruppo parlamentare alla Camera è cresciuto in maniera esponenziale.

Poi, nel tardo pomeriggio di ieri, una Giorgia Meloni visibilmente emozionata spariglia le carte e lo nomina ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. Non si è trattato di una manovra dell’ultimo secondo né di un rimpiazzo. È rimasto al riparo da indiscrezioni e rumors perché il suo nome non finisse in legna da ardere. Francesco Lollobrigida è una delle colonne portanti di Fratelli d’Italia: c’era ben prima che l’azzardo politico di pochi diventasse certezza per tanti. È uno degli antesignani della "generazione Atreju". Nel 1994, mentre "Giorgia" varcava, appena sedicenne, l’ormai famoso portone blindato della Garbatella, lui era già responsabile del Fronte della Gioventù della provincia di Roma. I loro destini si incrociano così, ai tempi dei movimenti studenteschi, nonostante qualcuno si ostini ancora a chiamarlo con malizia "cognato", come a voler insinuare che la sua fortuna politica dipenda dal matrimonio con Arianna, la sorella di Giorgia.

È nato a Tivoli nel 1972 ma è cresciuto a Subiaco, un borgo medievale da cartolina che domina la Valle dell’Aniene. È lì che inizia il suo cursus honorum come consigliere comunale (1996-2000). Francesco Lollobrigida, oggi detto "Lollo", ma che da ragazzo veniva chiamato "Beautiful" (in omaggio al suo fascino), è entrato nel palazzo relativamente tardi. Solo nel 2018, dopo aver scalato uno per uno tutti gli incarichi di rito: consigliere provinciale di Roma (1998-2003), assessore allo Sport, Cultura e Turismo del Comune di Ardea (2005-2006), consigliere regionale del Lazio (2006-2010), assessore alla Mobilità e ai Trasporti del Lazio (2010-2013). Una lunga sequenza di esperienze che gli hanno permesso di conoscere a fondo al macchina amministrativa e di stringere legami umani e politici destinati a restare.

Il più fortunato è sicuramente quello con Giorgia Meloni, sua vicina di "banco" ai tempi dell’incarico provinciale. "Abbiamo attraversato quell’esperienza legandoci sempre di più, io ero più attento al territorio. Lei volava più alta su temi di carattere politico", racconta il neoministro nel libro "Fenomeno Meloni" (ed. Gondolin) di Francesco Boezi. È a questo punto che l’affiatamento cresce diventando sodalizio. Ci sono dei momenti in cui l’intesa tra i due vacilla: "Quando c’è il derby, lui è tifosissimo della Lazio, lei della Roma", scherza chi li conosce. Nel 2014, l’anno del salto buio, "Lollo" diventa responsabile dell’organizzazione della neonata Fdi. C’è un partito da ricostruire, militanti da ritrovare, spazi da riconquistare, e lui è l’uomo giusto. Sa come muoversi, conosce i territori e le loro dinamiche. È il più indicato per "attitudine, esperienza, determinazione e autorevolezza", riconosce chi all’epoca lo ha visto in azione.

Le stesse qualità che oggi gli sono valse un incarico affatto secondario nei piani del nuovo esecutivo. Non a caso le vecchie Politiche agricole sono diventate il ben più altisonante Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. È un modo per ridare centralità e dignità all’agroalimentare e al Made in Italy, asset strategici dell’economia nazionale e strumento di soft power, oltreché patrimonio identitario. Le sue prime parole da neoministro? "Il nuovo ministero non è inedito, lo hanno anche in Francia, hanno difeso meglio i loro prodotti. Riteniamo sia in linea con la vocazione che avremo anche noi, difendere i nostri prodotti".

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 22 ottobre 2022.

Più efficace del «lei non sa chi sono io», forse in Italia c'è solo il «lei non sa chi è mio cognato» che però è anche maledetto, come insegna la fucilazione a Dongo di Marcellino Petacci, il fratello di Claretta. Ed è un peccato che Giorgia Meloni, che pure ha imparato tanto da Gianfranco Fini, il quale, dicono, segretamente la consiglia ancora adesso - consulente in abiura soprattutto - da lui non abbia imparato a tener lontana la famiglia, estesa sino agli acquisiti, appunto, che cominciano bene e finiscono male. 

È vero che in nient' altro si somigliano, il Giancarlo Tulliani di Fini e il Francesco Lollobrigida della Meloni, se non per l'aria presuntuosa di parentela, che non è sangue e non è Dna, ma è una qualità dello spirito, come una categoria kantiana, la "cognateria", che prevede sempre un po' di sfoggio e di gradasseria, persino innocente. Tulliani, per dire, non sapeva che avrebbe fermato la trasformazione del postfascismo in destra moderna lavando la Ferrari con un tubo attaccato alla fontana.

La posteggiava davanti al portone della famigerata casa di Montecarlo che gli aveva dato il cognatone. Più modesto, Lollobrigida ieri ha avuto dalla cognatina soltanto un ministero, l'Agricoltura, con il nome tutto nuovo di Sovranità alimentare, copiato dal francese Ministère de l'Agricolture et de la Souveraineté Alimentaire, ministro della pasta e della pizza e marito di Arianna Meloni. Anche se è sicuro che Lollobrigida non l'ha mai pronunciata la brutta frase «lei non sa chi è mia cognata» è lì che entra da Padreterno, nel gioco dei cognati.

C'è Pillitteri, per esempio, di professione cinefilo, che divenne sindaco di Milano perché sposò la sorella di Bettino, la simpatica e innocentissima Rosilde. E mal gliene venne. E sfido chiunque nel gioco di ricordare i nomi dei cognati di Di Pietro, di De Mita o di Bertolaso con le loro prepotenze e i loro guai. Quale cognato inguaiò Diego Anemone? E Piermarini? E di chi è cognato Andrea Dini? E Gabriele Cimadoro? È incredibile come ci si ritrovino tutti nel familismo, anche a sinistra dove Dario Franceschini e Nicola Fratoianni hanno in Parlamento le rispettive mogli Elisabetta Piccolotti e Michela Di Biase.

E ti accusano pure di misoginia se ti permetti di notare che anche a sinistra l'Italia si fonda sulla famiglia. Nelle università e nelle professioni la logica del cognome prevale anche sul merito. E l'impresa capitalista non è società per azioni, ma per parenti. Al punto che qualsiasi cronista, alle cinque domande base del giornalismo - chi? che cosa? dove? quando? perché? - aggiunge: «di chi è figlio?, di chi è moglie?». 

Si devono al "pasticcio famiglia" le carriere delle vedove e degli orfani: sono parlamentari i parenti delle vittime. Alla stessa persona una volta non si perdona di essere troppo "figlio di" e un'altra di non esserlo abbastanza. Il codice è vagamente sciita, da prefisso "bin": binCraxi, bin-Berlusconi, binTognazzi, bin Gassman. E però il cognato è sempre bello e sfortunato, come il genero, il cui prototipo è Galeazzo Ciano, il marito di Edda.

Già prima di farlo giustiziare a Salò, il duce lo insolentiva. Si racconta che solo ai nazisti, quando si lamentarono di lui, un giorno gridò la verità: «Macché ministro degli Esteri, quello mio genero è». Voleva salvarlo? È del 1945 l'aforisma di Leo Longanesi: «La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta, tengo famiglia». E Edward C. Banfield pubblicò nel 1958 il suo famoso libro su quel familismo amorale ( The Moral Basis of a Backward Society) di cui per primo scrisse Antonio Giuseppe Borgese nel 1937 nel suo Golia o La marcia del fascismo (La nave di Teseo), il libro con il quale in inglese spiegò l'Italia fascista agli americani: «Non avendo una società nazionale gli italiani si ridussero a una forma di vita sociale minima ed elementare: la famiglia».

E chissà quant' è grande la famiglia- nazione della neofita affamata di potere Giorgia Meloni che ha portato al governo pure Paolo Zangrillo, ministro della Pubblica amministrazione, il grande nome a sorpresa del suo governo. I cronisti si sono guardati: parente? Fratello. Eh già, nel familismo c'è pure il «lei non sa chi è mio fratello», che è il titolo di un magnifico libro di Franco Bungaro e Vincenzo Jacomuzzi, pubblicato dalla Sei. Si comincia dalla A di Alighieri. Dante? No, Francesco, che qualche ragione ce l'aveva per dire: «Lei non sa chi è mio fratello ». j Insieme Giorgia Meloni con il cognato Francesco Lollobrigida, neoministro dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare.

Parmesan, Prosek e bistecche sintetiche: con la Meloni parte la difesa del Made in Italy. Alessandra Benignetti il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Mentre la sinistra ironizza, gli addetti ai lavori plaudono alla nuova denominazione del ministero dell'Agricoltura: "Dove muore l'agricoltura locale, basta un evento esterno per affamare un intero Paese"

L’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, teme che l’ananas finisca per essere messa fuori legge, mentre il senatore del Pd, Carlo Cottarelli, da Jesolo si interroga sul baccalà alla vicentina: "Ricetta veneta, ma viene dai mari del Nord, trattasi di alimento sovrano/nazionale oppure no?". Quel "sovranità alimentare" proprio non è andato giù alla sinistra, che da ieri non perde occasione per fare ironia sulla nuova denominazione assunta dal ministero dell’Agricoltura del governo Meloni. Sui social, ovviamente, non manca chi mette in guardia sul ritorno del fascismo. Peccato che in Francia sia stato il liberalissimo Emmanuel Macron ad inaugurare già qualche anno fa il Ministère de la Souveraineté alimentaire.

Al netto delle battute da bar (o meglio, da ristorante stellato), la questione è centrale, come hanno dimostrato in modo lampante prima la pandemia e poi il conflitto in Ucraina. Non a caso, tra gli addetti ai lavori sono pochi i commenti sarcastici. Al contrario, il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, plaude alla scelta del nuovo esecutivo di centrodestra: "Significa nei fatti un impegno per investire nella crescita del settore, estendere le competenze all'intera filiera agroalimentare, ridurre la dipendenza dall'estero, valorizzare la biodiversità del nostro territorio e garantire agli italiani la fornitura di prodotti alimentari nazionali di alta qualità".

Luigi Scordamaglia, di Filiera Italia è dello stesso avviso: "Bene, sottolineare il tema relativo alle competenze sull'intera filiera e sulla sovranità alimentare che riporta, come da noi sempre richiesto, al centro l'enorme e insostituibile valore della produzione nazionale in un'ottica di apertura ad un commercio internazionale basato su regole uniformi e condivise, prendendo atto della sconfitta di un modello di globalizzazione senza regole, il cui fallimento, dal cibo all'energia, è sotto gli occhi di tutti".

"Quello di Sovranità Alimentare è un concetto al quale guardiamo con assoluto interesse e che speriamo venga tradotto opportunamente in azioni di governo perché è un tema caro al mondo della produzione e alle comunità agricole", insiste anche Gennaro Sicolo, presidente di Italia Olivicola. "Vuol dire dare valore alle produzioni locali e alla biodiversità, produrre in casa ciò che si può produrre e ciò di cui abbiamo bisogno, raggiungere l'autonomia e ridurre la dipendenza dalle importazioni superflue che spesso danneggiano le produzioni italiane".

Sovranità alimentare non è sinonimo di "autarchia", sottolinea Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia. "Si tratta – puntualizza - di un concetto ampio e complesso che sancisce l'importanza della connessione tra territori, comunità e cibo, e pone la questione dell'uso delle risorse in un'ottica di bene comune, in antitesi a un utilizzo scellerato per il profitto di alcuni". Un concetto, rimarca anche il fondatore di Slow Food, Carlin Petrini, intervistato da Repubblica, "su cui scommettono tutti i movimenti agricoli del mondo". "La guerra – spiega - ci sta mostrando che dove muore l'agricoltura locale, basta un evento esterno per affamare un intero Paese. Ma c'è un altro aspetto: la valorizzazione delle coltivazioni locali evita anche che quantità impressionanti di merci vadano avanti e indietro da un continente all'altro, con tutto quello che comporta per l'ambiente".

La battaglia al Nutriscore

Insomma, la gauche caviar può stare tranquilla. Con tutta probabilità nessuno ci chiederà di rinunciare all’ananas, allo Champagne o al caffè. Ma, per dirla con le parole di Petrini, è innegabile che "comprare fuori stagione una pera bio che arriva dall'Argentina ha un impatto estremamente peggiore sull'ambiente rispetto a una pera coltivata qui con agricoltura convenzionale nella stagione giusta". "Vogliamo difendere i valori, i prodotti tradizionali che raccontano la storia dell'Italia", ha chiarito il neo ministro Francesco Lollobrigida in un’intervista al Corriere, ricordando che "il sovranismo alimentare non nasce a destra" e che a metterlo nella Costituzione sono stati i governi socialisti come quello di Ecuador e Venezuela.

A lanciare la battaglia durante il vertice mondiale sull’alimentazione del 1996 è stata la Via Campesina, organizzazione internazionale che riunisce gli agricoltori di tutto il mondo. Oggi, la formula storicamente cara anche alla sinistra si tradurrà in una serie di provvedimenti a difesa della filiera agroalimentare italiana, che dai campi alla tavola, secondo le stime della Coldiretti, vale quasi un quarto del Pil nazionale: 575 miliardi. Tra le battaglie che Lollobrigida eredita dal suo predecessore Stefano Patuanelli, c’è quella sull’adozione di un sistema comune di etichettatura fronte pacco a livello europeo, arrivata ormai al redde rationem.

L’Italia, assieme ad un nutrito gruppo di Stati membri, si batte contro il Nutriscore, il sistema a "semaforo" che penalizza le eccellenze Made in Italy. Ma sul tavolo c’è anche la lotta al cibo sintetico, alle contraffazioni dei prodotti tipici della Penisola - come il Parmesan e il Prosek - che causano alla nostra economia un danno potenziale da oltre 100 miliardi di euro, e il sostegno ad un comparto messo in difficoltà dall’aumento dei prezzi di materie prime ed energia a causa delle tensioni internazionali e della speculazione.

Suo fratello è il medico personale del Cav. Chi è Paolo Zangrillo, ministro della Pubblica Amministrazione nel nuovo governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Nato a Genova, laureato in giurisprudenza e manager di grandi aziende quali Magneti Marelli, Fiat Powertrain e Iveco. Paolo Zangrillo è stato nominato ministro Pubblica Amministrazione nel nuovo governo Meloni. Parlamentare dal 2018 nelle liste di Forza Italia, ha conseguito la laurea in legge nel 1987 all’università degli Studi di Milano ha lavorato alla Magneti Marelli per quasi vent’anni con diversi incarichi e arrivando a ricoprire la carica di Vice President of Human Resources. E’ poi diventato Senior Vice President Human Resources alla Fiat Powertrain Technologies Spa e per cinque anni ha ricoperto la carica di Senior Vice President Human Resources alla Iveco per approdare poi come Direttore Personale e Organizzazione di Acea dove ha ricoperto tale carica per quasi sei anni.

Nel marzo 2018 l’elezione alla Camera dei Deputati con Forza Italia e la rielezione al Senato nell’ultima votazione dove ha riportato oltre il 50% dei voti nel suo collegio uninominale del Piemonte e in Valle d’Aosta, sostituendo il collega di partito Gilberto Pichetto Fratin, indicato da Meloni come nuovo ministro per la Pubblica Amministrazione. Alle ultime politiche viene eletto in Senato nel collegio uninominale del Piemonte con il 50,83%, doppiando l’avversaria del centro-sinistra Maria Rita Rossa (25,64%).

Paolo Zangrillo è noto anche per essere fratello di Alberto Zangrillo (medico personale di Silvio Berlusconi nonché primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano) e come lui è un gran tifoso del Genoa Calcio (“Sin da piccoli, – ha dichiarato – io e mio fratello Alberto, con papà Augusto andavamo allo stadio Marassi a seguire la nostra squadra del cuore. Anche quando mio padre si è dovuto trasferire in Lombardia per lavoro abbiamo continuato ad andare al Luigi Ferraris…‘)

Da adnkronos.com il 21 ottobre 2022.

"Una nomina inaspettata che mi riempie di orgoglio e, soprattutto, di senso di responsabilità". Così all'Adnkronos il neo ministro all’Ambiente e sicurezza energetica, Paolo Zangrillo che sottolinea: "Si tratta di una delega importante, su un tema, la transizione e sicurezza energetica, che oggi penso sia la priorità numero uno non solo per l'Italia, ma per l'Europa".

"Ce la metterò tutta come ho sempre fatto" aggiunge, osservando che "in questo momento prevale più il senso di responsabilità che mi pervade che la voglia di festeggiare".

Emanuele Lauria per repubblica.it il 22 ottobre 2022.

Senatore Paolo Zangrillo, lei è stato nominato ministro. Ma di cosa?

"Ora lo so con certezza. Mi occuperò di pubblica amministrazione". 

Perché la presidente del consiglio, nel leggere al Quirinale la lista degli esponenti del suo governo, le ha attribuito la delega all'Ambiente e alla sicurezza energetica?

"Ah guardi, non lo so". 

Proviamo a ricostruire.

"Proviamo. A me, fino al primo pomeriggio, era stato detto che mi sarebbero state assegnate le competenze sulla pubblica amministrazione".

Poi?

"Poi ho appreso dalla tv, seguendo le comunicazioni della presidente Meloni, che la mia delega era l'Ambiente". 

E cosa ha fatto?

"Ne ho semplicemente preso atto". 

Ma ha pure parlato da ministro al ramo. C'è un lancio dell'agenzia Adnkronos delle 18,57, in cui dice che "l'energia è la priorità". Aggiungendo: "Ce la metterò tutta".

"Mi ha chiamato un giornalista e ho risposto in  base a quella che credevo fosse stata la delega scelta per me". 

Lei, peraltro, ha competenza in materia di energia.

"Sì, mi sono sempre occupato di relazioni industriali, sono stato tra l'altro nel management dell'Acea, l'azienda energetica della Capitale".

Quindi non  ha chiesto lei, come si apprende da fonti di Forza Italia, a chiedere a Meloni di cambiare delega. Non è vero che non si è sentito all'altezza.

"No, non ho parlato con Giorgia Meloni. Mi ha chiamato il presidente Berlusconi poco fa, intorno alle 19, per dirmi che rimango alla Pubblica amministrazione".

Matteo Salvini è il ministro delle Infrastrutture del governo Meloni. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Il segretario della Lega punta a realizzare il Ponte sullo Stretto ma con la delega sulla Guardia costiera si occuperà anche degli sbarchi 

Voleva il Viminale, gli tocca il ministero delle Infrastrutture. Pur sempre un dicastero del fare per Matteo Salvini, 49 anni, segretario della Lega dal 2013, che promette di riservare alla realizzazione del Ponte sullo Stretto la stessa energia che riservò al blocco degli sbarchi (ma avrà anche la delega sulla Guardia costiera e quindi se ne occuperà comunque, tanto più che è da sempre un suo cavallo di battaglia). «Non prometto miracoli — ha assicurato — ma dalla Gronda di Genova al Ponte sullo Stretto di Messina, ci metterò tutta la mia energia. Sbloccare cantieri» significa «creare sicurezza e lavoro». Il neo ministro è determinato: «Il Ponte sullo Stretto è tra i miei obiettivi. Se dopo 50 anni faremo partire il cantiere e i lavori sarà un grande passo avanti per l’ingegneria nel mondo. Ovviamente è solo un pezzo del puzzle, con alta velocità, Gronda e altri cantieri che porteranno lavoro, sviluppo, velocità: già da domani sono in ufficio a studiare i dossier».

Salvini sarà anche vicepremier, come nel Conte I a fianco di Luigi Di Maio, quando l’esperienza si infranse sullo scoglio del Papeete. Grazie al nuovo incarico, tornerà a salire sulla ruspa come ai tempi d’oro, cosa che potrebbe aiutarlo a recuperare i consensi perduti. E chissà se anche al nuovo ministero si porterà rosari e immagini religiose, come fece nell’austero ufficio del Viminale. Di certo per il leader della Lega è una nuova sfida per dimostrare alla sua base elettorale, specie quella del Nord che in parte lo ha abbandonato, che si può passare, come ha promesso in campagna elettorale, «dalle parole ai fatti». Salvini dovrà però stare attento a non trascurare il partito. C’è il Veneto in grande sofferenza, un sentimento aggravato dal fatto che i cinque ministri di marca leghista sono tutti lombardi (il «contentino» del veronese Lorenzo Fontana alla presidenza della Camera potrebbe non bastare).

Estratto dell'articolo di Simone Canettieri per "Il Foglio" il 2 dicembre 2022.

Battaglia navale nel governo. L’assalto è già in atto, seppure con i sottomarini del partito: la Guardia costiera non è una competenza di Matteo Salvini, ma di Guido Crosetto dunque del ministero della Difesa. Dalle parti di Fratelli d’Italia  iniziano a dirlo sempre più di frequente. Carte alla mano. E anche questa sottolineatura rientra nel tentativo messo in piedi da Giorgia Meloni e dai suoi fedelissimi di stringere il più possibile il campo di competenze degli alleati.

Succede con il Pnrr con Raffaele Fitto a discapito del titolare dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Continua sull’Energia con le mosse di Adolfo Urso per soffiare le deleghe a Gilberto Pichetto Fratin. E va avanti su un perno della propaganda salviniana: la Guardia costiera. Ergo: i migranti e gli sbarchi.

Finora è mancato il casus belli. Tuttavia Meloni se ce ne sarà bisogno è pronta, con Crosetto, a squadernare l’articolo 132 del codice civile militare. Cosa dice? "Il Corpo delle capitanerie di porto dipende dalla Marina militare, concorre alla difesa marittima e costiera, ai servizi ausiliari e logistici della Forza armata". In poche parole, come stanno facendo notare in queste ore fonti molto qualificate di Fratelli d’Italia, la Guardia costiera funzionalmente dipende dal ministero delle Infrastrutture, dunque da Salvini, ma gerarchicamente fa capo alla Difesa, quindi a Crosetto. Siamo alla battaglia navale, appunto. Con il rischio di un possibile conflitto di competenze.

Ipotesi: cosa succederebbe se un giorno Salvini dicesse alla Guardia costiera di non soccorrere un barcone e Crosetto invece decidesse il contrario? "Tecnicamente la dipendenza della Guardia costiera dal ministero delle Infrastrutture è funzionale solo per i compiti, ma sotto il profilo dell’impiego e dal punto di vista ordinativo è un corpo della Marina militare", spiegano da Fratelli d’Italia. […]

L’insofferenza di Lega e Forza Italia nei confronti della "capa" si fa sempre più forte. "Altro che collegialità: vuole gestire tutto lei", masticano amaro gli alleati. La grande partita delle nomine nelle partecipate è ancora lontana, se ne parla a marzo. Ma i messaggi che arrivano da Fratelli d’Italia sono poco concilianti: gli amministratori delegati li sceglieremo noi, a voi daremo al massimo qualche presidenza più i membri dei cda. Discorso che vale per Leonardo, ma anche per Poste e Cdp. Per non parlare di quando ci sarà da riordinare la Rai. […]

Per Matteo Salvini alle Infrastrutture è il momento di rischiare tutto. Il Mit è un’opportunità per i miliardi del Pnrr da spendere. Ma è anche una tecnostruttura che tende ad autogestirsi. La sfida del Capitano è di non farsi fagocitare come la maggioranza dei suoi predecessori. Un fallimento a Porta Pia potrebbe essere l’ultimo del leader leghista preso nella morsa fra Giorgetti e Fitto. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 21 Ottobre 2022

È il primo ministro leghista delle infrastrutture della storia repubblicana. Matteo Salvini, il grande sconfitto delle elezioni del 25 settembre, ha di che consolarsi con il dicastero di Porta Pia, l’unico forse a potersi confrontare per dimensioni, corridoi, stratificazioni geologiche di dirigenti, con il Viminale perduto dal Capitano.

Rispetto all’Interno, le infrastrutture hanno un elemento tecnico che hanno reso il Mit molto ostico agli outsider remoti e recenti cioè, per limitarsi alla scorsa legislatura, il grillino Danilo Toninelli, la democrat Paola De Micheli e l’indipendente Enrico Giovannini. Proprio l’ex numero uno dell’Istat aveva avuto l’ardire di ridenominare il colosso Mims, aggiungendo una mobilità sostenibile che, per la verità, non è stata presa in considerazione nemmeno dai tecnici del sito, rimasto al vecchio dominio mit.gov.it.

Può sembrare un dettaglio trascurabile. È il segno di un minuetto che si balla a ogni nuovo ministro incaricato. Ogni direzione, ogni dipartimento si inchina e sorride al vincitore, persino quando è stato un ingegnere progettista del calibro di Pietro Lunardi. Ma l’idea di fondo è che comanda la struttura, non il ministro.

Che il Mit possa essere la prossima, e a quel punto definitiva, sconfitta di Salvini si desume anche da altri particolari. È vero che Porta Pia ha a disposizione una fetta sostanziosa dei miliardi del Pnrr e del fondo complementare. Ma è anche vero che la delega al Pnrr appare accanto alla casella occupata dal forzista Raffaele Fitto, ministro degli affari europei.

Non è l’unica potenziale limitazione di sovranità. Sul fronte di chi deve sborsare i denari per la ben nota “messa a terra”, cioè il ministero dell’Economia, il nuovo responsabile è Giancarlo Giorgetti, leghista sì ma non della stessa pasta di Salvini che ha accollato proprio a Giorgetti, senza mai nominarlo, la responsabilità della sconfitta elettorale per l’eccessiva vicinanza a Mario Draghi e per averlo tagliato fuori dalla formazione della lista dei ministri.

E poi c’è il mondo delle partecipate sulle quali il Mit esercita potere di indirizzo mentre le nomine sono ratificate dall’azionista Tesoro, dunque da Giorgetti. Il gruppo più importante in termini di strategia e di spesa sono le Ferrovie dello Stato, colosso bulimico che ingloba trasporto su ferro, su gomma e su strada con l’Anas. La holding Fs non solo rappresenta la maggiore stazione appaltante d’Italia ma, di conseguenza, è una sorta di ministero nel ministero.

A breve termine non ci sono problemi di rinnovamento al vertice, affidato alla guida di Luigi Ferraris dal giugno 2021, a meno di forzature dei termini del mandato alquanto irrituali. Ma Salvini dovrà studiare parecchio, lui che non è laureato, per rendersi credibile a una tecnostruttura dove i codici di appalto cambiano di continuo e bisogna correre per non perdere l’appuntamento con decine di miliardi.

Il gioco vale la candela perché il piatto è ricco. Ma l’azzardo e le possibilità di perdere tutto sono in proporzione.

"Caparbia e stacanovista". Chi è la ministra del Lavoro scelta da Giorgia Meloni. Dal 2005 alla guida del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro, Marina Elvira Calderone guiderà il ministero con sede in via Veneto. Tra le sue battaglie l'equo compenso per i professionisti e il taglio del cuneo fiscale. Alessandra Benignetti il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Chi la conosce bene la descrive come una donna "caparbia". Una "stacanovista capace lavorare fino a diciotto ore al giorno" e allo stesso tempo una mamma e una nonna affettuosa. Marina Elvira Calderone, scelta da Giorgia Meloni per guidare il ministero del Lavoro, è nata a Bonorva, un piccolo comune in provincia di Sassari, nel 1965. A Cagliari si laurea in Economia Aziendale Internazionale e si specializza in Relazioni Industriali. Nel 1994 si iscrive all’Ordine dei Consulenti del Lavoro nel capoluogo sardo. E al mondo delle libere professioni dedica tutta la sua carriera.

Nel 2005 prende le redini del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro e per 17 anni porta avanti le istanze della categoria che conta 26mila professionisti, difendendone le prerogative e ampliandone le competenze. Chi ha lavorato al suo fianco ne parla come una donna "istituzionale", "attenta al protocollo", che ama circondarsi di persone "capaci e fidate". È sposata con Rosario De Luca, avvocato e consulente del lavoro anche lui, fino ad oggi membro del consiglio di amministrazione dell’Inps (incarico al quale pare abbia già rinunciato per evitare conflitti di interesse). I due sono anche soci della Calderone&De Luca STP, società con sede a Roma, Cagliari e Reggio Calabria che si occupa di consulenza del lavoro.

Dal 2009 dirige il Comitato unitario permanente degli Ordini e dei Collegi professionali (Cup), è vice presidente di Professioni Italiane, un’associazione che unisce il Cup e la Rete delle professioni tecniche ed è anche promotrice del Festival del Lavoro, l’appuntamento annuale dedicato ai professionisti del settore. Ha svolto attività di assistenza per le trattative sindacali e relazioni industriali, per la composizione alternativa delle controversie del lavoro, nei processi di riorganizzazione aziendale e nella gestione dei rapporti di lavoro in presenza di procedure concorsuali.

Insomma, il diritto del lavoro è il suo pane quotidiano e tra le sue battaglie più significative c’è quella per il riconoscimento dell’equo compenso ai professionisti. A firmare il ddl per la sua estensione alle imprese con più di 50 dipendenti, che doveva essere approvato lo scorso luglio in Senato, era stata proprio Giorgia Meloni. Su indicazione del ministero dell’Economia e delle Finanze dell’allora governo Renzi, dal 2014 al 2020, Calderone ha fatto parte del Cda di Finmeccanica. Nel 2019 è diventata presidente della W.A.L.P. – l’Associazione Mondiale delle Professioni Lavoristiche e dal 2021 è componente del è componente del consiglio direttivo dell’UNI, Ente Italiano di Normazione.

Nel 2019, durante il governo Conte I, il suo nome, sostenuto sia da Matteo Salvini che da Luigi Di Maio, spuntò per la corsa alla presidenza dell’Inps. Ora le priorità sul tavolo di questo ministro tecnico, ma che negli anni ha condiviso diverse battaglie proprio con la leader di Fratelli d'Italia, sono il taglio del cuneo fiscale, per dare respiro a imprese e lavoratori, ma anche la revisione del reddito di cittadinanza, soprattutto per quanto riguarda la parte relativa alle politiche attive, e la sfida della riforma delle pensioni, per il superamento della legge Fornero.

Favorevole al Jobs Act e non ostile al Reddito di Cittadinanza. Chi è Marina Calderone, la discussa ministra al lavoro indicata da Giorgia Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Sarda, classe 1965 e fedelissima di Giorgia Meloni (ma anche amica di Luigi Di Maio). La nuova iper discussa ministra del lavoro è Marina Elvira Calderone, già da quasi due decenni presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro. Nome non certo nuovo nel governo, Calderone era già a Palazzo Chigi durante il governo Conte I, quand’era prossima a diventare presidentessa dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS).

Nata a Bonorva, in provincia di Sassari nel 1965, si è laureata in Economia Aziendale internazionale ed è sposata con Rosario De Luca, che – almeno fino a stamattina – era anche presidente del CdA della Fondazione studi del Consiglio nazionale consulenti del lavoro e consigliere d’amministrazione dell’Inps. Un ruolo a cui De Luca ha rinunciato per evitare imbarazzi alla moglie che da ministra dovrà vigilare proprio sull’Istituto di previdenza.

Insieme al marito Calderone gestisce Cdl una società tra professionisti, che vanta una rete di collaboratori e opera con sedi a Roma, Cagliari e Reggio Calabria. La neo eletta ministra ha cominciato a far parlare di sé durante il governo di Matteo Renzi, quando lui stesso la scelse come membro del consiglio d’amministrazione di Leonardo. Durante il primo governo Conte il suo nome è tornato in auge proprio perché indicata, e sostenuta anche da Mattero Salvini e da Luigi Di Maio, come possibile candidata. Tuttavia, venne esclusa perché contemporaneamente suo marito divenne consigliere d’amministrazione dell’Istituto e la sua candidatura in qualità di Presidente venne messa in dubbio.

Da sempre vicina agli ambienti di destra, anche se capacissima di intrattenere buoni rapporti con gran parte dei politici con cui si è interfacciata (sembrerebbe abbia legato soprattutto con Luigi Di Maio), ha accompagnato Meloni in diverse attività: era presente anche lo scorso inverno ad Atreju, la manifestazione politica organizzata dai giovani di Fratelli d’Italia.

Per quanto riguarda le politiche inerenti al lavoro, Calderone è fan del Jobs Act e favorevole alla licenziabilità dei dipendenti pubblici. Non ostile al Reddito di cittadinanza ma fortemente contraria al salario minimo per legge, perché, come ha dichiarato in diverse occasioni “aumenterebbe del 20% il costo del lavoro per le imprese, 12 miliardi all’anno”.

Estratto dell’articolo di Luciano Capone per ilfoglio.it il 25 ottobre 2022.

[…] Per i critici il nuovo ministro del Lavoro, Marina Elvira Calderone, si porta dietro un conflitto d’interessi per il ruolo di zarina dell’Ordine dei consulenti del lavoro, che ha presieduto dal 2005 fino alla chiamata di Giorgia Meloni. 

Ma tutti le riconoscono una certa conoscenza della materia, in particolare una competenza giuridica. Per questa ragione per Elsa Fornero, non certo una personalità vicina alla destra, “è complessivamente una buona scelta. In attesa di conoscere le proposte, darei un giudizio moderatamente positivo”, dice al Foglio.

Quella di Marina Calderone non è stata comunque una scelta semplice […] proprio perché nel corso dei suoi numerosi mandati al vertice dei consulenti del lavoro è riuscita a valorizzare una professione che prima godeva di minore spazio e considerazione, nel tempo è spesso entrata in contrapposizione con altri mondi professionali come gli avvocati giuslavoristi e, soprattutto, le organizzazioni datoriali, in particolare quelle che fanno assistenza alle pmi nel commercio e nell’artigianato a cui i consulenti “rubano il lavoro”.

In questo senso, proprio per l’audacia e la determinazione mostrata negli anni a favore della sua categoria, ci sono state rassicurazioni da parte dei vertici politici di FdI per rasserenare gli animi e tranquillizzare le organizzazioni datoriali che il ministro del Lavoro avrà un atteggiamento neutro e non aggressivo. 

L’altra nota critica riguarda il rapporto con i sindacati, sempre per la funzione di “disintermediazione” svolta spesso dai consulenti del lavoro rispetto alle parti sociali.

[…] Come si diceva all’inizio, chi si occupa del settore, anche i più critici, riconoscono che sul lavoro “sa di cosa parla”. Un’innovazione rispetto agli ultimi ministri del Lavoro – Andrea Orlando, Nunzia Catalfo e Luigi Di Maio, per stare ai più recenti – che non avevano una grande esperienza tecnica, ma di cui si conosceva l’indirizzo politico. 

Nel caso di Calderone è un po’ l’inverso. Che non vuol dire distanza dalla politica, anzi. Nel corso degli anni, soprattutto attraverso il Festival di consulenti del lavoro, Calderone ha costruito fitte relazioni con la politica, riuscendo a strappare risultati per la sua categoria, e anche a costruire rapporti trasversali. 

Ad esempio, fu nominata nel cda di Finmeccanica-Leonardo dal governo Renzi e durante il primo governo Conte era candidata a diventare presidente dell’Inps. Alla fine fu scelto Pasquale Tridico, ma nel cda dell’Inps fu nominato Rosario De Luca, marito di Calderone, che si è dimesso dal cda dell’Istituto appena prima che la moglie diventasse ministro. Dopo Renzi, Conte e Salvini, si è avvicinata sempre più a Meloni e FdI. 

Eppure, nonostante la prossimità alla politica non è chiara la sua visione d’insieme e su alcune questioni cruciali. Ad esempio, non si conosce la sua posizione sulle pensioni, anche se difficilmente avallerà il superamento della legge Fornero con la Quota 41 voluta da Salvini e Landini, non fosse altro che per mancanza di soldi. Sul Reddito di cittadinanza Calderone si è espressa a favore del sussidio alle famiglie povere, ma ha proposto di modificare la parte di politiche attive per rendere il sistema più “fluido” dando un ruolo maggiore alle agenzie private e riducendo la possibilità di rifiutare un’offerta di lavoro da parte dei beneficiari.

Calderone ha fatto della “sburocratizzazione” una bandiera, quindi è probabile che interverrà per introdurre flessibilità (precarietà dicono i critici) e facilitare le assunzioni (una delle prime misure candidate a essere riviste è il “decreto dignità”). Rispetto ai suoi ultimi tre predecessori è contraria al salario minimo (“Non ci serve, abbiamo bisogno di sostenere la contrattazione decentrata”), e probabilmente non toccare questa materia, come pure il tema della rappresentanza, non dispiacerà ai sindacati.

IL GIURISTA. Chi è Giuseppe Valditara, possibile futuro ministro dell’Istruzione. NICOLA BRACCI su Il Domani il 19 ottobre 2022

Profilo tecnico, gradito nell’ambiente di Fratelli d’Italia, Valditara, 61 anni, è stimato consigliere di Matteo Salvini. La sua trentennale carriera politica è una storia di fedeltà al centrodestra, ma la Lega è il vecchio amore che ritorna

Entro la settimana la nuova squadra di governo potrebbe prestare giuramento al Quirinale e, di ora in ora, i volti nel casellario si fanno più nitidi. Quasi certa, salvo smentite dell’ultimo momento, è l’assegnazione del ministero dell’Istruzione a Giuseppe Valditara – docente ordinario di diritto romano all’università di Torino – dato ormai in ampio vantaggio sul senatore leghista Mario Pittoni. 

FEDERALISMO

Profilo tecnico, gradito nell’ambiente di Fratelli d’Italia, Valditara, 61 anni, è stimato consigliere di Matteo Salvini. Il 25 settembre era candidato in Lombardia con la Lega, ma non è stato eletto.

La sua trentennale carriera politica è una storia di fedeltà al centrodestra, ma la Lega è il vecchio amore che ritorna. Milanese di nascita e lombardo di “fede”, nel 1993 entra come giurista nel consiglio direttivo della Fondazione Salvadori, presieduta da Gianfranco Miglio, storico ideologo della Lega Nord e strenuo sostenitore di una trasformazione in senso federale dello stato italiano. In quel periodo il giovane Valditara partecipa proprio alla stesura della bozza della Costituzione federale, approvata poi al Congresso di Assago. 

Negli anni Novanta si fa promotore di un’idea di destra riorganizzata sull’esempio americano, con un grande partito repubblicano che riunisca tutte le anime della destra italiana che, spiega, deve essere “gollista e federalista”. 

TECNICO TRASVERSALE 

E il desiderio di una coesione nell’area conservatrice e liberale si può dire coerente con il vissuto politico di Valditara, tecnico trasversale e poco interessato alle logiche di partito. 

Dopo gli esordi nel partito di Umberto Bossi si avvicina ad Alleanza nazionale e nel 2001 viene eletto senatore per la prima volta. In parlamento ci resta per tre legislature, fino al 2013, e si occupa a più riprese del mondo scolastico, fino a essere relatore di maggioranza della riforma dell’università durante il governo Berlusconi, con Maria Stella Gelmini a capo del ministero. 

E in viale Trastevere il professore lombardo ci è già passato nel 2018, con l’insediamento del primo governo Conte, come capo dipartimento per la Formazione superiore e la ricerca al Miur nel dicastero guidato dal leghista Marco Bussetti.  

VITA ACCADEMICA

Laureato in Giurisprudenza all’Università degli studi di Milano, il politico lombardo, che qualcuno si spinge a considerare ideologo di riferimento di Salvini, ha all’attivo una lunga e proficua carriera accademica. 

La pubblicazione del libro Studi sul magister populi. Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati repubblicani gli è valsa, nel 1992, il prestigioso premio internazionale per la storia delle istituzioni politiche e giuridiche, messo in palio dal presidente della Corte costituzionale. Attualmente è anche direttore scientifico della rivista Studi giuridici europei. 

NICOLA BRACCI. Ha 25 anni. È nato e cresciuto a Pesaro e si è poi trasferito a Milano. Legge e scrive di tematiche sociali e geopolitica per interesse, di sport per passione

Ilaria Venturi per repubblica.it il 23 ottobre 2022.  

Un volumetto distribuito nel 2016 con Il Giornale per la collana "Fuori dal coro" dal titolo: "L'impero romano distrutto dagli immigrati" (sottotitolo "Così i flussi migratori hanno fatto collassare lo stato più imponente dell'antichità"). La firma? Giuseppe Valditara, neoministro all'Istruzione e, per aggiunta del governo Meloni, al Merito.  

E il web si scatena: "Il merito. Consigli bibliografici" twitta lo scrittore Christian Raimo che già il giorno della nomina aveva scritto: "Ministro dell'istruzione e del merito, da ora in poi sappi che io a scuola insegno solo storia militare per formare le truppe scelte che domani vi verranno a assediare".

Rilancia, con la copertina del volume dal titolo decisamente inequivocabile affiancata all'altro libro di Valditara sul "Sovranismo: una speranza per la democrazia", Mila Spicola, insegnante, ex responsabile scuola del Pd a Palermo, scrittrice (suo "La scuola s'è rotta", Einaudi): "Un conservatore di ideologia rigorosamente gentiliana. Perché la Scuola la vogliono passatista "come ai nostri tempi". È anche l'autore dei libri nelle foto. Il nuovo ministro dell'Istruzione e del Merito. Sì, lui, proprio lui. Per capire cosa ci aspetta. Tanti auguri a tutti noi". 

Ed è un diluvio di commenti. In poche ore diventa virale quel libretto scritto da Valditara, docente di diritto romano che già ad aprile 2015 aveva dato alle stampe per Rubettino editore: L'immigrazione nell'antica Roma: una questione attuale". La tesi sul ruolo delle invasioni barbariche, pure arginate e integrate per secoli dai romani, sono da affidare agli storici. 

Ma quel titolo, in linea con il pensiero del giurista salviniano, allievo dell'ideologo della Lega Nord Gianfranco Miglio, sta scatenando reazioni indignate, scuote il mondo della scuola già in rivolta col ministro sovranista sull'intitolazione del ministero "Istruzione e merito". "Un governo in tutto e per tutto ideologico", "ecco quello che ci aspetta". Sino a chi twitta con ironia: "Barbero lo seppellirà". 

Insomma, ancora prima di enunciare le sue priorità da ministro, il mondo della scuola reagisce, si agita, si preoccupa. Raimo contesta nel merito il sovranismo di Valditara: "E' vero che non esiste un soggetto politico forte di opposizione a sinistra, ma esiste una comunità di docenti, studiosi e accademici che sa bene che il sapere universitario o è internazionale o non è. L'idea stessa di sovranismo nel sapere è una contraddizione in termini. Tra l'altro quel titolo sulla caduta dell'impero romano è facilmente confutabile, il mondo è sempre stato multicentrico e multietnico, pensare a categorie di dentro e fuori rispetto a un periodo complesso come il tardo antico, che negli ultimi anni ha avuto enorme sviluppo nella ricerca storica, è strumentalizzare la storia a fini propagandistici".

Mila Spicola spiega il malessere che monta nei social nella comunità dei docenti: "Siamo tutti scatenati perché già conosciamo il neoministro. Valditara significa un tipo di impostazione più gentiliana se parliamo di didattica, in politica significa esponente sovranista, reazionario dichiarato. Persona colta, certo, ma quel titolo sulla caduta dell'impero romano che parla di immigrati fa un certo effetto soprattutto riferito a un ministro all'istruzione in un contesto scolastico che negli anni è diventato modello di inclusione. Come docente della scuola democratica dico che stona". 

Il consigliere di Salvini. Chi è Giuseppe Valditara, il nuovo ministro dell’Istruzione. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Uno nome che circolava già da ieri come possibile ministro dell’Istruzione quello di Giuseppe Valditara, docente ordinario di diritto romano all’università di Torino.

Nome che è stato confermato da Giorgia Meloni al Quirinale, insieme agli altri nomi che comporranno il governo, non appena il Presidente della Repubblica le ha conferito l’incarico di formare il nuovo esecutivo. A cambiare nome è invece il ministero che diventa “dell’Istruzione e del Merito“.

Ma chi è Giuseppe Valditara? Particolarmente apprezzato negli ambienti di Fratelli d’Italia, Valditara è da tempo consigliere di Matteo Salvini, da alcuni etichettato come il nuovo ideologo di riferimento del leader leghista. E proprio con la Lega era candidato il 25 settembre in Lombardia dove però non è stato eletto.

Nato nel capoluogo lombardo nel 1961, si laurea in Giurisprudenza all’Università degli studi di Milano. Con il libro ‘Studi sul magister populi. Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati repubblicani’ si aggiudica, nel 1992, il prestigioso premio internazionale per la storia delle istituzioni politiche e giuridiche, messo in palio dal presidente della Corte Costituzionale. Attualmente è anche direttore scientifico della rivista Studi giuridici europei. Ed è stato preside dell’ambito di Giurisprudenza dell’Università Europea di Roma.

Nel 1993 entra come giurista nel consiglio direttivo della Fondazione Salvadori, presieduta da Gianfranco Miglio, storico ideologo della Lega Nord. In quel periodo partecipa alla stesura della bozza della Costituzione federale, approvata poi al Congresso di Assago.

Dopo gli esordi nel partito di Umberto Bossi entra nel partito Alleanza nazionale dove, nel 2001, viene eletto senatore per la prima volta. Rieletto in parlamento nelle successive tre legislature, fino al 2013, si occupa del mondo scolastico, fino a essere relatore di maggioranza della riforma dell’università durante il governo Berlusconi, con Maria Stella Gelmini a capo del Ministero dell’Istruzione.

Nell’ottobre 2018, durante il primo governo Conte, viene nominato Capo Dipartimento per la Formazione Superiore e la Ricerca presso il MIUR nel dicastero guidato dal leghista Marco Bussetti, quando l’Istruzione e l’Università erano uniti in un unico dicastero.

Ilaria Venturi per repubblica.it il 21 ottobre 2022. 

Un ministro "sovranista" alla scuola, o meglio al ministero ridenominato "Istruzione e Merito". Giuseppe Valditara, 61 anni, ex senatore di An (finiano) e leghista della prima ora: con Miglio, suo maestro, ha contribuito scrivere la bozza di Costituzione federale della Lega. Milanese di origine - papà ex partigiano e mamma insegnante - liceale al Berchet, poi laureato in Giurisprudenza attualmente è docente di diritto romano all'Università di Torino. E dunque torinese d'adozione.

Studioso del federalismo, direttore di Logos, un progetto vicino alle posizioni della Lega e Noi con Salvini, e presidente del think tank nato durante il lockdown Lettera 150, suo il libro "Sovranismo. Una speranza per la democrazia" e il più recente "L'Italia che vogliamo, (firmato con Alessandro Amadori e con la prefazione di Matteo Salvini), portato in tour dal segretario leghista, costituendo una sorta di programma del salvinismo: il "Manifesto della Lega per governare il Paese", è il sottotitolo. 

Il suo profilo è gradito a Fratelli d'Italia e corrisponde alla volontà della Lega di "riprendersi" la scuola dopo la parentesi di Marco Bussetti, che durante il governo Conte 1 nominò Valditara capo dipartimento per la Formazione superiore e la ricerca al Miur (Università e Istruzione erano insieme). Per lui, dunque, un ritorno a Viale Trastevere, ma stavolta da ministro.

Dopo gli esordi nel partito di Bossi, Valditara viene eletto senatore di An nel 2001 per tre legislature. Per An è responsabile del dipartimento Scuola e Università. Poi un passaggio in Fli, con Gianfranco Fini. Infine il riavvicinamento alla Lega di Salvini, di cui è tra i consiglieri più vicini. Prima ancora Valditara era stato vicepresidente della Commissione bicamerale per l'infanzia e, nel 2000-01 assessore provinciale all'Istruzione e all'Edilizia scolastica della Provincia di Milano. E nel 1998 aveva collaborato con Pinuccio Tatarella alla redazione di uno statuto di autonomia particolare per la regione Puglia.

I sindacati sono già pronti a presentare al neoministro tutti i nodi da affrontare per la scuola, dal contratto da rinnovare al reclutamento dei precari e certo non lo seguiranno sull'ipotesi di autonomie differenziate. I prof lo temono perché si presenta con il biglietto da visita di "relatore della legge Gelmini", i cui tagli rappresentano ancora una ferita per il mondo della scuola. Nel governo Berlusconi infatti è stato relatore di maggioranza della riforma Gelmini, per la parte dell'università, il dicastero che avrebbe preferito guidare. Le sue prima parole? Affidate a un tweet: "Aver coniugato Istruzione e merito è un messaggio politico chiaro".

Chi è Giuseppe Valditara, il ministro dell’Istruzione del governo Meloni. Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Il nuovo ministro dell’Istruzione è Giuseppe Valditara, professore di diritto all’università, studioso del federalismo ed esperto di tematiche scolastiche. Senatore dal 2001 al 2013, è stato in An e poi consigliere di Salvini 

Giuseppe Valditara è il ministro dell'Istruzione del governo Meloni. Nato sotto il segno del Capricorno, il 12 gennaio del 1961. Milanese di nascita, figlio di padre ex partigiano, dirigente di banca, e madre insegnante, è interista di fede calcistica. Lettore precoce, a sei anni ha letto in un’estate tutta la Storia di Roma di Montanelli. Oggi per distrarsi si tuffa periodicamente in un buon Maigret. 

Dopo la maturità classica al liceo Berchet di Milano, si è laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano, ha iniziato una carriera di docente universitario e attualmente è professore ordinario di Diritto romano presso l’Università degli Studi di Torino e l’Università di Roma Tor Vergata. Negli anni ha pubblicato diverse opere di diritto pubblico romano, diritto privato romano, diritto costituzionale italiano, storia del diritto privato e storia romana, vincendo nel 1993 il Premio internazionale per la storia delle istituzioni politiche e giuridiche con il libro Studi sul magister populi. Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati repubblicani. I ministri del governo Meloni

È stato vicepresidente del comitato scientifico della rivista Federalismo e libertà, dirige la collana «I libri del federalismo» edita dalla casa editrice Pagione ed attualmente è presidente del think tank Lettera 150. Ama la musica classica e la buona musica jazz. Le camminate in montagna sono la sua passione, da sempre. 

Politicamente, è sempre stato nel centrodestra. Collaboratore di Gianfranco Miglio, nel 1993 ha contribuito a scrivere la bozza di Costituzione federale, poi approvata dal Congresso di Assago della Lega Nord. Chiamato nel 1996 da Pinuccio Tatarella in Alleanza Nazionale per sviluppare il progetto «gollista e federalista», nel 2001 è stato eletto senatore aderendo al gruppo di An, confluito nel Popolo della Libertà e poi in Futuro e Libertà. Dal 2014 si riavvicina alla Lega. Con Alessandro Amadori scrive il libro «È l’Italia che vogliamo. Il manifesto della Lega per governare il Paese», con prefazione di Matteo Salvini, di cui nel 2022 diventa uno dei consiglieri. 

Valditara è stato senatore per tre legislature, dal 2001 al 2013, e si è occupato spesso di scuola: è stato a lungo (2006-2013) Segretario della VII Commissione Scuola, Università, Ricerca del Senato, di cui faceva parte già dal 2001. È stato anche vicepresidente della Commissione bicamerale per l’infanzia e, nel 2000-01 assessore provinciale all’istruzione e all’edilizia scolastica della Provincia di Milano. Nel 2005 promosse la stabilizzazione di circa 60 mila precari della scuola, nel 2007 con un suo emendamento approvato con parere contrario del governo Prodi aumentò di circa 400 euro al mese l’assegno ai dottorandi di ricerca, ed è stato tra l’altro relatore della legge Gelmini, impegnando il governo con ordine del giorno a finanziare la riforma con 500 milioni di euro l’anno. È stato tra l’altro preside e poi consigliere di amministrazione della Università Europea di Roma.

Nell’ottobre 2018 viene nominato Capo Dipartimento per la Formazione Superiore e la Ricerca presso il MIUR, incarico che ha ricoperto fino al 9 dicembre del 2019.

Giuseppe Valditara, ecco i meriti del ministro del Merito. Il professore di Diritto Romano è da oltre un quarto di secolo in politica: esperienza fugace con la Lega, poi molta Alleanza Nazionale, l’incontro con Tatarella, la riforma Gelmini, il rapporto con l’avvocato d’affari e prorettore di Mosca, l’associazione con Savoini, il ruolo di consigliere di Salvini. Tutto ciò che c’è da sapere del nuovo capo dell’Istruzione. Carlo Tecce su L'Espresso il 27 Ottobre 2022.

Il grande merito del prof. Giuseppe Valditara è che non s’è parlato abbastanza del merito della sua nomina a ministro dell’Istruzione e appunto del Merito (altrui). Ci si è soffermati sulle copertine dei suoi volumi come sulle confezioni dei cioccolatini. Se per tratteggiare il profilo di un docente universitario di Diritto Romano a Torino pare inelegante citare la mamma di Forrest Gump, che teorizzò che «la vita è uguale a una scatola di cioccolatini e non sai mai quello che ti capita», si potrebbe candidamente osservare che il Valditara ha solcato più fasi politiche e intellettuali.

Il Merito. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Il ministro dell’Istruzione e del Merito non riesce a capacitarsi delle critiche suscitate dalla nuova denominazione del suo dicastero. Ma come? - si chiede il professor Valditara - la sinistra non lamenta da anni la fine dell’ascensore sociale (espressione orribile, ma tant’è)? E proprio adesso che si vorrebbe far ripartire l’ascensore, spalancando le porte ai più meritevoli anche se non sono figli di papà (quelli un posto in prima fila lo trovano sempre) è bastata una parola per scatenare l’inferno. Invano Salvini, il quale ha frequentato il classico sicuramente con merito, avrà ricordato ai soci di governo che per i sofisti greci le parole non hanno un significato univoco. Quando dici «merito», la destra pensa a talentuosi e sgobboni, la sinistra a una scuola dove, a parità di impegno, chi ha minori capacità perché magari proviene da un ambiente disagiato sarà lasciato indietro. 

Il problema irrisolvibile è che, nel merito, hanno ragione entrambe. La destra si riferisce alla definizione della parola, mentre la sinistra all’esperienza pratica (di cui peraltro è stata ampiamente corresponsabile). In Italia, terra di famiglie e di clan, il merito scolastico non è mai esistito: intanto non si è mai trovato un criterio per misurarlo che non siano i quiz. Ma soprattutto - e basta dare una scorsa alla letteratura giudiziaria sui concorsi universitari dove certi professori si spartiscono cattedre come panini - da noi uno studente è considerato meritevole non quando conosce qualcosa, ma qualcuno. 

 Evviva il merito nella scuola (e non solo). Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 24 ottobre 2022. 

La nuova denominazione del Ministero dell’Istruzione del governo Meloni in “Ministero dell’Istruzione e del Merito” sotto il neo-ministro Giuseppe Valditara ha fatto subito discutere, sui social e non solo, dimostrando che la politica è anche capacità di comunicazione. Il primo obiettivo di Valditara è stato dunque già raggiunto: far parlare del nuovo nome che lui ha deciso per uno dei ministeri più importanti e difficili da governare, quello della scuola. Io, che parto un po’ prevenuto su questo governo, temo che Valditara possa fermarsi a cambiare il nome del ministero, senza introdurre alcuna meritocrazia. Ma andiamo oltre.

L’importanza dei nomi

Sull’importanza del nome moltissimi filosofi del linguaggio, da Benjamin a Wittgenstein, hanno scritto pagine celebri. Qui ricordo lo storico David Bidussa, che in un recente articolo in cui commemora la scomparsa di Zygmunt Bauman, scrive: “Il nome è importante, non solo per i significati che include, ma perché l’atto di denominare non è un dato tecnico, ma descrive un processo culturale e intellettuale di primaria importanza. È nel nome che la lingua manifesta il suo carattere ontologico.

Una frase poi di  Walter Benjamin, presa da Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (1916), “La facoltà di nominare […] è quella condizione e quella possibilità che consente poi di dare un volto e, nel tempo, contenuto alle cose. Non consente solo di riconoscerle, ma di parlarne.”

I prof contrari al merito

Stando a un recente articolo de Il Fatto Quotidiano, la maggior parte dei docenti e dei presidi boccerebbe il nuovo nome dato al ministero.

Molti colleghi leggono “merito” e pensano sia il contrario di “inclusione“. Questo è un primo macro-errore logico, filosofico e politico, figlio di un pregiudizio ideologico contro qualunque governo di Destra, quale questo di Meloni senza dubbio è. Ma il contrario di “merito” è ovviamente “demerito”. Volere una scuola meritocratica non significa, dunque, programmare di respingere tutti coloro che non sono normodotati e hanno difficoltà o disturbi dell’apprendimento. Il merito, in effetti, conviene soprattutto ai poveri. Perché i soldi comprano tante cose, ma non l’impegno, la passione, la voglia di partecipare, lo studio, la capacità di articolare un pensiero o una critica.

Merito come valore borghese

Il merito è, storicamente, un valore borghese, che si afferma durante la Rivoluzione del 1789 contro l’aristocrazia. I nobili non avevano bisogno di coltivare meriti o talenti: avevano diritto a tutto per forza di sangue blu. Il ceto nascente, la borghesia, non era d’accordo. Così nacque il principio meritocratico. Che va sempre accompagnato dal fornire a tutti un uguale punto di partenza, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” come disse Luis Blanc e poi ripreso in modo famoso da Karl Marx.

Merito per noi docenti

Secondo punto, il merito nella Scuola deve anzitutto riguardare i presidi e noi docenti e, in seconda battuta, i nostri studenti ma al modo stabilito dal 2° comma dell’articolo 34 della Costituzione più bella del mondo, là dove dice: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”

In Italia, la professione dell’insegnante, anche a causa di uno stipendio fra i più bassi del mondo occidentale, è oggi composta sia da professionisti meravigliosi, che mettono nelle loro giornate lavorative tutta la passione e l’entusiasmo necessari e anche di più, sia da persone che sono arrivate all’insegnamento come ultima spiaggia.

Questi non amano affatto insegnare, gli studenti, l’incontro con le famiglie, dover preparare le lezioni o correggere i compiti in classe. Non amano la Scuola. E’ ovvio che queste persone non hanno mai nessuna intenzione di aggiornarsi o di formarsi o di percorrere l’extra miglio per migliorare le loro tecniche pedagogiche o didattiche. A volte, questi “colleghi” con le virgolette non sono nemmeno poi così preparati sui contenuti delle loro discipline; figurarsi se hanno studiato come veicolarle al meglio in classe o tramite Dad.

Uno scivolo necessario

Nei confronti di questi “colleghi” (che non sono tanti e nemmeno la maggioranza, ma una cospicua minoranza, diciamo spannometricamente di uno su tre) l’unica mossa politica giusta è quella suggerita dal progressista Walter Tocci nel suo bellissimo libro “La scuola, le api, le formiche. Come salvare l’istruzione dalle ossessioni normative” (Donzelli): uno scivolo per portare questi “prof” a far danni altrove, fuori dalle aule scolastiche.

Come si valuta il lavoro?

Dunque il merito deve riguardare anzitutto noi docenti e la domanda che mi viene spesso posta è: sì, ma chi decide come valutare i docenti migliori? Anzitutto diciamoci subito: se è possibile valutare il lavoro di uno studente (occhio: la prima regola di un bravo valutatore è che non si valuta mai LA PERSONA, ma IL SUO LAVORO), è possibile valutare il lavoro di un docente o di qualunque lavoratore. Merito è impegno, passione, serietà, capacità critica, partecipazione, studio. Ognuno inizia da partenze diverse (chi è introverso, chi è estroverso) e arriva a traguardi diversi, ma l’impegno di ciascuno è misurabile sempre.

Esiste poi una disciplina che risponde in modo completo a questa domanda centrale: si chiama docimologia. Qui, nello spazio di un blog, posso dire che un docente, in ogni caso, deve essere valutato da una pluralità di fonti differentemente ponderate. Una di queste deve sempre essere il giudizio che i suoi studenti danno del proprio prof, e deve valere almeno un 5% del totale e non più di un 10%, per non rischiare l’effetto compiacenza dei propri discenti.

Poi si può immaginare una valutazione anche dall’alto (la DS) così come dai propri pari (gli altri docenti, anche se qui si rischia il “cane non morde cane” o l’affossamento del “primo della classe”: tutti fenomeni noti, esistenti e che si possono tamponare).

Parametri anche semplici e oggettivi

Infine ci sono tanti parametri semplici e oggettivi: vieni a lavorare oppure no? Perché nella scuola esistono anche alcuni docenti — spero casi estremi, ma ho raccolto più di un racconto in questo senso — che ogni anno dichiarano tramite certificato medico farlocco di essere in malattia dal 15/9 al 23/12 per poi, ogni anno, rientrare a disposizione dal 24/12 al 6/1, e tornare malato dal 7/1 alle vacanze di Pasqua. Questa è una truffa ai danni dello Stato, dell’erario e dei colleghi che suppliscono a queste assenze truffaldine.

Se il Ministero non avesse oggi solo meno di 60 ispettori per più di 53.000 istituti, dovrebbe poter controllare uno a uno questi “docenti”, e provvedere alla radiazione loro e dei medici compiacenti che forniscono il falso certificato. Ecco, si potrebbe cominciare col verificare queste assenze croniche e continuate, salvaguardando i malati veri da quelli che truffano. Poi si possono aggiungere diversi altri parametri, non solo se vieni a lavorare o no, ma come lo fai: in dialetto? In italiano? Anche in altre lingue? Usando le tecnologie dell’istruzione? Aggiornandoti? E così via.

La Scuola deve poter offrire anche dei “No”

Ma anche il lavoro degli studenti va valutato in modo più rigoroso e deontologicamente corretto. Da alcuni anni la scuola pubblica italiana sostanzialmente non boccia nessuno. Eppure, l’istituzione è pensata per poter dire ogni tanto dei “no” che aiutano a maturare.

Ripetere un anno di scuola, se non ci si è impegnati, se non si è studiato abbastanza, è un favore che l’istituzione ti fa. Non un’umiliazione. Perché il fine della Scuola non è farti uscire dal suo percorso il più presto possibile a prescindere da cosa hai imparato. Il fine della Scuola è istruirti. Darti quegli strumenti culturali che ti consentano di decifrare meglio la realtà intorno a te, partendo magari dalla conoscenza dello stato dell’arte fino ai giorni nostri. Solo così si mettono i giovani nella condizione di spiccare il loro personale volo.

Nella scuola (e nelle famiglie) di oggi, questi concetti si ritengono “di destra” o “vecchi”. Ma intanto sono umanistici e universali e poi non tutto quel che viene dal passato è da buttare via. La scuola pubblica non deve rigettare nessuno, ma deve certamente proporre uno standard minimo — anche personalizzabile per le capacità di ciascuno, come afferma la scuola dell’inclusione. Purché si raggiunga uno standard minimo. 

Opportunità e merito. Concita De Gregorio su La Repubblica il 26 ottobre 2022.

Non mi faccio una ragione che la sinistra si debba opporre al merito. Ma veramente dite? Adesso dopo identità, giustizia, sicurezza, legalità – continuate voi l’elenco - anche il merito lo dobbiamo regalare alla destra, siamo impazziti? Che cos’è, un suicidio plateale, una performance dadaista? Ragazzi, davvero. Ragioniamo. Per quale ragione al mondo il merito dovrebbe essere un demerito, per quale obliquo tragitto dire che bisogna dare opportunità a chi sa fare meglio le cose dovrebbe essere in contraddizione con l’evidenza che tutti devono avere la possibilità di dimostrare quel che possono fare e, dunque, farlo.

E’ chiaro che chi ha più mezzi è avvantaggiato. E’ ovvio che chi ha soldi ha potere. Ma il merito non c’entra con questo, anzi: è l’antidoto alla regola di natura – di classismo sociale - per cui se sei nato povero resti povero, se non sei figlio di qualcuno non sei nessuno. Non capisco per quale ragione le due cose dovrebbero essere in antitesi, aiutatemi: ho sempre sperimentato nella vita che se non ti danno la possibilità di mostrare le tue capacità, indipendentemente dalle tue origini, non ce la puoi fare.

Dunque il problema è: dammi l’opportunità di mostrare cosa so e posso fare. Dammi un test che sia buono anche per un dislessico, dammi una scuola che capisca il mio talento anche se non è codificato. Dammi la possibilità di dire chi sono, e vediamo. In che senso dire: premiare il merito danneggia un ragazzo disagiato economicamente, socialmente, strutturalmente? Al contrario, invece, no?, hanno detto Don Milani, Maria Montessori. Cosa sai fare? Sei “diverso” dalla norma? Mostra il tuo talento. Perché dovrebbe essere un problema. E’ un fatto sindacale? Non capisco.

L’ANATOMOPATOLOGA. Chi è Gloria Saccani Jotti, possibile ministra all’Università. GIULIA MORETTI su Il Domani il 19 ottobre 2022

Laureata in anatomopatologia, di cui è anche docente, è amica fidata della fidanzata di Berlusconi, Marta Fascina, e in passato ha partecipato a programmi Mediaset

Nata a in Emilia Romagna da dove si è trasferita a Milano, Gloria Saccani Jotti si prepara a guidare il ministero dell’Università. Saccani è laureata in medicina e specializzata in anatomia patologica, disciplina di cui è diventata docente all’università di Parma. Ex membro del consiglio di amministrazione del Cnr, ha fatto parte dell’Aifa. Ha partecipato anche a programmi Mediaset nei quali dava consigli di salute. 

L’ESPERIENZA POLITICA

Saccani si candida per la prima volta nel 2008 con il Popolo delle libertà senza essere eletta. Tenta di nuovo nel 2018 con Forza Italia ed entra allora alla Camera dei deputati. Viene poi nominata membro della VII Commissione cultura scienza e istruzione. Nella scorsa legislatura, Saccani Jotti ha proposto di reintrodurre il ministero della ricerca o, in alternativa, di attribuire a un sottosegretario la delega sul settore, per rafforzare anche il ruolo dell’Italia in Ue.

Nel 2022 la sua candidatura all’uninominale di Forlì-Cesena viene criticata perché “calata dall’alto”. I detrattori le rimproverano l’estraneità rispetto ai territori in cui è candidata. Nonostante ciò vince sull’avversario di centrosinistra, Massimo Bulbi, con il 40,7 per cento di preferenze. Fonti vicine a Forza Italia la dipingono come un’amica intima di Marta Fascina, attuale compagna del Cavaliere. 

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Ministro dell'Università e della ricerca: chi è Anna Maria Bernini. Figlia di un ex ministro, docente e avvocatessa. Dalla militanza in An agli incarichi in Forza Italia, ecco chi è la nuova ministra dell'Università e della ricerca, Anna Maria Bernini. Marco Leardi il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Figlia d'arte, ex militante di An, poi berlusconiana di ferro e capogruppo forzista al Senato. Già ministra. Per Anna Maria Bernini, l'incarico di nuova ministra dell'Università e della ricerca conferitole dalla premier incaricata Giorgia Meloni è un traguardo che si aggiunge a un curriculum già molto ricco. Classe 1965 e avvocatessa impegnata da anni in politica, ha sempre avuto un atteggiamento aperturista sul fronte dei diritti civili. Ora, nel nascente governo, si occuperà degli atenei italiani e del mondo articolato che gravita attorno a essi.

Chi è Anna Maria Bernini

Per la neoministra, la politica è sempre stata una materia famigliare: suo padre Giorgio Bernini, giurista e collaboratore dell'Onu, fu ministro del Commercio con l'estero del primo governo Berlusconi, nel 1994. Laureata in Giurisprudenza, è avvocatessa e docente di diritto pubblico comparato presso l'università di Bologna, città con la quale ha sempre mantenuto un particolare legame. Nel suo impegno politico, Anna Maria Bernini fu dapprima promotrice della Fondazione Farefuturo, nata per volontà di Gianfranco Fini. Successivamente, sarebbe entrata a far parte del cosiddetto "Comitato dei Trenta", che aveva l'ambizione di riunire le espressioni più liberali della politica. Nel 2008 fu candidata alla Camera ed eletta nella circoscrizione Emilia-Romagna per il Popolo della libertà, in quota An. Nel 2010 poi, la candidatura alla presidenza della Regione Emilia Romagna, conclusasi però con una sconfitta alle urne, in favore dell'avversario di centro-sinistra, Vasco Errani.

L'esperienza come ministra di Berlusconi

Nel 2011, nell'ambito di un rimpasto di governo, Bernini assume l'incarico di ministro per le Politiche dell'Ue all'interno del IV governo Berlusconi. La mansione dura però solo pochi mesi, dal momento che una congiuntura di controversi avvenimenti avrebbe costretto il Cavaliere alle dimissioni, nel novembre dello stesso anno. Confluita nel frattempo in Forza Italia, dal marzo del 2018 l'attuale ministra dell'Università ricoprì il ruolo di presidente dei deputati azzurri. Nella XVII legislatura, fu nominata vice presidente vicario del gruppo Pdl-Forza Italia, capogruppo forzista nella I Commissione Permanente Affari Costituzionali e capogruppo Fi nella Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Nel 2021 venne promossa da Berlusconi a vice-coordinatore nazionale del partito azzurro, con il compito di coordinare l'attività del partito con i gruppi parlamentari della Camera, del Senato, e del Parlamento europeo. Già in quella fase politica erano circolate indiscrezioni su un suo possibile ingresso come ministra nel governo Draghi, circostanza poi non avvenuta.

I video virali (cancellati). Bernini show su Instagram, le stories ‘trash’ della ministra dell’Università per il giuramento sulle note di Ambra e Noemi. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

Questa mattina doveva giurare e insediarsi così al ministero dell’Università e della Ricerca, scorporato da quello dell’Istruzione per volontà della neo premier Giorgia Meloni, così da poter accontentare gli alleati. 

E quale canzone migliore come ‘sottofondo’ se non “T’appartengo” di Ambra Angiolini, avrà pensato la neo ministra Anna Maria Bernini? L’ex capogruppo di Forza Italia al Senato questa mattina ha condiviso per i suoi followers su Instagram una serie di ‘story’ che, a tema musicale, hanno descritto la sua prima giornata da ministro.

Non potevano mancare dunque le parole di Ambra, “Adesso giura”, ad accompagnare la ministra verso la firma dell’incarico nel salone delle feste del Quirinale, per giurare davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 

Una scelta musicale che ha scatenato l’ironia della rete, tanto da spingere i social media manager della ministra a cancellarla, ormai troppo tardi visto che i filmati sono apparsi un po’ ovunque sul web.

Altre ‘storie’ apparse su Instagram per raccontare la giornata da ministra avevano invece come colonna sonora Vasco Rossi, Ligabue, Lucio Battisti e “Un nuovo inizio (Principesse per sempre)” di Noemi. Su quest’ultima base si vede la Bernini in video camminare verso il Quirinale mentre la cantante canta un enfatico: “Oltre il buio oltre le maree / Segui il cuore segui chi sei / Stai con me sulle ali della libertà”.

Come detto, le stories sono state cancellate e ora sul profilo Instagram del ministro campeggia solo il saluto al giovane Francesco Valdiserri, il ragazzo di 18 anni, figlio di due giornalisti del Corriere della Sera, investito e ucciso mercoledì a Roma su via Cristoforo Colombo. Il ministro era infatti presente questa mattina ai funerali del ragazzo assieme alla premier Giorgia Meloni, al ministero degli Esteri Antonio Tajani e al presidente del Senato Ignazio La Russa. 

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

L’INTELLETTUALE LIQUIDO. Chi è Giordano Bruno Guerri, possibile ministro alla cultura. GIULIA MORETTI su Il Domani il 18 ottobre 2022

Anticlericale e favorevole a eutanasia e matrimoni omosessuali, l’attuale direttore generale del Vittoriale potrebbe essere il ministro più progressista del governo Meloni. È stato “assessore al dissolvimento dell’ovvio” in un comune di Catanzaro

Condivide il nome con uno dei filosofi più rilevanti e anticlericali dell’occidente, di cui ha ereditato anche lo spirito critico nei confronti della religione. Giordano Bruno Guerri potrebbe essere il prossimo ministro della Cultura e uno di quelli meno appiattiti sull’ideologia predominante nel centrodestra del prossimo governo. Storico del periodo fascista e studioso del rapporto tra italiani e chiesa cattolica, Guerri dal 2014 è direttore generale del Vittoriale degli italiani, ruolo che potrebbe lasciare per trasferirsi nella sede di Campo Marzio. 

IL RAPPORTO CON LA CHIESA

La famiglia di Guerri gli impartisce un’educazione cattolica, nonostante ciò lui si professa ateo. L’interesse per le questioni di chiesa nasce quando a 32 anni pubblica Povera santa, povero assassino,  la storia della santa Maria Goretti riletta con occhi più indulgenti sull’uomo che la uccise dopo aver tentato di violentarla.

L’anno dell’affermazione come studioso in questo campo però è il 1993, quando pubblica Io ti assolvo. Il libro è un resoconto di confessioni raccolte in giro per l'Italia in cui si sottolineano le differenze tra diversi confessori cattolici sugli stessi argomenti e le prassi penitenziali, alcune delle quali sono secondo l’autore discutibili.

Sia Io ti assolvo che il libro su santa Maria Goretti raccolgono numerose e aspre critiche da ambienti vaticani. Questo è uno dei motivi per cui la sua eventuale nomina a ministro sarebbe un gesto in controtendenza con quanto successo finora, in particolare la nomina di Lorenzo Fontana a presidente della Camera. 

DAL SESSANTOTTO ALL’ASSESSORATO

La parabola politica di Guerri comincia con la partecipazione ai moti del Sessantotto, quando era ancora un liceale. Lo storico racconta di avervi preso parte «come cane sciolto ringhiante, ma non politicizzato». Poi all’università, dove è iscritto a lettere moderne, decide di approfondire le sue conoscenze sugli stili di vita di epoca fascista, secondo lui a quel tempo ancora sottovalutati.

Prima di definirsi un liberista, è stato vicino al Partito radicale del quale condivide alcune battagli tra cui quella contro la pena di morte. Con l’antropologa Ida Magli ha fondato il movimento culturale, ItalianiLiberi, di matrice «antieuropeista e di libero pensiero», per il quale ha diretto il giornale Internet italianiliberi.it. 

Nel 1997 il neosindaco di Soveria Mannelli (in provincia di Catanzaro), Mario Caligiuri, gli propose di divenire il suo assessore alla cultura, Guerri accettò ma con una riserva: volle essere chiamato “assessore al Dissolvimento dell'ovvio”. 

LA CULTURA LIQUIDA

Ma ciò che rende più distante Giordano Bruno Guerri dalla maggioranza che si sta delineando è la sua opinione di intellettuale su alcuni temi identitari. «Io da presunto, e sottolineo presunto, uomo di destra sono favorevole all’eutanasia, ai matrimoni gay, all’accoglienza. E mi vergogno a essere identificato con una schiera di bacchettoni o polverosi reazionari», ha dichiarato all’agenzia di stampa Agi. 

Una distanza che si accentua quando si tocca il tema di ciò che sia la cultura di destra che Guerri definisce «liquida, come un'acqua che filtra dappertutto in modo disomogeneo e talvolta confuso. Mi sembra si debba parlare non tanto di posizioni politiche, quanto di atteggiamenti mentali verso problemi contingenti».

Da storico quale è non intende dimenticare il passato dei conservatori italiani, sul quale, da presunto uomo di destra, è pronto a fare autocritica. Ma afferma che le tre storiche correnti della destra –  quella post-fascista, quella liberale e quella conservatrice –  non possono conquistare le nuove generazioni.

«Perché è giusto che si conservino i beni culturali, è giusto che si protegga la tradizione della pizza e della mortadella di Reggio, ma riguardo al resto c’è l'esigenza di modernizzare e proiettare questo paese nel futuro. I giovani non hanno niente da conservare, vogliono aprirsi al mondo, innovare e progettare», dice.

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Dagospia il 24 Ottobre 2022. COME MAI GIORDANO BRUNO GUERRI, DATO PER SICURO, E' STATO CASSATO DA MINISTRO DELLA CULTURA? IL VATICANO NON HA ACCETTATO UN MANGIAPRETI, SCOMUNICATO UN PAIO DI VOLTE PER LIBRI ANTICLERICALI, A CAPO DI UN DICASTERO CHE HA IN MANO LA GESTIONE DELL'ENORME PATRIMONIO ARTISTICO DELLA CHIESA - AD AZIONARE LA CONTRAEREA SU GUERRI, SI E' MESSO IN MOTO GENNARO SANGIULIANO, LEGATISSIMO AL SOTTOBOSCO DEL VATICANO, CEI, OPUS DEI, DA FISICHELLA A GALANTINO. E COSI' IL PIO SANGIULIANO E' RIUSCITO A FARSI NOMINARE MINISTRO DEI BENI CULTURALI (GIORGIA MELONI HA INCONTRATO LA CEI DEI VESCOVI BEN TRE VOLTE...)

Giamarco Aimi rollingstone.it. Estratto dell’articolo del 28 febbraio 2021

In Gli italiani sotto la Chiesa lei fa risalire certi vizi che ci caratterizzano proprio a quegli anni. In particolare un certo opportunismo, come quando ci si convertiva al cristianesimo solo in punto di morte per assicurarsi la vita eterna.

È il nocciolo del libro, a parte la constatazione ovvia che il Vaticano ha combattuto e impedito per lungo tempo il formarsi di uno stato nazionale unitario. È un danno enorme e se siamo indietro rispetto ad altri paesi come Francia e Gran Bretagna è anche per questo motivo. E l’opportunismo è dovuto alla doppia morale, visto che la Chiesa stessa ha sempre agito, semplificando, al motto di “predica bene e razzola male”. Un esempio negativo.

Chiarisco all’inizio che la Chiesa ha avuto anche dei meriti enormi nell’aiuto ai poveri e ai bisognosi e nel favorire e conservare la bellezza e la cultura. Di questo va ringraziata, ma purtroppo in generale ci ha fatto vivere come Arlecchino servitore di due padroni, che poi in realtà erano tre: il potere ducale, dell’imperatore e del Papa. Barcamenarsi fra questi tre poteri richiedeva dosi tali di opportunismo, di furbizia e di spirito di sopravvivenza che ha condizionato il carattere nazionale. 

Per quello dopo l’unità d’Italia per 40 anni il primo partito è stato la Democrazia cristiana e ancora oggi ci sono politici che si appellano al cuore immacolato di Maria?

A parte questi casi eclatanti, la Chiesa condiziona ancora molto la politica. La prima cosa che fa un presidente del governo è chiedere udienza al Papa. Vedremo cosa farà Draghi. È vero che viviamo in un periodo di laicizzazione, però sono fenomeni che richiedono tempi lunghissimi.

Altro aspetto interessante che mette in evidenza in questa sua “antistoria” è un certo anticlericalismo degli stessi cattolici. Da cosa deriva?

È legato alla fede in Dio, in Gesù e più spesso nei santi o nei loro rappresentanti in terra, anche se poi si capisce che spesso non sono santi. Gli stessi Papi non hanno dato un buon esempio, a partire dal periodo della “pornocrazia papale” fino a errori enormi di papi recenti comunque fatti santi.

Facendo un balzo in avanti, mi sembra sia stato piuttosto indulgente con Papa Benedetto XVI. La sua decisione di abbandonare la ritiene dettata da problemi personali o dall’impossibilità di far fronte a certi scandali che erano in corso nella Chiesa?

Quello lo definisco un capitolo di cronaca, perché la storia ha bisogno di sedimentare, di documenti e che gli episodi siano conclusi. Comunque, sulle dimissioni ci varie sono ipotesi. Quella che sia stato costretto perché accerchiato e in difficoltà, così come quella che non ce la facesse più ad andare avanti. Da uomo colto e tedesco in ogni fibra, forse si è reso conto che non riusciva più a tenere le redini di una macchina così complessa. Nel complesso, però, è stato un Papa importante che ha avviato riforme che lo stesso Francesco sta proseguendo. C’è una continuità fra i due, nonostante le apparenti differenze. 

Papa Francesco ha invertito la tendenza: amatissimo da chi prima era distante dalla Chiesa e criticatissimo dai cattolici più intransigenti. Anche questo è un bel paradosso.

Perché è un Papa di rottura, quindi ha provocato una divisione. Ma ho l’impressione che venga amato da certi ambienti più per i suoi aspetti esteriori. Mentre non c’è dubbio che dia molto fastidio per un rinnovamento effettivo che sta imprimendo alla Chiesa. Sia sull’aspetto finanziario, dove sta facendo uno sforzo di chiarezza, sia sul fronte della pedofilia, dove invece ha tirato un po’ il freno. È anche vero che viene attaccato fino a sfiorare il fanatismo da chi ha a che fare con un mondo di conservatori che io trovo deprecabile. Nello stesso tempo, il futuro del cattolicesimo è in Africa e in Asia, per cui credo che lui abbia una visione molto più ampia rispetto all’Occidente, dove intendiamo la figura del Papa in modo tradizionalista, ancor di più in Italia.

"Renderò grande la cultura italiana". Chi è il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Insegnante, giornalista e scrittore, Gennaro Sangiuliano fa parte della squadra di governo scelta da Giorgia Meloni per il suo esecutivo. Francesca Galici il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Giorgia Meloni per il ministero della Cultura ha scelto il giornalista Gennaro Sangiuliano. Classe 1962, è da sempre vicini agli ambienti di destra, come testimonia la sua storia politica. Dal 2018 ha assunto la direzione del Tg2 ed è stato vicedirettore del quotidiano Libero e del TG1 dal 2009 al 2018.

"La cultura è sempre stato il mio alimento. Sono orgoglioso di possedere una biblioteca di 15.000 libri nella mia casa e di aver condiviso la mia conoscenza con molti studenti nei 20 anni di insegnamento all'università", ha dichiarato alle agenzie poco dopo l'annuncio del nuovo premier. Intercettato all'uscita dagli uffici, ha affermato: "Sono onorato di prestare questo servizio e sono grato a Giorgia Meloni. Renderò grande la cultura italiana".

Governo Meloni, ecco la lista dei ministri

La carriera accademica di Gennaro Sangiuliano

Gennaro Sangiuliano si è laureato in Giurisprudenza, ed è stato per 20 anni docente esterno a contratto di Diritto dell'informazione presso l'università Lumsa e di Economia degli intermediari finanziari alla Sapienza di Roma. La sua carriera universitaria si è arricchita nel 2016 con la cattedra di Storia dell'economia e dell'impresa alla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli. Dal 2015, invece, è direttore della scuola di Giornalismo dell'università degli Studi di Salerno.

La carriera giornalistica di Gennaro Sangiuliano

Un curriculum professionale degno di nota in ambito accademico per Gennaro Sangiuliano, che ha saputo farsi strada anche in ambito giornalistico. Dopo una lunga carriera tra la carta stampata, nel 2003 arriva in Rai come inviato del TgR, di cui Sangiuliano diviene capo-redattore, per poi passare al TG1. In Rai è stato spesso inviato in scenari "caldi" di guerra, come Bosnia, Kosovo e in Afghanistan. Nel 2009 è nominato vice direttore del TG1 durante la direzione di Augusto Minzolini. Il 31 ottobre 2018 viene nominato dal Cda della Rai, su proposta dell'amministratore delegato Fabrizio Salini, nuovo direttore del Tg2.

La carriera letteraria di Gennaro Sangiuliano

Durante lo svolgimento della professione accademica e di quella giornalistica, Gennaro Sangiuliano ha avuto anche occasione di scrivere alcuni libri, principalmente incentrati sulle tematiche di insegnamento delle sue cattedre. Tuttavia, ha spaziato tra diversi generi, scrivendo anche una biografia sul fondatore della Voce, Giuseppe Prezzolini, l'anarchico conservatore. Grazie a questo volume, apprezzato da lettori e critica, è stato finalista del Premio Acqui Storia. Nel 2012, per Mondadori ha pubblicato il saggio storico Scacco allo zar. 1908-1910: Lenin a Capri, genesi della rivoluzione, incentrato sui due soggiorni del futuro leader sovietico sull'isola campana, in seguito fondamentali per gli esiti della Rivoluzione russa.Per questo libro ha vinto il premio Capalbio per la saggistica storica.

La carriera politica di Gennaro Sangiuliano

Fin da giovanissimo, Gennaro Sangiuliano è stato attratto dagli ambienti di destra, come testimoniano i primi passi mossi nel Fronte della gioventù quand'era ancora ragazzino. L'esperienza politica ha sempre affascinato Gennaro Sangiuliano, che poco più che ventenne, dal 1983 al 1987, è stato consigliere circoscrizionale del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale nel quartiere Soccavo di Napoli. Dopo l'esperienza nella politica locale, nel 2001 prova a fare il grande passo candidandosi alla Camera dei deputati nella lista Casa delle Libertà nel collegio Chiaia-Vomero-Posillipo, ma non ricevette abbastanza voti per essere eletto.

Gli auguri per Gennaro Sangiuliano

Tra i primi a congratularsi con Gennaro Sangiuliano c'è il ministro della Cultura uscente, Dario Franceschini, che per 7 anni ha occupato la poltrona del dicastero di via del Collegio Romano: "Un onore e una gioia avere servito per sette anni il mio Paese come ministro della Cultura. In tanti in giro per il mondo mi hanno detto: non esiste mestiere più bello che occuparsi di cultura in Italia. Avevano ragione. Ora buon lavoro a Gennaro Sangiuliano".

i complimenti sono giunti anche dall'università Lumsa, dove il neo-ministro insegna da anni. "Al neo ministro formuliamo i migliori auguri di buon lavoro al servizio del Paese", ha commentato l'università a nome del rettore, professor Francesco Bonini, e di tutta la comunità accademica dell'Università Lumsa.

Attuale direttore del Tg2. Chi è Gennaro Sangiuliano, il nuovo ministro della Cultura del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Gennaro Sangiuliano è il nuovo Ministro della Cultura del Governo guidato da Giorgia Meloni. Il suo nome era circolato in queste ore prima della formazione del nuovo governo di destra-centro. L’attuale direttore del Tg2 è da sempre vicino agli ambienti di centrodestra come conferma la sua partecipazione alla convention milanese di Fratelli d’Italia e alla festa della Lega.

Sangiuliano ha superato nei gradimenti il nome di Giordano Bruno Guerri come successore del ministro uscente Dario Franceschini. Il profilo del giornalista è gradito sia a Fratelli d’Italia sia alla Lega anche se Salvini l’avrebbe voluto al vertice del Tg1 in Rai.

Classe 1962, Sangiuliano si è laureato in Giurisprudenza all’università Federico II di Napoli. Come giornalista ha avuto incarichi di rilievo come la vice direzione del quotidiano Libero, oltre a varie collaborazioni con Il Foglio, l’Espresso e il Sole 24 Ore. È stato anche Direttore della scuola di giornalismo dell’università di Salerno e docente di Storia dell’Economia alla Luiss Guido Carli. Dopo l’assunzione in Rai come inviato in Bosnia, Kosovo e in Afghanistan, arriva la nomina a vicedirettore del Tg1, mentre nel 2018 assume la carica di direttore del Tg2.

Negli ultimi mesi Sangiuliano è stato attaccato per la sua vicinanza a Fratelli d’Italia, emersa da un’intervista al senatore Ignazio La Russa, il quale ha detto che il direttore del Tg2 sarebbe disposto “a sottoscrivere con noi, a preparare con noi un programma di governo”.

Michele Anzaldi, il segretario della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, ha fatto capire che l’impegno politico di Sangiuliano è incompatibile con il suo ruolo di direttore di uno dei telegiornali pubblici più seguiti d’Italia. L’Usigrai ha alla fine diffuso una nota in cui spiega di aver “chiesto ai vertici di prendere posizione per difendere l’autonomia e l’indipendenza del Tg2, il cui direttore durante la campagna elettorale estende la sua responsabilità anche sugli approfondimenti giornalistici di Raidue”. Non ha ottenuto risposta né è arrivata una smentita da Sangiuliano.

Chi è Gennaro Sangiuliano, il ministro della Cultura del governo Meloni. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2022.

«La cultura è sempre stato il mio alimento. Sono orgoglioso di possedere una biblioteca di 15.000 libri nella mia casa e di aver condiviso la mia conoscenza con molti studenti nei 20 anni di insegnamento all’università». Sono le prime parole del neoministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, intervistato dall’Adnkronos poco dopo la lettura del nuovo esecutivo da parte di Giorgia Meloni.

Sangiuliano, direttore del Tg2 in carica, annuncia che «stasera saluterà i colleghi in redazione» per poi passare il testimone ad interim al vicedirettore anziano Carlo Pilieci. «Il passaggio da Saxa Rubra al Collegio Romano? Una grande responsabilità in cui metterò tutto il mio impegno e la mia concentrazione», aggiunge. E conclude: «Il mio motto sarà la canzone civile ‘All’Italia’ di Giacomo Leopardi che inizia così: ‘O patria mia,, vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erme torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo’».

La storia di Gennaro Sangiuliano, nuovo ministro della Cultura e attuale direttore del Tg2, affonda le sue radici a Napoli, dov’è nato nel 1962, e nel Fronte della Gioventù e nel Movimento Sociale Italiano. Il suo esordio nella politica è da consigliere circoscrizionale, proprio a Napoli, nel quartiere Soccavo.

In parallelo, dopo la laurea in Giurisprudenza alla Federico II e il dottorato di ricerca in Diritto ed Economia, comincia la sua carriera giornalistica: «Canale 8», «L’Opinione del Mezzogiorno». Quindi «l’Indipendente» e la direzione del quotidiano «Roma» dal 1996 al 2001. Poi collabora per diverse testate, tra cui «l’Espresso», «il Sole 24 ore», «il Foglio» ai tempi della direzione di Giuliano Ferrara, «il Giornale».

Alle elezioni del 2001 si candida alla Camera per la Casa delle Libertà ma non viene eletto.

Approda poi alla Rai nel 2003 e comincia la sua carriera alla Tgr, diventa caporedattore e passa al Tg1. E lì comincia una stagione che lo rende molto popolare col grande pubblico come inviato in Bosnia, in Kosovo e in Afghanistan. Molti gli riconoscono sintesi e capacità di analisi del contesto politico internazionale. Nel 2009 diventa vicedirettore del Tg1, con la direzione di Augusto Minzolini, e dall’ottobre 2018 è direttore del Tg2. Ora, dopo la nomina a ministro della Cultura, la testata giornalista del secondo canale Rai

Da tempo scrive libri legati ai suoi interessi culturali. Nel 2008 pubblica per Mursia una biografia di Giuseppe Prezzolini, finalista al Premio Acqui Storia. Nel 2012 scrive per Mondadori « Scacco allo zar: 1908-1910: Lenin a Capri, genesi della rivoluzione» che piace molto a Raffale La capria che ne scrive sul Corriere della Sera. Sempre per Mondadori realizza una trilogia di biografie di Vladimir Putin, Hillary Clinton e Donald Trump. In particolare la biografia di Putin resta a lungo in classifica nella saggistica nel 2013. L’ultimo libro, nel 2019, è dedicato al presidente cinese Xi Jinping. Nel 2020 riceve il premio internazionale Ischia Giornalismo.

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 19 novembre 2022.

La portavoce col rosario al collo in tv. La consigliera direttrice d’orchestra che vuol essere chiamata “direttore”. Il capo della segreteria tecnica che anni fa pubblicò, per una casa editrice vicina a CasaPound, un fumetto revisionista sulle foibe. Prende forma e sostanza il ministero della Cultura di Gennaro Sangiuliano: un circolo di uomini e donne dove (per ora? ) non c’è posto per Morgan. 

Cominciamo da Emanuele Merlino, nominato capo della segreteria tecnica l’11 novembre, come riporta il sito del ministero: un incarico che di solito si aggira intorno ai 75mila euro l’anno. Balzò alle cronache nel 2018, come autore dell’albo a fumetti Foiba rossa, pubblicato da Ferrogalico, piccola realtà che fa parte del circuito di Altaforte, la casa editrice di CasaPound. Norma Cossetto, storia di un’italiana, recita il sottotitolo: è la vicenda della studentessa italiana, istriana, uccisa nel 1943 a 23 anni dai partigiani slavi.

Il libro divenne un caso nazionale quando l’assessore all’Istruzione del Veneto Elena Donazzan (FdI) decise di spedire il volume nelle scuole medie della regione in occasione del Giorno del ricordo del 10 febbraio: «Abbiamo il dovere di far conoscere ai giovani studenti del Veneto questa pagina di storia». L’Anpi parlò di «propaganda nazifascista col denaro pubblico». 

Un tentativo analogo fu portato avanti in Piemonte, ma il volume non arrivò agli studenti. L’Istituto Parri, che si occupa di Resistenza, guidò le barricate contro la «narrativa neofascista». Tornò alle cronache anche il nome del padre, Mario Merlino, militante di Avanguardia Nazionale, processato e assolto per la strage di piazza Fontana. La nuova portavoce del ministro sarà Marina Nalesso, conduttrice del Tg2 quando Sangiuliano era direttore.

Fece notizia presentandosi più volte sul piccolo schermo, in prima serata, con croci e rosari al collo. Il Foglio raccontava ieri del suo scetticismo nei confronti dei vaccini, citando le chiacchiere di alcuni colleghi in Rai: «Durante la pandemia ha preso un lungo periodo di ferie. Ha in pratica atteso che i vaccini non fossero obbligatori per tornare al lavoro». Un’altra donna che Sangiuliano ha voluto per dare un’identità al suo ministero è Beatrice Venezi.

La direttrice d’orchestra che ama farsi chiamare «direttore» in campagna elettorale si è schierata apertamente per Giorgia Meloni, la presidente del Consiglio che ama farsi chiamare «il presidente». Venezi è stata scelta come «consigliere» per la musica. Ma non era il ruolo che Vittorio Sgarbi voleva per Morgan? «Il consigliere è un ruolo decorativo, la sentirà un paio di volte l’anno – risponde il sottosegretario – io ho bisogno di persone pratiche, Morgan lo metterò in un posto strategico». 

Tipo? «Un programma in Rai o un ruolo a scuola, per parlare di musica, magari all’università. Ne ho già parlato con la ministra Bernini». Morgan sorride a denti stretti: «Le auguro buon lavoro», dice pubblicamente. Nessuna gelosia, assicura Sgarbi, che sceglie anche la musica: «La nostra colonna sonora è “Il ragazzo della via Gluck”: il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, dalla terra al cemento, un manifesto della conservazione».

Manuela Moreno: «Vi racconto Sangiuliano, i giorni al Tg2 e quel “chiamami Gennaro”…» Gianluca Corrente su Il Secolo d'Italia il 22 ottobre 2022.

«A Saxa Rubra i corridoi erano deserti e tutte le tv accese sulla diretta dal Quirinale. Quando la voce di Giorgia Meloni ha pronunciato il nome del direttore come ministro della Cultura, da alcune delle redazioni è partito un applauso». A raccontare all’Adnkronos come al Tg2 è stata accolta la nomina del direttore Gennaro Sangiuliano a ministro della Cultura è Manuela Moreno, inviata speciale della testata. Da 3 anni è curatrice e conduttrice dell’approfondimento “Tg2Post”. «Erano giorni che ci si interrogava: diventerà direttore del Tg1 o ministro? Lui dissimulava. Una settimana fa gli ho chiesto: ”Insomma come devo chiamarti?”. Lui ridendo ha risposto: “chiamami Gennaro!”».

Manuela Moreno: mi chiedevano notizie sul suo futuro

Sull’incarico al governo, Sangiuliano ha tenuto fino all’ultimo massimo riserbo. «Visto che stiamo tutti i giorni insieme per ‘Tg2Post”, molti colleghi venivano a chiedermi notizie sul suo futuro. Mi aveva detto che sarebbe andato ma poi ha iniziato a scherzare e non si capiva fino a dove arrivava lo scherzo. Da buon napoletano, è scaramantico. Mentre ascoltavamo un servizio al tg sulla ricerca del nuovo James Bond, gli ho detto: “Vai tu! Sei candidato a tutto…”. Mi ha risposto sorridendo: “Non ho il fisico!”. Ora lo sappiamo a Palazzo Chigi e al Collegio Romano».

Quella passione per Giuseppe Prezzolini

«Il ministero della Cultura sicuramente gli si addice», aggiunge Manuela Moreno. «Ha sempre avuto un’attenzione particolare ai temi culturali sia umanamente che nel telegiornale. Farà bene. È preciso, serio ma non serioso. In studio riuscivo sempre a strappargli un sorriso», racconta la giornalista che proprio a “Tg2Post” ha lavorato fianco a fianco con Sangiuliano. Tanto da aver sperimentato nei fatti anche la “vera passione” di Sangiuliano per Giuseppe Prezzolini: «Ne citava spessissimo gli aforismi, sia in onda che dietro le quinte. Immagino che anche da ministro non mancherà di farlo». E rivela anche il motto fino a ieri appeso dietro la scrivania di Sangiuliano al Tg2. Un cartello con scritto: “Non smetto di lavorare quando sono stanco, ma quando ho finito”.

Manuela Moreno: il Tg2Post è stata una sua scommessa

Quanto al futuro, Manuela Moreno ammette: “«Ieri in studio la situazione era strana. Faceva un certo effetto sapere che non sarebbe più stato con noi. Ma solo da direttore, perché spero di averlo presto ospite in studio come Ministro: un’anteprima ce la meritiamo!», sottolinea divertita. Poi, più seria, conclude: «L’ho salutato e ringraziato perché “Tg2Post” è stata una sua scommessa. Una scommessa fatta anche su di me. E abbiamo vinto insieme».

Perché Sangiuliano alla Cultura è una scelta giusta. Conosco da molto tempo Gennaro Sangiuliano, che ha esattamente dieci anni meno di me, e che è stato consigliere Msi a Napoli, giornalista all'Indipendente e al Roma, di cui è stato anche direttore, per poi diventare vicedirettore di Libero. Vittorio Sgarbi il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Devo ringraziare i tanti amici che mi hanno scritto con amarezza perché aspettavano che fossi chiamato a fare il ministro della Cultura. Non è accaduto e me ne dispiace, ma so che la premier conosce la mia attività e non trascurerà di trarre beneficio dalla mia esperienza. D'altra parte, la nuova definizione di quello che fu il ministero «per» i Beni culturali come «ministero della Cultura» ha esteso i confini della tutela del patrimonio a una visione ideale o ideologica che la Meloni ha voluto gelosamente per sé, come identificazione della propria condizione culturale e politica. Insomma, una cosa è la Kultur, che è mondo delle idee, civiltà, visione, un'altra è il patrimonio culturale materiale e immateriale, i cui confini sono definiti dall'Unesco: io non ho una posizione filosofica che rappresenti una parte politica, ma ho una formazione che mi orienta alla difesa del patrimonio artistico e all'idea di bellezza e avevo quindi compreso la scelta di puntare su nomi portatori di un pensiero più vicino alla Meloni.

Conosco da molto tempo Gennaro Sangiuliano, che ha esattamente dieci anni meno di me, e che è stato consigliere Msi a Napoli, giornalista all'Indipendente e al Roma, di cui è stato anche direttore, per poi diventare vicedirettore di Libero sotto la direzione di Vittorio Feltri. Ma quel che ci ha unito è l'amicizia con Lino Jannuzzi, grande giornalista che diresse il Giornale di Napoli e con cui passammo giornate indimenticabili a Sorrento, in quella Villa Astor dove aveva vissuto anche Benedetto Croce. Tra i ricordi più lontani c'è la presentazione di un primo libro di Sangiuliano su Giuseppe Prezzolini a San Severino Marche: un giovane timido e determinato, come ai nostri giorni si è mostrato Francesco Giubilei scrivendo di Leo Longanesi. Un'altra occasione fu la presentazione di Il paradiso: viaggio nel profondo Nord, in risposta a L'inferno di Giorgio Bocca, presentato con felice rumore a Napoli, insieme a Ciro Paglia, di Sangiuliano amico e maestro, scomparso nel 2013. Paglia, autore nel 1980 di una serie di articoli in cui denunciava la violenza della camorra, fu per Sangiuliano come un padre. E quando nell'81 la compagna di Paglia fu ammazzata, grande fu l'impressione per il giovane Sangiuliano. Con tale formazione, ha affrontato la direzione del Tg2 con grande ragionevolezza ed equilibrio. E, nei miei confronti, con grande complicità per tutte le mostre che gli ho proposto.

Capisco dunque, per l'impegno e la coerenza, la nomina che oggi lo premia. Ne soffro per la lunghissima esperienza e l'impegno a tutelare i monumenti dell'arte italiana, dal vincolo del Porto vecchio di Trieste alla ricostruzione del Teatro Petruzzelli di Bari, passando dall'esperienza come Sottosegretario ai Beni Culturali, ormai vent'anni fa.

Oggi si apre una nuova stagione, ma voglio ricordare un episodio, che dimostra una certa preveggenza. Nell'estate del 2021, a Castellabate, come direttore artistico della Fondazione Pio Alferano, attribuii il premio annuale a Gennaro Sangiuliano, con la seguente motivazione: «Cultura e gentilezza sono le caratteristiche di Gennaro Sangiuliano che cresce e assume incarichi, senza perdere semplicità e attenzione per i problemi e per gli uomini. Il suo maggior diletto è fare bene il suo lavoro di scrittore, di giornalista, di direttore. È stato educato alla civiltà e alla lezione della storia, nella tradizione napoletana che va da Vico a Cuoco, da Filangeri a Croce, trovando nei maestri più vicini, come Galasso e Isotta, una incorrotta lezione di stile. Alla quale non può sottrarsi. Sangiuliano scrive bene e chiaro per un dovere di dire la verità, come chiede il rispetto della storia anche quando è contemporanea». Questo era il mio pensiero e lo è ancora oggi, senza alcuna suggestione. Con gli auguri di buon lavoro.

A.Bra. per “la Stampa” il 25 ottobre 2022.

«Storicamente la Crimea è sempre stata russa: da un punto di vista culturale, etnico, economico, religioso», come dimostra il referendum del 2014 in cui anche «molti ucraini hanno votato per l'annessione» a Mosca. E l'Ucraina anti russa? Si riconosce dall'uso di «simboli del nazismo». Parole e scritti di Gennaro Sangiuliano, nuovo ministro della Cultura, che scatenano polemiche sui social. 

A pochi giorni dai ragionamenti di Silvio Berlusconi su Putin che hanno messo in allarme i governi di tutto l'Occidente, la rete ripesca da libri e tv opinioni che molto somigliano alla versione russa del conflitto con l'Ucraina. Ospite di La7 nel dicembre del 2018, da poco direttore del Tg2, Sangiuliano ricorda che fu Krusciov a cedere la Crimea all'Ucraina, quindi «chi dice che oggi non è russa avalla una decisione presa da un regime totalitario».

C'è poi il collaborazionismo: «Chi ha studiato la Shoah e la tragica persecuzione degli ebrei sa che in molti campi di sterminio nazisti, oltre ai tedeschi che li guidavano, la bassa forza che sterminava gli ebrei era fatta dagli ucraini. Oggi quei movimenti ucraini che sono fortemente anti russi usano i simboli del nazismo». 

Nel 2015, nel libro "Putin, vita di uno zar", Sangiuliano scriveva del referendum seguito all'invasione russa dell'anno prima, sottolineando il dato del 97,38% di voti favorevoli: «Poiché la popolazione di etnia russa della Crimea è del 58,5% ne risulta che anche molti ucraini hanno votato a favore dell'adesione a Mosca». Seppur il voto «non era stato riconosciuto come legittimo da gran parte della comunità internazionale», per il ministro è ancora più vero che «nessuno «degli osservatori ha mosso «obiezioni sulla regolarità del voto».  

Lettera del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, pubblicata da “La Stampa” il 26 ottobre 2022.  

Gentile direttore, contrariamente a quanto riportato ieri sul suo giornale nell'articolo "La Crimea è sempre stata della Russia. 

Sangiuliano finisce nel mirino dei social", segnalo che nelle ore immediatamente successive alla brutale aggressione della Russia all'Ucraina ebbi a esprimere, nella mia qualità di giornalista e saggista di geopolitica, una posizione netta e chiara: la Russia e Putin avevano violato il diritto internazionale mettendosi dalla parte del torto e aggredendo una nazione sovrana. 

In altre parole, la Russia è l'aggressore e l'Ucraina è la vittima attorno alla quale bisogna stringersi, come nel 1939 ci si strinse attorno alla Polonia aggredita a tenaglia dai nazisti e dai sovietici. Altra cosa è fare un ragionamento storico molto articolato sulle ragioni che portarono Krusciov a cedere la Crimea all'Ucraina. Per quanto mi riguarda, oggi la Crimea dovrebbe tornare nella sovranità di Kiev.

Il miracolo di Sangiuliano. Storia dell’agiografo di Putin (e di Trump) che Meloni ha fatto ministro della Cultura. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 22 Ottobre 2022

«Meglio una faziosità limpida ed esibita di una subdola terzietà» è il motto del direttore del tg2, il quale dopo aver seguito tutte le campagne sovraniste ora andrà al governo

Un autore di biografie è andato al ministero della Cultura nel governo più a destra della storia d’Italia. Ma non Giordano Bruno Guerri, il biografo di tanti personaggi del fascismo, ma anche del cattolico del dissenso Ernesto Buonaiuti, di Santa Maria Goretti in una chiave che fece arrabbiare la Chiesa, di un Gabriele D’Annunzio letto in chiave libertaria, e soprattutto con idee a proposito di religione e morale piuttosto in linea col personaggio storico di cui gli hanno dato il nome. Sarebbe stato un perfetto bilanciamento del cattolicesimo ultratradizionalista dell’«inpiegato» diventato presidente della Camera; ma sarebbe stato troppo per le caratteristiche della nuova maggioranza.

Così hanno preferito un altro biografo, Gennaro Sangiuliano, oggi direttore del tg2 e biografo, anzi agiografo, di Vladimir Putin. La cosa, in questo momento, fa ovviamente una sua impressione. Specie con il leader di uno dei partiti di maggioranza che si scambia con l’invasore dell’Ucraina vodka contro lambrusco, insiste di essere uno dei suoi migliori amici, e spiega che la sua unica colpa è stata quella di aver voluto sostituire un personaggio su cui «è meglio non dire niente» come Zelensky con «persone perbene». E con un altro partito della maggioranza che mantiene un rapporto di alleanza e «scambio di informazioni» con il partito di Putin.

In realtà, va subito ricordato, Gennaro Sangiuliano non ha fatto solo la biografia di Putin. «Le biografie dei personaggi contemporanei ci aiutano a capire i grandi fatti del mondo» ha spiegato, e lui ha scritto anche quelle di Hillary Clinton, Trump, Xi Jinping e Reagan, oltre a quella di Giuseppe Prezzolini. E il suo ritratto del leader cinese, ad esempio, è durissimo. Dedica molte pagine ai tratti autoritari del suo regime, e indicative sono ad esempio quelle sul caso Bo Xilai, il capitolo sulla persecuzione degli editori, o il racconto della protesta di Hong Kong. Scritto subito prima che la Cina di Xi esportasse nel mondo il Covid, il libro ricordava anche come le celebrazioni per i 70 anni della Repubblica Popolare fossero state uno sfoggio di potenza militare, e la strategia della Via della Seta apparisse sempre più come un progetto espansionista di fronte al quale il libro consiglia di fare estrema attenzione. L’opera gli valse nel 2020 il Gran Premio Internazionale «Casinò di Sanremo 1905»: uno dei ben 18 premi ricevuti da questo giornalista nato il 6 giugno 1962. A Napoli, come suggerirebbe da subito il nome. 

Fu un indubbio prezzo di bravura, perché costruito con le sole scarne notizie che, nel tempo, gli apparati ufficiali di Pechino hanno fatto filtrare. Però, è la sua idea, la biografia «può essere definita con sufficiente chiarezza unendo i punti di un’immaginaria mappa». Sangiuliano ha così dedicato molto spazio al contesto, ricostruendo un’ampia storia della Cina del Novecento. Ma è riuscito a trovare anche più di quel tipo di aneddoti in apparenza minori ma che, come insegnava già Plutarco, aiutano a decifrare un personaggio. 

Quattordicesimo dei 18 volumi da lui firmati, Putin. Vita di uno zar, è però il primo dei cinque profili di protagonisti della Storia di oggi, e viene nel 2015 l’anno dopo un Quarto Reich, come la Germania ha sottomesso l’Europa il cui titolo già basta a rappresenta0re un eloquente manifesto sovranista. Maturità Classica all’Adolfo Pansini di Napoli, laurea in Giurisprudenza alla Federico II, master in Diritto privato europeo presso la Sapienza e cum laude il dottorato di ricerca in Diritto ed Economia ancora presso la Federico II, Sangiuliano ha anche un profilo di professore: docente esterno a contratto di Diritto dell’informazione presso la Lumsa e di Economia degli intermediari finanziari alla Sapienza; titolare del corso di Storia dell’economia e dell’impresa alla Luiss; direttore della scuola di Giornalismo dell’Università degli Studi di Salerno; docente del Master in Giornalismo e Comunicazione della Università telematica “Pegaso”. 

È anche un giornalista di lunghissimo corso. Direttore dal 1996 al 2001 del Roma, capo della redazione romana e poi vicedirettore di Libero, dal 2003 inviato Rai anche in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, dal 2009 vice direttore del Tg1, dopo la vittoria del Partito delle libertà, dal 31 dicembre 2018 direttore del Tg2 dell’era giallo-verde, Sangiuliano ha ad esempio collaborato anche con L’Espresso, con il Sole-24 ore e con Il Foglio. Insomma, è stato capace di farsi apprezzare da varie parti. Ma le sue origini sono sicuramente a destra. Giovanissimo nel Fronte della Gioventù, tra 1983 e 1987 fu consigliere circoscrizionale del Movimento sociale italiano, e sulla libreria dello studio di casa ha una foto insieme a Giorgio Almirante, mentre sul suo account Twitter esibisce Francesco Baracca, la Divina Commedia, i tramonti su Paestum, la tomba di Leonardo Da Vinci, Giuseppe Mazzini. Nelle interviste cita Heidegger, Dostoevskij, Pirandello, Prezzolini, Spengler, Confucio, ma anche Bobbio e Weber.

Fu poi attivo in giornali considerati vicini all’allora leader dei Pli napoletano Francesco De Lorenzo, mediatico ministro della Sanità poi travolto da Tangentopoli. Ma il Roma di Giuseppe Tatarella segna poi un sicuro rientro nell’alveolo di An, e nel 2001 è pure candidato alla Camera per la Casa delle Libertà nel collegio Chiaia-Vomero-Posillipo. Non eletto. Nel 2010 al Tg1 è regista dei servizi sulla casa di Montecarlo, con cui Gianfranco Fini mè screditato dopo la rottura con Berlusconi. «Quale occasione migliore per far vedere a tutto l’ambiente politico che le vesti da finiano erano state stracciate per indossare quelle del gasparriano doc?», commenterà un ritratto a lui dedicato. 

E poi arriva appunto a Putin. Il profilo che ne fa è largamente simpatetico, anche se con un minimo di circospezione. «Vladimir Vladimirovič Putin è un protagonista chiave del nostro tempo, di quelli che, nel bene e nel male, saranno ricordati per aver segnato un’epoca della politica internazionale». Certo, «un personaggio enigmatico e complesso, spesso criticabile per manifestazioni di autocrazia, la cui vicenda, mai narrata compiutamente, appare degna di un romanzo di John Le Carré, dove fitti misteri si fondono con elementi d’introspezione psicologica». Ma, secondo lui, «la narrazione giornalistica del leader russo ha spesso risentito di stereotipi, di valutazioni superficiali, prive di riscontri sul piano storiografico. Il personaggio Putin, invece, non può essere disgiunto dalla storia passata e recente della Russia, dai settant’anni di comunismo sovietico, dalla caotica fase di dissoluzione dell’Impero, dai gravi pericoli che lo sfaldamento dello Stato genererà con il riemergere di antichi nazionalismi etnici». 

Insomma, «la fine degli anni Novanta, gli ultimi della stagione di Boris Eltsin, sono segnati dal caos, dalla frantumazione del potere nelle mani di ambiziosi oligarchi locali, dalla pericolosa divisione dell’arsenale atomico, dalla catastrofe sociale e morale. Eltsin è in preda all’alcolismo, a una salute precaria, manipolato da un famelico clan famigliare». 

Dunque, «la Russia ha bisogno di un leader forte, qualcuno ipotizza un čekista, in grado di riprendere il controllo dello Stato. L’ascesa di Vladimir Vladimirovič Putin, ex colonnello del servizio segreto diventato vicesindaco di Leningrado, sconosciuto alle cronache interne e internazionali, è rapida quanto sorprendente. Direttore dell’FSB, il servizio erede del KGB, primo ministro della Federazione Russa, quindi nel marzo del 2000 eletto per la prima volta presidente. In quindici anni di potere, a Putin vengono ascritti successi come la crescita economica e la riappropriazione delle risorse energetiche da parte dello Stato». Vero che gli «viene contestato uno stile di governo autocratico, lontano da una democrazia liberale. Alla sua gestione del potere vengono anche ricondotti fatti di straordinaria gravità». Ma subito Sangiuliano aggiunge: «con responsabilità peraltro mai provate».

Per chi non le voleva provare, si potrebbe chiosare. «Solo il tempo e la storia ci diranno chi è stato davvero Putin», ammetteva. Ma poi, giù tutti commenti positivi. «Per lo scrittore e filosofo Aleksandr Zinov’ev rappresenta il “primo serio tentativo della Russia di resistere all’americanizzazione e alla globalizzazione”, per il liberale Sergej Kovalëv “un’alternativa alla restaurazione comunista e all’incompetenza dei democratici”. Aleksandr Isaevič Solženicyn, gigante della letteratura mondiale che con la sua vita ha testimoniato il valore della libertà, ebbe ad affermare: “Quando dicono che da noi è minacciata la libertà di stampa, io manifesto tutto il mio dissenso”. 

E, ovviamente, Sangiuliano ricorda: «La Russia non è stata soltanto il comunismo e non è oggi solo una terra di autocrati. È la patria di immensi romanzieri, di una delle più importanti letterature, di matematici, di fisici, di economisti, di una profonda spiritualità religiosa. Capire il personaggio Putin, penetrarne la vicenda umana e politica, raccontarne dettagli poco noti, significa fare i conti con una delle dimensioni fondamentali del nostro tempo». 

Insomma, «radicato nell’anima profonda della Russia e nelle sue peculiarità sociopolitiche, in realtà il successo di Putin deriva dalla sua capacità, di fronte a sfide impegnative e drammatiche (la guerra in Cecenia, un sistema economico da riconvertire al capitalismo, la diffusa crisi sociale e morale), di riplasmare un’identità nella quale tanti cittadini russi si riconoscono volentieri: un bagaglio di memorie, storie e ideali a cui è stato dato il nome di «rinascimento nazionale e tradizionale». 

«Putin è riuscito a riplasmare un’identità in cui molti possono ritrovarsi: essa tiene insieme lo stemma e il nastrino zarista, l’inno sovietico con la vecchia musica e nuove parole, la bandiera che ricorda un breve periodo democratico. Pezzi di storia, una volta antitetici, messi insieme. Un’operazione alla quale i politologi russi hanno dato il nome di “rinascimento nazionale e tradizionale”».

Intendiamoci, non siamo dalle parti degli scambi di bottiglie di Berlusconi, o delle magliette di Salvini. Più che un putiniano, Sangiuliano è Putinversteher: uno che giudica necessario capire le ragioni di Putin. Un modo più soft per restare comunque in armonia con gli umori di un centrodestra italiano che è furibondo sia col centrodestra europeo per quella che viene considerata la pugnalata alle spalle di Sarkozy e Angela Merkel al Cav; sia più in generale con Usa e Nato per il modo in cui le Primavere Arabe appaiono aver scatenato una valanga di chiedenti asilo sull’Italia e sull’Europa. Soprattutto l’ascesa dell’Isis induce in molti a considerare Putin un baluardo indispensabile contro i tagliateste e tagliagole jihadisti. Comunque in un periodo di crisi economica in cui i fondi vengono tagliati un po’ dappertutto la Russia di Putin è invece un soggetto che grazie a gas e petrolio può distribuire risorse con larghezza. Il raffronto col successivo libro su Xi chiarisce anche come Sangiuliano sia tra coloro secondo i quali il pericolo vero è quello cinese, e lo “zar” – come lui stesso lo chiama – sarebbe meglio tirarlo dalla parte nostra. 

Da direttore, con un governo imperniato su un asse tra i filo-russi della Lega e i filo-russi del Movimento Cinque Stelle e con presidente della Rai il commentatore di Russia Today Marcello Foa, viene spesso accusato di essere passato dalla «comprensione per Putin» al putinismo tout court. Il giorno del via libera per la nomina di Sangiuliano da parte del consiglio di amministrazione della Rai, il sito di Eurasian Press Agency esalta l’«attento conoscitore della società russa», riportando sue citazioni, «Putin non piace alle élite occidentali che hanno tolto la sovranità ai popoli», e inviti a rileggersi il discorso di Dostoevskij su Puškin. «Anche gli americani avevano avuto accesso a quel tipo di gas, e poi che interesse avrebbe Putin a sollevare questo polverone?», ha detto da vicedirettore sul caso Skripal. «Storicamente è russa», dice della Crimea. Il Tg2 segue con attenzione le conferenze stampa di fine anno di Putin, trasmette servizi in quantità sul Natale ortodosso a Mosca, insiste sui successi della Russia di oggi, ricorda le ricorrenze di quella di ieri. 

Lo accusano inoltre di effettuare un’opera di fiancheggiamento politico incompatibile col suo incarico. Nel periodo giallo-verde si dichiara «caro amico» di Salvini, ma è ben visto anche da Di Maio, e pompa a tutto spiano i Gilet Gialli. In seguito torna ad avvicinarsi a Fratelli d’Italia e partecipa alla loro Convention, anche se va pure alla festa della Lega. Però è anche un direttore che fa volare il suo prodotto negli share. Impone grandi approfondimenti storici e un nuovo Tg Storia, in tono con la sua produzione saggistica. Rafforza il Tg con un’altra edizione 8,30-8,40, puntando molto anche su soft-news, dossier, speciali. Come spiega nelle interviste, «il portiere del mio palazzo è per me un interlocutore importante per capire il quartiere. Se posso, impiego volentieri un’ora con un operaio o un sottoproletario ad esempio di Napoli, la mia città di origine. Lo stesso all’università: a lezione finita, mi fermo con gli studenti. Voglio sapere cosa fanno, come passano il tempo, cosa leggono, le serie tv che vedono». «Meglio una faziosità limpida ed esibita di una subdola terzietà», è il suo manifesto.

Tuttavia, dopo l’attacco all’Ucraina sembra avere un tipo di ripensamenti che lo accostano appunto più alla Meloni che a Salvini o al Cavaliere. Già dopo l’attacco russo, quando a uno speciale del Tg2 sulla crisi il corrispondente da Mosca Marc Innaro dice che la colpa è l’allargamento della Nato, lo stesso Sangiuliano, dopo avere per tanto tempo dato corda a questo tipo di linea, lo rimprovera. «Per dirimere questioni diplomatiche come quelle che Putin pone, giuste o sbagliate che siano, c’è il diritto internazionale. È a quello che si dovrebbe ricorrere, e non certo ai carri armati», spiega. E non manca di rilasciare interviste in cui appunto da biografo prende le distanze da Putin. «Attacca perché ha la sindrome dell’assedio», spiega. «Mi ha sorpreso, pensavo a operazioni militari più limitate», ammette. Anche se poi, di fronte a immagini che «ci riportano a scenari da seconda guerra mondiale», prova a spiegare che «alla radice della psicologia di Putin c’è proprio il retaggio di quello che è accaduto in quella guerra». «Quando lui è nato, nel 1952, Leningrado, l’odierna San Pietroburgo, era ancora in macerie. È la città che ha subito il più orrendo assedio della guerra, un milione di cittadini morti in 900 giorni. I suoi genitori sono sopravvissuti a stento, suo fratello Viktor, 9 anni, è morto. La sindrome dell’assedio e dell’attacco dal mondo esterno ha condizionato tutta la sua psicologia».

Secondo lui, è vero, Putin «negli ultimi anni è peggiorato, si è molto isolato, vive in suo universo, ha perso i contatti con la realtà. Negli anni Novanta, vicesindaco di Leningrado, ha fatto un viaggio in Italia in camper, con moglie e figli. Un’altra estate è andato a Biarritz, sull’Atlantico. Faceva la classica vita da russo in pantaloncini, che lo teneva in contatto con la realtà e con la gente comune. Adesso invece vive isolato nella cerchia dei Siloviki, quelli che vengono dai servizi segreti e che sono la sua cerchia politica». Dopo aver detto quello che ha detto su responsabilità non dimostrate e su Skripal che non c’era interesse ad avvelenarlo, Sangiuliano conviene ormai che Putin è «un uomo glaciale. Agli inizi degli anni Duemila convoca gli oligarchi che negli anni Novanta si sono impossessati delle grandi ricchezze energetiche della Russia. Putin dice: li restituite allo Stato e ve li paghiamo. Ma aggiunge: se non accettate c’è sempre il rischio che qualcuno di voi scivoli nella vasca da bagno o cada dal quinto piano». 

La formazione del nuovo governo. Altro che alto profilo: nel governo Meloni ci sono Sangiuliano e Calderoni sulle poltrone di Spadolini e Donat Cattin…Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

Ci sono due cose buone in questa lista di ministri che comporranno il nuovo governo. La prima è il fatto che il primo ministro, per la prima volta nella storia d’Italia, è donna. E questa è una novità sconvolgente e che può avere un peso formidabile nella battaglia contro il maschilismo. Cioè contro l’inciviltà.

La seconda cosa buona è il nome del ministro della Giustizia. Carlo Nordio è un personaggio fuori dagli schemi, con una grande preparazione nel campo del diritto e con idee garantiste e liberali fortissime e che non possono essere messe in discussione. Se manterrà le promesse sarà certamente il migliore ministro della giustizia della storia d’Italia e forse riuscirà ad imporre al Parlamento riforme vere, che intacchino lo strapotere della magistratura, che limitino le sopraffazioni, che ristabiliscano l’equilibrio tra i poteri e soprattutto la parità – che oggi è lontana anni luce – tra difesa e accusa, che poi è il punto essenziale del diritto e della civiltà.

Punto. Nel senso che le note liete finiscono qui. Due sole. Su 25. Per il resto le promesse sono tutte disattese. Ci avevano detto che Giorgia Meloni non intendeva trattare con gli alleati perché era decisa a formare un governo di alto profilo e non condizionato dai veti. Beh, scorrete un po’ la lista e ditemi dove lo vedete l’alto profilo? Vogliamo fare solo un esempio? Vittorio Sgarbi si era offerto per fare il ministro della cultura. Avremmo avuto almeno un ministro – uno solo, forse, ma meglio di niente – noto e apprezzato in tutto il mondo. E invece si è deciso che per non accettare veti – non si sa di chi – si metteva alla cultura non Sgarbi ma l’ottimo Gennaro Sangiuliano.

Lo conoscete? Bravo giornalista, per carità, e persona, di sicuro, sempre ben sistemata nei meccanismi del potere. Ma siamo sicuri che sia lui la persona giusta per sedere nella poltrona di Spadolini? E la signora Marina Elvira Calderoni, anche lei sicuramente professionista inattaccabile, sta bene nel posto dove una volta sedevano Brodolini, e Donat Cattin? Vabbé, probabilmente è solo questione di sensibilità. Mi sbaglierò io nell’intendere il significato della parola “profilo”. O forse sopravvalutato Spadolini e Donat Cattin. Cercherò di studiare meglio. Forse devo studiare anche altre parole: sovranità, merito, made in Italy, natalità… Tutti termini che non hanno mai fatto parte del vocabolario con il quale in genere si definiscono i nomi dei ministeri.

Meloni ha deciso di cambiare nome ai ministeri, per dare subito una idea del suo piglio e delle sue tradizioni. Che vuol dire – mi chiedo – “istruzione e merito”? Vuol dire che si vuole tornare alla vecchia scuola classista? Mi pare di si, mi sembra che questo sia molto chiaro. Da dove nasce questa pulsione a cambiare i nomi e introdurre parole che richiamano a idee sovraniste, populiste e decisamente reazionarie? Diciamo, senza paura di sbagliare, dalla nostalgia per l’ideologia. Quale ideologia? Beh, adesso non lo dico sennò mi accusano di essere un vecchio e trinariciuto antifascista. Però, però… 

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2

IL SUCCESSORE DI SPERANZA. Chi è Francesco Rocca, possibile ministro della Salute del governo Meloni. GIULIA MORETTI su Il Domani il 18 ottobre 2022

Una lunga carriera nel settore della gestione della sanità è la carta che avrebbe convinto la premier in pectore a volere Rocca a guida del ministero della salute. Dopo le critiche all’ex ministro Roberto Speranza, la leader di Fratelli d’Italia vuole qualcuno capace di gestire la recrudescenza della pandemia

Tra le caselle del prossimo governo che hanno creato più grattacapi alla premier in pectore, Giorgia Meloni, c’è quella del ministero della Salute. Ci sarebbero ancora diversi nomi in lista, ma a spiccare è quello di Francesco Rocca, attuale presidente nazionale della Croce rossa Italia e della Federazione internazionale delle società di Croce rossa e Mezzaluna rossa

IL DOPO SPERANZA

A preoccupare la leader di Fratelli d’Italia, oltre alla crisi economica, il caro energia e gli sviluppi della guerra in Ucraina è anche la recrudescenza del Covid. Nelle ultime settimane, infatti, stiamo assistendo a un aumento dei contagi, delle terapie intensive e dei decessi. Nulla di allarmante per ora, ma come ha spiegato ad Adnkronos il presidente della Federazione italiana medici pediatri, Antonio D'Avino, «il peggio deve ancora arrivare perché le temperature sono ancora miti e nelle aule si possono tenere le finestre aperte. Quando arriverà il freddo e ci sarà un ritorno drastico alla vita al chiuso, i contagi Covid aumenteranno molto, visto che non c’è più il distanziamento o l’uso delle mascherine».

Il prossimo governo, dunque, dovrà occuparsi della gestione della pandemia che, viste le critiche rivolte all’ex ministro della salute, Roberto Speranza, da Giorgia Meloni, sarà affrontata, si presume, con strategie diverse da quelle adottate finora. Inoltre, è stato proprio sulla scelta del prossimo ministro della giustizia che si è consumato lo scontro interno al centrodestra con Berlusconi che voleva la nomina di Licia Ronzulli e Meloni che su di lei ha posto il veto. 

FRANCESCO ROCCA: L’UOMO CHE HA SALVATO IL SANT’ANDREA

Per questo Meloni vorrebbe affidare l’incarico a un tecnico e avrebbe individuato Francesco Rocca. L’attuale presidente nazionale della Croce rossa, pur non avendo competenze mediche, vanta una lunga esperienza nell’amministrazione della sanità oltre che una pregressa carriera da avvocato. Già dagli anni si avvicina al volontariato prima con l’associazione Jesuit Refugee Service, poi con la Caritas.

Vicino ad ambienti di destra ma apprezzato anche dalla sinistra, nel 2002 viene nominato commissario straordinario dal presidente della regione Lazio, Francesco Storace, nell’ambito dell’operazione di salvataggio dell’ospedale romano Sant’Andrea. Svolge così bene le proprie mansioni che le amministrazioni successive, anche di diverso colore politico, lo confermano, convertendo l’incarico da commissario straordinario a direttore generale. 

Nel 2008 ha una breve esperienza all’interno della giunta del sindaco Giovanni Alemanno come capo del dipartimento salute e attività sociali del comune di Roma. Negli anni passati all’interno della Croce rossa partecipa a diverse missioni umanitarie da quella durante il conflitto in Georgia nel 2008, a quelle per i terremoti in Italia (L’Aquila, Emilia, Italia Centrale), da quelle durante la guerra in Siria a quella per il terremoto di Haiti.

L’ATTIVITÀ DI AVVOCATO

Prima di entrare a far parte della Croce rossa, come avvocato prende parte anche a processi di levatura mediatica nazionale. Nel 1994 difende Michele Iannello, ex ‘ndranghetista, accusato insieme a Francesco Mesiano dell’omicidio di Nicholas Green, un bambino americano ucciso mentre era in vacanza in Italia con la famiglia. L’auto diretta a Vibo Valentia su cui viaggiavano i Green era stata crivellata di colpi perché scambiata per quella di un gioielliere della zona.

Nicholas, colpito da un proiettile alla testa mentre dormiva sul sedile posteriore, era morto dopo qualche giorno di coma e i suo genitori avevano deciso per la donazione degli organi. Una decisione che ha contribuito a sensibilizzare su un tema, quello della donazione degli organi, a quell’epoca ancora poco conosciuto.

Iannello, individuato come uno dei due responsabili, dopo essere stato arrestato è diventato collaboratore di giustizia, nonostante ciò si è sempre dichiarato estraneo all’agguato all’auto dei Green. I giudici lo hanno comunque condannato all’ergastolo in via definitiva. Tuttavia Rocca, per il suo impegno contro la mafia, è stato cinque anni sotto scorta.  

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Chi è Orazio Schillaci, ministro della Salute del governo Meloni. Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

Il rettore dell'università di Tor Vergata a Roma, Orazio Schillaci, ricoprirà l'incarico di ministro della Salute: era stato consigliere di Speranza nel comitato per il Covid 

Orazio Schillaci, rettore dell’università di Roma Tor Vergata dal 2019, guiderà il ministero della Salute del governo di Giorgia Meloni.

I ministri del governo Meloni: l’elenco completo

Schillaci, 56 anni, romano, guida l'ateneo romano di Tor Vergata dallo scorso 2019: estremamente stimato e apprezzato dalla comunità accademica, è stato eletto rettore con un'ampia maggioranza. È docente ordinario di medicina nucleare ed è stato preside della facoltà di medicina e chirurgia della stessa Università. Roberto Speranza lo scorso 25 giugno 2020 l'ha nominato nel comitato scientifico dell'Istituto superiore della Sanità che ha affiancato il ministero nelle decisioni chiave prese durante la pandemia da Covid-19. È presidente dell'associazione italiana di medicina nucleare.

Schillaci è una figura puramente tecnica, dato che non ha mai assunto incarichi politici. Discreto, grandissimo lavoratore, molto preciso e puntuale, in grado di raggiungere risultati in maniera totalmente centrata: completamente lontano dal clamore, è però sempre presente laddove il suo ruolo lo richiede e anche durante il periodo del Covid si è impegnato in prima persona permettendo al personale dell'ateneo di fare grandi passi in avanti per rispondere dal punto di vista informatico e umano all'emergenza. 

È laureato in Medicina e Chirurgia nel 1990 alla Sapienza e quattro anni più tardi ha conseguito la Specializzazione in Medicina Nucleare nel 1994, materia che ha insegnato come professore ordinario per molti anni. Durante la sua carriera universitaria ha anche preso parte a diverse commissioni sanitarie alla Regione Lazio e presso il ministero della Salute. È stato autore di oltre 220 pubblicazioni, ed è revisore di oltre 50 interviste internazionali. Dal 2011 al 2019 ha ricoperto prima la carica di vice preside, e poi di preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell’università degli studi di Roma «Tor Vergata», oltre ad essere dal 2008 Direttore della scuola di specializzazione in medicina nucleare. Durante il suo mandato in rettorato ha deciso di puntare «sulla qualità e l’internazionalizzazione della ricerca, anche industriale».

Secondo la classifica World University Ranking, stilata ogni anno dal Times, l’università di Tor Vergata si è posizionata tra i primi 350 atenei più prestigiosi al mondo. In Italia ha conquistato la settima posizione su 51. 

Schillaci, cosa pensa il nuovo ministro di vaccini e green pass. Giorgia Meloni ha scelto il rettore di Tor Vergata per il dicastero della Salute. Ma… Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 23 Ottobre 2022.

Premesso che sul tema ancora caldo delle restrizioni sanitarie il ministro della Salute non ha mai deciso autonomamente, sebbene spesso e volentieri Roberto Speranza abbia inasprito le norme uscite dal Consiglio dei ministri con le sue surreali circolari, ciò che il suo freschissimo sostituto, il rettore dell’Università Tor Vergata, Orazio Schillaci, ha dichiarato circa una settimana fa su Rai 1 desta molte perplessità, per non dire di peggio.

Intervenendo a Unomattina del 14 ottobre, così si è espresso Schillaci sulle questioni molto controverse dei vaccini e dell’abominevole green pass: “Io credo che bisogna dare un messaggio positivo, perché è straordinario che oltre il 90% degli studenti universitari si siano liberamente fatti vaccinare. Questo è molto importante. Se noi guardiamo ai dati epidemiologici, gran parte dei decessi nelle situazioni più gravi di questa pandemia riguardano gli over 50. Quindi il fatto che dei ragazzi, media ventenni, abbiano con grande senso civico capito l’importanza per gli altri della loro vaccinazione è un dato di fatto importante”.

E ancora: “Il green pass – bontà sua – rimane uno strumento indispensabile per assicurare la sicurezza all’interno delle aule universitarie. Noi nel nostro ateneo già dal primo settembre abbiamo iniziato ad impiegare il green pass per la prenotazione delle aule”.

In sostanza, nei panni dell’accademico, Schillaci ha sostenuto il condensato di balle spaziali che hanno giustificato l’applicazione dell’orrendo lasciapassare sanitario. Balle che, vorrei informare l’attuale ministro della Salute, si stanno sciogliendo come neve al sole man mano che emergono alcuni fatti eclatanti, come l’ammissione di un vaccino che non blocca i contagi fatta dai responsabili di Pfizer.

Inoltre, in merito al decantato senso civico dei giovani che si sarebbero liberamente sottoposti al vaccino andrei cauto, dal momento che questi ultimi, così come per il resto della popolazione, hanno subìto e continuano a subìre un inaccettabile ricatto che trova proprio nel green pass il suo odioso caposaldo.

Ora, in base al detto cinese secondo cui non conta il colore del gatto, bensì solo che esso riesca a prendere il topo, noi aperturisti confidiamo che nella nuova veste di ministro della Salute, sostenuto da una maggioranza che ha promesso in campagna elettorale di farla finita con gli obblighi e le restrizioni, il buon Schillaci si adegui al nuovo corso, ammesso e concesso che i vincitori del 25 settembre intendano realmente voltare pagina sul piano di una pandemia che sembra infinita.

Anche perché, in conclusione, sarebbe tragico, dopo tutto ciò che ci hanno fatto passare in questi anni di terrore virale, ritrovarci con un clone di Speranza al ministero della Salute. Claudio Romiti, 23 ottobre 2022

Il rettore di Tor Vergata. Chi è Orazio Schillaci, il nuovo ministro tecnico della Salute del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

E’ Orazio Schillaci, rettore dell’università di Roma Tor Vergata ed esperto di medicina nucleare, il nuovo ministro della Salute del governo di Giorgia Meloni. Una figura puramente tecnica dato che Schillaci non ha mai avuto incarichi politici, uno dei cinque tecnici nella lista di governo presentata dalla neo premier dopo l’incarico affidatole da Mattarella.

Un ministero quello della Salute sul quale Fratelli d’Italia e Forza Italia si sono scontrati nei giorni scorsi, con Silvio Berlusconi che voleva ministra la sua fedelissima Licia Ronzulli, nome su cui però Giorgia Meloni non era d’accordo.

Nato a Roma nel 1966, Schillaci si è laureato nell’Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove ha conseguito la specializzazione in Medicina nucleare, materia che insegna dal 2007, e ha svolto buona parte della sua carriera a Tor Vergata, fra università e policlinico.

Direttore, dal 2008, dell’Unità operativa complessa (Uoc) di Medicina nucleare del Policlinico Tor Vergata, Schillaci è stato anche preside della Facoltà di Medicina e chirurgia di Tor Vergata. E’ il rettore dell’ateneo dal primo novembre 2019. Dal 2017 è presidente dell’Associazione italiana di medicina nucleare. Nel 2020 è stato nominato nel comitato scientifico dell’Istituto superiore della sanità che ha affiancato il ministero nelle decisioni chiave prese durante la pandemia da Covid-19.

E, proprio durante la pandemia, il policlinico romano, sotto la sua guida, ha ampliato le aree a disposizione per far fronte all’emergenza da Covid-19, costituendo un gruppo di lavoro apposito e trasformandosi in tre settimane nel quarto Covid Hospital del Lazio.

Durante la sua carriera accademica è stato autore di oltre 220 pubblicazioni su riviste incluse in PubMed, con più di 4700 citazioni, ed è revisore di oltre 50 interviste internazionali.

“Conosco Orazio da 20 anni, ha rinnovato l’università di Tor Vergata. È splendido nel suo lavoro accademico, eccezionale come ricercatore e bravissimo come clinico. Ha ottime capacità da manager: l’uomo giusto al posto giusto”. Lo ha detto all’AGI Pierpaolo Sileri, ex sottosegretario alla Salute, che come il nuovo ministro viene dall’università di Tor Vergata.

Il turismo diventa un premio fedeltà alla balneare del Twiga, Daniela Santanchè. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 21 ottobre 2022

Dopo i tentativi vani del governo guidato da Mario Draghi di liberalizzare le concessioni balneari, il settore torna a sorridere grazie alla nuova ministra del Turismo, scelta da Giorgia Meloni. Si tratta di Daniela Santanché che non solo è amica dei balneari, ma è lei stessa socia con Flavio Briatore del famoso lido della Versilia

Dopo i tentativi vani del governo guidato da Mario Draghi di liberalizzare le concessioni balneari, il settore torna a sorridere grazie alla nuova ministra del Turismo, Daniela Santanchè. Non solo è amica dei balneari, ma è lei stessa socia con Flavio Briatore del famoso Twiga, il lido più esclusivo della Versilia. Proprio lei che ha interessi nel settore, proprio lei protagonista di strenue battaglie per difendere le rendite di posizione acquisite negli anni e allontanare le gare pubbliche, proprio lei che, anche nei salotti televisivi, è sempre stata sempre dalle parte dei balneari e sempre meno da quella delle casse dello stato. Giorgia Meloni ha evidentemente premiato la coerenza.

LA GUERRA A DRAGHI

Una delle prime crepe nel governo dei cosiddetti migliori si è aperta proprio sulla questione balneari, quando l’allora presidente del Consiglio ha proposto di indire gare pubbliche dopo anni di proroghe e bassi guadagni per l’erario, in ragione anche del pronunciamento del Consiglio di stato. Ma la resistenza in parlamento è stata tenace, il provvedimento Concorrenza è rimasto fermo sei mesi proprio per il contestato articolo che riguardava la riforma del settore, e alla fine ha vinto un compromesso con le gare rinviate al 2024, in tempo per rimettere tutto in discussione con l’arrivo di un nuovo governo.

L’unico magro bottino è stato l’annuncio di una mappatura delle concessioni. «Un avvilente teatrino», lo hanno definito le associazioni dei consumatori.

Daniela Santanchè era all’opposizione del governo Draghi e si è battuta contro le gare, ha difeso i concessionari storici e affrontato, impettita e fiera, ogni battaglia parlamentare, televisiva e via social. Quando Carlo Calenda, leader di Azione, le ha ricordato i bassi canoni concessionari, ha risposto colpo su colpo.

«La sua è un’ignoranza assoluta, il Twiga ha pagato negli ultimi vent’anni 217mila euro all’anno e non 10mila o quello che dice lui, in Italia ci sono 30 mila stabilimenti a conduzione familiare e non fatturano quello che fattura il Twiga, bisogna salvaguardare gli investimenti fatti. Se Calenda vuole dare i nostri litorali alle multinazionali si accomodi, noi siamo d’accordo con un pagamento maggiore per chi fattura di più», replicava Santanchè.

«Nessun business al mondo ha in affitto perpetuo per tutta l’esistenza, chi lo gestisce ma anche i discendenti, un pezzo pregiatissimo del patrimonio italiano pagando canoni irrisori senza alcuna gara. Nessuna multinazionale vuole prendersi i nostri litorali, quella di Briatore sembra una multinazionale, propongo di fare le gare nelle quali si tenga conto anche degli investimenti», rispondeva Calenda.

Ma ora non è più tempo delle battaglie, di fronte a questa guerra permanente che ha logorato anche l’ex primo ministro Mario Draghi, la nuova presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha scelto chi nel settore non solo è competente, ma ha interessi legittimi e diretti.

LA NUOVA MINISTRA

La ministra del Turismo incaricata ha esposto il suo programma più volte sui suoi canali social e nelle interviste dove non ha mancato di ricordare che da vent’anni non fa vacanze per occuparsi del Twiga, il suo stabilimento che, lo scorso agosto, è stato travolto da una tromba d’aria. Nonostante tutto, la società ha finanziato il partito Fratelli d’Italia con 26mila euro.

«Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo ricominciato. Draghi ha svenduto i lidi all’Unione europea, i bandi 2023 sugli stabilimenti balneari mettono a rischio molte famiglie. Per noi invece viene prima l’Italia, difenderemo sempre il turismo e chi ci lavora».

E per difenderlo Giorgia Meloni ha pensato proprio a lei, la parlamentare di Fratelli d’Italia che non conosce vacanze, esperta del settore e in grado di mettere fine a questa guerra permanente contro i balneari. Balneari che sono in festa per la nomina di Santanchè, ma soprattutto perché le gare, come l’estate, sono solo un ricordo.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Nello Trocchia per editorialedomani.it il 22 ottobre 2022.

Dopo i tentativi vani del governo guidato da Mario Draghi di liberalizzare le concessioni balneari, il settore torna a sorridere grazie alla nuova ministra del Turismo, scelta da Giorgia Meloni. Si tratta di Daniela Santanché che non solo è amica dei balneari, ma è lei stessa socia con Flavio Briatore del famoso lido della Versilia 

Dopo i tentativi vani del governo guidato da Mario Draghi di liberalizzare le concessioni balneari, il settore torna a sorridere grazie alla nuova ministra del Turismo, Daniela Santanchè. Non solo è amica dei balneari, ma è lei stessa socia con Flavio Briatore del famoso Twiga, il lido più esclusivo della Versilia. Proprio lei che ha interessi nel settore, proprio lei protagonista di strenue battaglie per difendere le rendite di posizione acquisite negli anni e allontanare le gare pubbliche, proprio lei che, anche nei salotti televisivi, è sempre stata sempre dalla parte dei balneari e sempre meno da quella delle casse dello stato. Giorgia Meloni ha evidentemente premiato la coerenza.

Una delle prime crepe nel governo dei cosiddetti migliori si è aperta proprio sulla questione balneari, quando l’allora presidente del Consiglio ha proposto di indire gare pubbliche dopo anni di proroghe e bassi guadagni per l’erario, in ragione anche del pronunciamento del Consiglio di stato. Ma la resistenza in parlamento è stata tenace, il provvedimento Concorrenza è rimasto fermo sei mesi proprio per il contestato articolo che riguardava la riforma del settore, e alla fine ha vinto un compromesso con le gare rinviate al 2024, in tempo per rimettere tutto in discussione con l’arrivo di un nuovo governo.

L’unico magro bottino è stato l’annuncio di una mappatura delle concessioni. «Un avvilente teatrino», lo hanno definito le associazioni dei consumatori. 

Daniela Santanchè era all’opposizione del governo Draghi e si è battuta contro le gare, ha difeso i concessionari storici e affrontato, impettita e fiera, ogni battaglia parlamentare, televisiva e via social. Quando Carlo Calenda, leader di Azione, le ha ricordato i bassi canoni concessionari, ha risposto colpo su colpo. 

«La sua è un’ignoranza assoluta, il Twiga ha pagato negli ultimi vent’anni 217mila euro all’anno e non 10mila o quello che dice lui, in Italia ci sono 30 mila stabilimenti a conduzione familiare e non fatturano quello che fattura il Twiga, bisogna salvaguardare gli investimenti fatti. Se Calenda vuole dare i nostri litorali alle multinazionali si accomodi, noi siamo d’accordo con un pagamento maggiore per chi fattura di più», replicava Santanchè.

«Nessun business al mondo ha in affitto perpetuo per tutta l’esistenza, chi lo gestisce ma anche i discendenti, un pezzo pregiatissimo del patrimonio italiano pagando canoni irrisori senza alcuna gara. Nessuna multinazionale vuole prendersi i nostri litorali, quella di Briatore sembra una multinazionale, propongo di fare le gare nelle quali si tenga conto anche degli investimenti», rispondeva Calenda. 

Ma ora non è più tempo delle battaglie, di fronte a questa guerra permanente che ha logorato anche l’ex primo ministro Mario Draghi, la nuova presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha scelto chi nel settore non solo è competente, ma ha interessi legittimi e diretti.

La ministra del Turismo incaricata ha esposto il suo programma più volte sui suoi canali social e nelle interviste dove non ha mancato di ricordare che da vent’anni non fa vacanze per occuparsi del Twiga, il suo stabilimento che, lo scorso agosto, è stato travolto da una tromba d’aria. Nonostante tutto, la società ha finanziato il partito Fratelli d’Italia con 26mila euro. 

«Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo ricominciato. Draghi ha svenduto i lidi all’Unione europea, i bandi 2023 sugli stabilimenti balneari mettono a rischio molte famiglie. Per noi invece viene prima l’Italia, difenderemo sempre il turismo e chi ci lavora».

E per difenderlo Giorgia Meloni ha pensato proprio a lei, la parlamentare di Fratelli d’Italia che non conosce vacanze, esperta del settore e in grado di mettere fine a questa guerra permanente contro i balneari. Balneari che sono in festa per la nomina di Santanchè, ma soprattutto perché le gare, come l’estate, sono solo un ricordo

Paolo Baroni per “la Stampa” il 23 ottobre 2022.

Sui social è un fuoco di fila continuo contro «la padrona del Twiga» ed il suo conflitto di interessi da quando è stata designata come ministro del Turismo. Che sul suo tavolo, tra le prime scadenze, si troverà a dover firmare il decreto attuativo che avvia la riforma delle famigerate concessioni balneari. A fine settembre i rappresentanti della Lega, che hanno combattuto per mesi questa battaglia senza quartiere assieme a Fratelli d'Italia, hanno fatto le barricate in consiglio dei ministri ed impedito a Draghi di procedere: «Dei balneari se ne occuperà il nuovo governo» hanno intimato rifiutandosi di votare.

La sentenza del Consiglio di Stato è però tassativa e non ammette rinvii delle scadenze, le gare per riassegnare le concessioni non possono andare oltre il 2024, mentre il cronoprogramma del Pnrr è altrettanto tassativo: entro fine anno vanno definite sia le modalità con cui effettuare le gare sia i criteri di calcolo degli indennizzi per i concessionari uscenti. I margini di manovra, insomma, sono abbastanza ridotti epperò tutto il settore si aspetta che il centrodestra rispetti le promesse cambi tutto. 

La pressione su Daniela Santanchè è tale che il neo ministro vorrebbe rinunciare alla delega sui balneari, per togliersi d'impaccio ammettendo di fatto quello che per molti è un evidente, scandaloso, inaccettabile conflitto di interessi che porta il nome di «Twiga», il lussuosissimo stabilimento balneare di Forte dei Marmi di cui è socia assieme a Flavio Briatore. Per questo uno dei prossimi passi della pitonessa sarebbe proprio quello di chiedere a Giorgia Meloni di sollevarla da questa responsabilità: il suo obiettivo, infatti, sarebbe risolvere i problemi del settore che le è stato affidato, non crearne dei nuovi. Per cui se la Bolkestein diventa in problema, è il ragionamento che sta facendo in questo ore, lei a questo punto preferisce liberarsene.

Del resto quale sia la posizione di Daniela Santanchè su questi argomenti non è un mistero. «Ci sono stabilimenti balneari a gestione familiare che saranno soppiantati dai grandi gruppi. Noi combatteremo per loro - aveva dichiarato la senatrice nel pieno dello sconto governo-balneari -. Faccio questo lavoro da 22 anni, se domani non ci sarà più il Twiga a Forte dei Marmi, di sicuro diminuirebbe l'offerta turistica. Perché i locali fanno i luoghi. ». Come fare per risolvere la questione è tutto da vedere.

Possibile trasferire le competenze dal Turismo al nuovo ministero del Mare? Può essere una idea. Che poi l'operazione sia tecnicamente fattibile però è tutto da vedere. E poi ha senso che il ministero del Turismo rinunci a governare un settore tanto rilevante per il comparto di sua competenza? 

«È inaccettabile che al ministero del Turismo, e quindi del demanio marittimo, possa sedere chi ha interessi nel demanio marittimo, un settore che fattura tra i 7 e i 10 miliardi di euro mentre, con le concessioni demaniali, lo Stato incassa solo 100 milioni di euro, con un'evasione erariale di quasi il 50%» ha protestato nei giorni scorsi il verde Angelo Bonelli.

«Il Twiga - ha poi aggiunto - paga un canone irrisorio di 17 mila euro l'anno mentre, ai consumatori, fa pagare ben 300 euro al giorno per una tenda. Ciò significa che, con gli incassi di meno di mezza giornata, il Twiga riesce a pagare il canone di concessione dell'intero anno. Come denunciamo da tempo, a noi pare che quelli di cui lei stessa gode siano privilegi inaccettabili». Il Twiga nel 2021 ha fatturato 6 milioni di euro e, come ha maliziosamente segnalato tempo fa Il Foglio, quest' anno ha versato più soldi Fratelli d'Italia che allo Stato: 26 mila euro contro 17 mila. Una cifra, quest' ultima, che lo stesso Briatore ha definito un mezzo scandalo: «Lo Stato dovrebbe quantomeno triplicare le concessioni, io dovrei pagare come minimo 100 mila euro». E ora Santanchè concorda o si astiene?

Daniela Santanchè, Domani: "Nei conti del Twiga...". Libero Quotidiano l'01 novembre 2022

Usano anche il Twiga per colpire Giorgia Meloni e la sua ministra, Daniela Santanchè. Dopo aver attaccato Guido Crosetto (rimediando una querela), il direttore del Domani Stefano Feltri affida alla penna di Nello Trocchia un "reportage" sui conti del locale simbolo della movida della Versilia, di cui la neo-ministra del Turismo è socia storica in tandem con l'amico imprenditore Flavio Briatore. Proprio per la sua esperienza nel settore, la senatrice di Fratelli d'Italia a sinistra è stata subito sprezzantemente ribattezzata "la ministra del Twiga" e dipinta come un pupazzo nelle mani dei balneari. 

Dopo che la Santanchè ha chiarito di non aver intenzione di cedere le sue quote societarie, ecco però partire l'attacco in grande stile del giornale edito da Carlo De Benedetti, che dedica alla Pitonessa la foto di prima pagina con un titolo che è tutto un programma: "Nei bilanci del Twiga c'è l'Italia che piace alla destra". Dentro, a pagina 3, si spiega tutto: la creatura di Santanchè e Briatore "racconta cosa significano gli interessi e come rischiano di entrare in conflitto con gli incarichi istituzionali, ma racconta anche le fatiche di fare impresa in Italia e quello stato 'impiccione' che, secondo la destra, disturba chi lavora". 

Dopo aver scavato nei registri contabili della società, assicura Trocchia, ecco spuntare "aiuti dallo stato, libertà d'impresa e pace fiscale". Alla Santanchè, che pure ha annunciato che non avrà le deleghe dei balneari (basterebbe questo per allontanare le accuse di conflitto d'interessi, ma tant'è), viene anche contestato il fatto di aver usato il locale di Forte dei Marmi come sfondo per le sue partecipazioni televisive in cui contestava le politiche del governo italiano e dell'Unione europea contro il settore oppure attaccava il reddito di cittadinanza. Non è chiaro dove sia lo scandalo, ma tutto fa brodo. 

Semmai, il fatto che la Santanchè sia fosse esposta mediaticamente contro i governi di centrosinistra da cui la società di cui è azionista di minoranza ha ricevuto sussidi dovrebbe testimoniare quanto la sua battaglia fosse ideologica, non di facciata o per sola convenienza. Nel dettaglio, i proprietari del Twiga a fronte della pandemia Covid hanno ricevuto dallo Stato "141mila euro di contributi a fondo perduto (ristori), 9mila euro di contributi per la sanificazione e acquisto mascherine, 14mila euro di contributi per canoni di locazione, 3.748 euro per acquisto di beni strumentali e primo acconto Irap di 12.983 euro non dovuto grazie al decreto Rilancio. In tutto 180mila euro dal governo dei balletti".

Uno scandalo, per il Domani. Che non ricorda come le proteste della Santachè erano legate ai ristori minimi e in ritardo rispetto alle esigenze di un settore allo stremo dopo mesi di tira-e-molla su aperture, chiusure, lockdown e limitazioni. Forse, avrebbe dovuto semplicemente incassare (poco), tacere. E, magari, chiudere.

Il punto di domanda sui due neo ministri. Crosetto e Santanchè, il nodo conflitto di interessi dei due ministri di Difesa e Turismo. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

Un governo che nasce sotto il segno del conflitto di interessi? Due caselle nell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni sono finite nel mirino delle critiche dell’opposizione per la scelta dei nomi piazzati dalla neo premier: Guido Crosetto alla Difesa e Daniela Santanchè al Turismo.

I motivi sono noti. Crosetto è stato presidente dell’Aiad, ovvero la Federazione delle aziende italiane dell’aerospazio e della difesa aderente a Confindustria. Quello della Difesa è dunque un settore che conosce benissimo alla luce del suo ruolo di “lobbista” per le 200 aziende del settore. 

Ruolo che negli anni scorsi lo aveva anche spinto a dimettersi da parlamentare nel 2018 proprio per evitare possibili conflitti di interesse vista la delicatezza del tema. Pregiudiziale che evidentemente è caduta in questa occasione, col co-fondatore di Fratelli d’Italia e consigliere fidato di Giorgia Meloni che è entrato nel governo.

Crosetto via Twitter, dove tra l’altro da settimane andava ripetendo che non avrebbe avuto o accettato alcun ruolo di governo, ha provato a tranquillizzare sul possibile conflitto di interessi: “Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo. Mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia società (tutte legittime). Rinuncio al 90% del mio attuale reddito”, ha liquidato la questione il neo ministro della Difesa, che da titolare del dicastero della Difesa sarà il principale interlocutore dell’associazione che ha rappresentato fino ad oggi.

In realtà, come sottolinea il quotidiano Il Domani, Crosetto ha “molti amici” nell’Aiad e nelle aziende che fanno parte dell’associazione. Il giornale fa il nome di Carlo Festucci, segretario generale di Aiad che siede anche nel consiglio di amministrazione di una azienda che ha tra i soci il figlio 25enne del co-fondatore di Fratelli d’Italia.

Quindi la questione Santanchè, che da ministro del Turismo è anche co-proprietaria del Twiga, il locale/stabilimento balneare di Marina di Pietrasanta, in Sardegna, noto per la sua clientela vip.

Il suo socio, l’imprenditore Flavio Briatore, aveva rivelato di pagare come canone di concessione demaniale l’irrisoria cifra di 17mila euro annui. E proprio su questo tema è arrivato l’attacco alla neo ministra dei Verdi: “Proprietaria di uno stabilimento balneare, stabilirà quanto dovranno costare le concessioni balneari. Compresa quella al suo che paga un canone irrisorio”, avevano sottolineato Angelo Bonelli ed Eleonora Evi nel rimarcare il possibile conflitto di interessi della Santanchè. 

In realtà le concessioni demaniali non saranno competenza diretta del ministero guidato dalla Santanchè, ma sul tema è nota la posizione del centrodestra, contrario a qualsiasi apertura alle liberalizzazioni imposte dall’Europa con la direttiva Bolkenstein.

Non a caso sulla questione va sottolineata la soddisfazione per la nomina di Santanchè a ministro di Marco Maurelli, presidente di Federbalneari Italia. “L’industria del turismo balneare italiano rappresentata a pieno titolo da Federbalneari Italia è pronta a collaborare con il Governo e con il Ministero del Turismo per il conseguimento degli obiettivi sperati puntando ad una piena collaborazione ed avviando quel dialogo serio con la Commissione Ue, finalizzato a conferire la giusta dignità al tessuto imprenditoriale italiano che questo settore merita”, sono state le sue parole. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Claudia Luise per “la Stampa” il 23 ottobre 2022.

Ministro, ma non per sua volontà. Guido Crosetto lo ha ribadito fino alla nausea in campagna elettorale che non avrebbe voluto avere un ruolo istituzionale nel governo guidato da Giorgia Meloni e lo ribadisce ancora una volta, spiegando le ragioni che per lui sono soprattutto economiche. 

«Io non volevo fare il ministro - sostiene - perché per me significa diminuire almeno del 95% le mie legittime e sudate entrate, ma forse di più». Eppure ieri si è trovato a giurare come ministro della Difesa ammettendo che «sento una grande responsabilità sulle spalle, sono consapevole delle difficoltà da affrontare per l'impegno preso.

Sentiamo su di noi il peso di 60 milioni di cittadini e chi assume questo ruolo dismette la casacca di partito per rappresentare tutto il Paese».

All'insistenza della leader di Fratelli d'Italia ha iniziato a rispondere con qualche apertura, ma mettendo fin da subito in chiaro quelli che sarebbero potuti essere gli attacchi al suo ruolo: troppe partecipazioni nelle aziende e interessi nella Difesa e nell'Aerospazio essendo stato fino a pochi giorni fa presidente dell'Aiad, la federazione confindustriale che cura gli interessi delle aziende dei due settori. 

«Poi ho detto che avrei potuto per sacrificio accettare il super Mise. Alla fine, dopo l'uscita di Berlusconi (gli audio diffusi da LaPresse sul riavvicinamento con Putin, ndr), ci voleva qualcuno alla Difesa che avesse una posizione internazionale inattaccabile. Ci voleva per la presidenza della Repubblica principalmente», ammette Crosetto.

Il gigante di Marene, consigliere ascoltatissimo e fidato della premier, aveva avvisato: «Io stesso ho detto "pensate agli attacchi sull'opportunità". Non sul conflitto che non esiste perché io già da oggi non ho più cariche o altro. Ciò detto - commenta - non esiste persona che possa fare più paura alle aziende di me visto che le conosco perfettamente. L'unico conflitto vero è quello con la tranquillità economica familiare». E proprio per salvaguardare l'ultimo giorno in famiglia prima del trasferimento a Roma, venerdì sera era con i figli a casa, nel Cuneese. 

«Ora sono con loro - ha risposto al telefono dopo la comunicazione ufficiale dei ministri - domani ci penserò». E infatti ieri è subito entrato nel ruolo, difendendo la collocazione dell'Italia nella Nato. «Mi pare che il presidente Meloni sia stata molto chiara da mesi.

La posizione dell'Italia è fortemente collocata nell'alleanza occidentale e nell'Europa», ribadisce. E poi manda un messaggio distensivo all'Ucraina confermando che la premier intende procedere in continuità con il governo Draghi. «Gli impegni che il nostro Paese ha preso e prende da decenni saranno rispettati. L'impegno che l'Italia si è presa anni fa è decidere insieme ai suoi alleati: a volte sono posizioni che ci sono costate molto, abbiamo anche sacrificato vite umane. La stessa cosa varrà adesso: la famiglia si riunirà, deciderà, e il nostro Paese onorerà la decisione presa».

Alfredo Mantovano, chi è il magistrato prestato a Palazzo Chigi. Il Dubbio il 22 ottobre 2022. 

Già sottosegretario all’Interno, torna al governo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Favorevole alle separazione delle carriere, da cattolico e conservatore si è espresso contro l'eutanasia e l'aborto

Magistrato prestato alla politica, ma nelle istituzioni per molti anni, salentino, classe 1958, Alfredo Mantovano torna al governo scelto da Giorgia Meloni per ricoprire il delicato incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Eletto nelle liste di Alleanza Nazionale nel 1996, da parlamentare Mantovano si occupa di giustizia e Antimafia. Cinque anni dopo si candida ma non viene rieletto, ma Silvio Berlusconi lo chiama a far parte della squadra di governo come sottosegretario all’Interno, con delega alla pubblica sicurezza, alla presidenza della Commissione sui programmi di protezione per collaboratori e testimoni di giustizia, al commissario antiracket e antiusura, al commissario sulle vittime della mafia. Ritornerà in Parlamento nel 2006, questa volta in Senato, eletto nelle fila di AN e diventa membro del Copasir. Nel 2008 torna al Viminale, con la funzione di vice ministro con delega alla Pubblica sicurezza.

Nel dicembre 2012, insieme ad altri parlamentari del PdL, vota la fiducia al Governo Monti, a cui Berlusconi aveva invece tolto il sostegno e alla fine della legislatura deciderà di non ricandidarsi per tornare a indossare la toga, prima come consigliere alla IV sezione penale della Corte di appello di Roma e poi da consigliere di sezione penale alla Corte di Cassazione. Cattolico, con posizioni conservatrici in tema di diritti civili, Mantovano è una presenza abbastanza costante al Meeting di Rimini di CL, e fa parte di Alleanza Cattolica dal 1976. Giornalista pubblicista e saggista, collabora con la rivista Tempi.

Dal 2015, Mantovano è presidente della sezione italiana della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, che si occupa di persecuzioni religiose, e dallo stesso anno diventa vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino, formato da magistrati, avvocati, notai e docenti di materie giuridiche. Dal 2018 è direttore responsabile di L-Jus, rivista semestrale online dello stesso Centro studi.

Mantovano, la visione sulla giustizia

Sul fronte della Giustizia, Mantovano si è espresso a favore della separazione delle carriere. Pur esprimendo, “da garantista”, dubbi sui quesiti referendari promossi da Lega e Radicali (e dal neo guardasigilli Carlo Nordio). Contrario al referendum sulla custodia cautelare, ritenuto «inaccettabile», Montavano scrive: «Le buone intenzioni poste a base dei referendum sulla giustizia ci sono tutte: chi, a 33 anni dall’operatività di un codice di procedura penale che ha trasformato il pubblico ministero in una parte, se pure pubblica, può ragionevolmente contrastare la separazione delle carriere fra P.M. e giudicanti? E chi, a fronte di aberranti privazioni della libertà personale, può affermare che si tratti di errori fisiologici, e non invece di un meccanismo che non funziona?».

«Leggendo il relativo lunghissimo quesito – precisa in un articolo sul Foglio – ci si accorge però che da un lato esso è inutile, perché abroga disposizioni da tempo non più operative, dall’altro – pur precludendo il passaggio da una funzione all’altra – lascia in piedi un unico concorso di magistratura, un unico Csm, un’unica scuola di formazione. Lascia cioè invariata la sottoposizione dei giudici, quanto a progressione, incarichi e disciplina, a organi composti anche da pubblici ministeri, e viceversa, con un incremento della confusione».

Temi etici

Conservatore e cattolico, Mantovano ha preso parte al Congresso mondiale delle famiglie di Verona, dove è stato relatore di una tavola rotonda sulla Tutela della vita. In quell’occasione  ha sostenuto come la legge 194 non riconosca in realtà il diritto all’aborto, ma preveda una fase di “prevenzione” prima dell’interruzione di gravidanza.

Contrario al referendum sul fine vita, ha espresso il suo pensiero nel libro “Eutanasia. Le ragioni del no” (Cantagalli), che fa il paio con il volume “Droga, le ragioni del no”, in cui Mantovano illustra gli effetti delle principali sostanze stupefacenti, e smonta i «luoghi comuni che si usano per sostenere la legalizzazione di quelle cosiddette leggere, anche alla luce di quanto accaduto negli ordinamenti che hanno introdotto leggi permissive, in primis alcuni States degli Usa».

Colpa d’Alfredo. Con Mantovano a Palazzo Chigi non sarà così facile fare i sovranisti. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 25 Ottobre 2022.

L’ex magistrato è un profondo conoscitore del diritto europeo e avrà un ruolo chiave in un eventuale tentativo di scostamento dell’Italia dai trattati europei in tema di diritto e diritti. Basta leggere le sue sentenze

La nomina di Alfredo Mantovano a sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha sorpreso molti che a quel posto attendevano che Giorgia Meloni nominasse il fidatissimo Giovanbattista Fazzolari, non un ex parlamentare da molti anni lontano dalla politica.

Mantovano è un cattolico tradizionalista, attivissimo esponente dei giuristi cattolici, magistrato estraneo alle correnti, un conservatore senza integralismi che costituisce una delle più significative chiavi interpretative del nuovo esecutivo.

È uno dei due magistrati – ingrediente irrinunciabile – presenti nel governo, l’altro è Carlo Nordio, neo Guardasigilli, assai più noto ai riflettori, cui non si sottrae al contrario del sottosegretario, molto più riservato.

La novità è che nessuno dei due ha militato nelle correnti di sinistra della magistratura e entrambi provengono da una cultura garantista senza cedimenti al giustizialismo (semmai a una certa visione autoritaria).

Nordio ha illustrato urbi et orbi il suo prossimo programma per la giustizia, che comprende novità rivoluzionarie come la separazione delle carriere – anche se dopo la nomina ha assunto un tratto più prudente limitandosi a parlare più tradizionalmente di «efficienza» e «velocizzazione» – finalità che i suoi ex colleghi almeno condivideranno.

Ma è Mantovano di gran lunga il personaggio più interessante. Innanzitutto l’uomo rompe una consolidata tradizione che vuole al suo posto abitualmente un consigliere di Stato o un politico puro con l’unica eccezione di un grande “ibrido” come Gianni Letta.

Lui stesso si può considerare una figura di mezzo, essendo oggi un civil servant ma essendo stato in passato per due volte sottosegretario all’Interno con delega alla sicurezza e dunque buon conoscitore dei delicati apparati statali, dove è stato molto apprezzato e ha lasciato un buon ricordo.

Da dieci anni, dopo l’ultimo governo Berlusconi, era ritornato al primo lavoro, ricominciando, senza molti fronzoli, dalla Corte di appello di Roma e poi in Cassazione, sempre nel settore penale, occupandosi di misure di prevenzione e, particolare significativo, di diritto europeo, materia molto delicata.

Di lui è nota la profonda fede religiosa e le sue radicate convinzioni in tema di difesa della vita umana e di una più rigorosa regolamentazione dell’aborto con l’applicazione effettiva delle misure di assistenza verso le donne che affrontano una scelta così difficile.

In ragione di ciò, può definirsi come uno dei rari casi italiani di conservatorismo compassionevole, il movimento della destra americana più sensibile e attento ai bisogni degli strati sociali sofferenti, propugnatore di forme private e religiose di interventi contro il disagio, in funzione di barriera anche contro il ricorso a pratiche abortive.

Mantovano ha duramente criticato la decisione dei tribunali inglesi nella vicenda del piccolo Charlie Gard, il neonato affetto da una malattia incurabile che ha imposto la cessazione delle cure contro il parere dei genitori, una scelta tremenda in cui il nuovo sottosegretario di Meloni ha condannato l’invasiva crudeltà dello Stato contro i malati incurabili considerati «materiali di scarto».

Sbaglierebbe tuttavia chi lo considerasse un ottuso integralista: Mantovano è un acuto e attrezzato giurista, preciso e attento nelle motivazioni.

Chi lo ha conosciuto come magistrato lo iscrive nella categoria dei garantisti “seri”, cosa ben diversa da quella maggioritaria che ha sputtanato la categoria dai tempi di Berlusconi in poi (gazzarra cui Mantovano non ha mai partecipato).

E sotto questo profilo va colto uno spunto di estremo interesse che investe il suo delicato ruolo politico accanto al premier.

Il neo sottosegretario è un profondo conoscitore del diritto europeo e come magistrato lo ha convintamente applicato secondo i principi costituzionali che lo indicano come una delle fonti del diritto interno.

Come è noto, Meloni e i sodali Crosetto e Lollobrigida sono propugnatori di un primato sovranista del diritto interno, come ha spiegato questo giornale, che hanno messo al centro di un disegno di legge di riforma costituzionale promosso nella cessata legislatura.

Come lo stesso premier ha più volte ribadito, il modello di riferimento è la Polonia, paese che visiterà nel suo primo viaggio istituzionale nonostante Varsavia sia attualmente sottoposta a procedura d’infrazione per reiterate violazioni dei principi dello Stato di diritto, con particolare riferimento all’indipendenza della magistratura, messa sotto il controllo politico della maggioranza.

Ebbene, con alcune sentenze da lui redatte, Mantovano ha più volte ribadito l’assoluta preminenza dei principi internazionali propugnati dalle Corti europee di Strasburgo e del Lussemburgo.

In una delle più recenti, ha motivato il rigetto di un mandato di arresto europeo emesso proprio dalla Polonia, sottolineando che «in tema di riconoscimento delle sentenze penali straniere l’ambito del controllo sul requisito della non contrarietà ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato (italiano) non riguarda solo il dispositivo, ma deve investire anche la motivazione della sentenza straniera, attraverso la quale è possibile vagliare la sua conformità ai canoni del giusto processo» (Cassazione sezione II penale numero 33558 Anno 2021).

Mantovano ha cioè ribadito che la semplice esistenza di una sentenza di condanna “interna” di un Paese europeo non è da sola sufficiente e che lo Stato italiano deve controllare la motivazione del provvedimento straniero per verificare che sia conforme ai principi internazionali del giusto processo.

Dunque, è difficile pensare che Mantovano non faccia sentire la sua voce nel delicato frangente di un eventuale tentativo di scostamento dell’Italia dai trattati europei in tema di diritto e diritti – e sarà interessante vedere cosa accadrà.

Per certi versi, e nonostante i proclami di Nordio, è prevedibile che per la politica, sulla giustizia, alla fine conti più il sottosegretario che il ministro delegato.

Giovanbattista Fazzolari cancella il suo Twitter dopo l’articolo dell’Espresso. Troppo imbarazzanti i messaggi su Mattarella. Il fedelissimo di Giorgia Meloni, escluso a sorpresa dalle poltrone di governo dopo essere stato al centro di ogni totoministri, aveva attaccato più volte il presidente della Repubblica. A poche ore dalla nascita dell’esecutivo, ha eliminato tutto. Mauro Munafò su L'Espresso il 21 Ottobre 2022

Mattarella «un aspirante demonio», anzi «un rottame». Di più: «Oltre i confini del ridicolo». Sono solo alcuni dei tweet scritti da Giovanbattista Fazzolari e indirizzati al presidente della Repubblica negli anni passati. Messaggi rivelati da L’Espresso nell’articolo in cui Susanna Turco tratteggiava il profilo del fedelissimo di Giorgia Meloni, da settimane indicato come probabile ministro o sottosegretario nel governo Meloni e a sorpesa escluso dalle poltrone che contano. 

Quei tweet oggi però sono diventati un macigno sulle ambizioni di Fazzolari, una carriera sempre al fianco di Meloni che lo ha incensato come «la persona più giusta e intelligente che abbia mai conosciuto». E forse per intelligenza o per tatticismo, nelle scorse ore Fazzolari ha deciso di cancellare, letteralmente, il suo passato. Il suo profilo Twitter, così ricco di commenti adatti per l’opposizione ma assai meno per un ruolo istituzionale, risulta infatti cancellato. E con lui se ne vanno anche i commenti esaltanti sul battaglione Azov. 

Dal tweet di lotta a quello di governo il passo è breve: basta un click. Ma i suoi messaggi, salvati per tempo dall’Espresso, rimangono.

Fazzolari fuori dal governo, la voce: "Colpa del fango dell'Espresso". Libero Quotidiano il 22 ottobre 2022.

"È un giorno storico". Giovanbattista Fazzolari, il più fidato consigliere di Giorgia Meloni, è fuori dal governo (per ora) ma esulta. Intervistato dal Corriere della Sera, rivela che la premier incaricata, alla lettura ieri della lista dei ministri: era "fortemente emozionata. È riuscita a fare qualcosa di incredibile". Fazzolari, da molti considerato "il cervello" di Fratelli d'Italia nonché "uomo-macchina" del prossimo esecutivo di centrodestra, in quella lista non c'è. Potrebbe rientrare come viceministro o sottosegretario. Qualcuno lo vede a Palazzo Chigi con la delega alla sicurezza, pesantissima. La lunga mano del premier sugli 007, in sostanza.

"C'erano persone più adatte di me - si schermisce -, come Alfredo Mantovano, magistrato di altissimo profilo. Ma sono fierissimo della svolta: primo governo con un presidente del Consiglio donna, in cui la destra esprime la leadership e con ministri di grande spessore". Nei giorni scorsi L'Espresso e la stampa di sinistra hanno imbastito una pesante campagna mediatica contro di lui, rispolverando qualche tweet del passato (quasi remoto) per metterlo in cattiva luce.

Ma con la decisione della Meloni, spiega Fazzolari, non c'entrano i passati tweet nei confronti del Capo dello Stato o in favore del battaglione Azov: "Ho dato il giusto tributo agli eroici difensori di Mariupol e lo rivendico. E su Mattarella non erano attacchi personali ma classici tweet di disapprovazione su scelte da me non condivise. Ma il mio nome nella lista non c'è mai stato in quelle posizioni". 

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 22 ottobre 2022.

La prima riflessione, di fronte al governo neonato, è tutta politica: Giorgia Meloni è riuscita in ciò che il centrosinistra ha tentato invano per oltre un quarto di secolo: ha sconfitto Berlusconi e Salvini e ha insediato per la prima volta una donna - se stessa - a Palazzo Chigi. 

Ce n'è abbastanza per farsi un'idea della forza di volontà e della passione politica di questa giovane donna che ha girato in positivo i colpi che hanno segnato la sua biografia personale, individuando sempre i momenti giusti per fare le sue scelte: dalla decisione di rompere con il Cavaliere e con l'allora partito unico del centrodestra undici anni fa, fondando Fratelli d'Italia, con cui ha vinto le elezioni del 25 settembre, a quella di rifiutarsi di entrare nell'esecutivo di unità nazionale presieduto da Draghi, in nome del «mai alleati con la sinistra».

Se doveva essere di «alto profilo», com' è stato ripetuto più volte nei lunghi giorni della gestazione, il governo presentato ieri sera certamente non lo è. I tecnici sono dignitosi, ma - escluso Nordio - indubbiamente di livello inferiore a quelli di Draghi. E i politici sono quel che sono diventati nella politica di adesso: nella media di un Paese - una Nazione, direbbe Meloni, che preferisce questo termine - che da tempo non ha quasi più statisti in servizio, tolto il Presidente Mattarella, e ne ha appena licenziato uno, Draghi, che presto rimpiangerà. 

Sull'idea di cambiare i nomi ai ministeri per segnare l'Anno Uno dell'Era Meloniana, insieme a un cambio culturale di cui non è difficile riconoscere le radici di destra, meglio sorvolare. In attesa di sapere, ad esempio, quali saranno i poteri del ministro della Sovranità alimentare, e se sarà ancora possibile, sotto il suo dominio, mangiare gli hamburger o il sushi.

Il governo che giura stamane, come ha ricordato il Capo dello Stato, ha davanti a se problemi enormi e emergenze vecchie e nuove, come il Covid non ancora del tutto sconfitto e la guerra in Ucraina, con la crisi energetica e il caro bollette, di cui non si vede la fine. Da questo punto di vista è un bene che dopo l'avvio rissaiolo e incomprensibile della legislatura e dopo l'incredibile audio di Berlusconi, Meloni sia riuscita a riportare ordine tra i suoi alleati, riapparsi al Quirinale silenziosi come due scolaretti.

La romanista Meloni, il milanista Salvini: ecco per chi tifano tutti i ministri. Francesca Schito su Il Tempo il 24 ottobre 2022.

Sabato il giuramento, ieri il primo Consiglio dei Ministri. La XIX legislatura è ormai aperta con la prima donna Primo ministro della storia italiana a guidare la sua squadra di Governo. Giorgia Meloni realizza il suo sogno e scrive una pagina di storia della Repubblica, dopo aver accettato l'incarico senza riserve (solo in quattro prima di lei). Una squadra variegata quella composta dalla leader della Garbatella, così come lo è l'appartenenza calcistica dei vari componenti.

Sulla falsa riga dei suoi predecessori (Mario Draghi e Giuseppe Conte), Meloni tifa Roma. Romana e romanista, la premier conferma la sua fede giallorossa nonostante le simpatie laziali espresse in gioventù.

Il derby capitolino trova due rappresentanti di fede biancoceleste, Francesco Lollobrigida, che guida il Ministero dell'Agricoltura e della Sovranità Alimentare, e nel neo ministro dello Sport, Andrea Abodi, numero uno dell'Istituto di Credito Sportivo.

La geografia calcistica dei due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani si sposta verso Nord, con il numero uno della Lega sfegatato tifoso del Milan e il rappresentante di Forza Italia accanito juventino. Un altro grandissimo appassionato della Vecchia Signora è sicuramente il ministro della Difesa, Guido Crosetto, così come il ministro per le Riforme Elisabetta Casellati. Interista, invece, il ministro per le Imprese e per il Made in Italy Adolfo Urso.

Particolare è la parabola di Giancarlo Giorgetti, oggi ministro dell'Economia, che in Italia tifa Varese ma ha una grande passione per il Southampton. «È da quando ho 10 anni che seguo il calcio inglese - aveva raccontato Giorgetti in un'intervista a "Il Giorno" nel 2016- ma non ho scelto una squadra blasonata, ho preferito il Southampton, un club famoso soprattutto perché per 13 anni consecutivi si è salvato dalla retrocessione all'ultima giornata. Nei Saints, comunque, ha giocato anche un grande calciatore: Matthew Le Tissier. Il calcio inglese mi è piaciuto da subito perché è più spettacolare di quello italiano e l'atmosfera negli stadi inglesi è molto bella».

Tornando tra i confini nazionali si annovera tra i tifosi dell'Atalanta Roberto Calderoli, ministro senza portafoglio agli Affari Regionali e Autonomie, è una grande tifosa dell'Inter Daniela Santanché alla guida del dicastero dedicato al Turismo, mentre non tradisce le sue radici campane Matteo Piantedosi, numero uno dell'Interno, supporter sfegatato sia dell'Avellino calcio, sia dell'omonima squadra di basket.

Questione di famiglia la fede calcistica di Paolo Zangrillo, ministro della Pubblica Amministrazione, fratello di Alberto Zangrillo, medico personale di Silvio Berlusconi e presidente del Genoa: i Grifoni hanno un supporter assicurato. Luca Ciriani, alla guida del Ministero peri Rapporti con il Parlamento, è di fede granata, Raffaele Fitto (Affari Europei e Pnrr) e Alfredo Mantovano (Sottosegretario alla presidenza del Consiglio) sono del Lecce, mentre Gennaro Sangiuliano (Beni culturali) tifa Napoli. Il siciliano Nello Musumeci, ministro per le Politiche del mare e del Sud, non poteva che tifare per la squadra della sua città, il Catania. Concludono il quadro l'interista Ignazio La Russa, Presidente del Senato, e il presidente della Camera Lorenzo Fontana, tifoso dell'Hellas Verona.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 22 ottobre 2022.

Eccoci dunque: una donna sola al comando, conquistato senza dispositivi di cooptazione né favoritismi di natura patriarcale. È accaduto, insomma, e per quanto nell'era dell'enfasi si possa diffidare dell'aggettivo "storico" o dell'abusatissimo suo gemello "epocale", beh, è così. Nel governo Parri, 1945, furono inizialmente designate sei donne su 24 sottosegretari, una per ogni partito di maggioranza, ma poi non se ne fece nulla. La prima fu nel 1951 Angela Maria Guidi Cingolani, dc. Nei primi 25 governi entrarono appena nove donne; Tina Anselmi ottenne la poltrona di ministro solo nel 1976.

Quarant' anni dopo, per iniziativa dell'allora presidente della Camera Laura Boldrini, da un corridoio al primo piano venne ricavata una "Sala delle donne" che ospita le foto-ritratto delle donne elette alla Costituente e delle prime assurte al vertice delle amministrazioni locali, nel governo e nelle istituzioni. Siccome nessuna finora figurava come presidente del Consiglio né presidente della Repubblica, al posto delle foto, ma ugualmente dentro una cornice d'oro, furono installati due specchi ad altezza umana.

Ancora oggi chi passa, incoraggiata anche da una targhetta che dice "Potresti essere tu", può mettersi in posa, sorridere o addirittura fare le boccacce. Ecco, da ieri uno dei due posti è occupato. Ma poiché quello specchio sta finalmente per essere sostituito dall'immagine di Meloni, almeno in questo giorno ci si risparmia la retorica sul soffitto di cristallo, così come la puntuale disamina degli insulti, i pregiudizi e le discriminazioni anti femminili che nel corso del tempo hanno segnato le vicende del potere in Italia.

C'è del resto un libro molto interessante, del giornalista Filippo Maria Battaglia, che fin dal titolo, Stai zitta e vai in cucina (Bollati Boringhieri, 2015), offre il più terrificante campionario aneddotico di machismo, dalla Consulta al grillismo. Ce n'è voluta, insomma, ma si gira pagina. "Speriamo che sia femmina": con questo striscione durante l'ultima campagna l'imminente premier venne accolta a Bari: «È bellissimo», fu il suo giudizio.

E se nell'estrema foto elettorale si mostrò con i meloni sul petto, è pure accaduto che in un comizio a Caserta le gridassero, «Gio', tu tieni gli attributi!», al che Gio', dopo essersi sollevata la blusa e guardando con un sorriso di meraviglia proprio lì tra i pantaloni, «non mi pare proprio - restituì scherzando l'invocazione - forse sono altri che non ce li hanno per niente...».

Restano in effetti tempi complessi, oltre che argomenti variamente contraddittori. Per cui dopo l'incarico si potrà discutere se questo nuovo spazio è destinato o meno a riempirsi di contenuti vecchi, conservatori o persino reazionari; così come già da ora appare evidente che mai Meloni ha pensato di legarsi nel suo impegno ad altre donne, principio cardine del femminismo; e che forse proprio a causa di questo suo non mettere in discussione l'assetto maschile della società è stata vissuta dagli uomini, a cominciare da quelli del suo maschilissimo partito, non tanto come un pericolo, ma come un'opportunità dei tempi.

Eppure ce n'è quanto basta per riconoscere che lei stessa è un prodotto, per così dire, del femminismo: figlia e sorella minore di un movimento e più ancora di un abito mentale che in ogni caso ha reso possibile un percorso come il suo, per la prima volta dimostrando la capacità delle donne di conseguire qualunque risultato. 

Così, una volta tanto senza distinguere le rispettive culture politiche, varrà adesso la pena di rivolgere, alla rinfusa, un pensiero alle donne che degnamente hanno preparato il terreno, da Camilla Ravera a Rosy Bindi, da Emma Bonino ad Adriana Poli Bortone, passando per Lina Merlin, Nilde Iotti, Susanna Agnelli, Luciana Castellina, Margherita Boniver e tante altre, tralasciando la Seconda Repubblica.

Quanto alle tappe di tale processo, forse è ancora presto per tracciarne uno sviluppo lineare e coerente. Troppo facile perdersi nei meandri di una vicenda in cui la storia politica e il costume finiscono per far cortocircuito con i tratti insopprimibili di un'italianità in cui tutto piega verso l'espressività a oltranza; e la memoria al dunque s' inceppa fra leggi elettorali sessuate e quote rosa retrattili, bunga bunga e politically correct, mammismi e gender fluid mentre la grancassa dei media, ammiccando tra il mitologico e il belluino, esalta amazzoni, tigri, giaguare e pitonesse - come si vede, quest' ultime in sorprendente ascesi istituzionale.

Auguri, che l'Italia la cambi lei. Giorgia Meloni è riuscita a fare quello che non ha fatto la sinistra: una premier donna. Paolo Liguori su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Questa non è un’ipotesi ma una realtà. È partito il nuovo governo ed è un governo a guida di Giorgia Meloni, cioè a guida femminile, e questa è la prima volta nella storia d’Italia. Un fatto da sottolineare al di sopra di ogni altra cosa, il governo è partito esattamente come si diceva che sarebbe successo. Tutte le polemiche di questi giorni non sono servite ad altro che a far innervosire il clima e a far credere ai lettori che tutto era sull’orlo di un precipizio. Questa mattina si è capito subito con i tre schierati: Meloni, Berlusconi e Salvini, che sull’orlo del precipizio ci sono solo le aspettative di quelli che o per l’opposizione o per i grandi giornali auspicavano che questo governo non si formasse.

Ho letto fino a poco fa che Tajani è stato rovinato dalle dichiarazioni politiche di Berlusconi (tutte stupidaggini). Tajani è ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio come lo è Salvini. L’intesa uscita dalle urne quindi è stata rispettata e Meloni, a cui faccio i miei più grandi auguri, è riuscita a fare quello che per anni non è riuscita a fare la sinistra cioè eleggere un presidente del Consiglio donna per la prima volta (eppure la sinistra ha avuto tanto femminismo). Il governo di Giorgia Meloni va avanti. Buon viaggio al governo, buon viaggio a Giorgia Meloni, buon viaggio ai suoi ministri.

E poi una lezione: queste polemiche che ci sono state sulle frasi di Berlusconi, che io ho sottolineato come strumentali, e lo penso ancora, in realtà sono servite solo a far balenare che ci sia un pensiero unico. Persino ai tempi della guerra fredda chi era dall’altra parte della cortina di ferro poteva esprimerle liberamente. Eppure se in questo momento qualcuno fa delle critiche a Zelensky e a uno schieramento che in guerra non si sta comportando bene (c’è sì un invasore in Ucraina ma anche un invasato) e io non sono né con l’uno, tantomeno con l’altro. A pensare queste cose oggi si corre il rischio di essere fucilati sui giornali. Manca la libertà di opinione in Italia? Certo, addirittura meno di quella che ce ne era ai tempi della guerra fredda. Auguri a Giorgia Meloni, che l’Italia la cambi lei. Paolo Liguori

Giampiero Mughini per Dagospia il 22 ottobre 2022.  

Caro Dago, leggo l’ottimo articolo odierno di Filippo Ceccarelli sulla “Repubblica” e inorridisco. Apprendo difatti che per iniziativa dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini esiste a Montecitorio una “sala delle Donne”, ovvero una stanzuccia sulle cui pareti sono le foto delle donne arrivate ai vertici delle istituzioni politiche. Sì, avete capito bene.

Le foto di protagoniste quali la socialista Lina Merlin, la democristiana Tina Anselmi, l’italocomunista Nilde Iotti, la radicale Emma Bonino e adesso la nostra (è il presidente di tutti noi) Giorgia Meloni se ne stanno l’una accanto all’altra a tenersi compagnia. Da inorridire. 

E’ del tutto ovvio che quei personaggi appartengono invece all’intera storia politico/parlamentare del nostro Paese e semmai alla storia di chi in questo Paese ha coperto cariche politiche di primo piano, la storia di cui fanno parte Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro e suo tempo Benito Mussolini. E’ in quella sequenza che le loro foto vanno inserite.

Che la Meloni sia la prima donna italiana a diventare capo del governo va sottolineato, certo. Lo fai una volta e basta così. Da quando l’ho avuta di fronte per la prima volta una ventina d’anni fa, che fosse una donna me ne ero accorto, ma non me ne importava più di tanto. Mi colpiva piuttosto che fosse già allora talmente ragazza vispa di parole e di pensiero. Mi interessava lei come persona, voglio dire. 

E del resto le persone se donne o uomini le distinguo eventualmente sotto le lenzuola, in tutti gli altri casi della vita non me ne può importare di meno. Quando mi sono congedato dall’unica carica mai avuta in vita mia, quella di presidente del Centro Universitario Cinematografico a Catania, proposi per la mia successione la valorosa (e mia indimenticabile amica) Silvana Cirrone. Che fosse una donna non ci avevo pensato neppure un istante.

Nel mio libro che sta per uscire da Marsilio, scrivo di Françoise Giroud, l’ex direttore del settimanale francese “L’Express” che una quarantina di anni fa venne prescelta quale il miglior giornalista della Francia. L’intelligente e puntigliosa correttrice delle bozze del libro mi ha chiesto se non fosse il caso indicarla quale “direttrice” anziché “direttore”. 

Mi si sono rizzati i capelli in testa. Il termine “direttore” indica il ruolo che stai coprendo, non il tuo sesso. Sono sicura che la stessa Giroud sarebbe inorridita a sentirsi chiamare “direttrice”. Lei gli uomini li aveva affrontati sul loro terreno professionale e su quel terreno li aveva fatti stramazzare da quanto era brava o meglio geniale. Direttore, punto e basta.

Da lastampa.it il 22 ottobre 2022.

Nel Salone delle Feste del Quirinale, emozionata ma ferma, Giorgia Meloni ha giurato come presidente del Consiglio. Di fronte al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha recitato la formula di rito: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione». Poi ha firmato e ha affiancato il Capo dello Stato per accogliere il giuramento di tutti i ministri del suo governo. Piazza del Quirinale è blindata, come anche le strade limitrofe. Domenica è previsto il passaggio di consegne con Draghi e primo Cdm.

9.00 – Arrivano i primi ministri al Quirinale: Sangiuliano, Bernini, Santanchè, Valditara

Gennaro Sangiuliano, scelto da Giorgia Meloni per guidare il ministero della Cultura è il primo ministro ad arrivare al Quirinale. Dopo di lui a fare il suo ingresso è stata Anna Maria Bernini, ministro per l'Università e Daniela Santanchè, ministro del Turismo. Arrivato al Quirinale anche Giuseppe Valditara che andrà al ministero dell'Istruzione e Merito accompagnato dalla sua famiglia.

9.32 – Salone delle feste pronto per la cerimonia

All'interno del Salone delle feste, tutto è allestito. Giornalisti e fotografi in quantità, una cinquantina di sedie pronte per i parenti dei ministri

9.33 – L’arrivo di Crosetto

Il più entusiasta sembra Guido Crosetto, il fondatore di Fratelli d'Italia, poi uscito dalla politica e ora nominato ministro della Difesa. Crosetto nell'ingresso principale del Quirinale saluta con trasporto i nuovi colleghi, a cominciare da Giancarlo Giorgetti e Carlo Nordio.

9.46 – Al Colle i ministri schierati ai loro posti

Quasi tutti i ministri schierati ai loro posti. L'ultimo ad accomodarsi è Nello Musumeci. Salvini e Tajani chiacchierano in piedi

9.50 – Ci sono i familiari dei ministri al Quirinale. La famiglia Salvini in prima fila

In prima fila nella parte riservata alle famiglie c'è Francesca Verdini, compagna di Matteo Salvini, con in braccio Mirta la figlia del leader della Lega e accanto il figlio Federico.

9.55 – Al Colle arrivati il compagno e la figlia di Meloni

Al Quirinale per assistere al giuramento del nuovo governo sono appena arrivati il compagno di Giorgia Meloni, Andrea Gianbruno, insieme a Ginevra la loro figlia. I due sono arrivati con la Cinquecento bianca che ha usato la leader di Fdi prima di ricevere l'incarico. Con loro anche lo staff della premier incaricata.

10.00 – Prevale il bianco tra le ministre, elegantissime, pronte per il giuramento al Quirinale

Prevale il bianco tra le ministre, elegantissime, pronte per il giuramento al Quirinale. Due tailleur white, quelli di Maria Elisabetta Alberti Casellati e di Alessandra Locatelli, spiccano in prima fila. Subito dietro, le ministre Daniela Santanché e Anna Maria Bernini sfoggiano due eleganti tailleur pantalone nero con due camicie, sempre bianche. 

Tailleur nero anche per Eugenia Roccella, che, a differenza delle colleghe che le siedono accanto, non sceglie il bianco ma una blusa di seta a pois. Marina Calderone, neo responsabile del Lavoro, ha scelto il nero, come la maggior parte dei ministri presenti nel salone delle feste. Qualche abito blu scuro -ne sfoggia uno Francesco Lollobrigida, tra gli altri- mentre ha scelto il grigio il responsabile dello Sport Andrea Abodi.

10.03 – Le sedie dei parenti sono tutte occupate

Anche le sedie per i parenti sono tutte occupate, tranne due: arriva il compagno di Meloni, Andrea Giambruno, per mano alla figlia Ginevra. Lui saluta con due baci Daniela Santanchè, già seduta nel settore dei ministri. La bambina saluta con la mano lo zio Francesco Lollobrigida, ministro dell'agricoltura e marito della sorella di Meloni, Arianna.

 10.05 – Giorgia Meloni è arrivata al Quirinale

Giorgia Meloni è entrata in auto al Quirinale per la cerimonia di giuramento.

10.10 – È iniziato il giuramento del nuovo governo davanti al Presidente della Repubblica

Iniziata nel Salone delle Feste del Quirinale la cerimonia di giuramento del nuovo Governo.

10.10 – Meloni ha giurato

Giorgia Meloni, in total black - giacca nera, top nero, pantalone nero - davanti al Presidente della Repubblica Mattarella recita - emozionatissima - la formula di rito e giura da premier.

10.15 – Dopo Giorgia Meloni il giuramento dei ministri

Tailleur e top nero sopra decolleté tacco 12. La prima presidente del Consiglio donna Giorgia Meloni ha scelto questo look per la cerimonia di giuramento. I primi a giurare dopo la presidente del Consiglio sono Antonio Tajani e Matteo Salvini, che prima di andare a firmare manda un bacio ai figli in prima fila.

Matteo Salvini, con la spilla di Alberto da Giussano sul bavero della giacca, ha inforcato gli occhiali da vista per leggere la formula di rito. Tra i ministri prevale la cravatta scura, tranne alcune eccezioni come Giancarlo Giorgetti, verde, Francesco Lollobrigida, bourdeaux, Raffaele Fitto e Adolfo Urso, azzurro. Tra le ministre dominante il tailleur nero (Anna Maria Bernini, Daniela Santanchè, ed Eugenia Roccella); in bianco Elisabetta Casellati e Alessandra Locatelli, sedute vicino.

10.16 – La sorella di Giorgia Meloni presente al giuramento nel salone delle feste al Quirinale

Non poteva mancare Arianna, la sorella di Giorgia Meloni, al giuramento nel salone delle feste al Quirinale. Arianna -anche lei elegantissima con i capelli raccolti in una lunga treccia- è arrivata assieme alla sorella, e ha preso poi posto accanto alla piccola Ginevra, nipote nonché figlia della presidente del Consiglio.

10.18 – Stretta di mano con il Capo dello Stato Mattarella

Per il giuramento Giorgia Meloni è entrata nel salone delle feste con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ieri le ha dato l'incarico di premier del nuovo governo. Dopo il giuramento con la formula di rito e la controfirma del Capo dello Stato la stretta di mano tra i due e poi foto di rito.

10.35 – Terminato il giuramento del governo Meloni

Terminata nel Salone delle Feste del Quirinale la cerimonia di giuramento del nuovo Governo, a questo punto in carica a tutti gli effetti.

Il ciao ciao alla figlia, le frasi a Mattarella: ora Meloni è premier. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

Il giuramento della squadra davanti a Mattarella. Tajani ripete una parola, Salvini inforca gli occhiali. E lei riserva all’amico Crosetto uno sguardo intenerito 

Giura per prima, ovviamente, Giorgia Meloni. È arrivata al Quirinale con la 500 bianca, insieme al suo compagno e alla figlia Ginevra, ripartirà con l’auto grigia di Palazzo Chigi, sedendosi al fianco dell’autista, piccolo strappo alle consuetudini. Ha un tailleur scuro, unico vezzo un braccialetto tricolore. Pronuncia la formula di rito senza leggerla, guardando Sergio Mattarella, poi appone la firma. Un tremito forse è troppo, ma quando poggia la penna la mano vibra e tradisce la tensione. Poi eccola accanto al presidente della Repubblica, pronta ad accogliere la processione dei neoministri. Ogni tanto un sorriso, che attraversa tutto il Salone delle Feste, rivolto alla figlia.

Potenza e controllo

Il colore finisce qui, perché mentre i giuramenti si ripetono arrivano le voci di fuori: dall’Europa, dagli Stati Uniti, dal mondo dell’economia, dal neoformato Parlamento. E la premier sa bene che la potenza, quella che le ha dato il risultato elettorale, non è nulla senza il controllo. Tenere tutto in mano è stata la sua preoccupazione principale in questo ultimo mese. I no, anche brutali, che ha detto ai suoi alleati derivano tutti da quella che per lei è una priorità assoluta: non vuole che il suo governo somigli a una gita aziendale, e anche le nuove denominazioni di alcuni ministeri servono sì a dare un’impronta non priva di un sapore rétro, ma soprattutto a prefigurare deleghe che dividano le competenze e non permettano a nessun ministro di giocare per sé.

Parole e intonazioni

Giura il nuovo ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che sarà anche vicepremier. L’emozione lo porta a ripetere una parola della formula. Giura l’altro vicepremier, Matteo Salvini, che guiderà le Infrastrutture. Inforca gli occhiali e non sfugge la sottolineatura, con il timbro della voce, quando recita «nell’interesse ESCLUSIVO della nazione». Giura il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che nell’attesa usava il cartoncino con la formula come un ventaglio e al quale, unica concessione, Giorgia Meloni rivolge uno sguardo intenerito. E intanto arriva la prima ondata di congratulazioni al nuovo governo, che suona come un’apertura di credito, ma anche come un invito a non indebolire la collocazione internazionale dell’Italia. Joe Biden dice che non vede l’ora di lavorare con Meloni sull’Ucraina e sui diritti, Volodymyr Zelensky attende con impazienza l’avvio di una fruttuosa cooperazione. E Tajani si affretta, come primo atto, a telefonare al ministro degli Esteri ucraino per offrire solidarietà a quel popolo invaso.

Il fronte ucraino

Pesano gli inciampi degli ultimi giorni, con le parole di Silvio Berlusconi e le incertezze sulle sanzioni del neopresidente della Camera Lorenzo Fontana, e la premier è intenzionata a impedire che la situazione sul quel fronte le sfugga di mano.

Tocca a Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, che sa bene come un dicastero così impegnativo gli sia arrivato anche per le difficoltà incontrate nel convincere tecnici di alto livello. Giura Raffaele Fitto, che guiderà gli Affari europei, ma anche il Pnrr e le Politiche di coesione, tanto per bilanciare gli Affari regionali e le autonomie del leghista Roberto Calderoli. E arrivano le parole di Paolo Gentiloni, commissario Ue per l’Economia, che in attesa di vedere il governo alla prova osserva che non gli pare di aver ascoltato dichiarazioni anti europee o euro scettiche. Ma aggiunge che sul Pnrr non bisognerà accumulare ritardi perché, in quel caso, l’Europa non sarebbe benevola.

È la volta di Matteo Piantedosi, alla guida dell’Interno ci sarà un tecnico, e di Carlo Nordio, che promette scelte non giustizialiste a via Arenula.

I senatori

Tra i ministri senza portafoglio c’è Nello Musumeci, di Fratelli d’Italia, che ha la delega per il Sud e le Politiche del mare, che, a proposito di controllo, non toccano il dicastero di Salvini, ma rendono più collegiali alcune competenze. Continua la processione al banco del giuramento e qualcuno già osserva che sì, è vero che l’opposizione è frastornata e divisa, ma Giorgia Meloni ha inserito nel suo governo ben 9 senatori, la cui possibile assenza da Palazzo Madama se dovessero arrivare votazioni critiche potrebbe farsi sentire.

Sobria nel vestiario e negli atteggiamenti Eugenia Roccella, ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità, dizione che ha già in sé un che di programmatico, e che avrà da affrontare temi tradizionalmente divisivi, con la premier che ha dichiarato di non voler toccare la legge 194 sull’aborto ma che intende valorizzare quelle norme che facilitano la prevenzione. Marina Elvira Calderone, tecnica alla quale è affidato il ministero del Lavoro, dice che vuole aprire al più presto un confronto con le parti sociali. Giura con voce stentorea Gennaro Sangiuliano,anche lui tecnico, che sarà a capo della Cultura, e che si ripromette come atto d’esordio un omaggio a Benedetto Croce. Tocca ancora a un tecnico, Andrea Abodi, con la delega a Sport e giovani, quest’ultima appartenuta in passato a una giovanissima Giorgia Meloni.

Giurano i ministri dell’Istruzione e Merito, Giuseppe Valditara, e dell’Università, Anna Maria Bernini, che accompagna il suo battesimo come ministra con un video sui social, ritirato da Instagram dopo aver scatenato una tempesta di commenti ironici, per le immagini e per le canzoni di Vasco Rossi, Ambra Angiolini e Lucio Battisti.

Poi c’è Gilberto Pichetto Fratin, a cui tocca l’Ambiente e la Sicurezza energetica, che promette che seguirà le orme di Roberto Cingolani e Mario Draghi. Giurano ancora Alessandra Locatelli, che si occuperà della Disabilità; Daniela Santanchè, Turismo; Luca Ciriani, Rapporti con il Parlamento; Maria Elisabetta Alberti Casellati, cui toccherà occuparsi della eventuale rivoluzione presidenzialista dalla tolda del ministero delle Riforme. E poi Orazio Schillaci, tecnico, che si occuperà della Salute, con la speranza che il Covid sia agli sgoccioli, e Paolo Zangrillo, alla Pubblica amministrazione. E giura Francesco Lollobrigida, alla guida di un altro ministero dalla denominazione programmatica, quello dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare.

Per tutto il tempo, nelle brevi pause tra un ministro e l’altro, Giorgia Meloni e Sergio Mattarella si scambiano rapidi commenti, in un’atmosfera che definire complice sarebbe esagerato, ma certo dall’apparenza serena.

Poi tutti insieme per la foto di rito, con la premier che prima fa ciao ciao con la mano a Ginevra. Oggi la cerimonia del passaggio della campanella, poi si comincia. 

Il First Gentleman Andrea Giambruno, i bambini e le famiglie (anche allargate) rubano la scena ai protagonisti. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

Sotto i riflettori Andrea Giambruno, compagno della premier. Al centro delle attenzioni di tutti, e dei fotografi, Ginevra, la figlia di Meloni, con papà e zia. Presenti anche Francesca Verdini con i due figli di Salvini. 

È stata una cerimonia piena di bambini, di figli, parenti, di fidanzati e fidanzate che rubano la scena ai protagonisti. È stata, intanto, la prima volta che, per assistere al giuramento di un presidente del Consiglio, è salito al Quirinale anche un First Gentleman ed è inutile interrogarsi su come definire altrimenti Andrea Giambruno. Suona peggio First Partner e certo non può essere First Husband, poiché con Giorgia Meloni non è sposato e comunque la traduzione suonerebbe come Primo Marito. Insomma, non c’è la parola in inglese, figuriamoci in italiano. C’è però il giornalista di Mediaset, 40 anni, quattro meno della premier, che scende dalla 500 L di famiglia, chioma fluente, pizzetto alla Brad Pitt, abito scuro, cravatta blu con piccolo tricolore, dono recente di Giorgia ai suoi. Sventola un saluto e un sorriso all’indirizzo dei flash. Tiene per mano la First Daughter, Ginevra, sei anni, riccioli biondi, occhi azzurri, una Giorgia in miniatura che si mette a saltellare tutta allegra nel suo vestitino con le piume e conquista subito i fotografi e poi, via via, tutti quelli che incrocerà.

La piccola assisterà buona buona alla cerimonia, seduta in prima fila nel Salone delle feste, la testolina — a un certo punto — poggiata sul petto del papà, ed è anche questa una prima volta: non avevamo avuto una premier donna, quindi neanche una premier mamma. Sullo sfondo, resta il ricordo di quando, nel 2016, il candidato sindaco di Roma Guido Bertolaso, a chi gli chiedeva se Meloni potesse essere vicesindaco, rispondeva che era incinta, doveva fare la mamma.

Nelle cinque file di sedie dei familiari, i bambini sono cinque e, contando la prole più adulta, i figli sono otto in totale, discreto manifesto di un governo che inaugura un dicastero della Natalità, sebbene il record vada a Graziano Delrio, che di figli ne ha nove e che, nel 2013, ne portò al giuramento una buona parte, mentre, da premier, Matteo Renzi si presentò coi tre bambini a formare il tricolore: un maschietto col maglioncino verde, uno col maglioncino rosso e la femminuccia in bianco. Adesso, accanto a Ginevra, c’è zia Arianna, sorella della premier e moglie del ministro all’Agricoltura e alla Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida. Hanno due bambine, ma non le hanno portate, forse per evitare l’effetto pranzo di famiglia.

Mirta, 10 anni, secondogenita di Matteo Salvini, è seduta sulle ginocchia della fidanzata del papà Francesca Verdini, che le accarezza i capelli, le parla all’orecchio e la fa ridere. Accanto a loro, Federico Salvini, 19 anni, figlio maggiore del vicepremier e ministro alle Infrastrutture. E questo, invece, sembra un manifesto delle famiglie allargate. In terza fila, ci sono le due deliziose bimbe del ministro alla Salute Orazio Schillaci, in ultima, il figlio del ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani. In prima fila, accanto alla mamma Brunella Orecchio, c’è anche Filippo Tajani, figlio del ministro egli Esteri e vicepremier Antonio Tajani. Il ministro della Difesa Guido Crosetto è arrivato col primogenito Alessandro, 25 anni, ma senza i due figli più piccoli, di nove e sette. Fra mogli di e mariti di, attira l’attenzione il compagno del ministro al Turismo Daniela Santanché, ovvero Dimitri Kunz D’Asburgo Lorena. I due sono vestiti con lo stesso punto di blu e, anche qui, non si era mai visto un principe accompagnare una ministra. E il principe le sta pure un passo indietro.

Un passo indietro non solo metaforico l’ha dovuto il First Gentleman Giambruno, che ha rinunciato a condurre Studio Aperto e TgCom24 per evitare accuse di conflitti d’interessi. Ora, lavora al desk dei tg, forse tornerà a fare l’autore di un talk di attualità. Secondo Il Foglio, avrebbe confidato a un collega: «È una scelta condivisa con l’azienda. Se sbagliassi un congiuntivo, attaccherebbero Giorgia anche per questo». Intanto, si scatta la foto di gruppo dei ministri, manca solo Santanché. Tutti si chiedono dov’è, ma si è attardata a salutare e vezzeggiare la piccola Ginevra.

Elio Vito: "Al giuramento compagni e figli fuori dal matrimonio, poi difendono la famiglia tradizionale". L'ex parlamentare FI polemizza: al Quirinale premier e vicepremier erano con figli e fidanzati non sposati. La Repubblica il 23 Ottobre 2022.

Anni prima di Elio Vito venne Giulio Andreotti con il celebre "aveva uno spiccatissimo senso della famiglia. Era infatti bigamo". Tra il dire (di rapporti istituzionali) e il fare, c'è distanza. Pensieri e parole spesso non vanno a nozze, e non in senso figurato. E così anche Elio Vito nota (dopo anni in FI è ora un difensore dei diritti) che in un esecutivo i cui membri hanno polemizzato sulla favola di 'genitore 1 e genitore 2' e parlato di famiglia tradizionale, spiccano le famiglie non tradizionali di premier e vicepremier.

Nelle famiglie non tradizionali  al giuramento non c'erano mariti, mogli o chi ne fa le veci. Il vicepremier Matteo Salvini era al Quirinale con il figlio Francesco avuto dalla giornalista Fabrizia Ieluzzi che è stata sua moglie (uno). Con la figlia Mirta avuta dall’avvocata Giulia Martinelli, non sposata. Ci sono compagne che fanno parte del passato. L'attuale era con lui "stiamo bene, non abbiamo intenzione di sposarmi". La premier Giorgia Meloni era con la figlia Ginevra, avuta dal non matrimonio con il giornalista Mediaset Andrea Gianbruno. I due stanno insieme da anni, hanno una bambina, lui le è stata sempre accanto e durante il giuramento era in prima fila.

Giorgia I. Rita Cavallaro si L'Identità il 22 Ottobre 2022 

Chi ha provato a distruggerla, in questi anni, l’ha chiamata Gollum. Ma Giorgia Meloni, da sempre appassionata di Tolkien, ha combattuto senza paura e ha vinto, dimostrando così al mondo di non essere quella creatura mostruosa corrotta dal potere. Il suo “non sono ricattabile” è l’emblema dei momenti più duri della battaglia per la leadership nella maggioranza di governo, nella lotta intestina nel centrodestra, animata dalle pretese di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Un Cavaliere e un Capitano che mal digeriscono di essere comandati da una donna, la ragazzina della Garbatella che si era messa in testa di scendere in battaglia con i grandi. E che, con l’ostinazione tipica di una donna animata dalle più nobili passioni, ha vinto la scalata a Montecitorio e conquistato Palazzo Chigi.

Giorgia Meloni ha dimostrato così di essere Éowyn, la donna forte del Signore degli anelli che uccide il Re Stregone di Angmar, un servo del male che non poteva essere sconfitto da nessun uomo.

La premier in pectore ha stravolto tutti i canoni culturali, perché come nel mondo tolkeniano una ragazza non andava alla guerra, così nello scenario politico non si era mai vista una figura femminile acclamata a capo di un partito. Negli ultimi anni sottovalutata, relegata sul fondo del suo 4 per cento del partito di Fratelli d’Italia, nato nel 2012 quando lasciò Silvio Berlusconi che, nei panni dello stregone Gandalf, pensava ai fuochi d’artificio per allietare tutti i mezzuomini della Contea, di quella Casa che si era presa troppe Libertà. Un progetto ambizioso che, col tempo, si è dimostrato vincente. La grinta di Giorgia e il lavoro dei suoi fedelissimi, uniti in una famiglia scevra da prevaricazioni, hanno fatto il resto. Perché tutti gli uomini di Meloni sono sempre rimasti un passo indietro al capo, esaltando così il percorso della pasionaria e comunicando agli elettori un messaggio chiaro: chi avrebbe scelto FdI, avrebbe eletto Giorgia.

È così che, negli ultimi anni tra pandemia e opposizione, la leader ha cannibalizzato non solo Forza Italia, ma anche la Lega, quella che una volta ce l’aveva duro e che con Matteo Salvini in salsa Gimli ha trovato lo stesso nefasto destino dei nani della dinastia di Durin, mentre nell’antro della montagna tentavano inutilmente di resistere all’assalto dei nemici. E quando anche Salvini è crollato alle stesse percentuali di Berlusconi, Meloni si è così fortificata da sferrare il suo ultimo colpo. “Sono io la leader del centrodestra e sarò premier”, ha giurato. Un passo dopo l’altro, senza guardarsi indietro né cedere agli agguati dei due soci di minoranza restii a sottomettersi alla donna, Giorgia ha tirato dritto, percorrendo l’ultimo miglio che ieri l’ha portata al Colle. Tailleur blu istituzionale, scarpe décolleté col tacco, capelli legati e l’orgoglio che le si leggeva in viso. Così ha guidato la delegazione del centrodestra per le consultazioni con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Undici esponenti politici, oltre a Berlusconi e Salvini, tutti ai suoi piedi. Il colloquio a tempo record, in cui la coalizione ha indicato Giorgia Meloni premier. Un nome pronunciato senza drammi evidenti, né imbarazzanti show del Cav, con una frustrazione quasi sopita. Sono stati da Mattarella soltanto sette minuti. Perché anche in questo Giorgia ha voluto lanciare un messaggio esplicito: poche parole, tanta sobrietà, idee chiare e neanche un minuto da perdere. Nel segno di quel “Pronti”, lo slogan della campagna elettorale basata sui tempi stretti, dettati dalla necessità di dare risposte immediate agli italiani, massacrati dal caro bollette e dalla crisi economica.

“Tutta la coalizione ha dato una indicazione unanime, come rappresentanza parlamentare, proponendo la sottoscritta per il mandato di formare il nuovo governo”, ha detto Meloni dopo le consultazioni. E ha aggiunto: “Già da ora annunciamo che siamo pronti perché vogliamo procedere nel minore tempo possibile”. Nel pomeriggio è tornata al Colle, Mattarella le ha conferito l’incarico di governo e lei lo ha accettato, consegnando anche la lista dei ministri. Il presidente le ha augurato “buon lavoro” e ha voluto mettere in campo la stessa rapidità dimostrata dall’incaricata. Oggi il giuramento. E ora Giorgia Meloni è entrata nella storia: la prima premier donna, senza riserve e senza paura.

Cadono tutte le perplessità sulla Meloni. La corsa delle cancellerie a congratularsi. Francesco De Remigis il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

C'era da aspettarselo. Dopo le punzecchiature di alcune cancellerie, ieri, un minuto dopo il giuramento di Giorgia Meloni, sono partite le strette di mano virtuali internazionali. Non semplici reazioni, consuete o dovute, ma riconoscimenti inaspettati «al» neo premier italiano. Dal saluto al primo presidente del Consiglio donna del Belpaese, del capo del governo olandese Mark Rutte (che due anni fa intimava all'Italia di imparare a «farcela da sola» e che oggi non vede l'ora di «rafforzare i forti legami tra i nostri Paesi e lavorare insieme dentro Nato e Ue»), alle congratulazioni di un «impaziente» presidente ucraino Volodymyr Zelensky, pronto a una «fruttuosa cooperazione per garantire pace e prosperità». La delegittimazione pre-voto è evaporata. 

Tutti (o quasi) scoprono che Meloni non è Belzebù. «La aspetto al Consiglio europeo per il bene dell'Ue», twitta il presidente dell'organo «politico» dei 27, Charles Michel. E pure la N.1 della Commissione di Bruxelles, Ursula Von der Leyen, dopo una «buona telefonata» con Meloni, si dice «pronta a lavorare insieme». Parole di auguri, che avvertono Roma dell'urgenza di partire protagonista (e responsabile) sul piano internazionale. Rassicurazioni e qualche stoccata: come quella di Paolo Gentiloni, Commissario Ue all'Economia, che sprona Meloni ad «andare a tavoletta, a testa bassa, sul Pnrr, altrimenti non saremo benevoli». «L'Europa ha bisogno dell'Italia, supereremo ogni difficoltà», rassicura la presidente dell'Europarlamento Roberta Metsola. Se l'Italia resta osservata speciale, la transizione rapida mette tutti d'accordo: dal presidente lituano Gitanas Nauseda al premier maltese Robert Abela, fino all'in bocca al lupo dell'esecutivo albanese di Edi Rama. Con un messaggio su Twitter il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, si congratula con la neo-premier per la nomina («Mi aspetto di continuare a collaborare strettamente con l'Italia nell'Ue, nella Nato e nel G7») e ringrazia il suo predecessore, Mario Draghi, per «il buon partenariato tra Germania e Italia degli ultimi anni». E se il settimanale tedesco Spiegel parla di «una postfascista al governo», si registra invece la capriola del quotidiano francese Le Monde che oggi racconta un esecutivo Meloni volto a rassicurare i partner. Tra cui, la Francia di Emmanuel Macron. Il primo incontro informale con un leader straniero dovrebbe essere proprio con l'inquilino dell'Eliseo, nelle prossime ore a Roma per vedere il Papa e Sergio Mattarella. Parigi, anche su «chiarimenti» del Quirinale, ha «studiato» il profilo di Meloni, la storia da self-made woman che travalica il ruolo di leader dei conservatori europei. «Non è come Marine». Con lei si può (e si deve) parlare. Questa la versione data a Macron da alcuni consiglieri. Un colpo di spugna sulle (già rettificate) dichiarazioni di una «vigilanza» francese «sul rispetto dei diritti umani e aborto in Italia». La musica è cambiata. Energia, Ue, difesa e sovranità. Macron archivia le sgrammaticature e il suo staff «tratta» per un caffè. 

Il «fuori sacco» tra i due potrebbe seminare quella che in Europa è considerata la prossima intesa tra Paesi fondatori a tutela di interessi nazionali. Un asse Roma-Parigi per mettere all'angolo gli egoismi tedeschi. Fratelli d'Italia, in Europa, non sta infatti con i lepenisti. Prova ne è, una Marine Le Pen che gioisce con moderazione: «Estendo a Meloni, nuova presidente del Consiglio italiano, e a Matteo Salvini, vice, i miei auguri. Ovunque in Europa, i patrioti stanno salendo al potere». È invece il presidente ungherese Viktor Orbán a rivendicare il rapporto di vecchia data con «Giorgia» parlando di «grande giorno per la destra europea». Lui, e il premier polacco Mateusz Morawiecki, che twitta: «Oggi abbiamo un'alleata coraggiosa a Roma». Aperture anche dai vescovi italiani, con il cardinale Matteo Zuppi che assicura: «La Cei non farà mancare una collaborazione costruttiva».

"Pronti a collaborare". "Lavoreremo insieme": Meloni incassa l'appoggio dai vertici Ue. Dall'Europa, le congratulazioni e gli auguri di buon lavoro al nuovo governo. Von der Leyen: "Pronta a lavorare in modo costruttivo con la Meloni". Nel pomeriggio, colloqui telefonici tra la premier e i vertici Ue. Marco Leardi il 22 Ottobre 2022 su Il Giornale.

"L'Europa ha bisogno dell'Italia" ed è pronta lavorare "in modo costruttivo" con essa. Nelle ore in cui il governo Meloni giurava al Quirinale, dall'Europa arrivavano segnali di apertura e di incoraggiamento al nuovo esecutivo. Le "benedizioni" di Bruxelles al nuovo corso tricolore, che i gufi spacciavano per incerte, sono invece giunte con puntualità. E pure con voce polifonica. A congratularsi con la nuova premier italiana e con la sua squadra sono state infatti tutte le più alte cariche Ue.

Von der Leyen: "Congratulazioni a Meloni"

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, in particolare, con un tweet in italiano e inglese è stata tra le prime a esprimere il proprio favore nei confronti del nuovo esecutivo. "Congratulazioni a Giorgia Meloni per la sua nomina a Presidente del Consiglio Italiano, la prima donna a ricoprire questo ruolo. Sono pronta e sono lieta di lavorare insieme al nuovo Governo in modo costruttivo per rispondere alle sfide che ci attendono", ha scritto l'alta esponente delle istituzioni europee, in attesa di affrontare con la neopremier gli argomenti più decisivi per il Vecchio Continente e per l'Italia.

I colloqui telefonici con i vertici Ue

E in serata, la stessa Von der Leyen ha avuto un colloquio telefonico proprio con la premier Giorgia Meloni. Nella conversazione, a quanto si apprende, la presidente della Commissione Europea e la capo di governo hanno convenuto sulla necessità di mettersi subito al lavoro sui temi più urgenti. "Buona prima telefonata con Giorgia Meloni oggi. Lavoreremo insieme per affrontare le sfide critiche del nostro tempo, dall'Ucraina all'energia. Attendo con impazienza un primo incontro di persona a Bruxelles nel prossimo futuro", ha scritto su Twitter la stessa Von der Leyen. A seguito della telefonata intercorsa, anche Meloni ha espresso soddisazione e gratitudine: "Molte grazie Presidente Von der Leyen. Desiderosi e pronti a collaborare con voi per rafforzare la resilienza dell'Ue di fronte alle nostre sfide comuni".

Colloqui telefonici sono intercorsi poi tra la neopremier e gli altri vertici delle istituzioni europee. Nel pomeriggio la presidente Meloni ha infatti sentito il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, il presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen e il presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. Lo ha comunicato l'ufficio stampa della presidente Meloni.

Metsola: "L'Europa ha bisogno di voi"

L'atteggiamento apertamente atlantista ed europeista sottolineato da Giorgia Meloni anche prima del voto, aveva già rassicurato Bruxelles. E ora quell'intesa sembra pronta a tradursi in azioni concrete. Il perché lo aveva sottolineato in mattinata la presidente dell'Europarlamento, Roberta Metsola. "L'Europa ha bisogno dell’Italia. Insieme supereremo ogni difficoltà. Buon lavoro!", aveva affermato, ricordando che in questa fase storica il Vecchio Continente ha davanti a sé prove impegnative. In primis, la questione energetica e gli equilibri internazionali messi a repentaglio dalla guerra in Ucraina.

Anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, aveva rivolto per proprie congratulazioni alla nuova premier italiana. "Congratulazioni a Giorgia Meloni, che assume l’incarico di prima premier donna d’Italia. Lavoriamo insieme per il bene dell’Italia e dell’Ue", ha scritto Michel su Twitter. E ancora, rivolgendosi direttamente alla presidente del Consiglio: "La aspetto al Consiglio europeo per lavorare insieme per il bene dell’Unione europea". In serata, la risposta della nostra premier: "Grazie, presidente Michel. 27 nazioni europee che cooperano insieme per un'Europa migliore, insieme per la libertà e la democrazia. Siamo pronti a fare del nostro meglio!".

Gentiloni: "Non saremo benevoli sui ritardi"

Più distaccato, ma comunque non avverso nell'approccio, il commento del commissario Ue all'Economia Paolo Gentiloni. "Il Governo lo vedremo alla prova, può avere delle biografie ma non mi pare che abbia fatto dichiarazioni anti europee o euro scettiche. Vedremo", ha affermato l'ex premier italiano, intervenendo alla Festa del Foglio a Firenze. Al contempo, però, l'esponente delle istituzione Ue ha messo in guardia il nuovo esecutivo, con particolare riferimento al Pnrr. "L'invito che posso rivolgere al governo, ma il governo ne è perfettamente consapevole, è che su queste sfide bisogna andare a tavoletta, a testa bassa, perché altrimenti c'è il rischio di ritardi, e non saremo benevoli sui ritardi perché non è nell'interesse comune". E ancora, rispetto all'ipotesi di modifica del Pnrr da parte del governo Meloni, ha dichiarato: "L'espressione modificare è un po' generale perchè se stiamo parlando di riscrivere questo piano, così importante e in corso di attuazione, perchè è cambiato il Governo, allora lo avremmo cambiato già una trentina di volte, non è che si può cambiare ogni volta".

Le parole di Macron e Scholz

Nelle scorse ore, il presidente francese Emmanuel Macron si era detto pronto a lavorare con Giorgia Meloni, in attesa di un incontro al prossimo Consiglio europeo. Una visita a Roma del capo dell'Eliseo, prevista già da tempo per domani e lunedì, aveva fatto circolare indiscrezioni su un possibile meeting anticipato con la neopremier. Fonti francesi hanno definito tale faccia a faccia "non impossibile", anche se i due capi di Stato potrebbero diversamente preferire di attendere una prossima occasione per vedersi.

Parole di ottimismo erano state fatte trapelare anche dal cancelliere tedesco Olaf Scholz. "Tutte le volte che ci sono cambi di governo a causa delle elezioni, questo non può rovinare le buone relazioni che abbiamo con gli altri Stati membri o, per esempio, che abbiamo tra Germania e Italia. Continueremo a lavorare con una collaborazione molto buona", aveva affermato il capo del governo di Berlino.

Stampa straniera e ossessione fascismo: ecco cosa hanno scritto sulla Meloni. Il governo Meloni conquista già l'attenzione della stampa estera. Ma il racconto sulla neopremier ricorre spesso a banalizzazioni e allusioni grossolane al passato. Marco Leardi il 22 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Un'ossessione chiamata "estrema destra", con quell'aggettivo utilizzato per connotare negativamente l'area politica in questione. E poi l'immancabile "post-fascismo", altro concetto di cui sfuggono esattamente i contorni. Le espressioni utilizzate da certa stampa straniera per raccontare il nuovo governo Meloni hanno talvolta fatto ricorso a una buona dose di semplificazione e di trasandata retorica. Una cosa però è certa: anche all'estero, il ritorno del primato politico in Italia è stato colto. E, assieme a esso, quel desiderio di cambiamento che gli stessi elettori avevano chiesto alle urne.

Le prime pagine straniere sulla Meloni

Così, il giuramento del nuovo governo avvenuto stamani al Quirinale ha conquistato visibilità sulle prime pagine online dei principali quotidiani stranieri. Come già accaduto il 25 settembre scorso per il trionfo del centrodestra. Per una volta, l'Italia è tornata a fare notizia per un esecutivo che fosse finalmente espressione del voto. "Giorgia Meloni, leader di estrema destra, ha prestato giuramento come primo ministro italiano", ha titolato ad esempio il giornale britannico The Guardian, ricordando che la leader di Fdi "è la prima premier donna d'Italia" e che è a capo di "una solida maggioranza". Anche Sky News ha acceso i propri riflettori sul nostro Paese, parlando di "primo governo di estrema destra d'Italia dalla Seconda guerra mondiale". Immancabili, anche in questo caso, i riferimenti un po' grossolani al passato. La Bbc, da parte sua, ha scitto della "ascesa al potere del nuovo primo ministro italiano", definendola "fulminea" e "in parte per fortuna". Descrizione in anche in questo caso sommaria rispetto alla complessità delle vicende politiche italiane degli ultimi decenni.

La reazione della stampa francese

In Francia, Le Figaro ha scritto che Giorgia Meloni e i suoi ministri "hanno formato il governo più di destra ed euroscettico d'Italia dal 1946", sebbene la stessa Europa abbia proprio oggi riconosciuto alla neopremier un atteggiamento collaborativo e ben disposto. Tale aspetto, in compenso, è stato colto da France 24, che per l'appunto ha titolato sui "leader Ue che si congratulano con Meloni, nuova premier italiana". Il giornale dei radical chic parigini, Le Monde, ha altresì definito la Meloni di "estrema destra", spiegando però che il suo governo è "volto a rassicurare i partner dell'Italia". "La nomina di personalità esperte ed europeiste in ruoli chiave segna una forma di continuità, mentre la priorità del nuovo governo è la situazione economica", ha proseguito il quotidiano d'oltralpe. Ancora più a sinistra, Liberation ha scritto: "Postfascismo: il governo di Giorgia Meloni giura davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella".

"Quanto è davvero fascista?"

In Germania, la Suddeutsche Zeitung ha dedicato l'apertura della sua edizione online al giuramento di Giorgia Meloni chiedendosi: "Quanto è davvero fascista?". Domanda forse pensata per acchiappare qualche clic. Nel relativo articolo poi si legge: "La nuova premier italiana è attualmente relativamente moderata nonostante i suoi legami con idee neofasciste. Cosa ci si può aspettare da lei?". La Die Welt ha titolato invece: "La postfascista Giorgia Meloni ha prestato giuramento come prima donna a capo di un governo in Italia", sostenendo che "il leader della Lega Matteo Salvini ha dovuto accontentarsi del ministero delle Infrastrutture". Lo Frankfurter Allgemeine Zeitung ha invece sottolineato come la formazione del nuovo esecutivo sia stata "più veloce del solito rispetto ai tempi dell'Italia".

El Paìs, in Spagna, ha spiegato ai propri lettori che Meloni è "diventata la prima donna a presiedere il Consiglio dei ministri della Repubblica italiana" e ha ricordato che "Fratelli d'Italia, cinque anni fa, aveva solo il 4 per cento dei voti e si accontentava di ruolo di comparsa nella coalizione". Più banale e orientata la sintesi di El Mundo: "Dal postfascismo di strada al governo italiano".

La destra non è una: esistono destre diverse e nemiche. Chi è Giorgia Meloni, la prima premier donna italiana più peronista che thatcheriana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Ottobre 2022 

Abbiamo visto sfilare il governo di Giorgia Meloni al Quirinale e dunque la cosa è fatta e tira una grande bonaccia delle Antille, a vele flosce come quando sta per scatenarsi l’ira degli elementi ma tutto sembra sereno e armonico. Tutto bene, tutto placido, tutto sobrio e ben vestito, ma tutti sanno che questo è un governo che cammina sul filo. Che cosa farà Meloni, ora che è insediata al governo della Repubblica con le consultazioni più rapide della storia? È blindata e protetta da buoni consiglieri e sta attentissima a non fare passi falsi, ma per come stanno le cose, saranno i fatti a determinare la sua politica piuttosto che il contrario.

In Italia e nel mondo si fa sempre una dannata confusione, quando si parla di destra, tra una destra conservatrice liberale e una destra contenente un frammento di Dna fascista, cioè incline al socialismo di Stato. Mettere sullo stesso piano inclinato la dimissionaria Prime Minister Liz Truss con la nascente Presidentessa del Consiglio italiano Giorgia Meloni, crea una distorsione ottica. Ed è una distorsione sempre molto incoraggiata a sinistra perché nasconde la questione fondamentale: chi e come crea la ricchezza che poi, dopo, si cerca di distribuire? La ricetta della Truss, mal scopiazzata da quella che Donald Trump applicò con enorme successo fino all’arrivo della pandemia, non consiste nel “tagliare le tasse ai ricchi” ma nel tagliare le tasse a chi produce ricchezza affinché possa investire più soldi nelle aziende creando posti di lavoro.

Potrebbe Giorgia Meloni darsi a un tale stravagante sport, oggi in Italia? Onestamente: ma quando mai? Già, che Salvini possa varare la flat tax sembra una chimera alimentata da una follia. Da noi non si tratta di far arricchire i ricchi e impoverire i poveri – altro perdurante scenario fiabesco che incorpora sia la ricca e perversa regina Brunilde (di sicuro thatcheriana) che la sguattera Biancaneve con i sette minatori con cui convive, molto gettonato – ma di permettere alle aziende di non crepare, di assumere anziché licenziare mentre già stanno crepando per i costi energetici, l’inflazione galoppante e una pressione fiscale tanto tirannica, quanto sciocca.

I giornali inglesi non hanno resistito alla facile analogia e si sono sprecati in commenti al sugo e alla pizza coi funghi, secondo gli adorati clichet: ecco la Truss in copertina con l’elmo di Scipio e lo scudo alla marinara mentre brandisce una forchettata di spaghetti della stessa scatola di quelli pubblicati negli anni Settanta del tedesco Spiegel, con l’aggiunta -allora – di un revolver e il titolo “Spaghetti in salsa cilena” alludendo al golpe che installò Augusto Pinochet alla Moneda, dopo aver eliminato Salvador Allende. Quando si parla di “destra” bisognerebbe sempre stabilire prima che cosa si intende: se quella anticomunista conservatrice ma liberale di Winston Churchill; o quella dei socialismi nazionali come quella di Adolf Hitler.

Nessuno al mondo potrebbe mai dire che i due fossero separati soltanto da qualche grado di estremismo. Fra quei due – e tutti i loro successori ieri oggi e domani – lo stato dei rapporti può essere uno solo: guerra mortale all’ultimo sangue. La Meloni si è vista analizzare il suo di sangue, in Italia e da tutto il mondo, perché si è fatta le giovani ossa come militante di quella destra sociale derivata dalla componente socialista del regime mussoliniano. Quindi Meloni e la Thatcher, o Meloni e Theresa May (per non dire di Meloni e la Truss), c’entrano fra loro come i leggendari cavoli a merenda. Semmai si potrebbe azzardare qualche affinità con Evita Peron anche per la retorica scandita in spagnolo. “Soy Giorgia, soy Evita…” .

Eppure, è quasi impossibile resistere alla tentazione, già che parliamo di destra, di mettere le due donne, Giorgia e Liz, nello stesso cesto. La destra di radice illiberale è nemica della finanza, del neoliberismo, dell’ancòra più liberismo selvaggio, dei neocon. Probabilmente si è creata una leggenda storica molto curiosa e dagli effetti perversi secondo cui le donne che nella storia recente hanno raggiunto il potere del governo, sono sempre state delle dure, inflessibili e determinate come la Thatcher quando prese di petto lo strapotere sindacale dei minatori e non ebbe pace, né l’Inghilterra ebbe pace finché non vinse. E quando l’Argentina tentò di sottrarre alla Corona inglese le lontane isole Falkland, mandò la flotta oltre l’Atlantico per fare la guerra e vincere.

Si possono aggiungere Indira Gandhi, che fece guerra al Pakistan e Golda Meyr fondatrice dello Stato di Israele che combatté senza sosta. Ma per l’immaginario collettivo, o a posti singoli ,della sinistra si tratta quasi sempre di donne sadiche come la Thatcher, o pazze come questa Liz Truss che pretendeva di applicare la ricetta Trump in una salsa inglese. Quella formula negli Stati Uniti ha funzionato clamorosamente per due anni facendo registrare il più alto tasso di occupazione e la più drastica riduzione della povertà generale, facendo volare i mercati, le banche, i risparmiatori e l’economia tutta. Nel Regno Unito i conservatori sono agli sgoccioli e i laburisti chiedono elezioni anticipate, ma la Costituzione non scritta, e dunque precisa come un teorema, non lo permette: i Tories hanno vinto e la maggioranza e tocca a loro. Prova ne sia che già si scalda in panchina il redivivo Bojo, acronimo di Boris Johnson.

E da noi? Esiste davvero una destra liberista e liberale? Forse liberale sì, in Forza Italia , Ma il liberismo selvaggio e assassino non ha mai abitato qui e semmai la Meloni rappresenta un suo antidoto spontaneo. Il vero rischio del governo Meloni sta nella fragilità della necessaria concordia sulla politica estera. Mario Draghi, lasciando Bruxelles tra applausi e discorsi ufficiali ha detto che non darà consigli al nuovo governo italiano e tanto nobile distacco non si sa sia portatore di autonomia e fiducia o dall’istinto che consiglia di saltare dalla barca e raggiungere la riva a nuoto. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Per un femminismo conservatore. Se una donna di destra sia veramente una donna, se possa essere considerata femminista, se possa rappresentare un progresso per tutta quanta la condizione femminile... è un dibattito vecchio, ma di scarso senso comune. Fiamma Nirenstein il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Se una donna di destra sia veramente una donna, se possa essere considerata femminista, se possa rappresentare un progresso per tutta quanta la condizione femminile, se il fatto di sedere sulla poltrona di primo ministro produrrà un cambiamento positivo di mentalità, di ruolo, di struttura... è un dibattito vecchio, ma di scarso senso comune, come spesso i dibattiti ideologici.

È chiaro che avere una donna premier, come è stato con Indira Gandhi, con Golda Meir, con Margaret Thatcher, persino con la giocosa Sanna Marin, suscita ammirazione, emulazione, apre la mente, cambia i costumi. Induce cioè a considerare come un'indicazione di comportamento sociale quella semplice identificazione di ruoli che, detta dalla Meloni, ha creato uno strano scandalo: «Sono una donna, sono una madre».

Libera scelta, giusto? Ma già in L'origine della famiglia di Friedrich Engels e nell'Unione Sovietica, nello schiacciamento sociale e teorico delle masse di donne inquadrate nel regime e nei suoi derivati internazionali, si spiega con determinazione che la liberazione femminile è inscindibilmente connessa al cambiamento radicale, socialista, del sistema economico. Nel passato si diceva: «La liberazione della donna e impensabile senza il comunismo, e il comunismo senza la liberazione della donna». Questo modo di pensare si è sviluppato, si è trasformato in forme che collegano indissolubilmente la sinistra al femminismo, fra cui oggi quella più popolare è quella dell'«intersezionalità», per cui il gender, il colore, la preferenza sessuale - tutte identità peraltro molto egoisticamente concluse e anche razziste - si uniscono contro l'«oppressione»: Giorgia Meloni, non essendo di sinistra, è destinata per forza a essere oppressore, non un'oppressa. Che sia una donna energica con proprie scelte autonome conservatrici, risulta più che discutibile, direi insopportabile.

Le contraddizioni sono palesi: le grandi conferenze internazionaliste di sinistra, sulla scia dell'internazionalismo socialista, gloriosamente palesavano donne la cui condizione, in società islamiche, sudamericane, africane, mediorentali, era di oppressione, di sofferenza: ma della loro cultura non si parlava né si parla, solo del colonialismo e dell'imperialismo. Da quelle conferenze, le donne israeliane, femministe di kibbutz, scienziate e artiste, o le americane, venivano cacciate via e sbeffeggiate. Da altre donne, che si fregiavano del titolo di femministe e - paradossalmente - pacifiste.

Oggi, quando si nega alla Meloni la sua caratteristica di donna fra le donne perché è di destra, si ribadisce il pregiudizio che non possa esistere un femminismo liberal-conservatore, che invece ha espresso leader politiche, pensatrici, accademiche. Ma attenzione: la metà «liberal» è importante. Perché anche tra i conservatori deve vigere il rispetto per la diversità e la libera scelta, le proprie rispettabili scelte religiose non possono sconfinare nel restringimento della libera scelta altrui: la famiglia tradizionale, la maternità tradizionale sono bellissime cose, ma ormai si sono legittimati tanti modi di esistere. E meno male che è così. Lasciamo agli ayatollah le punizioni sui comportamenti personali, dato che la libertà è la prima scelta del conservatore.

"Chiamatemi 'il premier'". La Rai si ribella. Il sindacato ai giornalisti: "Usate il femminile, no alle imposizioni". Luigi Mascheroni il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Alla fine Giorgia Meloni è l'Uomo forte che l'Italia aspettava da tempo.

Nulla di strano - anzi, scelta legittima e grammaticalmente ineccepibile - che chieda di farsi chiamare il Presidente del Consiglio. Le femministe che volevano sfondare, a sinistra, il soffitto di cristallo - la barriera invisibile che impedisce loro di raggiungere le cariche più alte - se ne faranno una ragione. Anche l'Accademia della Crusca ha avvallato la decisione: si può utilizzare il femminile per riferirsi a cariche ricoperte da donne, ma chi preferisce le forme tradizionali maschili può farlo (la grammatica non è un affare di «quote rosa», ma di regole).

Aperta parentesi storica: la dem Laura Boldrini ha sempre rivendicato l'uso del femminile da Presidente della Camera, ma Giorgio Napolitano quando si riferiva a lei, utilizzava il maschile. Chiusa parentesi.

Scegliere una parola al posto di un'altra è sempre un gesto politico, e lo si è visto subito, con le nuove denominazioni di alcuni ministeri. Ed è da tanto che le battaglie politicamente correttiste passano dal linguaggio di genere. C'è chi pretende di sostituire «padre» e «madre» con «Genitore 1» e «Genitore 2», e chi preferisce aggiungere al Ministero della famiglia la parola «natalità».

L'identità di un partito passa anche dalle parole.

Poi ci sono gli ostruzionismi ideologici. Appena Giorgia Meloni ha dichiarato che per le comunicazioni ufficiali userà il maschile «il» e non «la» Presidente, il sindacato della Rai è insorto. «Ricordiamo che il contratto Rai contiene al proprio interno il Manifesto di Venezia che fa preciso riferimento al linguaggio di genere, e che la policy aziendale indica di usare il femminile lì dove esista», ha spiegato l'Usigrai.

Insomma il sindacato Rai di fatto sta dicendo che Giorgia Meloni è libera di chiedere di essere chiamata come vuole, ma «altra cosa è il racconto giornalistico». E quindi non soltanto «nessun collega può essere obbligato ad usare il maschile», «anzi i giornalisti Rai sono tenuti a declinare al femminile i nomi». E quindi la sanzione: «Ordini di servizio o indicazioni in senso contrario verranno contestati dal sindacato nelle sedi opportune. Chiediamo alle colleghe (prima le femmine e i femminili, ndr) e ai colleghi (poi i maschi e i maschili, ndr) di segnalarci eventuali violazioni» (siamo alla delazione...).

Del resto, è curioso: a chiamarla «la» Presidente saranno proprio coloro che non vogliono accettare che la vittoria di Giorgia Meloni sia anche una vittoria per le donne.

Meloni premier, Palazzo Chigi chiarisce: "L'appellativo è questo". Il Tempo il 28 ottobre 2022

Come va declinata la carica di Giorgia Meloni? Qualche giorno fa, il neo premier, aveva chiesto di essere chiamato il Presidente del Consiglio dei Ministri, quindi con declinazione al maschile. La sua scelta pero' aveva scatenato pesanti polemiche, soprattutto dalle donne dell'opposizione.  

A chiudere la querelle sulla leader di Fratelli d'Italia è stata La7 che ha pubblicato la nota interna che  Palazzo Chigi ha inviato a tutti i ministeri. Nel comunicato è riportato quanto segue: "Per opportuna informazione si comunica che l'appellativo da utilizzare per il Presidente del Consiglio dei Ministri è: Il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Giorgia Meloni". La nota è firmata dal Segretario Generale, Carlo Deodato. 

Ossessione dem su "il" o "la" premier. Francesco Boezi il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Palazzo Chigi: "Si dice signor presidente". È polemica. Meloni: "Chiamatemi pure Giorgia..."

L'Italia vive una delle fasi più difficili della storia recente ma a sinistra trovano tempo di polemizzare sull'appellativo ufficiale con cui riferirsi al premier. Giorgia Meloni - è noto - ha scelto di essere chiamata «il presidente del Consiglio». I fautori del politicamente corretto, una volta appresa la notizia (ossia subito dopo il conferimento dell'incarico), hanno detonato. Nella mattinata di ieri, è emersa una circolare ufficiale a firma del segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri, Carlo Deodato. Un documento in cui veniva specificato come la Meloni sarebbe stata chiamata «Signor presidente del Consiglio». E questo per via della formula ritenuta più «corretta» dall'Ufficio del Cerimoniale di Stato e per le Onorificenze. Una nota appena successiva, però, ha fatto presente come la Meloni avesse domandato di essere chiamata «il presidente del Consiglio» e basta. Questione chiusa? Neppure per sogno, perché buona parte dell'opposizione, nel frattempo, aveva già deciso di concentrare i suoi comunicati stampa e le sue prese di posizione sull'argomento. Se è vero che le parole sono pietre e che il linguaggio è costitutivo del potere, è vero pure che le questioni meriterebbero un'attenzione proporzionata al momento storico vissuto. Niente da fare: «E io che pensavo che la priorità di Palazzo Chigi fosse quella di dare una risposta all'emergenza carobollette, al costo della vita con il boom inflazione, di dare un contributo alla pace in Europa e invece era il Signor Presidente», ha scritto via Twitter Nicola Fratoianni. Quello del vertice di Sinistra italiana è una sorta di paradosso: lamentarsi per il tempo perso sulla declinazione dei ruoli, occupandosene. «Con il nuovo corso, Palazzo Chigi affronta la principale emergenza del Paese. Bene», ha annotato l'ex ministro del Lavoro Andrea Orlando, che sta provando a recitare la parte del megafono della sinistra dem. Poi è arrivato pure il capo grillino Giuseppe Conte: «Sissignora! Gradiremmo sapere da Palazzo Chigi anche come vuole sostenere famiglie e imprese sul carobollette, visto che il presidente del Consiglio nel suo discorso di fiducia non ci ha dato nemmeno un indizio». E via così, lungo una giornata disseminata da polemiche portate in maniera strumentale su un livello più alto del consueto. L'assoluta mancanza di argomenti di peso dimostrata a sinistra di questi tempi necessita del resto di essere sostituita in qualche modo.

Il presidente Meloni ha detto la sua in serata: «Leggo che il principale tema di discussione di oggi - ha scritto via social - sarebbe su circolari burocratiche interne, più o meno sbagliate, attorno al grande tema di come definire la prima donna presidente del Consiglio. Fate pure. Io mi sto occupando di bollette, tasse, lavoro, certezza della pena, manovra di bilancio. Per come la vedo io, potete chiamarmi come credete, anche Giorgia».

"Lei è il premier, io sono il direttore". Beatrice Venezi come Giorgia Meloni. In esclusiva a ilGiornale.it, Beatrice Venezi rivendica il diritto di essere chiamata direttore d'orchestra: "Riconosciamo la funzione per riconoscerne il merito". Francesca Galici il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Beatrice Venezi è il direttore d’orchestra, Giorgia Meloni è il presidente del Consiglio. Sono due donne che hanno scelto di anteporre il ruolo, che non ha genere, alla loro persona in ambito lavorativo. Una scelta che, sia per l’una che per l’altra, è stata foriera di polemiche e critiche da parte delle femministe, davanti alle quali hanno deciso di fare spallucce, portando avanti una vera rivoluzione, di fatti e non di parole. Beatrice Venezi è la madre di questa battaglia nel nostro Paese da quando, durante la sua partecipazione a Sanremo, ha rivendicato il diritto a farsi chiamare direttore, attirando addosso critiche e anche insulti. A ilGiornale.it ha spiegato il suo punto di vista su questa polemica.

Cosa ne pensa delle polemiche sulla scelta di Giorgia Meloni di farsi chiamare “il” presidente?

Sterili, come tutte le polemiche di questo tipo. Come del resto è stato debole l’attacco che ha ricevuto sul pericolo delle donne che rimangono un passo indietro rispetto agli uomini.

È stata una delle prime a rivendicare il diritto a mantenere la declinazione al maschile per il tuo ruolo, cosa significa questo per lei?

È fondamentale e sono contenta di vedere il trend anche nel mondo. Per mia formazione e per lavoro mi confronto con l’estero e vedo che non è solo una mia idea. È il tema che viene affrontato in Francia in questi mesi, dove autrici e scrittrici che hanno sollevato una polemica sul fatto che vogliono essere chiamate “autori” e non “autrici”. Nell’ottica di una pari retribuzione, di una pari dignità del lavoro e opportunità. Ed è questo quello che dico io quando rivendico di essere direttore d’orchestra: riconosciamo la funzione e diciamo che ha la stessa validità, lo stesso peso, la stessa retribuzione e la stessa opportunità, sia che si tratti di una donna che di un uomo. Così ne riconosciamo il merito.

Un riconoscimento del merito, quindi, e non una sterile “battaglia della quota rosa”?

A me ha fatto molto piacere che la parola “merito” sia venuta fuori fin dai primissimi giorni di governo, perché è ciò che nel nostro Paese manca, ossia la pura ed esclusiva valutazione del merito al di fuori di qualsiasi altra logica, politica o partitica, di appartenenza a un genere o a un gruppo, che alla fine diventa lobby. La parola merito fa molto bene alla nostra pubblica e privata amministrazione.

Quindi rivendica il diritto di essere chiamata “il direttore” anche in lotta al “patriarcato”?

Assolutamente sì.

Le femministe, invece, accusano la Meloni di fare l’opposto: di farsi chiamare “il presidente” per appoggiarlo. Cosa ne pensa?

Io rivendico esattamente il contrario. Cosa c’è di più grande nella lotta al patriarcato di una donna presidente del Consiglio? Già di per sé sarebbe sufficiente questo. Le è stata mossa l’accusa di assenza di quote rosa nel governo: alla fine ha fatto una scelta di merito.

A Giorgia Meloni viene riconosciuta la leadership femminile ma la si accusa di non essere femminista.

Forse non è una femminista sessantottina, ma grazie a Dio, visti i risultati di quel femminismo oggi, non all’epoca, quando aveva motivo di esistere. Oggi è superata come visione. Oggi dobbiamo parlare di pari retribuzione ma non viene fatto.

Lei e Giorgia Meloni siete arrivate al vertice delle vostre carriere per merito, non per le quote rosa. Lo considera un valore aggiunto?

Questo dimostra a maggior ragione che le quote rosa non servono a nulla. È il modo estremamente maschilista di tenere a bada le donne. Significano: “Non sforzarti di essere la migliore all’interno di un gruppo, tanto ti do il tuo posticino”. La presenza della Meloni a Palazzo Chigi manda in corto circuito la sinistra. Perché questa rivoluzione, quasi copernicana, non solo viene da una donna, non solo viene da una donna che è arrivata lì senza le quote rosa ma viene da una donna cresciuta all’interno di un partito conservatore di destra.

Come si sente a essere stata la prima in Italia a chiedere di anteporre il ruolo alla persona?

Mi fa piacere che ancora oggi ci sia un dibattito. Credo che, anche con l’esempio lampante di Giorgia Meloni, tutto assuma un significato ancora più profondo e innovativo.

“Ridicola”. La Lucarelli attacca (ancora) la Meloni. Il volto di “Ballando con le stelle” torna sulle discussioni lessicali sul presidente del Consiglio Giorgia Meloni e continua a "regalare" insulti. Massimo Balsamo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Continua la crociata delle donne di sinistra contro Giorgia Meloni. Qualsiasi cosa è utile per attaccare chi ha fatto la storia, si sa, e l’ostinazione di alcuni soggetti meriterebbe un premio. In prima fila contro il presidente del Consiglio troviamo Selvaggia Lucarelli, da giorni impegnata a spargere odio contro il primo premier donna. La nota diramata dal segretario generale della presidenza del Consiglio, Carlo Deodato, ha consentito alla giudice di Ballando con le stelle di continuare la tiritera.

Il nuovo affondo di Selvaggia Lucarelli

"Tra un po’ chiederà che la si chiami Giorgio. P.s. Ora sappiamo quale dote le manca di sicuro: il senso del ridicolo. Fossi un avversario politico comincerei a lavorare su questo": così la Lucarelli in un post diffuso sui social network. Non paga, l’ex concorrente de La fattoria 3 ha proseguito la sua offensiva anche attraverso le storie di Instagram: “Guardate che questa cosa della circolare ‘signor presidente’ per gli avversari dovrebbe essere un elemento interessantissimo, rivelatore. Meloni vuole avere l’ultima parola e se le sembra di non averla è disposta ad auto ridicolizzarsi. L’orgoglio è il suo tallone d’Achille”.

“La Meloni rosica”

Sfoderando la parlata romana, la Lucarelli ha poi provato a buttare nel calderone anche il dossier gender e i bimbi: “Ma poi stai lì da anni a scassarci con la storia che non bisogna confondere i bambini e il gender e blabla e poi uno come glielo spiega a un poro ragazzino o a una pora ragazzina che abbiamo una presidente donna nata donna che si sente donna ma che vuole farsi chiamare ‘il signor’? Poi dice che crescono confusi e senza capirci un cazzo. Colpa di Giorgia Meloni”. Il gran finale – per il momento, forse, purtroppo – è il paragone tra il premier e Chiara Nasti, utile solo a cercare di racimolare qualche follower in più: “Comunque io la amo Giorgia Meloni perché rosica come una Chiara Nasti qualsiasi”. Azzeccatissimo, non c’è dubbio. Manca solo la paletta da giudice di Ballando con le stelle.

Da adnkronos.com il 24 Ottobre 2022.

"Giorgia Meloni è una donna unica nella storia d'Italia: invece di piagnucolare per le quote rosa ha preso il timone di una nave che affonda e naviga con le idee chiare". Non usa giri di parole Tinto Brass, il maestro del cinema erotico italiano, per commentare con l'AdnKronos l'inizio del nuovo governo guidato dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. 

"La sinistra - rileva Brass - ha tradito le donne. Allora io preferisco parlare con Giorgia piuttosto che con Letta o Renzi, forse perché alla inettitudine prediligo il coraggio". Oggi, fa notare il regista, tornano parole come Dio, patria e famiglia, "valori in nome dei quali tutti i miei film, 29 su 30, sono stati censurati.

Fascismo? Non è la parola giusta. E' del tutto naturale che movimenti reazionari guadagnino spazio in questo momento di crisi. Sono loro la migliore espressione della disperazione di un popolo. Ma chi preferisce dare spazio a politiche identitarie invece che accogliere le differenze può provocare enormi violenze ed esserne travolto. Lo sappiamo come va a finire, sono le dinamiche del potere ma per questo bisogna aspettare un po'". 

Quanto ai nuovi dicasteri, "scorrendo la lista leggo che c'è il ministero della Famiglia, Natalità e Pari opportunità...ma cara Giorgia - dice ironico Brass - per incentivare la natalità non sono necessari dei bonus o dei voucher: la sera basta proiettare i miei film erotici in tutte le sale italiane con ingresso gratuito".

Meloni premier fa l’Italia più “progressista” e mette in crisi visione e metodo di sinistra: ecco perché. Carmelo Briguglio su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.

Giorgia Meloni mette in crisi la cultura della sinistra. E certo, figuratevi se non capisco l’effetto della botta dalla quale il fronte progressista si deve riprendere. L’Usigrai e la “resistenza determinativa” a “il” in nome del “lei” sono un sintomo di reazione alla Reazione; d’accordo, leggero e ridévole, direte. Invece, é meno soft di quanto immaginiate. Riflettete e analizzatela: non é crisi solo politica. É transpolitica: culturale, estetica; é storica. Taglia alle radici la “ragione” dell’essere progress. Se la prima donna nella storia d’Italia a diventare capo del governo italiano é di destra, la questione é più profonda; mette in discussione non solo e non tanto l’attuale o le attuali leadership della sinistra, ma tutta la sua storia nel dopoguerra; ne interroga in modo traumatico percorso, visione e metodo. 

Giorgia Meloni mette in crisi la cultura della sinistra

E ne fa vacillare – é questo su cui richiamo il vostro pensare – le “politiche dei diritti”, quelli di nuova generazione: l’uguaglianza sostanziale, le politiche di genere, ossia i quark del suo universo valoriale. Insomma mette in dubbio che la “rive gauche” sia tuttora tra «queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive» del nostro conte-poeta Giacomo. L’ingresso della Meloni a Palazzo Chigi incide crepe nella “loro” simbologia, col suo incrocio di significati e luoghi generatori di senso; fende architetture verbali e formali: spesso solo astrazioni intellettualistiche con scarsa adesione alla realtà. Che sono state costruite sulle politiche di genere, sulla condizione femminile, su parità e pari opportunità; con tutto il seguito di eccessi in legislazioni e assessorati ad hoc; di progettualità pseudo-filosofiche: il non poco di sovrastrutture di immagine e superficie.  

La Meloni emancipa l’Italia anche sul “loro” terreno

Una psicosfera sopraffatta dal principio di realtà che si invera così: la conservative Meloni, diventando presidente del Consiglio, emancipa l’Italia, anche sul “loro” terreno: la rende più “progressista”. E, qualche minuto di attenzione, intendo in quel campo tanto contemporaneo ed “europeo”, qual é quello del Genere. Come, perché ? Ah, ragazze e ragazzi miei: quanto ancora devo scrivere per farvi comprendere la rupture-radicale – eh sì, radicale – di questa svolta? Quanti tasti e quante volte devo ancora pigiare ? Non lo sapete ? Ecco qua. Nell’indice Eige sull’uguaglianza di genere 2021 l’Italia ha un punteggio di 63,8 su 100; siamo sotto la media europea: solo al 14° posto tra i 27 Stati membri dell’Ue. Siamo più giù dei maggiori Paesi dell’Unione: Francia, Germania, Spagna. E molto lontani da quelli del Nord Europa, naturalmente. Un altro minuto per dare uno sguardo al mondo; guardate un po’ qui: l’analisi 2021 del World economic forum sul Global Global Gender  Gap – “Gender” non vi piace eh, ma dài non siate sospettosi –  l’Italia é 63esima su 156 Paesi. 

La dea Uguaglianza e le disparità italiane

Hanno misurato la nostra disparità di genere nel campo della politica, dell’economia, dell’istruzione e della salute, chiaro ? Lascio perdere i primi della classe, i soliti “nordici”; ma, cavolo, siamo il fanalino di coda – ultimi dati, giuro, poi vi lascio in pace – tra i Paesi europei: la Germania é all’11° posto, la Spagna al 14° posto, la Francia al 16°, il Regno Unito al 23°.  Mi fermo: le statistiche sono dure da ingoiare, sono fredde e in questo caso pure negative. Ma aiutano a ragionare. E passo a un filone parallelo, dove volevo portarvi. Alla Costituzione. Ah, quanto fu e viene evocata, “contro”. Occhei, ci sto. 

L’articolo 51 della Costituzione: attuarlo ora é più facile

Ma, ricordate l’articolo 51 della Carta più bella del mondo che dice? Ripassiamone il primo comma: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Ricordate quando fu cambiato? Ve lo dico io: nel 2003 con voto bipartisan, a larga maggioranza (era premier Berlusconi); la legge costituzionale n. 1 vi aggiunse il secondo periodo della norma. Vi risparmio tutto il “giuridico”, le sentenze della Consulta et cetera.

Da Giorgia Meloni la più puntuale attuazione della Costituzione

E andiamo al punto politico: in venti anni, abbiamo fatto qualche passetto in avanti, ma – vedi i numeri sopra – siamo tuttora “arretrati”, per dire: la Dea Uguaglianza sta male in Italia. Ma – vedi un po’ tu che scherzi combina l’eterogenesi dei fini – il prossimo anno solo il fatto che una donna sia diventata capo del governo, ci farà scalare molte posizioni in quelle graduatorie planetarie. Certo numeriche, ma anche “culturali”; di considerazione tra istituzioni internazionali che a questo tipo di “cultura” guardano; con cui ci pesano come Nazione.

Le classifiche mondiali diranno che l’Italia é diventata più moderna, più progressista, più al femminile, più paritaria

Diranno – a denti larghi o stretti, non vi so dire – che l’Italia é diventata più moderna, più progressista, più al femminile, più paritaria: più quello che vi pare, ci siamo capiti. E soprattutto – seconda conclusione – é la Meloni a “fare” la più puntuale attuazione della Costituzione e di quell’articolo 51. Con la sua persona: ne sarà la metafora viva; modello e stimolo per tutte le italiane. Nella società e nelle istituzioni. Oltre la destra e la sinistra. Chi lo doveva dire? E sì, la storia delle idee si prende le sue rivincite; lo sapevate, no? 

Il Papa: «La famiglia è fatta da un uomo e una donna che creano. Le ideologie distruggono tutto». Valeria Gelsi  su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022. 

Il Papa è tornato a puntare l’indice contro le ideologie che «rovinano» e «fanno una strada di distruzione». Stavolta l’ha fatto parlando della famiglia che, ha avvertito, «non è un’ideologia, è una realtà», «fatta di un uomo e di una donna che si amano e creano». È partendo da qui, dunque, è stato il monito del Pontefice, che «la cultura della fede è chiamata a misurarsi, senza ingenuità e senza soggezione, con le trasformazioni che segnano la coscienza attuale dei rapporti tra uomo e donna, tra amore e generazione, tra famiglia e comunità».

Il Pontefice racconta «la più bella teologia sulla famiglia»: una coppia sposata da 60 anni

L’occasione per tornare a riflettere non solo sulla famiglia, ma sulla portata distruttiva delle ideologie è stata per Bergoglio l’udienza con la Comunità accademica del Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia. «Per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto: le ideologie rovinano, si mischiamo e fanno una strada di distruzione. Non dobbiamo aspettare che la famiglia sia perfetta, per prenderci cura della sua vocazione e incoraggiare la sua missione», ha detto il Papa, raccontando a braccio un aneddoto di «quando facevo il saluto in piazza prima della pandemia». «È venuta una coppia, sembravano giovani: 60 anni di matrimonio. Lei a 18, lui a 20… “Non vi annoiate dopo tanti anni? State bene?”. Si sono guardati, se ne sono andati e sono tornati un’altra volta. Piangevano: “Ci amiamo”. Dopo 60 anni. Questa – ha sottolineato il Papa – è la più bella teologia sulla famiglia che ho visto».

«Noi non siamo profeti di sventura, ma di speranza»

«La missione della Chiesa sollecita oggi con urgenza l’integrazione della teologia del legame coniugale con una più concreta teologia della condizione famigliare», ha spiegato Bergoglio, sottolineando che «le inedite turbolenze, che in questo tempo mettono alla prova tutti i legami famigliari chiedono un attento discernimento per cogliere i segni della sapienza e della misericordia di Dio». «Noi non siamo profeti di sventura, ma di speranza. Perciò, nel considerare i motivi di crisi, non perderemo mai di vista anche i segni consolanti, a volte commoventi delle capacità che i legami famigliari continuano a mostrare: in favore della comunità di fede, della società civile, della convivenza umana. Tutti abbiamo visto quanto siano preziose, nei momenti di vulnerabilità e di costrizione, la tenacia, la tenuta, la collaborazione dei legami famigliari». «Molto, in questa società piena di crepe, dipende dalla ritrovata letizia dell’avventura famigliare ispirata da Dio», ha osservato il Pontefice.

Il Papa: «La famiglia non è un’ideologia, è una realtà»

«La qualità del matrimonio e della famiglia – ha detto ancora Francesco – decide la qualità dell’amore della singola persona e dei legami della stessa comunità umana. È perciò responsabilità sia dello Stato sia della Chiesa ascoltare le famiglie, in vista di una prossimità affettuosa, solidale, efficace: che le sostenga nel lavoro che già fanno per tutti, incoraggiando la loro vocazione per un mondo più umano, ossia più solidale e più fraterno». «Dobbiamo custodire la famiglia ma non imprigionarla, farla crescere come deve crescere. Stare attenti alle ideologie che si immischiano per spiegare la famiglia dal punto di vista ideologico. La famiglia non è un’ideologia, è una realtà. E una famiglia cresce con la vitalità della realtà. Ma quando vengono le ideologie a spiegare o a verniciare la famiglia succede quello che succede e si distrugge tutto. C’è una famiglia che ha questa grazia di uomo e donna che si amano e creano, e per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto, non alle ideologie».

Dal centrosinistra i complimenti delle donne a Meloni: «È tutto quello che non siamo». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

Chiara Geloni, Elisabetta Gualmini e Alessia Morani applaudono il risultato della leader di FdI e di come lei sia riuscita a farcela «senza meccanismi di cooptazione»

Apprezzamenti anche da esponenti del mondo del centrosinistra per la neo premier Giorgia Meloni. A farli sono state tre donne, che hanno aderito o tuttora aderiscono al Pd, con parole dirette e cariche di autocritica. A esprimerle la giornalista Chiara Geloni, ex direttore del canale tv Youdem, un tempo vicina al segretario Pier Luigi Bersani di cui è stata portavoce e poi in rottura con il partito durante la leadership Matteo Renzi, che ha scritto su Twitter: «Ma basta con questa storia della prima donna. È molto di più della prima donna a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni. È una donna con un curriculum di partito e di origini familiari modeste che a 45 anni arriva a Palazzo Chigi. È una che arriva a fare la presidente del Consiglio partendo dall’organizzazione giovanile del suo partito. È tutto quello che non siamo a sinistra». Quindi la frecciata: «È il contrario del politicamente corretto da fighetti tanto bravi a declinare le desinenze. È il contrario di entrare nel gruppo dirigente per aver azzeccato un discorso contro il gruppo dirigente che è piaciuto ai giornali. È il contrario dell’eterno papa straniero in arrivo. E per questo è una storia che parla alle bambine e ai bambini di questo Paese. Scusate lo sfogo».

Complimenti misti ad autocritica anche da Elisabetta Gualmini, eurodeputata pd e da pochi giorni vicepresidente dell’Eurogruppo socialisti e democratici, che via Facebook ha scritto: «In bocca al lupo e complimenti a Giorgia Meloni per l’incarico ricevuto e accettato. Prima donna presidente del Consiglio in Italia. È arrivata lì senza meccanismi di cooptazione. Andrebbe fatta una vera riflessione. Possiamo dire che è un vero e proprio smacco per il centro-sinistra e la cultura cd. progressista? Sì, possiamo dirlo».

A Twitter e Instagram si è affidata poi Alessia Morani, ex deputata ed ex sottosegretaria allo Sviluppo economico con Giuseppe Conte premier, prima scrivendo: «Complimenti a Meloni. Sulla catastrofe del Pd e del centrosinistra ne parleremo diffusamente». Poi sottolineando: «Sono lontana anni luce politicamente e culturalmente da Giorgia Meloni, ma vedere tutti quei maschi dietro di lei (Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Antonio Tajani, ndr) con quelle espressioni tra il fastidio e l’imbarazzo dà una certa soddisfazione. Questa immagine cambia la storia del nostro Paese. Finalmente una donna che “guida”. Ps: guardate le espressioni dei singoli».

L'ex Procuratore Aggiunto. Gli auguri di Ilda Boccassini a Giorgia Meloni: “Che non viva quello che ho vissuto io”. Redazione su Il Riformista il 24 Ottobre 2022 

Ilda Boccassini espresso i suoi auguri alla nuova Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “Che non viva ciò che ho vissuto io”, ha detto l’ex procuratore aggiunto della Repubblica intervenuta ieri sul palco de L’Eredità delle Donne, il festival sulle competenze femminili in corso a Firenze. L’ex magistrata italiana è stata intervistata dal giornalista e scrittore Gad Lerner.

Boccassini ha cessato il suo incarico nel 2019. Ha ripercorso la sua carriera in un libro pubblicato l’anno scorso dall’editore Feltrinelli, La stanza numero 30. Quando nel 1979 arrivò alla Procura di Milano Il Corriere della Sera scrisse che “il lavoro inquirente poco si adatta alle donne: maternità e preoccupazioni familiari male si conciliano con un lavoro duro, stressante e anche pericoloso”. Ha lavorato con Giovanni Falcone nell’indagine sulla mafia a Milano Duomo Connection e sugli attentati allo stesso Falcone e al giudice Paolo Borsellino.

Al ritorno a Milano dalla Sicilia è subentrata nel pool dell’inchiesta Mani Pulite ad Antonio Di Pietro e ha diretto indagini sulle Nuove Brigate Rosse. Soprannominata Ilda “la rossa” ha lavorato ai processi a Berlusconi. A Imi-Sir, Lodo Mondadori, Toghe sporche e fino al cosiddetto caso Ruby. “Quando sono usciti i ministri ho avuto un momento di vertigine – ha detto al Festival Boccassini – . Mi sono ritrovata con più di undici, dodici, tredici persone, tutti, dal sottosegretario alla presidenza, ai ministri, tutti si erano occupati di me. Quindi non so se dovrei essere orgogliosa oppure se anche in pensione temere”, ha aggiunto con ironia.

Lerner le ha quindi chiesto dell’“ascesa a Palazzo Chigi di una donna, Giorgia Meloni, che viene da un mondo all’interno del quale a essere gentili, la tradizione ‘virilista’ è piuttosto affermata”, la domanda del giornalista. “Premesso che come buona cittadina non posso che augurarmi che questo governo duri perché sennò andiamo in una crisi profonda. L’altro giorno guardavo la scena del compagno con la figlia mentre lei giurava,: quelle immagini mi hanno fatto tenerezza”.

“Io quindi non so che cosa ci aspetterà il futuro, che cosa sarà in grado di fare – ha aggiunto sempre su Meloni – . Ho altre idee sui diritti, io penso che su alcune cose non c’è né destra né sinistra, perché rispettare il prossimo, la solidarietà, concedere alle donne di abortire in maniera più pacata possibile di un trauma, perché è un trauma comunque l’aborto, sono valori che non appartengono a un partito politico. Però ritengo che siamo una democrazia con tutte le possibilità di difendere i nostri diritti”.

“Però vedere queste immagini mi ha fatto tenerezza, non so come spiegare ma guardavo più a questo. Spero che io non viva quello che ho vissuto io, considerati gli attacchi che ha subìto negli ultimi giorni. Mi auguro per lei che sia forte, perché bisogna essere forti, poi si può affrontare qualsiasi cosa. È dura però è bello, io alla fine oggi mi dico: è stato duro però è la mia vita. Si sbaglia, si riprende”.

Comunismo e femminismo pari sono: ecco perché la premier donna agita la sinistra. Francesca De Ambra  su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022. 

È prima volta di una donna a Palazzo Chigi, ma le vestali del femminismo si bardano a lutto: «Una di noi Giorgia Meloni? Jamais». Diversamente, ragiona Laura Boldrini, oltre ai Fratelli avrebbe evocato anche le Sorelle d’Italia. Non fa una piega. E non è tutto: sull’Huffington Post la comunista Ritanna Armeni ha fatto un po’ di conti, concludendone che con sei donne ministro su 24 hai voglia a parlare di politiche al femminile. Persino se chi dirige l’orchestra è pure lei donna. E poi ci sono quelle storcono il naso per il “retaggio culturale missino” o alzano il sopracciò per il mancato “passato femminista“. Insomma, da qualunque parte la si guardi e da qualsiasi lato la si giri, la Meloni ha non è né mai sarà (meno male) una di loro.

Il patriarcato ha sostituito il padronato

E si capisce: predilige autodefinirsi “il premier” anziché “la premier” (con evidente disappunto dell’Usigrai, il sindacato simil-sovietico dei giornalisti Rai), “il presidente” piuttosto che “la presidente“, buttando così alle ortiche decenni di “conquiste“, soprattutto boldriniane. Ma tant’è: la Meloni è per la complementarità uomo-donna, le femministe doc si battono invece per la demolizione del patriarcato come nuovo simbolo, anzi reincarnazione, del padronato. Il sovvertimento degli equilibri è infatti il punto in cui comunismo e neo-femminismo s’intrecciano fino a fondersi.

Il femminismo surrogato della lotta di classe

Anzi, si può ben dire che il secondo sia divenuto il surrogato del primo. Laddove il comunismo ha perso la sua battaglia contro il capitalismo, è spuntato il nuovo femminismo a fare da contrappunto ad un insistente patriarcato, inteso come nuovo strumento oppressivo. Dalla lotta di classe alla guerra dei sessi. Robe da Ztl. Infatti la sinistra radical-chic non parla d’altro. Non per caso scarica la propria úbris sovversiva sulla cosiddetta questione di genere. E anche con grande compiacimento dei padroni del vapore, cui non sembra vero poter approfittare di una sinistra in tutt’altre faccende affaccendata per fare il proprio comodo nel campo dei diritti sociali e del lavoro. Almeno fino a quando non arriva qualcuno a dare voce alle istanze reali della gente in carne e ossa. Esattamente quel che in Italia ha fatto Giorgia Meloni.

Dagospia il 23 ottobre 2022. Dall’account twitter di Selvaggia Lucarelli

Giorgia Meloni abbandona il palazzo a bordo di una Audi. Direi che urge un ministero della sovranità automobilistica. 

La risposta di Andrea Di Caro

E’ uscita di corsa per venire a salutare mio nipote Francesco Valdiserri, 18 anni: c’era il funerale è non è voluta mancare . Mia sorella Paola segue la Meloni per il corsera… la battuta sulla macchina ci sta lo stesso L, ma volte sapere le cose aiuta a decidere se è il caso

Da ilmessaggero.it il 23 ottobre 2022.  

Arriva con la sua auto, la 500 X bianca, e va via con l'Audi A6 grigio presidenziale messale a disposizione da Palazzo Chigi, perché intanto è diventata premier incaricata. Giorgia Meloni sala sulla berlina e fa il pollice all’insù del tutto bene. E va via dal Colle. Le sue auto posteggiate nel cortile rappresentano la vita di prima e la vita di adesso. «Cercherò di cambiare vita il meno possibile», è la promessa che lei ha fatto a se stessa, «ma so che non sarà facile».

Ivan Rota per Dagospia il 24 Ottobre 2022.

Selvaggia Lucarelli, giornalista e giurata di Ballando con le Stelle, ha scatenato un putiferio dopo un tweet contro Giorgia Meloni: “Abbandona il palazzo a bordo di una Audi. Direi che urge un ministero della sovranità automobilistica”. 

Il riferimento era alla vettura tedesca usata per lo spostamento. Alla influencer aveva risposto tramite tweet il giornalista Andrea Di Caro, fratello di Paola Di Caro, firma di punta del Corriere della Sera e mamma di Francesco Valdiserri morto investito da un’auto. Di Caro, vicedirettore della Gazzetta dello Sport, ha voluto rispondere per chiarire i motivi tecnici: “Giorgia Meloni è uscita di corsa per venire a salutare mio nipote Francesco Valdiserri in chiesa”. E ha aggiunto in modo non polemico : “18 anni: c’era il funerale e non è voluta mancare. Mia sorella Paola segue la Meloni per il Corsera… La battuta sulla macchina ci sta lo stesso. Ma a volte sapere le cose aiuta a decidere se è il caso». 

Questo ha scatenato la polemica della Lucarelli con Pierluigi Battista: dice che la giornalista poteva dire scusa e non che lo zio del ragazzo volesse scatenarle addosso l’odio: “ Ma chi crede di essere? Una macchietta?”  E lei risponde: “ il familiare della vittima si risente per una battuta che non riguarda né la vittima né i funerali, ma la nascita di un ministero della sovranità di qualcosa. Spero che la tua sia soltanto malafede perché se non lo capisci si, come dici tu ,solo rincoglionimento senile.” 

E ancora : ”a parte la tua disonestà nel fingere di non aver capito una battuta che non c’entrava niente con il funerale, deo dire che i tuoi “brava”, “coraggiosa”, “fantastica” scritti a me in privato siano stati scritti da una macchietta che si spaccia per te”.  Una internauta ha appoggiato Selvaggia dicendo che il marito francese ha piú volte notato la nazionalità straniera delle auto blu e che nessuno (?) sapesse dove andava Giorgia Meloni. Ora tutti sanno che andava al funerale del figlio di un’amica e in questo caso la “nazionalità” di un auto passa in secondo piano.

Giorgia Meloni preferisce un’Alfa Romeo per l’esordio a Palazzo Chigi. Stop alle auto tedesche. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Ottobre 2022. 

Per diversi governi si è trattato di un dettaglio automatico: le auto ufficiali utilizzate dai capi di governo della Repubblica italiana erano prevalentemente Lancia o Alfa Romeo, anche perché la casa del Biscione è appartenuta allo Stato fino al 1986. Poi le cose sono cambiate, la dotazione della presidenza del Consiglio si è allargata a marche differenti, anche straniere. Ad esempio le Audi di Silvio Berlusconi o, recentemente, le Volkswagen Station Wagon di Mario Draghi. Oggi c’è stato il ritorno dell’Alfa. 

Il nuovo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha voluto un auto italiana ed ha viaggiato su un’Alfa Romeo per farsi accompagnare alla prima riunione dell’Esecutivo da lei diretto, nella mattinata di domenica 23 ottobre, in cui è avvenuto il rituale passaggio di consegne col suo predecessore. La cosiddetta “cerimonia del campanello” (lo strumento che il capo del Governo utilizza per avviare le riunioni all’ordine del giorno), consegnatole da Mario Draghi.   

A scortare l’Alfa Romeo Giulia in cui viaggiava la Meloni, un’altra Alfa: un Suv Stelvio per gli agenti della scorta. Quello col Biscione è il secondo “trasporto” per il nuovo capo del Governo da quando il presidente della Repubblica ha affidato l’incarico governativo alla vincitrice delle elezioni del 25 settembre. Sabato per il giuramento sull’Audi A6 blindata, perché formalmente non era ancora presidente del Consiglio. Ma, dopo la cerimonia, Giorgia Meloni ha chiesto proprio un’auto italiana. Che è tra le sue preferenze, utilizzando come vettura personale una Fiat 500X. Presto arriverà una Stelvio blindata per il nuovo premier che con la sua scelta vuole far capire a tutti di essere italiana a 360°

Auto, tailleur e anello. E poi il piccolo giallo del cambio delle scarpe. La scelta di essere se stessa, veloce e concreta. Arriva con le "derby" e se ne va con i tacchi. Valeria Braghieri il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Nel modo in cui si porta, c'è tutta lei. Che oscilla tra il rigore da generale prussiano di una scarpa «derby», e la femminilità «ninnoleggiante» e tradizionalissima di un braccialetto in brillanti modello tennis, che per certe donne è un approdo sulla riva di quelle che ce l'hanno fatta. Per certe donne... Non certo per lei che due giorni fa è entrata nella storia, sai cosa gliene frega di sentirsi arrivata grazie a un gingillo, a Giorgia Meloni? Eppure immaginiamo che, negli ultimi giorni, le scelte estetiche abbiano egemonizzato parte delle sue preziose energie. Un po' perché la circostanza, e l'attenzione nei confronti della circostanza da parte delle tv e dei giornali di tutto il mondo, avrebbero impensierito per un attimo persino Daniela Santanché e la sua mirabolante cabina armadio; un po' perché, immaginiamo che, le frivolezze che fanno di norma squittire estasiate le altre donne, siano in realtà, per il neo premier Giorgia Meloni, una seccatura. Magari non abbiamo capito nulla (il che è drammaticamente probabile) ma non riusciamo a credere che Giorgia esca di casa divertita all'idea di andarsi a comprare un paio di scarpe o di cercare una borsa proprio di quella forma, esattamente di quel colore. Chissà perché, ce la vediamo più grugnire all'idea di dover svolgere l'incombenza. Fatto sta che per il giuramento si dev'essere impegnata parecchio e ha intelligentemente risolto come risolvono tutti quelli che non hanno voglia di occuparsi delle stile: scegliendo il nero (o blu scurissimo che fosse). E declinandolo sul tailleur pantalone più anonimo di sempre. Può sembrare una non scelta, un'opzione vigliacca, ma non è vero: così, la si sfanga sempre. Angela Merkel aveva tutta una sua teoria sui tailleur e sul fatto di passare inosservati esteticamente ma impressi sostanzialmente. Della serie «sottovalutatemi pure, sarà divertente...». Quindi tailleur pantalone per il giuramento con Sergio Mattarella e tailleur pantalone (ma con camicia di seta bianca) per il passaggio di consegne con Mario Draghi. Solo che il giorno di Mattarella (cioè sabato), al momento della firma, sul polso e sull'anulare di Giorgia hanno fatto capolino bagliori sinistri: brillanti al braccio e alla mano (peraltro smaltata e curatissima). In un'esplosione di luce e vezzo che stridevano col rigore di tutto il resto. Molto più coerente, invece, il braccialettino tricolore di Cruciani sfoggiato sul polso sinistro. Più adatto a una mano normalmente attentata dagli sgarbi dal fare. Ma anche qui: brillanti e fili di cotone. Le due anime di Giorgia. Il giorno di Draghi, poi, (cioè ieri), il «dualismo» della signora di Palazzo Chigi si è espresso attraverso le scarpe. Un paio modello «derby» e quindi basse, comode, maschili, indossate per la durata del picchetto d'onore sui sanpietrini del cortile. Poco dopo, accanto al premier uscente, con in mano la campanella per la consueta cerimonia, Giorgia è magicamente ricomparsa in un paio di decollettè col tacco. Dove sia riuscita a fare il cambio, al riparo dalle telecamere e dagli obiettivi, è il mistero fitto di questa due giorni di furore. Che abbia ormai talmente tanta confidenza con Draghi da aver provveduto alla sostituzione durante il loro colloquio a porte chiuse?! Che l'ex presidente della Bce abbia preso in simpatia Giorgia è indubbio com'è altrettanto indubbio che a Giorgia, un mentore come Draghi, piaccia moltissimo. Comunque, derby e decolletè: «la» Giorgia e «la» Meloni. Due e inscindibili.

Come per le macchine, venerdì era arrivata al Quirinale sulla sua Cinquecento bianca, se n'era andata a bordo dell'Audi messa a disposizione dal Governo, e lei aveva garbatamente commentato: «Meglio un'italiana». Ieri, ad attenderla e a mitigare il suo disappunto, c'era un'Alfa Romeo «Giulia». La berlina di Stato e la Fiat personale. Di nuovo due donne in un corpo solo.

Le due anime di Giorgia che convivono e si vestono in contemporanea o in perfetta alternanza. Che arrivano al giuramento al Quirinale e al funerale al Testaccio, che si intrattengono con Draghi e Mattarella e si immergono nei bagni di folla alle feste con la salamella. La Garbatella e Palazzo Chigi, i tacchi e il carrarmato, i diamanti e i braccialetti di cotone. Tutto nello stesso fortunatissimo contenitore di un metro e sessantatre centimetri, tutto dosato alla perfezione perché non ci sia mai una parte che vince e l'altra che soccombe. Giorgia è una squadra, da sola. In un prolifero caos che non è mai imprecisione.

Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 24 Ottobre 2022. 

Dal Consiglio dei ministri numero 99, l'ultimo di Mario Draghi, alla riunione numero 1 del governo di Giorgia Meloni. Il primo Cdm della destra al potere inizia con la presidente emozionata che agita la campanella appena ricevuta dalle mani del predecessore - con il quale era rimasta a colloquio faccia a faccia per più di un'ora - e finisce mezz' ora più tardi, quando la leader di FdI scrive su Twitter: «Si comincia. Con molta emozione ma anche con la consapevolezza delle difficili sfide che ci attendono. Ora tocca a noi: siamo pronti». 

La crisi energetica ed economica bussa alle porte dell'Italia e la neo presidente sente di avere gli occhi del mondo addosso. «Dobbiamo dimostrare che saremo una grande sorpresa, soprattutto per chi parla male di noi», sintetizza le parole della premier Luca Ciriani, responsabile dei Rapporti con il Parlamento. Insomma, il primo monito di Meloni è per zittire i «gufi» e spronare tutti a mettersi subito al lavoro, anche perché «non abbiamo la stampa a favore, da parte di molti c'è diffidenza, se non ostilità».

Al grande tavolo rotondo siedono i 24 ministri, compresi i nove senza portafoglio a cui nel corso della riunione saranno attribuite le deleghe. Alla sinistra di Meloni c'è il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, a destra siede il vicepremier Antonio Tajani e a seguire l'altro numero due, Matteo Salvini. 

A quanto racconteranno i ministri, Meloni ringrazia il presidente Sergio Mattarella e richiama tutti a un concreto bagno di realtà: «Il tempo delle foto e delle cerimonie è finito.

La situazione del Paese è difficile. Quello che deve interessarci non è la crescita dei sondaggi, ma la crescita del Pil, dell'occupazione e della ricchezza. Gli italiani si aspettano moltissimo da noi, non possiamo deluderli».

Le settimane della formazione del governo sono state scandite anche da tensioni forti, le esternazioni di Berlusconi su Putin e Zelensky hanno lasciato cicatrici e Meloni ha chiesto ai tre partiti che la sostengono di fare gioco di squadra: «Governare è un onore e una grande responsabilità. Dobbiamo essere uniti, leali e responsabili. Dobbiamo ripagare con i fatti la fiducia che hanno riposto in noi i tanti cittadini che ci hanno votato. Vi prego di evitare personalismi e di non alimentare conflitti». 

Dopo la presidente hanno parlato Tajani e Salvini e l'unità d'intenti mostrata dai due, che proprio nel Cdm di ieri hanno preso possesso delle loro funzioni di vicepremier, ha colpito molti. «Questo governo durerà cinque anni - ha promesso il leader della Lega e ministro delle Infrastrutture -. Ma per farcela dobbiamo dimenticare che veniamo da partiti diversi».

L'inquilino della Farnesina, più emozionato di quando fu eletto per guidare il Parlamento Ue («oggi ho l'onore di servire il mio Paese da ministro degli Esteri»), ha insistito sulla necessità di «procedere uniti e compatti» per affrontare le emergenze. Meloni ha annunciato che Roberto Cingolani lavorerà con il nuovo governo come consigliere, «advisor dell'energia», a titolo gratuito: un altro elemento di forte continuità con Draghi, dopo la scelta di Giorgetti al ministero dell'Economia. 

Mantovano potrebbe avere anche la delega, delicatissima, ai Servizi segreti. Prima di riunire la squadra Meloni ha parlato con il predecessore, occhi negli occhi. Draghi le ha metaforicamente indicato le leve della stanza dei bottoni, senza tralasciare consigli sul piano del metodo. Il passaggio di consegne è stato così accurato e dettagliato che un collaboratore di Draghi ci scherzerà sopra, ma non troppo: «Il governo Conte non ci lasciò nemmeno un foglio di carta».

Ieri invece l'ormai ex sottosegretario Roberto Garofoli ha parlato 90 minuti con Mantovano, mentre il suo capo di gabinetto, Nicola Guerzoni, faceva il punto con l'omologa Daria Perrotta, che ha lavorato con Garofoli. Il sottosegretario di Draghi ha lasciato al successore due documenti con lo stato dei dossier, preparati grazie a una ricognizione in tutti i ministeri: in quelle pagine c'è il quadro dell'attività legislativa, amministrativa e dell'attuazione del Pnrr, con i termini da rispettare per ottenere i soldi dell'Europa.

Per prima cosa Giorgetti (Economia) dovrà fare la relazione al Parlamento per rendere utilizzabili i 9 miliardi maggiori entrate, l'ormai noto «tesoretto» lasciato dall'esecutivo uscente. Soldi destinati a finanziare un urgentissimo «decreto bollette» per aiutare famiglie e imprese. Finito il tête-à-tête fra Draghi e Meloni, vecchio e nuovo sottosegretario li hanno raggiunti: foto ricordo e altri 35 minuti per completare il quadro di scadenze e priorità.

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 24 Ottobre 2022. 

La prima volta si diedero del lei. Fu nei giorni delle consultazioni per il governo Draghi, quando Meloni si presentò davanti al premier incaricato per dirgli che «noi faremo l'opposizione. Ma sappia che gli avversari li avrà in casa». 

L'ex banchiere fu colpito da tanta schiettezza e dal «consiglio non richiesto» che ricevette: «Se posso, non stia a mediare. Perché appena lei concederà qualcosa, quelli ne pretenderanno altre». Nacque così un dialogo che ieri ha vissuto il suo momento istituzionale nel passaggio di consegne a Palazzo Chigi, dove l'uomo di Francoforte e la ragazza della Garbatella si sono dati del tu.

Un incontro avvenuto in un'atmosfera di cordialità: da una parte c'era chi si prepara a «viaggiare per un po' di tempo», dall'altra chi cela dietro il sorriso l'«angoscia della responsabilità». Certo, Meloni è parsa a Draghi piena di aspettative e assai motivata: «È sveglia lei», ha detto ai suoi collaboratori al termine del colloquio. Durante il quale il presidente del Consiglio uscente ha raccontato i dettagli dell'ultimo vertice europeo, lì dove l'Italia ha ottenuto «risultati inaspettati» sul tema strategico dell'energia.

E ora che sono state date «indicazioni stringenti» alla Commissione, toccherà al nuovo governo incalzare Bruxelles e martellare i partner per chiudere l'intesa. Per raggiungere l'obiettivo su un dossier che è molto tecnico, Meloni aveva già concordato con Draghi di inserire l'ormai ex ministro Cingolani come advisor nel suo gabinetto. E dato che in Europa il principale sostenitore del price cap è il presidente francese, è certo che i due hanno parlato di Macron, in vista del colloquio informale avvenuto in serata a Roma tra la premier italiana e l'inquilino dell'Eliseo. 

D'altronde l'ex capo della Bce riteneva «naturale» mettere Meloni nelle «condizioni di partire bene». L'ha fatto da civil servant, nell'interesse nazionale, consegnando anche una cartellina sui dossier più importanti: tra questi, i decreti legislativi da varare sulla concorrenza e il report sul processo di attuazione del Pnrr, con il monitoraggio sullo stato di avanzamento dei lavori. Inoltre ha informato la premier che il presidente del Consiglio di Stato Frattini invierà oggi la riscrittura del codice degli appalti, in anticipo rispetto ai tempi previsti.

Questa transizione ordinata rappresenta una novità nei meccanismi di relazione tra un governo e l'altro. E l'ora e venti di colloquio tra Draghi e Meloni rivela un rapporto che va oltre le formalità, per quanto l'ex governatore abbia fatto mostra di restare stupito dalla cosa. In realtà sa che non è così. Quando succedette a Conte, il colloquio durò appena cinque minuti: non ci furono battute, sorrisi e rinfresco. E tantomeno l'incontro venne suggellato con una foto, com' è accaduto stavolta. 

Ci sono ragioni politiche alla base di questo evento: il segno di una inevitabile continuità tra un governo tecnico e un governo nato dalla volontà popolare, che sarà chiamato a implementare il lavoro di chi l'ha preceduto, garantendo gli impegni del Paese sia sul fronte nazionale sia su quello internazionale. È una missione di cui la premier appena insediata ha contezza, pur rivendicando il profilo diverso del suo esecutivo.

Ma alla base del rapporto tra Draghi e Meloni ci sono anche ragioni di reciproca stima personale. Nonostante incarnino mondi diametralmente opposti, l'intesa si è saldata nel corso di venti mesi per nulla ordinari. Il salto di qualità avvenne il 24 febbraio, quando - racconta uno dei maggiori consiglieri del premier uscente - «da capo di partito Meloni diventò leader politico», sostenendo il governo sul conflitto ucraino: «Ci aiutò, mentre nella maggioranza affioravano dappertutto i malpancisti». Fu allora che Draghi commentò: «È leale, lei». 

Governo, Meloni non trattiene l'emozione davanti a Draghi: “Impattante emotivamente”. Il Tempo il 23 ottobre 2022.

È l’ora del cambio della guardia tra vecchio e nuovo governo dopo il giuramento effettuato ieri al Quirinale davanti a Sergio Mattarella. Mario Draghi ha accolto Giorgia Meloni sulla scalinata di palazzo Chigi, che conduce alla sala dei Galeoni dove si svolgerà il tradizionale passaggio di consegne. "Benvenuta", dice il premier uscente alla presidente del Consiglio. "Grazie. Questa sotto è una cosa un po' impattante, emotivamente...", risponde lei facendo riferimento al saluto del picchetto d'onore con il quale è stata accolta nel cortile di palazzo Chigi. Tra i due grandi sorrisi, strette di mano e un atteggiamento molto caloroso: Draghi non ha rancori con Meloni, a differenza di quanto successe a lui con Giuseppe Conte. Dopo averla accolta in cima alle scale il premier uscente e la nuova presidente del Consiglio si sono stretti la mano e concessi ai fotografi nella sala delle Galere di Palazzo Chigi. Subito dopo sono usciti dalla sala per un faccia a faccia nello studio del presidente.

Da repubblica.it il 24 Ottobre 2022. 

"La cerimonia è stata emozionante, davvero molto bello vederla giurare al Quirinale in un giorno che segna comunque un cambiamento epocale". Andrea Giambruno in serata racconta le emozioni provate nel giorno in cui la sua compagna Giorgia Meloni è diventata premier giurando sulla Costituzione davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nel Salone delle Feste al Quirinale, lui c'era insieme alla figlia Ginevra, sei anni ed elegantissima per l'occasione.

"È stata bravissima - dice il papà all'Adnkronos - all'inizio era imbarazzata: è un contesto al quale non è abituata, poi c'era una gran curiosità dei giornalisti, dei fotografi, ed era anche emozionata per la sua mamma". La priorità è tutelare la loro bambina, per questo la famiglia Giambruno-Meloni non 'traslocherà' negli appartamenti di Palazzo Chigi: "Fortunatamente abbiamo una casa, non abbiamo intenzione di far crescere lì nostra figlia Ginevra: sarebbe controproducente, sarebbe fuorviante".

"La priorità per noi è tutelare lei - spiega ancora Giambruno - farla crescere nella maniera più naturale possibile. Vogliamo che nostra figlia cresca in serenità, distante da realtà che marcherebbero la distanza con i suoi coetanei. Poi più andrà avanti con gli anni e più si renderà conto di avere una super mamma, ma anche una storia non consona a una bimba della sua età. Ora Ginevra è serena e quel che più conta, per me e Giorgia, è preservare questa sua serenità".

Giambruno racconta come la giornata è proseguita. Il resto del pomeriggio la premier l'ha trascorso in famiglia, dopo aver preso parte al funerale di Francesco Valdiserri, il giovane 18enne investito e ucciso la notte del 20 ottobre a Roma, in via Cristoforo Colombo, figlio di una coppia di noti giornalisti. "Un momento devastante", dice Giambruno. Poi la corsa a scuola di Ginevra, "per prendere parte alla festa dei nonni. Giorgia non poteva mancare, lei è davvero una super mamma. E poi come tutte le donne ha una marcia in più, è multitasking, riesce a fare più cose contemporaneamente". Il suo arrivo a Palazzo Chigi "lo abbiamo festeggiato ieri, a casa, con le persone più intime e a cui vogliamo più bene. Gli amici di sempre. Del resto il brindisi ci stava, non è che capiti tutti i giorni di diventare presidente del Consiglio".

Una premier che viaggerà, cercando di conciliare gli impegni del lavoro con quelli di famiglia. "Si, credo che inizierà a viaggiare parecchio, ma io non credo di seguirla in missione - risponde a chi gli domanda se viaggerà con lei - magari lo farò nelle occasioni in cui è più indicato, previsto dal protocollo. Io spero di poter continuare a fare il mio lavoro", rimarca Giambruno, giornalista di Mediaset.

Passaggio di consegne a Palazzo Chigi. Draghi si commuove per gli applausi dei dipendenti affacciati alle finestre. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Ottobre 2022.

Draghi ha passato in rassegna il picchetto d'onore nel cortile, prima di lasciare il Palazzo, e poi è stato accolto dall'applauso dei dipendenti della presidenza del Consiglio. Il video integrale della cerimonia di insediamento

Oltre un’ora di colloquio a quattr’occhi tra il Presidente del Consiglio uscente, Mario Draghi, e la premier in carica, Giorgia Meloni. Draghi lascia palazzo Chigi poco dopo mezzogiorno. Sono passati 20 mesi e dieci giorni dal suo giuramento del 13 febbraio 2021. “Benvenuta“, ha detto il presidente del Consiglio uscente alla neo premier che, alle 10.30, è arrivata a palazzo Chigi per la cerimonia della campanella, il tradizionale passaggio di consegne nella sala dei Galeoni. L’arrivo di Giorgia Meloni a palazzo Chigi è stato “annunciato” dagli applausi della folla di cittadini in attesa della nuova premier dietro le transenne lungo una via del Corso blindata. Altri cittadini restano all’ingresso di Piazza Colonna, anche questa chiusa in occasione della tradizionale cerimonia della campanella che si svolge a Palazzo Chigi. 

“Questa sotto è una cosa un po’ impattante emotivamente“, ha risposto la Meloni riferendosi al picchetto d’onore che l’ha omaggiata nel cortile. Prima del rito i due hanno avuto un colloquio di 90 minuti. “Si sente?” chiede Giorgia Meloni mentre emozionata e sorridente scuoteva la campanella appena ricevuta dalle mani di Mario Draghi formalizzando così il passaggio delle consegne. “Ciao Mario”, il saluto della Meloni a Draghi che ha lasciato Palazzo Chigi accompagnato da un lungo applauso dai dipendenti tutti affacciati alle finestre.  

Mario Draghi  con una scena che commuove i dipendenti del governo lascia Palazzo Chigi e conquista i social. L’ ex premier, dopo alcuni secondi seriosi in cui ha passato in rassegna il picchetto d’onore sul tappeto rosso, si è lasciato andare e ha salutato, commuovendosi, i dipendenti della presidenza del Consiglio che hanno cominciato ad applaudirlo dalle finestre. Draghi li ha salutati con le due mani prima di uscire da Palazzo Chigi e lasciarlo per l’ultima volta. 

Pochi minuti prima vi era stato il passaggio di consegne con Giorgia Meloni e la foto di rito insieme al nuovo premier, al nuovo sottosegretario Alfredo Mantovano a quello uscente Roberto Garofoli e al segretario generale uscente di palazzo Chigi, Roberto Chieppa.  

Il premier uscente ha salutato sorridendo i giornalisti prima di entrare in auto e lasciare la sede dell’esecutivo. Con il passaggio della campanella si concludono i suoi venti mesi di governo, iniziati il 13 febbraio 2021, quando Draghi ricevette la campanella da Giuseppe Conte. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per ilfoglio.it il 24 Ottobre 2022. 

Un fascistone addomesticato al Senato, un tradizionalista cattolico alla Camera, un hobbit di ultimissima generazione, e donna, a Palazzo Chigi. Ma non c’è pathos. L’arrivo a Roma dei nuovi marciatori era previsto con largo anticipo. Non c’è stata violenza. Il voto libero universale e segreto è stato rispettato al dettaglio. La legge elettorale, a questo punto direi una legge perfetta per la stabilità e il cambiamento, ha fatto il suo. Chi si è unito per prendere i collegi del maggioritario ha vinto, chi si è disunito ha perso. 

Quando arrivò Berlusconi al potere, a sorpresa, dopo pochi mesi di campagna controintuitiva ed extraistituzionale, sembrava un colpo di stato, la riedizione del Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, con il Politologo Collettivo al posto di Karl Marx e un’opposizione cieca che si faceva resistenza e marea. Oggi le istituzioni italiane, questo misterioso meccanismo di sistema che divora e digerisce qualunque cosa, hanno rottamato, la parola è spessa e abusata ma opportuna, postfascismo e postantifascismo.

E’ un’alternanza, la guida va a chi fece opposizione parlamentare e sociale, il casino verboso e la frantumazione fuori di balcone hanno avuto e avranno la loro parte nel nuovo assetto di comando allo stato nascente, ma si mescolano prudente attesa, una vaga inquietudine, qualche sbadiglio. 

[…] Mario Draghi aveva messo in agenda, la vera agenda, una “transizione serena”, e così è stato. Ci sono problemi seri? Sì, ma è tale il peso del realismo di circostanza che sembrano a questo punto perfino esagerati. 

L’Inghilterra è nel pantano di un fantastico sistema a rigidità incontrollata, con i mercati che fustigano a morte il mercantilismo mercatista, noi facciamo il cabotaggio costiero nella massima flessibilità di timoniere e rotta, con la destra sociale e lo statalismo che rilevano le competenze del keynesismo e del debito buono. La 194 è al sicuro, familisti e putinisti abbelliscono o imbruttiscono il paesaggio del paese inessenziale e chiacchierone, non ci possiamo lamentare. 

Non c’è pathos. Il saggio prega Iddio di non farci vivere in tempi interessanti, quanto a questo il saggio dovrebbe essere soddisfatto, almeno per adesso.  […] All’ingrosso, e forse anche al dettaglio, le stagioni italiane dovrebbero continuare ad assomigliare a se stesse. […]

SuperMario esce di scena in punta di piedi: è standing ovation. L'ultimo successo a Bruxelles sul price cap e prima di cedere il timone alla Meloni. L'emozione del saluto al picchetto d'onore e mistero sul futuro: "Chiedo a mia moglie". Stefano Zurlo il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Il picchetto d'onore. Le braccia alzate al cielo, nel saluto finale. E poi il lungo applauso che sigilla il suo congedo. Forma, ma pure molta sostanza per l'addio di Draghi a Palazzo Chigi. Si può dire anche così: Draghi fa Draghi fino all'ultimo secondo. Prima l'exploit, l'ultimo giorno utile, a Bruxelles: il premier convince Scholz e porta a casa il price cap sul gas, almeno a livello di intesa politica. Ci sarà da lavorare sul piano tecnico, ma la svolta c'è.

Poi l'avvicendamento con Giorgia Meloni: nessuno strappo, non c'è spazio per personalismi, non ci sono attimi di gelo e nemmeno momenti di tensione. Anzi, SuperMario accoglie lei con garbo: «Benvenuta». Poi i due si chiudono a colloquio per circa novanta minuti. Un record.

Molto si è fatto, ma c'è molto da fare. Questo il mantra di un periodo difficile, carico di problemi e di incognite. E proprio per questo la cerimonia dà l'idea di una continuità che non si era mai vista a queste latitudini. Il premier uscente consegna alla Meloni non solo la campanella, che lei riceve compunta, ma pure le carte. I dossier in progress, le pratiche in sospeso.

Una transizione ordinata, minuziosa, consapevole della mole di problemi che aleggia sull'Italia. Non a caso al meeting partecipano i due sottosegretari alla Presidenza del consiglio: Roberto Garofoli e Alfredo Mantovano, appena insediatosi. Poche parole. I fatti. Draghi lascia il posto ad una Meloni neodraghiana, almeno sul versante dell'impegno e della dedizione.

Se pensiamo ad altre staffette, vocabolo che qui assume un senso preciso, viene da sorridere: Enrico Letta che porge la campanella a Matteo Renzi voltandosi dall'altra parte è il paradigma di un atteggiamento che per fortuna è storia passata.

Oggi prevale l'Italia e bisogna dare atto a Draghi di aver interpretato la sua uscita di scena, sempre un momento complicato, con un'umiltà degna di una standing ovation.

Lui se ne va e parte il solito gioco sul domani dell'ormai ex capo del governo. Il protagonista ironizza: «Chiederò a mia moglie». Per ora, quello che si capisce è un no ad alcuni incarichi internazionali prestigiosi che sono stati accostati al suo nome: no al Consiglio europeo, no alla Commissione, no alla Nato. Draghi è candidato, almeno virtuale, ad una selva di poltrone, naturalmente di prima fila, un po' ovunque.

Ma al momento ogni decisione pare prematura: certo a 75 anni non andrà in pensione. Farà il nonno, ma solo part time, e si prenderà tutto il tempo necessario per scegliere al meglio. Non si può neppure escludere che il suo percorso incroci ancora quello delle istituzioni repubblicane: potrebbe essere, quando sarà, il successore di Sergio Mattarella.

Chissà. E si può ipotizzare che venga acclamato senatore a vita, vista la caratura della sua figura, davvero unica nel panorama europeo. Certo, con un esecutivo così forte, almeno sulla carta, non tornerà sulla prima linea della bagarre di Palazzo. «Si vedrà», glissano dal suo staff. La sua portavoce Paola Ansuini torna alla Banca d'Italia, Super Mario si dividerà fra Roma e Città della Pieve, dove ha trascorso tanti week end sommerso da pile di faldoni. Avrà, almeno per ora, più tempo per passeggiare.

In una domenica d'autunno lascia Palazzo Chigi salutato in modo smart dalla prima premier donna: «Ciao Mario». Poi scende le scale, seguendo una guida rossa: ecco gli onori militari e i battimani dei collaboratori affacciati alle finestre. Lui li ringrazia, con le braccia protese, quasi una benedizione laica e rapida, alla sua maniera. Prima di sparire, dopo venti mesi passati in prima pagina.

Il saluto commosso dell’Europa. Draghi saluta Palazzo Chigi con l’ultimo colpo sul gas: “Arrivederci ragazzi”. Claudia Fusani su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

Non ci poteva essere un passaggio di consegne più “dolce” e rassicurante tra Mario Draghi e Giorgia Meloni: lasciare in eredità la soluzione politica e il pacchetto di norme per calmierare, finalmente, dopo otto mesi di battaglie, il prezzo del gas. L’ultimo atto di Draghi premier è stato un altro “whatever it takes”: prima ha minacciato di far saltare il tavolo del Consiglio europeo sul capitolo energia, poi ha spiegato per l’ennesima volta perché non potevano più esserci più rinvii e quale fosse l’unica strada da seguire.

Lo ha fatto nell’ultima notte del suo ultimo Consiglio europeo. Non perché temesse un fallimento personale (e lo sarebbe stato) ma perché temeva il fallimento dell’Europa proprio adesso che deve fronteggiare la “minaccia” russa e del “nuovo ordine geopolitico” immaginato da Putin. Alla fine è stato ascoltato. Il cancelliere Scholz, che ha guidato in questi mesi il fronte del no con Olanda, Austria e Irlanda, gli ha riconosciuto “la costanza con cui hai portato avanti le tue ragioni, Mario. Hai vinto”. I 27 avranno un prezzo calmierato del gas, avranno anche aiuti (con un nuovo fondo Sure oppure usando altri fondi non spesi) per pagare la differenza tra prezzo concordato e quello di mercato. Dovranno fare acquisti comuni almeno per il 15% del fabbisogno.

È un pacchetto di misure che Draghi può permettersi di consegnare nella mani del nuovo governo. “Io non do consigli al futuro premier” ha detto poi ai giornalisti italiani in quella che è stata la sua ultima conferenza stampa da premier in una sala affollata e anche amareggiata di perdere questo premier. “Preferisco – ha aggiunto – offrire la testimonianza di ciò che ho fatto”. Fatti e non parole, secondo il tradizionale pragmatismo. “Da settimane tutti i ministri stanno curando un dossier non solo con le cose fatte ma, soprattutto, con quelle che devono essere fatte per raggiungere gli obiettivi. Sarà una transizione serena ed informata”. Tra questo il pacchetto di norme per calmierare il prezzo del gas che ieri, solo per l’annuncio dell’accordo raggiunto, ha perso il 10%, siamo a 116 quando in agosto aveva toccato 350 euro per mgw.

“La dimostrazione di quanta speculazione c’è stata su questo fronte” ha sottolineato il premier ricordando di aver sollecitato le stesse misure ottenute nella notte per la prima volte a marzo scorso. “Mi dissero allora che non era previsto, che era impossibile. Avevano ragione noi. È stato duro, faticoso, a volte frustante, devo ringraziare tutto il governo per questo e il personale diplomatico. Avete visto? Ce l’abbiamo fatta”. Sorride Draghi, sorride molto. Sembra disteso. Poi chissà se sia un modo per camuffare le emozioni. Ce ne sono state tante in queste ultime 36 ore. Il rischio di fallire è stato altissimo. E non sarebbe stato sopportabile. Glissa sui momenti più duri della trattativa notturna.

La mette così: “C’è stata una presa di coscienza collettiva che doveva essere cambiato atteggiamento”. Fino alla cena c’erano tante proposte ma “solo in una direzione”: la condivisione degli stoccaggi e degli acquisti. È stato allora che ha picchiato i pugni sul tavolo: “Per molti paesi il problema non è avere il gas, l’Italia ad esempio lo ha. E come noi tanti altri (circa venti paesi erano schierati con l’Italia; contro Germania, Olanda, Irlanda, ndr). Quello che serve adesso senza perdere un minuto in più è la solidarietà rispetto ai prezzi”. Il pacchetto, precisa Draghi rispetto a qualche scetticismo che serpeggia nei resoconti di altre delegazioni, comprende “tutte le proposte fatte dall’Italia”: il corridoio per una fascia di prezzo rispetto alla quale non è possibile far oscillare il gas; il disaccoppiamento tra gas ed elettricità; il fondo comune europeo per mitigare i rincari su famiglie ed imprese.

“È scritto chiaro nelle conclusioni del documento finale, non c’è modo di equivocare, sono attese decisioni operative” insiste. È la decisione politica rincorsa da otto mesi. Adesso i tecnici devono fare la loro parte. Starà al nuovo governo seguire i lavori perché nulla si perda per strada. È convinto, Draghi, che le bollette “saranno molto presto più basse”. Mette tutto questo in quell’agenda sociale che rivendica di fronte a chi, spesso, lo ha accusato di “non fare nulla per i poveri”. Ogni riferimento a Conte e ai 5 Stelle non è casuale. “Siamo il paese che ha diversificato di più riducendo di 2/3 la dipendenza dalla Russia, abbiamo fatto un’ottima accelerazione sulle rinnovabili. Dato 66 miliardi a famiglie ed imprese senza fare debito né cambiare obiettivi di finanza pubblica. Con queste risorse, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, abbiamo dimezzato i rincari sui bilanci famigliari. Per le famiglie più povere, il peso dei rincari è stato ridotto del 90%”.

Lascia a Meloni e al nuovo governo anche “un’Europa più unità rispetto a quella che ho trovato”. Segue raccomandazione: la Ue unita è “fondamentale per la sicurezza e la prosperità degli stati membri. Nessuno può cambiare questo meno che mai l’Italia che deve restare al centro del processo europeo”. L’Italia perde Draghi. I mercati finanziari sentiranno la mancanza di Draghi? La domanda gli arriva in inglese, inaspettata. Ma gli fa piacere. “Non mi piacciono queste cose di nostalgia – premette – sono esagerate”. Giusto.

Sempre meglio guardare al futuro. Il video di saluti confezionato apposta per lui dal presidente Charles Michel, comincia con “whatever it takes” e finisce con “Arrivederci Mario”. Gli Stati Uniti lo vorrebbero alla guida della Nato. L’Europa lo vorrebbe alla guida della Commissione tra circa un anno quando scadrà il mandato di Ursula von der Leyen. Un bel pezzo di Italia lo vorrebbe al Quirinale. Mario Draghi ha saluto con la mano dicendo semplicemente “Arrivederci ragazzi e grazie a tutti”.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'U

Rinascimento e dissoluzione. Come facevano prima del Grande Reality Italiano sul governo Meloni? Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.

Il Twitter dei buoni si indigna per la sovranità alimentare e per il merito, ci manca solo che adesso si schieri contro l’esproprio proletario. Non resisto cinque anni così. E ho anche ottocentottantatré messaggi in una chat di Sgarbi che non leggerò mai 

Come facevamo prima, mi chiedevo alle tre di notte mentre cercavo vecchi giuramenti di vecchi governi, e su YouTube non c’era quasi niente, perché per l’internet esiste solo ciò che è successo da quando esiste l’internet, anzi da quando esistono i telefoni con la fotocamera frontale e la tv si è adeguata alla diretta perpetua e di tutto esistono filmati e Zapruder oggi sarebbe uno su mille che certo non passa alla storia.

Come facevamo prima, mi chiedevo mentre tentavo di scoprire se tutti quei bambini fossero normali, se tutti i ministri si fossero sempre portati i figli al Quirinale anche prima che i ragazzini fossero il centro del mondo, all’altezza del Berlusconi 2005 il figlio della Prestigiacomo aveva quattro anni, possibile che non sia inquadrato in un angolo mentre gioca con le macchinine dimostrandoci che la mamma è innanzitutto mamma e solo dopo donna di potere?

Come facevano prima, mi chiedevo osservando ipnotizzata «Rinascimento e dissoluzione», chat di WhatsApp alla quale non so perché mi abbiano aggiunta, e della quale nel momento in cui scrivo ho ottocentottantatré (sì, 883, come quelli che avevano ucciso l’Uomo Ragno) messaggi non letti, giacché Vittorio Sgarbi che l’ha creata continua ad aggiungere gente, e centinaia di rappresentanti della classe dirigente che questo tempo si può permettere continuano a scrivere in una chat dalla quale Morgan (coamministratore) lamenta la fuga di Clemente Mimun, Giancarlo Dotto e Tony Renis, e se avessi dovuto indovinare gli unici tre italiani che non perdono giornate in chat confesso che non avrei azzeccato neanche un nome.

Come facevano prima, mi chiedevo guardando le come sempre sublimi storie Instagram di Annamaria Bernini che, esibizionista e mitomane come tutte le bolognesi, musicava il proprio ingresso al Quirinale con «capire tu non puoi, tu chiamale, se vuoi, emozioni», e poi Twitter si accorgeva che sulle immagini del giuramento aveva messo Ambra, «e adesso giura che non hai paura che sia una fregatura», e iniziava a irriderla e rompeva il giocattolo e d’ora in poi ci toccherà una instaBernini seria che si sfoga solo nelle chat, speriamo venga in Rinascimento e dissoluzione.

Come facevano prima, mi chiedevo mentre tutti ma proprio tutti facevano battute sulla sovranità alimentare, magari gli stessi che fino a sette minuti prima la menavano col chilometro zero e il bio e tutte quelle cose che fanno partire un embolo ad Antonio Pascale e in generale a chi capisca qualcosa di questi temi, come facevano prima che non potevano tutti fare battute sullo scandalo di quel minuto, come avrebbero fatto senza una piattaforma che permettesse di passare la prima settimana dopo le elezioni a fare battute sui treni puntuali (mai visti tanti treni in ritardo come in quei giorni: la realtà è più spiritosa di Twitter).

Come facevamo prima, mi chiedevo mentre mi si popolavano i social di gente altrimenti razionale, altrimenti non sentimentale, altrimenti dotata di senso del ridicolo, che postava i video di Draghi che se ne va da palazzo Chigi con uno struggimento che non vedevo da quando Robbie Williams abbandonò i Take That (faccio presente: 1, che se il riferimento è l’aria piccata con cui la campanella la passava Enrico Letta è facile sembrare un gigante dello stile, diciamo; e 2, che Robbie Williams dopo i Take That ha infilato una serie di capolavori).

Come facevano prima, mi chiedevo mentre l’intera sinistra su Twitter ci spiegava che la meritocrazia non è meritocratica e che quindi il ministero del Merito è persino peggio di quello della Filiera Corta, dopo decenni in cui ci hanno sfrangiato la minchia che se loro non vincevano lo Strega o almeno la fascia di Miss In Gambissima era perché gli altri erano tutti raccomandati tutti conventicole tutti un complotto contro i loro indiscutibili talenti, adesso non gli va più bene il merito che è elitario e premia solo i ricchi di famiglia che – ma che roba – si pagano studi migliori: sospetto che aspettarsi da un governo di destra un ministero dell’Esproprio Proletario sia un po’ come aspettarsene un ministro della Famiglia che non dia la priorità alle coppie eterosessuali che si riproducono a mezzo natura e non a mezzo progresso scientifico – ma sicuramente mi sbaglio io.

Come faceva Sgarbi prima di tutte queste chat in cui passano le giornate a dirgli che dovevano fare ministro lui, che non hanno senso ministeri culturali che non lo vedano signore e padrone, che lui è il nostro ministro ombra, no, lui è il ministro della luce (giuro, hanno scritto così, ed è solo la mia determinazione a vincere il Nobel per la Continenza che mi frena dal dirvi chi l’abbia scritto, in questa chat presa di striscio, di svolgimento corretto ai temi).

Come fanno a fare la televisione se nessuno ha pensato a piazzare una troupe a casa di Sgarbi, ma anche di quell’altro paio d’intellettuali di cui dispone la destra, e a realizzare infine il Grande Reality Italiano filmando le loro reazioni alla notizia che il nuovo ministro della Cultura era Gennaro Sangiuliano: come facevamo prima che Giorgia Meloni ci costringesse a rivalutare la biblioteca dell’inedito, come.

Meloni-Macron, "nessuno scambio di cortesie": l'altra verità sull'incontro. Libero Quotidiano il 25 ottobre 2022

Dietro all'incontro tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron c'è molto più di "uno scambio di cortesie diplomatiche". Il faccia a faccia informale, avvenuto per volontà della neo premier, sarebbe un vero punto di svolta per lei. A rivelarlo un retroscena di Dagospia. Il motivo è semplice: sia il presidente del Consiglio, leader di Fratelli d'Italia, che l'omonimo francese hanno la necessità di rinsaldare le proprie alleanze in Europa. La Meloni - si legge - perché non è del tutto accreditata nelle cancellerie che pesano a causa della sua vicinanza alla Polonia. Macron perché si è trovato senza Mario Draghi, suo "badante-garante". 

Così la premier ha approfittato della presenza del presidente francese a Roma per fare due chiacchiere, vis-a-vis. A maggior ragione dopo che l’asse tra Germania e i paesi frugali rischia di diventare sempre più problematico nel processo decisionale dell’Ue. D'altronde, con la crisi in corso, il cancelliere tedesco Olaf Scholz si muove in solitaria con l'unico scopo di difendere gli interessi del suo Paese. Basta pensare all'opposizione al price cap sul gas, lo scetticismo crescente sul supporto all’Ucraina, i 200 miliardi di aiuti non concordati con l’Europa, gli oscuri rapporti con la Cina e via dicendo. Per questo a Roma e Parigi un'alleanza fa solo che comodo: all’Italia, per ottenere il sostegno di un partner forte sui grandi dossier. Alla Francia, per frenare lo strapotere tedesco nelle istituzioni europee, al cui vertice c’è la tedesca Ursula Von Der Leyen. 

Una cosa è certa, quella a Bruxelles è una partita vitale per il nuovo governo. "La vera incognita è il rapporto che Giorgia Meloni riuscirà ad avere con l'Unione Europea in particolare con la Germania e con la Francia - diceva anche Ferruccio De Bortoli a Stasera Italia -. Penso che sarebbe un gesto responsabile rinunciare alla proposta di riforma costituzionale contro il primato del diritto europeo su quello interno, penso che quella proposta potrebbe cadere". 

Giorgia Meloni chiede la fiducia. Cos’è e come funziona. DANIELE ERLER su Il Domani il 24 ottobre 2022

La nostra è una repubblica parlamentare e per questo ogni nuovo governo deve ottenere la fiducia, come prevede la Costituzione. Ecco una guida su tutto quello che c’è da sapere, dai numeri che deve ottenere Meloni ai link e agli orari per seguire la discussione in streaming

Il nuovo governo è nato ufficialmente sabato, con il giuramento di Giorgia Meloni e dei suoi ministri. Essendo il nostro sistema una repubblica parlamentare, il governo deve però ottenere la fiducia di entrambe le camere: lo prescrive la costituzione ed è sostanzialmente . L’articolo che regolamenta questo aspetto è il numero 94:

«Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia».

Nel caso specifico le due sedute si terranno martedì 25 ottobre (camera) e mercoledì 26 ottobre (senato). In entrambi i casi il governo non avrà problemi a ottenere la fiducia, vista l’ampia maggioranza ottenuta con le elezioni e il fatto che il voto è nominale, non segreto. C’è comunque attesa per quelli che saranno gli interventi in aula, a partire da Silvio Berlusconi che dovrebbe parlare al senato.

Dovrebbe votare la fiducia il centrodestra compatto. Mentre gli altri gruppi – anche sulla base di quello che hanno dichiarato dopo le consultazioni con il presidente della Repubblica – dovrebbero votare contro.

alla Camera il centrodestra conta su 235 deputati → se fossero tutti presenti, la maggioranza si otterrebbe con 201 deputati;

al Senato il centrodestra conta su 112 senatori → se fossero tutti presenti, la maggioranza si otterrebbe con 104 senatori (considerando anche i sei senatori “a vita”).

IL DISCORSO E IL VOTO

Prima della discussione e del voto c’è però il discorso programmatico della presidente del Consiglio, in cui dovrebbe presentare le priorità del suo governo. Questo il programma della giornata di martedì, come è stato deciso dalla Conferenza dei capigruppo di Montecitorio:

alle 11 – discorso programmatico di Giorgia Meloni;

alle 12 circa – la seduta sarà sospesa per consentire alla premier di depositare il discorso al Senato;

alle 13 – la seduta riprenderà con la discussione generale che continuerà fino alle 17;

fra le 17 e le 17.30 –  Giorgia Meloni replicherà agli interventi fatti durante la discussione:

dalle 17.30 alle 19 – ci saranno le dichiarazioni di voto sulla fiducia al governo.

dalle 19 – inizia la chiama per il voto.

Considerando che i deputati sono 400 (erano 630 prima del taglio) le operazioni dovrebbero essere più veloci del passato e dovrebbero concludersi fra le 20 e le 20.30 con il risultato.

Al senato le operazioni saranno ancora più veloci, essendo gli eletti solo 200. Non c’è ancora l’ufficialità negli orari, ma la discussione generale dovrebbe avere inizio mercoledì alle 13. Alla conclusione, per le 17, dovrebbe esserci la replica di Meloni e poi il voto.

COME SEGUIRE IL VOTO

Il voto di fiducia è facilmente seguibile anche in streaming. Lo troverete anche sul sito di Domani, oltre che sui canali ufficiali di camera e senato:

sul sito della web tv della Camera;

sul canale YouTube della Camera;

sul sito della web tv del Senato;

sul canale YouTube del Senato.

COSA SUCCEDE DOPO

Una volta ottenuta la fiducia del parlamento, il governo sarà formalmente nel pieno delle sue funzioni e dovrà occuparsi dei cosiddetti “sottoincarichi”. In altre parole dovrà completare la squadra di governo nominando viceministri e sottosegretari. 

DANIELE ERLER. Giornalista trentino, in redazione a Domani. In passato si è laureato in storia e ha fatto la scuola di giornalismo a Urbino. Ha scritto per giornali locali, per la Stampa e per il Fatto Quotidiano. Si occupa di digitale, tecnologia ed esteri, ma non solo. Si può contattare via mail o su instagram.

Il discorso e il video integrale di Giorgia Meloni nella sua “storica” prima volta da premier alla Camera. Giorgia Meloni il 25 Ottobre 2022 su Il Secolo d'Italia. 

Signor Presidente, onorevoli colleghi,

io sono intervenuta molte volte in quest’Aula, da deputato, da Vicepresidente della Camera, da Ministro della Gioventù; eppure, la solennità è tale che credo di non essere mai riuscita a intervenire senza che in me ci fosse un sentimento di emozione e di profondo rispetto. Vale ovviamente a maggior ragione oggi che mi rivolgo a voi in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri per chiedervi di esprimervi sulla fiducia a un Governo da me guidato. Una grande responsabilità per chi quella fiducia deve ottenerla e meritarsela e una grande responsabilità per chi quella fiducia deve concederla o negarla. Sono i momenti fondamentali della nostra democrazia, ai quali non dobbiamo mai assuefarci. Per questo io voglio ringraziare, da subito, chi si esprimerà in quest’Aula secondo le proprie convinzioni, qualsiasi sia la scelta che farà.

Un ringraziamento sincero va al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che, nel dare seguito all’indicazione chiaramente espressa dagli italiani lo scorso 25 settembre, non ha voluto farmi mancare i suoi preziosi consigli. Un ringraziamento va, ovviamente, ai partiti della coalizione di Governo, ai miei Fratelli d’Italia, alla Lega, a Forza Italia, a Noi Moderati e ai loro leader, a quel centrodestra che, dopo essersi affermato nelle urne, ha dato vita a questo Governo in uno dei lassi di tempo più brevi della storia repubblicana e io credo che questo sia il segno più tangibile di una coesione che, alla prova dei fatti, riesce sempre a superare le differenti sensibilità, nel nome di un interesse più alto. La celerità di questi giorni per noi era un fatto naturale, ma era anche doverosa, perché la condizione difficilissima nella quale l’Italia si trova non consente di titubare o di perdere tempo, e noi non intendiamo farlo. E voglio per questo ringraziare anche il mio predecessore, il Presidente Mario Draghi, che, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale, ha, in queste settimane, offerto tutta la sua disponibilità affinché vi fosse un passaggio di consegne veloce e sereno con il nuovo Governo, ovviamente, anche se, per ironia della sorte, quel Governo era guidato dal presidente dell’unico partito di opposizione all’Esecutivo da lui presieduto. Si è molto ricamato su questo aspetto, ma io voglio dirvi che credo non ci sia nulla di strano. Così dovrebbe essere sempre, così è nelle grandi democrazie.

E, tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del Governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho nei confronti di tutte quelle donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o, più banalmente, il diritto a vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani. Ma penso anche, con riverenza, a coloro che hanno costruito, con le assi del loro esempio, la scala che oggi consente a me di salire e di rompere il pesante tetto di cristallo che sta sulle nostre teste. Donne che hanno osato, per impeto, per ragione, o per amore. Come Cristina (Trivulzio di Belgioioso), elegante organizzatrice di salotti e barricate. O come Rosalie (Montmasson), testarda al punto da partire con i Mille che fecero l’Italia. Come Alfonsina (Strada) che pedalò forte contro il vento del pregiudizio. Come Maria (Montessori) o Grazia (Deledda) che con il loro esempio spalancarono i cancelli dell’istruzione alle bambine di tutto il Paese. E poi Tina (Anselmi), Nilde (Jotti), Rita (Levi Montalcini), Oriana (Fallaci), Ilaria (Alpi), Mariagrazia (Cutuli), Fabiola (Giannotti), Marta (Cartabia), Elisabetta (Casellati), Samantha (Cristoforetti), Chiara (Corbella Petrillo). Grazie! Grazie per aver dimostrato il valore delle donne italiane, come spero di riuscire a fare ora anche io.

Ma il mio ringraziamento, il più sentito, va ovviamente al popolo italiano, a chi ha deciso di non mancare all’appuntamento elettorale e ha espresso il proprio voto, consentendo la piena realizzazione del percorso democratico, che vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità, con il rammarico, però, per i moltissimi che hanno rinunciato all’esercizio di questo dovere civico, sancito nella Costituzione, cittadini che reputano sempre più spesso inutile il loro voto, perché dicono: “Tanto poi decide qualcun altro, tanto poi si decide nei palazzi o nei circoli esclusivi”. Purtroppo spesso è stato così negli ultimi 11 anni, con un susseguirsi di maggioranze di Governo pienamente legittime sul piano costituzionale, ma drammaticamente distanti dalle indicazioni degli elettori.

Noi, oggi, interrompiamo questa grande anomalia italiana, dando vita a un Governo politico, pienamente rappresentativo della volontà popolare. E intendiamo farlo assumendoci pienamente i diritti e i doveri che competono a chi vince le elezioni: essere maggioranza parlamentare e compagine di Governo per 5 anni, facendolo al meglio delle nostre possibilità, anteponendo sempre l’interesse della Nazione a quello di parte e di partito. Non useremo il voto di milioni di italiani per sostituire un sistema di potere con un altro distinto e contrapposto.

Quello che noi vogliamo fare è liberare le migliori energie di questa Nazione e garantire agli italiani, a tutti gli italiani, un futuro di maggiore libertà, giustizia, benessere e sicurezza. E se per farlo dovremo scontentare alcuni potentati o fare scelte che potrebbero non essere comprese nell’immediato da alcuni cittadini, non ci tireremo indietro, perché il coraggio di certo non ci difetta.

Ci siamo presentati in campagna elettorale con un programma quadro di Governo della coalizione e con programmi più articolati dei singoli partiti. Gli elettori hanno scelto il centrodestra e, all’interno della coalizione, hanno premiato maggiormente determinate proposte rispetto ad altre. Manterremo quegli impegni, perché il vincolo tra rappresentante e rappresentato è l’essenza stessa della democrazia. So bene che ad alcuni osservatori e alle forze politiche di opposizione non piaceranno molte delle nostre proposte, ma io non intendo assecondare quella deriva secondo la quale la democrazia appartiene ad alcuni più che ad altri e che un esito elettorale sgradito non vada accettato e ne vada, anzi, impedita la realizzazione, con qualsiasi mezzo. Negli ultimi giorni sono stati in parecchi, anche fuori dai nostri confini nazionali, a dire di voler vigilare sul nuovo Governo. Direi che possono spendere meglio il loro tempo. In quest’Aula e nel nostro Parlamento ci sono valide e battagliere forze di opposizione, più che capaci di far sentire la propria voce, senza – mi auguro – alcun soccorso esterno.

Voglio sperare che quelle forze convengano con me sul fatto che chi dall’estero dice di voler vigilare sull’Italia non manca di rispetto a me o a questo Governo: manca di rispetto al popolo italiano, che non ha lezioni da prendere.

L’Italia è a pieno titolo parte dell’Occidente e del suo sistema di alleanze, Stato fondatore dell’Unione europea, dell’Eurozona e dell’Alleanza atlantica, membro del G7 e, ancor prima di tutto questo, culla, insieme alla Grecia, della civiltà occidentale e del suo sistema di valori, fondato su libertà, uguaglianza e democrazia, frutti preziosi che scaturiscono dalle radici classiche e giudaico-cristiane dell’Europa. Noi siamo gli eredi di San Benedetto, un italiano, patrono principale dell’intera Europa.

L’Europa. Permettetemi, parlando di Europa, innanzitutto di ringraziare i vertici delle istituzioni comunitarie, il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, la Presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, il Presidente di turno del Consiglio, il mio amico Petr Fiala e, con loro, i tanti Capi di Stato e di Governo che, in queste ore, mi hanno augurato buon lavoro. Ovviamente, non mi sfugge la curiosità e l’interesse per la postura che il Governo terrà verso le istituzioni europee o, ancora meglio, vorrei dire dentro le istituzioni europee, perché quello è il luogo in cui l’Italia farà sentire forte la sua voce, come si conviene a una grande Nazione fondatrice. Non per frenare o sabotare l’integrazione europea, come a volte ho sentito dire, anche in queste settimane, ma per contribuire a indirizzarla verso una maggiore efficacia nella risposta alle crisi e alle minacce esterne e verso un approccio più vicino ai cittadini e alle imprese.

Noi, per intenderci, non concepiamo l’Unione europea come un circolo elitario, con soci di serie A e soci di serie B o, peggio, come una società per azioni e diretta da un consiglio d’amministrazione, con il solo compito di tenere i conti in ordine. L’Unione europea per noi è la casa comune dei popoli europei e, come tale, deve essere in grado di fronteggiare le grandi sfide della nostra epoca, a partire da quelle che gli Stati membri difficilmente possono affrontare da soli. Penso agli accordi commerciali certo, ma anche all’approvvigionamento di materie prime e di energia, alle politiche migratorie, alle scelte geopolitiche, alla lotta al terrorismo, grandi sfide di fronte alle quali non sempre l’Unione europea si è fatta trovare pronta.

Perché, colleghi, come è stato possibile che un’integrazione che nasceva nel 1950, 70 anni orsono, come Comunità economica del carbone e dell’acciaio, a 70 anni di distanza si ritrovi, dopo aver allargato a dismisura le sue sfere di competenza, a essere maggiormente esposta proprio in tema di approvvigionamento energetico e di materie prime?

Chi si pone questi interrogativi non è un nemico o un eretico, ma un pragmatico, che non teme di dire quando qualcosa non funziona come potrebbe. Serve un’integrazione più efficace nell’affrontare le grandi sfide, nel rispetto di quel motto fondativo che recita: “Uniti nella diversità”, perché è questa la grande peculiarità europea, Nazioni con storie millenarie, capaci di unirsi portando ciascuna la propria identità come valore aggiunto. Una casa comune europea vuol dire certamente regole condivise anche in ambito economico-finanziario. Questo Governo rispetterà le regole attualmente in vigore e, nel contempo, offrirà il suo contributo per cambiare quelle che non hanno funzionato, a partire dal dibattito in corso sulla riforma del Patto di stabilità e crescita.

Per la sua forza e la sua storia, l’Italia ha il dovere, prima ancora che il diritto, di stare a testa alta in questi consessi internazionali, con spirito costruttivo, ma senza subalternità o complessi di inferiorità, come troppo spesso ci è parso che accadesse in passato, coniugando l’affermazione del proprio interesse nazionale con la consapevolezza di un destino comune europeo e occidentale.

L’Alleanza atlantica garantisce alle nostre democrazie un quadro di pace e sicurezza che troppo spesso diamo per scontato; è dovere dell’Italia contribuirvi pienamente, perché, ci piaccia o no, la libertà ha un costo e quel costo, per uno Stato, è la capacità che ha di difendersi e l’affidabilità che dimostra nel quadro delle alleanze di cui fa parte. L’Italia, negli anni, ha saputo dimostrarla, a partire dalle tante missioni internazionali delle quali siamo stati protagonisti, e voglio per questo ringraziare le donne e gli uomini delle nostre Forze armate per aver tenuto alto il prestigio dell’Italia nei contesti più difficili, anche a costo della propria vita: la Patria vi sarà sempre riconoscente!

L’Italia continuerà a essere partner affidabile in seno all’Alleanza atlantica, a partire dal sostegno al valoroso popolo ucraino che si oppone all’invasione della Federazione russa, non soltanto perché non possiamo accettare la guerra di aggressione e la violazione dell’integrità territoriale di una Nazione sovrana, ma anche perché è il modo migliore di difendere il nostro interesse nazionale. Soltanto un’Italia che rispetta gli impegni può avere l’autorevolezza per chiedere, a livello europeo e occidentale, ad esempio, che gli oneri della crisi internazionale siano suddivisi in modo più equilibrato ed è quello che intendiamo fare, a partire dalla questione energetica.

La guerra ha aggravato la situazione già molto difficile causata dagli aumenti del costo dell’energia e dei carburanti, costi insostenibili per molte imprese che potrebbero essere costrette a chiudere e a licenziare i propri lavoratori e per milioni di famiglie che già oggi non sono più in grado di fare fronte al rincaro delle bollette. Ma sbaglia chi crede che sia possibile barattare la libertà dell’Ucraina con la nostra tranquillità. Cedere al ricatto di Putin sull’energia non risolverebbe il problema, lo aggraverebbe, aprendo la strada a ulteriori pretese e ricatti, con futuri aumenti dell’energia ancora maggiori di quelli che abbiamo conosciuto in questi mesi. I segnali arrivati dall’ultimo Consiglio europeo rappresentano un passo avanti raggiunto anche grazie all’impegno del mio predecessore e del Ministro Cingolani, ma sono ancora insufficienti. L’assenza ancora oggi di una risposta comune lascia, come unico spazio, quello delle misure dei singoli Governi nazionali che rischiano di minare il mercato interno e la competitività delle nostre imprese.

Sul fronte dei prezzi, se, da un lato, è vero che il solo aver discusso di misure di contenimento ha frenato momentaneamente la speculazione, dall’altro, è evidente che, se non si darà rapidamente seguito agli annunci con meccanismi concreti, la speculazione ripartirà. Anche per questo sarà necessario mantenere e rafforzare le misure nazionali a supporto di famiglie e imprese, sia sul versante delle bollette, sia su quello del carburante, un impegno finanziario imponente che drenerà gran parte delle risorse reperibili e ci costringerà a rinviare altri provvedimenti che avremmo voluto avviare già nella prossima legge di bilancio. Ma la nostra priorità oggi deve essere mettere un argine al caro energia e accelerare, in ogni modo, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e la produzione nazionale, perché voglio credere che dal dramma della crisi energetica possa emergere, per paradosso, anche un’occasione per l’Italia. I nostri mari possiedono giacimenti di gas che abbiamo il dovere di sfruttare appieno e la nostra Nazione, in particolare il Mezzogiorno, è il paradiso delle rinnovabili, con il suo sole, il vento, il calore della terra, le maree, i fiumi, un patrimonio di energia verde troppo spesso bloccato da burocrazia e veti incomprensibili. Insomma sono convinta che l’Italia, con un po’ di coraggio e di spirito pratico, potrebbe uscire da questa crisi più forte e autonoma di prima.

Oltre al caro energia, le famiglie italiane si ritrovano a dover fronteggiare un livello di inflazione che ha raggiunto l’11,1 per cento su base annua e ne sta erodendo inesorabilmente il potere d’acquisto, nonostante una parte di questi aumenti sia stata assorbita dalle aziende. È indispensabile intervenire con misure volte ad accrescere il reddito disponibile delle famiglie, partendo dalla riduzione delle imposte sui premi di produttività, dall’innalzamento ulteriore della soglia di esenzione dei cosiddetti fringe benefit, dal potenziamento del welfare aziendale, riuscire ad allargare la platea dei beni primari che godono dell’IVA ridotta al 5 per cento. Misure concrete che affronteremo anche con la prossima legge di bilancio, sulla quale siamo già al lavoro.

Il contesto nel quale si troverà ad agire il Governo è un contesto molto complicato, forse il più difficile dal secondo dopoguerra ad oggi. Le tensioni geopolitiche e la crisi energetica frenano la speranza di una ripresa economica post-pandemia. Le previsioni macroeconomiche per il 2023 indicano un marcato rallentamento dell’economia italiana, europea e mondiale, in un clima per di più di assoluta incertezza. La Banca centrale europea, nel mese di settembre, ha rivisto le previsioni di crescita 2023 per l’area euro, con un taglio di ben 1,2 punti percentuali rispetto alle previsioni del mese di giugno, prevedendo una crescita di appena lo 0,9 per cento. Rallentamento e revisioni al ribasso che riguardano anche ovviamente l’andamento dell’economia italiana per il prossimo anno. Nell’ultima nota di aggiornamento al DEF, la previsione di crescita del PIL per il 2023 si ferma allo 0,6 per cento, esattamente un quarto del 2,4 per cento previsto nel Documento di economia e finanza di aprile e le previsioni del MEF sono addirittura ottimistiche rispetto a quelle più recenti del Fondo Monetario Internazionale, secondo le quali per l’economia italiana il 2023 sarà un anno di recessione: meno 0,2 per cento, il peggior risultato tra le principali economie mondiali dopo quello della Germania. E non si tratta, purtroppo, di una congiuntura isolata, i dati sono chiari. Negli ultimi vent’anni l’Italia è cresciuta complessivamente del 4 per cento, mentre Francia e Germania di più del 20 per cento; negli ultimi dieci anni la nostra Nazione si è collocata negli ultimi posti in Europa per crescita economica e occupazionale, con la sola eccezione del rimbalzo registrato dopo il crollo del PIL nel 2020. Non a caso dieci anni durante i quali si sono succeduti Governi deboli, eterogenei, senza un chiaro mandato popolare, incapaci di risolvere le carenze strutturali di cui soffrono l’Italia e la sua economia e di porre le basi per una crescita sostenuta e duratura.

Crescita bassa o nulla, quindi, accompagnata dall’impennata dell’inflazione che ha superato il 9 per cento nell’area euro e ha indotto la Banca centrale europea, al pari di altre banche centrali, per la prima volta dopo undici anni, a rialzare i tassi di interesse. Una decisione da molti reputata azzardata e che rischia di ripercuotersi sul credito bancario a famiglie e imprese e che si somma a quella già assunta dalla stessa Banca centrale di porre fine a partire dal 1° luglio 2022 al programma di acquisto di titoli a reddito fisso sul mercato aperto, creando una difficoltà aggiuntiva a quegli Stati membri che, come il nostro, hanno un elevato debito pubblico. Siamo dunque nel pieno di una tempesta. La nostra imbarcazione ha subito diversi danni e gli italiani hanno affidato a noi il compito di condurre la nave in porto in questa difficilissima traversata. Eravamo consapevoli di quello che ci aspettava, come lo sono tutte le altre forze politiche, anche quelle che, governando negli ultimi dieci anni, hanno portato – perché questo dicono i numeri – un peggioramento dei principali fondamentali macroeconomici, e oggi diranno ovviamente che hanno le ricette risolutive e sono pronte a imputare al nuovo Governo le difficoltà che l’Italia affronta. Eravamo consapevoli del macigno che ci stavamo caricando sulle spalle. Ci siamo battuti lo stesso per assumerci questa responsabilità perché, in primo luogo, non siamo persone abituate a scappare e, in secondo luogo, perché la nostra imbarcazione, l’Italia, con tutte le sue ammaccature, rimane “la nave più bella del mondo”, per citare la celebre espressione che usò la portaerei americana Independence quando incontrò la nave scuola Amerigo Vespucci. Un’imbarcazione solida alla quale nessuna meta è preclusa se decide di riprendere il viaggio. Allora noi siamo qui per tentare di ricucire le vele strappate, fissare le assi dello scafo, superare le onde che si infrangono su di noi, con la bussola delle nostre convinzioni a indicarci la rotta verso la meta prescelta e con un equipaggio che è capace di svolgere al meglio i propri compiti.

Ci è stato chiesto come intendiamo tranquillizzare gli investitori a fronte di un debito al 145 per cento del PIL, secondo in Europa soltanto a quello della Grecia. Potremmo rispondere citando alcuni fondamentali della nostra economia che rimangono solidi nonostante tutto: siamo tra le poche Nazioni europee in costante avanzo primario, vale a dire lo Stato spende meno di quanto incassa, al netto degli interessi sul debito; il risparmio privato delle famiglie italiane ha superato la soglia dei 5 mila miliardi di euro e in un clima di fiducia potrebbe sostenere gli investimenti nell’economia reale. Ma, ancor più di questi dati, già significativi, sono importanti le potenzialità ancora inespresse che ha l’Italia. Mi sento di dire che, se questo Governo riuscisse a fare ciò che ha in mente, scommettere sull’Italia potrebbe essere non solo un investimento sicuro, ma forse addirittura un buon affare, perché l’orizzonte al quale vogliamo guardare non è il prossimo anno o la prossima scadenza elettorale. Quello che ci interessa è come sarà l’Italia tra dieci anni, e sono pronta a fare quello che va fatto, a costo di non essere compresa, a costo perfino di non venire rieletta, per essere certa di avere reso, con il mio e il nostro lavoro, il futuro di questa Nazione più agevole.

La strada per ridurre il debito non è la cieca austerità imposta negli anni passati e non sono neppure gli avventurismi finanziari più o meno creativi. La strada maestra, l’unica possibile, è la crescita economica, duratura e strutturale.

E per conseguirla siamo naturalmente aperti a favorire gli investimenti esteri: se, da un lato, contrasteremo logiche predatorie che mettano a rischio le produzioni strategiche nazionali, dall’altro, saremo aperti ad accogliere e stimolare quelle imprese straniere che sceglieranno di investire in Italia, portando sviluppo, occupazione e know-how, in una logica di benefìci reciproci.

In questo contesto si inserisce il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Fondi raccolti con l’emissione di debito comune europeo per fronteggiare crisi di portata globale. Una proposta avanzata a suo tempo dal Governo di centrodestra, con l’allora Ministro Giulio Tremonti, per anni avversata, talvolta derisa, poi attuata. Il PNRR è un’opportunità straordinaria di ammodernare l’Italia: abbiamo tutti il dovere di sfruttarla al meglio. La sfida è complessa a causa dei limiti strutturali e burocratici che da sempre rendono difficoltoso per l’Italia riuscire ad utilizzare interamente persino i fondi europei della programmazione ordinaria. Basti pensare che la Nota di aggiornamento al DEF 2022 ha ridotto la spesa pubblica attivata dal PNRR a 15 miliardi rispetto ai 29,4 previsti nel DEF dell’aprile scorso. Il rispetto delle scadenze future richiederà ancor più attenzione, considerato che finora si sono per lo più rendicontate opere già avviate in passato, cosa che non si potrà continuare a fare nei prossimi anni. Spenderemo al meglio i 68,9 miliardi a fondo perduto e i 122,6 miliardi concessi a prestito all’Italia dal Next Generation EU, senza ritardi e senza sprechi, concordando con la Commissione europea gli aggiustamenti necessari per ottimizzare la spesa, alla luce soprattutto del rincaro dei prezzi delle materie prime e della crisi energetica, perché queste materie si affrontano con un approccio pragmatico e non con un approccio ideologico.

Il PNRR non si deve intendere soltanto come un grande piano di spesa pubblica, ma come l’opportunità di compiere una vera svolta culturale. Archiviare finalmente la logica dei bonus, per alcuni, utili spesso soprattutto alle campagne elettorali, in favore di investimenti di medio termine destinati al benessere dell’intera comunità nazionale. Rimuovere tutti gli ostacoli che frenano la crescita economica e che da troppo tempo ci siamo rassegnati a considerare mali endemici dell’Italia, ma non lo sono.

Uno di questi è certamente l’instabilità politica. Negli ultimi venti anni l’Italia ha avuto, in media, un Governo ogni due anni, cambiando spesso anche la maggioranza di riferimento. È la ragione per la quale i provvedimenti che garantivano sicuro e immediato consenso hanno sempre avuto la meglio sulle scelte strategiche. È la ragione per la quale le burocrazie sono spesso diventate intoccabili e impermeabili al merito. È la ragione per la quale la capacità negoziale dell’Italia nei consessi internazionali è stata debole. Ed è la ragione per la quale gli investimenti stranieri, che mal sopportano la mutevolezza dei Governi, sono stati scoraggiati. È la ragione per la quale siamo fermamente convinti del fatto che l’Italia abbia bisogno di una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare. Una riforma che consenta all’Italia di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”.

Vogliamo partire dall’ipotesi di un semipresidenzialismo sul modello francese, che in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra, ma rimaniamo aperti anche ad altre soluzioni.

Vogliamo confrontarci su questo con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, per arrivare alla riforma migliore e più condivisa possibile. Ma sia chiaro che non rinunceremo a riformare l’Italia, se ci trovassimo di fronte opposizioni pregiudiziali. In questo caso, noi ci muoveremo secondo il mandato che ci è stato conferito su questo tema dagli italiani: dare all’Italia un sistema istituzionale nel quale chi vince governa per cinque anni e alla fine viene giudicato dagli elettori per quello che è riuscito a fare.

Parallelamente alla riforma presidenziale, intendiamo dare seguito al processo virtuoso di autonomia differenziata già avviato da diverse regioni italiane secondo il dettato costituzionale e in attuazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà, in un quadro di coesione nazionale. Per la provincia di Bolzano tratteremo del ripristino degli standard di autonomia che nel 1992 hanno portato al rilascio della quietanza liberatoria ONU. È nostra intenzione completare il processo per dare a Roma Capitale i poteri e le risorse che competono a una grande capitale europea e dare nuova centralità ai nostri comuni. Perché ogni campanile, ogni borgo è un pezzo della nostra identità da difendere. Penso in particolare a quelli che si trovano nelle aree interne, nelle zone montane e nelle terre alte, che hanno bisogno di uno Stato alleato per favorire la residenzialità e combattere lo spopolamento.

Sono convinta che questa svolta che abbiamo in mente sia anche l’occasione migliore per tornare a porre al centro dell’agenda Italia la questione meridionale. Il Sud non più visto come un problema, ma come un’occasione di sviluppo per tutta la Nazione.

Lavoreremo sodo per colmare un divario infrastrutturale inaccettabile, eliminare le disparità, creare occupazione, garantire la sicurezza sociale e migliorare la qualità della vita. Dobbiamo riuscire a porre fine a quella beffa per cui il Sud esporta manodopera, intelligenze e capitali che sono invece fondamentali proprio in quelle regioni dalle quali vanno via. Non è un obiettivo facile, ovviamente, ma il nostro impegno su questo sarà totale.

E se le infrastrutture al Sud non sono più rinviabili, anche nel resto d’Italia è necessario realizzarne di nuove, per potenziare i collegamenti di persone e merci, ma anche di dati e comunicazioni. Con l’obiettivo di ricucire non solo il Nord al Sud, ma anche la costa tirrenica alla costa adriatica e le isole al resto della Penisola.

Servono investimenti strutturali per affrontare l’emergenza climatica, le sfide ambientali, il rischio idrogeologico e l’erosione costiera, e per accelerare i processi di ricostruzione dei territori colpiti in questi anni da terremoti e calamità naturali, come la drammatica alluvione che nella notte tra il 15 e il 16 settembre ha sconvolto la regione Marche. Consentitemi, insieme a tutti voi, di rinnovare qui il cordoglio per le vittime e la vicinanza a tutta la comunità: siamo al vostro fianco, non vi abbandoneremo, contate su di noi.

Intendiamo tutelare le infrastrutture strategiche nazionali assicurando la proprietà pubblica delle reti, sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni. La transizione digitale, fortemente sostenuta dal PNRR, deve accompagnarsi alla sovranità tecnologica, al cloud nazionale e alla cyber-security.

E vogliamo finalmente introdurre una clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, anche sotto l’aspetto economico, per le concessioni di infrastrutture pubbliche, come autostrade e aeroporti. Perché il modello degli oligarchi seduti su pozzi di petrolio ad accumulare miliardi senza neanche assicurare investimenti non è un modello di libero mercato degno di una democrazia occidentale.

L’Italia deve tornare ad avere una politica industriale, puntando su quei settori nei quali può contare su un vantaggio competitivo. Penso al marchio, fatto di moda, lusso, design, fino all’alta tecnologia. Fatto di prodotti di assoluta eccellenza in campo agroalimentare, che devono essere difesi in sede europea e con una maggiore integrazione della filiera a livello nazionale, anche per ambire a una piena sovranità alimentare non più rinviabile. Che non significa, ovviamente, mettere fuori commercio l’ananas, come qualcuno ha detto, ma più banalmente garantire che non dipenderemo da Nazioni distanti da noi per dare da mangiare ai nostri figli. Penso alla favorevole posizione dell’Italia nel Mediterraneo e alle opportunità legate all’economia del mare, che può e deve diventare un asset strategico per l’Italia intera e in particolare per lo sviluppo del Meridione. E penso alla bellezza.

Sì, perché l’Italia è la Nazione che più di ogni altra al mondo racchiude l’idea di bellezza paesaggistica, artistica, narrativa, espressiva. Tutto il mondo lo sa, ci ama per questo e per questo vuole comprare italiano, conoscere la nostra storia e venire in vacanza da noi. È un orgoglio certo, ma soprattutto è una risorsa economica di valore inestimabile, che alimenta la nostra industria turistica e culturale. E aggiungo che tornare a puntare sul valore strategico dell’italianità vuol dire anche promuovere la lingua italiana all’estero e valorizzare il legame con le comunità italiane presenti in ogni parte del mondo che sono parte integrante della nostra.

Perché tutti gli obiettivi di crescita possano essere raggiunti serve una rivoluzione culturale nel rapporto tra Stato e sistema produttivo, che deve essere paritetico e di reciproca fiducia. Chi oggi ha la forza e la volontà di fare impresa in Italia va sostenuto e agevolato, non vessato e guardato con sospetto, perché la ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori, non lo Stato con decreti o editti. Il motto di questo Governo sarà: “non disturbare chi vuole fare”.

Le imprese chiedono soprattutto meno burocrazia, regole chiare e certe, risposte celeri e trasparenti. Affronteremo il problema partendo da una strutturale semplificazione e deregolamentazione dei procedimenti amministrativi per dare stimolo all’economia, alla crescita e agli investimenti, anche perché tutti sappiamo quanto l’eccesso normativo, burocratico e regolamentare aumenti esponenzialmente il rischio di irregolarità, contenziosi e corruzione. Un male che abbiamo il dovere di estirpare.

Abbiamo bisogno di meno regole, più chiare per tutti e di un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione, perché il cittadino non si senta parte debole di fronte a uno Stato tiranno che non ne ascolta le esigenze e ne frustra le aspettative.

Da questa rivoluzione copernicana dovrà nascere un nuovo patto fiscale che poggerà su tre pilastri. Il primo: ridurre la pressione fiscale su imprese e famiglie attraverso una riforma all’insegna dell’equità; penso, ad esempio, alla progressiva introduzione del quoziente familiare, ma penso all’estensione della tassa piatta per le partite IVA dagli attuali 65 mila euro a 100 mila euro di fatturato. E, accanto a questa, partire per una tassa piatta, dall’introduzione della tassa piatta sull’incremento di reddito rispetto al massimo raggiunto nel triennio precedente: una misura virtuosa, con limitato impatto per le casse dello Stato, che può essere un forte incentivo alla crescita.

Il secondo pilastro: una tregua fiscale per consentire a cittadini e imprese, in particolare PMI, in difficoltà di regolarizzare la propria posizione con il fisco.

E in ultimo, una serrata lotta all’evasione che deve partire da evasori totali, grandi imprese e grandi frodi sull’IVA, e soprattutto deve essere vera lotta all’evasione, non caccia al gettito. È la ragione per la quale intendiamo partire da una modifica dei criteri di valutazione dei risultati dell’Agenzia delle entrate, che vogliamo ancorare agli importi effettivamente incassati e non alle semplici contestazioni, come incredibilmente è avvenuto finora.

Imprese e lavoratori chiedono da tempo come priorità non rinviabile la riduzione del cuneo fiscale e contributivo. L’eccessivo carico fiscale sul lavoro è uno dei principali ostacoli alla creazione di nuova occupazione e alla competitività delle nostre imprese sui mercati internazionali. L’obiettivo che ci diamo è intervenire gradualmente per arrivare a un taglio di almeno cinque punti del cuneo in favore di imprese e lavoratori per alleggerire il carico fiscale delle prime e aumentare le buste paga dei secondi. Per incentivare le aziende ad assumere abbiamo in mente un meccanismo fiscale che premi le attività ad alta densità di lavoro – “più assumi meno paghi”, lo avevamo sintetizzato – ma ovviamente questo non deve far venir meno il necessario sostegno all’innovazione tecnologica.

Parlando di impresa e di lavoro, il pensiero va alle decine di tavoli di crisi ancora aperti, a cui dedicheremo il massimo impegno, e a quelle migliaia di lavoratori autonomi che non si sono più rialzati dopo la pandemia. A loro, che sono stati spesso ingiustamente trattati come figli di un Dio minore, vogliamo riconoscere tutele adeguate, in linea con quelle giustamente garantite ai lavoratori dipendenti, perché siamo sempre stati al fianco di quei quasi 5 milioni di lavoratori autonomi, tra artigiani, commercianti e liberi professionisti, che costituiscono un asse portante dell’economia italiana e non smetteremo ora. Per noi, un lavoratore è un lavoratore.

Le tutele adeguate vanno riconosciute anche a chi, dopo una vita di lavoro, va in pensione o vorrebbe andarci. Intendiamo facilitare la flessibilità in uscita con meccanismi compatibili con la tenuta del sistema presidenziale, previdenziale – chiedo scusa – partendo, nel poco tempo a disposizione per la prossima legge di bilancio, dal rinnovo delle misure in scadenza a fine anno, ma la priorità per il futuro dovrà essere un sistema pensionistico che garantisca anche le giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo, perché è una bomba sociale che noi continuiamo a ignorare, ma che in futuro investirà milioni di attuali lavoratori che si ritroveranno con assegni addirittura molto più bassi di quelli, già inadeguati, che vengono percepiti oggi.

C’è un tema di povertà dilagante che noi non possiamo ignorare. Sua Santità Papa Francesco, a cui rivolgo un affettuoso saluto, ha di recente ribadito un concetto importante: “La povertà – ha detto – non si combatte con l’assistenzialismo, la porta della dignità di un uomo è il lavoro”. È una verità profonda che soltanto chi la povertà l’ha conosciuta da vicino può apprezzare davvero. È questa la strada che intendiamo percorrere: vogliamo mantenere e, laddove possibile, migliorare il doveroso sostegno economico per i soggetti effettivamente fragili non in condizioni di lavorare: penso ai pensionati in difficoltà, agli invalidi, a cui va aumentato in ogni modo il grado di tutela, e anche a chi privo di reddito ha figli minori di cui farsi carico. A loro non sarà negato il doveroso aiuto dello Stato, ma per gli altri, per chi è in grado di lavorare, la soluzione non può essere il reddito di cittadinanza, ma il lavoro, la formazione e l’accompagnamento al lavoro, anche sfruttando appieno le risorse e le possibilità messe a disposizione dal Fondo sociale europeo, perché, per come è stato pensato e realizzato, il reddito di cittadinanza ha rappresentato una sconfitta per chi era in grado di fare la sua parte per l’Italia, oltre che per se stesso e per la sua famiglia.

E se sul reddito di cittadinanza in quest’Aula esistono posizioni diversificate, sono certa che tutti concordiamo sull’importanza di porre fine alla tragedia degli incidenti, anche mortali, sul lavoro. Il tema, qui, non è introdurre nuove norme, ma piuttosto garantire la piena attuazione di quelle che esistono, perché, come ha ricordato anche il sindacato, da ultimo con la manifestazione di sabato scorso, non possiamo accettare che un ragazzo di 18 anni come Giuliano De Seta – e cito lui per ricordare tutte le vittime – esca di casa per andare al lavoro e non vi faccia mai più ritorno.

Serve colmare il grande divario esistente tra formazione e competenze richieste dal mercato del lavoro con percorsi formativi specifici, certamente, ma ancora prima grazie a una formazione scolastica e universitaria più attente alle dinamiche del mercato del lavoro. L’istruzione è il più formidabile strumento per aumentare la ricchezza di una Nazione, sotto tutti i punti di vista, perché il capitale materiale non è niente se non c’è anche il capitale umano.

Per questo la scuola e l’università torneranno centrali nell’azione di Governo, perché rappresentano una risorsa strategica fondamentale per l’Italia, per il suo futuro e per i suoi giovani. Si è polemizzato sulla nostra scelta di rilanciare la correlazione tra istruzione e merito. Rimango francamente colpita. Diversi studi dimostrano come, oggi, chi vive in una famiglia agiata abbia una chance in più per recuperare le lacune di un sistema scolastico appiattito al ribasso, mentre gli studenti dotati di minori risorse vengono danneggiati da un insegnamento che non dovesse premiare il merito, perché quelle lacune non le colmerà nessun altro.

L’Italia non è un Paese per giovani. La nostra società nel tempo si è sempre più disinteressata del loro futuro, persino del diffuso fenomeno di quei giovani che si autoescludono dal circuito formativo e lavorativo, così come della crescente emergenza delle devianze, fatte di droga, alcolismo, criminalità. E la pandemia ha decisamente peggiorato questa condizione e, di fronte a questo scenario preoccupante, la proposta principe di certa politica in questi mesi è stata promettere a tutti la cannabis libera, perché era la risposta più facile. Ma noi, a differenza di altri, non siamo qui per fare la cosa più facile. Intendiamo: lavorare sulla crescita dei giovani a 360 gradi, promuovere le attività artistiche e culturali e, accanto a queste, lo sport, straordinario strumento di socialità, di formazione umana e di benessere; lavorare sulla formazione scolastica, per lo più affidata all’abnegazione e al talento dei nostri insegnanti, spesso lasciati soli a nuotare in un mare di carenze strutturali, tecnologiche e motivazionali; garantire salari e tutele decenti, borse di studio per i meritevoli, favorire la cultura di impresa e il prestito d’onore. Lo dobbiamo a questi ragazzi, ai quali abbiamo tolto tutto per lasciar loro solo debiti da ripagare! E lo dobbiamo all’Italia, che 161 anni fa è stata unificata dai giovani eroi del Risorgimento e che oggi, dall’entusiasmo e dal coraggio dei suoi giovani, può e deve essere ricostruita!

Sappiamo che ai giovani sta particolarmente a cuore la difesa dell’ambiente naturale. Ce ne faremo carico, perché, come ebbe a scrivere Roger Scruton, uno dei più grandi maestri del pensiero conservatore europeo, “l’ecologia è l’esempio più vivo dell’alleanza tra chi c’è, chi c’è stato e chi verrà dopo di noi”. Proteggere il nostro patrimonio naturale ci impegna esattamente, come la tutela del patrimonio di cultura, tradizioni e spiritualità, che abbiamo ereditato dai nostri padri perché lo potessimo trasmettere ai nostri figli. Non c’è un ecologista più convinto di un conservatore; ma quello che ci distingue da certo ambientalismo ideologico è che noi vogliamo difendere la natura con l’uomo dentro, coniugando sostenibilità ambientale, economica e sociale. Accompagnare le imprese e i cittadini verso la transizione verde, senza consegnarci a nuove dipendenze strategiche e rispettando il principio di neutralità tecnologica: sarà questo il nostro approccio.

Io penso di conoscere abbastanza bene l’universo dell’impegno giovanile, una palestra di vita meravigliosa, indipendentemente dalle idee politiche che si sceglie di difendere e promuovere. Confesso che difficilmente riuscirò a non provare un moto di simpatia anche per coloro che scenderanno in piazza per contestare le politiche del nostro Governo, perché inevitabilmente tornerà nella mia mente una storia che è stata anche la mia. Io ho partecipato a tantissime manifestazioni, ho organizzato tantissime manifestazioni nella mia vita, e penso che ciò mi abbia insegnato molto più di quanto non mi abbiano insegnato molte altre cose. Quindi, voglio parlare a questi ragazzi che inevitabilmente scenderanno in piazza anche contro di noi. Ricordo una frase di Steve Jobs, che diceva: “Siate affamati, siate folli”. Vorrei aggiungere anche: “Siate liberi”, perché è nel libero arbitrio la grandezza dell’essere umano.

C’è poi un’altra istituzione formativa importante, accanto a scuola e università, forse la più importante di tutte, ed è ovviamente la famiglia, nucleo primario delle nostre società, culla degli affetti e luogo nel quale si forma l’identità di ognuno di noi; intendiamo sostenerla e tutelarla e, con questa, sostenere la natalità, che nel 2021 ha registrato il tasso di nascite più basso dall’Unità d’Italia a oggi; per uscire dalla glaciazione demografica e tornare a produrre quegli anni di futuro, quel PIL demografico di cui abbiamo bisogno serve un piano imponente, economico ma anche culturale, per riscoprire la bellezza della genitorialità e rimettere la famiglia al centro della società. È, allora, un nostro impegno, preso anche in campagna elettorale, quello di aumentare gli importi dell’assegno unico universale e aiutare le giovani coppie a ottenere un mutuo per la prima casa, lavorando progressivamente anche per l’introduzione del quoziente familiare. E visto che i progetti familiari vanno di pari passo con il lavoro, vogliamo incentivare in ogni modo l’occupazione femminile, premiando quelle aziende che adottano politiche che offrono soluzioni efficaci per conciliare i tempi casa-lavoro e sostenendo i comuni per garantire asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura dei negozi e degli uffici. L’Italia ha bisogno di una nuova alleanza intergenerazionale, che abbia nella famiglia il suo pilastro e rafforzi il legame che unisce le generazioni, i figli con i nonni, i giovani con gli anziani, che vanno, a loro volta, protetti valorizzati e sostenuti, perché rappresentano le nostre radici e la nostra storia.

Diceva Montesquieu che “la libertà è quel bene che fa godere di ogni altro bene”. La libertà è il fondamento di una vera società delle opportunità, è la libertà che deve guidare il nostro agire, libertà di essere, di fare, di produrre. Un Governo di centrodestra non limiterà mai le libertà esistenti di cittadini e imprese. Vedremo, alla prova dei fatti, anche su diritti civili e aborto, chi mentiva e chi diceva la verità in campagna elettorale su quali fossero le nostre reali intenzioni.

Libertà. Libertà e democrazia sono gli elementi distintivi della civiltà europea contemporanea, nei quali da sempre mi riconosco e, dunque, anche qui, a dispetto di quello che strumentalmente si è sostenuto, non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici; per nessun regime, fascismo compreso, esattamente come ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana, una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre.

I totalitarismi del Novecento hanno dilaniato l’intera Europa, non solo l’Italia, per più di mezzo secolo, in una successione di orrori che ha investito gran parte degli Stati europei. E l’orrore e i crimini, da chiunque vengano compiuti, non meritano giustificazioni di sorta e non si compensano con altri orrori e altri crimini. Nell’abisso non si pareggiano mai i conti: si precipita e basta.

Ho conosciuto giovanissima il profumo della libertà, l’ansia per la verità storica e il rigetto per qualsiasi forma di sopruso o discriminazione proprio militando nella destra democratica italiana. Una comunità di uomini e donne che ha sempre agito alla luce del sole e a pieno titolo nelle nostre istituzioni repubblicane, anche negli anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando, nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese. Quella lunga stagione di lutti ha perpetuato l’odio della guerra civile e allontanato una pacificazione nazionale che proprio la destra democratica italiana, più di ogni altro, da sempre auspica.

Da allora, la comunità politica da cui provengo ha compiuto sempre passi in avanti, verso una piena e consapevole storicizzazione del Novecento, ha assunto importanti responsabilità di Governo, giurando sulla Costituzione repubblicana, come abbiamo avuto l’onore di fare ancora poche ore fa. Ha affermato e incarnato, senza alcuna ambiguità, i valori della democrazia liberale, che sono la base dell’identità comune del centrodestra italiano e da cui non defletteremo un solo centimetro. Combatteremo qualsiasi forma di razzismo, antisemitismo, violenza politica e discriminazione.

E di libertà molto si è discusso in epoca di pandemia. Il COVID è entrato nelle nostre vite quasi tre anni fa e ha portato alla morte di oltre 177 mila persone, in Italia. Se siamo usciti al momento dall’emergenza è soprattutto merito del personale sanitario, della professionalità e dell’abnegazione con le quali ha salvato migliaia di vite umane. A loro, ancora una volta, va la nostra gratitudine. E, con loro, il mio ringraziamento va ai lavoratori dei servizi essenziali, che non si sono mai fermati, e alla straordinaria realtà del nostro Terzo settore, rappresentante virtuoso di quei corpi intermedi che consideriamo vitali per la società.

Purtroppo, non possiamo escludere una nuova ondata di COVID o l’insorgere, in futuro, di una nuova pandemia, ma possiamo imparare dal passato, per farci trovare pronti. L’Italia ha adottato le misure più restrittive dell’intero Occidente, arrivando a limitare fortemente le libertà fondamentali di persone e attività economiche, ma, nonostante questo, è tra gli Stati che hanno registrato i peggiori dati in termini di mortalità e contagi. Qualcosa decisamente non ha funzionato e, dunque, voglio dire, fin d’ora, che non replicheremo, in nessun caso, quel modello.

L’informazione corretta, la prevenzione e la responsabilizzazione sono più efficaci della coercizione, in tutti gli ambiti, e l’ascolto dei medici sul campo è più prezioso delle linee guida scritte da qualche burocrate, quando si ha a che fare con pazienti in carne ed ossa. Soprattutto, se si chiede responsabilità ai cittadini, i primi a doverla dimostrare sono coloro che la chiedono. Occorrerà fare chiarezza su quanto avvenuto durante la gestione della crisi pandemica: lo si deve a chi ha perso la vita e a chi non si è risparmiato nelle corsie degli ospedali, mentre altri facevano affari milionari con la compravendita di mascherine e respiratori.

La legalità sarà la stella polare dell’azione di Governo. Io ho iniziato a fare politica a 15 anni, come ormai molti sanno, all’indomani della strage di via D’Amelio, nella quale la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino. Ho cominciato a fare politica allora, spinta dall’idea che non si potesse rimanere a guardare, che la rabbia e l’indignazione andassero in qualche modo tradotte in impegno civico. Il percorso che mi ha portato oggi a essere Presidente del Consiglio italiano nasce dall’esempio di quell’eroe. Quando, dopo aver letto la lista dei Ministri, sono venuta a trovare il Presidente Fontana, un paio di giorni fa, sono entrata a Montecitorio e, quando ho trovato, all’inizio dello scalone e alla fine dello scalone, una foto di Paolo Borsellino, ho pensato che si chiudesse un cerchio.

Affronteremo il cancro mafioso a testa alta, come ci hanno insegnato i tanti eroi che, con il loro coraggio, hanno dato l’esempio a tutti gli italiani, rifiutandosi di girare lo sguardo o di scappare anche quando sapevano che quella tenacia probabilmente li avrebbe condotti alla morte. Magistrati, politici, agenti di scorta, militari, semplici cittadini, sacerdoti; giganti come Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rosario Livatino, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella, Emanuela Loi, Libero Grassi, Don Pino Puglisi, e con loro un lunghissimo elenco di uomini e donne che non dimenticheremo. La lotta alla mafia ci troverà in prima linea; da questo Governo criminali e mafiosi avranno solo disprezzo e inflessibilità!

E legalità vuol dire anche una giustizia che funzioni, con un’effettiva parità tra accusa e difesa e una durata ragionevole dei processi, che non è solo una questione di civiltà giuridica e di rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, ma anche di crescita economica. La lentezza della giustizia ci costa almeno un punto di PIL l’anno, secondo le stime di Bankitalia. Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio di quest’anno, sono stati 71 i suicidi in carcere. Non è degno di una Nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro dei nostri agenti di Polizia penitenziaria.

Con la stessa determinazione rivedremo anche la riforma dell’ordinamento giudiziario, per mettere fine alle logiche correntizie che minano la credibilità della magistratura italiana. E permettetemi di dire un’altra cosa: noi abbiamo assunto l’impegno di limitare l’eccesso di discrezionalità nella giustizia minorile, con procedure di affidamento e di adozione garantite e oggettive, perché non ci siano mai più casi Bibbiano. Intendiamo portare a termine questo impegno.

Gli italiani avvertono il peso insopportabile di città insicure, in cui non c’è tutela immediata, in cui si percepisce l’assenza dello Stato. Vogliamo prendere l’impegno di riavvicinare i cittadini alle istituzioni, ma anche di riportare in ogni città la presenza fisica dello Stato. Vogliamo fare della sicurezza un dato distintivo di questo Esecutivo, al fianco delle nostre Forze dell’ordine, che voglio ringraziare oggi, qui, per l’abnegazione con la quale svolgono il proprio lavoro, in condizioni spesso impossibili e con uno Stato che a volte ha dato l’impressione di essere più solidale con chi minava la nostra sicurezza di quanto lo fosse con chi invece quella sicurezza rischiava la vita per garantirla!

Sicurezza e legalità, certo, riguardano anche una corretta gestione dei flussi migratori. Secondo un principio semplice: in Italia, come in qualsiasi altro Stato serio, non si entra illegalmente; si entra legalmente, attraverso i “decreti flussi”.

In questi anni di terribile incapacità nel trovare le giuste soluzioni alle diverse crisi migratorie, troppi uomini, donne e bambini hanno trovato la morte in mare, nel tentativo di arrivare in Italia. Troppe volte abbiamo detto “mai più”, per poi ripeterlo ancora e ancora. Questo Governo vuole, quindi, perseguire una strada poco percorsa fino ad oggi: fermare le partenze illegali, spezzando finalmente il traffico di esseri umani nel Mediterraneo.

La nostra intenzione è sempre la stessa, ma, se non volete che si parli di blocco navale, lo dico così: è nostra intenzione recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione europea, che nella terza fase, prevista e mai attuata, prevedeva proprio il blocco delle partenze dei barconi dal Nordafrica. Intendiamo proporlo in sede europea, attuarlo in accordo con le autorità del Nordafrica, accompagnato dalla creazione sui territori africani di hotspot gestiti da organizzazioni internazionali, dove poter vagliare le richieste di asilo e distinguere chi ha diritto a essere accolto in Europa da chi quel diritto non ce l’ha, perché non intendiamo, in alcun modo, mettere in discussione il diritto di asilo per chi fugge da guerre e persecuzioni!

Tutto quello che noi vogliamo fare in rapporto al tema dell’immigrazione è impedire che la selezione di ingresso in Italia la facciano gli scafisti.

E allora mancherà un’ultima cosa da fare, forse la più importante: rimuovere le cause che portano i migranti, soprattutto i più giovani, ad abbandonare la propria terra, le proprie radici culturali e la propria famiglia per cercare una vita migliore in Europa. Il prossimo 27 ottobre ricorrerà il sessantesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione postbellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con Nazioni di tutto il mondo. Ecco, credo che l’Italia debba farsi promotrice di un “piano Mattei” per l’Africa, un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione europea e Nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area subsahariana. E ci piacerebbe così recuperare finalmente, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il ruolo strategico che l’Italia ha nel Mediterraneo.

Mi avvio a concludere, colleghi, ringraziandovi ovviamente per la pazienza. Non sarà una navigazione facile, quella del Governo che si appresta a chiedere la fiducia al Parlamento, per la gravosità delle scelte che saremo chiamati ad affrontare, ma anche per, diciamo così, un pregiudizio politico che spesso colgo nelle analisi che ci riguardano. Credo però che, in parte, sia giustificato. In fondo io sono la prima donna che arriva alla Presidenza del Consiglio, vengo da una storia politica che è stata spesso relegata ai margini della storia repubblicana e non ci arrivo tra le braccia di un contesto familiare favorevole o grazie a amicizie importanti; sono quello che gli inglesi definirebbero un underdog, diciamo così, lo sfavorito, quello che, per riuscire, deve stravolgere tutti i pronostici. È quello che intendo fare ancora, stravolgere i pronostici, con l’aiuto di una valida squadra di Ministri e sottosegretari, con la fiducia e il sostegno di chi sceglierà di votare per noi, con le critiche che arriveranno da chi voterà contro questo Governo, perché, alla fine di questa avventura, a me interesserà una cosa sola: sapere che abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare per dare agli italiani una Nazione migliore. A volte riusciremo, a volte falliremo, ma state certi che non indietreggeremo, non getteremo la spugna, non tradiremo.

Nel giorno in cui il nostro Governo ha giurato nelle mani del Capo dello Stato ricorreva la memoria liturgica di Giovanni Paolo II, un Pontefice, uno statista, un Santo che io ho avuto l’onore di conoscere personalmente. Mi ha insegnato una cosa fondamentale della quale io ho sempre fatto tesoro. “La libertà – diceva – non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve”. Io sono sempre stata una persona libera, sarò sempre una persona libera e, per questo, intendo fare esattamente quello che devo.

Grazie.

Governo, la replica di Meloni alla Camera: «Noi siamo coerenti, non faremo mai giravolte». Redazione il 25 Ottobre 2022 su Il Secolo d'Italia.

Una replica puntuale e tutt’altro che routinaria. Chi si attendeva una Giorgia Meloni accomodante o, in qualche misura, sotto tono con le opposizioni è rimasto deluso. Alle critiche delle minoranze il premier ha ribattuto punto su punto con lucidità, argomentazioni e passione nonostante in alcuni casi ci fosse stata – come lei stessa non ha mancato di far notare – una «lettura oggettivamente distorta o mistificata». È il caso, ad esempio, del voto di FdI sul Next Generation Ue e sul Pnrr. «Non abbiamo mai votato contro quel meccanismo, ci siamo astenuti», ha ribattuto. Ricordandone anche il motivo: «Le 370 pagine con cui si impegnavano 250 miliardi di euro arrivavano in aula a un’ora dall’inizio della discussione». Quindi ha rilanciato: «Con questo governo non accadrà perché Parlamento ha il suo ruolo».

Meloni: «Merito e uguaglianza sono fratelli»

Nel corso della seduta non sono mancati momenti di polemica diretta. Come quella con la dem Serracchiani, che nel suo intervento l’aveva accusata di «volere le donne un passo dietro agli uomini». «Mi guardi onorevole Serracchiani – ha replicato la Meloni -: le sembra che io stia un passo dietro agli uomini?». Le donne, ha aggiunto, «non avranno nulla da temere da questo governo». Particolarmente efficace è risultata la replica su aborto e diritti. «Se è una sconfitta per una donna rinunciare al lavoro per avere un bambino – ha detto -, lo è altrettanto rinunciare al bambino per avere un lavoro».

«La risposta per il Sud non è il RdC»

Sul piano più programmatico merita una menzione la questione del reddito di cittadinanza. Il  premier ha chiarito che il problema non sono i suoi «percettori» bensì «una classe politica che si accontentava di tenere le persone in difficoltà pur di farci cassa elettorale». In ogni caso, ha ricordato, «la risposta per il Sud non è il Rdc ma il lavoro». Il tema del lavoro ha richiamato anche quello della mafia. Sul punto la Meloni ha indicato due strade: colpire i proventi dei clan, conservare il carcere ostativo. «La lotta alla mafia si fa con provvedimenti concreti». Particolare attenzione la presidente del Consiglio ha dedicato alla questione immigrazione, sollevata in sede di dibattito dal deputato di origine ivoriano, Aboubakar Soumahoro, cui la Meloni ha dato inavvertitamente del “tu” innescando un accenno di gazzarra da parte dell’opposizione subito domata.

«L’immigrazione illegale crea lavoratori di serie B»

«Per anni – ha ricordato – ci è stato detto che l’immigrazione illegale serviva perché immigrati avrebbero fatto lavori che gli italiani non volevano fare. Io penso che se accogli qualcuno in comunità non è per essere un lavoratore di serie b ma per dargli la stessa vita dei cittadini italiani. È la ragione – ha aggiunto – per cui i flussi vanno governati, fermo restando il tema dell’asilo, diritto per me sacro». Quando invece questo non accade, ha aggiunto, molti finiscono «a spacciare nelle strade o nelle mani della prostituzione».  Altro punto bersagliato dalle opposizioni, la “scuola del merito“. «Uguaglianza e merito – ha obiettato la Meloni – non sono avversari, bensì fratelli». La sfida, ha spiegato, «è dare a tutti  le stesse possibilità sulla linea di partenza. Io – ha proseguito – voglio una nazione in cui destino delle persone si decida in base al loro valore e non delle loro amicizie».

Meloni: «Sull’Europa nessuna giravolta»

Capitolo rapporti con l’Europa. Sul punto l’opposizione ha parlato di cambio di rotta da parte del centrodestra. Versione ribaltata dalla Meloni. «Non sarà magari – si è chiesta – che il racconto fatto su di noi e su ciò che credevamo, è stato un tantino forzato nel tentativo di costruire l’immagine del mostro? E quando diventa difficile dimostrare che il mostro non esiste, si deve inventare una svolta?» In realtà, ha ricordato il premier «nella storia italiana le svolte sono sempre state giravolte ma non aspettatevele da noi». La Meloni ha concluso sottolineando la franchezza del dibattito. «Spero che continuerà così», ha auspicato. «Non sono i partiti a dare legittimazione uno all’altro – ha spiegato -, sono i cittadini a dare legittimazione in politica. Questo tentativo di delegittimare l’avversario alla fine ha finito per indebolire tutta politica. E quando la politica è debole, altri diventano forti, e quegli altri spesso non hanno legittimazione popolare». In ogni caso, ha concluso, «giudicatemi per quel che faccio».

Da ansa.it il 25 ottobre 2022.

"Io non avrò mai timore di parole franche, dirette e delle critiche anche molto decise, sono una persona che l'ha fatto in passato, non ho mai risparmiato nessuno e mai ho mancato di rispetto nei confronti dei miei avversari e non mi aspetto che le opposizioni oggi lo facciano con me. L'unica cosa che chiedo è di essere giudicata per quello che davvero dico, penso e faccio". Così la premier Giorgia Meloni nell'intervento di replica alla Camera. 

"Io non devo fare nessuna scelta", "io non sarò mai la cheerleader di nessuno". Lo ha detto parlando dei rapporti in Europa la premier Giorgia Meloni in replica alla Camera. Sulla posizione sull''Europa "non sarà magari che il racconto fatto su di noi e su ciò che credevamo, è stato un tantino forzato nel tentativo di costruire l'immagine del mostro? E quando diventa difficile dimostrare che il mostro non esiste, si deve inventare una svolta? Nella storia italiana le svolte sono sempre state giravolte ma non aspettatevele da noi, non siamo abituati a fare giravolte". Così la premier Giorgia Meloni rivolgendosi alle opposizioni nell'intervento di replica alla Camera. E parlando dell'Europa ha aggiunto: "è soggetto forte che dovrebbe fare meno e farlo meglio, non occuparsi di tutto, del resto è scritto nei trattati: è il principio di sussidiarietà, é quello il tema che vi ho posto

 "Non dubitate, non dubitino le donne italiane: non hanno decisamente nulla da temere con questo governo e, presidente, lo dico all'opposizione: io sono convinta che in cuor loro non lo pensino neanche loro", ha detto il premier Giorgia Meloni. "Stamattina ho parlato di lavoro, welfare ma ho parlato anche di famiglia e natalità perché considero una sconfitta che una donna debba rinunciare alla natalità per avere un lavoro ma anche debba rinunciare ad avere un bambino per lavorare. Mi sembra un modo per garantire piene libertà, è una sfida su cui spero siamo d'accordo. Chiedo libertà concreta e reale, sapendo che sono una madre e privilegiata, ma se per me è difficile tenere tutti insieme...". 

"Ho sentito dire che consideriamo colpevoli i percettori del Reddito di cittadinanza. Non ho mai considerato il problema i percettori del Reddito, ho considerato a volte un problema una classe politica che si accontentava di tenere le persone in difficoltà in quella difficoltà pur di farci cassa elettorale. - ha detto - occorre ragionare su un sistema che ha avuto dei problemi e non funziona. È notizia di ieri, un navigator fa in media non più di un colloquio di lavoro al giorno. Sono le risposte inadeguate il problema".

Giorgia Meloni dà del "tu" al deputato Aboubakar Soumahoro, per poi scusarsi di fronte alle proteste dell'opposizione. È successo in sede di replica della premier alla Camera. "Al collega Soumahoro mi sento di dire, tutti ci sentiamo scolari della storia, sai, altrimenti saremmo ignoranti del presente, senza futuro", ha detto Meloni, interrotta dalle proteste dei deputati dell'opposizione. "Chiedo scusa, errore mio, chiedo scusa, succede di sbagliare, basta chiedere scusa quando accade", ha aggiunto Meloni.

"Non sono i partiti a dare legittimazione uno all'altro, sono i cittadini a dare legittimazione in politica. Dovremmo interrogarci anche su questo. Ho apprezzato il dibattito di oggi, franco, come franca sono abituata a essere io franca, ma anche rispettoso, e spero che continuerà così. Questo tentativo di delegittimare l'avversario alla fine ha finito per indebolire tutta politica. E quando la politica è debole, altri diventano forti, e quegli altri spesso non hanno legittimazione popolare". 

Bisogna "dialogare con gli avversari, anche con forza, con veemenza, non è una cosa che mi spaventa, ma riconoscendo che in quel partito c'è una legittimazione che viene dalla democrazia della nazione: questo non serve all'avversario, ma serve alla credibilità delle nostre istituzioni, al ruolo della politica. Un ruolo a cui la politica da tempo ha abdicato e che oggi vogliamo contribuire a restituirle: credibilità per la politica, credibilità per le sue istituzioni, credibilità per questa nazione. Grazie". Così il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha chiuso il suo intervento in sede di replica alla Camera.

Meloni dà del tu a Soumahoro, lui: “Durante lo schiavismo i neri non avevano diritto al lei”. Chiara Nava il 26/10/2022 su Notizie.it.

Giorgia Meloni si è rivolta all'onorevole Soumahoro dandogli del tu, per poi scusarsi. Il deputato ha parlato di schiavismo. 

Giorgia Meloni, durante la replica, si è rivolta all’onorevole Soumahoro dandogli del tu. In seguito si è subito scusata. Il deputato ha ricordato che ai tempi dello schiavismo i neri non avevano diritto al “lei”. 

Meloni dà del tu a Soumahoro, lui: “Durante lo schiavismo i neri non avevano diritto al lei”

Nel giorno della fiducia alla Camera, ottenuta dal nuovo governo con 235 voti favorevoli e 154 contrari, si è tenuto un botta e risposta a distanza tra Giorgia Meloni e l’onorevole Aboubakar Soumahoro. Durante la replica, la premier si è rivolta a Soumahoro, per rispondere all’intervento che il parlamentare ha fatto durante il dibattito. Inizialmente ha pronunciato male il suo cognome, poi si è rivolta al deputato di Alleanza Verdi e Sinistra dandogli del tu.

“Al collega Soumahoro voglio dire che tutti ci sentiamo allievi della storia, sai? Altrimenti saremmo ignoranti del presente” sono state le parole pronunciate dalla Meloni, che poi si è difesa e ha chiesto scusa. “Non ho dato del tu a nessuno. Ah, era il sai. Avete ragione, errore mio, calmi… Succede nella vita di sbagliare, l’importante è riconoscerlo e chiedere scusa” ha dichiarato. 

La risposta di Soumahoro

“Visto che la Presidente Meloni è anche Lei ‘scolara della Storia’ parafrasando Gramsci, si ricorderà che durante lo schiavismo e la colonizzazione i ‘neri’ non avevano diritto al ‘Lei’, che era riservato a ciò che veniva definito ‘civiltà superiore’.

Ma forse quando un underdog incontra un under-underdog viene naturale dare del tu” ha dichiarato Soumahoro, riferendosi al fatto che la Meloni nel suo discorso si è definita un’underdog, espressione inglese per indicare un atleta dato per sfavorito secondo i pronostici. “In ogni caso, visto che mi ha dato del tu anche contravvenendo alle regole istituzionali spero che questo possa essere prodromica ad un confronto personale sui temi che ci stanno reciprocamente a cuore” ha aggiunto il parlamentare, accogliendo le scuse della premier ma senza nascondere il suo disappunto.

Soumahoro ha specificato che lui ha dato alla Meloni del lei e la stessa cosa avrebbe dovuto fare la premier. 

Impressioni di ottobre. Don Raffae’, gli stivali di Soumahoro e il nostro diritto di dare di stronzo a un deputato nero. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022

Simone Lenzi su Linkiesta e Claudio Velardi a proposito del suo libro elogiano l’ex bracciante africano diventato parlamentare di sinistra e, come il protagonista della canzone di De André, mi spiegano che cosa penso. Ma saremo un paese normale soltanto quando ne parleremo come faremmo di un bianco

Non mi faccio una ragione che, sull’internet, la gente cerchi perlopiù di dimostrarsi saputa. Di dirti che ha colto la citazione banale che hai fatto, di farti una battuta che ritiene la farà sembrare sagace, di esporti la propria opinione sul mondo o anche solo sulla notiziola del giorno.

Sull’internet come altrove, io cerco un don Raffae’. Sì, quello di De André. No, non nel senso di padrino mafioso che possa raccomandare mio fratello o prestarmi un cappotto elegante. Nel senso di quel verso prima del caffè: uno che «mi spiega che penso».

Non ne trovo mai. È quindi con gioia ma con sorpresa che negli ultimi giorni ne ho trovati ben due. Uno pure napoletano, quindi forse più adatto al ruolo di don Raffae’ di quanto lo sia il livornese. Comunque: ben due che mi spiegano che penso, una settimana di bottino ricco.

Mentre Simone Lenzi scriveva il pezzo che sarebbe uscito sabato mattina su Linkiesta, io ero a Bologna, alla presentazione del libro di Claudio Velardi, Impressioni di settembre. Mentre Simone Lenzi scriveva di Aboubakar Soumahoro (certo che anch’io – come Lenzi – ho dovuto guglare il nome, e certo che neanch’io ho il complesso di sbagliarglielo: al massimo facciamo pari con cinquant’anni in cui mi hanno storpiato Guia), Velardi faceva Carmelo Bene.

C’era qualcosa di professionalmente teatrale nel modo in cui, per dire che il Pd si atteggia a partito delle nuove istanze ma poi sfodera delle candidature che più retrograde non potrebbero essere, Velardi ripeteva semplicemente un nome, cambiando un po’ tono – esasperato, divertito, sconcertato, rassegnato – ogni volta: Carlo Cottarelli, Carlo Cottarelli, Carlo Cottarelli. C’erano tutti i «machedavéro» del mondo, in come ne pronunciava il nome.

Candidate un rider, non Cottarelli, se volete essere il partito che rappresenta i nuovi lavoratori, diceva Velardi; e io pensavo: Aboubakar Soumahoro (non prendiamoci in giro, non sono in grado di pensarlo senza refusi: pensavo «quello che si è presentato in parlamento con gli stivali di gomma per ricordarci che era il quarto stato e le più frivole di noi hanno pensato alle finte tute da operaio nella sfilata di Balenciaga, e prima ancora quelle di Gucci che avevano pure le finte macchie»).

Mentre Lenzi scriveva che il Novecento era finito, Velardi diceva che la sinistra aveva vinto: che tutte le battaglie che aveva portato avanti negli ultimi centocinquant’anni erano vinte. E quindi ora cosa fai, quando i bambini non vanno più in miniera, le donne hanno la maternità pagata, i problemi gravi sono più o meno risolti? Ti resta tantissimo tempo libero, come sintetizzava Lenzi: «Una sinistra il cui immaginario di riferimento e la cui esperienza di lotta per la sopravvivenza nella modernità coincide con quella di un professore di liceo […] le lunghe ferie pagate, la tredicesima, tanto tempo libero per ribadire sui social che si sta dalla parte del giusto». E quindi ti butti sui diritti civili. Scuoteva la testa Velardi, rispondendo senza saperlo a Lenzi, demolendo consapevolmente tutte le campagne suscettibili: ma la risposta non può essere questa, e infatti non funziona.

Sabato mattina, leggevo l’elogio di Soumahoro scritto da Lenzi, e ripercorrevo le due pessime impressioni che mi aveva fatto il deputato a inizio legislatura. La prima, nell’imbarazzante filmato mandato in onda da Propaganda. Quando, prima di farsi fotografare con gli stivali di gomma, aveva parlato al corteo che lo aveva accompagnato a Montecitorio. Un discorso scandito dall’anafora «Noi non siamo poveri», che funzionava solo intendendo che lo siamo formalmente ma siamo ricchi dentro, e quindi non può funzionare se l’oratore è qualcuno che si accinge a cominciare un lavoro per cui guadagnerà dieci volte un professore di liceo. Sì, certo, è lì in rappresentanza degli ultimi (se non sono ultimi i braccianti dei cui diritti ci occupiamo meno che di quelli dei neri di Minneapolis, non so proprio chi), ma non può più atteggiarsi a ultimo.

La seconda pessima impressione è stata quando la Meloni ha fatto la cafonata di dargli del tu. Soumahoro era inquadrato, e non se n’è accorto (fanno poco caso alle declinazioni dei verbi coloro per cui l’italiano è la prima lingua, sarebbe folle pretenderlo da chi ha imparato l’italiano da adulto). Qualcun altro l’ha notato e ha iniziato a rimproverare urlando la presidente del Consiglio: gli aveva dato del tu, era una cafona (niente dice di te che sei attento al bon ton come metterti a urlare «cafona» in parlamento).

L’indignazione per il gravissimo «tu» ingrana, Soumahoro capisce che funziona e subito se ne appropria. Twitta: «La Pres. @GiorgiaMeloni si definisce “scolara della Storia”, eppure dovrebbe ricordarsi che con lo schiavismo e il colonialismo, i “neri” non avevano diritto al “Lei”. Forse all’#underdog viene naturale dare del tu a un under-underdog. No, Signora Presidente, mi dia del Lei». Bravissimo – a cogliere pretesti minimi e a sfruttare ogni inciampo dell’avversaria per piazzarsi come miglior vittima protagonista e a parlare a un pubblico che non gli chiederà di che schiavismo parli – ma non è uno sport che io ami moltissimo.

Però, sabato mattina, i miei due don Raffae’ convergono. Forse perché ha letto Lenzi, Velardi twitta: «Consiglio non richiesto al @pdnetwork. La persona più sveglia che circola dalle vostre parti è @aboubakar_soum. Viene dal mondo reale, ha energie da vendere e sa comunicare. Candidate lui, altro che i vostri sepolcri imbiancati che discutono del nulla». Claudio Caprara gli risponde «Evidentemente non l’hai mai incontrato», e a me sembra una buona notizia. Non ricordo di chi fosse la battuta «Il razzismo sarà finito quando si potrà dire che un nero è uno stronzo», ma mi pare che da queste parti sia già un progresso questo.

Che ci sia un nero che non è un fattorino di Glovo o uno sportivo professionista multimilionario (le uniche due categorie finora presenti in un posto in cui la classe media è inderogabilmente bianca), e che questo nero non sia un santino ma un uomo di potere di cui possiamo discutere, com’è normale accada d’un deputato.

Ci saranno aggiustamenti, esagerazioni, bisogno di ricordarci che lui è nero-quindi-underdog anche quando non lo è più da un pezzo, vittimismi, vezzi, elogi, critiche: roba normale. Forse il paese normale che auspicava quel tizio anni fa passa anche da qui: dal fatto che di un ex bracciante nero uno possa dire secondo me il partito ci deve puntare, e l’altro rispondere secondo me è uno stronzo. Esattamente come faremmo di un economista bianco.

Soumahoro, nero, colto e astuto: la sinistra ai suoi piedi. Francesco Specchia su Libero Quotidiano l'1 novembre 2022

Vedendo all'opera il così giovane (è del 1980) e già cosi esperto Aboubakar Soumahoro, si capiscono le ragioni della collega Guia Soncini: noi saremo veramente liberi quando potremo esercitare il diritto di dare dello stronzo a un deputato nero, senza tema di essere tacciati di razzismo. Vale naturalmente anche per i gay, le lesbiche, i tradizionalisti cattolici, i fascisti, i liberali, Memo Remigi che palpa le ragazze e chiunque dimostri di essere, inconfutabilmente, uno stronzo. Anni fa, al Giovanni XXIII° un collegio universitario di Parma, splendido crogiolo di razze, etnie e religioni, la chiamavamo "sindrome di Eddie", dal nome di Eddie Bantamoi, studente di medicina del Camerun. Il quale ogni volta che faceva una cazzata (e accadeva spesso) si sedeva incrociando le gambe, puntava il dito e accusava noialtri colleghi bianchi di razzismo: tirava fuori l'orrore del colonialismo, Mussolini e l'Etiopia, il colore della pelle come la lettera scarlatta. Ecco, Eddie, quando voleva, era uno stronzo. Per anni, nessuno di noi ebbe il coraggio di reagire, vuoi a causa dell'ambiente cattolicissimo, vuoi perché affogavamo in un irrazionale complesso di colpa terzomondista.

Finché un giorno si alzò un collega del Pakistan che forte, di una gradazione d'epidermide sul beige, sbottò: «Eddie, basta con questa storia del razzismo: tu sei uno stronzo». Novantadue minuti di applausi ininterrotti, quasi tutti dall'ala ivoriana e nigeriana del parterre studentesco. Questo per dire che l'onorevole - guarda caso della Costa d'Avorio - Aboubakar Soumahoro, eletto alla Camera per l'Alleanza Verdi e Sinistra di Bonelli e Fratoianni ieri, conficcato nella sedia di Fabio Fazio a Che tempo che fa, mi ha ricordato la "sindrome di Eddie". Beninteso: Soumahoro non è affatto uno stronzo. Però è assolutamente scafato sull'uso dell'armamentario retorico della sinistra estrema la quale - giustamente - gli sta attribuendo la stoffa del leader. Eletto deputato, si è presentato con gli stivali di quando era bracciante, rivendicando il passato da bracciante e da sindacalista dei braccianti all'Usb contro il caporalato.

Oddio c'è anche da dire che secondo Wikipedia - «l'Usb l'ha accusato di non avere utilizzato interamente per i fini prefissati i fondi raccolti durante la pandemia come dirigente Usb. Soumahoro ha chiesto una conciliazione di 25mila euro. Nel 2022 poi alcuni cofondatori della Lega Braccianti, alcuni dei quali usciti da essa in polemica con Soumahoro, lo hanno accusato di scarsa trasparenza nella gestione del conto corrente dell'associazione». Ma questi sono - diciamo - dettagli. Soumahoro non è affatto capitato a Montecitorio per caso; è preparatissimo, laureato in sociologia col massimo dei voti con una tesi sul mondo del lavoro, scrive per l'Espresso, pubblica con Feltrinelli, pianifica ogni sua apparizione, conosce le persone giuste. Quel che colpisce è la sua capacità di usare i mass media. In aula ha avuto la fortuna di essere stato al centro di una gaffe di Giorgia Meloni che gli ha inavvertitamente dato del "tu". 

Da lì, con la storia della mancanza di rispetto e del razzismo strisciante, non ha più mollato l'osso. E da Fazio è stata l'apoteosi. L'onorevole, sempre rimarcando la gaffe della premier ha insistito: «Tanti anni fa nelle colonie, i colonizzatori chiamavano i colonizzati utilizzando il tu, semplicemente perché il lei era ritenuto onorabile ed era riservato solo ai bianchi. Quindi questo termine oggi è un richiamo a tutto questo, ma anche un modo per guardare le persone dall'alto verso il basso solo perché sono donne, neri o della comunità Lgbtq, perché ritenute inferiori». E qui subito ci è subito esplosa in testa tutta le cinematografia dell'emarginazione da La Capanna dello zio Tom a Kunta Kinte in sottofondo - al posto delle battute della Littizzetto - il discorso di Martin Luther King al Lincoln Memorial e Mandela day dei Simple Minds.

Poi, la perla: «La presidente può darmi anche del dottore, sono laureato». Qualche ora dopo i social, specie quelli a sinistra e specie quelli del Pd, sono esplosi paventando la figura di un "Papa nero", di un Obama africano che dica qualcosa davvero di sinistra e salvi il centrosinistra lettiano dalla crisi d'identità e consensi in cui è precipitato. Aboubakar Soumahoro, qualche ora dopo ha fatto di meglio. Ha scritto sui social, riportato dall'Ansa: «Davanti a questa Destra, le forze di Sinistra, progressiste e ambientaliste, non possono continuare ad essere frammentate, ma devono avere il coraggio di unirsi attorno ad un'identità, con una visione e proposte comuni che diano luogo a una nuova egemonia culturale, parafrasando Gramsci». Come dire: il Pd non basta più. E ha aggiunto: «La classe politica è chiamata ad avere il coraggio e l'umiltà di riconoscere che siamo davanti ad una forte crisi di rappresentanza». Si tratta di «uno sforzo collettivo che deve investire tutte e tutti. Perché, come diceva Angela Davis (ndr, in effetti Angela Davis mancava, in sottofondo Sweet Black Angel dei Rolling Stones) è nelle collettività che troviamo serbatoi di speranza e di ottimismo. Sarà dai serbatoi del sogno collettivo che noi costruiremo una nuova casa politica».

Come dire: Letta non è più adatto, ci vuole aria nuova. Claudio Velardi attizza gli ex compagni del Pd: «La persona più sveglia che avete da quelle parti è Soumahoro, viene dal mondo reale. Candidate lui». Ed è vero, alla Camera l'uno vero discorso a sinistra l'ha fatto lui. Andrea Orlando ammette: «Non abbiamo uno di sinistra da mettergli contro». Qualcuno balbetta che non si può candidare Aboubakar perché non è iscritto ai Dem, ma è questione di lana caprina. La realtà è che nel Pd che rimanda il più possibile il congresso, sono imbarazzati e, in prospettiva, terrorizzati dall'arrivo di un nuovo leader che non risieda nella Ztl, che sia nero, che conosca la plebe e da lì nasca, che magari sia stronzo e per questione di politically correct non glielo puoi far notare. Ognuno ha l'Eddie che si merita. Ma il nostro oggi è un ottimo medico, e non corre il rischio di diventare segretario del Pd...

Il sindacalista con gli stivali già Papa nero democratico. L'ivoriano è ormai il leader morale del Pd. L'ultima missione: salire a bordo delle navi Ong per sfruttare l'onda mediatica. Luigi Mascheroni su Il Giornale il 7 Novembre 2022.

In realtà la destra era arrivata prima anche qui. Toni Iwobi, per dire, il senatore di colore della Lega, fu eletto nel 2018. Anche se non ricordiamo particolari festeggiamenti degli attivisti anti-apartheid.

A parte che un conto è essere di colore, ma verde, come un leghista qualunque, e un altro essere di colore, ma rosso, come le persone perbene; e non è la stessa cosa. Comunque, Aboubakar Soumahoro nuova freccia vincente dell'arcobaleno, una Boldrini che ha completato il percorso di transizione di genere; un altro Saviano, però afro è indubbiamente l'espressione più felice della Sinistra che si impone il dovere di aver maggiori diritti: il Lei e non il tu, «la» al posto di «il», Patria invece di Nazione, naufraghi e non clandestini, libera cannabis in libero mercato, libero rave in terreno privato, ius scholae, ius soli E come dice Enrico Letta a proposito delle coalizioni elettorali, meglio soli che

Ma chi è il nuovo referente politico di Letta&Co.?

Nome: Aboubakar, composto da abu, «padre di», e bakr, «giovane cammello», letteralmente «padre del giovane cammello». Da cui il passo evangelico «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un povero entri nel Pd». Cognome: Soumahoro, di Bétroulilié, Costa d'Avorio, Africa occidentale, terra di antilopi, gazzelle, cantanti reggae e calciatori pagati il triplo del Pil dello Stato (più o meno come da noi); 42 anni, in Italia da quando ne aveva 19; laurea in Sociologia all'Università di Napoli; un passato da bracciante agricolo; da sempre in prima fila nelle battaglie per i diritti dei lavoratori (quindi lontano dalle priorità del Partito democratico); teorico del campo larghissimo, sognando una super confederazione delle Sinistre secondo la massima politica africana «Se le formiche si mettono d'accordo, possono spostare un elefante»; sindacalista inquieto contro lo sfruttamento e il caporalato (ma non si è lasciato bene con l'Unione Sindacale di Base...), rapporti tesi coi musulmani italiani, e nelle ultime elezioni candidato alla Camera nella lista Alleanza Verdi e Sinistra. È riuscito nell'impresa di perdere male in un collegio blindato, come Modena; ma è stato ripescato. Olè!

E così Aboubakar Soumahoro, il paladino degli ultimi, è il primo a spiccare tra gli onorevoli colleghi il giorno dell'insediamento in Parlamento: pugno alzato, grandes chaussures et beaux cerveaux, entra a Montecitorio con indosso gli stivali sporchi di fango simbolo delle sofferenze e del lavoro, ci sta giusto il tempo di battibeccare con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni «Mi dia del Lei!» #laPeggioreDESTRAdiSempre - e quando esce è già il Papa nero della Sinistra. Da quelle parti dell'emiciclo è così: basta la battuta buona al momento giusto, e subito qualcuno comincia a far girare il tuo nome come possibile segretario del Partito. Non vediamo l'ora di assistere allo spettacolo: scorpacciata di popcorn congressuali. Però, si sa: nei conclavi si entra Papa e

Elemento cardinale nel nuovo progetto politico riformista, lucido, determinato e terribilmente credibile per gente abituata a Letta e Bonaccini, l'italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro è tutto ciò che la Sinistra vorrebbe essere e, purtroppo, è. Ultraeuropeista, turbo-green, fluida, femminista, pacifista e iper immigrazionista: è salito sulla nave delle Ong twittando «Vergogna! Sono indignato! Il governo Meloni è disumano». Click.

Curriculum chic di Aboubakar Soumahoro, detto dagli amici «Abou bu-Sette-te» per la frequentazione della rete di Umberto Cairo: un blog su HuffPost, una rubrica sull'Espresso, un libro per Feltrinelli, uno sciopero della fame e un rifiuto razzista subito da un tassinaro romano. Pensatori di riferimento: Mandela, Gramsci, il decolonizzatore Frantz Fanon, Chiara Ferragni, la Moratti, Pif e Diego Bianchi, in arte Zoro: E dajie Sogni: sostituire il reddito di cittadinanza con quello di esistenza; l'istituzione di una patente del cibo che ne certifichi la provenienza (insomma una sovranità alimentare terzomondista); cancellare i decreti sicurezza (quando lo disse all'assemblea del Pd a Bologna, tre anni fa, venne giù dagli applausi la sala Convegni del Fico, e Oscar Farinetti voleva adottarlo: «Figlio mio!!»); e soprattutto l'assorbimento di quel che resta della Lega nord nella Lega dei braccianti. «Se fossi il Salvini nero, la pacchia finirebbe: ma per i lumbard».

E in effetti, fossimo Salvini, ci preoccuperemmo. Dopo lo scenografico ingresso in Parlamento - da cui il modo di dire «sindacalista con gli stivali», o anche «dei miei stivali» - ospite nel giro di una settimana di Fabio Fazio e twitstar del momento, Aboubakar Soumahoro («Sono laureato, può chiamarmi dottore») rappresenta la punta più colored nella scala cromatica dei neri di tendenza. Come Rula, più di Rula. Appellativi: «l'Obama di Cerignola». «Il nostro Bernie Sanders». «Mister Pacchia»... È il Sidney Poitier del Transatlantico. Come dicono i cronisti parlamentari quando lo vedono: «Indovina chi viene alla bouvette?».

Tutti i meme di Soumahoro. Con gli stivali di Prada. Con i Moon Boot. Con le scarpe coi tacchi. Con i piedi da Hobbit. Vestito da Hobbit. Che fa i Campi Hobbit.

Tag-line del suo account Twitter: «Meglio fare un passo con il popolo che cento passi senza». Che è un po' il «Meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora» in salsa habanero. Molto piccante, ma buona.

Buono, buonista, buongustaio, buoni propositi e buono a sapersi, furbo, dalla parte degli invisibili ma mediaticissimo, istrionico, vittimista, simpatico e familista (e non staremo qui a citare la Coop di famiglia, fondata dalla suocera e gestita dalla moglie, che non pagherebbe i lavoratori), Aboubakar Soumahoro, ivoriano in misura residuale ormai, è la dimostrazione esemplare che italiani si nasce, ma soprattutto si diventa. Acquisendo tutti i nostri peggiori difetti, è diventato italiano prima ancora di esserlo. Si è integrato perfettamente con la casta, considera i comizi una forma di intrattenimento minore rispetto alle ospitate tv, ha fatto sua la capacità delle persone più colte di farsi credere migliori rispetto a quello che sono, ed è un maestro nell'ars oratoria figlia del peggior vendolismo (s.m., da Nichi Vendola: forma particolare di illusionismo verbale; sin.: «discorso fumoso»), quella narrazione parolaia e vuota, tipica della più stanca retorica di una sinistra puramente reattiva, che riempie l'agenda politica dicendo il nulla. «Patriottismo solidale», «depotenziare l'elemento identitario escludente», «norme razzializzanti», «eco-ansia»... A ognuno il suo storytelling... Rilfesso pavloviano di un dem: «Avercene in Parlamento persone preparate come #AboubakarSoumahoro». Con l'hashtag.

Social, sociale (nella lingua del popolo baulè della Costa d'Avorio per dire «uomo» si usa il termine sran, «colui che tesse relazioni», e lui è bravissimo), socievole (ha moltissimi amici, anche se i suoi ex compagni di lotta&capolarato lo hanno già rinnegato: «È solo marketing»), carisma e diastema, stivalone e boldrinismo, se è vero che al Pd serve più radicalità, Soumahoro è il leader ideale. La sua ricetta di fratellanza e solidarietà profuma di sinistra più di tutto il campo progressista messo insieme. Eau de Rive gauche.

La politica, si sa, è un territorio impervio. Come la savana. Sì: l'apologo del leone, la gazzella e del correre per sopravvivere Qui da noi invece ci sono i congressi, le correnti, i lettiani, i civatiani Lei, onorevole Soumahoro, sa muoversi bene, ha fame di giustizia e - Lei sì - ha gli occhi di tigre (anche se quelle vivono in Asia). Forse può farcela.

Per il resto, complimenti per aver spiegato alla Sinistra cos'è il mondo reale. E buon lavoro.

Il Bestiario, il Lavorathoro. Il Lavorathoro è un essere leggendario che adora i lavoratori soprattutto la domenica. Giovanni Zola l’1 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il Lavorathoro è un essere leggendario che adora i lavoratori soprattutto la domenica.

Il Lavorathoro nasce nel 1980 a Bétroulilié, in Costa d’Avorio. La leggenda narra che la prima parola pronunciata non fu “mamma”, non fu “papà” e non fu neanche “betoniera”, bensì proprio “lavoratore”. Da piccolo, invece delle macchinine o dei soldatini, si faceva regalare strumenti da lavoro come pale, picconi e cazzuole. Già alle elementari fonda un suo piccolo sindacato “Più merende per tutti” (PMT), per condividere le merendine con i compagni di classe più poveri.

Nel 1999, a 19 anni, il Lavorathoro si trasferisce in Italia e si laurea in Sociologia nel 2010 a soli 30 anni. Per non smentire la sua passione per i lavoratori scrive una tesi dal titolo: "Analisi sociale del mercato del lavoro. La condizione dei lavoratori migranti nel mercato del lavoro italiano: persistenze e cambiamenti". Purtroppo il suo relatore muore di vecchiaia mentre legge il titolo a causa della lunghezza. Malgrado l’incidente il Lavorathoro non si perde d’animo nella difesa della sua causa.

Nel 2012 organizza una marcia dei “senza carta d’identità” che attraversano 6 paesi europei senza documenti per chiedere la libertà di circolazione, in realtà appena esce di casa non viene arrestato per miracolo. Ma il Lavorathoro continua la sua battaglia senza arrendersi.

Diventa sindacalista del Coordinamento Agricolo occupandosi soprattutto della tutela dei diritti dei braccianti. In questo frangente il Lavorathoro chiede al governo Conte un tavolo operativo di contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura. Il tavolo però ha una gamba più corta per cui la riunione si riduce alla ricerca da parte dei Ministri di un pezzo di cartone per non far traballare il tavolo.

Il 16 giugno 2020 il Lavorathoro si incatena facendo un simbolico sciopero della fame e della sete con lo scopo di essere ascoltato dal Governo. Purtroppo perde le chiavi del lucchetto e rimane incatenato per davvero per tre settimane perdendo quindici chili. Ma la sua passione per i lavoratori non si affievolisce.

Alle elezioni politiche del 2022 il Lavorathoro viene eletto nella lista Alleanza Verdi e sinistra. Grande vittoria per lui che può finalmente occuparsi dei lavoratori dall’interno del Parlamento e farsi dare del lei.

Il 24 novembre 2022 il Lavorathoro si autosospende dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra, per non aver pagato lo stipendio ai lavoratori delle sue cooperative. Del Lavorathoro non si hanno più notizie.

Aboubakar Soumahoro, le coop gestite da moglie e suocera al centro di accertamenti. Lui: «Nessuna indagine su di me». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022 

La procura di Latina ha avviato accertamenti sulle cooperative gestite da moglie e suocera di Aboubakar Soumahoro, dopo le denunce di un sindacato. Al momento non ci sono ipotesi di reato, e il deputato ha smentito ci siano indagini su di lui 

La procura di Latina, tramite i carabinieri del comando provinciale, ha avviato accertamenti sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Aboubakar Soumahoro in seguito alle denunce di un sindacato su presunte irregolarità nei pagamenti dei dipendenti. 

L’indagine è al momento puramente «esplorativa» perché non ci sarebbero profili penalmente rilevanti e il fascicolo non ipotizza reati. 

Lo stesso deputato ha precisato, in un post su Facebook, di non essere «né indagato né coinvolto in nessuna indagine», e di aver «dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione».

Gli accertamenti

Gli accertamenti in corso sono l’appendice di una vicenda fondata su presunte irregolarità amministrative e già finita davanti all’Ispettorato del lavoro che alcune settimane fa aveva portato a un accordo sul riconoscimento di pagamenti arretrati ai lavoratori della Karibù e del Consorzio Aid che ne avevano sollecitato il saldo. 

Le nuove denunce del sindacato Uiltucs, che ricalcano in parte quelle di esponenti locali di CasaPound, adombrano altre irregolarità gestionali, legate alle condizioni di lavoro all’interno dei centri di accoglienza per immigrati.

 Le denunce sulle condizioni igienico sanitarie delle strutture

Negli anni scorsi le due sigle erano arrivate a contare in totale 150 dipendenti, impiegati in progetti Sprar a Sezze, Terracina, Roccagorga, Monte San Biagio e Priverno oltre che in numerose strutture, tra Centri di accoglienza straordinari e centri per i minori in tutta la provincia.

Il sindacato ha raccolto alcune testimonianze sulle condizioni igienico-sanitarie non ottimali di queste strutture. 

I ritardi nei pagamenti delle mensilità dovute, hanno argomentato le coop al momento di essere ascoltate dall’ispettore del lavoro, sarebbero un effetto a catena legato ai ritardi nei trasferimenti dei pagamenti riconosciuti dal ministero dell’Interno per la gestione di questi servizi in appalto tramite la prefettura. 

L’assistente sociale di origini ruandesi Marie Thérèse Mukamitsindo, fondatrice della Cooperativa sociale Karibù, è stata insignita nel 2018 del primo Moneygram come imprenditrice immigrata che più si è distinta nella sua attività.

Soumahoro, i migranti e gli affari di famiglia: «Alla fine si chiarirà tutto». Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.

Stipendi mal pagati, irregolarità: il deputato parla delle accuse a moglie e suocera: «Io è 22 anni che sto in strada se non sei pulito in strada non cammini. Il fango mediatico non ci fermerà»

Dice che «nei campi dell’Agro Pontino» andava a fare «l’alfabetizzazione dei braccianti», altro che imbrogli di famiglia. E ogni tanto gli scappa di parlare di sé in terza persona, come Giulio Cesare o Berlusconi: «Aboubakar non è lì per Aboubakar, ma per volontà popolare».

Chissà se, nella laboriosa edificazione del suo ego, in certe notti di stanchezza gli ricompare davanti Soumaila Sacko, come il fantasma di Banco. In fondo proprio la morte di Soumaila, ammazzato a fucilate nelle campagne il 2 giugno 2018 da un malacarne calabrese per due tavole di legno, proietta lui, Aboubakar Soumahoro, a nuova vita. E che vita: da voce della vittima, prima, a voce di tutte le vittime dell’ingiustizia planetaria, poi; dai talk show ai salotti tv, adulato sulle copertine (lui di qua, Salvini di là, titolo «Uomini e no») fino a un seggio parlamentare celebrato presentandosi a Montecitorio con gli stivali sporchi dei campi e il pugno chiuso, «piedi nel fango della realtà e spirito nel cielo della speranza», alla faccia della retorica. Per una sinistra dal cuore di simboli affamato, uno così è quasi meglio di Mimmo Lucano.

Adesso che il mondo ingrato gli si rivolta contro e la Procura di Latina indaga su cooperative dove appaiono la moglie Liliane e la suocera Marie Terese tra storiacce di pagamenti mancati ai cooperanti e condizioni indecenti nei centri d’accoglienza dei profughi, c’è chi, come i ragazzi del Collettivo Jacob Foggia, vecchi compagni d’un tempo, lo accusa di avere «surfato» sulle disgrazie altrui, «lo sterminato esercito bracciantile di migliaia di migranti», proprio cominciando da quella campagna insanguinata dove cronisti e telecamere lo adottarono, colto e facondo, nero come Soumaila e pronto a parlarne come fosse suo fratello.

«Io ero in Calabria da prima del 2018, è ventidue anni che sto in strada, ho dormito in strada a Napoli, se non sei pulito per strada non cammini. Chi parla oggi dov’era?», replica lui, garbato ma stizzito. La grana politica è esplosa, i giornali scrivono di «cooperative di famiglia». «Sa, sono molto preoccupato. Non sottovaluto questi attacchi mediatici. Ma, a chi vuole seppellirmi politicamente, dico: mettetevi l’anima in pace, il fango mediatico non ci fermerà». Spiega di essere per «un sovranismo internazionale solidale» ma non provate a chiedergli lumi, perché Soumahoro forse non surferà sugli esseri umani ma, come tutti i veri politici, surfa sulle domande e continua nel suo copione come fosse sordo: «Non appartengo alla politica liquida», dice, «ho un’identità: sono la voce di 600 mila italiani che non riescono a curarsi. Non tentate di zittirmi!». In realtà non è da escludere che qualcuno tenti piuttosto di farlo parlare.

È lunga e ripida l’arrampicata di Aboubakar: dalla natia Costa d’Avorio alla Napoli dove riesce a laurearsi alla grande (110 in sociologia), dall’Unione Sindacale di Base al mito di Di Vittorio, sino a un sindacato a sua misura, la Lega Braccianti, e a un divorzio non proprio amichevole con l’Usb. Prima grana, una raccolta fondi al tempo del lockdown di cui non è chiarissima, secondo alcuni, la destinazione: «Macché», replica lui, «a Foggia c’è il bilancio della Lega Braccianti, è tutto online, il resto è fango. Io ho portato cibo e mascherine in giro per l’Italia, con mia moglie a sostenermi, ho lasciato un neonato a casa per accudire i bisognosi».

Dall’immedesimazione con Di Vittorio in poi, il nostro ha sviluppato una declinazione della lotta di classe modernamente trasversale: «Sono antifascista e patriota. Se “loro” hanno perso la connessione sentimentale col popolo se la prendano con sé stessi. Io ho idee diverse da Meloni e Salvini, ma darò una casa politica a partite Iva, Pmi, artigiani e operai. Sono il mio mondo, quello che incrocio alle sei di mattina quando vado in autobus in Parlamento», tuona, lasciandoci a interrogarci su chi diavolo trovi in Parlamento a quell’ora.

Infine, il suo magmatico universo s’incrocia a Latina con uno gnommero locale di cui tutti conoscono il groviglio. Dopo anni di omertà, arrivano le denunce del sindacato Uiltucs e un’ispezione parlamentare del 2019 riemersa dagli archivi, e viene al pettine la storia della cooperativa Karibu e del consorzio Aid: di fatto in mano a mamma Maria Terese Mukamitsindo, profuga ruandese arrivata trent’anni fa, e alla figlia Liliane Murekatete, che segue la madre coi fratelli poco dopo. In piena emergenza migratoria, a metà degli anni Dieci, la Karibu si allarga fino a una trentina di centri d’accoglienza nel basso Lazio, tra Sezze e l’Agro Pontino. Non si sta a guardar tanto per il sottile. «A quei tempi la Prefettura ci diceva: qualunque posto troviate, infilateci i migranti», racconta Carlo Miccio, che ha lavorato nel centro sull’Appia e ne ha tratto persino un romanzo (Copula Mundi): «Ho retto quattro mesi, poi mi hanno allontanato, ma ho visto di tutto: la pioggia nelle camerate affollatissime, i rifiuti non rimossi, il caos. Sono entrato con 48 migranti, erano arrivati a 100, ragazze della tratta e ragazzi dei barconi mischiati. Mesi di stipendio arretrati». I migranti rendono, come si diceva ai tempi del Mondo di Mezzo. «Se vuoi mettere su un impero, continui a prendere ragazzi, anche se la struttura non li regge».

Uno di quei ragazzi ha animato nel 2017 la protesta di Borgo Sabotino. È un trentenne grande e grosso, venuto dal Mali, si chiama Mahmadou Ba: «Faceva un freddo bestia, il cibo era da buttare, tanti di noi uscivano per lavorare in nero». Mahmadou sostiene di essere stato molto legato a Liliane e di avere provato grande ammirazione per Soumahoro, conosciuto in piazza a Latina l’estate del 2018: «Condividevamo gli ideali». Poi qualcosa si rompe, si finisce a diffide dai carabinieri. In questa storia è difficile scindere il pubblico dal privato: e l’incrocio privato tra le vite di Liliane e Aboubakar Soumahoro è proprio di quell’estate. Miccio ammette: «È vero, lui arriva dopo. Ma madre e figlia gli hanno nascosto tutto? Poteva non sapere? E, se sai ‘sta cosa, poi ti metti gli stivaloni in Parlamento?». La lista di guai può essere lunga. Gianfranco Cartisano della Uiltucs parla di «arretrati coi lavoratori per 400 mila euro e fino a 22 mensilità non pagate». Possibile che in casa l’argomento fosse tabù?

Soumahoro è prudente: «Non voglio eludere le domande, ma non avendo vissuto nulla di questa vicenda finirei per fare un’informazione approssimativa con un’indagine della Procura in corso». È protettivo verso il suo amore: «Mia moglie è attualmente disoccupata. Non ha nessuna cooperativa. E quando l’ho conosciuta già lavorava nel mondo dell’accoglienza. Quando vorranno sentirla, fornirà tutti i chiarimenti».

Ma la questione più grave non è penale. I referenti della memorabile ascesa sono sconcertati. Uno di loro, un parlamentare che chiede anonimato, sbotta: «Cado dalle nuvole e sono incavolato come una bestia!». Non poteva non sapere è un teorema giudiziario controverso. «E infatti non piace neanche a me», dice il sociologo Marco Omizzolo, animatore di mille battaglie per i diritti dei braccianti nel Pontino: «Però la faccenda è politica. Non si può credere a uno stato diffuso di ingenuità. E a Latina tutti sapevano». 

«Ho fatto una leggerezza». I tormenti di Bonelli che candidò Soumahoro. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022

La richiesta con Fratoianni dopo l’indagine: devi chiarire. Dopo aver visto uno dei centri la ex senatrice di Sinistra italiana Fattori disse: in quel posto manco i cani

Da qualche notte, sospira e non ci dorme. Del resto, sua moglie Chiara, una militante trentina tosta che ci crede fino in fondo, lo rimprovera a ogni sorso del caffè mattutino: «Ma che cavolo hai combinato, Angelo?». Già, ci si può intossicare una felice vita politica e familiare per uno sbaglio? Lui, Angelo Bonelli, uno che ci crede perfino più di lei (sul profilo di Wikipedia ha scritto «attivista»), proprio non si dà pace: «Ho commesso questa leggerezza», mormora agli amici, sfogandosi solo con chi gli sta vicino perché, no, in pubblico non vorrebbe proprio comparire, comprendetelo.

La «leggerezza» ha le espressioni cangianti e l’eloquio fluviale dell’ultimo eroe della sinistra radicale: Aboubakar Soumahoro, il talentuoso ivoriano che s’è imposto all’attenzione dell’Italia come portavoce dei braccianti e dei migranti diseredati e, con questa etichetta, è riuscito prima a farsi venerare dai talk show televisivi e poi a farsi eleggere deputato nella lista Alleanza Verdi e Sinistra, entrando a Montecitorio con gli stivali sporchi del lavoro nei campi («piedi nel fango della realtà e spirito nel cielo della speranza», ha spiegato su Facebook, con tanto di foto a pugno chiuso).

Insomma, vagli a dar torto, ad Angelo. Imbarcare un simile fuoriclasse (in tandem con Ilaria Cucchi) sul fragile battello condotto assieme a Nicola Fratoianni verso le elezioni del 25 settembre gli pareva un’apoteosi benedetta dal sol dell’avvenire o dal sole che ride, vedete voi. Il 10 agosto, quando ne annunciò la candidatura, si commosse persino: «Sono molto emozionato nel dirvi che Aboubakar Soumahoro ha accettato di presentarsi con noi: è una figura importante, un attivista che difende da vent’anni gli Invisibili».

Tutto giusto, tutto vero. Non fosse che per quei fastidiosi dettagli saltati fuori dalle campagne del Basso Lazio, tra Latina e Sezze, noti già da molti anni ma diventati di stringente attualità ora che Soumahoro è un politico eletto e dunque ha rilievo pubblico ciò che prima era solo privato: la sua compagna Liliane e la suocera Marie Terese appaiono dominanti dentro una cooperativa, la Karibu (con la cognata Aline nel collegato consorzio Aid). Su questo magma societario e contabile indaga la Procura pontina, tra croniche storiacce di pagamenti mancati ai cooperanti e cicliche rivolte dei profughi per le indecenti condizioni dell’accoglienza, dalla qualità del cibo alle camerate gelide e sovraffollate. Posti dove «non avrei messo manco i cani», secondo l’ex senatrice Elena Fattori di Sinistra italiana dopo un sopralluogo. Soumahoro non c’entra nulla con Karibu ed è entrato nella vita di Liliane solo nel 2018: dunque non è indagato e evidentemente non lo sarà. Però è un po’ come se un guardacaccia mangiasse, politicamente parlando, selvaggina di frodo. Attenzione: sul piano giudiziario la massima cautela è d’obbligo verso Marie Terese, Liliane e Aline, siamo alle indagini preliminari.

Ma le tante voci di protesta dei ragazzi venuti fuori imprecando dai centri Karibu non sono un bel viatico per una vita da neodeputato degli oppressi. E non aiutano le foto da vamp di Liliane, tra borse e occhiali di lusso in hotel pluristellati, che fanno capolino perfino dai profili social della Karibu. Non aiutano i suoi rimandi continui a marchi di alta moda, che le hanno guadagnato a Latina il nomignolo di Lady Gucci. È questo il punto cruciale. Sicché il grande freddo cala nella gauche, s’insinua nell’anima dei due leader che hanno messo in lista chi si presentava come una specie di nuovo Di Vittorio. Fratoianni, formazione comunista, verga un’austera nota dei rossoverdi in cui ribadisce rispetto e vicinanza a Soumahoro e alla «sua storia» ma riconosce «il rilievo politico dei fatti contestati» per chi come lui «riveste un ruolo pubblico», chiedendogli un incontro di chiarimento. Fuori dal gergo da comitato centrale, lo sconcerto è palese.

Bonelli, cultura movimentista, è più incline all’emozione, che filtra come l’acqua piovana nelle camerate della cooperativa Karibu. Il primo «momento di tensione» con Aboubakar «nasce a metà settembre», quando Fanpage racconta un’altra storia che, stavolta sì, lo coinvolge direttamente ma è tutta da dimostrare e riguarda l’utilizzo degli euro delle raccolte fondi promosse dalla Lega Braccianti (la creatura sindacale da lui creata) per il sostegno ai bisognosi. Gli dicono: «Devi chiarire, gira tutto sui social». Lui replica: «Ho messo tutto in mano agli avvocati» e non spiega più nulla ai suoi compagni. Quando la grana Karibu esplode, smette anche di rispondere alle loro telefonate. Ma il momento più amaro arriva quando nelle ultime interviste l’irrequieto Aboubakar vagheggia «una nuova casa politica», dicendo «basta con questa sinistra senza identità» e strizzando l’occhio al bacino di Salvini, partite Iva e imprese piccole e medie. «Ma come? Non solo ci deve delle risposte, non solo gli abbiamo dato un seggio blindato, adesso pensa al millesimo partito personale?». E dunque, avanti così, con un’altra bandiera bruciata nel falò mitologico della sinistra radicale. E con un altro corpo a corpo con l’insonnia per Angelo, rimuginando su quando parlava di sé, Fratoianni, Soumahoro e la Cucchi come di una «bellissima famiglia allargata». Col buio certi ricordi bruciano. Perché è molto facile fare i superiori su ogni cosa di giorno, ma di notte, diceva Hemingway, è tutta un’altra faccenda.

Le accuse alla suocera di Soumahoro (e l’incontro di Alleanza Verdi e Sinistra, stamattina). Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022. 

Convocato da Bonelli e Fratoianni. Nuova interrogazione di Gasparri

La giornata è stata un susseguirsi di colpi di scena. Meglio: di colpi d’inchiesta. Ed è nel tardo pomeriggio che Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni hanno chiamato Aboubakar Soumahoro nella stanza del loro gruppo di Alleanza Verdi e Sinistra per un faccia a faccia serrato. È finito alle nove di sera. Ma è stato soltanto un primo round. Ci sarà un altro incontro stamattina.

Bonelli e Fratoianni lo hanno guardato a lungo negli occhi, Aboubarak. Per tutta la giornata lo avevano ignorato. Per capire: il pomeriggio con Fratoianni neanche uno sguardo nel Transatlantico di Montecitorio.

La vicenda scotta. La gestione delle società di famiglia è finita sotto inchiesta e la suocera del sindacalista ivoriano, Marie Therese Mukamitsindo, risulta ora indagata. Le accuse sono pesanti: non pagavano i lavoratori e non versavano nemmeno i contributi. Proprio «in casa» di Soumahoro, che sulla lotta per i braccianti ha fondato la sua carriera politica.

Un caso sempre più delicato e una giornata convulsa, quella di ieri, dopo la notizia dell’iscrizione della suocera nel registro degli indagati. Uscito dall’aula di Montecitorio poco prima dell’incontro con i suoi due leader, il sindacalista ivoriano è rimasto sempre attaccato al suo telefonino. Gli occhi a guardare il velluto del pavimento.

Da Palazzo Madama è arrivata la notizia che il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, Forza Italia, ha depositato un’interrogazione parlamentare sul caso. Un’altra. Dice Gasparri: «L’interrogazione è sulle vicende che riguardano i possibili casi di sfruttamento di lavoratori stranieri impegnati nel settore agricolo a Latina e altrove».

Altrove: per Soumahoro spuntano problemi anche in provincia di Foggia. A sollevare dei dubbi, contro il parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra, questa volta è la Caritas di San Severo, nel Foggiano, e cioè nella zona dove il neo-deputato ha condotto in passato alcune delle sue più vistose battaglie per i diritti dei braccianti. Problemi con i finanziamenti per comprare i giocattoli, in questo caso: troppi soldi per pochi bambini.

La voce più forte si leva dalla Uil. È il sindacato che ha sollevato il caso delle cooperative Karibe e Consorzio Aid, quelle che fanno capo alla moglie e alla suocera di Soumahoro. «Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale?». Gianfranco Cartisano è il segretario della Ulitucs di Latina. Dice: «Oggi per noi rimane un unico obiettivo, quello di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: vogliamo stipendi subito».

Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione, si leva in una difesa di ufficio: «Aboubakar Soumahoro potrà avere tutte le colpe del mondo, ma il processo mediatico è pazzesco».

Soumahoro, un testimone: «Io pagato due volte per due anni di lavoro, Aboubakar sapeva». Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2022.

L’unica indagata, per malversazione ai danni di dipendenti non pagati, attualmente è Marie Therese Mukamitsindo, legale rappresentante della cooperativa Karibu dedita all’accoglienza di rifugiati, molti dei quali minori. Ma da documenti, testimonianze, visure catastali, emerge il mondo di Abubakar Soumahoro: oltre alla suocera Maria Therese nella gestione della Karibu era coinvolta la compagna Liliane Murekatete, consigliera fino a settembre scorso, e nel Consorzio Aid, sempre riconducibile a Marie Therese agivano i figli di lei Michel e Aline. Ma forse non era un mondo solidale e trasparente.

Soumahoro, deputato di Verdi-Si, in lacrime, sui social ha promesso di scioperare accanto ai dipendenti di quelle cooperative se risulterà che sono stati sfruttati. Ma c’è chi accusa: «Soumahoro lo sa. Era lì, portava la spesa. Era la sua famiglia. Lui era a conoscenza di quello che accadeva lì dentro».

Youssef Kadmiri, 42 anni, è un ingegnere nato a Marrakesh e non parla per sentito dire. È un testimone e una vittima di quello sfruttamento. E racconta al Corriere qualcosa di molto più grave di ciò che è emerso. Dice di essere stato pagato «due volte in due anni». Meno di quanto pattuito: «Un totale di 6mila euro». Senza contratto, come altri suoi colleghi, alcuni dei quali ricevevano «bonifici dal Ruanda». «Ero operatore sociale, traducevo ai ragazzi che venivano dalla Libia, dall’Albania, dal Bangladesh, dal Marocco. Ma poi facevo anche manutenzione. La guardia la notte. L’orario non era giusto. Tante volte ho chiesto il contratto, sempre scuse. E lo stipendio di 1000-1200 euro non arrivava. Dicevano “mi dispiace”. Ma io dovevo pagare l’affitto. Dopo 6 mesi ho avuto 3.000 euro. Poi niente per un anno e mezzo. Poi solo altri 3.000». Ma soprattutto Yuseff accusa: i minori che erano nella struttura venivano tenuti in una «situazione grave: gli davano poco da mangiare e non gli davano il “poket money”», la diaria per le spese personali. «Avevano sempre fame. Ora sono in altre strutture, hanno luce e acqua, se stanno male li portano in ospedale, non è come era lì. E tutti sapevano». Conferma al Corriere Shick Mohammed, egiziano, 18 anni appena compiuti: «C’era poco da mangiare, non ci compravano vestiti: lavoravo nei campi per potermi comprare calzini e scarpe. Giuro. Stavo male».

Sarà l’indagine, condotta dal nucleo provinciale di Latina della Guardia di Finanza, a chiarire ogni aspetto di questa vicenda sulla quale l’ispettorato nazionale del lavoro conferma che sono «in via di conclusione ispezioni aperte in base alle denunce di alcuni lavoratori».

Ma gli indizi che ci si approfittasse dei dipendenti sembrano esserci. In un verbale della prefettura di Latina si riconosce a 4 lavoratori della società Consorzio Aid, sempre riconducibile a Marie Therese, il pagamento della retribuzione che avrebbe dovuto versare la cooperativa: «Si procederà ad attivare l’intervento sostitutivo ai sensi dell’articolo 30 comma 6 del Dl 50/2016». Un formale riconoscimento dell’inadempienza. Infatti Marie Therese era stata convocata. Aveva ammesso ma chiesto una rateizzazione. Poi, dalla prima rata, aveva continuato a non pagare. E in quel caso l’ha fatto la prefettura, ente appaltante. Ma ce ne sono altri. «C’era chi non riceveva lo stipendio da 6 mesi, chi addirittura da 22. Sono arrivati da noi in 26 ma stimiamo che in 150 non hanno avuto una regolare retribuzione», spiega il sindacalista Uiltucs Gianfranco Cartisano. E respinge sospetti di manovre: «Non abbiamo colore, chiediamo solo che il prefetto convochi un tavolo affinché tutti vengano pagati».

Coop sotto inchiesta, parlano moglie e suocera di Soumahoro: "Chi denuncia è manipolato dai sindacati. Vogliono affossare Aboubakar". Fabio Tonacci su La Repubblica il 21 Novembre 2022.

Il video in lacrime Il deputato Aboubakar Soumahoro, eletto con Sinistra italiana, in cui si difendeva dalle accuse: "Perché mi fate questo? Mi volete morto" 

Liliane Murekatete e Maria Therese Mukamitsindo rilasciano la prima intervista a Repubblica dopo la notizia dell'indagine su mancati pagamenti, malsane condizioni dei centri denunciate dai minorenni e violazioni dei contratti: "Tutto è stato speso per i rifugiati. Lo Stato non ci ha rimborsato per questo ci sono stipendi non pagati"

Qualche errore è stato fatto, ma Maria Therese Mukamitsindo giura che non un euro di denaro pubblico sia finito nelle sue tasche o in quelle dei suoi familiari. "Tutto è stato speso per i rifugiati, ai quali ho dedicato 21 dei miei 68 anni. Tutto è rendicontato e posso provarlo".

La signora, originaria del Ruanda, è presidente della coop Karibu, nata nel 2001 nell'Agro pontino, che dopo la Primavera araba gestiva 154 dipendenti per 600 posti letto, divisi in progetti Sprar e Cas.

Latina, inchiesta sulle coop della famiglia Soumahoro. Clemente Pistilli su La Repubblica il 18 Novembre 2022 

Sotto accusa moglie e suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra

Prima le vertenze per circa 400mila euro di stipendi non pagati ai dipendenti, poi le ipotesi di fatture false chieste ai lavoratori e infine le accuse di migranti minorenni che lamentano condizioni terribili nelle strutture dove sono ospitati, prive anche di energia elettrica e acqua corrente. Nel giro di un mese il quadro sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, si è fatto sempre più fosco. Abbastanza per portare la Procura di Latina ad aprire un'inchiesta e i carabinieri a indagare. 

L'onorevole, paladino dei braccianti, ha fatto ingresso alla Camera indossando degli stivali di gomma eha sostenuto che "non devono essere più intrisi dal fango dell'indifferenza e dello sfruttamento". Ora però lui stesso si è trovato a far fronte a una serie di denunce presentate dal sindacato Uiltucs e diventate oggetto di accertamenti da parte della magistratura. "L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti", ha raccontato al sindacato Nader, un minorenne ospite di una delle strutture per migranti gestite a Latina dalle coop Consorzio Aid e Karibu. "Ci hanno anche maltrattati", ha sostenuto il 17enne Abdul. E così altri. Nel corso degli anni, tra l'altro, ci sono state diverse proteste da parte di migranti ospiti delle coop di MarieTerese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, suocera e moglie dell'onorevole. Ventisei lavoratori delle cooperative, non ricevendo in alcuni casi lo stipendio da due anni, si sono rivolti all'Ispettorato del lavoro. 

Ad alcuni lavoratori, secondo le denunce, sarebbero poi state chieste fatture false per ottenere i pagamenti. Una modalità confermata da alcune chat consegnate alla Procura di Latina. "Portami la settimana prossima fattura di metà importo", veniva scritto a quanti chiedevano lo stipendio. "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?", chiede il segretario della Uiltucs, Gianfranco Cartisano. Soumahoro, che Repubblica ha cercato di contattare sia lunedì che martedì per un commento, non ha riposto ai messaggi. Ieri invece, pur senza pronunciarsi sulle accuse mosse alle coop di moglie e suocera, ha affidato la sua replica a un post sui social: "Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine. Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale. Ho dato mandato ai miei legali di perseguire chiunque getterà ombre sulla mia reputazione". 

"Il sistema dell'accoglienza ha basi solide a Latina e in provincia ma ora rischia di venire giù", dichiara intanto Angelo Tripodi, capogruppo della Lega nel consiglio regionale del Lazio.

Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 17 novembre 2022.

Sopravvissuti a viaggi infernali attraverso l'Africa e alle onde del Mediterraneo, soli e fragili, diversi migranti ragazzini arrivati nel Lazio avrebbero trovato un altro inferno. Denunciano di essere stati maltrattati e privati anche dei servizi essenziali, come luce e acqua, nelle strutture di due cooperative pontine, gestite dalla suocera e dalla moglie del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Aboubakar Soumahoro, a cui sono stati affidati progetti finanziati dalla Prefettura pontina e da altri enti. 

Le denunce al sindacato Uiltucs al vaglio della Procura di Latina

Quei racconti fatti al sindacato Uiltucs sono ora al vaglio della Procura di Latina, che ha aperto un'inchiesta. E i carabinieri stanno già indagando, partendo da quanto riferito da una trentina di lavoratori delle coop Karibu e Consorzio Aid, i quali sostengono in alcuni casi di non ricevere lo stipendio da quasi due anni, che sono stati costretti a lavorare in nero, che gli accordi raggiunti davanti all'Ispettorato del Lavoro sono stati disattesi e che alcuni di loro si sono visti anche chiedere fatture false per poter ottenere la paga.

Una vicenda torbida, su cui gli investigatori stanno cercando di far luce. Già sono stati acquisiti diversi documenti, partendo dalle denunce fatte dai minori al sindacato e dagli screenshot delle chat tra i vertici delle coop e alcuni lavoratori, oltre a documentazione sempre delle cooperative trovata in dei cassonetti a Sezze, dove ha sede la Karibu. 

La denuncia dei minorenni: "Lasciati al buio, senza cibo e acqua"

"L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti. Stavamo lavorando e poi ci hanno spostato in un posto a Napoli peggiore del primo e tutti quelli che lavorano qui sono razzisti". A lanciare un grido di dolore è Nader, un minorenne ospite di una delle strutture per migranti a Latina gestite dalle coop della suocera e della moglie dell'onorevole Soumahoro. 

Una storia simile a quella di Ziyad, 16 anni: "Il cibo non era buono e non c'era acqua né elettricità. Dopo tutto questo hanno chiuso a chiave questa casa perché non c'erano soldi". Oltre a Nader e a Ziyad, a rivolgersi a Uiltucs sono stati poi Ahmed, che ha lamentato di non aver ricevuto dalle cooperative denaro e vestiti e che il vitto "non era buono", e Abdul, 17 anni: "L'ultimo mese non c'era acqua né elettricità... ci hanno mandato tutti in posti cattivi e anche maltrattati". 

Il sindacato Uiltucs chiede chiarezza

Sinora la coop Karibu, fatta eccezione per qualche problema, è uscita indenne dalle accuse che sono state mosse a cooperative che gestiscono centri per migranti e che anche nell'agro pontino sono finite al centro di indagini con tanto di arresti, ipotizzando che gli stranieri venissero abbandonati a loro stessi e il denaro destinato all'accoglienza finisse nelle mani dei gestori delle strutture. 

Ora invece arrivano accuse pesanti e a farle sono dei minorenni, i più fragili, chiedendo aiuto a un sindacato che da tempo si sta battendo per chiedere chiarezza. Tanto sulla Karibu, guidata da Marie Terese Mukamitsindo, presidente del Consiglio di amministrazione, e che ha come consigliera Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, che nel 2021 ha anche ricevuto contributi a fondo perduto Covid per 227 mila euro ma che ha accumulato debiti milionari. 

Tanto sul consorzio Aid, che dovrebbe essere un'Agenzia per l'inclusione e i diritti, e che nel 2020 ha ottenuto l'affidamento di vari servizi per stranieri dalla Prefettura di Latina, dal Comune di Latina e da quello di Termoli, dove siede nel cda sempre Mukamitsindo. 

L'ombra delle fatture sospette

Secondo Uiltucs di Latina, che sta lottando affinché vengano pagati lavoratori che hanno operato nelle due coop e che in alcuni casi non avrebbero ricevuto lo stipendio per quasi due anni, potrebbero essere state chieste anche fatture false da utilizzare per alcuni pagamenti. Il particolare è stato riferito al sindacato da dipendenti delle cooperative che stavano cercando di recuperare somme arretrate ed è emerso da una serie di messaggi e chat che ora stanno esaminando anche i magistrati.

Ecco infatti alcune risposte date dalle coop a chi chiedeva di essere pagato: "Non ho dimenticato il tuo debito o quello di Mohamed. Dovevamo essere pagati poi hanno richiesto certificati antiriciclaggio". Ma soprattutto: "Portami la settimana prossima fattura di metà importo". Oppure: "Ti ringrazio e ti ringrazierò a vita per tutto e ti chiedo di incontrarci in ufficio per accordare il dilazionamento delle spettanze dovute e le fatture". Messaggi inviati anche, a quanto pare, dalla suocera di Soumahoro: "Lo so, hai lavorato con Aid e stanno sempre aspettando le fatture come hai detto tu". 

Si tratta di ipotesi, che gli investigatori stanno vagliando e su cui stanno cercando eventuali riscontri. Già piuttosto definito appare invece il quadro per quanto riguarda i lavoratori lasciati al verde e quelli in nero, con tanto di riconoscimento di debiti e di situazioni irregolari da parte delle coop, come emerge dai verbali delle vertenze presso l'Ispettorato del lavoro di Latina, che Repubblica ha potuto esaminare.

Ai lavoratori mancano stipendi per 400 mila euro

Le coop avevano trovato un'intesa, davanti proprio all'Ispettorato, per il pagamento dilazionato dei debiti accumulati nei confronti di alcuni lavoratori, ma quelle somme promesse non sarebbero arrivate. Mancano stipendi per circa 400 mila euro. "Tali somme - ha dichiarato già un mese fa Gianfranco Cartisano, segretario del sindacato - corrispondenti a competenze non pagate, sono state confermate dalle coop Karibù e Consorzio Aid, che dopo richieste di intervento inviate da Uiltucs all'Ispettorato avevano raggiunto accordi sul pagamento dilazionato delle spettanze, purtroppo oggi non rispettato". 

Il sindacato sta quindi insistendo affinché il prefetto di Latina, Maurizio Falco, blocchi i pagamenti alle due coop per i servizi affidati dalla Prefettura e con quel denaro paghi chi attende ancora la retribuzione per l'attività svolta. 

"Non accettiamo, come dichiarato spesso dalle affidatarie, che il ritardo dei pagamenti delle retribuzioni è causa dei ritardi degli enti che forniscono ed aggiudicano i servizi. Gli enti - ha sottolineato Cartisano - compreso l'Ufficio territoriale del Governo, non hanno ritardi sul pagamento dei servizi". "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?", continua a chiedere il segretario di Uiltucs.

Aboubakar Soumahoro: "No comment"

Soumaharo, ex sindacalista, paladino dei braccianti e autore di Umanità in rivolta, da sempre sostiene di battersi contro lo sfruttamento e a difesa della dignità dei lavoratori stranieri. Ha fatto ingresso alla Camera indossando degli stivali di gomma, specificando che "non devono essere più intrisi dal fango dell’indifferenza e dello sfruttamento". Si sta battendo contro la nuova guerra alle Ong e agli sbarchi portata avanti dal governo di Giorgia Meloni, per cui si è recato anche al porto di Catania mentre i naufraghi erano bloccati sulla Humanity 1. 

Su quanto sta emergendo con le coop della suocera - vincitrice del Moneygram Award 2018 come imprenditore dell'anno di origini straniere in Italia - e della moglie, più volte impegnata sul tema dei migranti sia con le autorità nazionali che europee, però sinora non è arrivata una parola da parte sua.

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 novembre 2022. 

Quella sulle coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro è più di un'indagine esplorativa. I carabinieri stanno indagando ma sulla Karibu e sul Consorzio Aid, incaricate da numerosi enti di assicurare servizi di accoglienza per richiedenti asilo, già da mesi stanno lavorando anche i finanzieri del Nucleo di polizia economico- finanziaria e gli accertamenti sono in una fase avanzata.  

Il procuratore capo di Latina, Giuseppe De Falco, in una nota ha specificato che le Fiamme gialle sono state incaricate di far luce su «eventuali profili di rilievo penale connessi ai diversi temi di rilevanza della complessa vicenda» . E ha aggiunto « che le indagini sono sviluppate con il dovuto riserbo». 

Fonti qualificate assicurano intanto che a breve verrà chiuso il cerchio e che già sono stati messi in luce diversi aspetti su un caso esploso con 26 lavoratori che reclamano 400mila euro di stipendi non pagati, sollevato dalla Uiltucs all'Ispettorato del lavoro, e che si è poi allargato a ipotesi di richieste di fatture false per effettuare i pagamenti e a migranti minorenni che hanno riferito di condizioni pessime delle strutture in cui erano ospitati, senza acqua né luce.

 I finanzieri stanno inoltre indagando a fondo sulla gestione delle due coop, sui debiti milionari accumulati, partendo da quelli con l'erario, sull'ipotesi di denaro transitato in istituti di credito del Ruanda, la terra d'origine di Marie Terese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, suocera e moglie dell'onorevole di Alleanza Verdi e Sinistra, e sui contatti degli esponenti delle cooperative. 

Soumahoro intanto, dopo aver reagito alla notizia sulle indagini parlando di «falsità» contro di lui, per la prima volta interviene su Karibu e Consorzio Aid, ma soltanto per sostenere che non sa nulla di quello che fanno moglie e suocera e per ribadire che lui comunque è estraneo alla vicenda. 

L'onorevole, tramite l'avvocato Maddalena Del Re, sostiene che i presunti maltrattamenti nei confronti dei minori se si rivelassero veri rappresenterebbero una vicenda «molto grave», che ha fiducia nella magistratura, ma che lui ha appreso la stessa solo dalla stampa, «nonostante il rapporto affettivo» con moglie e suocera e dunque non può rilasciare dichiarazioni in merito. Il deputato poi conclude ribadendo che è «estraneo alle vicende narrate».

 «Sono state poste in essere le azioni necessarie per procedere alla riscossione dei crediti che la cooperativa vanta nei confronti della pubblica committenza, nel tentativo di soddisfare le posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori» , assicura invece Marie Therese Mukamitsindo. «Il nostro interesse rimane quello di tutelare la forza lavoro e il riconoscimento delle retribuzioni non corrisposte», sottolinea Gianfranco Cartisano, segretario Uiltucs.  

Il caso è però oggetto di dibattito all'interno della stessa Alleanza Verdi e Sinistra. Tanto che la senatrice Ilaria Cucchi specifica che, se confermata, la vicenda è gravissima: «Riguarderebbe la violazione dei diritti fondamentali dell'essere umano, tema sul quale, io, non faccio sconti a nessuno, anche perché l'ho vissuto, drammaticamente, sulla mia pelle».

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 19 novembre 2022. 

«C'era sempre poco cibo e i ragazzi avevano fame». Luisa, chiameremo così una 36enne che lavorava come cuoca e come interprete in una struttura gestita dal Consorzio Aid nel capoluogo pontino, conferma le denunce- shock fatte dai migranti minorenni sulle condizioni in cui erano costretti a vivere nei centri portati avanti dalle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro, operanti nelle province di Roma e Latina. 

«Parlo arabo e ho lavorato lì fino al 31 maggio scorso » , racconta la donna. In quella casa erano ospitati dieci minorenni, 5 egiziani e altrettanti tunisini, di età compresa tra i 14 e i 17 anni. «Le condizioni - assicura - erano pessime. Non compravano vestiti ai ragazzi. Quando gli ospiti sono arrivati hanno ricevuto una tuta, un pigiama, un paio di scarpa, uno di mutande e una giacca. Poi basta. «Dovevano uscire e lavorare per potersi vestire » , aggiunge.  

Ragazzini che sarebbero stati costretti a soffrire il freddo. «Chiedevano coperte - ricorda Luisa - i termosifoni non funzionavano bene e la caldaia spesso andava in tilt, col risultato che non c'era sempre acqua calda».

Ai minori non sarebbe stato garantito neppure il pocket money di 10 euro a settimana. Proprio come era stato denunciato in passato da migranti adulti ospiti di altre strutture gestite dalla Karibu, che nel corso degli anni si sono resi protagonisti di proteste eclatanti. «A quei ragazzini - assicura la cuoca - non davano quasi mai la cosiddetta paghetta e quando sono stati trasferiti erano 4 mesi che non la vedevano » .  

I minori avrebbero però dovuto fare i conti anche con la fame. «C'erano sempre difficoltà col cibo - sostiene la cuoca - e a volte la responsabile spendeva di tasca sua per far mangiare qui minori. Io mi dovevo arrabbiare per far portare degli alimenti. Ma la spesa non bastava » . 

 Luisa afferma che di quel problema ha parlato spesso con la stesa suocera di Soumahoro: «Doveva provvedere lei alle forniture, ma il cibo appunto era poco e non dava spiegazioni. Quando la chiamavo diceva di far mangiare ai ragazzi il riso in bianco». Senza contare che, come appunto denunciato da diversi minorenni, la struttura sarebbe rimasta anche senza luce. 

« Non pagavano le bollette, dicevano che non avevano soldi - dichiara la 36enne - e per dieci giorni siamo rimasti senza corrente elettrica». Infine la piaga dei mancati pagamenti ai dipendenti. « A noi - conclude Luisa - i pagamenti non arrivavano mai. Io ero anche incinta. Ho quattro bambini e senza soldi è difficile sopravvivere » . La risposta data dalla coop? « Lo Stato non ci paga e noi non possiamo pagare».

 Stesso quadro tracciato da Monica, 37 anni, di origine eritrea e residente a Roma. «Lavoravo come operatrice in una struttura per minori a Latina - sostiene - ho tre bambini e sono in attesa di dieci mesi di stipendio. Marie Terese mi ha sempre detto che non ha soldi » .  

Le condizioni del centro pontino? « Mancava tutto, dal cibo alla corrente, fino all'acqua. Sul cibo dicevano che dovevamo farci bastare quel poco che portavano. Poi, senza avvisarci, hanno mandato i ragazzi in altre strutture a Napoli, Frosinone e pure in Calabria ».

Fabio Tonacci per repubblica.it il 21 novembre 2022.

Qualche errore è stato fatto, ma Maria Therese Mukamitsindo giura che non un euro di denaro pubblico sia finito nelle sue tasche o in quelle dei suoi familiari. "Tutto è stato speso per i rifugiati, ai quali ho dedicato 21 dei miei 68 anni. Tutto è rendicontato e posso provarlo".

La signora, originaria del Ruanda, è presidente della coop Karibu, nata nel 2001 nell'Agro pontino, che dopo la Primavera araba gestiva 154 dipendenti per 600 posti letto, divisi in progetti Sprar e Cas. E per i quali riceveva dallo Stato fino a 10 milioni all'anno.

Accanto a lei, in quest'intervista a Repubblica che è la prima concessa dopo la notizia dell'indagine della procura di Latina su mancati pagamenti, malsane condizioni dei centri e violazioni dei contratti, siede la figlia, Liliane Murekatete, 45 anni, compagna del sindacalista Aboubakar Soumahoro, deputato indipendente della lista Verdi-Sinistra Italiana. 

"Lui non si è mai interessato alla coop, né al Consorzio Aid di cui fa parte Karibu", premette Liliane. "In famiglia non ne parliamo mai". 

All'Ispettorato del lavoro risultano 400 mila euro di stipendi arretrati e i dipendenti di Karibu si sono rivolti al sindacato Uiltucs. Hanno ragione?

Maria Therese: "Non abbiamo soldi da dargli perché lo Stato non ci paga in tempo! Nel 2019, quando Salvini ha ridotto da 35 a 18 euro il rimborso per migrante tagliando assistenza sociale, corsi di italiano e psicologi, ho lasciato l'accoglienza per dedicarmi a progetti di integrazione. Ho diminuito i dipendenti, ma 54 li ho tenuti.  

Karibu ha vinto i bandi 'Perseò dell Viminale, 'Perla' della Regione Lazio e un altro con l'8 per mille. Tuttavia, tra burocrazia e Covid i fondi arrivavano anche dopo un anno e mezzo". Marie Therese Mukamitsindo Non così in ritardo da giustificare il mancato stipendio, sostiene il sindacato. 

M.T.: "Ho i bonifici con le date e una lettera di sollecito della prefettura al comune di Roccagorga che ci deve 90 mila euro. Quello di Latina 100 mila. Per il progetto 'Perla' contro il caporalato ci hanno dato la metà degli 80 mila dovuti, da quello sull'8 per mille del 2019 abbiamo ricevuto 80 mila su 157 mila solo nel 2022. Siamo andati in cassa integrazione, non ci dormivo la notte". 

Liliane: "Sono quattro anni che mia madre non ha stipendio, è un operaio dello Stato e nessuno la difende. Quando si parla del business dell'accoglienza si casca nella narrazione di Salvini e ci sta cascando anche la sinistra".

M.T.: "Attingendo ai miei risparmi ho versato alla coop 45 mila euro. Il contesto in cui operiamo è complicato, CasaPound da anni ci attacca e ci minaccia". 

Come pensavate di andare avanti senza pagare gli operatori?

M.T.: "Il mio errore è stato non licenziarli prima. Quando ci siamo accorti che gli anticipi dello Stato arrivavano con lentezza avrei dovuto avere il coraggio di farlo, ma li conosco da vent'anni e ho preferito aspettare". 

Pare che ci siano tracce di pagamenti effettuati da conti esteri. A chi fate gestire la contabilità?

M.T.: "Barbara, una commercialista indicataci dalla Lega delle cooperative. Conserva le fatture della spesa, le ricevute dei pocket money, i registri... Siamo sottoposti a controllo della Prefettura, che autorizza il saldo delle fatture solo dopo verifica. Pagamenti dall'estero? Impossibile, abbiamo un unico conto con Banca Intesa".

"Manca l'elettricità e l'acqua", "il cibo è scadente", "non ci danno i vestiti", "ci trattano male", "sono razzisti": sono alcune delle testimonianze dei minorenni del vostro centro di Latina finite in procura e di cui ha dato conto Repubblica. Cosa rispondete?

M.T.: "I ragazzi, che hanno un tutore legale, non si sono mai lamentati con noi. A luglio si è rotto l'impianto idraulico e abbiamo chiuso quello elettrico per precauzione, quindi abbiamo chiesto al comune di trasferirli in altra struttura". 

L.: "E quella frase sul razzismo è riferita a uno dei posti dove sono stati portati dopo". 

Però di cibo non sufficiente parlano anche due dipendenti, tra cui la ex cuoca. Come lo spiegate?

M.T.: "La cuoca è arrabbiata perché deve essere ancora pagata, il contratto le è scaduto. Dei ragazzi non me lo spiego, forse sono manipolati". 

Da chi?

M.T.: Dal sindacato. È il sindacato che è andato da loro, e mi chiedo se sia corretto raccogliere testimonianze senza il permesso del tutore legale". 

Agli atti c'è una chat in cui un lavoratore del Consorzio Aid è invitato a spedirvi una fattura "per metà dell'importo". I pm credono sia un contratto irregolare.

M.T. : "Del Consorzio sono consigliera, ma questa storia l'ho saputa per caso. Cercavamo un mediatore che parlasse arabo e si è presentato un egiziano, diceva di avere i documenti in regola. Ha lavorato per noi per un mese come manutentore nel centro per i dieci minorenni che abbiamo a Latina, faceva anche da mediatore. Abbiamo scoperto solo dopo che non aveva documenti e, supponiamo, neanche il permesso di soggiorno". 

Il Consorzio della famiglia del sindacalista Soumahoro che fa lavorare qualcuno al nero e senza permesso di soggiorno. È un pasticcio, si rende conto?

M.T. : "Quel caso è stato gestito con leggerezza, se l'avessi saputo non l'avrei permesso".

L.: "Il mio compagno non è al corrente di niente. Oltretutto la Karibu non è mia, contrariamente a quanto leggo sugli articoli dei giornali. Ci sono entrata solo alla fine del 2017 per dare una mano a mia madre con la riorganizzazione. Prima lavoravo per il rappresentante della Presidenza del consiglio per l'Africa, sia durante il governo Berlusconi sia con Prodi. Per un anno sono stata alla Karibu gratis, poi ho conosciuto Aboubakar, sono rimasta incinta e sono andata in maternità. A luglio di quest'anno il rapporto di lavoro si è concluso". 

La Lega dei Braccianti di Soumahoro ha sede allo stesso indirizzo di Latina della Karibu. Possibile che lui non sapesse proprio niente di questi problemi?

M.T. : "È una sede come tante altre, lui non veniva mai. Ci ha messo un ragazzo per fare campagne di sensibilizzazione sui braccianti sfruttati".

L.: "L'obiettivo è chiaramente Aboubakar, vogliono affossarlo. Guarda caso un mese dopo il suo ingresso in Parlamento, e subito dopo essere andato a Catania per difendere lo sbarco dei migranti, scoppia questo scandalo".

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 21 novembre 2022.

Ieri è stata la giornata di Aboubakar Soumahoro. Il deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana si è difeso sia sui social network, sia sui giornali. 

Al centro dell'attenzione per l'inchiesta della procura di Latina sulle due Cooperative riconducibili alla sua famiglia- Karibu e Consorzio AidSoumahoro, che risulta estraneo ai fatti, adesso sta cercando soprattutto di allontanare le nubi da sua moglie, Liliane Murekatete, tirata in ballo per il suo ruolo all'interno di una delle due società finite nel mirino dei pm e del ministero delle Imprese (la Karibu, appunto) per presunte irregolarità gestionali. 

Il Corriere della Sera definisce l'atteggiamento del deputato nei confronti della consorte classe 1977, ruandese, «protettivo». «Mia moglie è attualmente disoccupata. Non ha nessuna cooperativa. Quando vorranno sentirla, fornirà tutti i chiarimenti». 

Analoga affermazione Soumahoro ha fornito a Repubblica, negando ancora una volta qualsiasi ruolo di Liliane nelle società: «Liliane non possiede nessuna cooperativa, non fa parte di nessun Cda e non è mai stata all'interno del Consorzio Aid. È vero che è stata una dipendente della Karibu, ma allo stato attuale è disoccupata».

Le visure storiche scaricate dalla Camera di commercio di Frosinone e Latina, però, raccontano un'altra storia. Almeno fino al 17 ottobre scorso, quando è stato estratto il documento. 

La Karibu è presieduta da Marie Terese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro (che, peraltro, secondo quanto riferito dal quotidiano La Verità sarebbe indagata dalla procura di Latina con l'ipotesi di malversazione di erogazioni pubbliche). Ma Liliane Murekatete, moglie del deputato, al 17 ottobre scorso risultava in possesso della carica di «consigliera» di amministrazione.

Spulciando la visura camerale, balza agli occhi che Liliane, lungi dall'essere una semplice «dipendente», è stata nominata nel Cda il 9 marzo 2022, ma la sua prima iscrizione nel registro della società risale addirittura all'8 maggio 2018, come conseguenza della «nomina alla carica di consigliere con atto del 3 aprile 2018». 

Non solo: Liliane risultava anche socia amministratrice della Venere The Wedding planer s.n.c, società operante nell'«organizzazione di convegni e fiere». Incarico ricoperto dal 21 giugno 2002. 

Insomma, se di disoccupazione si tratta, questa è intervenuta dopo il 17 ottobre scorso, meno di un mese fa. E Liliane non risultava inquadrata come «dipendente», bensì in un caso come «consigliera», e nell'altro come «socia amministratrice».

Le stranezze non finiscono qui. Basta dare un'occhiata al profilo Twitter della Karibu per imbattersi, tra gli account seguiti dalla società specializzata nei «servizi domestici a sostegno del bisogno familiare» e nelle attività di «accoglienza e integrazione» degli immigrati, in marchi di alta moda come Missoni, Fendi, Valentino, Gucci, Ferragamo, Armani, Versace, Vogue Italia, Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Prada. 

Nomi che c'entrano poco, per non dire nulla, con l'attività istituzionale della Karibu, che nella presentazione del proprio profilo inserisce solo tre parole: «Accogliere, formare, integrare». E qui arriva in soccorso un altro social, ovvero Instagram, che forse spiega da dove arriva l'interesse di Liliane Murekatete per i marchi di lusso e abbigliamento.

L'account della moglie di Soumahoro - seguito ovviamente anche dal marito, come mostriamo nella foto pubblicata a sinistra - mostra una serie di immagini che testimoniano la passione di Liliane perla griffe. 

Si possono ammirare pose di Liliane con borse, valigie di lusso e occhiali. Lady Murekatete non fa nulla per nascondere la sua inclinazione al buon gusto, con istantanee che la ritraggono in quelli che sembrano ascensori e hall di hotel.

Lo stesso accade su LinkedIn, dove nella foto profilo si nota la custodia di un telefono targata Luis Vuitton. Vera o tarocca che sia, conferma la predisposizione per i marchi del lusso. Una ricerca dell'eleganza, con il perfetto abbinamento vestito-valigia-scarpe, che però cozza non solo con la missione della sua Cooperativa, ma anche con l'immagine diffusa dal marito deputato, celebre per essersi presentato in Parlamento, nella seduta che inaugurato la nuova legislatura, con gli stivali usati dai lavoratori nei campi. «Portiamo questi stivali in Parlamento, gli stessi che hanno calpestato il fango della miseria», spiegò proprio su Instagram, lo stesso social dove la moglie Liliane sfoggia i suoi capi, il deputato di sinistra.

“Minori pagati a nero e sfruttati” nelle coop legate a Soumahoro. Via all'indagine. Tommaso Carta su Il Tempo il 18 novembre 2022

Un'inchiesta rischia di offuscare l'immagine di Aboubakar Soumahoro, dallo scorso ottobre deputato dell'Alleanza Sinistra Verdi ma da molto prima volto simbolo della difesa dei diritti dei lavoratori immigrati in Italia. Sono in corso accertamenti da parte dei carabinieri di Latina dopo la denuncia del sindacato Uiltucs che ha presentato un esposto su presunte irregolarità nei pagamenti e nei contratti stipulati con alcuni migranti impiegati in due cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera del sindacalista e deputato. Progetti, tra gli altri, finanziati anche dalla Prefettura di Latina. Al vaglio dei militari dell'Arma e della procura di Latina ci sarebbero alcuni documenti trovati all'esterno della sede di una delle cooperative mentre era in corso un trasloco. Verifiche, anche in collaborazione con l'Ispettorato del Lavoro, sugli incartamenti. L'accusa della procura di Latina riguarda le coop Karibu e Consorzio Aid. Alcuni minorenni hanno denunciato al sindacato Uiltucs di essere stati maltrattati, privati di acqua e luce, altri di non ricevere lo stipendio da due anni e di lavorare a nero.

Soumahoro ha dedicato alla vicenda un lungo post su Facebook: «Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine dell'arma dei carabinieri, di cui ho sempre avuto e avrò fiducia». «Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale - ha continuato il parlamentare - per questo, dico a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico, di mettersi l'anima in pace. A chi ha deciso, per interessi a me ignoti, di attaccarmi, dico: ci vediamo in tribunale! Ho dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione». Nonostante la precisazione di Soumahoro, Fratelli d'Italia ha annunciato un'interrogazione alla Camera dei deputati sulla vicenda al ministro del Lavoro Marina Elvira Calderone «per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative. I fatti riportati dagli organi di stampa, se confermati, sono gravi e meritano un'immediata azione di trasparenza».

Dura la nota della deputata leghista Simonetta Matone: «Vorremmo sapere dall'onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all'onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare "chi vive nel fango della miseria e del caporalato", la "miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l'affitto"». Attacca anche il capogruppo leghista nel Consiglio regionale del Lazio Angelo Tripodi, ricordando come la coop su cui indaga la procura di Latina sia stata «sbandierata da anni dagli amministratori del Pd e dall'ex sindaco di Latina Damiano Coletta come modello dell'accoglienza in Italia», in linea «con il segretario del Pd, Enrico Letta, e il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che ha elargito fondi regionali al sistema dell'accoglienza». Uno scenario preoccupante, in cui si interseca il legame tra la coop e alcuni Comuni governati dal Pd e dalla sinistra ormai da anni: gli affidamenti diretti per centinaia di migliaia di euro e il sistematico ricorso alle proroghe, qualche amministratore locale dipendente della coop e, addirittura, alcuni funzionari pronti ad affittare i propri immobili» conclude Tripodi. 

Cooperative gestite dalla famiglia di Soumahoro, scatta l'interrogazione parlamentare. Il Tempo il 17 novembre 2022

Il gruppo Fratelli d’Italia della Camera dei Deputati depositerà nelle prossime ore un’interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone, «per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid», che sarebbero oggetto «di inchiesta da parte della Procura di Latina, legate alla suocera e alla moglie del parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. »«I fatti riportati dagli organi di stampa, se confermati, sono gravi e meritano un’immediata azione di trasparenza». Lo comunica in una nota il gruppo FdI della Camera dei deputati.

Insorge anche la Lega. «Vorremmo sapere dall’onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all’onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare "chi vive nel fango della miseria e del caporalato", la "miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l’affitto". Perché apprendere, ove le notizie fossero confermate dall’inchiesta dei magistrati di Latina, di minorenni lasciati in condizioni di sofferenza senza cibo, acqua o luce rischia di ridimensionare, e di molto il suo ruolo di paladino degli ultimi». Lo dichiara in una nota la deputata della Lega Simonetta Matone.

Soumahoro, il Pd lo scarica: "Avevamo sollevato dubbi ma siamo stati ignorati". Dario Martini su Il Tempo il 24 novembre 2022

Solo adesso il Partito democratico batte un colpo su Aboubakar Soumahoro, il "deputato con gli stivali" eletto con l'Alleanza Verdi-Sinistra finito al centro delle polemiche per le cooperative attive nell'accoglienza dei migranti gestite dai suoi familiari. In particolare la moglie Liliane Murekatete, consigliera d'amministrazione della coop Karibu, e la suocera Marie Therese Mukamitsindo, presidente della stessa Karibu e consigliera del consorzio Aid. Quest' ultima è indagata dalla Procura di Latina per malversazione.

Gli inquirenti vogliono capire se i fondi pubblici erogati dallo Stato e dagli enti locali per assistere gli immigrati siano serviti ad altri scopi. «Alcuni elementi di criticità e di opacità rispetto alle cose emerse circolavano anche in precedenza», svela Roberto Solomita, segretario dem a Modena, dove Soumahoro era candidato nel collegio uninominale come nome di punta di Verdi e Sinistra italiana in coalizione con il Pd. Il responsabile locale del partito di Enrico Letta aggiunge un particolare significativo: «Io ne ho parlato con il Pd e gli elementi sono stati portati all'attenzione. Nei pochi giorni che avevamo a disposizione prima delle elezioni abbiamo immaginato che le condizioni della candidatura fossero state verificate. Noi non abbiamo fatto un'indagine approfondita, ma abbiamo fatto presente ai responsabili del Pd che già circolavano cose sul conto di Soumahoro. Abbiamo semplicemente detto: "Gira questa roba qui, siamo proprio sicuri?". Ce lo avevano evidenziato in particolare anche alcuni rappresentanti dei sindacati confederali che con lui hanno rapporti più stretti. Questa vicenda è semplicemente lo specchio della gestione delle candidature nell'ultima tornata elettorale, che ha prodotto gli esiti cui abbiamo tutti assistito». Come sottolinea la Repubblica, Solomita vuole specificare che la scelta fu operata «dagli alleati di Sinistra Italiana e Verdi» e che non c'era alcuna riserva sulla figura di Soumahoro. I leader di Verdi e Sinistra italiana hanno sollecitato più volte Soumahoro ad incontrarli per fornire i dovuti chiarimenti. Il paladino dei braccianti ha sempre rimandato. Ieri, però, non ha potuto sottrarsi ulteriormente al confronto. Soumahoro, Bonelli e Fratoianni, infatti, si sono visti a Montecitorio, dove si trovavano per partecipare alla seduta pomeridiana della Camera. Il clima non era dei migliori. Dopo i lavori dell'Aula, i tre si sono riuniti negli uffici parlamentari per due ore, fino alle 21. Ma non è stato sufficiente.

I tre si rincontreranno oggi. Bonelli e Fratoianni sono rimasti molto irritati per il video pubblicato su Facebook alcuni giorni fa con cui Soumahoro, piangendo a dirotto, si scagliava contro chi lo «vuole morto». Un'iniziativa non concordata che non ha contribuito a fare chiarezza su quanto sta accadendo. Ha affermato che la consorte non lavora più alla Karibu da giugno scorso, quando invece almeno fino ad ottobre era ancora consigliera d'amministrazione. Ha detto anche di non avere mai avuto nulla a che fare con le due cooperative, quando invece alcuni operatori sociali hanno raccontato la sua presenza negli uffici della suocera. Negli stessi locali dove si trova la sua Lega dei braccianti, il sindacato con cui porta avanti le battaglie in difesa dei profughi sfruttati. Un movimento da sempre molto attivo nel Foggiano. Ed è proprio da San Severo in Puglia che arrivano le accuse della Caritas locale, secondo cui l'attività di Soumahoro «è solo virtuale». È bene ricordare che il deputato non è indagato. E che la sua versione merita di essere credute fino a prova contraria. Proprio per questo motivo Bonelli e Fratoianni non capiscono per quale motivo fino a ieri si sia sempre sottratto ad un incontro. «Siamo un'alleanza che fa del garantismo un principio importante - spiega il leader dei Verdi - Certo è che abbiamo detto che c'è una questione politica su cui Aboubakar deve delle spiegazioni non solo a noi ma anche a chi ci ha votato». Comunque, fa sapere Bonelli, non è prevista né la sospensione né l'espulsione dal partito.

Soumahoro in lacrime su fb,"sono persona pulita, mi volete morto". (ANSA il 20 Novembre 2022) - "Mi dite cosa vi ho fatto? Da una vita sto lottando per i diritti delle persone. Vent'anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto. Ho sempre lottato". Lo dice in lacrime Aboubakar Soumahoro, deputato eletto con l'alleanza Verdi-Si in un video postato su Facebook. Con la voce rotta dal pianto, Soumahoro - dopo l'indagine su eventuali irregolarità in due cooperative nelle quali hanno avuto dei ruoli la moglie e la suocera - aggiunge: "Ma figuratevi se questa regola non sarà rispettata da parte mia anche nei confronti della mamma della mia attuale compagna".

 "Voi avete paura delle mie idee, di chi lotta", aggiunge. "Pensate di seppellirmi ma non mi seppellirete. Sono giorni che non dormo. Io non lotto solo per Aboubakar, non ho mai lottato per Aboubakar. Ho lottato per le persone che voi avete abbandonato. Mia moglie è attualmente disoccupata, è iscritta all'Inps, non possiede allo stato attuale nessuna cooperativa. Perché non parlate con lei? Quando l'ho conosciuta lavorava già nell'ambito dell'accoglienza. Parlate con mia suocera, chiedete a lei che è proprietaria della sua cooperativa, e io sarò il primo ad andare lì, a lottare, a scioperare con i dipendenti e difendere i loro diritti", prosegue. 

"La montagna di fango non seppellirà le mie idee, probabilmente riuscirete a seppellirmi fisicamente, ma non riuscirete mai a seppellire le nostre idee, le idee degli invisibili", di "quel mondo che voi avete abbandonato". "Io sono una persona integra, pulita", rivendica il parlamentare.

DAGOREPORT il 23 novembre 2022.  

Il caso Soumahoro e lo scandalo che ha investito (l'ex) paladino dei braccianti sta facendo impazzire i “sinistrati” Fratoianni e Bonelli. Cioè i leader di Sinistra Italiana e Verdi che hanno voluto candidare l'ivoriano alla Camera dei Deputati, e che ora vengono sbeffeggiati sui social (e dai militanti) che li attaccano per la scelta improvvida.

Dalle stelle dello scranno in parlamento alle stalle delle inchieste dei pm di Latina, che indagano sulle cooperative della suocera, il passo è stato brevissimo. E la situazione peggiora perché i giornali, di giorno in giorno, pubblicano nuovi imbarazzanti dettagli sulla vicenda, tra borse Vuitton della moglie Liliane e testimoni che parlano di sfruttamento avvenuti nelle coop, fino alla Caritas che sostiene che Soumahoro andava nei centri di accoglienza vestito da Babbo Natale portando doni a bambini che non esistevano. E poi ci sono i controlli del ministero e i tanti dubbi sui bonifici della cooperativa verso il Ruanda, dove i familiari di Aboubakar avevano un resort con piscina.

Bonelli però si giustifica con gli amici: non è lui il vero colpevole della scelta dell’ivoriano. Il suo nome è stato “spinto”, lo hanno raccomandato in tanti. Chi? I soliti tromboni della sinistra romana e milanese. Ha ragione il povero Bonelli, preso in giro ieri da un perfido articolo del “Corriere della Sera” firmato da Goffredo Buccini. Soumahoro è diventato un'icona della sinistra per colpa di altri. E’ stato inventato da L'Espresso, allora guidato da Marco Damilano. L’ivoriano fu spiattellato in copertina in contrapposizione a Salvini (il titolo era tutto un programma ideologico: “Uomini e no”).

Soumahoro ha scritto un libro per Feltrinelli, la casa editrice della gente che piace e si piace, ed è diventato famoso grazie alle ospitate a “Propaganda Live” il circoletto romanello di Zoro, Makkox e Damilano (ora a Raitre). In poco tempo, Soumahoro è diventato “icona”. Volto spendibile alla bisogna per ogni intemerata “anti”: anti-Salvini, anti-razzista, anti-destra e via politicando. Dal palchetto votivo, Aboubakar è cascato in lacrime spiegando, in un video diffuso sui social, che eventuali sfruttamenti di minori sono avvenuti a sua insaputa. Non il massimo per il paladino dei diseredati.  

Il programma di Zoro, che piace tanto a Enrico Letta (uno che la politica dovrebbe studiarla e non farla), di solito fa la morale ai “cattivoni” con le lezioncine di onestà-tà-tà. Avrà sbertucciato Soumahoro, dopo le tribolazioni giudiziarie? Macché! Dopo aver eretto l’ivoriano a nuovo Berlinguer, “Propaganda Live” non ha dedicato nemmeno un minuto allo scandalo del sindacalista.

Poverini, bisogna capirli quei maestrini di etica (e cotica) di Zoro & friends. Devono essere rimasti scottati dai “precedenti”. Tempo fa un altro volto della trasmissione, il chitarrista Roberto Angelini, è finito nella polvere. Il musicista, proprietario di un ristorante, aveva frignato sui social raccontando di avere ricevuto una multa per il tradimento di una dipendente cattiva. Tutti a dargli solidarietà, fino a quando si è scoperto che la ragazza lavorava in nero, e che l'amico di Zoro si era comportato come uno dei tanti paraculi che “Propaganda Live” ama mettere alla berlina. Consiglio spassionato: la prossima volta, caro Zoro, prima di mazzolare qualcuno butta prima un occhio alla polvere sotto il tappeto dei tuoi ospiti…

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 20 Novembre 2022. 

Non è solo la procura di Latina ad aver acceso un faro sulle cooperative gestite dalla famiglia di Aboubakar Soumahoro. A volerci vedere chiaro, dopo le presunte irregolarità denunciate da alcuni lavoratori, è anche il ministero delle Imprese e del Made in Italy, l'ex ministero dello Sviluppo economico, che ha deciso di fare un'ispezione sulle due società amministrate rispettivamente dalla suocera, Marie Terese Mukamitsindo (presidente della Karibu), e dalla cognata, Aline Mutesi (numero uno del consorzio Agenzia per l'inclusione e i diritti, Aid), dell'attuale deputato dell'Alleanza Verdi Sinistra, che risulta estraneo ai fatti.

Proprio dall'Aid prende le mosse la vicenda che sta imbarazzando la sinistra. Sono alcuni lavoratori del Consorzio impegnato nei «servizi di assistenza e integrazione» sul territorio della provincia di Latina di «richiedenti asilo, rifugiati e immigrati» a rivolgersi, nel giugno scorso, alla sede provinciale del sindacato Uiltucs, guidata da Gianfranco Cartisano, per lamentare il mancato pagamento degli stipendi. Alcuni dipendenti lamentano addirittura un ritardo di 15 mesi. Il totale delle retribuzioni non pagate, ha rivelato venerdì scorso Cartisano, arriva a «ben 400mila euro».

L'ultimo bilancio disponibile del consorzio Aid, però, chiuso al 31 dicembre 2020, certifica che la società, si legge nella Nota integrativa abbreviata, «ha ricevuto incarichi retribuiti nel corso del 2020 da diversi Enti appartenenti alla pubblica amministrazione» per un totale di 749.301,68 euro.

Nell'elenco spiccano i 111.464,50 euro incassati il 10 dicembre 2020 dalla prefettura di Latina. Ente che il precedente 27 ottobre ha versato altri 107.717 euro, preceduti dai 105.395,17 euro del 21 settembre e dai 103.672,40 euro del 24 giugno. Data in cui Aid ha incassato altri 99.282,67 euro.

Ma non è stata solo la prefettura di Latina ad affidare incarichi al consorzio guidato da Aline Mutesi: nella lista ci sono anche gli importi versati dal Comune di Termoli e da quello di Latina. La causale spazia, a vario titolo, dal «servizio di gestione dei centri di accoglienza» per la prefettura di Latina, all'«acconto progetto Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr)» per il Comune di Termoli. Il Comune di Latina, invece, ha versato 10mila euro il 7 agosto 2020 per il «bando multimisura per la concessione di contributi in ambito sociale».

Nel bilancio c'è anche l'indicazione degli emolumenti percepiti dal presidente del consiglio di amministrazione, Mutesi: «È previsto un compenso pari ad euro 4.000 mensili al lordo delle trattenute previdenziali e fiscali». In totale per salari e stipendi nel 2020 il Consorzio ha versato, emerge dal conto economico della società, 164.815 euro. 

Quanto a Karibu, presieduta dalla suocera di Soumahoro e amministrata anche dalla moglie, Liliane Murekatete, che risulta residente a Sezze, in provincia di Latina, nello stesso indirizzo indicato da Mutesi, rappresentante di Aid, i numeri sono meno lusinghieri. La società, impegnata nei «servizi domestici a sostegno del bisogno familiare, servizi di accoglienza e integrazione sul territorio di richiedenti asilo, rifugiati politici e immigrati», ha accusato per l'anno 2021 «un cambiamento nell'ambito lavorativo specifico della Cooperativa».

I progetti per l'assistenza degli immigrati, infatti, «sono stati quasi tutti messi da parte all'infuori della categoria minori». Il periodo successivo all'emergenza Covid, mettono nero su bianco gli amministratori, è stato negativo, al punto che Karibu «ha dovuto licenziare parecchi dipendenti, visto il cambiamento organizzativo del lavoro». 

Un «risultato negativo», come riconosciuto dalla stessa società, che contrasta con quanto percepito, a titolo di emolumento, dalla presidente del Cda, Marie Terese Mukamitsindo, che a quanto riferisce il quotidiano La Verità avrebbe incassato oltre 100mila euro.

Non solo: dalla Nota integrativa al bilancio di esercizio al 31 dicembre 2021, emerge che la spesa per il personale è stata di 865.930 euro (in calo rispetto ai 1.486.308 euro del 2020). E il costo delle prestazioni lavorative dei soci - la Karibu è una cooperativa sociale e quindi a mutualità prevalente di diritto - ha pesato per 392.801 euro. Numeri che rinfocolano le polemiche politiche. 

«Aumentano gli indizi di colpevolezza nei confronti dei familiari del deputato Soumahoro, eletto con una formazione politica che a parole predica accoglienza e solidarietà. Bene la procura della Repubblica di Latina sugli accertamenti in merito all'operato delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid», attacca Marta Schifone di Fratelli d'Italia. 

 Il collega di partito Massimo Ruspandini applaude invece alla decisione del ministro Adolfo Urso (Imprese) di «di disporre un'ispezione sui presunti casi di sfruttamento ed irregolarità. Fratelli d'Italia intende alzare l'attenzione su ogni forma di sfruttamento e violazione dei diritti sui luoghi di lavoro. Andremo avanti per accertare la verità».

In Onda, Paolo Mieli: "Soumahoro? Sono orripilato", cosa non torna. Libero Quotidiano il 20 novembre 2022

“Sono orripilato da questa vicenda”. Paolo Mieli non usa mezzi termini per descrivere quanto sta accadendo ad Aboubakar Soumahoro, massacrato per una vicenda giudiziaria in cui non è coinvolto: al massimo c’entra la famiglia della moglie, ma sarà tutto da accertare. L’onorevole eletto tra le file di Sinistra Italiana non si dà pace: “Perché questo fango? Perché vogliono colpire me? Hanno così paura delle mie idee?”. 

Lo sfogo a In Onda, su La7, ha dato il via a una discussione tra gli ospiti presenti in studio. Tra cui proprio Mieli, che si è detto “orripilato” dagli attacchi subiti da Soumahoro: “È vero, come diceva Concita De Gregorio, ci sono dei precedenti sui familiari dei politici, però c’è una velocità sorprendente se consideriamo il rapporto tra quando gli italiani hanno conosciuto Soumahoro e l’inizio di questa iniziativa giudiziaria. Tra l’altro vorrei ricordare che di recente il suo nome è entrato in ballo come possibile segretario del Pd: si è detto che sarebbe una svolta”.

Secondo Mieli l’onorevole sta pagando troppo velocemente il prezzo della notorietà: “Renzi e Boschi sono stati casi scandalosi perché è stato un picchiare per mesi e anni, ma questo caso è troppo veloce anche per chi come me è nel giro da tempo. Appena compare un protagonista nuovo nella politica si mette in moto un giochetto di questo tipo, ma stavolta è tutto troppo veloce”.

Soumahoro si vanta: “Saviano e Lucano sono con me”. Ma chiede aiuto alla Meloni per l’Africa. Lucio Meo su Il Secolo d’Italia il 20 Novembre 2022.  

I giornali di oggi grondano di interviste ad Aboubakar Soumahoro, il deputato eletto con i Verdi e Sinistra italiana (nelle liste del Pd) considerato il paladino dei braccianti schiavizzati, ma al centro di una bufera giudiziaria per un’inchiesta della Procura di Latina sull’attività di due coop gestite della moglie e dalla suocera. Maltrattamenti e sfruttamento, perfino di minorenni, queste le pesantissime accuse dalle quali oggi Aboubakar Soumahoro prova a difendersi sui giornali. Chiamando in causa, ovviamente, un presunto disegno politico, su cui Soumauhoro annuncia di aver ricevuto il sostegno di Saviano e del condannato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace…

Gli affari della moglie e della suocera: non ne sapevo nulla…

Su Repubblica a Sohumahoro viene chiesto cosa sapesse degli affari della moglie. “Liliane non possiede nessuna cooperativa, non fa parte di nessun Cda e non è mai stata all’interno del consorzio Aid. È vero che è stata una dipendente della Karibu, ma allo stato attuale è disoccupata- Cosa c’entro io con quella cooperativa? Perché non sono andati a chiedere notizie a mia suocera o a mia moglie? È la dimostrazione che è solo fango per delegittimare me e la mia lotta…“, dice il deputato di sinistra. Che si rifiuta di entrare nel merito delle accuse: “La mia resistenza a rispondere a queste domande non è dovuta a una volontà di eluderle. Però, non avendo io vissuto nulla in merito a questa vicenda, non posso fare affermazioni approssimative o per sentito dire con delle indagini della procura in corso”.

Soumahoro però fa sapere che Saviano e Mimmo Lucano sono con lui…

Guarda caso, in questa vicenda spunta anche Roberto Saviano, protagonista dell’incontro tra Soumahoro e la moglie, conosciuta nel corso di un evento pubblico proprio a Latina, “dove ero andato insieme al mio amico Roberto Saviano”. “Lei + la donna che amo e per amarla non mi serve il suo casellario giudiziario. Liliane è la persona che, quando l’Italia era in lockdown, stava da sola a casa con un neonato, mentre io giravo il Sud per distribuire mascherine ai braccianti e alle persone bisognose. Adesso, quando esco di casa, mio figlio mi dice: papà, vai a fare la libertà”. Inutile dire che il deputato ha incassato la solidarietà del suo amico, e non solo. “Ringrazio Saviano, ringrazio il mio fratello e compagno Mimmo Lucano, ringrazio le attiviste e gli attivisti della comunità Invisibili in Movimento, ringrazio tutta la comunità virtuale che si è schierata dalla mia parte. Persino Maurizio Gasparri ha scritto che non ho alcuna responsabilità. Aspetto le prese di posizione degli altri”, dice, poi fa la vittima politica. “Io sono un nemico e un bersaglio ideale per la destra, ma anche per una certa sinistra sono scomodo. Una sinistra che non riesce a schierarsi dalla parte del lavoro, che si ricorda delle donne solo l’otto marzo, che non ha un orientamento chiaro sulla pace, che non dà seguito alle promesse sullo ius soli, che non sa la fatica di un operaio, la precarietà…”.

L’appello alla Meloni per una battaglia comune sull’Africa

Con Giorgia Meloni, fu protagonista di una polemica nel giorno della fiducia al governo, quando si “offese” perché il presidente del Consiglio gli si era rivolto con tu, salvo poi scusarsi. La  Meloni ha proposto un piano per l’Africa, la convince? No, ma apre a una collaborazione con il governo. “Per un africano, fatevelo dire da un italiano diversamente abbronzato, quel piano ricorda troppo i tempi della colonizzazione. Nessun governo africano farà accordi con chi esprime ostilità verso i figli e le figlie del continente. Non bisogna costruire un piano per l’Africa, ma un piano insieme agli africani. Se Meloni è d’accordo, sono pronto a farlo con lei in Parlamento...”.

La precisazione di Gasparri

“Leggo una intervista dell’onorevole Soumahoro nella quale afferma che il sottoscritto avrebbe escluso ogni sua responsabilità nelle vicende relative a un presunto sfruttamento di lavoratori stranieri nella zona di Latina. – afferma il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. – Io da garantista mi sono limitato a prendere atto che allo stato non risulta nessun coinvolgimento del neo parlamentare in queste vicende di cui abbiamo appreso. Però dico con analoga franchezza che risulta difficile immaginare che l’onorevole Soumahoro non si fosse accorto del disordine che avrebbe accompagnato vicende di lavoro che potrebbero aver coinvolto sue familiari. Inoltre la vicenda fa emergere l’ipotesi di gravi forme di sfruttamento di lavoratori stranieri da parte di organizzazioni gestite da loro connazionali. Quindi non posso lanciare accuse verso il neo deputato, tuttavia gli consiglio con pacatezza di indossare nuovamente gli stivali di gomma che ha usato all’esordio parlamentare, per visitare nuovamente le zone dove hanno agito le sue familiari, così conoscerà i fatti che dice di ignorare. Io fino a prova del contrario resto convinto della sua estraneità a condotte non corrette. A tutte le sue altre narrazioni credo un po’ meno. E lo invito a riflettere sulla opportunità di politiche più severe in materia di immigrazione, utili a impedire vergognose forme di sfruttamento del lavoro”.

Soumahoro massacrato perché è negro, le lacrime e la caccia a testate unificate. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Novembre 2022

Anche se fossero soltanto la parte più artefatta di una patetica messinscena, come pure in tanti gli hanno rinfacciato, le lacrime di Aboubakar Soumahoro rispondevano a un fatto invece verissimo: e cioè che molti gli vogliono male, e pretendono di giudicarlo volendogli male, e gliene vogliono perché è un negro (non si scriva “nero”, per favore, almeno in questo caso). È un negro che ambisce al seggio parlamentare e lo ottiene, e da lì osa denunciare l’ingiustizia che affligge i diversi di pelle e di etnia, i quali solo a causa di questa diversità, non per altro, sono violentati ed emarginati.

È un negro che si permette di mettere in faccia al Paese la verità e l’attualità di un’ingiustizia concentrata su condizioni essenziali, vale a dire anche più intime e originarie rispetto al rango, all’impostazione religiosa, alla formazione culturale; e cioè la verità e l’attualità di un’ingiustizia riassunta in una dicitura tanto facile da pronunciare finché non è questione di sentirsene responsabili, e questa dicitura è “razzismo”: perché di questo e non di altro si tratta. E, su tutto, Aboubakar Soumahoro è il negro preso finalmente in castagna: a cianciare di diritti dei migranti mentre la suocera affarista e la moglie in ghingheri affamavano i minorenni e non pagavano i lavoratori nelle strutture di accoglienza.

Se è vero che quel parlamentare ha reagito in modo poco temperante e forse inopportuno alle prime notizie su questa faccenda (l’annuncio indiscriminato di querele non è mai un granché), è altrettanto vero che a investirne la reputazione e l’immagine, di lì in poi, è stato tutto tranne che la presunta ricerca della verità: e davvero tutto, ma proprio tutto, tranne che l’indignazione per il maltrattamento di cui sarebbero stati destinatari quei migranti e quei lavoratori. Gli uni e gli altri, è il caso di dirlo, solitamente non degni delle cure di attenzione in cui ci si esercita, vedi tu la combinazione, quando neppure il negro, ma anche solo il suo circolo familiare, è lambito da qualche ipotesi di irregolarità.

A quest’evidentissima realtà, ed è un capitolo della stessa ignominia, si risponde osservando che no, che c’entra il colore della pelle?, qui ci sono dei fatti da accertare e non è che si può far censura giusto perché l’implicato è un africano. Col triplice dettaglio che i fatti da accertare son dati per certi, che non risulta che l’africano sia implicato e, soprattutto, che se non fosse stato africano non sarebbe partita la caccia che invece è partita.

Che non era la caccia – che non si è mai vista – al marito e al genero di due tipe ipoteticamente disinvolte, e magari anche qualcosa di peggio, nella gestione di qualche cooperativa, ma puramente e semplicemente la caccia al negro travestita da una specie di Mani Pulite dell’immigrazione: per fare giustizia di certi manigoldi che ancora trattano male gli immigrati in un Paese abituato ad accoglierli felicemente, a farli sentire a casa loro, a non discriminarli mai mai mai, a riconoscere loro ogni diritto, a non dire mai, nemmeno per scherzo, “prima gli italiani”. Aboubakar Soumahoro merita solidarietà non per come è lui: ma per come siamo noi. Iuri Maria Prado

Soumahoro e ipocrisie: dello schiavismo non interessa a nessuno. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 28 novembre 2022

Le piantagioni schiaviste, con gli immigrati incurvi sotto il sole a raccattare ortaggi per un emolumento miserabile, e poi i dormitori di lamiera con le fogne a cielo aperto, e le baraccopoli e i casermoni di periferia che a fine giornata si affollano di quella gente lacera, coinquilina dei ratti in festa in un trionfo di immondizia e deiezioni, non sono episodiche vicende scandalose sfuggite al controlli civile di chi blatera di diritti: sono la realtà risalente e sistematica che offre buona materia elettorale e da comizio a chi non saprebbe che fare senza la riserva di quel degrado. Il regime schiavista cui sono sottoposti quei disgraziati non è l'effetto del neoliberismo selvaggio e dell'oscena logica del profitto che li tiene incatenati al proprio destino derelitto: è l'effetto di un dirittismo declamatorio, analogo alla retorica operaista che ha garantito agli operai italiani i salari più bassi d'Europa, e che trae alimento proprio dall'irreversibilità di quella condizione miserabile. Perché piuttosto che inserirli in un circuito virtuoso della produzione, competitivo, concorrenziale, anziché limitarsi a caricarli sul conto di un welfare simultaneamente insostenibile e straccione, il poverismo della Repubblica fondata sul lavoro preferisce farne una massa in attesa dell'assegnazione del diritto acquisito al sussidio, e per i più meritevoli un posto in lista. Questi giorni di polemica hanno reso solo più spettacolare una realtà manifesta da sempre, e cioè che di quella gente non frega niente innanzitutto a quelli che fanno le mostre di tutelarne i diritti.

Il caso e la gogna. Chi è Aboubakar Soumahoro e perché è stato aggredito da tutti. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Novembre 2022

L’aggressione razzista ai danni dell’onorevole Aboubakar Soumahoro sta proseguendo con il contributo o nell’acquiescenza di pressoché tutto l’arco politico-giornalistico, e ogni giorno che passa si carica di prove a propria denuncia: cioè a denuncia del fatto che appunto di quello si tratta, di una campagna aggressiva che ha molto poco a che fare con l’accertamento della verità, con le propugnate esigenze informative, con il rendiconto cui è chiamato il paladino dei deboli che invece faceva soldi e carriera sulle loro spalle, e ha piuttosto molto a che fare con un pregiudizio ben misurato sul colore della pelle del “talentuoso ivoriano”, come lo chiama qualcuno adoperando il protocollo giudiziario che rinfacciava “furbizia orientale” alla testimone magrebina.

La riprova più tonda e scandalosa di quel tratto razzista, posto a contrassegnare in modo evidente quanto denegato tutto il circo di questi giorni, sta nell’uso, cui ci si è abbandonati a destra e a manca, del più classico argomento difensivo puntualmente impugnato dal razzismo inconsapevole o no: vale a dire che quella matrice sarebbe esclusa considerando che a strillare contro quel signore sarebbero innanzitutto gli stessi che egli pretendeva di tutelare. “Ma quale razzismo?! Sono i migranti, sono gli stessi braccianti neri ad accusarlo!”. Che è quel che dice l’antisemita preso in castagna: “Io ho tanti amici ebrei! E anche loro dicono che sono avari! Anche loro dicono che Hollywood e Big Pharma è tutto un magna magna della lobby ebraica!”.

È comprensibile che questi razzistelli sentano sulla propria coda lo scomodo tallone di chi fa osservare che possiamo girarla come vogliamo, ma siamo il Paese in cui un signore impugna il rosario e lo agita in faccia ai migranti da ributtare in mare in nome di Gesù Cristo, il Paese in cui il medesimo signore annuncia l’invio delle ruspe contro la “zingaraccia”, il Paese in cui la stampa coi fiocchi mette in prima pagina il controllore del treno che fa la ramanzina “Agli africani senza biglietto” (notoriamente gli italiani lo pagano tutti, il biglietto, e quando capita che non lo paghino finiscono in prima pagina col titolo “Acciuffati due di Treviso che viaggiavano gratis”), il Paese in cui il deputato in fregola si fa cronista della razza bianca violentata strillando su Twitter che lo stupratore “È un immigrato”, e sarà evidentemente una pura combinazione se non fa altrettanto quando il bruto è di Abbiategrasso o di Macerata.

E nel Paese in cui queste cose (per non dire di quelle ben peggiori) succedono regolarmente, e senza che esse siano avvertite come l’indice molto preoccupante di un rapporto gravemente disturbato con il diverso, lo straniero, l’appartenente a culture e a ranghi sociali in zone di sospetto, ebbene in un Paese così è comprensibile che non si riconosca, per inconsapevolezza o più spesso per malafede, che a fare le pulci al rogito e alle mutande griffate della moglie di Soumahoro non è la brama di verità ma la tigna razzista che si occupa dei diritti dei migranti, vedi tu la combinazione, quando è il nero a maltrattarli.

La tigna che gli rimproverava di non aver ripudiato pubblicamente la cerchia familiare, di non aver reclamato un po’ di giustizia democratica sulle spalle della moglie oltraggiosamente rivestite di capi alla moda, e che ora gli rinfaccia di non aver ancora rinunciato allo stipendio parlamentare di decretata scandalosità dai palchi dell’informazione che razzola nella trincea dell’onestà, quella che cura il diritto di sapere dei cittadini perbene che tirano la carretta mentre quello là sale a Montecitorio con il fango fasullo sugli stivali. Torni al posto suo, questo impostore, e trionfino finalmente i diritti dei migranti che lui e la suocera hanno messo nel nulla. Evviva il giornalismo tutto d’un pezzo che invece li difende, questi derelitti nelle piantagioni schiaviste e nelle periferie sbrindellate, li difende dalla mafia nera del clan Soumahoro. Iuri Maria Prado

Giustizialismo due punto z. L’aggressione razzista a Soumahoro arriva dagli stessi che si bevono la propaganda putiniana. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 3 Dicembre 2022.

Chi non distingue invasore e invaso in Ucraina, guarda caso, attacca senza pietà il parlamentare nero, in un modo che non c’entra nulla con la ricerca della verità ma molto con il colore della pelle

Vorrei parlare del caso di Aboubakar Soumahoro parlando di qualcosa che apparentemente non c’entra nulla e invece è proprio in argomento. Avete presente la guerra all’Ucraina? Non la guerra "in" Ucraina, come molto spesso si dice, ma la guerra all’Ucraina: perché uno l’ha fatta e continua a farla e l’altro l’ha subita e continua a subirla.

Bene, abbiamo letto in questi mesi che sì, d’accordo, c’è un aggredito e c’è un aggressore, ma dopotutto anche questo Volodymyr Zelensky non è che sia proprio uno stinco di santo, zittisce gli oppositori, introduce la legge marziale, limita la libertà di stampa, insomma è un mezzo dittatore.

In questi mesi di guerra "in" Ucraina, mentre c’era la guerra "all’Ucraina", abbiamo letto e sentito tante volte che sì, va bene i russi, però attenzione perché tra gli altri ci sono tanti nazisti, il battaglione Azov, i soldati che si fanno fotografare con la svastica, quella non è mica una vera democrazia, eccetera.

Ecco, tutte queste cose – se anche esistono – cessano di essere rilevanti quando c’è di mezzo il bombardamento degli ospedali, degli asili, dei mercati, quando di mezzo ci sono gli stupri, la deportazione di centinaia di migliaia di bambini, la sistematica distruzione delle centrali elettriche, dei depositi di cibo, delle infrastrutture che garantiscono gli approvvigionamenti e appunto tutto ciò non per caso, ma sistematicamente, per fare l’Holodomor n. 2 mentre qui qualche cialtrone parla del bambino nella grotta che chiede la pace.

Ma si vuole un altro esempio caldo? Eccolo: è ben possibile che tra i ragazzi e le ragazze con la testa maciullata dalla polizia morale in Iran ci sia anche qualche mascalzone, ma questo che cosa significa? Che cosa c’entra? E avviciniamoci al caso di cui stiamo discutendo, a Soumahoro. È molto probabile che tra i neri incatenati nelle piantagioni schiaviste ci fossero anche dei brutti ceffi, anche dei bei delinquentoni: ma questo che cosa c’entra? Questo forse giustificava la schiavitù?

E quindi Soumahoro: che lui o la sua famiglia abbiano fatto qualcosa di sbagliato o perfino illecito a me non interessa più nulla se vedo che si ingrossa quest’aggressione. Un’aggressione che non c’entra nulla con la ricerca della verità ma soprattutto – non voglio dire soltanto, ma soprattutto – c’entra con il colore della pelle di chi la subisce.

L’obiezione del cretino è pronta: ma tu paragoni il caso di questo magliaro che fa carriera sulla pelle dei migranti mentre la moglie e la suocera li affamano? Paragoni il caso di questo impostore alle sofferenze del popolo ucraino o alla repressione dei giovani iraniani? Non si possono sentire certi paragoni!

Meditare: a rispondere in questo modo è innanzitutto chi durante ormai quasi un anno di guerra all’Ucraina ha parlato di guerra "in" Ucraina; è in primo luogo chi raccomanda di guardare anche alla parte che rifiuta e vanifica la pace perché si difende; è grosso modo chi reclama il dovere di fare accertamenti, se a Bucha non c’erano i bossoli; è pressoché sempre chi riafferma la missione informativa due punto zeta che obbliga a tener conto della versione russa, perché la propaganda notoriamente c’è dappertutto.

E sono gli stessi che rivendicano il diritto di tracciare i soldi usati per comprare le mutande della trisnonna di Soumahoro perché i diritti dei migranti sono importanti, i diritti dei migranti ben protetti in Italia finché «questo negro di merda» non si è messo a farne carne di porco.

Perché è stato candidato Soumahoro, ieri eroe oggi mostro. Davide Faraone su Il Riformista il 29 Novembre 2022

Ci sono storie che hanno il potere di mettere a nudo ipocrisia e retorica anche al di là delle vicende personali dei loro singoli protagonisti. La storia di Aboubakar Soumahoro è una di queste. Soumahoro ieri era un eroe, oggi è il “mostro”. Il tritacarne mediatico, inesorabile e spietato, come sempre stritola uomini, esistenze e storie senza curarsi di approfondire, scavare o banalmente di aspettare il giudizio della magistratura. È la clava barbara del giustizialismo che non risparmia nessuno, nemmeno coloro i quali questa clava la conosco benissimo perché, in genere, la brandiscono con ferocia contro i propri avversari.

Ovviamente non sto parlando di Soumahoro, al quale rivolgo la mia solidarietà umana per la gogna preventiva che sta ricevendo e l’auspicio che tutto possa risolversi nel migliore dei modi. Mi riferisco invece a quella sinistra radicale, farisaica e cinica, che prima consacra simboli eterei e poi, alla prima difficoltà, li brucia alla velocità della luce. Un atteggiamento meschino che rivela la cifra umana, prima ancora che politica, di chi lo adotta. Un cortocircuito morale e culturale che procura ferite profonde alla credibilità delle persone ma soprattutto alle battaglie che questi “eroi usa e getta” portavano avanti.

Qualunque sarà l’epilogo di questa vicenda, infatti, la certezza è che da domani i braccianti invisibili saranno ancora più invisibili. La loro causa è infangata, la fiducia compromessa. Eccoli i risultati ottenuti dalla sinistra radicale: un caposaldo costituzionale come il garantismo nuovamente profanato e un danno epocale inferto a quelle donne e a quegli uomini che a parole dicevano di voler difendere. Davide Faraone

Basta massacrare Soumahoro, l’ong Mediterranea si schiera col deputato: “Contro i processi sommari”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2022

Abbiamo seguito come tutti la vicenda che ha coinvolto Aboubakar Soumahoro, e con grande dispiacere, innanzitutto per ciò che implica umanamente per un amico, una persona che abbiamo conosciuto in situazioni di lotta e che ci ha sempre sostenuto. Le implicazioni politiche, culturali e sociali di questa storia rischiano di ricadere, come sempre, sulla pelle di chi soffre ingiustizie, soprusi, nei ghetti come nei “centri di accoglienza” troppo spesso dimenticati, come se non ci dovessero essere lì dentro vite di persone in carne ed ossa, esseri umani e non numeri.

Perché in molti vogliono che niente cambi per le vere vittime. Primi tra essi i grandi giustizieri: sono pronti ora a chiudere i ghetti dei braccianti dando casa e contratti dignitosi a chi anche ora vive nel fango? I grandi moralizzatori sono pronti ora a fare ispezioni a tappeto in tutti i centri di detenzione o in quelli di accoglienza, per vedere dove è possibile vivere dignitosamente e dove no? Abou è stato travolto da una gogna mediatica, e abbiamo riconosciuto le fragilità di ogni persona normale che viene massacrata sotto i colpi della lapidazione e anche sotto il peso dei propri errori. Ma noi non ci stiamo ad abbandonare nessuno. Questa storia ci fa riflettere sulla necessità, culturale e politica, di emanciparci dai paradigmi del “superuomo” (e dello show che si nutre di lui) ma anche da quelli dei “tribunali del popolo”.

Crediamo nell’imparare insieme dai propri errori, perché qui siamo tutti coinvolti anche se ci crediamo assolti. Combatteremo sempre i processi sommari che costruiscono e sbattono i mostri in prima pagina. Combatteremo sempre chi pensa che una opinione diversa giustifichi la messa in moto di campagne denigratorie, diffamatorie, di umiliazione pubblica contro il “nemico” e le sue fragilità. Non vedere che alimentare o giustificare il massacro politico e umano di Abou, con silenzi o peggio con accuse infamanti che vanno ben oltre la realtà dei fatti, equivale a seppellire anni di lotte collettive, idee, sogni di costruire un mondo diverso, è pura follia. I processi li fanno i tribunali, i percorsi politici li decide la storia collettiva di una società.

Ora per noi è il tempo di combattere contro gli sciacalli e gli avvoltoi, di ogni risma, che non aspettavano altro che vedere un cadavere da poter sbranare. Abou continuerà il suo cammino, e sarà diverso da prima. Speriamo che, per primo lui, farà di tutto per far luce su ciò che per chi lotta per la dignità e la giustizia, non può rimanere in ombra. Basta con le pubbliche umiliazioni del capro espiatorio, le trame, i complotti e il giustizialismo. Con la logica della lotta politica come guerra per bande. Con la schadenfreude per la lapidazione.

Noi non lasciamo affogare nessuno di quelli sbalzati in acqua dalla furia delle onde o dalla propria imperizia nell’affrontare il mare.

La lotta continua, e se diventiamo più umani e consapevoli, sarà tutto di guadagnato non per noi, ma per quelli che stanno peggio. È a loro che dobbiamo rispondere di ciò che facciamo, e alla nostra coscienza. È per i diritti di tutt* che siamo in mare ed in navigazione e questa è la nostra unica bussola.

Il Consiglio Direttivo di MEDITERRANEA Saving Humans

Soumahoro, il colpevole perfetto: lapidato a destra, scaricato a sinistra. Il deputato di Verdi-Sinistra italiana non è indagato ma su di lui si è scatenata una tempesta di fango. Costa: «Il processo è già stato fatto». Simona Musco su Il Dubbio il 23 novembre 2022

«Quando si dice voler eliminare l’avversario per via giudiziaria… questo mi sembra uno dei casi di scuola». Il deputato di Azione Enrico Costa non è un garantista a intermittenza. Per questo, pur essendo «lontanissimo» dall’idea politica di Aboubakar Soumahoro, non può digerire la gogna mediatica che ha colpito il deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra.

Il colpevole perfetto, l’uomo arrivato dal nulla, con l’idea di cambiare il mondo, capace di fare ingresso in Parlamento con gli stivali sporchi di fango. Un gesto simbolico che ha illuminato gli occhi di tanti e fatto storcere altrettanti musi. Un eroe o un farabutto, non c’è via di mezzo per Soumahoro, la cui pelle nera è diventata strumento per più fini: da un lato la carta da giocare a sinistra per dimostrare di credere in certi ideali e di essersi schierati tra i buoni, a destra per dimostrare che “quelli lì” buoni lo sono solo a imbrogliare.

L’inchiesta della procura di Latina

La vicenda è ormai nota: la procura di Latina ha aperto un fascicolo sulle cooperative Karibu e Consorzio Aid, nella cui gestione sono coinvolte Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e Liliane Murekatete, sua moglie, con lo scopo di approfondire aspetti contabili e verificare presunti maltrattamenti rivelati da alcuni ospiti delle due cooperative. Il deputato, però, non ricopre alcun ruolo in quelle coop e l’inchiesta non lo sfiora nemmeno. Ma sui giornali si è scatenata la caccia al “mostro”, un’occasione d’oro, per alcune testate, per declassare Soumahoro dal ruolo di difensore dei braccianti a quello di sfruttatore senza scrupoli.

La reazione di Soumahoro: «Mi vogliono distruggere»

La reazione del sindacalista diventato parlamentare non si è fatta attendere: in un video pubblicato sui suoi canali social, in lacrime, ha accusato chiunque stia speculando sulla vicenda di volerlo «distruggere», minacciando di querelare chi «sta usando i miei affetti per colpirmi». Perché attorno alla vicenda giudiziaria ancora tutta da scrivere i giornali si sono riempiti di racconti sul “falso mito” di Soumahoro, uno che, stando alla stampa di destra, sulle sfortune dei braccianti avrebbe costruito la propria carriera politica, altro che paladino della giustizia.

Non bastassero questi racconti, a fare notizia è stata anche l’attività social della moglie. Colpevole di indossare vestiti e accessori costosi, di fare foto in posa in alberghi di lusso, di essere stata ribattezzata “Lady Gucci”. «Foto da vamp» che «non aiutano», ha scritto sul CorSera Goffredo Buccini, come se per essere credibili l’unico abito adatto sia quello da suora. Altrove si chiedeva conto a Liliane di come avesse acquistato quella roba. Domande che forse nemmeno la procura di Latina si è fatta, ma nel circo mediatico ogni lembo di pelle esposto è buono da cannibalizzare.

L’inchiesta risale al 2019 e negli ambienti giornalistici non era certo una novità. Ma la bomba è esplosa soltanto poche settimane dopo le elezioni, quando Soumahoro ha iniziato ad occupare un banco che autorizzerebbe chiunque, a quanto pare, a chiedergli conto di cose che probabilmente non conosce. Che forse nemmeno esistono, se esiste ancora la presunzione di innocenza. Ma invece lui dovrebbe sapere tutto. E così il suo silenzio risulta sospetto e non basta che dica di non saperne nulla, cosa magari del tutto vera. Il motto “non poteva non sapere”, che si cuce addosso a chiunque svolga un ruolo pubblico, torna di moda, con l’autorità di un articolo del codice penale. Dimenticando che la responsabilità penale, se c’è, è personale. 

«Rappresento l’onorevole Soumahoro esclusivamente per delle azioni legali che stiamo valutando di porre in essere per le avvenute diffamazioni nei suoi confronti – ha spiegato al Dubbio l’avvocato Maddalena Del Re -. Ribadisco che non è destinatario di alcun tipo di indagine, ma si è trovato costretto ad avere una difesa legale per gli attacchi ricevuti dai media. Quello che gli si chiede è di entrare nei dettagli di una indagine di cui non si conoscono i contorni: la procura di Latina ha rilasciato una dichiarazione stringatissima nella quale si dice espressamente che sta valutando eventuali profili penali di determinate condotte nel massimo di riserbo. Si è creato un cortocircuito mediatico per il quale a un personaggio politico e pubblico che è del tutto estraneo a una vicenda giudiziaria si chiede conto di qualcosa che non conosce, come se fosse una colpa non avere dettagli precisi di date o circostanze. Qualunque condotta assuma, per una malintesa interpretazione della comunicazione, in qualche modo rischia di risultare responsabile».

L’occasione era infatti troppo ghiotta per non lanciarsi sul deputato e dedicargli titoloni da far accapponare la pelle. Ne citiamo uno solo: «Gli schiavisti in casa sua», copyright di Libero. Perché se il poveretto finito nel mirino – anzi, nemmeno: nei paraggi – di un’inchiesta giudiziaria non è del proprio partito di riferimento, il garantismo – “che è nel nostro dna”, si sente dire di solito – può pure andare a farsi benedire.

Soumahoro, lapidato a destra e scaricato a sinistra. Bonelli: «Ho commesso una leggerezza»

Così a destra sono subito partite le macchine delle interrogazioni e l’indignazione senza via di scampo, ma anche nel partito di Soumahoro non si è perso tempo: «Ho commesso una leggerezza», avrebbe confidato ad amici il leader dei Verdi Angelo Bonelli, dando ragione a chi ha malignato che la scelta di candidare Soumahoro non fosse legata alla sua storia, ma al fatto che fosse una figurina buona da giocarsi alle elezioni. Costa, dal canto suo, non lesina critiche a politica, stampa e inquirenti. «C’è stato un attacco molto feroce a Soumahoro dal punto di vista “giudiziario”, anche se non interessato direttamente, e dalle notizie frammentarie pubblicate si capisce chiaramente che qualcosa è trapelato dagli uffici giudiziari o dagli organi inquirenti. Ed è una cosa non particolarmente edificante. Siamo in fase di indagini – ha commentato al Dubbio -, ma queste persone sono già praticamente passate come responsabili, anche e soprattutto sulla stampa. Il fatto che si tratti di un avversario politico non fa venir meno certi principi, anzi valgono il doppio. E ho letto molti commenti definitivi da parte di persone normalmente “garantiste”, solo perché ad essere coinvolto è uno che siede dall’altra parte. Il processo è già stato fatto e la sentenza è già stata emessa».

Parlare a nuora, perché suocera intenda. Il caso Soumahoro è un miscuglio tossico di razzismo, classismo e giustizialismo. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 23 Novembre 2022.

Sul deputato di Sinistra italiana si sono scagliati due tipi di giustizialismo: quello accattone della destra, che fruga nei cassonetti di qualunque inchiesta per infangare un sedicente “buono” e quello mistico della sinistra, che transustanzia la persona dell’accusato

Se non ci fosse niente da ridere e molto da piangere, verrebbe da dire ad Aboubakar Soumahoro: «Benvenuto in Italia». Non c’è infatti nulla di più tipicamente nazionale – di più «italo-italiano», avrebbe detto Marco Pannella – del vizioso virtuismo da apericena della sinistra e del garantismo a geometrie razzialmente variabili della destra che, appena partita l’indagine su presunte malversazioni nella cooperativa sociale Karibu e nel consorzio Aid, hanno appiccato l’incendio in cui il parlamentare nero si è già bello che bruciato, al di là degli esiti di una vicenda giudiziaria, che peraltro non coinvolge neppure lui, ma la compagna e la di lei madre.

È da giorni in corso una sfilata di “io sono garantista, ma…” che ha unito praticamente tutti, da Angelo Bonelli a Maurizio Gasparri, nell’unità nazionale della cattiva coscienza, a dare lezioni di accoglienza, di correttezza sindacale, di giuslavorismo cooperativistico al genero nero dell’indagata nera, cinica sfruttatrice di diseredati.

A rendere tutto ancora più grottesco è che le lezioni riguardano un tema su cui nessuno degli onorevoli inquisitori dell’onorevole indagato per interposta suocera ha le carte in regola, avendo tutti loro imposto o accettato che la gestione dell’accoglienza, dai rimpatriabili nei Cie, ai richiedenti asilo nei Cara, avesse caratteristiche sostanzialmente detentive (e dunque inevitabilmente criminogene) e bilanci risicati (e quindi condizioni di vitto e alloggio miserabili), per non irritare la brava gente scandalizzata che lo Stato per i disperati ripescati in mare spendesse ben 35 euro al giorno cadauno.

Nella vicenda di Soumahoro, cioè non nell’indagine sui suoi congiunti, per cui neppure sappiamo se ci sarà mai un processo, ma nel processo già celebrato e concluso contro di lui, si sono sommate nell’azione e moltiplicate negli effetti il giustizialismo accattone della destra, che fruga nei cassonetti di qualunque inchiesta per pescare le carte buone a infangare un sedicente “buono” e il giustizialismo mistico della sinistra, che transustanzia la persona dell’accusato, anche se “compagno”, nel fantasma della sua colpa presunta, ipotizzata o, come in questo caso, addirittura trasferita per via familiare, perché ovviamente Soumahoro non poteva non sapere.

Poi a fare il vuoto attorno a Soumahoro ancora più perfetto e più rotondo e il discredito più condiviso e unanime, c’è il particolare che quello, che uno dei tanti articoli-esecuzione di questi giorni definisce il «talentuoso ivoriano», è un nero, anzi diciamola tutta, un “negro”. Poi non è neppure un nero che fa il povero nero e a cui si possa dare paternalisticamente del tu – come è scappato anche a Meloni – ma è uno consapevole e orgoglioso di sé, che venendo da una storia abbastanza emblematica, ampiamente sfruttata dai suoi ex amici e sempre screditata dai suoi nemici, si è messo a fare il sindacalista dei braccianti schiavi dei caporali: mestiere più complicato del negoziato sui buoni pasto in un ufficio parastatale.

Ora, dicono i suoi ex amici e i suoi nemici, si è montato la testa, ha altre ambizioni e quindi questa inchiesta è arrivata proprio a fagiuolo. Il suo gruppo parlamentare ha vergato un comunicato oscenamente curiale invitandolo a un incontro per «avere da lui elementi di valutazione su questa vicenda che contribuiscano a fare chiarezza»: cioè, non deve essere la procura a dimostrare che le sue congiunte sono colpevoli di qualcosa, bisogna che lui in un processo preventivo e parallelo dimostri ai sopracciò politico-parlamentari (che fino a due mesi fa si aggrappavano ai suoi stivali infangati e alla sua storia per scavallare il 3% alle elezioni) la personale estraneità a una vicenda che potrebbe pure essere fatta di nulla.

Rimango in attesa che Bonelli, Nicola Fratoianni e compagnia rivolgano analogo sollecito all’amato Giuseppe Conte, a proposito dei vecchi impicci del suocero, beneficiato da un provvido emendamento del genero. E sapendo che questa attesa sarà vana, rimango persuaso che il caso Soumahoro sia solo una storiaccia di classismo, razzismo e giustizialismo assortiti e combinati in modo tossico.

Il razzismo di chi si finge non razzista. Soumahoro vittima del razzismo della sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo: persino Salvini difese Morisi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Novembre 2022

Seguirò l’azzardoso esempio di Iuri Maria Prado e parlando dell’on. Soumahoro e anziché dire “nero” dirò anch’io negro, perché il razzismo, come la mafiosità, conta su due sistemi comunicativi. Il “black” importato dall’America come “nero” che in Italia sostituisce “negro”, ma in America l’appellativo schiavistico “nigger” o “negro” (pronunciato nigro) certifica un fatto storico: l’abolizione della schiavitù e quella sempre parziale dell’apartheid, e cioè di far credere che il razzismo sia stato vinto, assecondando l’ipocrisia politica. E dunque smettiamo di dire nero e assumiamo il negro, come del resto hanno imposto i black americans, che hanno riservato a sé stessi il diritto esclusivo di usare l’aggettivo “negro” per parlare da negro a negro, senza l’intromissione del bianco.

Un nero americano si rivolge a un nero americano dicendogli “Hi, my nigger,” e my nigger è il nome di una fratellanza nella razza. Chi ricorda l’autobiografia di Malcolm X ricorda le temerarie parole con cui il leader mise a nudo l’infezione razzista all’interno delle comunità nere dove immancabilmente i neri più chiari perseguitano quelli più scuri. Sì, ciò che sta accadendo in questi giorni all’onorevole Soumahoro è razzismo. Una prova? Io stesso. Chiamato in televisione a commentare la vicenda di quest’uomo sul cui conto indagano i carabinieri anche se in mancanza di una sola ipotesi di reato – intanto mettiamo tutto sotto inchiesta, setacciamo ogni frammento della sua vita, famiglia, affari, pensieri, azioni e poi vediamo – io stesso ho emesso parole che biasimavano o almeno sconsigliavano il deputato Soumahoro dal piagnucolare, querelare, farsi venire attacchi di nervi esagerati perché con paternalistica superiorità. intendevo dirgli: eddài, non fare il negro piagnone, con moglie e suocera che non pagano i dipendenti e non danno abbastanza cibo ai ragazzi. Fai invece il negro buono, che rallegra gli antirazzisti da salotto di casa nostra, della nostra ipocrita sinistra, sempre pronta a sporcarsi poco le mani e ancor meno la coscienza, avendo sempre la mascherina sul naso e l’amuchina giusto in caso il cosiddetto nero non fosse proprio un campione d’igiene, di questi tempi non si sa mai, mica per razzismo, per carità.

E invece, fratelli bianchi, guardiamoci e guardatevi in faccia – e mi ci metto anch’io – siamo affetti da doppio razzismo, che è la versione del razzismo di sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo, perché abbiamo paura sia dell’essere umano verniciato di melanina che vuoi o non vuoi è sempre un soggetto particolare anche se in nome della nostra ipocrisia lo esaltiamo mentre invece quello, o quella, chiede di essere trattato normalmente, sia dal nostro razzismo di dentro, quello che madre natura mette dentro a tutti come diffidenza del diverso, sia per motivi animali che non risparmiano nemmeno noi, figli delle belve della savana e non degli angeli. Nel Lessico Famigliare Natalia Ginzburg, ebrea piemontese, ricordava l’innocenza ingannevole di suo padre che quando voleva dire qualcosa di sbagliato, ridicolo e incettabile, diceva è una “negrigura”, parola peraltro italianissima che sta anche sul dizionario Treccani. Far finta di essere esenti dal peccato originale del razzismo (quello subdolo, sudicio, travestito, come quello degli antisemiti che prima o poi ti dicono che il loro miglior amico è ebreo) è far finta di essere razzialmente superiori. Dunque, è una confessione di razzismo. E allora, tanto per essere chiari e sfrenati, ricordiamo un coraggioso che in genere non ci viene in mente ed è Matteo Salvini, il quale di fronte ai guai del “bestia”, il suo fedele collaboratore Morisi accusato di traffico o di droga, si buttò a corpo morto per difendere un suo uomo portato sotto la gogna mediatica e linciato. Salvini ebbe fegato, anche se poi si esibiva nel numero dei citofoni chiamati dalla strada: “Pronto? È lei lo spacciatore? Mi dicono che lei spaccia”.

Lasciatemi spendere qualche parola da vecchio reazionario politicamente scorretto: ci hanno rotto per decenni le palle sulla retorica del diverso. Io sono stato diverso a causa dei miei capelli rossi quando mi terrorizzavano chiamandomi roscio malpelo. Figlio di un padre, rosso anche lui che, come ogni padre Dc, mi avvertiva e raccomandava di stare con la testa bassa, non reagire, portare un cappello che nascondesse l’anomalia. Oggi può far ridere ma negli anni Quaranta e Cinquanta i razzisti non avevano nessuno di meglio da linciare, che i rossi e coloro che avessero qualsiasi difetto fisico. È il principio odioso del capro espiatorio per cui sono sempre i diversi, non importa quanto, a finire giù dalla Rupe Tarpea o sulle fascine accese, legati a un palo, accusati di essere streghe, stregoni, figli rossi (di nuovo) del diavolo, ebrei marrani, eretici e devianti sessuali. Chiunque non sia del proprio gregge, del proprio sugo e delle proprie spezie, chiunque abbia un odore di ascelle che non è come il nostro. Bisogna viverci davvero in una società multirazziale, multiculturale, con più di venti varianti di possibili identità di genere, colore, accento, etnia…

E allora diciamolo chiaramente, che tutta la storia del deputato della Repubblica Soumahoro è la schiuma del razzismo incorporato e paternalistico, della rabbia per il fatto che questo sindacalista africano che difende quelli della sua stessa storia ci avrebbe delusi perché in definitiva anziché comportarsi come un candido cavaliere senza macchia e senza paura, si comporta come un uomo che ha paura, si indigna, avverte il peso della propria pelle nera, si ritrova gli investigatori in casa e finisce sulle prime pagine e sui telegiornali per una e una sola ragione: perché è negro. Diceva la vecchia canzone napoletana sui figli nati dalle relazioni sessuali fra ‘e signurine napulitane e i soldati americani: “Chillo, o fatto, è niro, niro. Niro, niro comm’a che!”. Tutti quei figli neri napoletani io li ricordo benissimo perché vivendo a Napoli erano affidati alle buone suore che li picchiavano senza pietà e poi sparivano. Chissà che fine hanno fatto. Noi non siamo mica razzisti. Ricordate la storiella del cumenda milanese che dice: “Razzista mi? L’è lù che l’è negher”. Con la differenza che oggi non abbiamo di fronte il cumenda milanese, ma l’intera sinistra italiana che bela, che biascica, che mormora, che distingue, che vorrebbe prendere almeno un pesce e non sa che pesce prendere.

E non può, perché non sa guardarsi allo specchio e dire: fosse che in fondo i razzisti siamo noi con tutta questa carità pelosa, questa carità ignobile di chi vorrebbe dare ai negretti tutte le mutande senza elastici, le calze spaiate, le camicie lise, e per loro vuoterebbero le cantine, si libererebbero della bici senza una ruota e di tutte le scatole di cibo scadute solo da un mese? Li ho visti in Calabria i negri che neanche in Alabama: ammassati nelle case sfondate i cui padroni viaggiavano in Ferrari e che nutrivano i negri con farina per maiali arricchita di vitamine e davano loro cessi di cartongesso. Erano tutte inchieste se non ricordo male del procuratore Gratteri. E ora c’è questo rompiscatole che si trova pure nei guai per una madre e una suocera e che piagnucola, minaccia querele, fa una debolissima voce grossa e nessuno della sinistra finta ha il fegato di dire: Soumahoro è un uomo ed è nostro, mentre noi invece siamo una massa di opportunisti razzisti. Non uno. Sono tutte anime candide, cioè bianche.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L'ennesimo "santino" della sinistra. Il caso Soumahoro è un monito per la destra e una lezione per la sinistra. Il monito per la prima è di non imitare la sinistra nel giustizialismo. Marco Gervasoni su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Il caso Soumahoro è un monito per la destra e una lezione per la sinistra. Il monito per la prima è di non imitare la sinistra nel giustizialismo. Al momento, il parlamentare non pare indagato, diversamente dalla suocera. E anche quand'anche lo fosse, ciò non vorrebbe dire nulla. Lascia poi perplessi vedere gruppi di maggioranza agitare l'interrogazione parlamentare, a seguito di una inchiesta della magistratura, contro un deputato dell'opposizione. Non è infine il massimo che la stampa si sia scatenata solo dopo l'intervento della magistratura: a rimorchio, benché talune voci su irregolarità nelle cooperative ora indagate già girassero da tempo. Insomma, essere ultragarantisti con i propri e forcaioli con gli altri, non è il non plus ultra del garantismo. E ancora più grave è essere manettari sempre, come sono usi a sinistra. I Verdi di Bonelli e Sinistra Italiana di Fratoianni, già infatti stanno approntando una specie di processo politico, e anche qui, non prima, ma solo dopo l'intervento della magistratura, nonostante un ex parlamentare di quell'area, Elena Fattori, si fosse dimostrata perplessa sulla candidatura del sindacalista. Possibile che ci si svegli solo quando si muovono i magistrati? Ma la lezione che il caso impartisce alla sinistra è un'altra. Smettetela di cercare i santini. Di andare a scovare figure che, per la loro immagine, rappresentano, su un piano mediatico, la correttezza politica, che incarnano il partito dei «buoni», e che appartengono alla cosiddetta «società civile», considerata chissà perché sempre pura e incontaminata. Finitela poi di farne dei fenomeni: non era grottesco che, fino al giorno prima della inchiesta, Souamahoro fosse presentato, dalla stampa di sinistra, come un possibile nuovo segretario del Pd, partito a cui peraltro neppure appartiene? Gli stessi giornali che, non appena si sono mosse le procure, lo stanno abbandonando. La teoria di «papi stranieri» buoni che si sono rivelati dei flop sarebbe lunga: basti ricordare Mimmo Lucano (che però è stato condannato), le sardine e Santori, la Boldrini, per non parlare della stagione dei Pm, inaugurata da Di Pietro e finita con Ingroia. Innamorarsi sempre delle persone sbagliate è un grave segno di fragilità: ancora più se, dopo un giorno che le si conoscono, si offrono loro le chiavi di casa. Alla sinistra serve un buon psicanalista collettivo, altrimenti a breve chissà quanti altri Soumahoro nasceranno.

Il caso Soumahoro e l’ipocrisia della sinistra che lo ha abbandonato. Messa di fronte alla scelta tra l’opportunismo e i principi dello Stato di diritto, ha scelto l’opportunismo del ‘"non sapevamo". Giuliano Cazzola su Il Dubbio il 2 Dicembre 2022

Aboubakar Soumahoro si è autosospeso dal gruppo di Sinistra&Verdi che lo aveva candidato nella coalizione dei democratici e progressisti e fatto eleggere (nel proporzionale) alla Camera dei deputati, dove si era presentato il giorno dell’insediamento calzando, sotto un abito di buon taglio, gli stivali di gomma, da lavoro, sporchi di fango. Probabilmente li aveva acquistati apposta per esibirli in quell’occasione, in evidente polemica con il ‘’potere’’ che non si cura dei ‘’dannati della terra’’ dei quali il neo deputato si considerava legittimo rappresentante e interprete dei loro bisogni.

Io non conoscevo neppure l’esistenza di questo ex sindacalista, ma da quel gesto all’ingresso di Montecitorio mi sentivo offeso, come in tante altre occasioni in cui sono stati esibiti cappi con tanto di nodo scorsoio, fette di mortadella, pesci e quant’altro è entrato a far parte della cronaca minore della politica. Poi, seguendo le polemiche sollevate dalle campagne di stampa e televisive riguardanti l’attività della sua famiglia, della suocera e della moglie, in assenza di qualsiasi indagine giudiziaria su Soumahoro, ho avvertito l’esigenza di prendere posizione pubblica contro l’ennesimo linciaggio mediatico a cui mi toccava di assistere. Così i principi hanno prevalso sull’antipatia.

Le colpe delle suocere – mi sono detto – non possono ricadere sui generi. La magistratura – speriamo – farà chiarezza, anche se si stanno concretizzando fatti e circostanze testimoni di un ambiente di lavoro e di vita in cui, per commissione od omissione, Aboubakar si trovava a proprio agio. Io ho un’inguaribile tendenza a sostenere le cause perse (anche perché, arrivato alla mia età, ho scoperto che sono le uniche per le quali vale la pena di combattere). Anche per questa propensione voglio dare al neo deputato autosospeso un consiglio non richiesto: quello di rimanere al posto dove l’hanno mandato i suoi concittadini.

Chi legge il suo curriculum si accorge che Soumahoro dispone dei mezzi culturali e politici, oltreché dell’esperienza, per fare bene il lavoro da deputato. Penso che per lui sia stato uno shock precipitare, da un momento all’altro, dal piedistallo degli eroi, del difensore dei giusti per trovarsi sbattuto in prima pagina alla stregua del ‘’feroce Saladino’’, con gli amici di prima che fingevano di non conoscerlo. Non gli fanno onore né la reazione piagnucolosa né i tentativi di depistaggio di coloro che si erano precipitati a saccheggiare la sua vita. Ma il suo caso può essere utile al Paese, perché è rivelatore dei guasti che la canea mediatico-giudiziaria ha determinato (nel suo come in tanti altri casi) nella convivenza civile del Paese.

Soprattutto Soumahoro è la denuncia vivente di una politica ormai priva di principi, che va alla ricerca dei ‘’simboli’’ per riconoscere in essi se stessa o i propri avversari. Soumahoro rappresentava il simbolo della lotta contro il caporalato, contro lo sfruttamento dei braccianti e in questo ruolo (l’immagine è sostanza nel Paese del ‘’percepito’’) dava un’efficace copertura alla sinistra che non vedeva l’ora di ‘’spendere’’ quel profilo nella lotta politica. In seguito – quando sono iniziate le notizie che rendevano sfuocato e dubbio l’alone eroico del personaggio – Soumahoro è diventato, questa volta per la destra, il simbolo dello ‘’nero periglio che vien da lo mare’’, la prova provata che gli immigrati (ancorché cittadini italiani) sono dei profittatori che arrivano da noi a cercare la pacchia e che, per sopravvivere (nel caso in esame piuttosto bene) non esitano a delinquere.

Purtroppo per il neo deputato della lista del Cocomero (ora in stand by) la sinistra si considera come la moglie di Cesare che deve essere al di sopra di ogni sospetto. La ‘’ditta’’ si guarda bene dal difendere quanti dei suoi incappano nella gogna mediatico-giudiziaria. C’è una lunga fila di militanti, finiti nel mirino di una giustizia assatanata, che sono stati lasciati per anni a difendersi da soli, messi da parte come appestati, anche quando le accuse sembravano assurde. Con Soumahoro la destra, con i suoi giornali, si è impegnata in una campagna di inchieste degna di quella della procura di Milano su Berlusconi e le sue cene galanti. La sinistra messa di fronte alla scelta tra l’opportunismo e i principi dello Stato di diritto, ha scelto l’opportunismo del ‘’non sapevamo’’. Come sempre. Bettino Craxi è stato l’unico che ‘’non poteva non sapere’’.

Il prodotto doc di questa sinistra. Non confondiamo la vicenda di Aboubakar Soumahoro, il neo parlamentare di sinistra autoproclamatosi difensore dei braccianti, con una questione giudiziaria. Nicola Porro il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non confondiamo la vicenda di Aboubakar Soumahoro, il neo parlamentare di sinistra autoproclamatosi difensore dei braccianti, con una questione giudiziaria. È chiaro che la magistratura indagherà sui fondi raccolti dalla sua organizzazione, sulla gestione delle cooperative a lui riconducibili, e forse anche sui mutui e i prodotti di lusso acquistati. Ma non facciamoci distrarre. Non cadiamo neanche nella tentazione di pensare che cosa sarebbe successo se i medesimi sospetti avessero riguardato un simbolo delle battaglie del centrodestra. Resistiamo a questa tentazione primordiale. Ben comprensibile, per carità.

Soumahoro è il prodotto della politica di sinistra. È l'alibi che gli eletti nelle zone a traffico limitato si sono costruiti al fine di sembrare popolari. Soumahoro è la copertina dell'Espresso che lo raffigurava accanto a Matteo Salvini, con il seguente titolo: «Uomini e no». Come a dire: il primo appartiene alla nostra specie animale, il secondo, e cioè Salvini e la destra, non ne fanno parte. State certi che nessun Ordine dei giornalisti censurerà questo insulto, nessun intellettuale si scandalizzerà.

Soumahoro è la vittima di una sinistra incapace di essere se stessa. Ha detto in un video parafrasando Malcolm X: «Non sarò il negro del cortile». Dai suoi compagni di strada politica è stato utilizzato in modo molto più spudorato: il negro del Parlamento. Quello che con i suoi stivali infangati doveva ricordare ogni giorno alla destra, anzi alle destre come va di moda dire oggi, la loro disumanità. Una parte della sinistra aveva addirittura pensato a lui come possibile leader.

Lo scandalo non sono i suoi affari da traffichino, non è il suo entourage minaccioso e la sua famiglia allegra. Lo scandalo è che un pezzo di sinistra ritenga che si possa governare questo Paese dando della «bastarda» alla Meloni, rinfacciandole l'articolo sempre e perennemente al femminile; una sinistra che ritiene la Murgia la propria intellettuale di cortile; la stessa sinistra che per un ventennio non ha neanche potuto concepire che gli italiani votassero Berlusconi.

Soumahoro è la nostra sinistra, e la nostra sinistra è Soumahoro. Sono alla ricerca di un simbolo che riempia quel vuoto di idee che li ha condannati per decenni a governare senza avere mai vinto le elezioni. Nel favoloso paradosso per cui tutto vale: il bracciante con gli stivali infangati, l'intellettuale con schwa, il banchiere della Bce e le Carola Rackete che riempiono i campi dove i Soumahoro prosperano fino ad arrivare in Parlamento.

Il tribunale della sinistra ha condannato Soumahoro. Il deputato si autosospende su ordine di Bonelli e Fratoianni. Il leader verde ammette: "Turbato". Francesco Boezi il 25 Novembre 2022 su Il Giornale. 

Come molte delle vicende che interessano la sinistra italiana, il caso Soumahoro si trasforma in un appuntamento semi- processuale. Lui, l'imputato dall'alleanza che lo ha eletto in Parlamento, non è neppure indagato per il caso delle coop. Lo stesso che coinvolge la moglie (che però non è più nel cda) e la suocera (indagata) e che rimane pesante sotto il profilo politico. Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, ed Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde, non possono permettersi passi falsi. L'ambientalista viene descritto come «di pessimo umore» e «inavvicinabile» per via quanto emerso, mentre il post-comunista in questi anni si è speso, e parecchio, sul tema immigrazione. E ora può sorgere un problema di coerenza. Circola un po' di rabbia. Ambienti vicini ad entrambi raccontano: «Si sta cercando un punto di equilibrio tra la colpevolizzazione e l'assoluzione a prescindere». La riunione, che è durata due giorni e che a qualcuno è apparsa come una riproposizione del Tribunale del popolo, dà un esito attorno al primo pomeriggio di ieri: Aboubakar Soumahoro si autosospende dal gruppo parlamentare. All'esterno si dice che la scelta sia dipesa dall'interessato. Dall'interno ci rivelano come la mossa sia stata imposta: «Ne va della tenuta dell'alleanza tra Europa Verde e Sinistra italiana», assicurano. Si racconta pure che anche la Cgil abbia caldeggiato il passo di lato dell'ex sindacalista di base. La versione pubblica non può che percorrere il canone di circostanze come questa: «L'autosospensione, lo dice la parola, è una scelta autonoma, è una scelta di tutela: della sua libertà, di organizzare la risposta alle questioni che gli sono state contestate in questi giorni», dice a stretto giro Fratoianni. Sarà. Bonelli è meno morbido: «Questa vicenda mi ha profondamente turbato, vedere che c'è un'inchiesta, di cui ringrazio l'autorità giudiziaria, da cui emergono maltrattamenti ferisce e indebolisce chi ogni giorno si impegna per garantire quei diritti» , dichiara a Otto e Mezzo, su La7, rimarcando come Soumahoro non sia indagato. Arrivano le parole della capogruppo Laura Zanella: «Rispettiamo la scelta di Aboubakar e gli siamo vicini, il gruppo è solidale con lui nella convinzione e nella speranza che tutto si risolva nel migliore dei modi». Esiste una consapevolezza: qualora dall'inchiesta dovesse emergere qualcosa di serio, specie con un coinvolgimento diretto del parlamentare, la semplice autosospensione potrebbe essere attaccata. Del resto a sinistra è pieno di mondi che hanno fatto del giustizialismo l'unico metro.

Anche dalle parti della maggioranza analizzano gli avvenimenti. Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia che ha presentato un'altra interrogazione sul caso delle coop, invita Soumahoro a piangere meno e a dire delle verità: «Da garantisti non vogliamo essere drastici nei confronti di una persona su cui tra l'altro non ci sono nemmeno accuse giudiziarie. Ma il contesto in cui lui ha agito - aggiunge Gasparri - ha fatto emergere molte contraddizioni tra i principi esposti e i fatti che vanno emergendo». Poi l'azzurro si rivolge pure ai vertici dell'alleanza Verdi-Sinistra: «Vedremo come evolverà questa vicenda. Però si dimostra ancora una volta come la sinistra su certi temi alimenti falsi miti e sia più incline all'arroganza che alle verifiche. Bonelli e Fratoianni faranno bene ad essere più accorti».

Dopo la due-giorni di faccia a faccia, viene fuori che Soumahoro è «determinato» e «sereno». E che ha intenzione di «rispondere punto su punto». L'autosospensione è la soluzione individuata per il momento. Continuano a descriverci Bonelli e Fratoianni come «non tranquilli» rispetto all'ipotesi che la vicenda possa allargarsi. Il politburo intanto ha deciso il da farsi col deputato Soumahoro.

Verdi e Fratoianni prendono tempo. E Soumahoro si fa "processare" da La7. Il sindacalista non vuole dimettersi e sceglie un talk show di sinistra per difendersi. L'imbarazzo dei suoi sponsor politici. Bonelli: "Valuteremo cosa fare". Ma un suo deputato attacca: "Va cacciato". Pasquale Napolitano su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Il «paladino» degli ultimi, Aboubakar Soumahoro, dopo gli scandali che stanno travolgendo le cooperative di famiglia, ha deciso: si farà processare. Ma ha voluto scegliersi il giudice: Corrado Formigli. E anche il Tribunale: la trasmissione «Piazza Pulita» che andrà in onda questa sera.

Dopo il video strappalacrime e la fuga dai riflettori, il parlamentare dell'alleanza Verdi-Sinistra Italia vuole riapparire in pubblico per sottoporsi all'interrogatorio di Formigli.

Il giornalista incalzerà il sindacalista emblema della nuova sinistra, tutta chiacchiere e distintivo. Dimissioni dal Parlamento? Per ora non se ne parla manco lontanamente.

Si resta ben saldi sulla poltrona. I suoi leader di riferimento, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che per presentare la candidatura di Soumahoro, il pezzo pregiato della campagna elettorale di fine agosto, bloccarono addirittura la sala stampa della Camera dei Deputati, fanno melina. Soumahoro fu presentato come il classico colpo di calciomercato. Che poi dopo le prime partite si è rivelato un brocco. In questo caso una gatta da pelare che provoca imbarazzo (tanto) nella sinistra. Claudio Velardi, che di talenti politici se n'è intende, lo voleva addirittura alla guida del Pd. Lacrime e resistenza sono le due parole d'ordine. Ma il caso politico c'è. Eccome. I due padri di Soumahoro dribblano. Cercano di prendere tempo. Cacciarlo dal partito? Il leader dei Verdi Angelo Bonelli non è convinto: «Siamo grati all'autorità giudiziaria per il lavoro l'importante che sta facendo evidenziare forme di sfruttamento nei confronti dei migranti è un fatto estremamente importante e ci rasserena che lo Stato è in grado di intervenire. Noi però facciamo politica, quindi abbiamo chiesto un incontro con Soumahoro che avverrà presto in cui chiederemo il suo punto di vista, e insieme a lui valuteremo le decisioni politiche da prendere». Bisogna trovare una via d'uscita. «Va cacciato», riferisce al Giornale un deputato dei Verdi.

Anche perché emergono sempre nuovi elementi. La Caritas denuncia un altro episodio: la raccolta di 16 mila euro da parte di persone vicine al parlamentare per giocattoli destinati a un ghetto di migranti con pochi bambini. Migliaia di euro raccolti, precisamente 16 mila, per donare giocattoli in un ghetto di migranti in cui però i minori sono pochissimi. Altre accuse. Altri chiarimenti da fornire. È un vortice. Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italia, è più duro: «Come abbiamo detto lo incontreremo in queste ore, in questi giorni per un confronto. Io penso che si debba sempre tenere distinta, in molto netto, la vicenda giudiziaria, che peraltro da quel che leggiamo pare che neanche lo coinvolga direttamente e comunque sul terreno giudiziario lavora la magistratura, lavora chi fa le indagini, non interviene per quel che mi riguarda, almeno direttamente, il dibattito politico. C'è poi la dimensione della politica che riguarda le questioni del diritto del lavoro e su questo io credo sia giusto avere un confronto diretto. Quando lo avremo avuto nelle prossime ore ognuno farà delle valutazioni». Si continua a prendere tempo. Ma dalla maggioranza il centrodestra attacca.

Soumahoro in lacrime: «Mi volete morto ma non ucciderete mie idee». La parola alla Caritas pugliese: «Troppe tensioni». Dubbi su una raccolta fondi pro-minori dello scorso Natale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Novembre 2022.

 Impazza sui social il video che ritrae in lacrime, Aboubakar Soumahoro che si difende dalle accuse piovute sulla sua famiglia, dopo l'inchiesta aperta dalla procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nelle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera. 

"Mi dite cosa vi ho fatto? E' da una vita che sto lottando per i diritti delle persone, da una vita... Vent'anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto", dice l'onorevole. "Voi mi volete distruggere ma avete paura delle mie idee", attacca il sindacalista e deputato dell'Alleanza Verdi Sinistra in un video postato sulla sua pagina Facebook.

Una raccolta fondi da 16 mila euro per donare a Natale giocattoli in un 'ghetto' di migranti del Foggiano dove vivono pochissimi minori, ma anche tensioni nei confronti di chi voleva portare aiuti da parte di persone che facevano riferimento al mondo di Aboubakar Soumahoro, il parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra le cui parenti sono ora sotto la lente della Procura di Latina per la loro gestione di due cooperative pro-migranti. E’ quanto emergerebbe dall’intervista, pubblicata su Repubblica, a don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo.

L’iniziativa natalizia è dello scorso anno. Soumahoro, che proprio in quella zona ha condotto alcune delle sue battaglie in favore dei braccianti, si fece riprendere mentre portava regali ai bambini vestito da Babbo Natale. Dice don Pupilla: «Nel ghetto di Torretta non ci sono bambini, mentre a Borgo Mezzanone, l’insediamento oggetto del video, i bambini sono molto pochi. C'erano dunque ben pochi giocattoli da distribuire, non essendoci bambini a cui poterli donare». Secondo il sacerdote, inoltre, ci sarebbero stati «problemi, e li abbiamo avuti anche noi, con alcune persone che facevano riferimento prima a Usb e poi a Lega Braccianti. Ci hanno impedito di fare corsi di italiano, scuola. Noi ci rechiamo a Torretta Antonacci ogni settimana per ascoltare e aiutare persone. In alcuni periodi sale la tensione, perché ci sono sempre personaggi che vengono da fuori a fomentare gli animi. E magari ci costruiscono una carriera politica sopra. Davanti a fenomeni complessi non c'è bisogno di navigatori solitari ma di risposte corali. Non serve un sindacalista che viene da fuori, urla, fa i selfie e magari costruisce una carriera politica, soprattutto quando c'è anche un pò di incoerenza. Non puoi dire a tutti che il business della solidarietà non va bene - conclude il religioso - e poi ce l’hai a casa tua».

Gli stivali sporchi e la doppia morale di Soumahoro. Ed ecco il corto circuito: lui si dichiara paladino dei deboli, ma ora che il (presunto) sfruttamento è stato ricondotto alla responsabilità (presunta) di sua suocera, Soumahoro riduce tutta la vicenda a livello di complotto e la butta in bagarre. Massimiliano Scagliarini La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Novembre 2022.

Una beffarda coincidenza fa sì che proprio mentre il Consiglio regionale della Puglia discute delle emergenze del Foggiano, uno dei protagonisti delle lotte per i braccianti della Capitanata sia finito nel mirino delle polemiche per via di ciò che sarebbe accaduto nelle cooperative gestite dalla madre della compagna. È diventato virale sui social il video in cui Aboukabar Soumahoro prima piagnucola («Che cosa vi ho fatto?») e poi attacca citando nientemeno che Martin Luther King. Ora, con il massimo rispetto per Soumahoro, parlamentare della Repubblica candidato in Puglia ed eletto a Modena, il micidiale cortocircuito politico-mediatico in cui è finito dovrebbe insegnare qualcosa pure a lui.

È infatti lecito porsi almeno una domanda. Da settimane i mezzi di informazione riferiscono delle (presunte) irregolarità che si sarebbero verificate in una cooperativa di migranti a Latina, tra stipendi non pagati, maltrattamenti, fatture false e gente tenuta in nero. Sembrerebbero irregolarità gravi, confermate da più fonti coincidenti e contenute in un esposto della Uil che ha indotto la locale Procura ad aprire un’inchiesta, al momento senza indagati. Viene da chiedersi cosa avrebbe detto il sindacalista Soumahoro contro un «padrone» che dimentica di pagare gli stipendi, tiene i lavoratori al freddo e utilizza modi che appaiono, francamente, ingiustificabili. Nel video che ha invaso i social, l’esponente di Sinistra Italiana ricorda che la sua vita «è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento». Ed ecco il corto circuito: lui si dichiara paladino dei deboli, ma ora che il (presunto) sfruttamento è stato ricondotto alla responsabilità (presunta) di sua suocera, Soumahoro riduce tutta la vicenda a livello di complotto e la butta in bagarre.

Non funziona e non può funzionare così. Lo stesso Soumahoro, nel suo recente passato da militante Usb (Unione sindacale di base), ha lottato senza quartiere contro i caporali, ha urlato contro la vergogna dei ghetti che «accolgono» (per modo di dire) migranti di ogni colore, ha insomma più volte segnalato casi come quello che potrebbe riguardare la cooperativa Karibu gestita dalla suocera e in cui lavorava, al tempo, anche la compagna che della coop era consigliere.

Nonostante abbia mantenuto gli stivali sporchi di terra, il nostro ha varcato le porte del Parlamento con i suoi privilegi (dovuti). Ma tra gli inevitabili oneri che il suo nuovo ruolo comporta, c’è anche lo scrutinio dell’opinione pubblica che a volte può arrivare fin dentro il tinello di casa.

Il Paese ha discusso per mesi della cuccia del cane della Cirinnà, del curriculum dell’avvocato Giuseppe Conte, del titolo di studio della ministra Valeria Fedeli e più di recente dell’addetto stampa in nero della sottosegretaria Bellanova. Polemiche feroci innescate senza che questi fatti fossero reato ma, al più, costituissero peccato, a volte quello più grave per chi si affaccia alla vita pubblica. Ovvero l’incoerenza che spesso sconfina nella doppia morale.

Il confine tra pubblico e privato è tanto più labile quanto più si vive sotto i riflettori, e la critica è meccanismo democratico soprattutto quando fa emergere quelle che appaiono come insanabili contraddizioni. Nessuno pensa di seppellire lui o le sue idee, come pure Soumahoro ha detto in preda a un vittimismo cosmico. Un’esibizione che non serve, è controproducente ed è a tratti grottesca. Né tanto meno è necessario scomodare Giuseppe Di Vittorio per ricordare che esistono esempi di sindacalisti rimasti sempre, orgogliosamente, dalla stessa parte. Ma qui viene in soccorso un altro socialista, Pietro Nenni: «Chi gareggia a fare il puro, troverà sempre uno più puro che lo epura». Vale anche per l’onorevole Soumahoro, nonostante i suoi stivali sporchi di terra.

Il Grande Indifferenziato. Il pianto di Soumahoro è la versione più avanzata di quello di Bella Hadid. Guia Soncini su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.

Il deputato di Sinistra italiana si difende dalle accuse piangendo in favore di follower perché sa che in questo secolo ci si fa notare accendendo la telecamera del telefono e spingendo sull’emotività

Benvenuti al corso introduttivo al Grande Indifferenziato. Per un equivoco percettivo, i corsi per principianti erano stati fin qui sospesi. Vengono ripristinati in tutta fretta dopo aver assistito alle reazioni del pubblico ieri, domenica 20 novembre, allorché il deputato Aboubakar Soumahoro ha pianto in favore d’obiettivo sul proprio canale Instagram.

La parte di pubblico per la quale questo fatto è stato stupefacente è stata valutata, dalla Commissione internazionale per lo studio del presente, inattrezzata a capire il tempo in cui vive, e quindi bisognosa di corsi d’aggiornamento pagati dallo Stato.

La Commissione è ovviamente interessata a capire gli errori da parte della scuola dell’obbligo nella formazione dei cittadini: è plausibile che in un prossimo futuro venga istituita una seconda commissione, che indaghi sulle gravi mancanze per cui parte della cittadinanza è stata lasciata indietro e punisca i responsabili di questo sfacelo educativo.

Per ora, ci limiteremo a cercare di capire quali tasselli manchino, ai cittadini incapaci di capire il mondo in cui vivono, e come sia possibile ch’essi non abbiano compreso le basi del Grande Indifferenziato.

Siete pregati di mettere una crocetta a una delle ipotesi seguenti: credevo che tra l’essere personaggio pubblico di Bella Hadid – che instagramma gli autoscatti che si fa in lacrime quand’è triste – e quello di Aboubakar Soumahoro ci fosse una qualche differenza; sì, avevo visto Adele in lacrime annunciare che il suo tour era stato rimandato, ma credevo che da un ex bracciante divenuto deputato e da un’ex grassa divenuta cantante multimilionaria ci si potessero aspettare modalità comunicative diverse; sì, avevo visto Cristina Fogazzi con gli occhi lucidi annunciare che la sua azienda di cosmetici sponsorizzerà l’albero di Natale in Duomo, ma pensavo fosse perché non è temprata dalla vita quanto un ivoriano che ha avuto sufficiente forza d’animo da riscattarsi da un destino di sciuscià.

Qualunque sia la ragione per cui vi ha sorpreso vedere un deputato, uno le cui congiunte sono accusate di aver maltrattato i loro dipendenti, difendersi sull’Instagram in lacrime, invece che nei luoghi che il Novecento vi aveva convinto essere acconci, fermatevi e riflettete: quali erano quei luoghi?

Il parlamento? I giornali? La cara vecchia comunicazione intermediata? E allora, miei cari allievi dell’ultimo banco, ditemi: come mai nessuno di voi ha notato le compite interviste a Soumahoro uscite ieri sul Corriere e su Repubblica, ma tutti avete raccolto la mandibola dal parquet (i più sfortunati: dal grès porcellanato) ascoltando Soumahoro singhiozzare «mi dite cosa vi ho fatto» e «voi mi volete morto» e «sono giorni che non dormo» sull’Instagram?

Siete qui per imparare, e quindi questo corso vi svelerà il perché. L’avete notato dove dovevate, e dove lui si è giustamente posizionato, perché Soumahoro è meno impreparato a questo secolo di voi, e sa dove ci si fa notare, e come farlo: accendendo la telecamera del telefono, e spingendo sull’emotività e sul doppiaggese (che cos’è «volevate il negro di cortile», se non la frase di chi ha studiato la lotta di classe su Via col vento, mica sui Soliti ignoti).

È tra l’altro molto interessante che, mentre Soumahoro frignava paragonandosi a Peppino Impastato (se questo fosse un corso sull’integrazione, vi direi che nessuno meglio di Soumahoro ha introiettato il carattere italiano, quel nodo di vittimismo e mitomania che nessun Alessandro Magno potrebbe sciogliere), sullo sfondo piangesse un qualche neonato. La competizione allevata da lui stesso, la concorrenza da dentro casa, ma anche quell’atmosfera da domenica in famiglia che fa vicino-alla-gente-qualunque.

È altresì interessante che, nei quattro minuti di lacrimoni e vibranti accuse, paragoni fuori scala e accuse ai poteri forti (o al pensiero debole), ci sia un lapsus di quelli che vien da pensare che Freud fosse un grande sceneggiatore. Dice Soumahoro che lui ha sempre lottato per i deboli, e insomma «lotterò contro i dipendenti dei miei genitori, qualora i loro diritti non fossero rispettati».

È interessante che nessuno – un assistente parlamentare, una moglie, un fantasma di Peppino Impastato – gli abbia detto «Abou, tocca rifarla, hai detto che lotti contro quelli i cui diritti non vengono rispettati, se a non rispettarli sono i tuoi parenti». O forse, nel formulare questa ipotesi, questa commissione si dimostra inattrezzata quanto voialtri ripetenti a decodificare il presente.

Se somigliassimo più a questo secolo, sapremmo quel che sa Soumahoro: che le parole sono volatili, quel che resta è l’emotività. Che a nessuno interessa l’avverbio sbagliato, di fronte al singhiozzo giusto. «Abou, ti viene così bene il pianto una seconda volta? No? E allora ’sti cazzi del lapsus».

Dice Bella Hadid che gli autoscatti di pianto che instagramma sono quelli che s’è fatta, lungo tre anni, per spiegare alla mamma o allo psicanalista come si sentiva. È chiaro che Aboubakar Soumahoro, che il pianto lo produce direttamente per il pubblico di Instagram, nel Grande Indifferenziato risulta essere una Bella Hadid di produzione assai più avanzata.

L'inchiesta avanza. Soumahoro ci risparmi per un po' lezioni di vita. Andrea Soglio su Panorama il 18 Novembre 2022.

 Guardia di finanza, carabinieri e la Procura alla ricerca di nuovi riscontri sulle accuse di stipendi mancati e lavoro nero nelle due cooperative della moglie e della suocera del parlamentare nuovo paladino dei diritti di migranti

Un bel guaio, una bella macchia su una legislatura in cui era partito in maniera scoppiettante. Sono ormai due giorni che le luci puntate su Aboubakar Soumahoro non sono quelle degli studi tv dove era abituato a pontificare su lavoro, migranti, dignità e diritti dei lavoratori e dei più deboli, ma quelle degli investigatori, che stanno indagando sulle cooperative della sua famiglia. I fatti. La Procura di Latina ha aperto un’inchiesta a proposito di eventuali irregolarità per due cooperative; Karibu e Consorzio Aid che si occupa di lotta al caporalato, difesa dei diritti dei migranti e servizi di accoglienza per i richiedenti asilo nel territorio pontino.

Non si tratta di due cooperative qualunque perché a gestirle le strutture si sono la moglie e la suocera del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. Si capisce bene che la cosa ha scatenato reazioni di vario tipo dato che Somauhoro ha fatto proprio della legalità il suo cavallo di battaglia e della difesa dei diritti dei più deboli il suo credo. In una nota, la procura laziale, visto anche l’inevitabile assalto di cronisti, ha chiesto il massimo riserbo ma ha raccontato come le verifiche della Guardia di finanza sono cominciate mesi fa e starebbero verificando eventuali reati di truffa, ad esempio il mancato pagamento degli stipendi, come avrebbero denunciato una trentina di lavoratori. Altro materiale sarebbe stato invece raccolto dai carabinieri all’esterno di una delle cooperative durante un trasloco. Dalle parole raccolte da alcuni sindacati emerge che le prime denunce sono arrivate da una decina di lavoratori (tra cui alcune donne); a quel punto altri hanno trovato coraggio di raccontare e così si è arrivati a 26 casi (tra cui due lavoratori senza contratto, in nero). Gli stipendi sarebbero stati in ritardo non di poco, almeno di 12 mesi, ma per alcuni anche di un anno e mezzo e più. Somauhoro ha parlato di fango e minacciato querele, spiegando come lui non abbia nulla a che fare con le due cooperative. Aboubakar Soumahoro @aboubakar_soum · Segui Grazie per la solidarietà che mi state manifestando, in privato e in pubblico. Stanno provando a infangare e screditare la mia persona su una vicenda in cui non c'entro nulla. A chi sta usando i miei affetti per colpirmi dico solo: ci vedremo in tribunale. Non ci fermeranno.

La suocera oggi invece in una nota ha spiegato che i mancati pagamenti sarebbero legati ai crediti non riscossi con lo Stato: «Sono state poste in essere le azioni necessarie per procedere alla riscossione dei crediti che la Cooperativa vanta nei confronti della pubblica committenza, anche per attività già rendicontata, ciò nel tentativo di soddisfare le posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori». Tra i cronisti che stanno seguendo la vicenda (indubbiamente succosa e curiosa) c’è la convinzione che ci saranno novità, forse interrogatori, nuovi controlli e perquisizioni. Tutto questo per dire che siamo solo all’inizio di questa inchiesta e che la parola fine arriverà tra molto tempo. Ma la macchia resta perché, come ammesso dalla stessa suocera del parlamentare, ci sono state decine di persone non pagate per il loro lavoro. Soumahoro si è presentato alla prima seduta indossando gli stivali degli agricoltori; un segnale a uso e consumo dei fotografi (e per certi versi poco rispettoso verso il Parlamento) che oggi gli si ritorce contro. In questo primo mese di legislatura la stampa di sinistra lo ha subito elevato a uomo immagine, a simbolo di onestà, legalità, uguaglianza. Di sicuro oggi, e per un po’ , gli sarà difficile poter dare lezioni alla maggioranza di governo dato che non è riuscito a far capire le stesse cose in casa propria.

Caso Aboubakar Soumahoro, cosa sappiamo delle cooperative di famiglia. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 18 novembre 2022

I lavoratori non pagati, due impiegati in nero, l’ombra delle false fatture e le condizioni dei centri di accoglienza.

Sono questi i quattro fronti aperti che riguardano le cooperative Karibu e consorzio Aid, operanti nel sud del Lazio e gestite da Liliane Murekatete e Marie Terese Mukamitsindo, moglie e suocera del deputato Aboubakar Soumahoro dell’Alleanza Verdi e Sinistra.

Tutto questo sembra trovare conferma in un dossier realizzato dopo una ispezione di una parlamentare della Repubblica, avvenuta in uno dei centri nel 2019. Chi sono gli accusatori?  A che punto è l’indagine della procura di Latina?

Nello Trocchia per editorialedomani.it il 22 novembre 2022.

«In quel centro non avrei messo manco i cani». La testimonianza su uno dei centri gestiti dalla cooperativa Karibu è di Elena Fattori, ex senatrice di Sinistra Italiana, esponente politico che da sempre si batte per i diritti e per l’ambiente. È entrata in parlamento nel 2013 con il M5s, è stata poi nuovamente eletta anche nel 2018 e ha abbandonato il movimento l’anno successivo per transitare nel gruppo misto, prima di chiudere la legislatura nel partito di Nicola Fratoianni.

Proprio l’alleanza Verdi-Sinistra ha candidato Aboubakar Soumahoro, marito di Liliane Murekatete e genero di Marie Terese Mukamitsindo che gestiscono le cooperative Karibu e consorzio Aid, realtà sociali al centro di un’indagine della procura di Latina che approfondisce la situazione contabile e le denunce degli ospiti dei centri.

 Proprio Domani, qualche giorno fa, aveva pubblicato l’esito di un dossier realizzato nel 2019 e che oggi Fattori rivendica come una delle sue attività parlamentari. «Sono andata a visitare questo centro ad Aprilia dopo che mi erano arrivate diverse segnalazioni, c’erano problemi economici con i dipendenti, ma quello che ho visto era una struttura indecente dove non ospiterei manco i cani. Ricordo ancora i paramenti sconnessi, la muffa, condizioni invivibili», dice Fattori.

L’ex senatrice, che non è stata ricandidata e oggi fa politica sul territorio, ricorda anche l’incontro con Marie Terese Mukamitsindo, suocera del deputato. «La responsabile si lamentava dei tagli prodotti dai decreti sicurezza (che erano stati approvati dal primo governo Conte), eravamo nel 2019, ma un posto del genere in mezzo alla campagna di Aprilia e in quelle condizioni non era sostenibile, lì non potevano vivere persone indipendentemente dai decreti approvati. Ho visitato molti centri, anche di altre cooperative, e devo dire che tranne pochissimi casi erano tutti in condizioni disagevoli».

L’allora senatrice ha scoperto in quella visita la parentela della responsabile con il sindacalista Soumahoro. «A un certo punto mentre visitavamo il centro, io e i miei collaboratori, la responsabile mi dice “Abu ti stima molto, io sono la suocera”, così scopro in quel momento la parentela e sono rimasta sconcertata perché io aveva fatto alcune iniziative proprio con Soumahoro». 

Una in particolare la ricorda benissimo e riguardava proprio i finanziamenti indirizzati ai centri per migranti, ma all’epoca Fattori non sapeva della parentela e degli interessi dei familiari nel settore. 

«Avevo portato Soumahoro e altri attivisti dal presidente della Camera, Roberto Fico, per porre la questione dei decreti sicurezza e dell’importanza di aumentare i fondi e gli stanziamenti quando poi ho scoperto, successivamente, quella parentela non ho voluto più affrontare la questione con Soumahoro». 

Il dossier ricostruiva la visita al centro durata circa 45 minuti che era stata preceduta da una segnalazione proveniente da alcuni dipendenti. «La struttura gestisce la presenza di 60 immigrati richiedenti asilo. Mediamente rimangono due anni circa in questa struttura formata da alcuni casolari con stanze che contengono 4 ospiti ciascuna, anche se la sensazione è che ve ne siano di più.

Sembrava evidente come in attesa della visita ci sia stato un maldestro tentativo di ripristinare una situazione strutturale di dignità ma mal riuscito. La struttura risulta sporca con parti al limite del fatiscente. Dai pavimenti con radici che divelgono il pavimento, soffitti con macchie evidenti di muffa, malfunzionamento della caldaia a pellet, sporco generale e gli esterni (ci sono tettoie con presenza di eternit) tenute quasi a discarica (...) Se la gestione strutturale e sanitaria sembrano essere lasciate al caso, anche quella economica lascia perplessi», si legge nel dossier. Un documento nel quale si riferisce di un corso sicurezza per dipendenti fantasma, di ospiti con scarpe sporche di fango, di segnalazioni all’Asl, di un silenzio diffuso dei dipendenti. 

Soumahoro non aveva alcuna responsabilità e neanche ruolo nella cooperativa.

Ma lei questo dossier non l’ha consegnato a nessuno? «Certo, mi preoccupai di consegnarlo ad alcuni esponenti dell’allora sottogoverno, ma non ci sono stati sviluppi», dice Fattori. 

Ha raccontato tutto questo ai vertici di Sinistra Italiana? «Ma questa vicenda è nota, è vecchia, certo che l’ho segnalata, ma non è stato tenuto conto della mia segnalazione anche se la candidatura è stata spinta dai Verdi di Angelo Bonelli con il quale non ho parlato».

«Non ho tessere di partito e questa vicenda è molto triste, ma ci dice una cosa importante. Io penso che l’accoglienza debba essere gestita dallo stato e non affidata ai privati, i privati possono sbagliare anche senza cattiva fede, ma noi non possiamo permetterci di tenere persone in quelle condizioni», conclude Fattori.

Al freddo e senza stipendi alla coop dei Soumahoro. I particolari dell'inchiesta sulle società di moglie e suocera del deputato. "Niente soldi da un anno". Massimo Malpica il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.

Aboubakar Soumahoro, il deputato indipendente eletto con l'alleanza Sinistra-Verdi si è affrettato a prendere le distanze dall'inchiesta della procura di Latina sulle società di sua suocera, Marie Therese Mukamitsindo, la coop Karibu e il consorzio Aid, accusati di non aver pagato i dipendenti da un anno e più. Soumahoro ha minacciato querele, ribadendo di non essere «né indagato né coinvolto in nessuna indagine». Non ha però commentato i fatti, né negato che l'indagine esista. Lo ha confermato la stessa procura di Latina, spiegando, «in ordine all'attività irregolare di cooperative incaricate di assicurare servizi di accoglienza, e servizi connessi, per i richiedenti asilo», di aver delegato gli accertamenti di «eventuali profili di rilievo penale», alla Gdf. Già al lavoro su due diversi filoni per truffa e distruzione e occultamento di materiale contabile, dopo che gli investigatori hanno trovato carte e documenti buttati in un cassonetto dalle parti di una delle sedi delle società.

Soumahoro, oltre a chiamarsi fuori, non ha parlato dell'inchiesta, non ha parlato di sua suocera e nemmeno di sua moglie, Liliane Murekatete, che della coop dovrebbe essere ancora socia e che, sul proprio profilo Linkedin, risulterebbe addirittura presidente della Cooperativa Sociale Karibu. L'affaire pontino riguarda mancati pagamenti (alcuni risalirebbero a ben oltre l'anno: da 12 a 22 mesi) degli emolumenti che le società avrebbero dovuto versare a 26 dipendenti, ai quali le coop avrebbero chiesto fatture false. I dipendenti si sono licenziati per giusta causa la scorsa estate. Ora, tramite il sindacato, stanno cercando di ottenere il dovuto. Karibu e Aid, al 7 novembre scorso, sarebbero debitori di circa 400mila euro nei confronti dei lavoratori. E complessivamente a circa 400mila euro. L'altra brutta storia, riguarda la gestione dell'accoglienza dei minori, che sarebbero stati ospitati in case senza acqua né luce. Anche qui, pare, perché la coop era in ritardo con le bollette.

L'indagine sarebbe partita però già un anno fa. Di certo le cose, per la coop, non vanno bene già da un po': la sua pagina Facebook non è aggiornata da oltre due anni e mezzo. Eppure nel 2018 Therese Mukamitsindo era stata premiata da Laura Boldrini come imprenditrice straniera dell'anno, e la coop Karibu andava alla grande, passando in due anni da 50 a 150 dipendenti. Si fa vedere in quel periodo anche la moglie di Soumahoro, Liliane, che tra l'altro promosse nel 2017 il lancio di «K mare», una linea di costumi e pareo realizzati dai rifugiati ospiti delle loro strutture. L'iniziativa venne presa di mira come «business di finta solidarietà» da Casapound, che attribuiva alla coop, al dicembre 2017, 11 milioni di euro di ricavi. La donna, che alterna abiti tradizionali a selfie con vestiti e accessori griffati, replicò rivendicando anche la sua passione per le firme del lusso: «Non prendo soldi da questa coop, ma ho avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono potuta permettere abiti firmati. Siccome sono una donna di colore, non li posso indossare? Mi si accusa di averli comprati con i soldi della cooperativa? Non è così, vengano a vedere gli scontrini».

Ma l'ascesa è finita. Già a maggio 2019 il giornalista pontino Emanuele Coletti raccontava, su Latina Tu, come dopo il boom «inizia la parabola discendente e il Ddl sicurezza sembra accelerare questo corso». Gli stipendi cominciano a tardare, i dipendenti calano, un decreto ingiuntivo pignora 139mila euro di crediti vantati dalla coop nei confronti di Viminale e Regione. La crisi, nera, non ha però fermato le attività della società. Forse perché, stando alle denunce, avrebbe smesso di pagare molti dei suoi lavoratori.

Dagli osanna ai silenzi: il caso Soumahoro imbarazza la sinistra. Dagli osanna intonati a gran voce ai silenzi imbarazzati. Dopo le notizie dalla procura di Latina, da sinistra è calato uno strano mutismo attorno al deputato Soumahoro. Gli unici a difenderlo, Ilaria Cucchi e Mimmo Lucano. Marco Leardi il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.

Dagli osanna intonati a gran voce ai silenzi imbarazzati. Dalle lodi sperticate ai sussurri. Di colpo attorno a Aboubakar Soumahoro è calato uno strano silenzio. E il colmo è che a tacere sono stati proprio i progressisti nostrani che fino all'altro ieri lo elogiavano senza mezze misure. Il parlamentare di origini ivoriane era diventato una vera e propria icona, sin dal suo arrivo a Montecitorio con degli stivaloni da lavoro. La sua recente visita sulla nave Ong Humanity 1, poi, lo aveva reso un paladino degli anti-Meloni: un emblema dell'opposizione al nuovo governo di centrodestra. Ora, tuttavia, a fronte delle notizie arrivate dalla Procura di Latina, quelle voci entusiastiche di sono di stranamente spente.

Il silenzio della sinistra sul caso Soumahoro

Il fascicolo esplorativo, al momento senza ipotesi di reato, aperto sulla gestione delle due cooperative della moglie e della suocera di Soumahoro ha forse innescato qualche disagio tra i progressisti, di colpo indecisi sul da farsi. Commentare la vicenda o tacere in attesa di eventuali sviluppi? Così il deputato ivoriano si è ritrovato a difendere la propria famiglia in totale solitudine. "Stanno provando a infangare la mia persona su una vicenda in cui non c'entro nulla. A chi in queste ore sta usando i miei affetti per colpirmi dico solo: ci vedremo in tribunale. Non ci fermeranno", ha affermato il parlamentare su Facebook, precisando di non essere indagato né coinvolto nella vicenda. Ma dai colleghi che fino all'altro ieri lo incensavano, sino al punto da considerarlo il "Papa straniero" tanto atteso dal Pd, nessuna espressione pubblica di sostegno. Enrico Letta? Non pervenuto. Orfini e Orlando? Spariti anche loro. Boldrini? Assente. Il tutto, a fronte di discussioni e polemiche che non accennano ad affievolirsi (Fdi ha annunciato un'interrogazione parlamentare sull'inchiesta esplorativa della procura di Latina).

La difesa di Ilaria Cucchi

L'unica personalità di sinistra a far sentire la propria voce è stata Ilaria Cucchi. "La vicenda che pare coinvolgere la famiglia di Abubakar Soumahoro se vera, sarebbe gravissima. Riguarderebbe la violazione dei diritti fondamentali dell'essere umano, tema sul quale, io, non faccio sconti a nessuno, anche perché l'ho vissuto, drammaticamente, sulla mia pelle", ha affermato la parlamentare, dicendosi "certa che Abubakar Soumahoro saprà fare chiarezza". E ancora: "Anche io, come lui, sono fiduciosa nel lavoro della magistratura. I miei valori sono la mia storia e, posso permettermi di dirlo, la 'nostra' storia. La storia di chi, insieme a me, ha lottato passo dopo passo per portare alla luce le istanze di chi non ha voce. E su questi principi andremo avanti, insieme. Sempre".

Il graffio del centrodestra a Boldrini e Soumahoro

Il silenzio dei progressisti sulle notizie trapelate è stato però notato nel centrodestra. La deputata della Lega Simonetta Matone, al riguardo, ha incalzato: "Vorremmo sapere dall'onorevole Boldrini se oggi premierebbe nuovamente Marie Terese Mukamitsindo, a capo della cooperativa Karibù, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli. E chiediamo all'onorevole Soumahoro se era questo che intendeva quando, entrando a Montecitorio, diceva di voler tutelare 'chi vive nel fango della miseria e del caporalato', la 'miseria di chi non riesce a pagare la bolletta e l'affitto'. Perché apprendere, ove le notizie fossero confermate dall'inchiesta dei magistrati di Latina, di minorenni lasciati in condizioni di sofferenza senza cibo, acqua o luce rischia di ridimensionare, e di molto il suo ruolo di paladino degli ultimi".

Il sostegno di Mimmo Lucano

A difendere apertamente Soumahoro e la sua famiglia, in compenso, ci ha pensato Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace. "È una delegittimazione mediatica che si ripete sempre uguale quando qualcuno si batte per la tutela dei diritti delle persone più deboli. È un conto da pagare, quasi un effetto collaterale obbligato", ha contestato l'ex primo cittadino condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere per le sue politiche sull'accoglienza dei migranti.

Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento. Nel mirino dei pm irregolarità e minori maltrattati nella società della moglie del paladino dei migranti. Stefano Zurlo il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.  

L'ombra dello sfruttamento dei minori sulle cooperative della famiglia Soumahoro. Lui, Aboubakar Soumahoro, deputato dell'Alleanza Sinistra e Verdi, solo pochi giorni fa tuonava dal molo di Catania: «Si stanno effettuando sbarchi selettivi, in violazione della Costituzione». E se la prendeva con la linea scelta dal Governo Meloni che tradirebbe le più elementari norme di civiltà.

Adesso però è lui a trovarsi in difficoltà: la procura di Latina ha aperto un fascicolo esplorativo, al momento senza ipotesi di reato, sulla gestione delle due cooperative della moglie e della suocera del politico di origine ivoriana.

Si parla di denunce di alcuni minorenni, raccolte da un sindacato della destra e finite in procura: i ragazzi, provati da migrazioni estenuanti e drammatiche, avrebbero subito vessazioni e umiliazioni nei luoghi e nelle strutture in cui avrebbero dovuto trovare finalmente un nuovo equilibrio.

E invece per due anni non avrebbero preso lo stipendio e sarebbero stati confinati in topaie senza luce nè acqua. Insomma, nei centri della coop Karibu e del consorzio Aid si sarebbero violate le regole del lavoro e pure quelle penali.

Ma naturalmente l'inchiesta è solo agli inizi e non ci sono indagati, insomma bisogna vedere come evolverà. Lui si difende con le unghie: «Non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine. Ho dato mandato ai miei legali di perseguire legalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama e getta ombre sulla mia reputazione».

È presto per trarre conclusioni, anche perché gli accertamenti dei carabinieri sono appena cominciati. E però gli elementi che affiorano sono piuttosto crudi: maltrattamenti, mancanza di luce e acqua e poi lavoro nero. Fatture false e due anni senza stipendio.

Condizioni durissime, ancora più pesanti in alcuni capannoni fra il Lazio e la Campania: qui i giovani sarebbero rimasti senza cibo né vestiti. Sono una trentina i minorenni che hanno raccontato le loro storie di disperazione ai sindacalisti dell'Uiltucs e a questo punto solo la procura potrà chiarire le eventuali responsabilità.

Soumahoro intanto è diventato un personaggio mediatico, sempre nel segno della polemica con il nuovo esecutivo di centrodestra, e moltissime persone hanno visto il video della Meloni che gli dà del tu e poi gli chiede scusa.

«Tutti ci sentiamo scolari della storia, sai?», aveva attaccato lei. E lui le aveva risposto per le rime: «Durante la colonizzazione i neri non avevano diritto al lei». Poi aveva affondato il colpo. «Forse quando un underdog - aveva aggiunto giocando sulla definizione che il premier aveva dato di sè - incontra un under-underdog viene naturale dare del tu».

Insomma, l'opposizione in prima linea, con la battaglia fra Roma e le ong, ha trasformato il parlamentare in una star nel giro di poche settimane. il Foglio gli ha dedicato un articolo e un riconoscimento: «Ci è capitato di notare che Soumahoro ha la stoffa del politico di primo piano». E in queste settimane si è perso il conto delle sue esternazioni. «Avete proceduto con sbarchi selettivi - le sue parole dal porto di Catania, dopo essere salito a bordo della Humanity 1 - in piena violazione della legalità e degli obblighi internazionali, avete selezionato i migranti come fossero oggetti galleggianti in mare». E ancora: «Antonio Gramsci scrisse che se l'uomo politico sbaglia nella sua ipotesi è la vita degli uomini ad essere in pericolo. Voi avete messo in pericolo la vita dei naufraghi».

I migranti che lavoravano per la moglie e la suocera del deputato non avrebbero rischiato la vita, ma certo avrebbero vissuto in condizioni indecorose e intollerabili.

«Non c'entro niente con tutto questo», si inalbera lui minacciando fuoco e fiamme. Ma l'ombra dello sfruttamento dei minorenni aleggia oggi sulle coop della famiglia Soumahoro.

"400mila euro di arretrati". L'indagine sulle coop della famiglia Soumahoro. Sulle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro pesano le accuse di false fatture e debiti per 400mila euro per stipendi non pagati. Francesca Galici il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.   

Per raccontare la vicenda della coop Karibue e del consorzio Aid occorre partire dal presupposto che, per il momento, la procura di Latina ha aperto un fascicolo esplorativo e non ci sono ipotesi di reato. Detto questo, sempre per il momento, non ci sono ovviamente nemmeno indagati. Ma l'accensione di un faro sulle due realtà cooperative è inevitabile, dal momento che sono gestite da Marie Terese Mukamitsindo e dalla figlia Liliane Murekatete, rispettivamente la suocera e la moglie di Aboubakar Soumahoro, deputato per i migranti e contro lo sfruttamento del caporalato.

Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento

Le indagini sono iniziate lo scorso giugno, come ha spiegato il segretario Uiltucs Latina, Gianfranco Cartisano, da cui è partita la segnalazione che ha portato all'indagine. Cartisano, raggiunto dai giornalisti, ha dichiarato di essere venuto a conoscenza della situazione quando si sono presentati negli uffici del sindacato "un gruppo di lavoratori rivendicando di essere stati lasciati da 11, 12 fino a 18 e 22 mesi senza stipendio". Inizialmente si trattava di 10 persone, che sono gradualmente aumentate fino a diventare circa 30. Nelle denunce dei lavoratori, però, non ci sono le denunce per il mancato pagamento. Secondo quanto è emerso, infatti, ad alcuni sarebbero state chieste fatture false per ottenere i pagamenti, una denuncia che troverebbe riscontro anche in alcune chat che sono state consegnate alla procura. "Portami la settimana prossima fattura di metà importo", pare venisse scritto a chi chiedeva il pagamento, come spiega la Repubblica.

Il primo passo di questa vicenda è stato presentare istanza all'ispettorato del Lavoro per raggiungere un accordo in tempi rapidi: "Sia Aid che Karibu hanno condiviso l’esposizione di circa 400mila euro di stipendi non pagati. Sono stati fatti accordi individuali con rateizzazione ma già al primo step il patto è stato disatteso". I 400mila euro di debito con i lavoratori sono stati ammessi dalle due coop, che però hanno addossato tutta la colpa allo Stato, a loro dire colpevole di non aver versato nei tempi dovuti le spettanze per le associazioni che si occupano dei migranti. Circostanza smentita dallo stesso sindacato Uiltucs: "Dove sono e dove finiscono i soldi pubblici erogati?".

Ora, un mucchio di 8 sacchi neri abbandonati all'esterno di una struttura di Sezze, in provincia di Latina, sono diventati un vero e proprio tesoro per i carabinieri che hanno ricevuto l'incarico di condurre l'indagine. Qui dentro ci sono documenti, fatture, bilanci e ricevute sui quali portare avanti la ricerca. I sacchi sono stati abbandonati quando le coop hanno lasciato una delle loro sedi per traslocare altrove. La realtà sotto indagine da parte della procura è una delle più importanti della provincia di Latina e Marie Terese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro e presidente del Cda, nel 2018 ha vinto il Moneygram Award, premio come imprenditore dell'anno di origini straniere in Italia.

"Ci hanno anche maltrattati". Le accuse alle coop legate a Soumahoro. Il sindacato Uiltucse ha portato in procura i racconti degli stranieri che sono passati per le strutture gestite dalla moglie e dalla suocera di Aboubakar Soumahoro. Francesca Galici il 18 Novembre 2022 su Il Giornale.

Fanno ancora discutere le denunce contro le coop Consorzio Aid e Karibu gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, che ha costruito la sua immagine pubblica sulla propaganda pro-migranti e contro il caporalato. Lui, il deputato di dell'Alleanza Sinistra e Verdi, è estraneo alle due coop e non è indagato. Per il momento la procura di Latina ha aperto un fascicolo conoscitivo partendo dalla denuncia del sindacato Uiltucse, che ha ricevuto le testimonianze di circa 30 migranti.

Soumahoro, la coop di famiglia indagata per sfruttamento

E c'è di tutto in quelle denunce. Si va dagli stipendi non pagati per un totale di circa 400mila euro alla richiesta di fatture false, passando per presunte violenze e vessazioni da parte degli stranieri, alcuni di questi minorenni ospiti delle strutture. "L'elettricità e l'acqua sono state tagliate per molto tempo. Non c'è cibo né ci sono vestiti", ha denunciato Nader, un giovane migrante ospite delle strutture delle coop Consorzio Aid e Karibu. Ma non è il solo, perché Abdul, un altro minore, ha aggiunto un carico da novanta: "Ci hanno anche maltrattati". Ovviamente, tutte le testimonianze dovranno essere verificate e per questo motivo sono in corso le indagini da parte della procura e dei carabinieri.

"400mila euro di arretrati". Bufera sulla famiglia Soumahoro

Intanto, Aboubakar Soumahoro ha condiviso un post di forte indignazione: "Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale. Per questo, dico a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico, di mettersi l'anima in pace. A chi ha deciso, per interessi a me ignoti, di attaccarmi, dico: ci vediamo in tribunale! Ho dato mandato ai miei legali di perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione". Ma la polemica si è accesa e Fratelli d'Italia alla Camera depositerà nelle prossime ore un'interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Calderone per sollecitare eventuali provvedimenti nei confronti delle due cooperative Karibu e Consorzio Aid.

Senza acqua né cibo: ecco la coop-ghetto gestita dai Soumahoro. A San Severo i migranti lo conoscono: "L'onorevole? Solo business e non paga..." Bianca Leonardi su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

Puglia, San Severo. Una lunga strada immersa tra i campi delle campagne foggiane ci porta fino al ghetto dei braccianti.

Tetti in lamiera, minimarket, bar, ristoranti e alimentari: è tutto improvvisato nella baraccopoli di Torretta Antonacci, che ci accoglie tra saluti curiosi e sguardi più titubanti.

Il ghetto che accoglie circa 2500 persone - anche se è impossibile avere un dato esatto in quanto la maggior parte dei migranti non vuole essere registrata - si divide in due parti: la grande tendopoli autogestita e la parte di competenza della Regione.

Fuochi, musica e uomini che ci guardano con sospetto: il regno di nessuno è praticamente inavvicinabile. I camper lungo la strada e le «guardie» - coloro che hanno il compito di controllare chi entra e chi esce - si allertano subito per il passaggio di qualche «straniero».

Pochi metri più avanti è tutto diverso: nella foresteria - scenario di tutti i video dell'onorevole Soumahoro - è presente l'Associazione Anolf, vincitrice del bando della Regione Puglia lo scorso agosto.

«Qui sto bene, ho un letto», ci racconta un giovane bracciante. La zona è infatti allestita con moduli abitativi dati dalla protezione civile: ogni modulo ospita 4 persone per un totale di 250. «Questi posti sono pochi, tutti gli altri restano di là al freddo e a dormire per terra», continua Sangari che da anni vive nel ghetto.

È quasi ora di cena e, mentre nello spazio autogestito riecheggiano grida e urla, Dudè ci invita ad entrare «in casa». È piccola, due letti a castello e un tavolino in mezzo. Ci sono 30 gradi e il riso è sul fuoco, sui fornelli elettrici sotto il tavolo. «Oggi non lavoro perché piove. Tutte le mattine mi alzo prestissimo per andare nei campi, ci sono i taxi che ci portano e ci riportano dai campi». In realtà la questione trasporto è molto più complessa ed ha a che fare con la criminalità e il caporalato. «Tutte le mattine ci chiedono 3-4-5-6 euro»- prosegue un altro che preferisce non dirci il suo nome.

«Sono della Lega braccianti, gli uomini di Soumahoro che controllano tutto», aggiunge. Una dichiarazione importante che giustifica infatti tutte le volte che gli abitanti del ghetto ci hanno allontanato quando abbiamo chiesto proprio della Lega braccianti.

Già, l'onorevole Aboubakar Soumahoro, nei guai per l'apertura da parte della procura di Latina dell'inchiesta che vedrebbe coinvolte moglie e suocera nello sfruttamento dei migranti all'interno delle cooperative di famiglia. Significativo il servizio andato in onda ieri sera su «Quarta Repubblica», il programma di Nicola Porro, a firma di Giancarlo Palombi. La testimonianza è quella infatti di un mediatore culturale che lavorava per la cooperativa Karibu e si occupava di minori non accompagnati. L'uomo racconta di essere stato pagato dai parenti di Soumahoro soltanto due volte, di aver sempre lavorato in nero e di essere stato «accolto» e fatto vivere in condizioni di vita al limite, senza acqua né cibo. A ciò si aggiunge, quindi, la controversa visione dei braccianti pugliesi che hanno da sempre lavorato con lui. «Soumahoro non ha fatto niente, solo chiacchiere e business», dicono.

Guardandoci intorno, in effetti, la condizione del ghetto non è cambiata rispetto agli anni passati nonostante i 250mila euro raccolti con la campagna crowfunding «Cibo e Diritti». La «Casa dei Diritti e della Dignità», inaugurata nel 2020 dall'ex sindacalista, non la vediamo. Non c'è niente se non una palestra improvvisata. «Abbiamo recuperato qualcosa per tenerci in forma», raccontano. In realtà si tratta di uno spazio sotto un tendone pieno di buchi dove però, dopo il lavoro, i braccianti trovano sfogo.

Lasciamo infine il ghetto tra ululati di cani di randagi, fuochi accesi in mezzo al niente e sguardi sospetti che ci invitano ad andarcene velocemente. A prescindere dagli slogan propagandistici, dalle urla di facile consenso, dalle eventuali indagini - se la magistratura farà il suo corso - ciò che resta sono gli occhi di questa umanità dimenticata che, tra arroganza e dolcezza cerca di sopravvivere tra le macerie di un ghetto e di un passato scomodo.

"Poi vedono la realtà...". Cosa diceva nel 2018 la suocera Soumahoro sui "migranti economici". Protagonista del caso delle cooperative del Pontino, Maria Therese Mukamitsindo quattro anni fa definiva l’emergenza migranti “una bomba a orologeria”. Massimo Balsamo su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

C’è grande disagio a sinistra per il caso Aboubakar Soumahoro. La vicenda delle cooperative del Pontino coinvolge la moglie e la suocera del deputato di Verdi-Sinistra Italiana. Qualche errore è stato fatto, ha ammesso Maria Therese Mukamitsindo, ma non ci sono stati raggiri: “Tutto è stato speso per i rifugiati”. Le indagini delle forze dell’ordine su Karibu e Consorzio Aid vanno avanti da mesi dopo - riflettori accesi su eventuali irregolarità nei contratti e sulle cattive condizioni di assistenza dei minori ospitati in quelle strutture - ma c’era un tempo in cui la titolare delle coop parlava dei migranti come di “vittime dell’inganno”.

Cosa disse la suocera

In un’intervista rilasciata a Lazio Tv nel 2018, ripresa oggi su Libero, la suocera di Soumahoro utilizzò termini più vicini al vocabolario di centrodestra che a quello di sinistra per parlare di immigrazione. In riferimento all’emergenza sbarchi, Maria Therese Mukamitsindo parlò senza mezzi termini di migranti economici:“Arrivano con la speranza di migliorare le condizioni di vita. Poi vedono la realtà, ma non possono tornare indietro perché la loro famiglia ha investito su di loro, ha pagato su di loro e loro devono rimborsare questi soldi”.

Senza acqua né cibo: ecco la coop-ghetto gestita dai Soumahoro

La presidente del cda della cooperativa Karibu rimarcò inoltre che il viaggio della speranza era finalizzato a “migliorare le condizioni di vita delle loro famiglie e loro si ritrovano che non possono più fare, non possono più andare in Germania, dove si trova lavoro, o in Francia o altrove per cercare lavoro”. E ancora, sempre dritta al punto, ammise che l’emergenza migranti era “una bomba a orologeria”.

La cooperativa nei guai

Oggi suocera e moglie di Soumahoro devono fare i conti con le accuse di dipendenti ed ex ospiti delle cooperative. Dai mancati pagamenti alle condizioni choc delle strutture, addebiti piuttosto pesanti. Interpellata da Repubblica, la Mukamitsindo ha puntato il dito contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, reo di aver dimezzato il costo per il rimborso per migrante, passato da 35 a 18 euro, senza dimenticare i tagli di assistenza sociale, corsi di italiano e psicologi.

"Alzarsi, Resistere e Andare avanti come mi state dicendo in tanti in queste ore. L'impegno deve andare avanti perché è il mandato popolare ricevuto e la nostra missione di vita. Da membro Commissione Agricoltura sono venuto qui nelle campagne pugliesi dai contadini e braccianti", la posizione di Soumahoro. Ma il paladino della sinistra deve fare i conti con qualche malumore nel suo schieramento. Verdi e Sinistra Italiana hanno chiesto un incontro per avere elementi di valutazione che contribuiscano a fare chiarezza, ma c'è anche chi inizia a manifestare imbarazzo.

"Una leggerezza...". Sinistra disperata dopo il caso Soumahoro. Tra i Verdi di Angelo Bonelli circola imbarazzo per quanto avvenuto. E il partito va in pressing: chiesto un incontro per fare chiarezza sulla vicenda. Luca Sablone su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

Il caso Aboubakar Soumahoro sta continuando ad agitare la sinistra. Il deputato di Verdi-Sinistra non è coinvolto direttamente nella vicenda, ma quanto venuto a galla in questi giorni ha messo in forte imbarazzo la galassia rossa e tutti coloro che erano convinti di impartire lezioni morali su accoglienza e immigrazione dall'alto della propria presunzione. Ed ecco che il combattente portavoce degli "invisibili" si è lasciato andare a un durissimo sfogo con tanto di piagnisteo. Nel frattempo nel partito circola amarezza.

Il disagio nel partito

È bene ribadire che Soumahoro non risulta essere coinvolto in prima persona, così come va rimarcato che ovviamente la giustizia farà il proprio corso. Ma non ci si può esimere dal far notare che la spavalderia sempre ostentata dalla sinistra rischia di rivelarsi l'ennesima nube inconsistente di semplici parole al vento. Che volano via. Un senso di soggezione inizia a serpeggiare tra Verdi e Sinistra italiana, che guardano con apprensione agli sviluppi di un caso che ha già causato qualche mugugno interno.

Ad esempio il giornalista Goffredo Buccini dà conto che Angelo Bonelli si sarebbe sfogato solo con le persone a lui più vicine, evitando dunque di trattare pubblicamente la questione. "Ho commesso questa leggerezza", è la dichiarazione che il Corriere della Sera attribuisce al co-portavoce di Europa Verde. E pensare che lui stesso, annunciando la candidatura di Soumahoro, con la voce rotta dall'emozione lo aveva giudicato "una figura importante, un attivista che difende da vent'anni le persone invisibili".

"Errori ma...". Suocera e moglie gridano alla "manipolazione" contro Soumahoro

È comprensibile l'impaccio verso chi è stato dipinto come l'assoluto difensore delle persone senza voce e dimenticate, come le lavoratrici e i lavoratori della filiera agroalimentare. Sia chiaro: non è tanto una questione giudiziaria (su cui occorre sempre la massima cautela), ma una scena di imbarazzo politico che ha rappresentato un colpo basso per chi riteneva di possedere - in via del tutto esclusiva - lo scettro di puro sostenitore delle buone cause contro i "pericolosi cattivoni" del centrodestra.

L'imbarazzo della sinistra

Una brutta scossa per la sinistra, che aveva individuato nell'italo-ivoriano il suo potenziale leader e che addirittura aveva sognato di avere davanti "il Meloni" della galassia rossa. Soumahoro riveste un ruolo pubblico che non può passare inosservato: i fatti contestati nella vicenda hanno un rilievo politico e dunque aumenta il pressing per arrivare a un chiarimento. Va in questo senso la nota diramata a firma - tra gli altri - di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.

Nel comunicato è stata espressa personale vicinanza al deputato, ma allo stesso tempo viene fatto sapere che è stato chiesto un incontro per poter avere "elementi di valutazione su questa vicenda che contribuiscano a fare chiarezza". L'auspicio è che sul caso "venga fatta piena luce nel minor tempo possibile". Ogni parola è stata soppesata: da una parte il sostegno personale; dall'altra la richiesta di un chiarimento ritenuto indispensabile.

Non c'è solo questo. Tra i rossoverdi più di qualcuno ha notato una certa propensione al protagonismo da parte di Soumahoro che, non a caso, ha espresso la volontà di dare "una nuova casa politica a tutti quelli che non si sentono più rappresentati da questa sinistra fluida, senza identità e senza idee". Parole che, come riporta La Repubblica, hanno scatenato la reazione di un parlamentare di Verdi-Sinistra italiana: "Siamo appena arrivati e già pensa a fare altro, ma stiamo scherzando?!". Con il passare delle ore non si placano le perplessità rossoverdi.

Soumahoro, Alessandro Giuli: il contrappasso, ora è lo "Zio Tom". Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 19 novembre 2022.

Ovvio che non poteva prenderla bene, Aboubakar Soumahoro, e infatti ha proclamato che porterà in tribunale chiunque osi ricamare sull'inchiesta della procura di Latina circa l'incresciosa vicenda di sfruttamento minorile che riguarda le cooperative gestite da moglie e suocera del neo onorevole rossoverde. Una storia d'inclusione finita male, diciamo, per due società finanziate l'anno scorso con oltre duecentomila euro a fondo perduto e accusate di averne fatti mancare il doppio ai propri lavoratori (una trentina), affamandoli senza stipendio e trattandoli - sostengono loro - grosso modo come schiavi, talvolta nemmeno in regola.

INACCETTABILE

Al netto d'ogni possibile e doverosa indulgenza garantista verso gli indagati (lui non lo è), l'iniziativa dei magistrati proietta un'ombra feroce sulla vita dell'ex sindacalista di origini ivoriane che ha modellato la propria immagine sulla necessità del riscatto per gli ultimi della Terra, i deboli e gli sfruttati dal dominio colonialista occidentale. «Non c'entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine dell'arma dei carabinieri, di cui ho sempre avuto e avrò fiducia», ha scritto Soumahoro in un lungo post corredato da una foto che lo ritrae nella posa gagliarda delle gloriose Black Panthers, braccio destro svettante con pugno chiuso, sebbene in giacca e cravatta in omaggio al dress code parlamentare da lui impreziosito indossando stivali di gomma nel primo giorno a Montecitorio («non devono essere più intrisi dal fango dell'indifferenza e dello sfruttamento»). Nelle intenzioni quello voleva essere il gesto simbolico che restituiva l'onore negletto del bracciantato mondiale, un colpo di teatro umanitario perfettamente in linea con il suo stile di combattente mediatico prestato al Palazzo dei potenti. 

«Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale», solennizza Soumahoro, quasi ad arieggiare l'incipit d'un romanzo di Paul Nizan o del più noto pied noir Albert Camus, genotipo letterario dell'Umanità in rivolta (è anche il titolo di un suo libro per Feltrinelli) contro l'ingiustizia sociale e il razzismo, costretto adesso a ricorrere agli avvocati per «perseguire penalmente chiunque infanga il mio nome o la mia immagine, mi diffama o getta ombra sulla mia reputazione».

Guai, dunque, «a chi pensa di fermarmi, attraverso l'arma della diffamazione e del fango mediatico». Poiché, ecco il gran finale in crescendo, «nessuno mi fermerà e nessuno ci fermerà. Il nostro cammino di speranza e di una politica al servizio del NOI non si fermerà né si farà intimidire. Siamo un'umanità che ha deciso di dare una rappresentanza politica a chi ha sete di diritti e dignità. Io sarò al servizio di questa nobile e alta missione». 

Soumahoro deve aver letto i motteggi derisori dei suoi avversari, quelli che ora gli danno del sedicente puro in via d'epurazione per l'invalicabile e paradossale legge del contrappasso formalizzata a suo tempo dal leader socialista Pietro Nenni e di lì in poi abusata per contrassegnare i rovesci d'ogni suprematismo morale. Quel virtuismo che il nostro deputato ha saputo mirabilmente cangiare in virtuosismo dialettico e indignata rivendicazione militante: «Non ho mai barattato e non baratterò mai la mia ricchezza spirituale con le ricchezze materiali, perché per me la ricchezza spirituale ha la supremazia su quella materiale. Siamo qui di passaggio...». Soltanto poche settimane fa, Soumahoro otteneva le scuse della premier Giorgia Meloni che gli aveva dato del "tu" in Aula nel corso delle controrepliche al discorso d'insediamento per il voto di fiducia: i media fiancheggiatori ebbero buon gioco nell'enfatizzare una punta di retropensiero demonizzante: come potrebbe, in effetti, una postfascista non declassare il suo interlocutore di pelle nera? Da ultimo, il paladino degli stranieri è stato avvistato al porto di Catania intento a monitorare le condizioni dei naufraghi bloccati sulla nave Humanity 1. I suoi social ospitano una piccola galleria di pose pugnaci e accigliate, financo in compagnia di papa Bergoglio (in questo caso, però, con un sorriso aperto di soddisfazione). 

UNA VITA DI DENUNCIA

Ma tutta la sua biografia è un manifesto programmatico di dolente denuncia radicata nella precarietà dell'esistenza grama. Sicché non deve stupire che il suo contrattacco sia intonato all'idea di poter guardare con fierezza negli occhi, «quando giungerà la mia ora di lasciare la terra», tutti coloro che hanno creduto nella sua «buona battaglia». È il grido di dolore del sans-papier avvezzo agli scioperi della fame contro il caporalato, del macroscopico "invisibile" che s' incatenò ai cancelli di Villa Pamphilj durante gli Stati generali della vanità pandemica organizzati da Giuseppe Conte... Il Giuseppe Di Vittorio africano che, proprio no, non ci sta a passare per un ipocrita Zio Tom circondato da schiaviste.

Verso la manovra: le indiscrezioni vi convincono? 

Il Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini entra ai gruppi della Camera per la riunione sull'immigrazione a cui hanno partecipato tra gli altri la Premier Meloni e il Vicepremier e Ministro degli Esteri Tajani e il Ministro della Difesa Crosetto. 

Il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi va via dai gruppi della Camera dopo la riunione sull'immigrazione a cui hanno partecipato tra gli altri la Premier Meloni, Matteo Salvini Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Vicepremier e Ministro degli Esteri Tajani e il Ministro della Difesa Crosetto.

Soumahoro, "neanche i cani": cos'hanno trovato nelle coop. Libero Quotidiano il 22 novembre 2022

La posizione di Aboubakar Soumahoro vacilla. Il deputato di Alleanza Verdi Sinistra italiana è al centro della cronaca, politica e giudiziario. Le cooperative di moglie e suocera sono sotto la lente di ingrandimento della Procura di Latina. Le accuse sono delle più pesanti se si considera che il sindacalista si è presentato come il difensore dei diritti dei più deboli. Karibu e il consorzio Aid sono state denunciate per presunte irregolarità nei pagamenti degli stipendi e per aver fatto lavorare alcuni lavoratori in condizioni pessime. 

Quanto basta a sollevare il polverone fuori e dentro il suo partito. "Ho commesso questa leggerezza", sarebbe stato lo sfogo riportato dal Corriere della Sera del co-portavoce Europa Verde, Angelo Bonelli. È stato lui infatti a spingere per una sua candidatura. Ma non è tutto, perché a dire la sua ci pensa anche l'ex senatrice di Sinistra Italiana, Elena Fattori, che nel 2019 fece un sopralluogo nelle due cooperative al centro dell'indagine della procura di Latina. Si tratta di posti "indecenti, al limite del fatiscente dove non ospiterei neanche i cani" afferma Fattori. 

A peggiorare la già grave situazione di Soumahoro e famiglia alcune foto. Mentre il deputo piangeva a favor di social network spiegando che la moglie era attualmente disoccupata, Liliane Murekatete pubblicava scatti con tanto di borse e occhiali di lusso in hotel pluristellati. Quanto basta a farle guadagnare a Latina il nomignolo di Lady Gucci. Intanto si respira un clima tesissimo tra Verdi-Sinistra e il deputato, tanto che stando a diverse indiscrezioni domani Soumahoro dovrebbe essere convocato per un chiarimento.

Soumahoro e gli stivali: "Non sono suoi, deve ridarmeli", bomba-Striscia. Libero Quotidiano il 22 novembre 2022

Striscia la Notizia vuole far luce sul caso che sta travolgendo Aboubakar Soumahoro. Il neodeputato di Alleanza Verdi e Sinistra è al centro della cronaca per le cooperative di moglie e suocera. Queste ultime sono state accusate da alcuni lavoratori di non aver pagato diversi stipendi e di aver fatto lavorare loro in condizioni pessime. E così il tg satirico in onda su Canale 5 nella puntata di martedì 22 ottobre ha raggiunto Soumaila Sambare, ex socio dell'attuale parlamentare.

È lui a parlare di Soumahoro con Pinuccio: "Durante la pandemia con la Lega Braccianti abbiamo raccolto circa 250mila euro di fondi per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti", riferisce. I due, infatti, avevano dato vita all'ente a tutela dello sfruttamento delle maestranze che lavoravano nei campi. "Circa 60-70mila sono stati effettivamente spesi, ma quando abbiamo chiesto ad Aboubakar i resoconti delle rimanenze siamo stati fatti fuori". Che fine hanno fatto dunque gli altri soldi?

Ma non finisce qui, perché Sambare si scaglia contro l'ex socio con il quale ci sarebbe un'altra contesa. "I famosi stivali che Aboubakar ha indossato in Parlamento - conclude al vetriolo - glieli ho comprati io. Lui adesso è un signore: me li può restituire? A me sì che servono per andare a lavorare".

Da liberoquotidiano.it il 23 novembre 2022.

Striscia la Notizia vuole far luce sul caso che sta travolgendo Aboubakar Soumahoro. Il neodeputato di Alleanza Verdi e Sinistra è al centro della cronaca per le cooperative di moglie e suocera. Queste ultime sono state accusate da alcuni lavoratori di non aver pagato diversi stipendi e di aver fatto lavorare loro in condizioni pessime. E così il tg satirico in onda su Canale 5 nella puntata di martedì 22 ottobre ha raggiunto Soumaila Sambare, ex socio dell'attuale parlamentare.

È lui a parlare di Soumahoro con Pinuccio: "Durante la pandemia con la Lega Braccianti abbiamo raccolto circa 250mila euro di fondi per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti", riferisce. I due, infatti, avevano dato vita all'ente a tutela dello sfruttamento delle maestranze che lavoravano nei campi. "Circa 60-70mila sono stati effettivamente spesi, ma quando abbiamo chiesto ad Aboubakar i resoconti delle rimanenze siamo stati fatti fuori". Che fine hanno fatto dunque gli altri soldi?

Ma non finisce qui, perché Sambare si scaglia contro l'ex socio con il quale ci sarebbe un'altra contesa. "I famosi stivali che Aboubakar ha indossato in Parlamento - conclude al vetriolo - glieli ho comprati io. Lui adesso è un signore: me li può restituire? A me sì che servono per andare a lavorare".

Soumahoro, alle coop di moglie, suocera e cognata oltre mezzo milione per i rifugiati ucraini. Dario Martini su Il Tempo il 23 novembre 2022

Non pagavano più gli stipendi ai lavoratori delle coop attive nell'accoglienza dei migranti, ma nello stesso tempo partecipavano e vincevano i bandi della Regione Lazio per assistere i rifugiati ucraini. Più di mezzo milione di euro, per la precisione 557mila euro, aggiudicati a giugno scorso e volti a finanziare i progetti delle società che fanno capo a suocera, cognata e moglie di Aboubakar Soumahoro, parlamentare dell'Alleanza Verdi Sinistra. Tutto ciò mentre le buste paga arretrate ammontavano a circa 400mila euro, come denunciato dagli stessi dipendenti al sindacato Uiltucs.

La prima approvazione regionale risale al 6 aprile scorso, quarantuno giorni dopo l'invasione russa dell'Ucraina. Nell'elenco dei progetti ammessi al finanziamento - come si legge nei documenti pubblicati dalla Regione - compare anche quello presentato dalla coop Karibu, di cui è amministratrice la suocera di Soumahoro, Marie Therese Mukamitsindo, e in cui compare come consigliera d'amministrazione la moglie Liliane Murekatete.

Il progetto si chiama I.C.A.R.U.S., «Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa». Importo: 259mila euro. L'altro progetto ammesso è quello del Consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti), di cui è presidente la cognata del deputato, Aline Mutesi, e consigliera Mukamitsindo. Si chiama B.U.S.S.O.L.A., «Bisogni degli ucraini per il sostegno socio-lavorativo», per un finanziamento di 298,300,48 euro. I due progetti in questione sono stati approvati definitivamente con determinazione regionale del 3 giugno. Il giorno seguente ne ha dato annuncio il Comune di Latina, dove hanno sede le due cooperative. Anche altre due società, Ninfea e Il Quadrifoglio, che nulla hanno a che vedere con la famiglia Soumahoro, sono riuscite ad aggiudicarsi i finanziamenti regionali. Come ricordava l'amministrazione del capoluogo pontino, l'iniziativa era volta «alla realizzazione di interventi e di reti per la presa in carico e l'inclusione socio-lavorativa della popolazione ucraina sul territorio della Regione Lazio». «Auspichiamo che tali interventi - dichiarava la vicesindaca e assessora al Welfare Francesca Pierleoni - permettano ai rifugiati accolti sul nostro territorio di essere rapidamente autonomi, perché la dignità e la speranza che si riacquista con il lavoro è impagabile. Oggi queste persone hanno bisogno di essere sostenute per credere in un futuro possibile di pace e di sviluppo». I progetti di integrazione dei rifugiati ucraini si svolgono in viale Corbusier, al centro direzionale di Latina, dove si trovano, appunto, sia la coop Karibu che il consorzio Aid. E dove ha una sede anche la Lega dei braccianti, il sindacato che fa capo a Soumahoro. Stesso indirizzo, stesso numero civico, stessi uffici al piano terra. Come ha detto recentemente la suocera, «è una sede come tante altre, Aboubakar non ci veniva mai, ci ha messo un ragazzo per fare campagne di sensibilizzazione sui braccianti sfruttati».

Il parlamentare, è bene ricordarlo, non è indagato e non ha ruoli né in Karibu né in Aid. Lo ha ribadito lui stesso in un video pubblicato su Facebook tre giorni fa, con cui si è scagliato contro i suoi accusatori: «Mi volete morto - ha detto piangendo - mi volete distruggere, pensate di seppellirmi ma non ci riuscirete. Mi dite cosa vi ho fatto? È da una vita che lotto per i diritti delle persone». Il suo stesso partito, però, si interroga se sapesse delle presunte malsane condizioni dei centri denunciate dai migranti e degli stipendi non pagati su cui indaga la Procura di Latina.

Dimartedì, Sallusti spiana Soumahoro: come un personaggio di Checco Zalone. Il Tempo il 22 novembre 2022

La vicenda di Aboubakar Soumahoro è sui generis, con il sindacalista eletto alla Camera dei deputati con Sinistra Italiana che passa dal pianto alle accuse alla stampa, senza spiegare davvero cosa è successo nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie, e finite nell'inchiesta della procura di Latina (dove il suo nome non compare). Ma la storia è anche tipica di certi "innamoramenti" della sinistra che spesso finiscono, sempre per stare sul fil di metafora, con cuori spezzati e tradimenti. Alessandro Sallusti è ospite di Giovanni Floris a Dimartedì e spiega come la figura di Soumahoro stia diventando giorno dopo giorno sempre più simile a un "personaggio di un film di Checco Zalone". "Anche nella fisionomia", dice il direttore di Libero mentre scorrono le immagini del pianto sui social del sindacalista "con gli stivali sporchi di fango". 

"Sta rendendo ridicolo un problema serissimo", tanto che "avrebbe bisogno di un consulente mediatico. Anche perché non spiega" nulla nelle sue dichiarazioni, ricorda Sallusti. "La moglie va in giro vestita Prada e Luis Vuitton ma non paga i dipendenti, fatti una domanda e datti una risposta" è la stoccata nella puntata di martedì 22 novembre. 

Ma la vicenda mette in luce anche un altro aspetto, ossia "che la sinistra cade in facili infatuazioni, si innamora di personaggi senza verificare" se le aspettative corrispondano alla realtà.  "È successo col sindaco di Locri e con certi comandanti di navi di Ong" afferma il giornalista. In studio c'è Gianrico Carofiglio, scrittore, che ricorda come in certi casi bisognerebbe limitarsi a dire di essere fiduciosi nei confronti della magistratura e di voler chiarire tutto. "Non ho apprezzato la comunicazione di Soumahoro in cui c'è un vittimismo che si collega a un concetto inglese, entitlement, come se si venisse privati di una cosa che spetta di diritto a sé e non agli altri". 

Soumahoro, Sallusti: "Perché lo scandalo della moglie non mi stupisce". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 18 novembre 2022.

Maltrattamenti, privazioni, persone sottopagate o addirittura non pagate, soldi pubblici ricevuti ma gestit iin modo opaco. Aboubakar Soumahoro, il neo deputato del centro sinistra paladino dei diritti degli immigrati, prima di salvare il mondo mi sa che dovrà provare a salvare la sua famiglia e se stesso. Moglie e suocera sono infatti finite al centro di una inchiesta giudiziaria sulla gestione delle loro cooperative di Latina che si occupano di dare lavoro agli immigrati, una brutta storia di presunti abusi, vessazioni e fatture false ancora tutta da chiarire. Come andrà a finire lo vedremo ma già oggi, date le testimonianze raccolte dai pm, si può dire che nella migliore delle ipotesi in quella famiglia – personale e politica – si predica bene ma certamente si razzola male.

Detto che il deputato anti Piantedosi non è coinvolto, c’è da chiedersi come c’è da credergli quando dice di voler controllare le politiche migratorie del nuovo governo se non è neppure in grado di controllare moglie e suocera. La cosa non mi stupisce, sia vedendo il soggetto in questione sia perché uno dei tanti non detti riguarda proprio il grande business della gestione degli immigrati che è quanto di più opaco e infiltrato da gente senza scrupoli ci sia oggi sul mercato. Lo è dalla sua origine – le milizie libiche che gestiscono il traffico e riciclano i proventi in armi e droga – e per tutta la filiera della gestione dell’emergenza prima e dell’accoglienza poi. Clamorosa, nel 2021, fu la condanna in primo grado a 13 anni di carcere per truffa, peculato, falso e abuso di ufficio di Mimmo Lucano, sindaco di Locri che con il suo modello di accoglienza spregiudicato era diventato anche lui un idolo della sinistra.

Ecco, invece che pontificare ogni giorno contro chi vorrebbe mettere un po’ di ordine in tutta la faccenda, invece che insultare – vedi il “bastardi” di Saviano – e accusare di razzismo e cinismo Giorgia Meloni e Matteo Salvini la sinistra bene farebbe a guardare in faccia la realtà e a fare pulizia in casa sua. Continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto del buonismo non giova né agli immigrati né all’Italia.

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2022.

"K Mare 2018". Laddove 2018 è l'anno di lancio della collezione di costumi, parvi e kaftani proprio alla vigilia della stagione estiva. Stilista d'eccezione: Liliane Murekatete, la moglie di Aboubakar Soumahoro, fresca di nomina come consigliere della cooperativa sociale Karibu, impegnata nei sevizi di accoglienza dei migranti nella provincia di Latina. 

Quella stessa Karibu che oggi, insieme al Consorzio Aid, dove risultano amministratori la cognata e la suocera del deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana (estraneo ai fatti), è sotto «accertamenti» da parte della procura di Latina per presunte irregolarità gestionali.

Ebbene Liliane, quando viene chiamata nel Cda della società, lancia l'idea di una linea di moda realizzata dai richiedenti asilo della sua Coop. Una sorta di «made in Italy africano», riferirono all'epoca le cronache, che se da una parte ebbe il merito di favorire l'integrazione dei richiedenti asilo e degli altri ospiti della struttura, dall'altra suscitò polemiche per le modalità scelte da Liliane per la presentazione dell'iniziativa. 

Con tanto di sfilata per il casting per la selezione dei modelli chiamati a indossare i capi di abbigliamento. In una foto si vede lady Soumahoro al tavolo della giuria che dà i voti alle modelle. CasaPound affisse uno striscione - «Per una moda che ti veste ce n'è una che ti spoglia», - e attaccò Karibu, «questa cooperativa che riesce in un colpo solo a coniugare il più spregevole consumismo con un business di finta solidarietà».

Il movimento politico denunciò le iniziative fashion della Coop, «sponsorizzate su Facebook da foto piene di marche costose utilizzate dalla presidente». 

Liliane contrattaccò con queste parole: «Non prendo soldi da questa Coop, ma ho avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono potuta permettere abiti firmati. Siccome sono una donna di colore non li posso indossare?». Fatto sta che è in quel momento che in rete iniziano a circolare le foto di lady Soumahoro circondata dalle griffe. 

Nel passato di Liliane, che su Repubblica rivendica il ruolo di «rappresentante della presidenza del Consiglio per l’Africa, con Prodi e Berlusconi» (dal 2004 al 2011), c’è anche la partecipazione in una società che con la gestione dei migranti non c’entra nulla: la Venere the Weeding planer s.n.c., avete per missione «l’organizzazione in proprio o con l’ausilio di terzi di cerimonie, convegni, matrimoni e manifestazioni».

Nella società, costituita il 21 giugno 2002, è presente un secondo amministratore, Fabiana Rossi. Tuttavia al momento, come emerge dalla visura storica effettuata presso la camera di commercio di Frosinone e Latina, risulta «inattiva». Qualcuno, però, dietro assicurazione di anonimato, la ricorda: «La utilizzavano per le cerimonie in ambito istituzionale, per gli eventi nei Comuni». 

Altra circostanza: la Lega dei braccianti, fondata da Soumahoro il 12 agosto 2020 in concomitanza con l’anniversario della nascita di Giuseppe Di Vittorio, ha una propria sede anche a Latina. Nello stesso stabile che ospita la cooperativa Karibu.

La Uiltucs, il sindacato che ha raccolto le denunce dei lavoratori delle Coop per il mancato pagamento degli stipendi - nonché le segnalazioni dei minori per le cattive condizioni dei centri di accoglienza -, alla luce di quanto sta avvenendo è pronto a chiedere un «incontro ufficiale, con tutte le parti, al prefetto di Latina. Vogliamo un tavolo permanente», spiega il segretario provinciale, Gianfranco Cartisano, «perché vogliamo regolarizzare la posizione di tutti gli altri lavoratori che si sono rivolti a noi». 

In tutto sono 26 i dipendenti delle due Coop che hanno denunciato il mancato pagamento delle spettanze. Di quattro di questi, grazie a una «sostituzione alla procedura di pagamento» operata proprio dalla prefettura, la situazione è stata sanata. «Ne mancano altri 22», fa di conto Cartisano, lavoratori «in capo a ministero dell’Interno, Regione Lazio, Comuni aderenti al progetto Sprar e alle case per i minori».

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per “La Verità” il 22 novembre 2022.

L'inchiesta della Procura di Latina sulla cooperativa Karibu e sul consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti) prosegue e si sta concentrando sul consiglio di amministrazione della coop in gravi difficoltà economiche, nonostante solo nel 2021 abbia incassato 2,5 milioni di euro di commesse dalle pubbliche amministrazioni. 

Domenica il parlamentare dell'Alleanza verdi e sinistra Aboubakar Soumahoro ha dichiarato sui social: «Mia moglie attualmente è disoccupata, è iscritta all'Inps, non possiede allo stato attuale nessuna cooperativa». E ha aggiunto: «Parlate con mia suocera chiedete a lei che è proprietaria della sua coop».

E quando David Parenzo gli ha fatto notare che la compagna risulterebbe ancora dentro al Cda di Karibu, il parlamentare ha svicolato. In effetti alla Camera di commercio Liliane Murekatete è indicata come consigliere di amministrazione in carica, al pari del trentasettenne ruandese Michel Rukundo, consigliere in entrambe le società sotto inchiesta. 

Anche quest' ultimo farebbe parte della famiglia: «Sin dal primo giorno Rukundo si è presentato a noi dichiarandosi rappresentante dell'azienda e figlio della presidente Marie Therese. Un'altra sorella, Aline Mutesi, è, invece, presidente del consorzio Aid» ci ha spiegato Gianfranco Cartisano, il sindacalista della Uil Tucs che ha fatto esplodere il caso della Karibu portando avanti le vertenze di 26 lavoratori che reclamavano retribuzioni non corrisposte da mesi per 400.000 euro.

In realtà già dal 2019 la Procura di Latina, guidata da Giuseppe de Falco, aveva avviato un'inchiesta sulle attività della coop e del consorzio. Inizialmente il fascicolo era in mano alla polizia di Stato che era stata coinvolta per un'ipotesi di sfruttamento dopo un accesso degli ispettori del Lavoro di Latina, ufficio oggi guidato da Anna Maria Miraglia.

Dopo alcuni mesi l'indagine è stata trasferita alla Guardia di finanza che ha iniziato ad approfondire la pista dell'utilizzo dei fondi pubblici che la cooperativa incassa per la gestione dei migranti.

E così agli indagati (sono più di uno) è stata contestata la malversazione di pubbliche erogazioni. Gli accertamenti si sono concentrati sugli amministratori di fatto e di diritto della Karibu e quindi sull'intero Cda che comprende la presidente Mukamitsindo e, come detto, i suoi due figli. 

Alla Verità risulta che inizialmente al centro delle indagini ci fossero solo la madre e il figlio, particolarmente coinvolto nella gestione delle attività (per esempio guida un pullmino per il trasporto dei minori). Ma più recentemente l'attenzione è stata spostata anche su Liliane.

E la decisione non deve sorprendere. Infatti nell'ultima assemblea della Karibu, indetta lo scorso 30 agosto per l'approvazione del bilancio, c'erano solo due nomi scritti nero su bianco: quella della Mukamitsindo e della figlia, «chiamata a fungere da segretario».

Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e che dopo «una breve, ma approfondita discussione» l'assemblea dei soci ha deliberato «all'unanimità di approvare il bilancio». 

In quell'incontro, in cui erano presenti «il consiglio di amministrazione al completo» e un numero indefinito di soci non identificati, è stato stabilito di «coprire la perdita mediante l'utilizzo della riserva legale e per la restante parte mediante la rinuncia dei soci ai versamenti infruttiferi». Nel verbale si legge anche che «l'esercizio evidenzia un utile di 175.631 euro al netto di imposte di competenza per euro 26.325 euro». Ma nonostante questo la situazione è tutt' altro che rosea. 

«La cooperativa Karibu negli ultimi anni ha contratto di molto il proprio fatturato predisponendo un corrispondente piano programmatico che prevedesse contestualmente la riduzione dei costi fissi, riduzione dell'organico; progressiva riduzione dei debiti prevalentemente erariali e nei confronti dei collaboratori» hanno messo per iscritto Marie Therese e Liliane. 

Nella nota integrativa del bilancio è puntualizzato: «L'anno 2021 ha visto un cambiamento nell'ambito lavorativo specifico della cooperativa. I progetti in essere per l'assistenza agli immigrati sono stati quasi tutti messi da parte all'infuori della categoria minori e si è cercato di avviare nuovi progetti sia con la Regione Lazio che con l'ente LazioCrea».

E anche se nel 2021 si parla di 2,5 milioni di euro di incassi da clienti e di 227.000 euro ricevuti a fondo perduto per l'emergenza Covid, nei conti della Karibu non mancano le note dolenti. Per capirlo basta scorrere il bilancio. 

Le voci passive più significative sono sostanzialmente quattro: debiti verso le banche (437.000 euro), verso i fornitori (207.000), debiti tributari (1.050.000 euro) e previdenziali (107.000). 

I «buffi» ammontano in tutto a 2.060.000 euro e lo stato patrimoniale è pressoché azzerato. Un quadro che gli organi di vigilanza del ministero delle Imprese e del made in Italy considerano molto preoccupante.

Ma nonostante questo sono stati segnati a bilancio 865.930 euro come spesa per il personale e 392.801 come costo delle prestazioni lavorative dei soci. Oltre 100.000 sono toccati alla presidente, mentre il figlio Rukundo nel 2021 ha incassato circa 50.000 euro dalla coop e 15.000 dal consorzio; nel 2020 80.000 in tutto e circa 100.000 l'anno prima.

Emolumenti fuori target per una cooperativa sociale in difficoltà, ma che, secondo un ex consulente della coop, venivano decisi dal cda e non dall'assemblea dei soci. 

In conclusione per Soumahoro la compagna «attualmente è una disoccupata», ma, almeno sino a pochi giorni fa, faceva parte di un consiglio di amministrazione che, ancora nel 2021, distribuiva emolumenti che oscillavano tra i 50.000 e i 100.000 euro l'anno. Ieri abbiamo provato a chiedere a Liliane a quanto ammontasse il suo gettone, ma non siamo riusciti a metterci in contatto con la donna. 

Adesso la Procura dovrà verificare se fosse tutto in regola. Anche il ministero delle Imprese e del made in Italy sta facendo i suoi controlli. Oggi gli ispettori inviati da Adolfo Urso dovrebbero entrare ufficialmente nella sede delle ditte sotto i riflettori, al centro commerciale Latinafiori. Uffici condivisi con la Lega braccianti di Soumahoro, che, però, sostiene di non sapere nulla delle attività delle sue affini.

Un giro d'affari milionario nella coop di famiglia. La suocera sotto indagine. Bianca Leonardi su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, è indagata dalla procura di Latina. E adesso per l'onorevole si mette male.

Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, è indagata dalla procura di Latina. E adesso per l'onorevole si mette male. Anche se lui si dichiara estraneo, ormai è coinvolta tutta la famiglia che, come ironizza Bechis è «povera ma con villa a Casal Palocco». Il deputato, infatti, nello scorso luglio - quando ancora non era in Parlamento - avrebbe aperto un mutuo di 250mila euro intestato per metà a lui e per metà alla moglie. Quella moglie nullatenente di cui parla lui stesso nel video in lacrime. Un mutuo trentennale per una villa da 450mila euro.

La domanda resta sempre la stessa: da dove arriva tutto quel denaro? Sicuramente guardando i bilanci delle due coop, Karibu e Aid - che Il Giornale ha consultato nonostante non siano pubblici anche se la legge lo impone, trattandosi di enti del terzo settore - è chiaro che il giro di soldi fosse molto alto, soprattutto grazie ai finanziamenti delle pubbliche amministrazioni. Al 31 dicembre 2020 il Consorzio Aid, presieduto dalla cognata di Soumahoro, ha rendicontato ben 1 milione e 165 mila euro solo dalla Prefettura di Latina che bonificava all'azienda somme mensili dai 70 ai 107 mila euro per la gestione dei servizi di accoglienza migranti e richiedenti asilo.

Il Comune di Latina, invece, ha erogato una sola somma nello stesso anno pari a 10mila euro, accompagnati però da bonus fiscali dal Mise, un contributo a fondo perduto di circa 35mila euro e - ciliegina sulla torta - 480 euro di bonus affitto. Per quanto riguarda la Karibu invece si parla - al 2020 - di ben più di 2 milioni di euro di debiti, tra cui 590mila euro da saldare alle banche e 774mila circa di tasse.

Il 2021 invece si chiude negativamente per 175 mila euro circa ma, si legge ancora nel bilancio, sul costo totale del personale, circa 866mila euro, più del 45% e cioè circa 393mila euro, sono destinati ai soci. Motivo per cui, probabilmente, i dipendenti aspettano ancora lo stipendio. Bugie anche da parte della suocera Mukamitsindo. Se a Repubblica ha dichiarato di «non dormire la notte» perché ha dovuto licenziare alcuni dipendenti e metterne altri in cassa integrazione, sulla nota integrativa del bilancio in nostro possesso - a sua firma - si legge: «Non si è potuto licenziare il personale non necessario, né tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione». Da qui la decisione di «intraprendere nuovi progetti». Quei nuovi progetti che, probabilmente, si traducono nel bando della Regione Lazio - lo scorso aprile - per il soccorso ai profughi ucraini. Intascati da Karibu 259 mila euro e 289 mila da Aid.

Su ciò la Gdf, come riporta Domani, ha scoperto che soldi della Karibu finivano su un conto africano riferibile a Richard Mutangana, cognato di Soumahoro. L'uomo avrebbe lavorato alla coop per circa 1000 euro al mese, fa sapere la madre Mukamitsindo, sufficienti però a mettere in piedi un resort in Ruanda, dove ora vive. E se è vero che Soumahoro si dichiara estraneo ai fatti è vero anche che la sede legale Aid in Lazio è la stessa della sua Lega Braccianti, protagonista di una seconda raccolta fondi fuffa in Puglia. I 16mila euro per i regali di Natale dei bambini del ghetto vengono subito smentiti da Francesco Mirarchi, coordinatore di Anolf, associazione che gestisce la foresteria di Torretta Antonacci. «Qui non ci sono bambini, nei ghetti ci sono uomini braccianti e pochissime donne», ci racconta. E sempre Torretta Antonacci è lo sfondo di un'aggressione nei confronti di Mohammed Elmajidi, presidente Anolf che dichiara: «Sono stato aggredito il primo giorno che sono arrivato al ghetto, ho riconosciuto alcuni ed erano Usb e Lega Braccianti».

Sulla denuncia che ha presentato, di cui siamo in possesso, compaiono infatti proprio i nomi dei responsabili del ghetto nominati dall'ex sindacalista: Sambarè Soumaila, Balde Mamadoue e Berre Alpha. «Non so più niente di quella denuncia, nessuno mi ha fatto sapere gli sviluppi», conclude Elmajidi. Molte le denunce, infatti, che sono rimaste nel cassetto ma su ciò il Procuratore Capo di Foggia, Ludovico Vaccaro dichiara: «Portiamo avanti decine e decine di inchieste, alcune le abbiamo concluse mentre su altre sono in corso le indagini».

Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia per “Domani” il 23 novembre 2022.

La vicenda giudiziaria che ha travolto la famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro, eletto alla Camera dall’Alleanza Verdi e Sinistra, è solo all’inizio. Le indagini della Guardia di Finanza sulle due cooperative Karibu e Consorzio Aid, gestite dalla suocera del parlamentare Marie Therese Mukamitsindo e dalla moglie Liliane Murekatete, hanno finora mappato solo i finanziamenti pubblici per milioni ottenuti dal 2018 al 2020, per capire se sono stati spesi o meno secondo le regole. 

Ora i militari dovranno setacciare pure bonifici, entrate e uscite degli ultimi due anni durante i quali il conto economico delle attività di famiglia è precipitato, provocando la crisi che ha portato 26 lavoratori a cui non venivano pagati gli stipendi per 400mila euro («è colpa degli enti che a loro volta sono indietro con le erogazioni», risponde Mukamitsindo) a rivolgersi al sindacato UilTucs, che ha fatto scoppiare il caso sui giornali.

Come ha anticipato La Verità, indagata da tempo con l’ipotesi di malversazione è per ora la suocera del deputato, presidente del cda della Karibu. Ma gli inquirenti stanno vagliando altre posizioni, per capire eventuali illeciti di altri consiglieri (anche la moglie di Soumahoro sedeva nel cda) e soggetti che hanno gestito negli anni le realtà no profit. Come Richard Mutangana, altro figlio della fondatrice e cognato di Soumahoro. Mutangana si presentava come direttore dei progetti della Karibu, coop specializzata in progetti per l’accoglienza dei richiedenti asilo sul territorio pontino. 

Quello del fratello della moglie del deputato è un nome che ricorre spesso nelle carte della Gdf di Latina, che ha analizzato i conti della Karibu ed enti satelliti. Scoprendo che denari pubblici finivano anche su un conto in Ruanda, riferibile a Mutangana (che ad oggi non risulta indagato), e che oltre a lavorare nella cooperativa aveva messo in piedi in Africa altre attività.

Nel suo profilo LinkedIn l’uomo risulta manager dell’associazione Jambo Africa, che si occupa di promozione sociale, ma gli ex dipendenti di Karibu - sentiti da Domani - ricordano anche altre iniziative. «Nel 2018 eravamo già in forte difficoltà. La coop ritardava i pagamenti, e alcuni colleghi non riuscivano a pagare più nemmeno le rate dell’auto. A luglio Liliane Murekatete conosce Soumahoro durante un’iniziativa pubblica. Cercammo di approfittarne per parlargli della nostra situazione, ma non ne abbiamo avuto la possibilità. Proprio in quell’anno, però, scopriamo che Mutangana aveva aperto un ristorante a Kigali, in Ruanda», dice un’ex dipendente.

Su Tripadvisor esiste un ristorante a Kigali che si chiama “Gusto italiano”: è proprio il fratello di Liliane a caricare le foto delle prelibatezze preparate dagli chef, come il filetto di pesce agli spinaci e il pollo arrostito, e a mostrare le immagini della piscina. «Ottimo ristorante, adatto anche ad eleganti aperitivi all’aperto, personale gentile ed accogliente e la miglior pizza di Kigali», si legge in una recensione. Tra chi ha messo like sul profilo del resort ci sono anche alcuni ex dipendenti della Karibu. 

Al numero di telefono del ristorante non risponde nessuno, e inutili sono stati anche i tentativi di contattare il titolare via social. Domani voleva chiedere della decisione di occuparsi di un locale in Ruanda mentre era dipendente della Karibu, e il perché dei denari accreditati dalla cooperativa su un conto africano a lui riferibile.

Sappiamo, però, che Mutangana è pure il manager di Kiwundo Entertainment, una realtà che organizza serate live, karaoke, concerti e visione di partite di calcio nell’ampio giardino del ristorante ruandese. Il primo post caricato sui social risale al luglio 2018. In un video dell’agosto 2019 viene presentata una serata con lo slogan «Don’t miss», non perdertela. Nel video gli ospiti ballano in piscina, una coppia si diletta a bordo vasca e i camerieri portano delizie ai tavoli. 

Al tempo la notizia dell’apertura del ristorante del figlio della presidentessa non piacque a chi non riusciva a ottenere il pagamento degli stipendi dalla Karibu. «Noi non vedevamo un soldo, mentre veniva aperto un locale dall’altra parte del mondo», conclude l’ex dipendente. 

Abbiamo provato a chiedere alla moglie di Soumahoro se il fratello incassasse bonifici in Africa come pagamento dello stipendio per il suo lavoro in cooperativa, o se i bonifici fossero di altra natura. «Non faccio più parte della Karibu. Sarebbe opportuno rivolgersi direttamente alla legale rappresentante, la dottoressa Marie Terese Mukamitsindo (la madre, ndr) per tutti i chiarimenti», ci scrive Murekatete, che dalle visure camerali risulta però ancora consigliera di Karibu.

La suocera di Soumahoro, contattata, invece spiega: «Mutangana è mio figlio ma non ha ruoli direttivi nella Karibu. Richard ha lavorato come un dipendente normale nella nostra cooperativa, si occupava di informatica per il nostro server: il suo impegno è durato tre anni», dice Mukamitsindo. Però in varie interviste Mutangana si presentava come direttore dei progetti. 

In merito al ristorante aperto in Ruanda, invece, la donna chiarisce: «Mio figlio ha aperto quel ristorante con la moglie chiedendo un prestito in banca. È tutto tracciabile, penso lo abbia aperto forse anche prima del 2018». Poi segnala anche un progetto, finanziato con i soldi della cooperazione, che il figlio ha seguito in Ruanda per Karibu. Ma quanti soldi in tutto la cooperativa di Latina ha bonificato a suo figlio? «Non ricordo, non ho le carte davanti. Lui prendeva uno stipendio sui mille euro e qualcosa al mese. E poi c’è quel progetto di cui le ho parlato». Altri dettagli non vengono dati ai cronisti, ma può darsi che il direttore-ristoratore Mutangana abbia avuto soldi dalla Karibu del tutto lecitamente. Si vedrà dalle indagini della finanza.

La polemica politica su Soumahoro, invece, non accenna a placarsi. Finora il deputato, diventato negli ultimi anni simbolo della lotta dei braccianti, ha spiegato che lui non solo non c’entra nulla con l’inchiesta penale (fatto vero), ma che non ha nulla a che fare nemmeno con le coop di famiglia. 

Le questioni più rilevanti per il deputato esulano però dalle strette vicende giudiziarie. Se Soumahoro rischia di vedere la sua immagine appannata per via di un oggettivo conflitto d’interessi (le sue battaglie sui migranti e sull’accoglienza insistono proprio su quello che è anche un business della sua famiglia), è un fatto che a Latina la sede della Lega Braccianti da lui fondata coincide con quella del Consorzio Aid («poteva davvero non sapere?», si chiedono in molti). Mentre le foto con borse e capi firmati postate dalla moglie rischiano di oscurare l’iconica fotografia dell’ex sindacalista che entra in parlamento con gli stivali da lavoro e il pugno chiuso alzato.

Senza parlare del fuoco amico del suo partito («deve chiarire»), di quello dell’ex senatrice di Sinistra italiana Elena Fattori («in quelle coop non avrei ospitato nemmeno i cani», ha detto a Domani dopo averle visitate). Secondo alcuni preti della Caritas, poi, il deputato è soltanto uno «che viene da fuori, urla, fa i selfie e magari costruisce una carriera politica». Al netto degli esiti dell’inchiesta penale sulla suocera e la Karibu, politicamente il danno è insomma già fatto, e – nonostante sia Soumahoro un combattente - non sarà facile rimediare.

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per la Verità il 23 novembre 2022.

La verifica degli ispettori del ministero dell'Imprese e del Made in Italy è iniziata e finita in pochi minuti. Davanti alla porta sbarrata della sede legale della cooperativa Karibu, la coop dei familiari del deputato dell'Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. Nelle prossime ore gli 007 di via Veneto si recheranno anche presso il quartier generale del consorzio Aid (Agenzia per l'inclusione e i diritti), ma considerato come è andata la prima visita le premesse non sono delle migliori. 

La sede chiusa si trova a Sezze (Latina), città che la leggenda vuole fondata da Ercole. Il piccolo centro storico è attraversato da corso Umberto e al civico 106 c'è una saracinesca abbassata. Sulla cassetta della posta nera c'è un'etichetta strappata su cui restano poche lettere («soc. c»). Ieri sulla cittadina pioveva a dirotto e chi scrive è stato costretto a cercare riparo mentre la strada si trasformava in un torrente. Gli ispettori son passati negli stessi minuti e hanno dovuto prendere atto di trovarsi davanti a una sede inattiva. Motivo sufficiente alla divisione ministeriale incaricata della vigilanza sulle cooperative per chiederne lo scioglimento. 

Vedremo se andrà così. Nel frattempo il destino sembra segnato per l'altra creatura degli affini di Soumahoro, il consorzio Aid. Una notizia che abbiamo raccolto all'interno di Confcooperative, l'associazione delle cosiddette cooperative bianche.

Il 17 marzo 2022 la funzionaria Loretta Mobilia ha firmato una relazione di mancata revisione del consorzio Aid. 

Una prassi normale, visto che tutte le organizzazioni di questo tipo, periodicamente, effettuano ispezioni ordinarie per verificare che le coop associate siano in regola.

Ma la Mobilia avrebbe tentato inutilmente di prendere contatti, «per le vie brevi», con il legale rappresentante dell'Aid. Stiamo parlando della presidente, Aline Mutesi, sorella di Liliane, la compagna di Soumahoro. La donna, nata nel 1989 in Ruanda, per il suo incarico, nel 2021, avrebbe percepito un reddito di poco più di 40.000 euro. Gli altri due consiglieri sono la madre, Marie Therese, e il fratello Michel.

Ma torniamo alla procedura di Confcooperative. In assenza di riscontri, la Mobilia avrebbe inviato una Pec, regolarmente consegnata, per informare il consorzio della revisione in corso. Successivamente sono state esaminate la visura storica e l'ultimo bilancio da cui emerge che «la cooperativa risulta attiva, le cariche sono regolari, ma il bilancio 2020 non risulta depositato». A questo punto la funzionaria è riuscita a parlare con la Mutesi per informarla della documentazione che era necessario predisporre. Ma l'imprenditrice africana non si sarebbe più fatta sentire. Per questo, otto mesi fa, Confcooperative ha avviato l'istanza di «scioglimento per atto dell'autorità con nomina di un liquidatore».

Ma da allora che cosa è successo? Questa la versione di Confcoperative: «Il 17 marzo abbiamo registrato l'indisponibilità del consorzio a farsi revisionare. Nei tempi previsti gli abbiamo ulteriormente intimato, come previsto dalla normativa, di mettersi in regola e dopo un'iniziale collaborazione sono spariti di nuovo. 

Così, pur avendo tempo sino al 31 dicembre, nei giorni scorsi, abbiamo deciso di richiedere al ministero di avviare la procedura di cancellazione dell'Aid dall'albo». Istanza che dovrebbe diventare immediatamente esecutiva e che è pervenuta in via Veneto a inizio settimana. Ovvero dopo che la vicenda del consorzio era diventata di pubblico dominio e aveva raggiunto una risonanza nazionale.

Intanto, ieri mattina, nella sede operativa di Latina della Karibu c'erano sia la presidente, Marie Therese Mukamitsindo, della Karibu (la suocera di Soumahoro), che il figlio consigliere Michel. Poi i due, prima delle dieci, si sono allontanati e gli uffici sono rimasti chiusi a chiave. Un po' più tardi abbiamo ritrovato la donna presso l'ispettorato del lavoro, dove aveva appuntamento con due ex operatrici che da mesi chiedono il pagamento di retribuzioni arretrate. S.S. reclama 8.000 euro, S.D. 

(l'ultima a lasciare il posto di lavoro il 31 ottobre scorso) 22 mensilità, tredicesime e Tfr, per un totale di circa 30.000 euro. La presidente si è seduta al tavolo anche con la funzionaria dell'ufficio, Giulia Caprì, e con Gianfranco Cartisano, il sindacalista della Uiltucs che sta portando avanti le vertenze per 26 lavoratori.

La Mukamitsindo durante l'incontro si sarebbe consultata a lungo con il figlio e poi avrebbe provato a smarcarsi, pronunciando una frase che Cartisano riassume così: «Verrà il commissario, gli ispettori, quindi è inutile che facciamo questi accordi». Come se desse per scontato che la sua cooperativa sia destinata a chiudere o a passare di mano. 

Ma l'esponente della Uil avrebbe ribattuto che al momento il datore di lavoro resta la Mukamitsindo. La donna non ha portato con sé le buste paga delle dipendenti, così come le era stato richiesto, e per questo le parti si sono riaggiornate al 29 novembre.

«La sensazione è che queste persone attendano che le istituzioni facciano pressioni per far loro ottenere il pagamento di quei crediti che sostengono di avere nei confronti degli enti pubblici», spiega Cartisano. 

Che continua: «Stiamo cercando di avere un nuovo confronto in prefettura vista l'accelerazione degli eventi. Un tavolo prefettizio a cui far sedere le parti coinvolte, a partire da tutti gli enti che avevano in appalto i servizi della cooperativa Karibu e del consorzio Aid».

In queste ore stanno emergendo ulteriori novità. Per esempio abbiamo scoperto che in diversi Comuni della Provincia di Latina starebbero affiorando presunte irregolarità nell'affidamento e nella gestione dei servizi di cui erano incaricati la Karibu e il consorzio Aid.

Per esempio i consiglieri comunali di Priverno, Umberto Macci e Marcello Vellucci, hanno depositato presso la locale stazione dei carabinieri un esposto destinato alla Procura penale, a quella della Corte dei conti del Lazio e per conoscenza al prefetto di Latina, Pierluigi Faloni.

Nell'atto i consiglieri ricordano in che modo, secondo l'Autorità nazionale anticorruzione, debba essere gestito l'affidamento dei servizi d'accoglienza da parte dei Comuni destinatari di fondi del ministero dell'Interno. A partire dalla necessità di organizzare gare di evidenza pubblica e, sopra certe soglie, con pubblicazione a livello comunitario. 

Cosa che a Priverno non sarebbe accaduto. Infatti, subito dopo aver richiesto un finanziamento al fondo nazionale per le politiche e i servizi di asilo, il Comune avrebbe ritenuto «opportuno individuare nella cooperativa Karibu di Sezze quale soggetto del terzo settore avente le caratteristiche necessarie per la progettazione e la gestione del servizio di accoglienza integrata a favore del richiedenti asilo e del rifugiati, in linea con il progetto Spar, in quanto soggetto che gestisce analoghi servizi nel distretto del Monti Lepini».

 Così in tre anni alla coop sono stati assegnati circa 550.000 euro. Alla fine, Macci e Vellucci evidenziano che tutto questo è avvenuto «senza nessuna gara a evidenza pubblica» e chiedono alla Procura e alla Corte dei conti di «verificare la correttezza o meno dei comportamenti assunti».

Fabio Amendolara per la Verità il 23 novembre 2022. 

Più si scava nella storia delle coop pontine della Grande signora di Umuganda, Marie Therese Mukamitsindo, suocera del già sindacalista e ora deputato con gli stivali di gomma Aboubakar Soumahoro, più il profilo della cooperatrice sembra trasformarsi in quello di un capitano d'industria. E non solo dell'accoglienza. 

Quando Karibu e Consorzio Aid nel 2021 sono andati a picco con i bilanci, cominciando ad accumulare debiti con il fisco, con i fornitori e con i dipendenti (aspetto sul quale si sono concentrate le indagini della Procura della Repubblica di Latina), Marie Therese, da imprenditrice con esperienza ventennale, ha subito registrato una nuova impresa. Il 4 marzo 2021 a Nola (Napoli) nasce la Edelweiss. Non una semplice società, ma un «contratto di rete dotato di soggettività giuridica». Il presidente del Cda è Marie Therese (che è anche rappresentante d'impresa).

La sede è in via Monsignor Paolino Menna, nel Parco Stella Maris, zona quasi centrale della città, famosa per il suo polo commerciale. Gli obiettivi strategici: «Acquisizione e offerta di servizi che per complessità e difficoltà sarebbero altrimenti al di fuori della portata di ogni singola società». E, così, Marie Terese, da cooperatore si è trasformata in una specie di Mr Wolf, l'iconico personaggio di Pulp fiction, celebre per questa frase: «Sono il signor Wolf, risolvo problemi». Ma oltre a risolvere i problemi complessi per le società aderenti alla rete, Edelweiss si propone anche di gestire e realizzare case di riposo, residenze per anziani, residenze sanitarie assistenziali e di riabilitazione, centri vacanze per persone anziane e per disabili. Asciugato il business dell'accoglienza, insomma, la novella Mr Wolf ha diversificato i suoi interessi.

Proponendosi perfino di lavorare nel settore dell'assistenza domiciliare, del telesoccorso e anche di facchinaggio e vigilanza antincendio. Infine, ispirandosi a Federica Sciarelli, la conduttrice della trasmissione Rai Chi l'ha visto?, vorrebbe cercare «persone scomparse». Nello statuto di Edelweiss c'è entrato di tutto: dall'impiantistica agli interventi di restauro, fino al giardinaggio e alla falegnameria. 

Edelweiss per ora risulta inattiva. Ma quello di offrire servizi a una rete di imprese deve essere un po' un pallino di Marie Terese. Sempre nel 2021, ma a maggio, nasce anche Impresa comune Geie Arl, con un sottotitolo: «Imprese e professionisti per il bene comune». Questa volta l'impresa è attiva. Registrata a Roma, con sede in via Antonio Bertoloni e forma giuridica da «gruppo europeo di interesse economico». La costituzione, proprio per la forma giuridica scelta, è finita in Gazzetta Ufficiale il 25 maggio 2021, con la pubblicazione di uno stralcio dell'atto registrato dal notaio Pasquale Farinaro l'1 aprile 2021. Il presidente del Cda è il lobbista palermitano Nicola Colicchi, classe 1956, già componente del comitato nazionale della Compagnia delle Opere e consulente della Camera di Commercio di Roma.

Nel 2001 fu indagato dalla Procura di Milano in una grossa inchiesta sulla realizzazione di un depuratore, e fu assolto. Poi a Potenza, intercettato con Gianluca Gemelli, l'ex compagno dell'allora ministro Federica Guidi (che si dimise), nell'inchiesta in cui Guidi si lamentò per i continui favori che gli avrebbe chiesto il fidanzato: «Con me ti comporti come un sultano... oh mi sono rotta... mi tratti come una sguattera del Guatemala». La conversazione finì su tutti i giornali. Come quelle di Colicchi, che sembrava brigare per fare un grosso favore a un ammiraglio della Marina militare italiana. Finì in cavalleria. Il suo nome è saltato fuori ancora una volta in un'inchiesta giudiziaria solo qualche anno dopo.

Nell'indagine sul Sistema messo su dall'ex professionista dell'Antimafia Antonello Montante finirono anche alcune telefonate di Colicchi con Paolo Quinto, all'epoca braccio destro della senatrice del Pd Anna Finocchiaro. I documenti furono acquisiti, ma servirono agli investigatori solo per ricostruire una rete di relazioni. Che Colicchi deve essere un fuoriclasse a tessere. Nella sua nuova avventura imprenditoriale, non si sa come, ha ingaggiato anche Marie Terese. Che nella Arl presieduta da Colicchi è consigliere d'amministrazione. Nella società Marie Terese ci è entrata con la Karibu, versando 1.000 euro (come tutti gli altri associati, 20 in tutto) e acquisendo il 5 per cento delle quote. Rimarrà in carica fino al 2023.

Questa volta la sfida è ambiziosissima: Impresa comune Geie si propone di «realizzare un nuovo protagonismo delle imprese, dei professionisti, degli enti giuridici anche pubblici o non profit, nei processi di sviluppo delle loro attività, orientate anche alla sostenibilità». Marie Terese, insomma, sta sul pezzo. Nello statuto della società compaiono più volte termini quali «digitalizzazione», «efficienza ecologica», tecnologia» e, addirittura, «intelligenza artificiale». Gli obiettivi? «Cogliere opportunità sul mercato attraverso l'elaborazione, la realizzazione e la gestione di progetti complessi». Operazioni, queste ultime, nelle quali la Grande signora di Umuganda ha dimostrato di sapersi muovere con una certa disinvoltura, grazie all'esperienza maturata con il grande affare dell'accoglienza pontina.

Indagata la suocera di Aboubakar Il caso partì nel 2017. Edoardo Sirignano su L’Identità il 24 Novembre 2022

L’avviso di garanzia, alla fine, è arrivato. Indagata dalla procura di Latina Marie la suocera di Aboubakar Soumahoro, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. Marie Terese Mukamitsindo è coinvolta nell’inchiesta sulla gestione delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Il fascicolo viene aperto per ipotesi di malversazione. A parte l’inchiesta giudiziaria, da mesi, sarebbero in corso accertamenti dell’Ispettorato del lavoro sulle società gestite dai familiari del deputato. Queste ultime, finite sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza per presunti mancati pagamenti ai dipendenti e contratti non regolari, sul territorio erano conosciute da anni. L’assessore Francesca Pierleoni del Comune di Latina, intervenuta su queste colonne, non è l’unica ad aver messo in evidenza una serie di anomalie, come quella sul progetto Ucraina, dove i soliti noti prima si sarebbero fatti avanti e poi scomparsi. A queste latitudini, i fatti di cui parla oggi nei principali talkshow non sorprendono affatto. L’europarlamentare della Lega Mario Borghezio addirittura nel 2017, su spinta di un movimento locale, aveva presentato un’interrogazione in cui sollevava perplessità rispetto alla gestione dei migranti di tale Coop. Per tale ragione, aveva inviato addrittura una lettera al Prefetto, in cui chiedeva un urgente e repentino intervento: "In una recente occasione di incontro con cittadini ed associazioni del territorio di Aprilia – aveva scritto nella missiva indirizzata all’Ufficio Territoriale di Governo – lo stesso ha ricevuto numerose segnalazioni critiche nei riguardi delle attività di alcune società dedite all’accoglienza di immigrati extra-Ue e in particolare della Coop Karibù. Sembra opportuno disporre approfonditi controlli, in relazione all’attività delle stesse, circa il numero degli immigrati ospitati, il rispetto dei protocolli di sicurezza sanitaria e l’adozione delle necessarie profilassi, in particolare nei riguardi delle malattie infettive". In quel documento si parlava anche di due occupazioni abusive, più volte segnalate alle autorità competenti. Sulla questione ci furono diversi articoli di giornale, nonché una conferenza stampa dove appunto si parlava delle condizioni precarie in cui versavano tante persone ospitate in quelle residenze. Emanuele Campilongo di Apl e Mariantonietta Belvisi, addirittura nel 2015, erano stati protagonisti di confronto pubblico in cui, come riportano diverse testate locali, si chiedeva di sapere in che condizioni versavano i migranti gestiti da Karibù e soprattutto perché venissero assegnati ulteriori fondi a chi, pur ricevendo già tante risorse, avrebbe lasciato i propri ospiti in condizioni di povertà. "Come mai – era l’interrogativo posto da Campilongo a chi di dovere – a questi ragazzi, per cui vengono assegnati 38 euro al giorno alle Coop che li gestiscono, si vogliono dare ulteriori 150 euro per la pulizia dei parchi, da affidare agli stessi soggetti, mentre poi li vediamo girare per i cassonetti".

Soumahoro e i fondi per l’Ucraina. Rita Cavallaro su L’Identità il 22 Novembre 2022 

Non ci sono solo i migranti, ma anche gli ucraini che fuggono dalla guerra nei progetti di Karibu e Consorzio Aid, le cooperative dei familiari del deputato dell’alleanza Verdi-Si Aboubakar Soumahoro, finite nella bufera a seguito di alcuni accertamenti della Finanza e dei carabinieri per presunte malversazioni di erogazioni pubbliche nell’accoglienza.

Il 3 giugno 2022, infatti, la Regione Lazio, con determinazione numero G07165, ha erogato un finanziamento del valore complessivo di 1 milione 151mila euro in favore di quattro cooperative sociali. C’è la Karibu di Sezze, presieduta dalla suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo, e amministrata fino al 17 ottobre scorso anche dalla moglie del parlamentare, Liliane Murekatete. Poi il Consorzio Agenzia per l’Inclusione e i Diritti (Aid) del capoluogo pontino, di cui è presidente la cognata di Soumahoro, Aline Mutesi, e la suocera è consigliera d’amministrazione. C’è il Quadrifoglio, la coop di Latina presieduta da Fabrizio Gasparetto. E infine Ninfea di Sabaudia, al cui capo c’è Achille Allen Trenta. Quattro organizzazioni che lavorano nel terzo settore del territorio pontino che, con le loro proposte, la scorsa estate hanno partecipato al bando per la “realizzazione di interventi e di reti per la presa in carico e l’inclusione socio-lavorativa della popolazione ucraina sul territorio della Regione Lazio”. E l’hanno vinto. Tant’è che il Comune di Latina, appreso dell’erogazione, ha subito avviato un coordinamento per offrire opportunità e sostegno ai tanti rifugiati in fuga dalla guerra in Ucraina e contribuire all’inclusione socio-lavorativa. Con grande soddisfazione del vice sindaco e assessore al Welfare, Francesca Pierleoni, che ha dichiarato: “Auspichiamo che tali interventi permettano ai rifugiati accolti sul nostro territorio di essere rapidamente autonomi, perché la dignità e la speranza che si riacquista con il lavoro è impagabile. Oggi queste persone hanno bisogno di essere sostenute per credere in un futuro possibile di pace e di sviluppo”. Un comunicato ufficiale ospitato anche sulla pagina Facebook della coop Karibu, che non è nuova a ricevere fondi per gli ucraini.

Già il 15 aprile 2021, quando la gestione era nelle mani pure della moglie di Soumahoro, la cooperativa, stavolta unica beneficiaria, aveva incassato oltre un milione di euro, per la precisione 1.059.463,46, dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, come anticipo di pagamento del finanziamento per due milioni e 135.705 euro che la Karibu si è aggiudicata nell’ambito del programma Amif 2021-2027, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea e volto a migliorare l’approccio ai fenomeni migratori nel rispetto dei diritti dei cittadini europei ed extra-europei. Proprio l’anno finito nel mirino della denuncia di una trentina di migranti, che sostengono di non essere stati pagati e di aver vissuto in una condizione degradante, senza acqua calda, con il cibo che scarseggiava. E perfino di essere stati maltrattati. Per questo si sono rivolti al sindacato Uiltucs che, attraverso il segretario Gianfranco Cartisano, ha acceso i riflettori sulle due coop fondate da Maria Therese e già interessate dalle verifiche. Ora addirittura sotto la lente del ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, che ha deciso di mandare gli ispettori. “Mi dite cosa vi ho fatto? Voi mi volete morto”, ha detto tra le lacrime Soumahoro, in un video condiviso sui social. “Ma non ucciderete le mie idee”, ha aggiunto, ribadendo che lui non c’entra nulla con le coop di sua suocera. Mukamitsindo, che nel 2021 avrebbe incassato come emolumenti oltre 100mila euro, ha sempre suscitato stima per il suo impegno, tanto che fu vincitrice del premio MoneyGram Award come imprenditrice straniera. E Liliane, in un’intervista, ha detto: “Prima lavoravo per il rappresentante della Presidenza del Consiglio per l’Africa, sia durante il governo Berlusconi sia con Prodi”. Per portare avanti progetti e rapporti, nel 2009,la moglie del deputato ha avuto una consulenza tecnica da Palazzo Chigi per 17mila euro.

Tutti gli appalti di casa Soumahoro. Rita Cavallaro su L’Identità il 23 Novembre 2022.

Migranti, vittime della tratta sessuale, ucraini in fuga dalla guerra. È su questa umanità che si sono concentrati gli affari della famiglia del deputato di sinistra Aboubakar Soumahoro. Attività che, finora, hanno porta nelle casse della coop Karibu, fondata dalla suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo, quasi 65 milioni di euro.

LA CERTIFICAZIONE

È la stessa presidente della cooperativa sociale di Sezze, gestita fino al 17 ottobre scorso anche dalla moglie del parlamentare Liliane Murekatete, a dettagliare il fiume di contributi pubblici incassati nel corso degli anni, in un documento presentato al ministero dell’Interno per il programma Amif 2014-2020, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea e volto a migliorare l’approccio ai fenomeni migratori nel rispetto dei diritti dei cittadini europei ed extra-europei. Una domanda di ammissione al finanziamento in cui sono rendicontati ben 63 milioni 645mila euro di incassi della Karibu per le sue attività di accoglienza dei rifugiati e l’integrazione sociale dei migranti. La somma più cospicua che compare nel documento è il pagamento di 25 milioni di euro, in sei anni, versati dal ministero dell’Interno per il bando “CAS- Centri di Accoglienza Straordinaria Bando Prefettura” di un totale di 500 milioni, vinto da Karibu come soggetto singolo, quindi senza alcun partenariato, per “l’emergenza migranti richiedenti protezione internazionale – progetto di accoglienza, servizi per l’alloggio, tutela socio-legale, aiuto psicologico, assistenza e orientamento legale”, scrive Mukamitsindo nel prospetto delle azioni per le quali era stata finanziata tra il 2013 e il 2019. Dal 2004 al 2019, invece, la coop della suocera di Soumahoro ha intascato ben 30 milioni da due progetti Sprar per accogliere i rifugiati a Sezze e a Roccagorga. In questo caso la società si è presentata come partner del progetto. Dal 2014 al 2019, quindi un lasso di tempo di 5 anni, Maria Therese ha ottenuto 5 milioni, un milione l’anno dunque, per i richiedenti protezione internazionale e rifugiati nello Sprar di Monte San Biagio. Un altro milione e 386mila euro sono confluiti in due anni, tra il 2019 e il 2021, sotto la voce “Prima il lavoro -On 2- Integrazione/Migrazione legale – Autorità Delegata – PRIMA: Progetto per l’Integrazione lavorativa dei Migranti”. Si tratta del fondo FAMI del ministero dell’Interno e di quello del Lavoro, al quale la coop della suocera di Soumahoro ha partecipato in collaborazione con l’Anci, con un prospetto per un totale di 2 milioni 349mila euro.

IL CAPORALATO

Non solo migranti, ma anche lotta al caporalato, il tema tanto caro ad Aboubakar. Così Mukamitsindo, nel 2019, partecipa a “Caporalato no grazie” e prende un milione di euro per orientamento, assistenza e mediazione per cittadini “di paesi terzi regolarmente soggiornanti sul territorio italiano, vittime o potenziali vittime di sfruttamento lavorativo”. Maria Therese, con un passato di donna in fuga dal Ruanda arrivata in Italia con i suoi figli, non poteva non pensare anche alla vittime di tratta a scopo sessuale. Il contributo, tra il 2016 e il 2019, è finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, che versa nelle casse della Karibu 104.593 euro. Ci sono poi una sfilza di importi per tutta una serie di attività che coinvolgono la cooperativa di Sezze in formazione di dipendenti Italpol, in aggiornamento degli imprenditori del turismo, in percorsi di istruzione formativa per artigiani. Voci in bilancio che spaziano da 125mila euro a 50mila e che man mano concorrono a raggiungere quegli oltre 63 milioni riportati nel prospetto per l’ammissione ai contributi Amif 2014-2020. Per Amif 2021-2027 la Karibu, il 15 aprile 2021, otterrà oltre un milione di euro. A questi vanno aggiunti gli ultimi progetti presentati da Mukamitsindo, stavolta sia per Karibu che per Consorzio Aid di cui è presidente la cognata di Soumahoro Aline Mutesi, alla Regione Lazio, che il 3 giugno 2022, con determinazione numero G07165, eroga un finanziamento del valore complessivo di 1 milione 151mila euro in favore delle due coop e di altre due del territorio, Ninfea e il Quadrifoglio, per l’inclusione nel mondo del lavoro degli ucraini in fuga dalla guerra. Infine, negli atti inviati all’Interno, c’è un dettaglio: tra i documenti allegati alla richiesta c’è la scheda antimafia di Murekatete. La moglie del deputato, all’epoca, compariva ancora nell’organico della coop, ora sotto la lente della Finanza per malversazioni di erogazioni pubbliche sull’accoglienza dei migranti.

Cosa sapeva Soumahoro, appalti e milioni. Rita Cavallaro su L’Identità il 24 Novembre 2022

Tutti sapevano dell’enorme fiume di soldi che arrivava nelle casse di casa Soumahoro. Dal ministro dell’Interno Matteo Salvini al suo successore Luciana Lamorgese, che misero nero su bianco i milioni dei contributi pubblici per l’accoglienza erogati a Karibu e Consorzio Aid, le coop del pontino fondate da Maria Therese Mukamitsindo, suocera del deputato di sinistra, e nella cui gestione, fino allo scorso 17 ottobre, era coinvolta anche la moglie del parlamentare, Liliane Murekatete. Lo sapevano quelli della Lega Braccianti, che durante la pandemia chiesero dei resoconti su una raccolta fondi ad Aboubakar Soumahoro senza ricevere alcunché. E non poteva non saperlo neppure lo stesso esponente di Alleanza-Si, che aveva impiantato la sede del suo sindacato per la lotta contro il caporalato, fondato nell’estate del 2020, proprio nello stesso ufficio di Latina dove si trovano Karibu e Aid.

IL SINDACATO

Un palazzo bianco con delle porte a vetri nere, in quello che è diventato il centro direzionale di Latina, in un piazzale desolato in viale Corbusier. Stesso indirizzo, stesso numero civico, stessi uffici al piano terra sia per Karibu e Aid sia per la Lega dei Braccianti. L’etichetta della sede legale, con la scritta sezione di Latina, è apposta accanto a quella della coop, finita nel mirino della UilTucs per le accuse di una trentina di dipendenti e migranti che lamentano il mancato pagamento degli stipendi, con arretrati fino a 18 mensilità. Pagamenti che sarebbero saltati con il pretesto che quelle coop non avevano più soldi perché, sostengono Maria Therese e Liliane, vantavano crediti per l’accoglienza che non sarebbero arrivati nelle loro casse. Eppure, come vi abbiamo certificato ieri su L’identità, il business delle cooperative create da Mukamitsindo era enorme se si calcola che solo Karibu, negli ultimi anni, ha incassato quasi 65 milioni di euro di contributi pubblici per le gare vinte al Ministero dell’Interno, alla Regione Lazio, alle Pari Opportunità. E quei documenti, con le cifre milionarie e i progetti da avviare, erano in bella vista sulle stesse scrivanie dove, si ipotizza, anche Aboubakar deve essersi seduto, visto che quella era pure la sede del suo movimento sindacale. Fermo restando che, negli accertamenti che gli investigatori stanno svolgendo sui conti delle società della suocera, il deputato non è assolutamente coinvolto.

LA RELAZIONE

È proprio sul fiume di soldi passati sui bilanci di Karibu e Consorzio Aid che si concentrano le indagini della Guardia di Finanza di Latina, volte a verificare se ci sia stata o meno una malversazione di erogazioni pubbliche sull’accoglienza. Un business che, viste le cifre, rende ancor più granitiche quelle intercettazioni di Mafia Capitale, quando il Mondo di mezzo diceva che gli immigrati rendono più della droga. A dettagliare le cifre incassate dalla coop di Sezze, d’altronde, è stata proprio Maria Therese, in un documento presentato al Ministero dell’Interno per il programma Amif 2014-202o, il fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, gestito dalla Commissione Europea. Ben 63 milioni 645mila euro sono gli incassi della Karibu per le sue attività di accoglienza dei rifugiati e l’integrazione sociale dei migranti.

La somma più cospicua è il pagamento di 25 milioni di euro, in sei anni, versati dal Viminale per il bando "CAS- Centri di Accoglienza Straordinaria Bando Prefettura". Un progetto per un totale di 500 milioni, vinto da Karibu come soggetto singolo, quindi senza alcun partenariato, per "l’emergenza migranti richiedenti protezione internazionale – progetto di accoglienza, servizi per l’alloggio, tutela socio-legale, aiuto psicologico, assistenza e orientamento legale", scrive Mukamitsindo nel prospetto delle azioni per le quali era stata finanziata tra il 2013 e il 2019. E perfino il progetto, per un totale di due milioni per l’inclusione nel mondo del lavoro degli ucraini in fuga dalla guerra, in un bando vinto a giugno scorso. A suggellare la veridicità dei pagamenti, oltre all’autocertificazione della suocera di Soumahoro, c’è la "Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza predisposto al fine di fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale", presentata al Senato dal ministro Lamorgese il 29 ottobre 2019, relativa all’anno 2018. Centocinquantasette pagine in cui il ministro del governo giallorosso traccia la situazione esplosiva sui migranti, che era venuta alla luce in tutta la sua drammaticità durante il Conte 1, con il pugno duro di Salvini sui porti chiusi. Lamorgese, che nel rapporto annuncia un nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei servizi di accoglienza e disciplina modalità di controllo e monitoraggio degli standard qualitativi dei Cas, riporta il "dettaglio dati finanziari relativi ai pagamenti effettuati dalle prefetture in favore di ciascun ente gestore dei centri di accoglienza". E solo nel 2018, a Karibu sono stati pagati 5.080.261,63, mentre il Consorzio Aid ha incassato 794.243,18. Numeri che confermano il trend di quei 25 milioni, su un totale di mezzo miliardo, spalmati in sei anni nelle casse della coop di Sezze e che contribuiscono a raggiungere la quota importante dei 65 milioni.

Bocce cucite e imbarazzo la vicenda si fa grottesca. Maurizio Zoppi su L’Identità il 24 Novembre 2022

Suda freddo in queste ore la sinistra in Italia ed in particolare il leader di SI, Nicola Fratoianni e il responsabile nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli. L’imbarazzo è concreto rispetto al caso che sta coinvolgendo il neo deputato Aboubakar Soumahoro. Bocche cucite nella serata di ieri, rispetto ad una storia che scotta politicamente e che già sta facendo molto male ai "compagni" ed "ambientalisti". In queste ore dovrebbe essere ascoltato il sindacalista della Lega dei braccianti, da parte degli esponenti del suo gruppo parlamentare, i quali hanno chiesto una ricostruzione dettagliata dei fatti che hanno portato la procura di Latina a indagare sulla gestione di due cooperative pro-migranti, la Consorzio Aid e la Karibu amministrate a vario titolo dalla suocera e dalla moglie di Soumahoro. Nel mirino, eventuali irregolarità nei contratti e presunte cattive condizioni di assistenza dei minori ospitati in quelle strutture. Queste le ombre sul sindacalista di origini ivoriane che ora rischia una sospensione da parte del movimento con il quale è arrivato alla Camera il 25 settembre. "Mi volete morto" affermava piangendo l’attivista, in un video pubblicato sui social, il quale da subito si è dichiarato estraneo ai fatti. Ma numerose sono le ricostruzioni da parte di alcuni ex ospiti nelle strutture gestite dalle coop in interviste alla stampa che parlano di "condizioni di vita inaccettabili". "Incontreremo in queste ore Soumahoro per un confronto. Penso che si debba sempre tenere distinta, in molto netto, la vicenda giudiziaria, che peraltro pare che neanche lo coinvolga direttamente, e la dimensione della politica che riguarda le questioni del diritto del lavoro. E su questo io credo sia giusto avere un confronto diretto. Quando lo avremo avuto nelle prossime ore ognuno farà delle valutazioni". Queste le ultime parole di Nicola Fratoianni, prima di entrare in un silenzio che sa di disagio. La vicenda di Aboubakar Soumahoro si fa sempre più grottesca.

La relazione Lamorgese sulla coop e i 5 milioni del Viminale di Salvini. Redazione L'Identità il 24 Novembre 2022

È in questa relazione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, da poco succeduta al posto di Matteo Salvini al Viminale, che vengono certificate le cifre erogate alle coop Karibu e Consorzio Aid, fondate da Maria Therese Mukamitsindo, per l’accoglienza dei rifugiati nei due Cas per adulti di Latina gestite dalla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro.

Nella relazione, presentata al Senato il 29 ottobre 2019 per illustrare l’emergenza migranti, viene messo nero su bianco che la Karibu, nel solo 2018 quando era ministro Salvini, ricevette dal Viminale oltre 5 milioni di euro per la gestione dei centri di accoglienza. Il Consorzio Aid, invece, incassò, in quello stesso anno, 794.243,18 euro. Insomma, le due cooperative sociali che si occupavano di rifugiati erano accreditate tra le strutture verso le quali venivano inviati i migranti che sbarcano sulle nostre coste e che vengono smistati nei Cas di tutta «Italia. Il rapporto di 157 pagine, in cui vengono affrontati diversi nodi relativi agli sbarchi, in quel momento, tracciava la situazione alquanto esplosiva degli arrivi, scaturita durante il Conte 1 dal pugno duro di Salvini sui porti chiusi. Il ministro Lamorgese, nel documento, annunciava un nuovo schema di capitolato d’appalto per la gestione dei servizi di accoglienza e disciplinava modalità di controllo più serrati e di monitoraggio degli standard qualitativi dei Cas. Controlli che da Karibu e Aid, probabilmente, non sono mai stati fatti.

DAGONEWS il 24 novembre 2022.

Angelo Bonelli dà ragione a Dagospia: durante l’intervista rilasciata a "Metropolis" (al minuto 3.30), il video-podcast condotto da Gerardo Greco sul sito di Repubblica, ammette di aver scelto di candidare Aboubakar Soumahoro perché trasformato in eroe da Propaganda Live di Zoro, l’Espresso di Damilano e Fabio Fazio! La politica a sinistra è come un talent show, ma la selezione la fanno i giudici dei telecircoletti che non capiscono una mazza!

Da repubblica.it il 24 novembre 2022. 

Non nasconde la delusione Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde, quando si parla di Aboubakar Soumahoro, deputato eletto nelle sue file e finito nel ciclone mediatico dopo l'inchiesta aperta su moglie e suocera nella gestione della coop Karibu. "Abbiamo parlato con lui - dice Bonelli a Metropolis - ci ha confermato l'estraneità ai fatti. Ma io sono una persona trasparente, ci sono rimasto male".

 Da liberoquotidiano.it il 25 novembre 2022.

Aboubakar Soumahoro chiede scusa. Lo fa da Corrado Formigli, a PiazzaPulita. "Sono stato poco attento, mentre giravo per il Paese, a quello che c’era a casa mia", le parole del deputato che si è auto-sospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra. "Non sapevo nulla - ha aggiunto - se fossi stato a conoscenza di una indagine sulle cooperative gestite da mia suocera non mi sarei candidato".

Nel corso della trasmissione Soumahoro ha avuto modo di rispondere agli attacchi degli ex colleghi della Lega Braccianti riguardo a 56.500 euro che non sarebbero stati rendicontati su un bilancio di 220mila euro. "Sono nelle condizioni di poter produrre tutte le prove - ha affermato Soumahoro - i soldi sono stati spesi per l'acquisto di generi alimentari, gel disinfettante, trasporti, e i rimanenti 56.800 sono andati nell'esercizio 2021. Il bilancio è disponibile sul sito della Lega Braccianti".

Il parlamentare è poi passato al contrattacco: "Chi mi accusa oggi è tornato a far parte della Usb, organizzazione con cui ho un contenzioso, dopo essere passato con me nella Lega Braccianti. Sono tornati indietro perché mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio i soldi delle donazioni. Ho rifiutato". Infine Soumahoro ha negato di aver mai usato i soldi delle donazioni per finanziare l’ascesa politica: "Assolutamente no, mai. Anzi, ci ho rimesso".

Alessandra Arachi per corriere.it il 25 novembre 2022.

«Sono qui perché credo fermamente nei valori dell’integrità, della dignità umana e per il rispetto e tutela della storia che mi porta qui, che è la storia di migliaia di persone. Sono pronto alla trasparenza e dirò tutta la verità, risponderò punto per punto». Aboubakar Soumahoro ha esordito così, ospite da Corrado Formigli negli studi di Piazza Pulita, la faccia visibilmente tesa. 

Nel pomeriggio il neo deputato ivoriano si era autosospeso dal gruppo di Alleanza Verdi Sinistra italiana, quello che lo ha portato alla Camera. Era successo dopo due giorni di un faccia a faccia serrato con i due leader dell’Allenaza rosso-verde Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli.

La vicenda che ha travolto Soumahoro è legata alle cooperative di braccianti gestite dalla sua famiglia. Lui non è indagato, ma lo è sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, l’accusa: malversazione. Un colpo davvero duro per Soumahoro che sulle battaglie con i braccianti ha fondato la sua carriera sindacale prima e politica poi.  

Corrado Formigli gli ha sciorinato tutti i capi d’accusa, lo ha incalzato, gli ha chiesto: «Ma lei non sapeva quello che succedeva nelle cooperative?». Soumahoro ha balbettato: «Innanzitutto diciamo dove ero... prima ancora di conoscere la mia attuale compagna ero sempre nei luoghi dove si combattono queste situazioni.... Poi l’ho conosciuta e sono venuto a sapere che ci sono degli stipendi non pagati e la risposta che ho ricevuto e che c’erano ritardi di pagamento da parte della pubblica amministrazione». Formigli non sembra convinto.

Lui aggiunge: «Ho commesso una leggerezza: avrei dovuto fare meno viaggi e stare accanto ai lavoratori verificando cosa succedeva». Formigli ha insistito: «Non poteva non sapere...». E lui: «Io ho sempre vissuto a Roma con la mia compagna e la cooperativa era a Latina». E le foto di sua moglie con vestiti eleganti, con oggetti molto costosi? «Nessuna forma di imbarazzo: c’è il diritto all’eleganza e alla moda. E le immagini sono datate». E’ un continuo di botta e risposta, il deputato ivoriano continua ad arrampicarsi sugli specchi, soprattutto quando Formigli gli chiede se alcuni dei fondi erano serviti per la sua ascesa in politica.

Bonelli e Fratoianni erano stati pacati nell’annunciare l’autosospensione di Soumahoro: «La decisione di autosospendersi è stata presa in totale libertà», hanno commentato Bonelli e Fratoianni. «Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni e del valore dell’impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi».

Il fascicolo dei magistrati di Latina riguarda le presunte irregolarità nella gestione di due cooperative pro-migranti della provincia pontina: la Karibu e il Consorzio Aid che almeno fino a due mesi fa erano gestite anche dalla moglie Liliane Murekatete. Ci sarebbero presunti mancati pagamenti ai dipendenti e contratti non regolari, indiscrezioni, cifre a sei zeri che le cooperative hanno ricevuto dagli enti statali con bandi o erogazioni già nel 2020».

Grazia Longo per "la Stampa" il 24 novembre 2022. 

Non solo non pagavano i braccianti impegnati nelle campagne dell'agro pontino, ma non versavano neppure i loro contributi né pagavano le tasse per l'impresa. Accumulando così 1 milione e mezzo di debiti a cui se ne aggiunge un altro milione nei confronti di banche e fornitori. 

Nuovi guai per la cooperativa Karibu dei familiari del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Aboubakar Soumahoro. La coop gestita da sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, sua moglie Liliane Murekatete e suo cognato Michel Rukundo, ha maturato, al 31 dicembre 2021, un passivo di 2 milioni e 425 mila euro. «È veramente grave che una società che riceve appalti da enti pubblici abbia un'esposizione così elevata», tuona Gianfranco Cartisano, sindacalista della Uiltucs che per primo ha denunciato il caso dei lavoratori non retribuiti dai parenti di Soumahoro. 

La procura di Latina ha avviato due inchieste, una prima in collaborazione con la Guardia di finanza che vede indagata per malversazione la suocera del parlamentare, e una seconda che si avvale delle indagini dei carabinieri di Latina appena avviata per distruzione e occultamento di documenti contabili. 

Ma a questi due filoni d'inchiesta potrebbe a breve aggiungersene un terzo per maltrattamento di minori, a seguito delle segnalazioni che alcuni ragazzini hanno presentato al sindacato Uiltucs di Latina: «Non ci davano da mangiare e abitavamo in case senza acqua e senza luce».

L'altro ieri, infatti, queste denunce sono state raccolte anche dagli ispettori del Ministero per lo sviluppo economico che hanno effettuato un sopralluogo a Latina. È quindi verosimile che anche la Procura accenda i fari su questo aspetto e indagare su quanto accaduto nelle case per i minori. 

Il fatto, insomma, è che come la si giri e la si rigiri, questa storia fa acqua da tutte le parti. A partire dalla moglie del deputato paladino dei braccianti che sfoggia sui social media abiti e accessori super griffati e costosi e poi non paga i dipendenti. Fino a un altro cognato di Soumahoro, Richard Mutangana, altro fratello della moglie, che si presentava come direttore dei progetti della Karibu e che riceveva in Ruanda (dove ha altre attività) bonifici al vaglio della Guardia di finanza di Latina. E poi c'è, appunto, la questione delle tasse non pagate.

Scorrendo le varie voci del bilancio si scopre, peraltro, che la Karibu per il 2021 aveva ricevuto contributi a fondo perduto Covid per 227 mila euro. Come ha usato questi soldi? Perché non li ha spesi per pagare i dipendenti? Tra trattenute sulle buste paga dei dipendenti, contributi Inps e tasse per l'impresa non è stato versato 1 milione e mezzo di euro. «È scandaloso che oltre a non saldare il conto con i braccianti non abbiano pagato neppure il fisco» incalza Gianfranco Cartisano. Il quale aggiunge: «Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov' erano prima gli enti, e la politica in generale? Oggi rimane per noi l'unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell'immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: stipendi subito».

Per questo, ribadisce il segretario della Uiltucs di Latina, «stiamo predisponendo una lettera per chiedere un incontro urgente al prefetto di Latina, perché convochi d'urgenza tutte le parti e i soggetti interessati, come per esempio la Regione Lazio e i Comuni che assegnavano i progetti, perché si raggiunga un accordo. Questa vertenza, e il disagio di questi lavoratori per noi non hanno colore politico». 

Non si fermano, intanto, anche gli accertamenti dell'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) sulle cooperative Karibu e consorzio Aid. Gli atti sono in via di conclusione, e sono stati avviati in base alle denunce di alcuni lavoratori. «Proprio martedì - precisa Cartisano - abbiamo ottenuto la rateizzazione per una lavoratrice Karibu che era creditrice di 8 mila euro di stipendi. Per altri tre lavoratori ci siamo riaggiornati al 29 novembre. Ciò che vogliamo è che sia applicata per i lavoratori non pagati la procedura di intervento sostitutivo di pagamento delle retribuzioni già applicato per quattro dipendenti della Aid».

La coop Karibu dei familiari dell’on. Soumahoro eletto dai Verdi e Sinistra Italiana, non ha pagato tasse per più di oltre un milione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Novembre 2022

Una tipica vicenda italiana quella di Aboubakar Soumahoro, il campione dei centri sociali, l’eroe degli stivali da lavoro portati in parlamento la cui moglie, la disoccupata Liliane Murekatete – una sorta di Ferragni – sfoggia sui social borse e accessori griffati costosissimi malgrado l’indagine sulle malsane condizioni dei rifugiati e i mancati pagamenti ai dipendenti della coop di migranti di cui è responsabile mammà, la suocera dell’onorevole, signora Maria Therese Mukamitsindo

Nuovi guai per la cooperativa Karibu dei familiari del deputato Aboubakar Soumahoro (eletto nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra). La coop Karibu gestita da sua moglie Liliane Murekatete, sua suocera Marie Therese Mukamitsindo , e suo cognato Michel Rukundo, ha maturato, al 31 dicembre 2021, un passivo di 2 milioni e 425 mila euro. Scorrendo le varie voci del bilancio 2021 della Karibu, che secondo la relazione degli amministratori, "negli ultimi anni ha contratto di molto il suo bilancio", evidenzia un utile di 175.631 euro al netto di imposte. Le entrate comprendono 2milioni e mezzo di ricavi da clienti e 227.000 euro ricevuti "a fondo perduto" per emergenza covid. E come hanno usato questi ricavi e contributi, come mai non li hanno spesi per pagare i dipendenti ?

Non solo non pagavano i braccianti impegnati nelle campagne dell’agro pontino, ma non versavano neppure i loro contributi né pagavano le tasse per l’impresa. Così hanno accumulato oltre 1 milione e mezzo di debiti a cui si va sommata un’esposizione debitoria di un altro milione nei confronti di banche e fornitori. "È veramente grave che una società che riceve appalti da enti pubblici abbia un’esposizione così elevata", dice Gianfranco Cartisano, sindacalista della Uiltucs che per primo ha denunciato il caso dei lavoratori non retribuiti dai parenti di Soumahoro. 

Tra trattenute sulle buste paga dei dipendenti, contributi Inps e tasse per l’impresa dalla cooperativa dei familiari di Soumahoro non è stato versato 1 milione e mezzo di euro. "È scandaloso che oltre a non saldare il conto con i braccianti non abbiano pagato neppure il fisco" aggiunge Gianfranco Cartisano "Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale? Oggi rimane per noi l’unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza. Il prefetto deve, in questa vicenda sociale, attivare un tavolo specifico con tutti gli enti responsabili degli appalti. Non possiamo più attendere i passaggi burocratici di palazzo: stipendi subito". Per questo, il segretario della Uiltucs di Latina, annuncia che "stiamo predisponendo una lettera per chiedere un incontro urgente al prefetto di Latina, perché convochi d’urgenza tutte le parti e i soggetti interessati, come per esempio la Regione Lazio e i Comuni che assegnavano i progetti, perché si raggiunga un accordo. Questa vertenza, e il disagio di questi lavoratori per noi non hanno colore politico".

La cooperativa Karibu è oggi presieduta da Marie Terese Mukamitsindo, madre di Liliane Terese, nel 2018, vinse il premio imprenditrice dell’anno e fu premiata da Laura Boldrini. Il magistrato Simonetta Matone, attuale senatore della Lega, ex magistrato ed ex vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, si chiede: "se l’onorevole Boldrini oggi premierebbe di nuovo la Moukamitsindo che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli".

Marie Therese Mukamitsindo premiata dalla Boldrini

La procura della repubblica di Latina ha avviato due procedimenti, avvalendosi degli accertamenti delegati alla Guardia di finanza a seguito dei quali è stata vede indagata per malversazione la suocera del parlamentare, ed un secondo procedimento con delega di indagine ai Carabinieri di Latina, che è stata appena avviata per distruzione e occultamento di documenti contabili. Volevano forse nascondere gli stipendi da 100mila euro l’anno che si davano i familiari dell’ on. Soumahoro, il quale sostiene che sua moglie è "disoccupata" ?

Marie Therese Mukamitsindo suocera dell’on. Soumahoro

Questa vicenda fa acqua da tutte le parti, a cominciare dalla moglie del deputato il quale si spacciava per difensore dei diritti dei braccianti, la quale che sfoggia sui socialmedia vestiti ed accessori di lusso mentre poi i dipendenti non vengono pagati . Persino un altro cognato di Soumahoro, Richard Mutangana, un altro fratello della moglie, si presentava come "direttore" dei progetti della Karibu e che riceveva in Ruanda (dove ha altre attività ) contributi pubblici e bonifici al vaglio della Guardia di finanza di Latina. E per concludere…. le tasse non pagate. Non si fermano anche gli accertamenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro sulle cooperative Karibu e sul consorzio Aid. Gli atti sono in fase di conclusione, avviati a seguito delle denunce di alcuni lavoratori. "Soltanto martedì – precisa Cartisano – abbiamo ottenuto la rateizzazione per una lavoratrice della cooperativa Karibu che era creditrice di 8 mila euro di stipendi. Per altri tre lavoratori ci siamo riaggiornati al 29 novembre. Ciò che vogliamo è che sia applicata per i lavoratori non pagati la procedura di intervento sostitutivo di pagamento delle retribuzioni già applicato per quattro dipendenti del consorzio Aid".

Aquesti due filoni d’inchiesta se ne potrebbe aggiungere a breve un terzo, questa volta per maltrattamento di minori, a seguito delle segnalazioni che alcuni ragazzini hanno presentato al sindacato Uiltucs di Latina: "Non ci davano da mangiare e abitavamo in case senza acqua e senza luce". L’altro ieri, infatti, queste denunce sono state raccolte anche dagli ispettori dell’ex- Ministero per lo sviluppo economico che hanno effettuato un sopralluogo a Latina per far luce sulla gestione delle cooperative della famiglia Soumahoro. È quindi probabile che a questo punto la Procura accerti anche su questi aspetti ed indaghi su quanto è realmente accaduto nelle case per i minori. 

Ma chi è in realtà Liliane Murekatete la moglie di Aboubakar Soumahoro ? Quella che appare tutta "griffata" nei selfie dove ostentava il lusso o quella delle battaglie per i migranti? Se lo stanno chiedendo in tanti, anche gli investigatori della guardia di Finanza. La donna che era sempre in prima fila calata nella sua nuova vita accanto a Soumahoro nel villino che i due hanno acquistato nel giugno scorso a Casal Palocco composto da sei vani in zona residenziale dopo aver lasciato la sua casa nel centro di Latina dove abitava quando gestiva le sue cooperative, adesso invece sembra sparita.

Raccontano che conosceva il nome di tutti i migranti che arrivavano nei centri di accoglienza, li aspettava quando arrivavano con i pulmini dal casello autostradale di Frosinone dove suo fratello Michel li andava a prelevare. L’appuntamento era in una stazione di servizio appena usciti dall’autostrada, era il 2017 e Michel Rukundo aveva 32 anni e tante vite già alle spalle, dal suo arrivo dal Ruanda, quando era poco più che bambino, insieme alla madre Marie Thérèse e alle sue sorelle, fino alla fondazione della cooperativa Karibu che dagli inizi degli anni Duemila si occupa di accoglienza? 

La moglie Liliane Murekatete, non disdegna il lusso sfrenato e l’amore per le grandi firme viaggiando tutta griffata Louis Vuitton… Lui fa lo show in parlamento presentandosi con gli stivali di gomma sporchi di fango. Lei viaggia con valigie e vestiti griffati. E postando sul suo profilo social una vita tra viaggi, alberghi e ristoranti di lusso. Ipocrisia a tonnellate. E poteva mancare una fotografia abbracciata a Roberto Saviano ? Ma certo che no ! 

In quegli anni le cose sembravano andare per il verso giusto bene: accoglienza, integrazione, impegno. Ad un certo punto il meccanismo si è inceppato, e si è fatta molti amici e molti nemici. Dai suoi detrattori Viene quasi subito soprannominata "Lady Gucci" , anche perchè la moglie del deputato Soumahoro ha sempre messo in evidenza la sua passione per la moda e il lusso. Liliane è bella ed appariscente grazie ai vestiti, borse e accessori, portati su un fisico che si fa notare. Grandi occhiali da sole, molte foto e selfie più da "influencer" sui socialnetwork che da imprenditrice nel sociale. Insomma non passa inosservata, e gli "amici" su Facebook la chiamano la regina d’Africa.

Una passione la sua per la moda che trasferisce anche sul lavoro, organizzando nel 2018 una sfilata al centro commerciale LatinaFiori, dove lei stesso indossava un abito in stile africano con il turbante. Oltre ad un casting per selezionare ragazze e ragazzi che saliranno in passerella in occasione del lancio del marchio K, un made in Italy africano ideato dai richiedenti asilo della cooperativa Karibu. CasaPound l’attacca, la mattina del 16 maggio compare uno striscione davanti alla sede cooperativa: "Per una moda che ti veste ce n’è una che ti spoglia" riferendosi chiaramente alle foto sui social in cui Liliane compare con marche costose di abbigliamento, sostenendo che questo consumismo sia figlio dell’enorme introito che deriva dall’affare dell’accoglienza dei richiedenti asilo è quasi una certezza. 

La moglie di Soumahoro così replicava: "Provo profondo rammarico come donna per le frasi che mi sono state rivolte. Il mio istinto mi spingerebbe a rivolgermi alle autorità ma la razionalità mi induce a sperare in un confronto costruttivo". Ma lei non si ferma: partecipa al matrimonio di due ragazzi ospiti della cooperativa Karibu che si sposano a poche settimane dall’uscita dal progetto Sprar di Monte San Biagio, nei giorni successivi partecipa alla pulizia delle spiagge in jeans e t-shirt con i ragazzi delle cooperative e gli amministratori comunali. E su Facebook alterna selfie in abiti eleganti, borse di lusso, vistosi cappelli, a tute da lavoro e ramazza tra le mani. Una vita che oscilla "mediaticamente" tra luccichio e impegno sociale. L’ultimo post di Liliane Murekatete è dedicato al marito Soumahoro incatenato davanti a Montecitorio la scorsa estate, la sua protesta per il salario minimo, scrive: "Fiera di come sei". Niente altro.

Provate ad immaginare se questa vicenda avesse riguardato la sorella ed il marito della Meloni, o i figli di Berlusconi cosa sarebbe accaduto in Parlamento, in televisione e sui giornali "sinistrorsi"! Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco quando definisce sul Quotidiano del Sud questa "Una tipica vicenda italiana quella di Aboubakar Soumahoro, il campione dei centri sociali, l’eroe degli stivali da lavoro portati in parlamento la cui moglie, la disoccupata Liliane Murekatete – una sorta di Ferragni – sfoggia sui social borse e accessori griffati costosissimi malgrado l’indagine sulle malsane condizioni dei rifugiati e i mancati pagamenti ai dipendenti della coop di migranti di cui è responsabile mammà, la suocera dell’onorevole, signora Maria Therese Mukamitsindo. Una storia molto italiana – ma proprio molto – su cui un Rodolfo Sonego di oggi potrebbe cavarne una sceneggiatura, il Pd farne un’altra punta avanzata del pensiero progressista, Fabio Fazio una serie di ospitate oppure la Ue, in giusto completamento con Luigi Di Maio, un altro inviato speciale nel Golfo Persico. L’arte d’arrangiarsi, infatti, è la stessa. Giggino integra l’altro. E viceversa".

Ecco come parlava di Aboubakar Soumahoro la stampa di sinistra, prima dello scandalo giudiziario che ha travolto la sua famiglia la quale stranamente oggi tace. Qualcuno si meraviglia ? Noi no ! 

Esiste in questa vicenda un problema di credibilità politica compromessa, quella di Soumahoro, e un tema di fiducia tradita, quella di Fratoianni e Bonelli, che pare non fossero a conoscenza dei guai "familiari" del sindacalista. Anche se, almeno nel caso di Fratoianni, un campanello d’allarme poteva accendersi. "Lo avevo avvisato", dichiara don Andrea Pupilla, responsabile della Caritas di San Severo, da anni impegnato a "Torretta Antonacci", uno dei ghetti di migranti nella provincia di Foggia, dove Soumahoro ha concentrato la sua attività sindacale. Un’attività "solo virtuale e tesa ad accendere fuochi, ma non l’abbiamo denunciata ora – spiega il sacerdote -. Quando è stato candidato, ho scritto personalmente a Fratoianni in privato, dicendogli che stavano facendo un autogol, ma non mi ha risposto".

Soumahoro, deputato di Verdi-Si, ha promesso in lacrime sui social di scioperare accanto ai dipendenti di quelle cooperative se risulterà che sono stati sfruttati. Ma c’è chi accusa: "Soumahoro lo sa. Era lì, portava la spesa. Era la sua famiglia. Lui era a conoscenza di quello che accadeva lì dentro". Youssef Kadmiri, 42 anni, è un ingegnere nato a Marrakesh e non parla per sentito dire. È un testimone e una vittima di quello sfruttamento. E racconta oggi al Corriere della Sera qualcosa di molto più grave di ciò che è emerso. Dice di essere stato pagato "due volte in due anni". Meno di quanto pattuito: "Un totale di 6mila euro".

Come altri suoi colleghi, alcuni dei quali ricevevano "bonifici dal Ruanda" senza contratto, "Ero operatore sociale, traducevo ai ragazzi che venivano dalla Libia, dall’Albania, dal Bangladesh, dal Marocco. Ma poi facevo anche manutenzione. La guardia la notte. L’orario non era giusto. Tante volte ho chiesto il contratto, sempre scuse. E lo stipendio di 1000-1200 euro non arrivava. Dicevano "mi dispiace". Ma io dovevo pagare l’affitto. Dopo 6 mesi ho avuto 3.000 euro. Poi niente per un anno e mezzo. Poi solo altri 3.000". Ma soprattutto Yuseff accusa: i minori che erano nella struttura venivano tenuti in una "situazione grave: gli davano poco da mangiare e non gli davano il "poket money"" la diaria per le spese personali. Redazione CdG 1947

Soumahoro e le denunce di aggressione (rimaste nel cassetto). L'associazione Anolf smentisce la raccolta fondi di Soumahoro: "Nel ghetto non ci sono bambini". E denuncia le aggressioni subite dai suoi uomini. Bianca Leonardi il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

Altre donazioni altra presunta campagna fasulla - avviata nel 2021 e ancora attiva - per la Lega Braccianti di Aboubakar Soumahoro. Su GoFundMe sono stati infatti raccolti 16mila per comprare regali ai bambini dei ghetti pugliesi di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone.

"A Natale possiamo regalare speranza. Con il vostro aiuto organizzeremo un festa per le bambine e i bambini nati e cresciuti negli insediamenti": si legge nella richiesta di aiuto di Soumahoro. A smentire la questione è Francesco Mirarchi, coordinatore Anolf, l’associazione che ha vinto il bando regionale lo scorso agosto per la gestione della foresteria di Torretta Antonacci, che racconta a IlGiornale.it: "Nei ghetti non ci sono bambini. Qui a Torretta Antonacci nemmeno uno e la stessa cosa a Borgo Mezzanone. Anche le donne sono poche, in questi posti vivono solo uomini braccianti".

In effetti, nel video social postato dalla Lega Braccianti a pochi giorni dall’inizio della campagna si vede un Soumahoro vestito da Babbo Natale, qualche aiutante che sistema l’albero di Natale e dei pacchetti presumibilmente mai consegnati. Nessun bambino e nessuna donna appare nel video che riprende molti abitanti del ghetto.

Pochi giorni dopo, un nuovo aggiornamento sulla pagina relativa alla campagna dei regali di Natale in cui la Lega Braccianti - ringraziando i donatori - alza l’asticella delle pretese, chiedendo un aiuto in più. "La vera lotta contro il caporalato nella filiera del cibo è permettere alle lavoratrici e ai lavoratori braccianti di vivere dignitosamente. Per fare ciò occorre permettere ai braccianti di avere un giusto salario che consenta un’abitazione dignitosa che permetterebbe di ottenere una residenza in modo da poter accedere ai vari servizi tra cui quelli sanitari. Inoltre, occorre aver un permesso di soggiorno", si legge sulla pagina della campagna.

Tutte le richieste avanzate dai fedeli di Aboubakar Soumahoro risultano però solo fuffa in quanto gli stessi sono ormai famosi per opporsi ad ogni gestione esterna del territorio. Chi invece agisce concretamente sul territorio è prorprio Anolf: sul posto è presente - come IlGiornale.it ha potuto verificare - un presidio aperto tutti i giorni che accoglie i migranti aiutandoli nelle procedure di ottenimento del permesso di soggiorno e residenza. Molti di quelli che vivono nei container della protezione civile, con cui abbiamo parlato a Torretta Antonacci, ci hanno mostrato i propri documenti che l’associazione gli ha permesso di avere. Tanto più, sempre Anolf ha stipulato un accordo con l’ufficio dell’impiego in modo da facilitare le pratiche di inserimento professionale, nella speranza così di contrastare il caporalato.

Tutte queste azioni non sono state viste bene dall'"esercito di Soumahoro" tanto che, come ci raccontano sia Mirarchi sia un agente della polizia presente sul posto, le aggressioni nei confronti dei nuovi arrivati non sono mancate. Una su tutte quella a Mohammed Elmajdi, presidente dell’Associazione Anolf e Segretario territoriale della Cisl Foggia. L’accoglienza che ha ricevuto, a pochi giorni dalla vincita del bando quando si è recato nella foresteria di Torretta Antonacci, non è stata delle migliori e adesso non gli è più permesso mettere piede lì. "Sono stato aggredito il primo giorno che mi sono recato a Torretta Antonacci, c’erano molte persone ma alcuni li conoscevo e li ho riconosciuti e denunciati. Sono del sindacato Usb e della Lega Braccianti - ci racconta Elmajidi - mi hanno intimato di andare via battendo sulla mia macchina".

Sulla denuncia, di cui ilGiornale.it è entrato in possesso, si leggono infatti i nomi di Balde Mamadoue, Berre Alpha e Soumaila Sambarè: proprio quei tre uomini che, come ci hanno raccontato al ghetto, sono i responsabili indicati da Soumahoro per gestire il ghetto e tutte le attività connesse. "In particolare - continua il Preidente Anolf - il signore Berre Alpha mi diceva che io, come associazione, non potevo essere presente lì e che a loro non interessava la nostra convenzione sottoscritta con la regione Puglia".

"Non so più niente di quella denuncia - conclude - mi avevano detto che mi avrebbero fatto sapere ma sono passati mesi ormai".

Altro male di questa realtà sono proprio tutte le denunce - come quella della Cgil - che restano chiuse nei cassetti. Nonostante questo, sembra esserci comunque la speranza che le cose vengano approfondite. "Portiamo avanti decine e decine di inchieste, alcune le abbiamo concluse mentre su altre sono in corso le indagini", ci racconta il Procuratore Capo di Foggia Ludovico Vaccaro. "Il caporalato e le dinamiche annesse a questo fenomeno sono una priorità, tanto che siamo tra i pochi che agiamo con lo strumento del controllo aziendale. Questo per far capire ai braccianti che non siamo noi i nemici e che il problema va risolto dalla radice".

Soumahoro fa finta di nulla: "Viaggiavo molto..." Il mea culpa mediatico del deputato con gli stivali a Piazza Pulita. "Sono stato poco attento, ma mia moglie mi disse solo che gli enti avevano dei ritardi nei pagamenti". Bianca Leonardi il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Approfondirò tutti i vari contorni della vicenda e lo farò come parlamentare della repubblica": questa la conclusione di Aboubakar Soumahoro che ha deciso di confessarsi a Piazza Pulita davanti a Formigli.
Molte le domande che il giornalista ha posto all’onorevole, quelle che tutti gli italiani si chiedono. Poche le risposte di Soumahoro che, attraverso giri pindarici e idealismi del sindacalismo vecchia scuola, non è riuscito a dare nessuna giustificazione se non un "sono stato poco attento".

Sulla questione delle coop di famiglia, Karibu e Aid, il deputato di Verdi e Sinistra Italiana sostiene che nel 2020 la moglie disse lui che c’erano dei problemi di stipendio con i dipendenti delle cooperative, ma che erano legate ai ritardi delle pubbliche amministrazioni nei pagamenti.

"Conosco quelle dinamiche di chi da gli appalti e non ci feci caso. Sono stato una volta nella coop ma assicuro che le condizioni non erano quelle che ora vengono descritte", risponde Soumahoro.
Condizioni denunciate dalla senatrice Fattori che era stata personalmente in uno dei centri trovando una situazione estremamente precaria, avvertendo anche i vertici di sinistra italiana che però glissarono - come la stessa racconta - .

"Avrei dovuto fare meno viaggi e restare vicino a quel lavoratori, dovevo fare visite improvvisate", prosegue Sumahoro facendo mea culpa sul fatto di non essere stato presente sul posto e tende a sottolineare che è l’unica scusa che si sente di fare alle persone. Fa strano - certo - visto che la sede di Latina della sua Lega Braccianti è la stessa di quella della Karibu e di Aid.

Nota di buonismo, poi, in cui l’onorevole - almeno a parole - prende le difese dei lavoratori sfruttati: "Hanno fatto bene i lavoratori a parlare e chi ha sbagliato dovrà pagare".

La domanda è sempre la stessa, ed è anche quella che chiede Formigli al deputato: "Ma poteva davvero non sapere niente vivendo con sua moglie?". Soumahoro non cede: "Sapevo solo di alcuni ritardi", "vivevamo a Roma", "C’era il bambino" e "C’era il lockdown". Insomma, niente chiacchiere a tavola per l’ex sindacalista e lady Suomahoro, a quanto pare.

Ma alla fine, come ha chiesto il padrone di casa di Piazza Pulita, di cosa viveva Aboubakar prima di entrare in parlamento? "Ho scritto un libro", ha risposto. Un solo libro che ha permesso all’ancora deputato di accendere un mutuo di 250 mila euro per la durata di 30 anni solo pochi mesi prima di entrare nei palazzi del potere.
E se durante il video in lacrime che ha fatto il giro del web affermava di avere una moglie nullatenente - con borse di fendi e scarpe di Gucci - stasera, in diretta, confessa che "la situazione economica familiare di mia moglie ci ha aiutato (riguardo alla casa ndr)" e che "mia moglie oltre alla cooperativa ha sempre avuto la sua carriera professionale". Quale non si sa, ma certo è che la Gdf, che già sta controllando i conti, farà chiarezza su questi aiuti da parte di suocera e familiari.

E sulla Lega Braccianti, un po’ come in tutta la confessione, una serie di risposte a caso a domande precise.
"E’ in grado di documentare i movimenti?" chiede Formigli riguardo ai finanziamenti raccolti con la campagna "cibo e diritti" - quei famosi 250mila euro che sembrerebbero, a quanto dicono i braccianti, mai arrivati nei ghetti - .
"Ci ho rimesso, nessuno ci ha imposto di fare queste lotte", risponde Soumahoro completamente estemporaneo, aprendo però la vicenda della denuncia degli ex soci: Sambarè, Alfa e Mamadoue.
Soumahoro non fa i nomi ma essendo stati sul posto è facile capire il riferimento: "Chi mi accusa oggi, aveva lasciato l’Usb e poi ci è tornato perchè mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio parte dei fondi, ma io mi sono rifiutato".

In realtà, una persona molto vicina all’onorevole e che ha passato gran parte della vita con lui ha raccontato a IlGiornale.it - come abbiamo già documentato nel reportage su Torretta Antonacci - la storia in modo dettagliato, smentendo Soumahoro. "Alpha Barre, Sambarè Soumalia e Mamadoue Balde sono stati pagati da Soumahoro per non dire dei fondi trattenuti. Soumahoro ha aperto tre conti alle poste a Foggia e ha messo 10mila euro per ognuno. Dopo hanno mangiato tutti da quella torta".
 Versioni contrastanti che in questa vicenda sono all’ordine del giorno.

Ma, a prescindere da ciò, la cosa che veramente fa pensare è che Aboubakar Soumahoro abbia deciso di dire la sua, di rispondere alle domande di un’Italia indignata dall’incoerenza del paladino dei diritti, senza dare una vera a propria spiegazione su nessun fatto.
 Sulle coop Karibu e Aid "è stato leggero" - un po’ come Bonelli quando ha deciso di candidarlo, anche se ora sembrerebbe ritrattare -, sulla Lega Braccianti nemmeno ha accennato alle pesanti accuse che hanno mosso, non quei tre con cui ormai - con tutta probabilità - si è creata una guerra tra clan (dove anche Usb è coinvolta, tutti lo tirano in ballo e dal sindacato solo il silenzio), ma tutti i braccianti di Torretta Antonacci, che noi abbiamo intervistato, impauriti e terrorizzati dall’egemonia dei suoi uomini che controllerebbero tutto.

Questo era il chiarimento che l’Italia si aspettava: probabilmente non sarebbe bastato, ma sicuramente sarebbe stato apprezzato.

Invece no. Se c’è però una cosa di cui Soumahoro è sicuro è che non rifarebbe mai quel video in lacrime: "Chiedo scusa, è stato un momento di debolezza". Peccato che le scuse le fa ai suoi "fan" e non ai lavoratori sfruttati delle coop o ai braccianti ai quali ogni mattina i suoi uomini ritirano i soldi per farli lavorare.

Spuntano i bilanci: ecco tutti i conti (e i debiti) delle coop dei Soumahoro. Bilanci non pubblicati, maxi finanziamenti dalle pubbliche amministrazioni e addirittura il bonus affitto. Tutti i conti di Aid e Karibu. Bianca Leonardi il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

Con l’apertura dell’inchiesta della Procura di Latina le coop della famiglia di Soumahoro sono ormai al centro del ciclone. Ancora di più adesso che la suocera del deputato, Maria Therese Mukamitsindo, è ufficialmente indagata. Da precisare, però, che le indagini vanno avanti addirittura dal 2019 e, con quanto emerso nelle ultime settimane, il denaro che negli ultimi anni gira intorno alla Karibu e al Consorzio Aid appare ora quantomeno sospetto.

I bilanci delle due cooperative non sono pubblici. Il sito della Karibu risulta infatti inattivo e su quello dell’Aid non sono presenti. Già questo non è conforme alla legge dal momento che i movimenti degli enti del terzo settore hanno l’obbligo di rendere pubblica la consultazione. Noi de IlGiornale.it, però, siamo comunque riusciti ad entrarne in possesso e abbiamo potuto vedere le cifre esorbitanti che le cooperative hanno ricevuto dagli enti statali, mediante bandi o erogazioni.

Ma entriamo nel dettaglio. Leggendo il bilancio del 31 dicembre 2020 di Aid si scoprono i bonifici che proprio la Prefettura di Latina ha erogato ogni due mesi come incarichi retribuiti per la gestione dei centri di accoglienza e dei richiedenti asilo. Il 27 marzo di quell’anno la coop ha ricevuto, infatti, due tranche da 78mila euro e 35 mila euro che - come scritto nella causale - avrebbero dovuto coprire i mesi di ottobre e novembre 2019. Stessa cosa nel mese di giugno, il 24 sono arrivano nelle tasche dell’azienda 99mila euro più altri 103mila euro. I finanziamenti sono andati avanti fino al 10 dicembre, ultimo giorno in cui il consorzio ha incassato più di 111 mila euro, dopo i bonifici precedenti di settembre e ottobre, rispettivamente di 105mila euro e 107 mila euro. Riassumendo: la Prefettura di Latina, nel solo anno 2020 - quindi a indagini già iniziate -, ha dato al Consorzio Aid circa 1 milione e 165mila euro. Nello stesso anno anche il Comune di Latina ha bonificato 10mila euro attraverso il bando multimisura per la concessione di contributi in ambito sociale. Ma c’è di più: l’azienda ha ricevuto bonus fiscali dal MISE, un contributo a fondo perduto di circa 35mila euro e altri 480 euro come bonus affitto.

Per quanto riguarda la Karibu invece si parla - al 2020 - di ben più di 2 milioni di euro di debiti, tra cui 590mila euro da saldare alle banche e 774mila circa di tasse. A tal riguardo le dichiarazioni della presidente Maria Therese Mukamitsindo - da ieri ufficialmente indagata-, suocera di Soumahoro, che ha rilasciato a Repubblica: "I ritardi dei pagamenti dipendono dagli appalti. Non abbiamo soldi da dargli (ai dipendenti ndr) perché lo Stato non ci paga in tempo". E ancora: "Siamo andati in cassa integrazione, non ci dormivo la notte" e "abbiamo dovuto licenziare dei dipendenti". Ciò che però afferma la protagonista sulla relazione di bilancio è esattamente il contrario: "Non si è potuto licenziare il personale non necessario, ne tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione". Smentita da sola la mamma della "first lady" Soumahoro che a Repubblica dice di "non dormire la notte" - dalla preoccupazione, s'intende - ma al consiglio d’amministrazione avverte che "gli sbarchi sul territorio nazionale sono diminuiti drasticamente (dopo il Covid, ndr)" e quindi si è presa la decisione "di intraprendere nuovi progetti che faranno vedere i loro risultati nei prossimi esercizi". Il tutto per risollevare l’azienda.

Questi nuovi progetti si sono concretizzati questo'anno evidentemente, quando entrambe le coop hanno partecipato al bando per l’aiuto dei profughi ucraini nell’aprile 2022. A vincere - dopo nemmeno due mesi dall’inizio della guerra - sono state entrambe, ottenendo così 259mila euro per la Karibu e 298mila euro per Aid.

Soumahoro, ascesa e caduta dei personaggi mediatici. Storia di Aldo Cazzullo su Il  Corriere della Sera il 24 novembre 2022.  

Caro Aldo, rappresentanti della Caritas, gruppo Emmaus e Cgil hanno accusato le esose congiunte dell’onorevole Soumahoro (14 mila euro netti al mese come deputato di Sinistra italiana) di aver sottratto fondi alla cooperativa pro-migranti e di gravi ambiguità. Il colosso d’argilla del… politicamente corrotto...? Dopo gli articoli, tra cui quello di Buccini, sul Corriere, sui presunti «arraffoni» vicini al «deputato con gli stivali», Bonelli e Fratoianni avrebbero dovuto chiedergli di scrivere una letterina di dimissioni da deputato per lasciare il seggio a una persona con congiunti più trasparenti. Alla fine lui si è auto sospeso, dopo un confronto con loro... Pietro Mancini

Caro Pietro, Sul conto di Aboubakar Soumahoro ormai ne esce una al giorno. La moglie soprannominata Lady Gucci, il proprietario degli stivaloni con cui si presentò a Montecitorio che li rivuole indietro, la sceneggiata vestito da Babbo Natale in un centro dove bambini non ce n’erano, le denunce di don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo, Foggia. Come è stata repentina la costruzione del personaggio, altrettanto si rivela la distruzione. Forse si è esagerato prima, forse si sta esagerando adesso. La politica e la magistratura faranno le loro verifiche, e ne sapremo di più. C’è però una riflessione che possiamo già tentare. E riguarda il sistema mediatico. Siamo alla continua ricerca di scorciatoie. Andare nelle campagne di San Severo è una faticaccia? Ma non ce n’è alcun bisogno: il personaggio è già pronto, grazie alle reti sociali e a leader politici promotori di se stessi, che con il territorio non hanno più alcun rapporto ma con i social media manager sì. Nascono così personaggi mediatici del tutto privi di consistenza, a volte con zone d’ombra, ma perfetti per la Rete e i talk. Dire una parola contro di loro diventa complicato, perché diventi razzista o comunque politicamente scorretto. Facciamo un esempio concreto. Soumahoro è stato candidato nel collegio uninominale di Modena, che nel 2018 la sinistra aveva tenuto per pochi voti. Stavolta l’ha perso, a favore di un’esponente locale di Fratelli d’Italia. Perdere il collegio di Modena è una sconfitta politico-culturale disastrosa per la sinistra. Non credo sia accaduto per il colore della pelle di Soumahoro, ma perché la sua era una candidatura paracadutata, in seguito all’accordo politico tra il Pd e Bonelli-Fratoianni; forse un militante radicato sul territorio, magari anche un vecchio arnese delle coop, quella sconfitta l’avrebbe evitata. Eppure nessuno ha fiatato, per non sembrare razzista o comunque retrogrado. Ma il segretario della Cisl di Foggia, che ha denunciato di essere stato preso a pugni e a testate dagli uomini di Soumahoro, si chiama Mohammed Elmajdi. Sarà xenofobo pure lui?

Dritto e Rovescio, Renzi contro la sinistra: "Radical chic, ipocriti, faisei". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

La nuova bandiera della sinistra ammainata a tempo record. Si parla della parabola di Aboubakar Soumahoro, eletto deputato con gran fracasso tra le fila dell'Alleanza Verdi Sinistra e abbandonato senza nemmeno tentare una difesa dopo che è esploso il caso-coop che riguarda la moglie e la cognata. Un caso che lo ha travolto e lo ha porttato all'autosospensione.

Già, il punto è che nessuno, dei suoi, lo ha difeso. Ma proprio nessuno. E proprio su questo aspetto insiste Matteo Renzi, ospite in studio di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, il programma del giovedì sera in onda su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 24 novembre.

"C'è un punto che non riguarda lui ma chi lo ha candidato - premette l'ex premier -. E questo punto è un punto su cui si deve parlare liberamente. C'è una certa filosofia di sinistra, la chiamerei radical-chic, che prima ha costruito il personaggio e poi lo ha mollato alla velocità della luce con un'ipocrisia e un atteggiamento farisaico che io reputo squallido", conclude Matteo Renzi picchiando durissimo.

Un punto di vista molto simile a quello espresso da Paolo Mieli a PiazzaPulita, la trasmissione di Corrado Formigli in onda su La7 e che aveva come ospite in studio proprio Soumahoro. Mieli, infatti, ha espresso tutto il suo stupore per il fatto che pubblicamente la sinistra non abbia nemmeno provato a difendere Soumahoro. E ancora, Mieli ha ricordato al deputato come il vero attacco, in un certo senso, non sia quello ricevuto dalla stampa di centrodestra, ma proprio quello di una sinistra che ha scelto di tacere.

La difesa in tv dell'ex sindacalista e l'attacco di Renzi: "Creano e distruggono totem". Processo a Soumahoro (non indagato), sedotto e abbandonato dalla sinistra "radical chic e con la puzza sotto il naso". Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Novembre 2022 

Da una parte c’è la sinistra che prima crea il personaggio, lo candida, sfruttando la sua popolarità, e poi alla prima occasione dubbia lo scarica, prende le distanze e lo lascia in pasto alla gogna mediatica e social. Dall’altra c’è lui, Aboubakar Soumahoro, neo deputato della Repubblica italiana, che prova a difendersi, a chiarire vicende che riguardano la moglie e la famiglia di quest’ultima in una indagine (sulle cooperative che danno lavoro ai braccianti in provincia di Latina) che non lo vede coinvolto ma i cui rumors sono bastati a Sinistra Italiana ed Europa Verde per allontanare l’ex sindacalista Usb, mostrandosi già pentiti e imbarazzati.

Siamo in Italia dove clamore mediatico e dito puntato contro alla prima occasione buona sono il pane quotidiano. Soumahoro lo sa bene e dopo essersi (speriamo senza pressioni) autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra italiana dopo 48 ore (quarantotto!) di confronto con i leader Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, a Piazzapulita sente di scusarsi ancora una volta, perché ormai per tutti è già colpevole. "Mi scuso perché sono stato poco attento, mentre giravo per il Paese, a quello che c’era a casa mia. Io non sono in quella coop, ma approfondirò tutto come deputato della Repubblica" ribadisce il deputato di origini ivoriane, oggi 42enne. "Non sapevo nulla, se fossi stato a conoscenza di una indagine sulle cooperative gestite da mia suocera non mi sarei candidato" aggiunge.

Rispetto ai ritardi nei pagamenti degli stipendi Soumahoro ha ammesso che "doveva scattare da parte mia un ulteriore approfondimento. Essermi limitato a questa situazione non me lo perdono. E’ vero, la mia famiglia gestisce centri di accoglienza, ma quella gestione ha una ventina di anni e la mia attuale compagna l’ho conosciuta nel 2018 quando la coop già esisteva".

A Soumahoro è stato chiesto conto delle immagini con accessori costosi e firmati che la sua compagna, che gestiva una coop assieme alla suocera oggi indagata per malversazione, sfoggiava sui social a fronte di 400mila euro di stipendi non pagati e di circa 200mila distribuiti alla dirigenza della coop e un resort che la sua famiglia avrebbe aperto in Ruanda. "Quelle immagini non mi hanno creato imbarazzo – ha risposto -. Il diritto all’eleganza e alla moda è libertà, la moda non è né bianca né nera. Poi quelle immagini vanno datate. Mia moglie ha la sua vita. Non lavora più nelle coop".

Soumahoro ha poi spiegato, precisando che "tutti gli atti sono trasparenti", che grazie al lavoro della moglie hanno comprato casa accendendo un mutuo trentennale. Agli ex colleghi della Lega Braccianti, poi tornati in Usb, che chiedevano conto di 56.800 euro non rendicontati su un bilancio di 220mila euro, il parlamentare rilancia: "Sono nelle condizioni di poter produrre tutte le prove. I soldi sono stati spesi per l’acquisto di generi alimentari, gel disinfettante, trasporti, e i rimanenti 56.800 sono andati nell’esercizio 2021. Il bilancio è disponibile sul sito della Lega Braccianti. Chi mi accusa oggi è tornato a far della Usb, organizzazione con cui ho un contenzioso, dopo essere passato con me nella Lega Braccianti. Sono tornati indietro perché mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio i soldi delle donazioni. Ho rifiutato".

"Ho lottato contro il caporalato, lo possono testimoniare funzionari dello Stato, questori e prefetti. Quando i braccianti furono presi a fucilate sono stato fino alle due di notte col questore" ricorda Soumahoro che precisa poi di non aver mai usato i soldi delle donazioni per finanziare la sua ascesa politica: "Assolutamente no, mai. Anzi, ci ho anche rimesso. A chiedermi di candidarmi sono stati Sinistra Italiana ed Europa Verde. Ma il mio curriculum è la storia di centinaia di braccianti. Non sono un iscritto di Sinistra Italiana, quello che è avvenuto all’interno dei partiti prima del voto io non lo so. Ma non sono certo andato io ad autocandidarmi perché la mia storia non è uno show di Hollywood ma quella che ha dato vita al primo tavolo contro il caporalato". Infine ricorda: "Sono nato per strada. Sono sempre stato nell’angolo. Ma l’essermi mosso dall’angolo non è stato un percorso individuale, è stato collettivo".

La difesa di Renzi: "Sinistra radical chic, costruisce totem e poi li distrugge"

In difesa di Soumahoro il senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex segretario del Pd. Durissime le sue parole nel corso della trasmissione "Dritto e Rovescio" su Rete 4. "C’è una certa filosofia della sinistra che io chiamo radical chic che prima ha costruito il personaggio e poi l’ha mollato alla velocità della luce con una ipocrisia e un atteggiamento farisaico squallido. È tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso" commenta Renzi a proposito della vicenda di Aboubakar Soumahoro.

"Io sono stato garantista con Berlusconi, Virginia Raggi e con quelli del Pd che non sono stati garantisti con me. Io sono garantista davvero e poi lui non è nemmeno indagato, quindi si aspetta la giustizia non si anticipa la giustizia e non si fa una strumentalizzazione politica"  spiega Renzi prima di ribadire che "l’atteggiamento della sinistra sulle vicende di altri familiari, e io ne so qualcosa, è stato vergognoso".

Con Soumahoro "oggi hanno preso e distrutto quello stesso totem che hanno costruito, è tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso. Io oggi gli do la mia solidarietà ma mi fa ribrezzo chi oggi specula su questa vicenda dopo aver fatto la morale agli altri".

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da moralizzatori a moralizzati la parabola di Propaganda Live. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 25 novembre 2022

Prima le accuse di Rula Jebreal. Poi il «caso Angelini». Infine, in rapida successione, la «palpatina» di Memo Remigi e, come se non bastasse, la bufera che ha travolto Aboubakar Soumahoro. Tempi grami, quelli che si vivono nell'entourage di Propaganda Live, il talk di La7 che rilegge con sguardo ironico la settimana politica e che, soprattutto, rappresenta ai massimi livelli il tempio della sinistra radical chic. Quella che dà patenti di presentabilità e lezioni di moralismo a tutti ma che, ultimamente, è costretta a fare i conti con una miriade di piccoli e grandi casi che travolgono protagonisti fissi e ricorrenti della trasmissione guidata da Diego «Zoro» Bianchi. Che c'azzecca Soumahoro con Propaganda Live? C'azzecca, perché è stato proprio il talk in onda ogni venerdì sera su La7 a portare sotto la luce dei riflettori il sindacalista in lotta contro lo sfruttamento del lavoro dei migranti. Era il giugno del 2018 e il tema salì alla ribalta a causa dei colpi di fucile esplosi a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, contro alcuni migranti. Uno di loro - Soumaila Sacko, attivista sindacale dell'Usb - perse la vita. E a raccontare l'inferno del lavoro in nero e sottopagato degli immigrati Diego Bianchi chiamò proprio Aboubakar Soumahoro.

Che tornò in seguito in trasmissione e divenne un volto sempre più conosciuto, al punto da guadagnarsi anche una copertina de l'Espresso in cui era contrapposto a Matteo Salvini con il titolo eloquente «Uomini o no». Il primo colpo ai campioni del moralismo era arrivato però qualche tempo prima. Esattamente nel maggio 2021, quando la giornalista Rula Jebreal annullò all'ultimo momento la sua partecipazione alla trasmissione dopo essersi accorta di essere l'unica ospite donna in scaletta. Ne seguì polverone mediatico e una lunga arringa difensiva in trasmissione da parte del gruppo Bianchi-Makkox-Damilano. Peccato che, nel frattempo, di bomba ne era esplosa un'altra, quella del chitarrista della band del programma, Roberto Angelini, multato per aver fatto lavorare in nero una dipendente del suo ristorante di sushi. Come Soumahoro, anche Angelini pubblicò sui social un video mentre era in lacrime. La classica toppa peggiore del buco, perché arrivò a dare della «pazza incattivita» alla dipendente di cui sopra. Seguì sospensione (temporanea) dalla trasmissione. Poi, dopo un po' di tempo, il ritorno in prima fila. Perché ciò che si rimprovera ai «nemici» viene facilmente perdonato agli «amici». 

Infine il caso Remigi. Col quale, va specificato, Propaganda c'entra poco, visto che la palpata incriminata alla cantante Jessica Morlacchi è andata in onda nella trasmissione Rai Oggi è un altro giorno. Remigi, però, ha dovuto il secondo tempo della sua notorietà al rilancio ottenuto grazie a Diego Bianchi, per il quale era l'inviato a Testaccio per raccogliere la vox populi dello storico quartiere romano sui principali fatti della settimana. In seguito al clamore e all'esclusione dal programma Rai, anche Propaganda si è ben guardare di richiamare sullo schermo l'ottuagenario cantautore. «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura» diceva Pietro Nenni. Nel frattempo, i «superstiti» del cast faranno bene a fare gli scongiuri. La «maledizione dei moralizzatori» ha dimostrato di non guardare in faccia a nessuno.

Caso Soumahoro, il direttore della Caritas di San Severo: "Nel ghetto di Torretta Antonacci non ci sono bambini". Storia di Redazione Tgcom24 il 26 novembre 2022.

Continuano a emergere nuovi dettagli sull'inchiesta legata ad Aboubakar Soumahoro. Il sindacalista nelle ultime ore si è  autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra dopo la notizia del coinvolgimento della suocera,  Marie Therese Mukamitsindo, nell'inchiesta sulla gestione di due cooperative che si occupano di migranti in provincia di Latina. Il fascicolo della procura è stato aperto per l'ipotesi di malversazione. L'inchiesta è partita dopo le denunce da parte di alcuni lavoratori.

"Striscia la notizia" sta seguendo da vicino il caso e ha avuto modo di verificare l'operato di Soumahoro anche in altre realtà. L'inviato del tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio, si è occupato del ghetto di Torretta Antonacci a San Severo, in provincia di Foggia. Qui, Soumahoro avrebbe organizzato una raccolta fondi che avrebbe raggiunto la cifra di 16mila euro. Tuttavia, a Torretta Antonacci di bambini non ce ne sono, come confermato dal Direttore della Caritas don Andrea Pupilla che a "Striscia" ha dichiarato: "Frequento il ghetto da 15 anni - dice il sacerdote - per fortuna, lì, non ci sono bambini. Qualche volta è capitata qualche situazione sporadica di cui ci siamo occupati insieme ai servizi sociali".

In alcuni video postati sui social, Soumahoro lamentava di come le associazioni sfruttassero i migranti per fare business: "Non puoi accusare delle associazioni quando in casa tua sta succedendo tutto questo - prosegue don Andrea Pupilla - si tratta di un problema a livello morale".

Soumahoro, l'ex socio a Striscia: "Soumahoro pagava per fare selfie e finte proteste". Il Tempo il 25 novembre 2022

A "Striscia La Notizia" su Canale 5 l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a Piazza Pulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sottoforma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. Che aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro.

Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci. 

Striscia la notizia, l'ex socio accusa Soumahoro: "Li pagava per selfie e proteste". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Stasera 25 novembre a Striscia la notizia (su Canale 5, ore 20.35) l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a PiazzaPulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sotto forma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. 

Il quale poi aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro. 

Aboubakar Soumahoro è finito nella bufera per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia

Soumahoro, il ragazzo rivela: "Mi disse vieni domani". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Mohammed el Motarajji, appena 22 anni, è tra i migranti che hanno frequentato la struttura gestita dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, Marie Thérèse Mukamitsindo. Il racconto che fa al Corriere di quanto ha vissuto nella galassia della accoglienza gestita dai familiari di Soumahoro è agghiacciante. Non usa giri di parole: "Mi avevano promesso tante cose. Un contratto, un lavoro, uno stipendio. Ho lavorato sei mesi. Niente contratto e niente stipendio. Ma la cosa che mi fa male è avere visto quei ragazzi trattati così: poco da mangiare, tante volte senza acqua, luce e riscaldamento. Il poket money , invece che ogni giorno, solo ogni tanto". 

Parole fortissime che aggiungono ombre sul parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi che si è autosospeso. E il racconto del giovane Mohammed si fa sempre più duro nei confronti di chi gestiva la struttura. "All'inizio dovevo fare il traduttore, poi l'informatico. Ma quando chiedevo il contratto mi rispondevano sempre: "Domani"". 

Ma a quanto pare l'appuntamento non è mai arrivato. "Alla fine abbiamo fatto un accordo con Marie Thérèse per avere di meno, 5 mila euro, ma subito. Abbiamo firmato. Ho aspettato. Ma non ho avuto niente". Insomma a quanto pare le promesse non venivano mantenute e di fatto la posizione di Soumahoro si fa sempre più in bilico. I racconti su i mancati pagamenti si susseguono e l'inchiesta ha scoperchiato un vaso di Pandora che potrebbe riservare nuove sorprese. 

Soumahoro, scontro in Sinistra italiana. Si allarga l’indagine sulle cooperative. Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.

La crepa si allarga. E Aboubakar Soumahoro ora è al centro di sospetti e oggetto di un scontro politico in Sinistra italiana: tra chi lo ha voluto candidare, Nicola Fratoianni, e chi sostiene di aver avvertito delle situazioni poco chiare che circondavano il deputato ora autosospeso. Situazioni delle quale Soumahoro ha sostenuto su La7 di aver «commesso la leggerezza» di non accorgersi.

Prima di tutto le cooperative gestite dalla suocera indagata per malversazione, Marie Therese Mukamitsindo e, fino a due mesi fa, dalla moglie Liliane (che dal 2008 al 2011 ha lavorato come consulente della presidenza del Consiglio nella «gestione dei dossier inerenti le relazioni bilaterali con l’Africa» per 53 mila euro).

Le segnalazioni su Karibu e Consorzio Aid, ora si moltiplicano. E così gli accertamenti. «Lasciateci lavorare», ha scritto il procuratore di Latina Giuseppe De Falco in una nota dove spiega che sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza c’è «l’impiego dei fondi erogati, i rapporti con l’erario, i rapporti con i dipendenti, i soggetti coinvolti. Gli accertamenti provengono da notizie e comunicazioni pervenute da una pluralità di fonti, di natura pubblica e privata, e si articolano attraverso il dovuto rigoroso vaglio ed approfondimento di ogni notizia e comunicazione».

Tradotto: si passano al setaccio i conti, gli affidamenti milionari ricevuti negli ultimi 4 anni per l’accoglienza dei profughi e forse distratti altrove. Si parla di ingenti finanziamenti fuori gara. Ma non si ignorano gli allarmi inascoltati sulle condizioni igieniche in cui venivano tenuti i migranti. E in particolare i minori che, privati spesso della diaria, venivano lasciati lavorare senza contratto all’esterno della struttura, nell’orario in cui sarebbero dovuti andare a scuola. Come conferma al Corriere un diciannovenne che ha paura di rivelare il suo nome: «Volevo andare a scuola ma avevo bisogno di soldi. Per mangiare, per i vestiti, per le scarpe. Andavo a lavare le macchine. Un mio amico vendeva la frutta in un negozio di egiziani come lui. Ci dicevano anche loro di andare a scuola. Ma dopo capivano che avevamo bisogno e ci aiutavano, anche se ci pagavano poco».

Soumahoro difende sua moglie supergriffata («Ha diritto all’eleganza») e non è indagato. Ma c’è un’altra situazione che ogni giorno si fa più tesa. Altre segnalazioni stanno giungendo a Foggia alle forze di polizia. Riguardano la sua raccolta fondi molto chiacchierata, sulla quale la Procura potrebbe a breve accendere un faro. Anche sulla base delle dichiarazioni dei suoi ex soci che sostengono manchino all’appello molti dei fondi raccolti. Di attacchi all’ex bracciante ne arrivano diversi. «Con i soldi delle donazioni alla nostra vecchia associazione pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone», ha detto un ex compagno della Lega Braccianti a Striscia la notizia.

E ora? « Chi ha scelto di candidarlo deve assumersi per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto» scrivono i dirigenti di Sinistra italiana Edoardo Biancardi, Stefano Ciccone, Elena Fattori, Sandro Fucito, Claudio Grassi, Alessia Petraglia, Serena Pillozzi, Antonio Placido e Silvia Prodi. Ce l’hanno con Nicola Fratoianni. Ma lui tira dritto: «Aboubakar era un simbolo. Che una parte della minoranza interna usi questo tema non merita commenti».

Caso Soumahoro, un testimone: «Poco cibo e niente luce, così trattavano i ragazzi. Io? Mai visto lo stipendio». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

Mohammed 22 anni, studente di Ingegneria del Marocco, lavorava nella cooperativa gestita dalla suocera e, fino a due mesi fa, dalla moglie di Abubakar Soumahoro e racconta la situazione di disagio dalla quale due minori sono fuggiti in Francia

«Mi avevano promesso tante cose. Un contratto, un lavoro, uno stipendio. Ho lavorato sei mesi. Niente contratto e niente stipendio. Ma la cosa che mi fa male è avere visto quei ragazzi trattati così: poco da mangiare, tante volte senza acqua, luce e riscaldamento. Il poket money, invece che ogni giorno, solo ogni tanto». Mohammed el Motarajji aggrotta la fronte, turbato. È poco più grande di quei minori venuti da Libia, Albania, Bangladesh accolti nella struttura gestita dalla suocera di Aboubakar Soumahoro, Marie Therese Mukamitsindo: una casa famiglia dove lui, studente di ingegneria del genio civile, venuto dal Marocco per lavorare e poter continuare a pagarsi l’università, pensava di aver realizzato il suo sogno.

A prospettarglielo Aline, la figlia di Marie Therese: «All’inizio dovevo fare il traduttore, poi l’informatico. Ma quando chiedevo il contratto mi rispondevano sempre: “Domani”». Quel «domani» non è mai arrivato. «Alla fine abbiamo fatto un accordo con Marie Therese per avere di meno, 5 mila euro, ma subito. Abbiamo firmato. Ho aspettato. Ma non ho avuto niente», racconta al Corriere Mohammed . Mostra quel documento, fa spallucce e sorride lo stesso. È ripartito da zero. Con il coraggio dei 22 anni. Lo stesso che ha spinto due dei minori della struttura a scappare in Francia.

Altri, ospiti o dipendenti della struttura, non vogliono più parlare. Hanno «paura». Finora si sono rivolti solo, e non tutti, al sindacato Uil-tuc. Così le indagini della Procura di Latina si concentrano sul filone principale, quello delegato alla Guardia di Finanza, che vede indagata per malversazione Marie Therese Matsukindo, con l’ipotesi che i fondi ministeriali destinati all’accoglienza dei migranti siano stati distratti e destinati ad altro. Nessuna denuncia è stata presentata in Procura, alla Finanza e nemmeno ai carabinieri, invece, di episodi come quelli descritti da Mohammed che, se verificati, potrebbero far ravvisare i contorni di una sorta di sfruttamento di quei minori.

Resta per ora un mistero anche la frettolosa eliminazione di documenti: otto sacchi di plastica nera zeppi di fascicoli e carte relative agli immigrati accolti. Un passante, incuriosito dal via vai sotto la sede legale delle cooperative riconducibili a Marie Therese, li ha notati e segnalati ai carabinieri del comando provinciale di Latina che li hanno subito sequestrati. Anche per la coincidenza temporale tra lo scoppiare del caso e il repulisti di documenti.

Sul fatto che diversi dipendenti siano stati pagati poco e male invece le evidenze sembrano farsi più chiare. Ci sono testimonianze, carte e documenti ufficiali che attestano accordi violati, prestazioni non contrattualizzate, interventi del sindacato per ottenere il pagamento «sostitutivo» della retribuzione da parte della prefettura avvenuto in quattro casi di dipendenti non pagati dopo aver lavorato alla cooperativa gestita dalla suocera e, fino a due mesi fa, dalla moglie di Soumahoro.

Oltre alla Guardia di Finanza su questo sono all’opera, in questi giorni, gli ispettori del ministero del Lavoro. Stanno concludendo un’attività iniziata, dicono, da mesi sulla base di denunce di alcuni lavoratori.

Mentre al ministero delle Imprese e del Made in Italy si vagliano i risultati di quella revisione che è stata fatta da Confcooperative e caricata sul portale del Mise solo qualche giorno fa: doveva essere conclusa entro marzo. Al termine di questi accertamenti si valuterà se la situazione è sostenibile o se Karibu e Consorzio Aid sono passibili di commissariamento.

Grazia Longo per “la Stampa” il 25 novembre 2022.

Angela C. ha 44 anni, gli ultimi 8 dei quali impiegati a lavorare come operatrice sociale nella cooperativa Karibu dei familiari del deputato eletto nelle fila di Alleanza Verdi-Sinistra italiana, Aboubakar Soumahoro. La coop è gestita da sua suocera Marie Therese Mukamitsindo, sua moglie Liliane Murekatete e suo cognato Michel Rukundo. 

Da quanto tempo non percepisce più lo stipendio?

«Da 22 mesi, inoltre mi spetta anche il pagamento di tre tredicesime, quella del 2020 più le altre del 2021 e del 2022». 

La Karibu si occupa dell'accoglienza migranti nella zona dell'agro pontino, in provincia di Latina. Sono tanti i dipendenti italiani come lei?

«Almeno l'85 per cento. Sono tutte professioni del terzo settore per aiutare, nel processo di integrazione, i migranti che spesso lavorano come braccianti». 

E siete tutti senza stipendio da 22 mesi?

«Praticamente sì, chi qualche mese in più, chi meno. In 26 ci siamo rivolti al segretario del sindacato Uiltucs Gianfranco Cartisano per ottenere giustizia. Ora mi sono licenziata per giusta causa».

Quando ha iniziato a lavorare per la Karibu?

«Alla fine del 2014». 

E le era già capitato di non ricevere regolarmente la retribuzione mensile?

«Sì, più di una volta mi era successo di non percepire lo stipendio anche per 4 o 5 mesi di fila, ma poi arrivava il bonifico con tutti gli arretrati». 

E qual era la giustificazione per questi ritardi?

«Me la forniva direttamente Marie Therese Mukamitsindo. "Non sono arrivati i soldi dal ministero" mi diceva, o "dalla prefettura", in base a chi era affidato l'appalto. Poi quando arrivavano i pagamenti la suocera di Soumahoro mi saldava tutto. Proprio per questo all'inizio del 2021 non mi sono preoccupata più di tanto». 

Pensava si trattasse del solito ritardo?

«Proprio così. Ma poi più trascorrevano i mesi e più mi allarmavo. Anche perché le scuse accampate non si reggevano in piedi».

Che cosa le diceva Marie Therese Mukamitsindo?

«Giustificazioni banali: "Non arrivano i soldi da Roma, appena arrivano ti pago", oppure "Ho problemi con il bonifico, dammi dieci giorni e sistemo tutto" o ancora "È cambiato il direttore della filiale della banca e ho qualche difficoltà". Insomma la tirava per le lunghe e alla fine ho capito che quei soldi non sarebbero mai arrivati, così ho chiesto aiuto al sindacato». 

Quanti soldi le spettano?

«Intorno ai 20 mila euro». 

Qual era l'atteggiamento di Marie Therese Mukamitsindo?

«Sempre molto gentile. È una donna di grande cortesia, capace di offrire sostegno e solidarietà. Per questo io all'inizio mi fidavo. C'era un'atmosfera bella, quasi familiare e mai avrei pensato di ritrovarmi a questo punto». 

Ha mai incrociato Aboubakar Soumahoro alla coop?

«No mai. Anche con sua moglie ho avuto sporadici contatti. Io mi rapportavo sempre con Marie Therese o con l'altro figlio Michel Rukundo». 

Oltre a non pagarle lo stipendio non le hanno neppure versato i contributi.

«Un ulteriore danno a cui peraltro si aggiunge anche la beffa». 

Perché?

«Perché per il 2021 sono stata anche obbligata a pagare il Cud. Nonostante non avessi ricevuto un euro dalla Karibu, sono stata costretta a pagare le tasse nella dichiarazione dei redditi. Una follia. E non è l'unica amarezza che provo». 

A che cosa allude?

«Non mi capacito del fatto che gli enti che appaltavano i lavori non hanno mai fatto un controllo per verificare se fosse tutto in regola. Abbiamo dovuto aspettare il sindacato per far venire a galla la verità».

La denuncia dei dirigenti di SI: "Fratoianni sapeva tutto su Soumahoro ma lo ha candidato". Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

Nobile e Barbieri scrivono al segretario di Sinistra Italiana: "Era al corrente delle ombre attorno al sindacalista, ma lui mostrò indifferenza". Chiesta la convocazione urgente di un'assemblea che rischia di trasformarsi in un processo al leader

Un atto di accusa molto duro e l'obiettivo non è tanto o più Aboubakar Soumahoro ma i vertici di Sinistra Italiana che avallarono la sua candidatura. Perché - è la denuncia - sapevano tutto, la scorsa estate durante le riunioni di partito erano stati messi al corrente delle ombre attorno al sindacalista; ombre che avrebbero suggerito di non coinvolgerlo nell'avventura elettorale.

Fratoianni: "Ombre su Soumahoro, ma non mi sono pentito di averlo candidato". Giovanna Vitale su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

Il segretario di Sinistra italiana: "Nessuno mi ha mai parlato di questioni di natura penale"

Non è pentito di averlo candidato in Parlamento: Aboubakar Soumahoro era l'icona perfetta per il messaggio che l'alleanza Verdi-Si intendeva trasmettere, quello di una sinistra ecologista attenta ai migranti, agli sfruttati, agli ultimi. Ma certo Nicola Fratoianni fatica a nascondere l'imbarazzo e il malumore provocati dall'inchiesta che ha coinvolto suocera e moglie del leader dei braccianti.

Le coop di Liliana Murekatete: dalla regione Lazio 500 mila euro alla moglie di Aboubakar Soumahoro.  Clemente Pistilli su La Repubblica il 26 Novembre 2022.

Andato in crisi il business legato ai richiedenti asilo e agli altri migranti giunti in Italia dall'Africa con le carrette del mare, moglie e suocera del deputato si sono lanciate in quello legato agli ucraini in fuga dalla guerra

Un affare tira l'altro. Andato in crisi il business legato ai richiedenti asilo e agli altri migranti giunti in Italia dall'Africa con le carrette del mare, le cooperative della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro si sono lanciate in quello legato agli ucraini in fuga dalla guerra.

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per roma.repubblica.it il 25 novembre 2022.

Cinque milioni e mezzo di euro in 18 anni e quasi tutti senza gara, andando avanti di proroga in proroga. Una somma imponente quella che ha incassato la cooperativa Karibu dal Comune di Sezze, in provincia di Latina, dove ha sede la coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo. E non è diverso il quadro nella vicina Roccagorga, un centro di appena quattromila abitanti, dove in passato a lavorare con la cooperativa sono stati anche pubblici amministratori e dove ad affittare immobili in cui ospitare i migranti sono stati pure funzionari comunali.

Del resto la cooperativa è arrivata a gestire il 40% dei centri per migranti in terra pontina. Nel 2018 erano ben 51 su 129, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo. Coop su cui sta indagando la Procura della Repubblica di Latina, cercando di far luce su stipendi non pagati ai dipendenti, migranti costretti a tirare avanti con poco cibo, senza acqua e senza luce, ipotesi di fatture false, raggiri e flussi di denaro diretti all'estero e in parte rientrati in Italia. Accertamenti a cui si sono uniti quelli dell'Ispettorato del lavoro e del Ministero delle imprese e del made in Italy, che una volta esploso lo scandalo hanno portato l'onorevole Soumahoro ad autosospendersi dal gruppo Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera.

La Karibu a Sezze, dove i carabinieri di recente hanno anche sequestrato numerosi documenti della cooperativa inspiegabilmente buttati nei cassonetti prima della dismissione della sede, ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Da allora è poi andata avanti senza vincere altre gare, tra una proroga e l'altra. E attorno al 2015 ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Un sistema andato avanti fino al 2019 […] 

E gli affidamenti senza gara? Tutti con semplici determine comunali. Con un sistema che non è stato bloccato neppure dalle numerose proteste compiute da migranti ospiti delle strutture Karibu, che come nel caso delle denunce oggetto attualmente di indagini lamentavano cibo scarso e di cattiva qualità, pochi vestiti, strutture precarie e la mancata erogazione dei pocket money, le somme destinate agli ospiti come previsto dalle apposite convenzioni. […]

Problemi analoghi a Roccagorga. Nel piccolo centro il progetto Sprar è stato avviato nel 2004 e affidato all'associazione setina "La Campanella". L'anno dopo è subentrata la Karibu ed è andata avanti, sempre con il sistema delle proroghe, fino a due anni fa. Per quindici anni. La convenzione veniva rinnovata automaticamente alla scadenza di ogni triennio, fino ad arrivare all’ultimo rinnovo per il triennio 2016-2019. Solo nel 2014 Roccagorga ha ottenuto oltre 300mila euro di fondi per i rifugiati e, solo tra il 2017 e il 2019, ben 535mila euro l'anno. 

"Abbiamo detto noi basta a quel sistema. Avevamo raccolto numerose segnalazioni sui troppi problemi con le case in cui erano ospitati i migranti", specifica l'ex assessore al turismo e al decoro urbano Andrea Orsini, della Lega.

"La coop Karibù ha avuto un legame forte con il Pd e i Comuni amministrati: dagli affidamenti con fondi pubblici, spesso senza una gara, alle proroghe puntuali a ridosso delle scadenze, dagli immobili affittati dai dipendenti pubblici alla coop, fino all'assunzione di un amministratore democratico nella società della suocera di Soumahoro. Accadeva a Roccagorga, ma il modus operandi, difeso con le unghie e con i denti dalla sinistra, si è diffuso a macchia di leopardo a suon di affidamenti e proroghe anche a Sezze e Priverno", afferma Angelo Tripodi, capogruppo della Lega in consiglio regionale. […]

Estratto dell'articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 25 novembre 2022.

Chi è Aboubakar Soumahoro? La domanda comincia ad avere un fascino letterario: un idealista ingenuo e un po' naïf? Un volgare imbroglione? La sua è la storia di un accidentale e inconsapevole inciampo o è la truffa politica del decennio? 

Il fascino sta ovviamente anche nella possibilità che una pista non escluda del tutto le altre, come sa chi ha amato L'impostore di Javier Cercas, libro che racconta la vicenda umana e politica di Enric Marco, militante antifranchista, capo del sindacato anarchico negli anni Settanta e presidente dell'Associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di sterminio, dove in realtà - a dispetto dei suoi racconti inventati - Marco non aveva trascorso un solo giorno della sua vita. 

Abou, come lo chiamano gli amici, diventa un personaggio pubblico nel 2009, quando interviene da oratore a una manifestazione antirazzista e colpisce molti per la nettezza della denuncia dello sfruttamento e per il suo italiano forbito, lui arrivato a 19 anni dalla Costa d'avorio e laureato in sociologia alla Federico II di Napoli. 

Si arruola nell'Usb, piccola ma agguerrita sigla del sindacalismo di base, occupandosi di braccianti e caporalato. I media si accorgono presto di lui. Propaganda Live , tempio della sinistra catodica, lo elegge punto di riferimento per la ricostruzione del campo di valori e programmi del disastrato progressismo nazionale. Una copertina dell'Espresso lo mette a fianco di Matteo Salvini, allora ministro dell'Interno, sopra il titolo Uomini e no. Intellettuali, artisti, influencer lo aiutano e finanziano.

Quindi Abou lascia l'Usb, già accompagnato dalle accuse dei suoi compagni su scarsa trasparenza e affarismo, e fonda la Lega dei Braccianti, mezzo sindacato e mezzo associazione per i diritti, che aveva sede proprio alla Karibu, la coop di suocera e moglie con sede a Latina, dove sotto i suoi occhi - inconsapevoli secondo la versione familiare, omertosi o complici secondo la logica - accadeva molto di ciò che Abou dichiara di combattere da sempre: stipendi non pagati o in nero, uso opaco di fondi pubblici, maltrattamenti e condizioni indegne di un'accoglienza umana e solidale agli immigrati. 

«Sapevo solo degli stipendi non pagati, avrei dovuto viaggiare meno e visitare più spesso la struttura», è stata la versione difensiva data ieri a Piazzapulita . Il conduttore Corrado Formigli gli ha anche chiesto: «Ma lei come si manteneva?». La risposta: «Ho scritto un libro». La replica: «E con i soldi di un libro ha comprato una casa?». La risposta: «Insieme a mia moglie». 

Come una slavina che aspettava solo un varco per precipitare a valle, sono spuntate altre denunce su episodi poco chiari della biografia politica di Abou. Improvvisamente pare tutti sapessero che qualcosa non tornava. Cominciano ad affastellarsi episodi oscuri, alcuni già pubblici e altri no: bonifici della coop di famiglia verso il Ruanda, dove il cognato di Abou ha aperto un resort, una sottoscrizione per portare cibo nei ghetti in pandemia - oltre 250 mila euro raccolti che non si capisce bene se e come sia stata spesa. Caritas e Cgil locale raccontano di come nel 2020 squadracce agli ordini di Abou abbiano impedito con la violenza l'avvio di un programma di lezioni di italiano agli immigrati di Borgo Mezzanone. 

Un prete della Caritas, don Pupilla, spiega di aver avvisato Nicola Fratoianni che Abou non era quello che sembrava e che sarebbe stato un "autogol" candidarlo. Fratoianni, che alla fine Abou l'ha portato in Parlamento insieme al leader del Verdi Angelo Bonelli, spiega di essersi perso il messaggio di don Pupilla su Instagram e di aver chiarito al telefono con lui l'equivoco solo due giorni fa.

Dalla Flai, ramo braccianti della Cgil arriva un'accusa addirittura più grave: gli uomini della Lega braccianti a Borgo Mezzanone sono quelli che hanno in mano la gestione del caporalato locale. Accuse da provare, e che potrebbero anche rientrare nella furia dello scontro sindacale. Intanto i giornali della destra banchettano. La nemesi di Soumahoro è che ora la sua parabola si rovescia nella legittimazione del peggiore repertorio sovranista: il buonismo come copertura di attività lucrose, il progressismo come falsa coscienza. Bel danno per chi a queste tesi continua a dare il nome che meritano. 

Fratoianni e Bonelli hanno incalzato Abou nel corso di un colloquio l'altroieri alla Camera. Gli hanno chiesto: sapevi o no dei guai combinati dalla coop di tua suocera e tua moglie? I due leader di partito sono usciti dal confronto frastornati dal dubbio di essere rimasti vittima di un abbaglio collettivo, del quale però sanno di portare una quota di responsabilità. Comunque hanno insistito: devi spiegare nel merito, c'è un problema politico che non riguarda gli eventuali aspetti penali della vicenda. 

Questo è uno dei punti più spinosi, perché molti dei sostenitori a oltranza di Abou si fanno scudo della mancanza di avvisi di garanzia, parlano di "macchina del fango" e invocano il garantismo, senza rendersi conto di praticare una forma ancora più subdola e letale di giustizialismo, quella per la quale si può istruire una valutazione politica dei fatti solo se e quando ci sia una carta giudiziaria a consentirlo. In pratica, il dibattito pubblico trasformato in un enorme virtuale ufficio del gip. 

Il famigerato video di autodifesa in cui Abou sovverte anche la logica delle emozioni, parte piangendo e chiude sbraitando e lanciando accuse a imprecisati centri di complotto contro di lui, cerca di portare la sua vicenda sul piano che conosce meglio, la guerra mediatica, che ora però rischia di sfuggirgli di mano, perché anche qui, come sulle minacce di querela, la distonia culturale ha spiazzato tanti: lo show a favore di telecamera faceva più D'Urso che Zoro. «Non lo rifarei mai più il video, è stato un momento di debolezza, me ne scuso», ha detto sempre a Piazzapulita .

Nel frattempo Abou è tornato in Puglia, si è fatto fotografare di spalle, ritto come un fuso davanti a un bracciante che raccoglie olive, con gli stessi stivali di gomma che indossava il giorno del debutto in Parlamento e che un suo ex socio della Lega, espulso, sostiene essere i suoi («Me li restituisca, a lui non servono, io ci devo lavorare»). Infine, ieri, si è autosospeso dal gruppo parlamentare Si-Verdi. 

Con una mossa in cui è difficile distinguere tra sprezzo del pericolo e sprezzo del ridicolo, Abou ha detto di voler fondare un nuovo partito della sinistra, mettendosi in proprio come ha fin qui fatto ogni volta che gli è riuscito di salire uno scalino politico. (...)

Caso Soumahoro, il direttore della Caritas di San Severo: "Nel ghetto di Torretta Antonacci non ci sono bambini". Storia di Redazione Tgcom24 il 26 novembre 2022.

Continuano a emergere nuovi dettagli sull'inchiesta legata ad Aboubakar Soumahoro. Il sindacalista nelle ultime ore si è  autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra dopo la notizia del coinvolgimento della suocera,  Marie Therese Mukamitsindo, nell'inchiesta sulla gestione di due cooperative che si occupano di migranti in provincia di Latina. Il fascicolo della procura è stato aperto per l'ipotesi di malversazione. L'inchiesta è partita dopo le denunce da parte di alcuni lavoratori.

"Striscia la notizia" sta seguendo da vicino il caso e ha avuto modo di verificare l'operato di Soumahoro anche in altre realtà. L'inviato del tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio, si è occupato del ghetto di Torretta Antonacci a San Severo, in provincia di Foggia. Qui, Soumahoro avrebbe organizzato una raccolta fondi che avrebbe raggiunto la cifra di 16mila euro. Tuttavia, a Torretta Antonacci di bambini non ce ne sono, come confermato dal Direttore della Caritas don Andrea Pupilla che a "Striscia" ha dichiarato: "Frequento il ghetto da 15 anni - dice il sacerdote - per fortuna, lì, non ci sono bambini. Qualche volta è capitata qualche situazione sporadica di cui ci siamo occupati insieme ai servizi sociali".

In alcuni video postati sui social, Soumahoro lamentava di come le associazioni sfruttassero i migranti per fare business: "Non puoi accusare delle associazioni quando in casa tua sta succedendo tutto questo - prosegue don Andrea Pupilla - si tratta di un problema a livello morale".

Soumahoro: Usb, lavoratori in Lega Braccianti rimasti scottati. I lavoratori che inizialmente fuoriuscirono dall’Usb nel 2020 per aderire alla Lega Braccianti di Soumahoro «tornarono» nell’Unione sindacale di base perché «scottati da una gestione economica come quella che sta emergendo dalle indagini e dalle denunce degli stessi».

Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Ilavoratori che inizialmente fuoriuscirono dall’Usb nel 2020 per aderire alla Lega Braccianti di Soumahoro «tornarono» nell’Unione sindacale di base perché «scottati da una gestione economica come quella che sta emergendo dalle indagini e dalle denunce degli stessi». E' quanto evidenzia l’Usb in una nota in cui ripercorre i rapporti del sindacato con il deputato Aboubakar Soumahoro, al centro delle polemiche per le inchieste in cui sono coinvolte la moglie e la suocera in relazione alla gestione di alcune cooperative di migranti.

Secondo quanto precisa il sindacato, Soumahoro ha lavorato con l’Usb dal 2007 al 2020 ma nel 2018, dopo «le prime apparizioni sui media, ha mostrato una evidente insofferenza ad una relazione d’organizzazione, piegando le iniziative sindacali alla propria necessità di emergere piuttosto che alla concreta risoluzione dei problemi». «La costruzione della Lega Braccianti - prosegue l’Usb - non un sindacato ma un’associazione, avviene a marzo 2020 a nostra insaputa» e «produce una spaccatura tra i braccianti del Foggiano, tra quelli che scelsero di rimanere in Usb e quanti decisero inizialmente di seguire Abou».

Con l’iniziale esposizione mediatica di Soumahoro - prosegue l'Usb - «è iniziata la sua vita pubblica con presenze televisive, inviti a convegni, produzione di un libro, in cui l'Usb usciva definitivamente dal suo orizzonte, divenuto a quel punto del tutto individuale: la rottura definitiva è arrivata dopo un ennesimo tentativo dell’Esecutivo di costringerlo ad un confronto, risultato però del tutto infruttuoso».

«Abou - ricorda l’Usb - ha lavorato con noi dal 2007 e formalmente fino al 2020» e si occupava di diritti dei lavoratori, con azioni che inizialmente «erano frutto di scelte collettive e condivise».

Aggressioni verbali, spintoni e calci. Così venivano trattati i sindacalisti che osavano entrare nel Gran Ghetto di San Severo (Foggia) per assistere i migranti nel percorso di 'prima accoglienzà. Autori delle violenze alcuni braccianti ritenuti vicini all’Usb, sigla sindacale dalla quale è nata nel maggio 2020 la Lega Braccianti fondata dal neo deputato Aboubakar Soumahoro.

«In quel ghetto si entrava a fatica», racconta il segretario provinciale della Cgil Foggia, Daniele Iacovelli, parlando delle recenti vicende sullo sfruttamento dei braccianti in varie parti d’Italia e, soprattutto, dell’aggressione subita nell’estate del 2020 all’interno del «Gran Ghetto» (Torretta Antonacci) che si trova nelle campagne del Foggiano. «Riscontrammo - aggiunge - che non erano gradite intromissioni». «Ottenemmo dalla Regione Puglia - spiega - la gestione di uno dei container presenti nell’insediamento spontaneo. Lì avremmo dovuto offrire ai braccianti una sorta di 'prima accoglienzà indirizzandoli per l'ottenimento del permesso di soggiorno o di qualsiasi altro documento». Con la Cgil di Foggia era presente anche l'associazione BaoBab che avrebbe avviato percorsi di alfabetizzazione e di lingua italiana. «Ci aggredirono in maniera violenta. Ci minacciarono, ci dissero che dovevamo andare via e ci tolsero addirittura le chiavi del container». Per questa aggressione Iacovelli presentò una denuncia in Procura a carico di tre braccianti dell’Usb. «Nel luglio 2020, quando avviammo le lezioni di italiano, per un lungo periodo venimmo scortati dalla polizia - aggiunge Domenico La Marca, presidente di Baobab -. Erano una decina i migranti facinorosi che ci impedivano di svolgere le lezioni».

«E' almeno dal 2020 che il gruppo di Aboubakar Soumahoro ha 'monopolizzato' come sindacato» il Gran Ghetto di San Severo e "ancora oggi che quelle stesse persone hanno prese lo distanze dalle iniziative di Aboubakar per dissidi legati a un crowfounding di circa 250mila euro, nel ghetto resta una situazione di monopolio e gli altri sindacalisti continuano a non essere i benvenuti», sottolinea ancora Iacovelli.

L’altro episodio di violenza è avvenuto ai danni di Mohammed Elmajdi, presidente dell’associazione Anolf della Cisl Foggia. "Con la nostra associazione - afferma - abbiamo vinto un bando della Regione Puglia per la gestione di un container per accoglienza, vigilanza e assistenza pratiche per permesso di soggiorno a Torretta Antonacci». «Il 5 agosto scorso - ripercorre - sono stato aggredito verbalmente da una decina di migranti riconducibili all’Usb; sono ritornato l’11 agosto e, in questo caso, gli stessi braccianti mi hanno circondato ed aggredito fisicamente. Ho riportato ferite giudicate guaribili in sette giorni». Anche Elmajdi ha sporto denuncia.

Sulle aggressioni interviene anche Antonio Di Gemma, segretario provinciale Usb Foggia, che esclude che vi siano «lotte interne tra l’Usb e la Lega Braccianti». «Gli episodi di violenza - conclude - sono legati unicamente alla gestione del Gran Ghetto. I braccianti dell’Usb hanno istituito una loro associazione e chiedono alla Regione Puglia di indire un bando per la gestione dell’insediamento al quale vogliono partecipare».

Il deputato fa un passo indietro dopo le polemiche sugli appalti per i migranti. Maurizio Zoppi su L’Identità il 25 Novembre 2022

E’ entrato dalla porta ed è uscito dalla finestra. Aboubakar Soumahoro si è autosospeso dal partito Alleanza Verdi e Sinistra. Il deputato, arrivato in Parlamento come paladino dei diritti degli ultimi, dei migranti sfruttati dal caporalato, è stato costretto a fare un passo indietro.

Dopo il secondo incontro con il leader dei Verdi Angelo Bonelli e il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, l’attivista ha deciso di “congelare” il suo incarico politico, sino a quando “non si chiarirà tutto”. Il primo incontro tra Soumahoro e i suoi compagni di partito si è svolto a Montecitorio, nelle stanze del capogruppo rossoverde. É durato oltre due ore, ma è stato interrotto per proseguire ieri pomeriggio. Bocche cucite all’uscita. Ma il rinvio ha fatto capire che, nonostante il clima che viene definito tranquillo, non tutti i nodi erano stati sciolti. E che in oltre due ore, le spiegazioni del parlamentare, non erano bastate ai due leader. Tantissimi i temi sul tavolo: a partire dall’iscrizione della suocera nel registro degli indagati della procura di Latina. Ma anche le attività economiche del cognato Richard – anche lui dipendente delle coop – in Ruanda.

Stando a questa ricostruzione, sembrerebbe proprio che la verità politica, probabilmente, è un’altra. Al suo gruppo parlamentare non è mai piaciuta la tendenza che ha avuto in questi giorni il deputato con gli stivali di non rispondere alle domande rispetto alle accuse che gli venivano rivolte. Ma anche e soprattutto le testimonianze che da giorni fioccano sulla sua attività con i migranti. Parliamo dei compagni della Lega Braccianti o il capo della Caritas locale, che addirittura invitò Fratoianni a non candidare Soumahoro. Proprio Fratoianni, in questi giorni è stato lapidario, dichiarando che la faccenda stava investendo il suo partito. Evidente imbarazzo da parte di Bonelli, che proprio ieri mattina aveva affermato ai giornali: “Non è che sono in imbarazzo. Sono turbato dalle notizie, e ringrazio l’autorità giudiziaria che evidenzia fatti che però vanno verificati. Dobbiamo assumere la migliore posizione possibile, prima di tutto per lui stesso”. Il sindacalista del Coordinamento agricolo, da subito si è dichiarato del tutto estraneo al caso che coinvolge la sua famiglia. Il suo nome non compare nelle indagini. Domenica 19 novembre ha diffuso in video nel quale, in lacrime, chiedeva: “Mi dite cosa vi ho fatto? Da una vita sto lottando per i diritti delle persone. Vent’anni per strada a lottare per dare dignità alle persone. La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro qualsiasi forma di sfruttamento. Voi mi volete morto. Ho sempre lottato”.

Ma alla fine della storia, è arrivata una nota stampa dal sapore di sconfitta: “Abbiamo incontrato Aboubakar Soumahoro per discutere ed approfondire le vicende che da giorni sono al centro della cronaca. Lo abbiamo trovato sereno e determinato – si legge nella nota di Alleanza Verdi e Sinistra -. Ci ha esposto il suo punto di vista e ha annunciato l’intenzione di rispondere punto su punto e nel merito alle contestazioni giornalistiche ribadendo la sua assoluta estraneità alle vicende. Naturalmente sarà lui a farlo, nelle forme e nei tempi che riterrà più opportuni. Perché questo avvenga con la massima libertà, Aboubakar Soumahoro ci ha comunicato la decisione di autosospendersi dal gruppo parlamentare”. E ancora: “Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni e del valore dell’impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi che abbiamo sempre condiviso con Aboubakar. Siamo fiduciosi, considerato quanto riferitoci, che la vicenda possa essere chiarita in tempi rapidi e senza alcuna ombra”.

Lady Accoglienza e quel battesimo fra gli applausi al Meeting di Rimini. Rita Cavallaro su L’Identità il 25 Novembre 2022

Un pozzo senza fondo. Di accuse, di contributi pubblici, di ipocrisia. Si è scoperchiato il vaso di Pandora sugli affari di casa Soumahoro, finita nel mirino degli inquirenti che hanno indagato Maria Therese Mukamitsindo, suocera del deputato, per malversazioni di erogazioni pubbliche sull’accoglienza dei centri per migranti gestiti dalle coop fondate dall’imprenditrice, il Consorzio Aid e la Karibu, e nella cui amministrazione, fino allo scorso 17 ottobre, era coinvolta anche la moglie di Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete. Da mesi, sulle due cooperative, erano in corso accertamenti dell’Ispettorato del Lavoro, che sta facendo luce sulle denunce di una trentina tra dipendenti e migranti, che attraverso il sindacato hanno lamentato di non essere stati pagati, per almeno 18 mensilità, di non essere stati assistiti, lasciati addirittura senza cibo e acqua, e di essere stati maltrattati. Eppure, come rivelato in esclusiva su L’identità, il business delle coop di Mukamitsindo era enorme, se si calcola che solo Karibu, negli ultimi anni, ha incassato quasi 65 milioni di euro per gare vinte al Ministero dell’Interno, alla Regione Lazio, alle Pari Opportunità. Un fiume di soldi passato nelle casse di quella che, inizialmente, era una piccola realtà: Karibu aveva visto la luce all’inizio del nuovo millennio e nel 2001 aveva partecipato a un bando del Viminale per donne sole e bambini richiedenti asilo. La svolta, che trasformerà Maria Therese nella grande signora dell’accoglienza da milioni di euro l’anno, arriva nel 2010, quando la fondatrice di Karibu partecipa al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dedicato all’integrazione al femminile. “L’approccio di Karibu non è nient’altro che il perfezionamento della mia esperienza di donna in fuga. Quando sono arrivata in Italia, non c’era nessuno ad accogliermi. Ho vissuto la difficoltà di una mamma che non ha niente da dare ai suoi bambini, obbligata ad andare alla Caritas a chiedere il cibo, a chiedere un vestito, a chiedere”, disse nel suo intervento dal palco. Parole emotivamente forti, che oggi fanno male a quelle donne che, come certificato dai video girati nei centri di accoglienza della famiglia di Soumahoro, chiedevano disperatamente da mangiare per i loro figli e dicevano di dover andare appunto alla Caritas perché lì non si vedevano né soldi né alimenti. E che indignerebbero perfino una famiglia ucraina, fuggita dalla guerra e ospitata a Roccasecca dalla Karibu, nell’ambito del bando sull’inclusione nel mondo del lavoro che tra il 2021 e il giugno scorso è valso alle coop un contributo di quasi due milioni. “Queste persone mi hanno contattata e hanno lamentato che non ricevevano dalla coop neppure i pocket money”, ha detto a L’Identità il sindaco Barbara Petroni, riferendosi alla diaria per i migranti. “Sono dovuta intervenire io e, con molto ritardo, gli sono stati consegnati. Alla fine questa famiglia ha deciso di andarsene”, ha precisato. E tornano le parole di Maria Therese al Meeting di Rimini: “La prima condizione per l’accoglienza, per l’integrazione, è: rispetto, fiducia e libertà. Se mancano queste tre cose, manca tutto, è inutile che offriamo su un piatto d’argento le cose che servono”. Due mesi dopo, su un piatto d’argento arrivò la fortuna di Karibu. Con la determina 308 del settore Servizi sociali del Comune di Sezze, il sindaco di centrosinistra Andrea Campoli affidò la gestione del Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati alla coop. Mukamitsindo prese prestigio, fu elogiata dall’allora ministro Mara Carfagna e iniziò la sua ascesa, bipartisan, dall’agro pontino. Finché le prime ombre si addensarono con la protesta dei migranti del Cas di Borgo Sabotino, il luogo in cui la Ericher 29 di Salvatore Buzzi mandava i rifugiati a fare gli schiavi nei campi dei caporali. Molto rumore, ma nessun intervento. Almeno fino a pochi giorni fa, quando i buoi sono scappati dalla stalla.

“Così ci cacciarono dal campo rifugiati quei braccianti usarono la violenza”. Rita Cavallaro su L’Identità il 25 Novembre 2022

È un fuoco incrociato quello contro i Soumahoro. Alle accuse sulle coop della suocera Maria Therese Mukamitsindo, e alle denunce degli ex soci del sindacato fondato da Aboubakar, si aggiunge il racconto del clima di terrore seminato da alcuni esponenti della Lega dei Braccianti nel ghetto per gli immigrati che si spezzano la schiena nei campi di pomodori del Foggiano. “Abbiamo sempre cercato di avere un dialogo con Lega Bracciant per l’attività sindacale su Torretta Antonaci”, ha detto a L’Identità Daniele Iacovelli, della Flai Cgil Foggia. “La Regione Puglia, dopo l’ultimo grande incendio, ha istituito un’area controllata attraverso dei container per 400 persone e uno di questi fu assegnato a tutte le associazioni. Ma dopo la consegna delle chiavi”, racconta, “fummo estromessi dall’uso di quella postazione, in malo molo, subendo a maggio 2021 quasi un’aggressione fisica, volarono tavoli. Abbiamo sporto denuncia alla Questura”, ha aggiunto, “ci aggredirono esponenti che facevano parte di Lega dei Braccianti, che ci dissero chiaro che lì doveva stare solo Lega dei Braccianti”. E precisa: “Soumahoro non era presente. Abbiamo provato ad avere un’interlocuzione istituzionale, ma non l’abbiamo mai incontrato né abbiamo mai ricevuto una telefonata da lui”. Sembra che ci andasse poco nel ghetto Aboubakar, giusto per farsi qualche selfie e video con i disperati per i cui diritti dice di battersi. Gli ormai ex soci del parlamentare di sinistra, Soumahoro Sambare Soumaila e Alfa Berry, assestano inoltre un pesante j’accuse con una lettera inviata alla polizia e pubblicata da Repubblica, in cui denunciano la sparizione di circa 200mila euro da una racconta fondi. Denaro da usare per aiutare gli stranieri, negli interventi tra Borgo Mezzanone, Torretta Antonacci, Riace, Mondragone, Venosa e Rosarno. Gli ex soci, con fatture alla mano, parlano di spese, tra mascherine e cibo, di 55mila euro, più i costi del trasporto e ipotizzano che il deputato abbia impiegato i restanti 200mila per viaggi e spese di missione.

Le colpe politiche di Soumahoro, di chi lo ha candidato e fatto diventare il paladino dei diritti. Federico Novella su Panorama il 25 Novembre 2022

Al netto dell'inchiesta la vicenda del deputato dei Verdi, presentatosi come paladino dei diritti, riporta ancora alla luce uno dei mali della nostra politica: la scelta delle persone Al di là della vicenda giudiziaria sulla cooperativa della moglie e della suocera, il caso Soumahoro è tutto politico. E riguarda, ancora una volta, la qualità della classe dirigente di questo paese, e dei partiti che la selezionano. E mi riferisco alla tendenza rovinosa di candidare figurine mediatiche pratiche di social, molto abili nel mettersi in posa davanti ai fotografi ma niente più, e a farsi ritrarre col pugno alzato e gli stivali sporchi di fango davanti all’ingresso di Montecitorio. Personaggi buoni per i commentatori da salotto, che amano cadere in ginocchio di fronte all’ennesima icona che piace alla gente che piace, dalle Schlein alle Ocasio Cortez. Spesso, come nel caso in questione, sotto la confezione c’è poco e niente: sono profili fragili, che di solito naufragano al primo colpo di vento. Sotto l’etichetta del difensore dei deboli, Soumahoro si è rivelato non già disonesto (non lo sappiamo, e non ci sbilanciamo), ma incredibilmente impreparato, di fronte a questioni di cui fino a ieri si professava esperto. E l’impreparazione estrema, fino alla goffaggine, è un difetto a prescindere dalle carte giudiziarie.

La sua difesa televisiva nello studio di Corrado Formigli è stata imbarazzante, per un personaggio che doveva rappresentare il futuro di una certa sinistra descamisada. Non si è accorto degli stipendi non pagati? “Avrei dovuto viaggiare di meno” , è la risposta. “Ma lei come si manteneva?” chiede il conduttore, visto che la famiglia ha comprato un villino con un mutuo da 270 mila euro. “Ho scritto un libro” , è la difesa dell’interessato. Fino al culmine del paradosso: il difensore dei braccianti sfruttati che professa il “diritto all’eleganza” , in riferimento alla moglie che posta foto con borse Louis Vuitton. Il diritto all’eleganza non è una gaffe: in bocca alla sinistra rivoluzionaria, diventa una nemesi tragicomica. Neanche Chiara Ferragni sarebbe arrivata a tanto. Vedremo gli sviluppi. Certo è che il colpevole politico non è solo Soumahoro: ma chi si è intestardito a candidarlo. Con buona pace del Pd modenesi, che pure aveva sollevato perplessità su alcune condotte del personaggio poco chiare. Solo oggi, dopo diversi colloqui riservati, Fratoianni e Bonelli (Sinistra Italiana e Verdi), si sono resi conto che forse non hanno davanti un personaggio all’altezza. E infine, forse a suscitare più rabbia è il destino delle vittime di questa storia: i braccianti sfruttati. Immigrati e non. Questa storia ferisce soprattutto i loro diritti, getta fango su battaglie che vanno comunque combattute. Loro hanno già troppi problemi, per meritarsi Fratoianni e Soumahoro come rappresentanti.

Tutte le accuse contro le cooperative dei parenti di Aboubakar Soumahoro. Linda Di Benedetto su Panorama il 25 Novembre 2022.

 Stipendi non pagati, operai che lavorano senza contratto, condizioni sanitarie estreme nelle cooperative. Tutti i guai emersi dall'inchiesta contro la moglie e la suocera del parlamentare simbolo della legalità e del rispetto dei diritti Aboubakar Soumahoro ha provato a difendersi in maniera poco convincente in televisione dalle accuse che oramai in maniera sempre più pesante hanno coinvolto le cooperative legate a sua moglie e sua suocera finite al centro di un'inchiesta da cui sono emerse accuse pesantissime. «Dove sono finiti i soldi delle retribuzioni pagate dagli enti e mai arrivati alle tante famiglie truffate da Karibu e Aid?». Una domanda quella del Sindacato Uiltucs che da oltre un anno non ha trovato risposta ma che getta delle ombre sul sistema di accoglienza dei migranti gestito dalle Coop della moglie e della suocera del deputato.

Le indagini Nei confronti Liliane Murekatete e Marie Terese Mukamitsindo moglie e suocera di Soumahoro la Guardia di Finanza del nucleo economico di Latina procede per il reato di truffa per fatturazioni false e stipendi non corrisposti ai dipendenti. In più i Carabinieri hanno aperto un altro fascicolo per il reato ipotizzato di distruzione e occultamento di materiale contabile trovato in otto sacchi della spazzatura. A queste accuse si è aggiunta la segnalazione di alcuni cittadini extracomunitari minorenni al sindacato che hanno denunciato condizioni di vita precarie, maltrattamenti e collocazioni in case per minori senza acqua e luce. Inoltre la procura di Latina ha indagato la Presidente del Cda di Karibu, anche per la gestione del Consorzio Aid, di cui presidente un’altra figlia per malversazione. Si indaga infatti sui trasferimenti di denaro effettuati in Ruanda a favore di un altro figlio della Presidente Mukamitsindo, Richard Mutangana che ha aperto un ristorante con piscina a Kigali e sui compensi dei quattro soci di Karibu che avrebbero incassato solo nel 2021 la somma di 392.891 euro. Contemporaneamente prosegue anche il lavoro dell’Ispettorato del Lavoro e del Ministero dello Sviluppo economico da cui vengono erogati i fondi verso la cooperativa. I progetti delle Coop Karibu che rischia di essere commissariata risulta affidataria anche di progetti di integrazione dei rifugiati ucraini avviati nella sede di viale Corbusier a Latina, dove si trovano la sede di Karibu ed del consorzio Aid ma anche del sindacato Lega dei braccianti a cui fa capo Soumahoro. I progetti sono due I.C.A.R.U.S “Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa” per il quale sono stati stanziati 259mila euro. Mentre l’altro progetto ammesso del Consorzio Aid di cui è presidente Aline Mutesi cognata di Soumahoro si chiama B.U.S.S.O.L.A “Bisogni degli ucraini per il sostegno sociolavorativo” con un finanziamento previsto di circa 300mila euro. A Karibu è stato affidato anche il progetto P.E.R.L.A della Regione Lazio per la somma di 80mila euro, Per.Se.O del Viminale per la cifra di 204910,75 di euro e l’8 per mille. Le accuse Si parte dalle denunce sui mancati pagamenti degli stipendi. Sarebbero 22 i dipendenti che hanno raccontato di non ricevere soldi da 18 mesi, alcuni hanno anche raccontato di non vedere la paga da due anni. Almeno 4 persone hanno poi raccontato di aver lavorato in nero, cioè senza il necessario contratto di lavoro. Uno di questi ha anche raccontato delle visite di Soumahoro nella cooperativa: «Sapevano tutti...» ha raccontato Youssef Kadmiri. Altri hanno raccontato che per ricevere la paga prevista avrebbero dovuto presentare delle non precisate “fatture" da soggetti esterni alla Cooperativa. Le condizioni di vita ed igienico sanitarie nelle strutture erano a dir poco pessime. Nelle strutture sarebbero mancate acqua, elettricità, vestiti e cibo. Alcuni minori sarebbero stati maltrattati. Ci sono poi le stranezze sul bilancio con spese anomale, soldi incassati ma non utilizzati per centinaia di migliaia di euro. I progetti delle Coop Karibu che rischia di essere commissariata risulta affidataria anche di progetti di integrazione dei rifugiati ucraini avviati nella sede di viale Corbusier a Latina, dove si trovano la sede di Karibu ed del consorzio Aid ma anche del sindacato Lega dei braccianti a cui fa capo Soumahoro. I progetti sono due I.C.A.R.U.S “Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa” per il quale sono stati stanziati 259mila euro. Mentre l’altro progetto ammesso del Consorzio Aid di cui è presidente Aline Mutesi cognata di Soumahoro si chiama B.U.S.S.O.L.A “Bisogni degli ucraini per il sostegno sociolavorativo” con un finanziamento previsto di circa 300mila euro. A Karibu è stato affidato anche il progetto P.E.R.L.A della Regione Lazio per la somma di 80mila euro, Per.Se.O del Viminale per la cifra di 204910,75 di euro e l’8 per mille.Le Coop avevano la disponibilità economica per pagare i dipendenti? «Le risorse economiche dei progetti degli enti sono arrivate alle cooperative, ai rappresentanti e ai soci delle coop. Loro hanno percepito i loro compensi, mentre i lavoratori sono senza salario nonostante siano arrivati milioni di euro. Una vera offesa a queste maestranze sfruttate ed in forte disagio perché in questa vicenda, la verità è che non c’è uno stato di crisi economica delle Coop dove nel caso Karibu i soldi sono stati correttamente corrisposti dagli enti ma purtroppo non sono mai arrivati ai lavoratori per questo siamo veramente indignati come Uiltucs Latina». Cosa avete fatto per aiutare i lavoratori? «Abbiamo fatto richiesta di un tavolo Prefettizio. È necessario che siano convocate tutte le parti interessate per rispondere al disagio e alle difficoltà in cui si trovano le tante famiglie truffate dai rappresentati della Karibu e Aid. I lavoratori vogliono subito chiarezza, confidiamo nel percorso giudiziario, perché a queste persone si deve restituire rispetto e dignità con il pagamento immediato dei salari, è questo quello che chiederemo al Prefetto Maurizio Falco. Ripeto urge di convocare tutte le parti, tutti gli enti erogatori dei progetti per il pagamento diretto ai lavoratori senza passare per le Cooperative che hanno già causato ingenti danni ai lavoratori dove accoglienza e integrazione per noi in questo caso sono stati e rimangono solo un business per le Coop Karibu e Aid» I centri di accoglienza per i richiedenti asilo sono stati aperti dalla suocera del deputato Soumahoro Marie Terese Mukamitsindo, sui Monti Lepini, tra Sezze, Roccagorga e Maenza per poi allargarsi a Latina. Una storia quella delle Coop della famiglia di Soumahoro caratterizzata nel corso degli anni come riportano le cronache locali da numerose proteste dei migranti dove il grado di accoglienza non sembrerebbe essere stato dei migliori. Un fatto confermato gia nel 2019 dall’ex senatrice Elena Fattori di Sinistra Italiana che scrisse dopo una ispezione in un centro gestito da Karibu in provincia di Latina una relazione molto dura «Ho visitato molti centri di accoglienza e solo pochi erano decenti. Questo era fatiscente e mal tenuto. L’accoglienza deve essere pubblica, non può essere affidata ai privati senza adeguati controlli. Le mie osservazioni sull’ispezione, poi le consegnai al sottosegretario agli interni nel 2019. Provai tanta amarezza per come vengono trattate le persone e su come si speculi politicamente sull’”accoglienza “con la costruzione di “eroi” senza invece invocare soluzioni strutturali»- commenta la Fattori

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 25 novembre 2022.

Nella vicenda del deputato ivoriano Aboubakar Soumahoro bisogna aggiungere una brutta storia di presunte firme false apposte alle domande di disoccupazione inviate all'Inps dai braccianti agricoli della provincia di Foggia. Una faccenda messa nero su bianco in numerosi moduli di «revoca delega e disconoscimento di firma» spedite all'istituto previdenziale dai lavoratori. 

Siamo in Puglia, e precisamente nelle campagne tra Foggia e San Severo. Una vasta area occupata circa 20 anni fa dai primi «braccianti-coloni» conosciuta come il «Grande Ghetto» di Rignano garganico. Un luogo infame senza strade e servizi igienici che è arrivato a ospitare fino a 4.000 persone Chi vi abita, la grande maggioranza, di mestiere fa il bracciante. Immigrati divenuti famosi per lo sfruttamento, il caporalato. Pestaggi, risse e anche morti.

Il sindacato Usb diventa la voce di questi emarginati e cerca di tutelarli. Nel 2019 arriva lui, Soumahoro. Ha studiato ed è sveglio. Quando intuisce di avere un seguito importante lascia l'Usb e fonda la Lega Braccianti, un sindacato tutto suo. Fa incetta di iscritti, sottraendoli all'Usb, alla Cgil, alla Cisl. 

Durante il periodo della pandemia la fa da padrone con i suoi presidi a Torretta Antonacci e a Borgo Mezzanone. Nelle tre baraccopoli sarebbero state raccolte centinaia (si parla di circa 600-700) di richieste per le misure di sostegno alle quali potevano accedere in quel momento gli immigrati impiegati in agricoltura: in primis la disoccupazione. 

Il cortocircuito, con al centro Soumahoro e il suo ex braccio destro Sambare Soumaila, si è innescato quando all'Inps, che avrebbe dovuto erogare i sussidi, sono arrivate due domande fotocopia per ciascun bracciante. 

A quel punto l'ente pensionistico ha convocato i richiedenti ed è scoppiato il bubbone: i lavoratori hanno dovuto compilare un modulo per disconoscere la loro firma su una delle due richieste. Il 17 gennaio scorso Soumahoro si era filmato davanti a un casolare e aveva annunciato: «Con gli operatori del patronato siamo a Torretta Antonacci per pratiche di disoccupazione agricola, controllo busta paga, permessi di soggiorno, eccetera. La Lega braccianti, espressione della volontà popolare senza delega, lotta e continua nel percorso di migliorare le condizioni di vita dei braccianti». 

Dietro di lui si vedevano tre persone. Probabilmente il parlamentare era lì con i funzionari del patronato. Che, si scopre adesso, è l'Inpal di Bari. Da qui, infatti, partono le pratiche inviate all'Inps. Solo due mesi dopo, però, a marzo, l'istituto di via Ciro il grande scopre le domande fotocopia. E a quel punto i braccianti inviano una comunicazione con richiesta di revoca della precedente domanda e disconoscimento della firma apposta in calce.

Un documento in cui si legge: «Con la presente si dichiara di non aver mai conferito delega o rinnovato delega ad alcun patronato per l'inoltro della domanda di disoccupazione agricola». 

Francesca Di Credico, rappresentante della Cisl di Foggia, ragiona: «Probabilmente hanno inoltrato le richieste senza il mandato di queste stesse persone. È capitato a noi ma anche alla Cgil e all'Usb. Ci trovavamo le domande duplicate dall'Inpal di Bari». 

E se per i sindacati, al momento della liquidazione del primo bonus, il bracciante autorizza una trattenuta come quota di iscrizione (e a quel punto può accedere a tutti i servizi offerti per la tutela), per i patronati funziona in modo diverso: il lavoratore deve pagare per la preparazione della pratica. 

L'aspetto da chiarire è se i braccianti abbiano anticipato soldi per le istanze e se le domande siano state inviate senza mandati. «Io», continua la Di Credico, «ho trovato appesa alla porta del container assegnato alla Lega Braccianti nel ghetto di Rignano una lista di nominativi con i codici fiscali a fianco. Una quarantina erano nel database del nostro sindacato. La stessa cosa è accaduta alla Cgil e anche all'Usb».

La questione, oltre che all'Inps, sarebbe stata segnalata per conoscenza anche alla Procura di Foggia e, per almeno un episodio, anche a quella di Catania. Il legale dell'Inpal, l'avvocato Vito Marino Verzillo, contattato dal nostro giornale, spiega: «Ci fu un accordo tra la Lega braccianti e l'Inpal nazionale, perché dicevano che nessun patronato voleva andare lì a Borgo Mezzanone e a Torretta Antonacci. 

Noi ci siamo andati diverse volte, in un paio di occasioni anche io personalmente insieme con il direttore e con un collaboratore. I braccianti firmavano il mandato per essere assistiti e le richieste venivano inviate». Per l'Inpal, insomma, sarebbe tutto in regola. A volte, spiega il legale, trovavano ad accoglierli Soumahoro, «che veniva da Roma». Spesso «c'era anche Sambare, un campano, che arrivava da Napoli». Le pratiche, insomma, erano sollecitate dalla Lega Braccianti.

«Quando dal nazionale ci hanno chiesto di andare lì», conferma Verzillo, «trovavamo loro». E le pratiche doppie? «È una prassi tra sindacati e patronati, ma anche tra patronati e patronati» assicura il professionista. E conclude: «Il lavoratore fa la domanda, poi si rivolge a un'altra sigla perché gli viene più comodo - tenga conto, per esempio, che noi siamo a Bari e i braccianti lavorano a Foggia- e revoca la delega». E le firme disconosciute? 

«Noi», afferma l'avvocato dell'Inpal, «abbiamo la documentazione con le firme prese in nostra presenza. Siamo andati lì fisicamente. E per alcune pratiche che sono tornate indietro abbiamo minacciato di rivolgerci all'autorità giudiziaria, perché se l'assistito ha firmato davanti ai funzionari dell'Inpal, mi devono spiegare quando è stata firmata la richiesta davanti all'altro sindacato».

Per capirne di più abbiamo chiesto delucidazioni a Soumaila, il vecchio compagno di lotta di Soumahoro: «Quando stavo con Aboubakar ero io a ricevere le domande di disoccupazione. E quelle erano firme vere. Ci sono anche i video della gente che fa la coda. Io raccoglievo le pratiche di tutti i braccianti e l'Inpal veniva a prenderle per inoltrare le domande a Bari». Facciamo presente che i sindacati sostengono che molte firme sono state disconosciute. La replica è immediata: «Quando c'ero io ognuno ha firmato la sua disoccupazione e non c'è mai stato problema con nessuno, ma». Ma? «Loro avendo dati e documenti dei braccianti che avevano chiesto la disoccupazione con loro, l'anno dopo hanno rifatto la domanda automaticamente senza chiedere il consenso.

Ma in quel momento io non stavo già più con la Lega Braccianti ». 

Dunque le firme false sarebbero quelle con la richiesta di rinnovo della disoccupazione. Soumaila ci spiega anche che il suo sindacato ha provato a trovare una soluzione al problema: «All'Inps hanno bloccate le domande doppie, ma grazie al nostro servizio con Usb le hanno poi sbloccate. Abbiamo chiesto all'ente previdenziale da chi fosse stato presentato il doppione e ci hanno detto che erano tutte dell'Inpal. Noi non c'entriamo nulla.

Noi abbiamo fatto 700 domande e quelli che hanno avuto la duplicazione sono molti di più di coloro che non l'hanno avuta. Si tratta di centinaia di braccianti». Soumaila sembra sicuro di quello che dice: «Io qui sono conosciutissimo e quando mi siedo tutti vengono a fare le domande da me. Io sono stato con Lega braccianti nel 2019-2020 e nel 2021 io e altri siamo andati via. La Lega Braccianti l'abbiamo creata come un'associazione per gestire Torretta Antonacci. Aboubakar l'ha trasformata in un sindacato senza informare nessuno. Lui ci ha tradito e noi lo abbiamo abbandonato».

 E il clima si è esacerbato. Come viene raccontato in un paio di comunicati firmati dagli abitanti e delegati Usb di Torretta Antonacci. In uno si chiede a Soumahoro di evitare le «intimidazioni» e in un secondo, datato 22 dicembre 2021, si legge che «un gruppo di aderenti alla Lega Braccianti Ets (Ente del Terzo Settore) ha divelto l'insegna della strada, dedicata a due braccianti arsi vivi nell'incendio della baraccopoli nel marzo 2017, per poi minacciare alcuni abitanti del luogo, rei di mantenere esposto sulla loro baracca una bandiera Usb». Una grave accusa per chi si fa vanto di difendere gli ultimi e gli invisibili. (ha collaborato Irene Cosul Cuffaro)

"Qui vivono i Soumahoro". Ecco la villa da 450mila euro. Il deputato Aboubakar Soumahoro, autosospesosi dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana, è finito nel mirino dei media anche la villetta comprata insieme a sua moglie, nota come "Lady Gucci". Francesco Curridori su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Casal Palocco, periferia Sud di Roma, è improvvisamente diventato il centro di un terremoto politico. Nelle vie principali di questo quartiere residenziale della Capitale in pochi sanno chi sia il deputato Aboubakar Soumahoro. O fanno finta di non saperlo per sfuggire alle domande dei cronisti che in questi giorni hanno assediato casa sua.

“Ho scoperto oggi, sfogliando i giornali, che questo deputato abita in zona”, dice un edicolante della via principale del quartiere che si trova non molto distante dal più noto litorale di Ostia. Trovare la “villetta della discordia” sembra una missione impossibile, ma l’incontro fortuito con un agente immobiliare del posto è risolutivo. “Ho conosciuto un anno fa la moglie del deputato, una bellissima donna, garbata e molto elegante. Ricordo che, da buona cattolica, non mancava mai di esprimere la sua devozione a Dio”, confida uno degli agenti immobiliare a cui la donna si era rivolta per l’acquisto della casa. Liliane Murekatete è proprietaria insieme al marito di una villetta da 450mila euro di cui 250mila saranno versati grazie a un mutuo trentennale.

“Una casa, di due o tre piani, in quella zona di Casal Palocco si aggira intorno a quel prezzo”, conferma l’esperto del settore. Certo, 450mila euro non è una cifra di poco conto per un umile sindacalista che ha speso la sua vita in favore degli ultimi e per una disoccupata che è stata ribattezzata “Lady Gucci” per la sua passione per gli abiti e gli accessori firmati. L’abitazione è una villetta a schiera che si sviluppa su due piani in una strada tranquilla dove i vicini sembrano essere stufi di vedere giornalisti aggirarsi nel quartiere. “Vedo una persona di colore, ma non so chi sia”, dice frettolosamente un anziano. “Scusate, ma noi abitiamo qui da poco e non conosciamo nessuno”, risponde una coppia che rientra in una palazzina che si trova proprio di fronte alla casa del deputato.

A un certo punto, i ruoli si invertono e una donna a bordo di un’auto bianca chiede il motivo della presenza della stampa sotto casa del neodeputato e, poi, se ne va indignata negando di conoscere sia lui sia sua moglie. “Soumahoro abita qui, ma io preferisco non rilasciare dichiarazioni perché non amo questo tiro al bersaglio anche se riguarda un parlamentare”, commenta uno dei pochi vicini di casa che parla, rigorosamente a telecamera spenta e a taccuini chiusi. Il dirimpettaio si limita a dire: “Sì, sì la casa di Soumahoro è questa. Oggi, però, non abbiamo visto nessuno. Le tapparelle sono abbassate e, secondo me, non ci sono. Avranno voluto evitare l’assalto dei giornalisti”. Nel dubbio, chiamiamo il parlamentare che nei giorni scorsi si è autosospeso dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana, però non otteniamo alcuna risposta.

Soumahoro, va ricordato, al momento non risulta indagato, ma l’imbarazzo per una moglie e una suocera finite nei guai per la gestione poco chiara di due cooperative di migranti deve essere notevole. Il deputato, che aveva redarguito il premier Giorgia Meloni per aver osato dargli del tu, aveva cercato di fare il suo esordio in Parlamento entrando con le scarpe sporche di fango con l’intenzione di rendere ancora più evidente la sua vicinanza ai più deboli. Ora, invece, si trova nella condizione di doversi difendere dall’accusa di vivere nel lusso.

"Io, il primo a denunciare le coop. E tutti in silenzio". Il sindacalista della Uiltucs: "Parlai già nel 2018. Dov’erano gli enti e la politica?". Tonj Ortoleva su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

«Tutto è partito da noi della Uiltucs e dai lavoratori. Non è possibile che oggi diventi una battaglia di tutti: dov’erano prima gli enti, e la politica in generale?». Non c’è dubbio che se oggi c’è possibilità di fare chiarezza rispetto alla cooperativa Karibu della famiglia dell’onorevole Soumahoro, molto del merito va alla perseveranza del segretario provinciale della Uiltucs di Latina Gianfranco Cartisano. Anni di battaglie, di denunce, di difesa dei diritti dei lavoratori della cooperativa e dei braccianti impiegati dal consorzio Aid, anch’esso legato alla famiglia del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana.

Parte da lontano la storia della gestione dei centri di accoglienza per migranti nella provincia di Latina. Una storia con molte ombre sulla quale però in pochi chiedevano chiarezza mentre i più facevano spallucce, bollando come polemica a sfondo politico ogni intervento critico verso queste cooperative. E Karibu, la coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro era quella che gestiva i numeri maggiori. La coop di Sezze ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe e ha preso più o meno 5 milioni di finanziamenti. Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? No le denunce pubbliche ci sono state. Come quella del capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi: «La mia denuncia parte nel 2018 e finì sotto silenzio, nell’indifferenza di molti. Sono felice che ora magistratura e forze dell’ordine abbiano acceso i riflettori su questa storia».

La procura della Repubblica di Latina, guidata da Giuseppe De Falco, ha diramato ieri una nota che mostra in parte l’imbarazzo che si respira in via Ezio per essere arrivati solo ora ad aprire un fascicolo: «Gli accertamenti nascono da notizie e comunicazioni pervenute da una pluralità di fonti, di natura pubblica e privata, e si articolano attraverso il dovuto, rigoroso vaglio ed approfondimento di ogni notizia e comunicazione». Cosa però che nel 2018 non era avvenuta.

Ma anche la scorsa estate nulla si mosse quando Gianfranco Cartisano della Uiltucs denunciò la vicenda dei lavoratori non pagati delle coop, la medesima sui cui risvolti oggi si sta indagando. A luglio Cartisano dichiarava ai giornali: «Una storia che purtroppo abbiamo già visto altrove, con le anomalie finanziarie scaricate sugli enti pubblici finanziatori e sui lavoratori».

Dopo mesi Cartisano vede finalmente riconosciute le battaglie del suo sindacato. «Oggi rimane per noi l’unico obiettivo di ripristinare la dignità di questi lavoratori e pagarli nell’immediatezza».

Invece di salvare i migranti importiamo il caos africano. Le storture dell'accoglienza senza limiti: la vera lezione del caso Soumahoro. Gian Micalessin su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Lui, nel suo piccolo, si è trasformato da difensore dei reietti in capobastone prima e deputato poi. Ma non c'è da stupirsi. Nella grande madre Africa, da cui anche Aboubakar Soumahoro proviene, il percorso da paladino degli ultimi a incallito cleptocrate è la norma. Pensate a Robert Mugabe in Zimbawe, a Meles Zenawi in Etiopia, a Paul Kagame in Rwanda o a Isaias Afwerki in Eritrea. Le loro storie sono segnate da percorsi comuni. Iniziano con una spassionata lotta in difesa del popolo e si trasformano in un'altrettanto appassionata difesa delle ricchezze sottratte a quello stesso popolo. La parabola dell'onorevole Souhamoro dunque non sorprende. Stupisce semmai che si sia potuta riprodurre nel nostro paese. Ma di questo dobbiamo ringraziare le «elite» buoniste e di sinistra decise a imporci l'utopia di un'accoglienza senza limiti e controlli.

Per capirlo partiamo dal paradigma africano. Dietro la parabola di tanti dittatori vi sono due ragioni. La prima è rappresentata dalle immense e attraenti ricchezze naturali di tante nazioni. La seconda da sistemi istituzionali approssimativi dove i leader non sono soggetti, come nelle democrazie occidentali, a complessi sistemi di controllo determinati dalla precisa divisione dei poteri. I problemi delle giovani nazioni africane rivivono purtroppo nel nebuloso sistema dell'accoglienza messo in piedi in Italia da Pd e cooperative di sinistra. Un sistema dove abbondanti risorse pubbliche sfuggono al controllo di governo e istituzioni. La moglie dell'onorevole Sumahoro si è ritrovata a gestire, nell'arco di 18 anni, un capitale di circa cinque milioni e mezzo di euro assegnategli grazie a procedure senza gare e senza controlli. Origini e motivi di queste carenze vanno ricercate nell'atto iniziale del fenomeno migratorio ovvero negli sbarchi gestiti non dalle nostre istituzioni, ma dai trafficanti di uomini o dalle navi delle Ong. In entrambi i casi l'obbiettivo è far sbarcare il maggior numero di persone possibile. Questo garantisce maggiori incassi non solo ai trafficanti, ma anche alle Ong pronte a esibire i numeri dei migranti «salvati» per far leva sul buon cuore dei donatori. Quel che non interessa a nessuno è invece il futuro di questi disgraziati. Abbandonati in un universo privo di norme e di controlli i migranti, primi fra tutti quelli irregolari, si trasformano in risorse alla mercé di cooperative o di sfruttatori. Le prime sono interessate ad accoglierne quanti più possibile per moltiplicare i contributi incassati a fine mese. I secondi puntano a utilizzarli in grande quantità per offrire manodopera a bassissimo costo sul fronte del lavoro nero. In tutto questo, lo dimostrano le vicende del clan Sumahoro, i controlli di governo, istituzioni e forze dell'ordine sono talmente rarefatti da risultare assenti. La mancanza di regole che caratterizza la gestione della galassia migratoria italiana finisce con il ricordare, insomma, la fragilità istituzionale di quei paesi africani dove spregiudicati cleptocrati hanno facile gioco nel trasformare in beni personali le risorse nazionali. Soumahoro, insomma, si è semplicemente comportato come avrebbe fatto nella sua Africa. E ha potuto farlo grazie alla compiacenza di un Pd e di una sinistra che partendo dalla pretesa di salvare i migranti dalle tragedie africane finisce, invece, con il riprodurre gli schemi di quelle tragedie all'interno della nostra società.

Dagospia il 25 novembre 2022. Da Un Giorno da Pecora

L’intervista ad Aboubakar Soumahoro? “Lui ha giocato le sue carte, su alcune questioni è stato netto su altre sono rimaste delle zone d’ombra. Gli ho fatto tutte le domande senza mancargli di rispetto, alcune cose non tornano ma è anche brutto vedere una persona che viene ‘menato’ da destra, sinistra e centro. Penso di avergli fatto tutte le domande ma il tono che si sceglie nel fare quelle domande è importante”. 

A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è il giornalista Corrado Formigli, che ieri a ‘Piazzapulita’, ha intervistato il deputato al centro di una bufera mediatica. "Si è fatto trasportare da un’ambizione molto forte, ha avuto delle ingenuità e qualche eccesso di furbizia, ma non credo sia un ladro, forse la missione politica che si è posto gli ha fatto perdere il contatto con la realtà”. La carriera politica di Soumahoro potrebbe esser finita qui? “Vediamo. In Italia c’è scarsissima memoria per fatti più gravi di questo. Siamo di fronte ad un parlamentare che ha omesso di dire che ci sono delle cooperative che non rispettano i diritti, cosa in contraddizione con le sue battaglie. Ma qui siamo in un Paese in cui il leader di un partito è stato condannato per frode fiscale, eppure nessuno si sogna di linciarlo tutti i giorni e dire che è finito, è ancora lì".

Dagonews il 25 novembre 2022.

Chi cerca il Cav, trova un tesoro, anzi una Soumahoro. Lo sapevate che la moglie del deputato (autosospeso) di Sinistra Italiana e Verdi ha lavorato a Palazzo Chigi per il governo Berlusconi? Era l’assistente di Alberto Michelini, nominato all’indomani del G8 di Genova, rappresentante personale del presidente del Consiglio per l’Africa. Lei poi, lanciatissima, era andata a lavorare direttamente per Bruno Archi, consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi. Gli addetti ai livori mormorano di quando la moglie di Soumahoro chiese, e ottenne, un incontro privato di lavoro con Berlusconi.

Soumahoro, per chi lavorava la moglie in Parlamento: la scoperta. Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Continua a tenere banco il caso di Aboubakar Soumahoro, che si è auto-sospeso dal gruppo parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi ed è andato a chiedere scusa a PiazzaPulita, su La7, per non aver vigilato su quanto accadeva in casa sua. La coop che era gestita dalla compagna e dalla suocera risulta indagata e Soumahoro sta pagando lo scotto a livello di immagine, pur non essendo direttamente coinvolto.

Dagospia ha aggiunto qualche dettaglio inedito su Liliane Murekatete: “Lo sapevate che la moglie del deputato ha lavorato a Palazzo Chigi per il governo Berlusconi? Era l’assistente di Alberto Michelini, nominato all’indomani del G8 di Genova rappresentante personale del presidente del Consiglio per l’Africa. Lei poi, lanciatissima, era andata a lavorare direttamente per Bruno Archi, consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi".

Nel frattempo Angelo Bonelli ha rilasciato un’intervista a Radio Popolare in cui si è detto “turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda”.Secondo il deputato di Verdi-Si, le risposte date finora da Soumahoro “non sono sufficienti, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione”.

Michelini, ex deputato di FI: «La moglie di Soumahoro con me a Palazzo Chigi. Era capace». Storia di Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022. 

Alberto Michelini, come mai Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, lavorò con lei a Palazzo Chigi durante il governo Berlusconi?

«Ero rappresentante del presidente del Consiglio al G8 dell'Africa. A un incontro organizzato da Laura Boldrini, allora all'Unhcr, lei tenne un discorso molto bello. E la mia assistente disse: "Perché non la prendiamo?"». 

E lei?

«La convocai. Mi raccontò che era fuggita dal Ruanda al tempo della guerra con i Tutsi, lei era Hutu. Disse che sua madre era un'insegnante e suo padre medico, studiava dai salesiani, parlava perfettamente italiano ed era intelligente, ci colpì e la prendemmo».

A fare cosa?

«Veniva con noi agli incontri con le delegazioni africane. Era una buona presentazione avere nel nostro staff una persona africana. E lei era molto brava nelle relazioni. Ed era di buona famiglia». 

Buona famiglia?

«Un giorno incontrammo il primo ministro del Ruanda e lei me lo presentò come suo zio». 

Era la nipote del premier?

«Così mi disse. E vidi che si salutavano in modo affettuoso». 

Da allora?

«Ha lavorato con noi 3 anni e poi non l'ho più vista». 

Era già super griffata?

«No. Vestiva con tailleur sobri. Era capace. Poi dipende come usi la tua intelligenza. Ed evidentemente c'è stata un'evoluzione. Sono sconcertato».

Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 26 novembre 2022.

«Attualmente disoccupata» e fuori dal circuito dell'accoglienza. Ma nel curriculum di Liliane Murekatete, moglie del deputato dell'Alleanza Verdi-Sinistra Aboubakar Soumahoro finito nella bufera politica per il caso coop, ci sono diverse esperienze di peso. E una pesa più di tutte: Palazzo Chigi. 

[…] L'ex dipendente della cooperativa Karibu ora nel mirino delle indagini della procura di Latina, ricorda Dagospia, ha lavorato come consigliera alla presidenza del Consiglio per più di due anni, dal 2003 al 2006, nel governo Berlusconi. Ruolo ricoperto anche con il secondo governo Prodi. E poi di nuovo quando il Cavaliere è tornato in sella nel 2008: richiamata dal governo di centrodestra come «facente funzioni» del rappresentante per l'Africa. Missione, quest' ultima, mai decollata davvero.

Nel 2003 l'esordio come assistente dell'allora inviato speciale italiano del G8 per l'Africa, Alberto Michelini, ex deputato e già giornalista del Tg1. […] Il primo incontro con Michelini è a Roma, con una sponsor d'eccezione: Laura Boldrini, ex presidente della Camera, all'epoca portavoce dell'Unhcr per il Sud Europa. 

È il 20 giugno e l'agenzia dell'Onu celebra con un convegno la giornata mondiale del rifugiato, presenti Michelini e Alfredo Mantovano (attuale sottosegretario a Chigi) nella veste di sottosegretario all'Interno. Boldrini cede la parola a Liliane, ventiseienne miracolosamente scampata con la sua famiglia all'eccidio che nel 1994 ha sconvolto il Ruanda.

Paola Ganozzi, consigliera di Michelini e tutt' ora in squadra a Palazzo Chigi, rimane colpita e lancia l'idea: la ragazza deve entrare a palazzo. «Parlava un perfetto italiano, oltre a inglese e francese madrelingua», racconta Michelini, «ha lavorato con noi più di due anni, ci seguiva nelle missioni in Africa, e i nostri interlocutori apprezzavano che nella delegazione italiana ci fosse una giovane africana preparata». 

[…] Prima di dedicarsi a tempo pieno alle coop, Murekatete ha dunque vissuto una parentesi nelle istituzioni. Un ruolo (e un lavoro) di prestigio. Defilato, certo, ma non indifferente. […]

Silenzi e contraddizioni, Soumahoro senza difesa: cosa non torna.  Dario Martini su il Tempo il 26 novembre 2022

Aboubakar Soumahoro non ha convinto neppure colui che l'ha portato in Parlamento. Angelo Bonelli, leader di Europa Verde, fa capire senza mezzi termini di essere rimasto molto deluso dalle spiegazioni fornite in tv dal suo parlamentare: «Ha dato risposte insufficienti». Lo scandalo scoppiato sull'accoglienza dei migranti è tutt' altro che chiuso. La versione fornita dal paladino dei braccianti, ospite l'altro ieri sera nello studio di Piazza Pulita, su La7, lascia aperti molti interrogativi. Eppure, qualche ora prima di presentarsi davanti alle telecamere, Soumahoro aveva avuto un lungo confronto proprio con Bonelli, a cui aveva partecipato anche Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. Incontro a cui era seguita la decisione del deputato e di autosospendersi dal gruppo di Montecitorio.

Una domanda sorge spontanea: come mai è andato in televisione senza avere una linea difensiva seria? Sembra quasi che sia stato mandato allo sbaraglio. «Quella di Aboubakar è una cosa che ferisce e che indebolisce chi ogni giorno lotta per i diritti - commenta Bonelli rincarando la dose Abbiamo parlato a lungo con lui e ci ha confermato la sua estraneità ai fatti e che risponderà alle ricostruzioni giornalistiche. Questa vicenda mi ha profondamente turbato, basta guardare la mia faccia». Occorre ricordare che Soumahoro non è indagato. Lo scandalo riguarda le coop di famiglia, ovvero la società Karibu, di cui è amministratrice la suocera Marie Therese Mukamitsindo (indagata per malversazioni) e di cui è stata presidente la moglie Liliane Murekatete, e il Consorzio Aid, guidato dalla cognata Aline Mutesi e di cui è consigliera la stessa Mukamitsindo. Il caso è scoppiato quando sono affiorate le segnalazioni dei 26 dipendenti che non percepivano gli stipendi. Poi si sono aggiunte le lamentele dei migranti, che hanno denunciato le condizioni al limite in cui erano costretti a vivere: senza cibo, luce e acqua.

Negli ultimi giorni l'attenzione si è spostata sulla Lega dei braccianti, il sindacato fondato da Soumahoro. Alcuni suoi ex soci lo accusano di aver trattenuto per sé i soldi destinati ai profughi. La versione ufficiale di Soumahoro fa acqua da più parti. Per prima cosa, è evidente la giravolta compiuta in pochi giorni. In un video del 20 novembre, il deputato rossoverde rivendicava con forza di non sapere nulla. Giovedì scorso, invece, ha ammesso che la moglie lo aveva messo al corrente degli stipendi non pagati. Perché non lo ha detto subito? Incalzato da Corrado Formigli, è apparso evasivo anche su altri aspetti dell'intera vicenda. A partire dal resort aperto in Ruanda dal cognato Michel Rukundo, a cui si aggiungono i soldi della Karibu dirottati su un conto corrente africano finito nel mirino della Finanza.

Mila euro Il mutuo con cui i coniugi Soumahoro pochi mesi fa hanno comprato un villetta a Casal Palocco a Roma Formigli glielo chiede esplicitamente: «Come è stato possibile aprire quel resort quando i lavoratori delle cooperative non venivano nemmeno pagati?». Soumahoro divaga: dice che non sapeva delle indagini sulla coop, che il suo errore è stato non approfondire. Sul resort nessuna risposta.

È debole anche la spiegazione fornita in merito alla villetta acquistata qualche mese fa a Roma. Come ha fatto a comprare una casa con un mutuo da 270mila euro, e con quali garanzie, se non era ancora entrato in Parlamento e non prendeva un euro dalla sua Lega dei braccianti? La risposta lascia di stucco: «Ho scritto un libro».

L'opera in questione è "Umanità in rivolta", edito nel 2019. E non risulta che abbia scalato le classifiche di vendita. Secondo quanto appurato da Striscia la Notizia, in tre anni ha venduto appena 9.000 copie, di cui 7.900 il primo anno secondo quanto risulta a Il Tempo. Infine, Soumahoro resta evasivo pure sul confronto avuto con la moglie. Quando gli viene chiesto cosa abbia detto la moglie in merito alle contestazioni sulle condizioni di vita nelle strutture d'accoglienza, il deputato è lapidario: «Mia moglie non lavora più lì. Comunque di fronte a queste cose non c'è legame familiare che tenga». Una presa di posizione forte, che però non entra nel merito del problema. 

Soumahoro, l'ex socio a Striscia: "Soumahoro pagava per fare selfie e finte proteste". Il Tempo il 25 novembre 2022

A "Striscia La Notizia" su Canale 5 l'inviato Pinuccio torna sul "caso Aboubakar", con una nuova intervista esclusiva a Soumaila Sambare, ex socio di Soumahoro nella Lega Braccianti, associazione che tutelava i lavoratori nei campi. L’onorevole Soumahoro, ospite giovedì sera a Piazza Pulita su La7, ha dichiarato che i suoi ex soci gli avrebbero chiesto, sottoforma di stipendio, i soldi delle donazioni all’associazione. "È una bugia, non lo abbiamo mai fatto. Gli abbiamo solo chiesto di metterne una parte in un conto corrente da cui avremmo potuto attingere per i problemi del ghetto, senza dover ogni volta aspettare che lui scendesse da Roma", risponde Sambare. Che aggiunge: "Lui ha approvato, ci ha detto che avrebbe caricato i soldi su una carta, ma non l’ha mai fatto". "Con quei soldi Aboubakar pagava i braccianti che posavano per i selfie che poi lui postava. Gli dava 50 euro dicendogli di non andare a lavorare, ma di aspettare lui per fare le foto. E per organizzare la protesta di Torretta Antonacci aveva reclutato alcuni migranti di Borgo Mezzanone", dichiara l’ex socio di Soumahoro.

Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera (che è stata indagata) e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Striscia la notizia, dei suoi due ex soci. 

Soumahoro mollato anche da Bonelli: "La moglie? Non posso credere che..." Il Tempo il 25 novembre 2022

Aboubakar Soumahoro mollato anche da chi aveva puntato tutto sul nome nuovo della sinistra. Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra italiana, in un’intervista a Radio Popolare si dice "turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda". Insomma, l'imbarazzo iniziale per l'inchiesta della procura di Latina che ha coinvolto la suocera e la moglie del "sindacalista con gli stivali sporchi di fango" (il cui nome non è nell'inchiesta) si è trasformata in una presa di distanza netta.

"Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione" afferma il verde nell'intervista. Ora "va fatta una riflessione seria - continua Bonelli - abbiamo una situazione in cui i diritti dei migranti sono sempre più calpestati e chi ha sempre condotto una battaglia, mi riferisco alla destra, per metterli all’angolo con motivazioni inaccettabili, ora usa in maniera speculare questa vicenda, su cui dobbiamo aprire una riflessione. Per questo, Soumahoro dovrebbe essere il primo a dare risposte che finora non ha dato". 

Sulla scelta di candidare Soumahoro, Bonelli spiega che "non c’è stata una sincera comunicazione da parte di chi si candida a dire ’io ho un problema di questo genere, valutate voi'. Questo non è accaduto. È una questione che non attiene la via giudiziaria, è una questione che attiene alla politica e a una comunità che ti sta facendo una proposta di candidatura. Se io avessi una moglie che ha una società che opera nelle energie rinnovabili e venisse indagata perché ha corrotto il ministero dell’Ambiente e io sono il leader dei Verdi, ho il dovere di dire al partito che mi vuole candidare che ho questo problema, per rispetto ad una comunità che ha proposto il tuo nome".

"Quello per cui mi sento profondamente ferito è proprio questo, ferito più che dal punto di vista politico, umano perché si omette di dire tutto. Io non posso credere che la moglie non parli con il marito di questo". Insomma, Bonelli lamenta che Soumahoro ha omesso informazioni che gli avrebbero precluso la candidatura, e mette in dubbio anche quanto affermato in sua difesa dal neo-deputato che, è il ragionamento del verde, non poteva non sapere.

Anni di silenzi e denunce: il caso Soumahoro imbarazza toghe e sinistra. La vicenda esplosa negli ultimi giorni ha radici lontane: già nel 2018 il capogruppo regionale della Lega sollevò dubbi sulla gestione dei soldi pubblici da parte della coop Karibu. Tonj Ortoleva su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

Una storia che viene da lontano quella della cooperativa Karibu e del fiume di denaro ottenuto dallo Stato per la gestione dei migranti. Ma ai dubbi e alle denunce presentate, fino a oggi, non era mai seguito nulla di concreto. Solo ora si sono accesi i riflettori sulla cooperativa gestita dalla suocera e (in precedenza) dalla moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire.

Gli affidamenti e le prime polemiche

La Karibu ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 la cooperativa ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe. Solo dopo 18 anni, infatti, il servizio è stato nuovamente messo a gara e ad aggiudicarselo è stata un’altra cooperativa. Inoltre la Karibu, nel 2015, ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Nel 2018 erano ben 51 su 129 i centri per l’accoglienza dei migranti gestiti da Karibu in provincia di Latina, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo.

Sulla coop sta indagando la procura della Repubblica di Latina, cercando di far luce su stipendi non pagati ai dipendenti, migranti costretti a tirare avanti con poco cibo, senza acqua e senza luce, ipotesi di fatture false, raggiri e flussi di denaro diretti all'estero e in parte rientrati in Italia. Ma i primi dubbi sul fiume di denaro elargito da governo e comuni alla cooperativa con sede a Sezze (Latina) arrivano già nel 2018. A maggio di quell’anno è il capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi a presentare una interrogazione per capire cosa stesse accadendo alcune realtà della provincia di Latina, come il comune di Roccagorga che in un anno gestiva 300 mila euro di risorse destinate allo Sprar (il sistema di protezione per richiedenti asilo) mentre il capoluogo Latina ne aveva 500 mila per tre anni. Dubbi sui quali Tripodi ha insistito molto, andando anche a incontrare l’allora prefetto Maria Rosa Trio. “La mia denuncia parte nel 2018 e finì sotto silenzio, nell’indifferenza di molti. Sono felice che ora magistratura e forze dell’ordine abbiano acceso i riflettori su questa storia e sono certo che andranno fino in fondo. E faccio anche un appello ai tanti che conoscono quel che è accaduto in questi anni: chi sa, parli”, afferma Angelo Tripodi, capogruppo della Lega in Regione Lazio.

Già nel 2018 Tripodi aveva descritto quello che considerava un sistema su cui grandi responsabilità avrebbe il Partito democratico: “La coop Karibù ha avuto un legame forte con il Pd e i Comuni amministrati dal centrosinistra: dagli affidamenti con fondi pubblici, spesso senza una gara, alle proroghe puntuali a ridosso delle scadenze, dagli immobili affittati dai dipendenti pubblici alla coop, fino all'assunzione di un amministratore democratico nella società della suocera di Soumahoro”.

Le denunce del sindacato Uiltucs

Parallelamente ai dubbi sollevati dalla politica, sulla gestione del sistema Sprar sono arrivati anche i riflettori del sindacato Uiltucs guidato dal segretario provinciale Gianfranco Cartisano, che invece si sono concentrati su aspetti lavorativi. Proprio lui ha denunciato i mancati pagamenti dei lavoratori e in altre occasioni ha raccolto i malumori dei richiedenti asilo e dei braccianti impiegati dalla Aid, consorzio nell’orbita della famiglia Soumahoro.

Quei milioni alla coop vicina a Mafia Capitale. Bianca Leonardi il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il colosso italiano dell'accoglienza Medihospes fino all'anno scorso deteneva il 63% dei centri accoglienza solo su Roma

Se il caso Soumahoro è stata una doccia fredda per i tanti affezionati, la politica ha preferito rimanere pressoché silenziosa riguardo anche gli intrecci - documentati e presunti - tra i due mondi: immigrazione e potere.

Il caso più eclatante è quello del colosso italiano dell'accoglienza Medihospes che fino all'anno scorso deteneva il 63% dei centri accoglienza solo su Roma: una condizione di quasi monopolio che si conferma anche quest'anno. La coop è strettamente collegata al Gruppo La Cascina, al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il presidente di Medihospes è infatti Camillo Aceto, ex amministratore delegato de La Cascina, indagata per infiltrazione mafiosa. Le due tutt'oggi risultano essere partner. Nonostante questo, i reclami, le denunce e le indagini da nord a sud che portano alla luce le stesse accuse tra cui sovraffollamento, condizioni disumane, gestione oscura dei finanziamenti, la Medihospes gode di una fiducia smisurata dei comuni italiani, soprattutto quello romano.

«Significa che l'amministrazione rischia di essere catturata dal proprio fornitore e di subirne la capacità di condizionamento», si legge nel dossier di ActionAid. Tra il 2021 e il 2022 la giunte 5 stelle e dem hanno infatti indetto bandi, e soprattutto affidamenti diretti, a favore della coop che ha ottenuto, così, contributi milionari. Se nel 2020 erano arrivati 20mila euro alla Medihospes per la ricerca di personale addetto covid per un solo mese, le cifre nei due anni successivi sono di tutt'altro tenore. Il 30 marzo 2021 nelle tasche di Camillo Aceto arriva 1,5 milioni per soli sei mesi di accoglienza, anche questo con affidamento diretto e fuori dal progetto Sprar e cioè dal circuito prefetture-enti. Nello stesso periodo altri 435mila euro per la gestione degli eventi climatici.

Ma c'è di più: il bando del 6 ottobre 2021, per la realizzazione di progetti in favore dei centri di accoglienza, mette sul tavolo più di 23 milioni di euro. Con 13 aggiudicatari e 36 progetti, addirittura 15 vengono affidati alla coop. Stesso discorso per l'affidamento dei C.A.R.I, questa volta nel progetto Sprar, per il triennio 2021-2024 la Medihospes si è presa la fetta più grande della torta, incassando quasi 2,6 milioni contro il poco più di un milione spettato agli altri vincitori. Ad aggiungersi a questo fiume di denaro, pochi mesi fa, un altro affidamento diretto con cui Roma ha stanziato 110mila euro per la gestione di soli 10 posti.

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per repubblica.it l’8 dicembre 2022.

Quattro anni fa era già nota la "grave" situazione in cui versavano alcuni centri per migranti gestiti dalle coop della suocera e della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Lo aveva accertato il Ministero dell'Interno e l'Ufficio III della Direzione centrale dei servizi civili per l'immigrazione e l'asilo lo aveva specificato in un documento inviato al Comune di Roccagorga, piccolo centro dei Lepini in cui la cooperativa Karibu ha mosso i primi passi. 

Tanto Karibu quanto il Consorzio Aid, a cui ora il ministro dello sviluppo economico Adolfo Urso ha deciso di staccare la spina e su cui è in corso una complessa inchiesta della Procura della  Repubblica di Latina, hanno però continuato a incassare milioni di euro fino a quando lavoratori che da due anni non prendevano lo stipendio si sono rivolti alla Uiltucs e sono spuntate storie di minorenni stranieri costretti a vivere senza cibo, acqua e luce, facendo esplodere lo scandalo.

Era il 31 dicembre 2019 quando venne inviata dal Viminale una pesante nota al Comune di Roggagorga, all'epoca amministrato dalla sindaca dem Carla Amici, sorella dell'ex sottosegretaria Sesa. Riferendosi al progetto Sprar 2014-2016, ammesso al finanziamento, il Ministero specificò che la seconda visita di monitoraggio effettuata il 26 e 28 novembre 2018 era sfociata in una serie di prescrizioni per via delle "criticità rilevate", imponendo all'ente locale di allinearsi entro 20 giorni.

Nella nota, che Repubblica ha potuto esaminare, il Viminale aggiungeva che dal Comune non era arrivato alcun riscontro a quelle prescrizioni e che, "tenuto conto della gravità della situazione emersa", lo stesso doveva ottemperare. In caso contrario, veniva evidenziato, l'ente locale avrebbe subito una decurtazione di 18 punti, "penalità che potrà comportare la revoca del finanziamento". 

Il linguaggio è burocratico, ma il quadro che aveva il Ministero dell'interno delle strutture dove erano ospitati i migranti sembra chiaro. Al dicastero, all'epoca retto dal leghista Matteo Salvini, risultava il "mancato rispetto della percentuali di posti destinati al sistema di protezione indicate nella domanda di contributo" e la "mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati", oltre soprattutto alla "mancata  applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitativi". 

Qualcosa che sembra estremamente simile a quanto riferito da diversi migranti dopo che è esploso lo scandalo e su cui sta indagando la magistratura. 

Il Viminale aveva anche sostenuto che quei problemi avrebbero potuto comportare "il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata", lamentando pure la mancata trasmissione della rendicontazione 2017, mancando il certificato del revisore "che accompagna obbligatoriamente le spese sostenute". 

Una nota durissima, che non ha però appunto ostacolato le cooperative di Maria Therese Mukamitsindo e della figlia Liliane Murekatete. [...]

Quando Salvini smontò Soumahoro sullo sciopero dei clandestini. Nel 2020 Soumahoro minacciava: "Fate la regolarizzazione o scioperiamo". Ma il segretario della Lega lo zittiva: "Mi preoccupo dei lavoratori italiani in difficoltà". Luca Sablone su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

Le ultime vicende giudiziarie e politiche hanno messo in forte imbarazzo la sinistra nostrana, che da sempre ha dipinto gli esponenti di centrodestra come dei mostri e ha coccolato con leggerezza chiunque avesse le sembianze di un nuovo leader progressista. Ma la convinzione di essere paladini morali ha presto lasciato spazio al senso di soggezione per il caso Aboubakar Soumahoro. Alla mente torna il botta e risposta, risalente a due anni fa, tra il sindacalista e Matteo Salvini in televisione.

Il dibattito in questione risale al 10 maggio 2020. La morsa della prima ondata del Coronavirus era durissima: il nostro Paese faceva i conti con i divieti anti-contagio e gli effetti economici erano devastanti. In quel periodo, però, all'interno del governo giallorosso, guidato da Giuseppe Conte, si parlava della regolarizzazione dei migranti. Un tema che aveva spaccato la maggioranza e che aveva mandato su tutte le furie l'opposizione di centrodestra.

Bellanova piange per i clandestini ma non ha lacrime per tutti gli italiani rovinati dalla crisi

Ad esempio Matteo Salvini si era da subito schierato contro una sanatoria indiscriminata. Il segretario della Lega aveva ribadito la propria posizione nel corso di un'intervista rilasciata a Mezz'ora in più su Rai 3. Era stata l'occasione per un confronto con Aboubakar Soumahoro, che non aveva usato toni concilianti e si era spinto a lanciare un avvertimento: "Il governo faccia la regolarizzazione altrimenti è sciopero".

L'uscita del sindacalista aveva innescato la reazione di Salvini che, lasciandosi andare a una risata di sconcerto, aveva espresso il proprio disappunto: "Scioperano i clandestini adesso? Ma in che Paese viviamo? Io mi preoccupo dei tanti lavoratori, italiani e stranieri, perbene che sono a casa senza pagnotta da due mesi".

Poco prima la discussione si era fatta ancora più animata. Soumahoro aveva lanciato una provocazione all'indirizzo del leghista: "Metta gli stivali, venga nei campi insieme a noi". Una frase a cui era seguita una stoccata da parte di Salvini: "Guardi, ne ho girate forse più di lei di aziende agricole e nessuno mi chiede schiavi. Il problema è che se noi continuiamo a regolarizzare immigrati irregolari abbiamo schiavi".

Ironia della sorte. Soumahoro invitava il leader della Lega a mettere gli stivali. Magari gli stivali che il deputato di Verdi e Sinistra italiana ha indossato all'esordio nel palazzo della politica. Quegli stessi stivali "simbolo delle sofferenze e speranza del Paese" (con i piedi "nel fango della realtà e lo spirito nel cielo della speranza") che stonano con la denuncia dei braccianti sul suo conto. Salvini è sempre stato etichettato come un mostro che rema contro i migranti; Soumahoro è stato invece designato come potenziale nuovo leader della sinistra. Ora, alla luce degli ultimi sviluppi, siamo sicuri che gli epiteti sull'uno e le lodi sull'altro siano corretti?

"Risposte non sufficienti". Prima lo candidano, ora i Verdi scaricano Soumahoro. Il co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli, critica il sindacalista ivoriano e lo scarica: "Dovrebbe dare risposte più compiute, la questione è politica". Marco Leardi su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

"Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti". La sinistra casca dal pero e sul caso che ha travolto il proprio deputato reagisce solo ora. L'autosospensione del sindacalista ivoriano, seguita agli accertamenti sulle coop riconducibili ai suoi famigliari, è stata un punto di non ritorno. Adesso, infatti, la questione ha assunto una consistenza politica non più trascurabile, nemmeno da parte di quanti si erano trincerati dietro un iniziale e imbarazzato silenzio. Così, a utilizzare toni severi nei confronti di Aboubakar sono stati gli stessi esponenti dell'alleanza Verdi-Sinistra italiana, a cominciare da Angelo Bonelli.

Caso Soumahoro, Bonelli: "Turbato e ferito"

In un'intervista a Radio Popolare, il co-portavoce di Europa Verde ha di fatto voltato le spalle al paladino dei braccianti sfruttati, accusandolo di non aver fornito spiegazioni esaurienti sulle controverse vicissitudini della sua famiglia. "Dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto. Quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione", ha affermato Bonelli, dicendosi "turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda". L'esponente dei verdi ha quindi chiesto una "riflessione seria", usando una perifrasi quasi d'obbligo. Col passare dei giorni, infatti, in molti hanno iniziato a sollevare rilievi di opportunità politica destinati a interrogare anche i vertici della sinistra nostrana.

"Soumahoro dovrebbe dare risposte"

"Soumahoro dovrebbe essere il primo a dare risposte che finora non ha dato", ha lamentato Bonelli, accusando poi il centrodestra di "usare" la vicenda contro i proprio avversari. L'impressione, in realtà, è che i progressisti abbiano combinato il pasticcio da soli, prima portando il deputato ivoriano in palmo di mano come un'icona e poi accorgendosi di aver forse commesso qualche imprudenza. Al riguardo il co-portavoce di Europa Verde ha scaricato le responsabilità su Soumahoro (che non è comunque indagato), rimproverandogli di non essere stato abbastanza esaustivo con il partito che lo stava candidando.

Quelle voci prima della candidatura

"Non c'è stata una sincera comunicazione da parte di chi si candida a dire 'io ho un problema di questo genere, valutate voi'. Questo non è accaduto. È una questione che non attiene la via giudiziaria, è una questione che attiene alla politica e a una comunità che ti sta facendo una proposta di candidatura. Se io avessi una moglie che ha una società che opera nelle energie rinnovabili e venisse indagata perché ha corrotto il ministero dell'Ambiente e io sono il leader dei Verdi, ho il dovere di dire al partito che mi vuole candidare che ho questo problema, per rispetto ad una comunità che ha proposto il tuo nome", ha affermato Bonelli. Tuttavia, secondo alcune indiscrezioni - rilanciate peraltro stamani da Luigi De Magistris su La7 - "c'erano già voci su Aboubkar, anche durante la campagna elettorale, e non venivano da avversari politici". Secondo l'ex sindaco di Napoli, il sindacalista sarebbe stato quindi candidato "nella perfetta consapevolezza che c'erano vicende opache che lo attraversavano".

Ma Bonelli cade dalle nuvole. "Quello per cui mi sento profondamente ferito è proprio questo, ferito più che dal punto di vista politico, umano, perché si omette di dire tutto. Io non posso credere che la moglie non parli con il marito di questo", ha dichiarato il leader di Europa Verde.

"Mollato senza rimorso". Mentana smaschera la sinistra sul caso Soumahoro. Il giornalista allude sui social all'attualità e descrive il "meccanismo" adottato con le presunte icone progressiste. "Si innalzano finché non esplodono per umane contraddizioni". Marco Leardi su Il Giornale il 25 Novembre 2022.

Icone della sinistra portate in palmo di mano. Blandite e celebrate come esempi di presunta superiorità morale. Esaltate oltremodo fino a quando scoppia la bolla. A quel punto, infatti, scatta il fuggi fuggi dei compagni e degli adulatori d'un tempo. "Il meccanismo è sempre uguale". Enrico Mentana sferra una staffilata ai progressisti di casa nostra, prendendo spunto probabilmente dalle recenti vicissitudini del caso Soumahoro. Senza citare in modo esplicito il deputato di origini ivoriane, il giornalista ha affidato ai social una riflessione adattabile alle circostanze che hanno portato l'esponente politico ad autosospendersi dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra.

Il "meccanismo" svelato da Mentana

Dopo quella decisione, dovuta all'onda d'urto dell'indagine sulla suocera del deputato, Mentana ha toccato su Facebook un nervo scoperto della sinistra. "Il meccanismo è sempre uguale, nasce da uno stesso riflesso condizionato: si innalza una figura a simbolo della lotta su temi e battaglie che non ci piace né vedere né affrontare, quasi sempre nel sud non illuminato dalle fiction, la si gonfia esaltandola e lusingandola, finché invariabilmente non esplode per varie umane contraddizioni", ha scritto il direttore del TgLa7, ricostruendo l'ideale parabola percorsa da alcune personalità trasformate in icone del progressismo. Poi il giornalista ha descritto l'improvvisa traiettoria discendente a cui quelle stesse figure sarebbero condannate.

"Mollato senza rimorso"

"A quel punto la si molla all'istante, e con lei - senza alcun rimorso - le sue battaglie e le piaghe che combatteva. Come fu per l'archetipo: morto Masaniello la sua gente mazziata torna nell'ombra, senza più voce. Li chiamiamo invisibili perché in fondo siamo i primi a non volerli guardare", ha osservato Mentana. Allusiva, ma piuttosto comprensibile, la critica a quei leader politici di sinistra che ricorrono a questo "meccanismo" contraddittorio ed emblematico, rispetto al quale diversi commentatori social hanno subito colto dei riferimenti all'attualità.

Le contraddizioni politiche del caso Soumahoro

Difficile, del resto, non pensare alle traversie del caso Soumahoro. Dopo gli iniziali e imbarazzati silenzi della sinistra sulla famiglia del deputato (che - lo ricordiamo - non è indagato), qualcuno si è reso conto dei contraccolpi politici del caso. Così, il parlamentare si è dovuto autospendere dal gruppo di Verdi e Sinistra, scaricato di fatto pure da Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. "Avrebbe dovuto cercare un confronto con noi e informarci della situazione. Sono molto preoccupato", aveva fatto sapere l'esponente di sinistra.

La sinistra in caduta libera: aspettava il ko del governo ma esplode su Soumahoro. Prima creano il totem "acchiappavoti" poi lo scaricano in malo modo. De Magistris: "Da tempo c’erano voci su di lui..." Laura Cesaretti su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Ora si scopre che tutti sapevano, o almeno sospettavano: dalla Cgil alla Caritas, dai soci della cooperativa a esponenti del Pd, passando per le procure e financo per Luigi De Magistris. Tutti, tranne i due leader che hanno chiesto a Aboukabar Soumahoro di candidarsi e ne hanno fatto una delle icone della propria campagna elettorale, forti della sua popolarità a sinistra.

C'è un dolente Angelo Bonelli (il Verde) che si descrive «turbato, amareggiato, profondamente ferito dal punto di vista, più che politico, umano per questa vicenda». E che ora si mostra implacabile con l'ex candidato-simbolo: «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto. Noi quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione». C'è un irritato Nicola Fratoianni (il Rosso) che tace ma fa trapelare che si era perso il messaggio Instagram del prete che oggi - ex post - racconta di averlo «avvisato che rischiava l'autogol» a candidarlo. Che disdetta. C'è pure Gad Lerner, che sul Fatto ricorda di aver apprezzato Aboukabar e sostenuto le sue lotte, ma gli rinfaccia gli «stivali infangati» che un leader sindacale come Di Vittorio - dice - mai avrebbe usato per farsi propaganda.

Il fall-out del caso Soumahoro - peraltro non indagato - rappresenta la vera crisi post-elettorale della sinistra radical-moralista, quella che attendeva l'esplosione della (pur scombiccherata) maggioranza di destra e si trova invece a fare i conti con il crollo dei personaggi eletti a simbolo e con l'eterno male del giustizialismo verso gli altri, che ora gli si ritorce contro.

Ora c'è la gara a tirar pietre postume sull'ex icona. Spunta persino l'ormai appannato De Magistris, che non riesce mai a togliersi la toga del magistrato dell'accusa (per lo più infondata, a giudicare dagli esiti delle sue inchieste in tribunale), e che ora fa quello che la sapeva lunga: «C'erano voci ben prima della campagna elettorale, e non venivano da avversari politici di Soumahoro», racconta. Per poi prendersela con il partito rossoverde che (a differenza della sua sfortunata Unione Popolare) un po' di parlamentari, incluso il contestato sindacalista, li ha eletti: «Non voglio dire che lo abbiano usato, ma certo è stato candidato nella perfetta consapevolezza che c'erano vicende opache». Peccato, però, che appena un anno fa, il medesimo De Magistris non avesse trovato nulla di «opaco» nel sostegno offerto da Soumahoro alla sua campagna elettorale (sfortunata anch'essa) per la guida della regione Calabria. Il sindacalista aveva anche partecipato a comizi e manifestazioni a favore di Dema. Che oggi, anche lui, si ricorda improvvisamente che «c'erano voci». Mentre dalle colonne di Repubblica, Stefano Cappellini ricorda che la selezione delle candidature non va lasciata a «intellettuali, artisti, influencer» alla Saviano o a salotti della sinistra tv come Propaganda Live. E così, mentre a sinistra tutti mollano di gran carriera il proprio eroe di ieri, a non unirsi all'accanimento sul Soumahoro caduto in disgrazia sono personaggi lontani dalla retorica leftist: da Paolo Mieli, che si chiede ironico: «Come mai non gli abbiamo mai chiesto nulla prima, visto che tutti ora dicono che sapevano», a Matteo Renzi: «La sinistra radical-chic con la puzza sotto al naso prima crea i totem e poi li distrugge in un secondo. Mi fa ribrezzo questo atteggiamento».

La signora Liliane, il marito predicatore e l'assurdo diritto all'eleganza. Alla lunga lista dei diritti che la sinistra si vanta di difendere, ora ne dobbiamo aggiungere un altro, al quale, in vero, non avevamo mai pensato: quello all'eleganza. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Alla lunga lista dei diritti che la sinistra si vanta di difendere, ora ne dobbiamo aggiungere un altro, al quale, in vero, non avevamo mai pensato: quello all'eleganza. Non sappiamo se entri per direttissima nei diritti dell'uomo, di sicuro in quelli della donna. Nello specifico della signora Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, finita sotto la lente dei magistrati per presunte malversazioni e discusse cooperative e, soprattutto, finita su quotidiani, siti e rotocalchi per i suoi abiti griffati e sfarzosi. Così, il di lei marito, durante un disastroso tentativo di difendersi dalla bufera politica che si è abbattuta sulla sua famiglia, di fronte alla corte suprema di Corrado Formigli a Piazza Pulita, si è appellato al sacro e inviolabile diritto delle donne, bianche o nere, alla moda e all'eleganza. E, per carità, in tempi di sciatteria ubiqua siamo d'accordo con il novello lord Brummell sull'importanza del vestire bene. Anche se, più che un diritto, ci sembra un'opportunità. Ma sono questioni di lana caprina, non quadrupli fili di cachemire.

Epperò, con ogni evidenza, il problema è un altro. Cioè predicare povertà al limite del francescanesimo e poi razzolare male ma vestiti bene, cioè con scarpe e borse griffate. Fingersi nulla tenenti e poi avere un villino da mezzo milione di euro e un armadio da Chiara Ferragni. Non è solo una questione giudiziaria, ci penserà la magistratura a chiarire il giallo degli stipendi non corrisposti e a capire se ci sono state delle violenze. È una questione di opportunità e, ancor più, di coerenza. E il caso Soumahoro & famiglia è la rappresentazione cristallina e stupefacente di quella insopportabile doppia morale che pervade una certa sinistra che oltre a essere radical e ovviamente chic, pretende anche di avere una supremazia morale. Peggio di loro, e di gran lunga, c'è solo quel sistema mediatico e politico che li ha elevati a paradigma. E ora si nascondono pure dietro al diritto all'eleganza. Anche se più che un diritto, questo è un rovescio. Un manrovescio. Al buongusto.

Soumahoro, con il diritto all'eleganza nasce la sinistra "falce & borsetta". Pietro De Leo su il Tempo il 26 novembre 2022

Fermi tutti, il profeta fa l'update, l'aggiornamento delle proprie priorità. In questa vicenda da tragicommedia politica che riguarda la gestione presuntamente allegra della cooperativa d'accoglienza della suocera del deputato Soumahoro, quest' ultimo, alle prese con i marosi mediatici della vicenda, incappa in un apparente lapsus, che però è molto di più. È riscrittura di orizzonti, teorizzazione di nuove battaglie. Durante la rovinosa uscita televisiva a Piazza Pulita, il conduttore Corrado Formigli chiede conto al deputato dei selfie postati sui social che ritraggono la sua consorte abbigliata con griffe e borse di un certo valore. Soumahoro, candidamente, risponde: «Il diritto all'eleganza, il diritto alla moda è una libertà. La moda è semplicemente umana, non è né bianca né nera».

Già immaginiamo i volti contriti di Bonelli e Fratoianni, leader dell'alleanza che ha eletto il Nostro in Parlamento. l'uno seguace della sobrietà ambientalista, l'altro di quella del portafoglio in chiave redistributiva, tanto da esser un grande sostenitore della patrimoniale. Piantati lì, da anni. Soumahoro, invece, appena messo piede nel Palazzo, ha già fatto l'aggiornamento della propria tutela dei diritti. Non più quelli dei braccianti ad un salario dignitoso, la cui battaglia l'ha proiettato nella fama (con molti margini di dubbio sulla sua conduzione, visti gli elementi che, anche lì, stanno emergendo).

Ma il diritto della sua signora ad indossare il lusso e mostrarlo. Largo alla nuova (estrema) sinistra glamour, falce e borsetta. E siccome ogni buon rivoluzionario proietta sulla collettività il gesto politico che compie in prima persona, ci aspettiamo una serie di istanze: l'iPhone Max di cittadinanza, la fuoriserie garantita dallo Stato, il bonus-cena da Briatore. D'altronde, la strada la indicano già i social, dove Soumahoro in poche settimane è diventato da uomo-nuovo per la sinistra auomo-meme per tutti, tanto che qualche buontempone, lavorando di fotomontaggi, ha appiccicato il logo di una nota griffe sugli stivaloni di gomma con cui il Nostro ha esordito in Parlamento. D'altronde, e ora scriviamo sul serio, questi sono i contraccolpi della politica di oggi, sempre a caccia di icone, di gadget umani che abbiano un buon involucro, e chi se ne frega del contenuto. E finisce, a volte, che una risata seppellisce la farsa di imitazioni ridicole di modelli veri. «I have a dream: più yacht per tutti». È il diritto alla moda, fratello.

Stasera Italiana, Vittorio Feltri in difesa di Soumahoro: linciaggio incivile. Il Tempo il 25 novembre 2022

Il caso di Aboubakar Soumahoro ha terremotato la sinistra italiana anche se il nome del sindacalista, eletto alla Camera dei deputati con l’Alleanza Europa verde-Sinistra italiana, non è contenuto nell'inchiesta della procura di Latina che indaga sulle cooperative che fanno capo a membri della sua famiglia. Una voce che abbastanza a sorpresa si leva in favore del sindacalista paladino delle lotte dei braccianti agricoli e finito al centro delle polemiche è quella di Vittorio Feltri, intervenuto venerdì 25 novembre a Stasera Italia, il programma condotto da Barbara Palombelli su Rete 4. 

"Quello che fa mia suocera o che fa mia moglie io non lo so", afferma il direttore editoriale di Libero che attacca: "Questo signore stato linciato prima ancora di essere indagato, questo mi sembra incivile in un Paese in cui si continua a discutere della magistratura". 

Nel corso della trasmissione la conduttrice aveva sottolineato come, tra gli effetti collaterali del caso, ci sia il danno di reputazione per le persone e le associazioni che "onestamente aiutano gli immigrati". Il giornalista del Foglio Simone Canettieri pone l'accento, invece, sul fatto che questa storia è "un grande carburante per la propaganda della destra" anche grazie alla "difesa pasticciata, con delle uscite abbastanza grottesche", dello stesso Soumahoro. "Colpisce il totale silenzio di un mondo", quello delle "icone che l'avevano lanciato e protetto e che si erano anche forse coperti dietro di lui" argomenta il giornalista. 

Soumahoro, Propaganda Live: "Siamo inc*** con lui". Libero Quotidiano il 26 novembre 2022

Anche Propaganda Live scarica Aboubakar Soumahoro. Il salottino radical chic di La7, che ha contribuito a lanciare politicamente la figura del sindacalista dei braccianti immigrati nel 2018, regala uno spazio inevitabile al commento del caso della settimana, con l'inchiesta sulle coop gestite da moglie  e suocera del neo-deputato di Sinistra-verdi costretto, proprio per questo, ad auto-sospendersi. E Diego Bianchi in arte Zoro non nasconde l'amarezza per il comportamento dello stesso Soumahoro, ormai ex idolo della sinistra.  

Il leader dei verdi Bonelli aveva tirato in ballo proprio Propaganda e L'Espresso, che aveva dedicato al sindacalista una celebre copertina per contrapporlo a Matteo Salvini, Uomini e no, per motivare la scelta di candidare Soumahoro alla Camera. Come dire: con un pedigree mediatico cosi, che bisogno c'è di indagare sulle sue attività? 

Bianchi, in qualche modo, mette le mani avanti e si scagiona: "Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…". Ricordando, per altro, che il Soumahoro che loro hanno conosciuto e "lanciato" era quello che parlava con eloquio forbito ma passionale ai migranti e dei migranti, in piazza, citando diritti e denunciando angherie e soprusi. 

Poi cos'è cambiato? "Non lo stiamo scaricando - precisa Bianchi -. Ieri mi continuavano ad arrivare messaggi... Lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incaz***ti più di tutti su questa storia! Siamo inca***ti, delusi, amareggiati, non imbarazzati!". Quindi la strigliata finale: "E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong. Ma siamo inca***ti con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate".

Soumahoro, Mentana contro la sinistra: "Mollato senza alcun rimorso". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Senza mai citarlo, l'ultimo post di Enrico Mentana sembra un chiaro riferimento ad Aboubakar Soumahoro. Il deputato di Verdi-Sinistra italiana si è autosospeso dopo la pressione dei partiti, travolti indirettamente anche loro dall'indagine sulle coop di moglie e suocera di Soumahoro. "Il meccanismo - tuona il direttore del TgLa7 - è sempre uguale, nasce da uno stesso riflesso condizionato: si innalza una figura a simbolo della lotta su temi e battaglie che non ci piace né vedere né affrontare, quasi sempre nel sud non illuminato dalle fiction, la si gonfia esaltandola e lusingandola, finché invariabilmente non esplode per varie umane contraddizioni".

Poi la stoccata con ogni probabilità ad Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, leader dei rispettivi partiti, così come a tutta la sinistra: "A quel punto la si molla all'istante, e con lei - senza alcun rimorso - le sue battaglie e le piaghe che combatteva. Come fu per l'archetipo: morto Masaniello la sua gente mazziata torna nell'ombra, senza più voce. Li chiamiamo invisibili perché in fondo siamo i primi a non volerli guardare". 

L'autosospensione del sindacalista eletto in Parlamento sembra proprio una decisione quasi dovuta, arrivata dopo una spinta dei vertici dell'Alleanza di cui faceva parte. Non a caso già negli scorsi giorni si vociferava di un ripensamento da parte del numero uno dei Verdi: "Ho fatto una leggerezza". Ma non è tutto, perché Bonelli non ha mancato di puntare il dito contro il deputato: "Nel momento in cui era stato candidato, non avevamo gli elementi per capire questa situazione. Ma il tema non è giudiziario, perché lui non è indagato, è politico: avrebbe dovuto cercare un confronto con noi e informarci della situazione. Sono molto preoccupato". Da qui la decisione di lasciare a casa Soumahoro.

Marco Damilano, te la ricordi? Soumahoro, la foto che spazza via il direttore. Alessandro Gonzato Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Ops. Che figura compagni! Ci scappa da ridere, molto, ma è una risata triste, ed è un peccato. Certo, non triste come la copertina dell'Espresso del 17 giugno 2018, molto più tragica come comica, almeno per chi l'ha pensata. Titolo: "Uomini e no", come il romanzo di Elio Vittorini sulla Resistenza. L'uomo, sulla sinistra, è il sindacalista Aboubakar Soumahoro, ancora cittadino semplice, non un deputato della Repubblica. Il "no", sulla destra, è Matteo Salvini, allora neo-ministro dell'Interno. "Il cinismo", si legge sotto i due volti, "l'indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l'empatia, l'appello all'unità dei più deboli". Poi il domandone, retorico: "Voi da che parte state?".

Aboubakar paladino degli "ultimi", per Repubblica. Aboubakar strenuo difensore, forse l'ultimo, dei diritti dei neri e delle minoranze, per La7, che assieme al settimanale progressista ha costruito, elevato e idolatrato l'immagine del futuro parlamentare ivoriano con gli stivali, oggi crollata sotto i colpi di un'inchiesta giudiziaria che se al momento non lo vede indagato, fa a brandelli la narrazione portata avanti per anni da lui e dalla sinistra. 

Salvini quella copertina l'aveva criticata: «Alla faccia del giornalismo, ormai alla sinistra rimangono bugie e insulti. Mi fanno tenerezza», e aveva allegato l'emoticon di un bacio. Era il tempo dei "bacioni" inviati ad avversari politici e insultatori vari, tutti a sinistra. La replica di Marco Damilano, allora direttore dell'Espresso, era stata durissima: «Di bugie e insulti la Lega di Salvini è esperta da anni: i dati amplificati sull'immigrazione per creare la percezione di un'invasione che non c'è, il dileggio dell'avversario politico. A noi interessa reagire e rappresentare la voce di quella parte di società italiana che non si rassegna a un governo e a un politico impegnato in una campagna elettorale permanente sulla pelle dei migranti e di chi dissente. Un politico che», aveva aggiunto Damilano, «da anni discrimina tra cittadini di serie A e di serie B. Chiediamo ai lettori di giudicare chi sia l'uomo tra un ministro sicuro del suo potere politico e mediati co e un sindacalista di strada che difende i suoi fratelli e compagni». E come li ha difesi! 

Ma il "ciclone Soumahoro", dicevamo, s' è fatto sempre più potente anche grazie ad altri buonisti militanti in servizio permamente. Fabio Fazio, Roberto Saviano, Giobbe Covatta, Michela Murgia. Poi c'è il leader maximo dell'esercito, Diego Bianchi, "Zoro", il mattatore di Propaganda Live che a colpi di «Daje!» caricava il Soumahoro che guidava gli scioperi nei campi del Foggiano. Pugno chiuso e calosce. Tra le perle più pure la puntata del 22 maggio 2020, appena terminata la fase più dura della pandemia. Decine di braccianti in aperta campagna capeggiati da Aboubakar. Finisce il servizio in cui l'eroe dei due stivali viene messo a confronto col bruto Salvini il quale sollevava delle perplessità per il fatto che a scioperare fossero «dei clandestini», e Bianchi esclama: «Grazie, Aboubakar! Si batte la mano sul petto, sul cuore». Aboubakar, alla fine, lancia il grido di battaglia: «È solo l'inizio, è solo l'inizio!». Applausi dallo studio. Mah. A occhio, compagno Aboubakar, siamo più o meno alla fine. Certo, non dello stipendio da parlamentare...

La gogna e il linciaggio dei media. Soumahoro e lo scontro tra pidocchi e destrieri poco coraggiosi: la sinistra è sempre più Don Abbondio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Novembre 2022.

Mi scrive un mio amico e io trascrivo: ”Marx mise incinta la cameriera e rinnegò il bambino. Per tutta la vita ha campato coi soldi di Engels che sfruttava gli operai. Di questi tempi lo avrebbero radiato da questo sodalizio di moralisti manettari che prende il nome di sinistra. E nessuno avrebbe scritto il Capitale”. Il mio amico, naturalmente, si riferisce al processo a Aboubakar Soumahoro che si è svolto negli ultimi due giorni davanti a una giuria impersonata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, e conclusosi con le dimissioni di Soumahoro dal gruppo parlamentare (difficile pensare che siano del tutto spontanee…). Forse esagera il mio amico, anche perché è giovane.

Io che sono un po’ più vecchio ricordo processi simili a questo svolti nelle stanze di Botteghe Oscure, cioè del vecchio Pci. O di via Taurini, cioè dell’Unità, dove lavoravo. All’Unità ci fu un epico processo al più prestigioso dei suoi giornalisti. Alberto Jacoviello, accusato di maoismo (ma Mao era già morto) e che però clamorosamente si concluse con l’assoluzione, ai voti. A Botteghe Oscure invece di processi ne fecero tanti. Forse uno dei più famosi è quello ai Magnacucchi. Li chiamava spregiativamente così Gian Carlo Pajetta. Erano due deputati del Pci, Valdo Magnani e Aldo Cucchi che nel 1951 si schierarono con Tito contro Stalin. Magnani intervenne al congresso del Pci bolognese denunciando lo stalinismo, l’autoritarismo e l’idea che l’Urss fosse lo stato guida. Fu travolto dagli improperi. Si dimise da deputato e dal partito, ma il Pci lo espulse lo stesso e Togliatti tuonò: “Due pidocchi possono trovarsi anche nella criniera del più nobile destriero”. Il destriero nobile era il Pci, i pidocchi i due dissidenti.

Per fortuna i tempi sono un po’ cambiati. Non molto. I processi si fanno lo stesso però si concludono con più ipocrisia e meno violenza di una volta. Anzi con dei sorrisi e con delle soluzioni diplomatiche. La sostanza, nel nostro caso, è che la sinistra che aveva candidato Soumahoro si è rifiutata di difenderlo, pur sapendo che Soumahoro è vittima di una feroce e infame campagna di stampa e che non ha commesso nessun reato. Qual è la differenza? Allora il Pci era feroce, ma non vigliacco. La nuova sinistra è meno feroce, ma il coraggio non sa cosa sia. Assomiglia a don Abbondio, non a Cristoforo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'ipocrisia e il forcaiolismo. Il caso Soumahoro, la ricerca del colpevole e il giornalismo razzista e perbene che piace al popolo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 25 Novembre 2022

Il giornalismo pressoché unanime che non demorde e anzi insiste, anzi rivendica la doverosità della propria missione informativa, anzi mena vanto della propria oggettività investigativa, e indispettito tratta da fessi i pochi, pochissimi che hanno preso le difese di Aboubakar Soumahoro, quel giornalismo alla ricerca postuma delle prove che giustificherebbero il previo linciaggio, può rigirarla come vuole questa frittata: ma resta preparata con l’ingrediente razzista che qui abbiamo denunciato, ed era questo a renderla tanto appetibile per il pubblico in frenesia alimentare cui era offerta.

Le indagini, le vociferazioni, i testimoni d’accusa, le requisitorie a petto in fuori contro il migrante arricchito che fa carne di porco dei principi che agitava per chiedere soldi e voti, i capi d’imputazione moraleggiante venuti su come fungaie intorno all’impalcatura dell’accusa che – per carità – non ha nulla a che fare con il colore della pelle, e semmai in modo ineccepibilmente equanime chiede conto di vicende che avrebbe identicamente rinfacciato a qualsiasi persona bianca e dabbene, non destituiscono ma confermano la matrice discriminatoria e razzista (sì, lo ripetiamo: razzista) di quell’accanimento. Questo parlamentare con la colpa di un eloquio migliore rispetto a quello di chi lo giudica, questo “ivoriano talentuoso”, come l’ha chiamato un noto giornalista di certificata appartenenza di sinistra, ciò che a dire di certuni garantirebbe l’impeccabilità civile dell’investigazione, questo finto paladino dei derelitti che in realtà fa maltrattare dalla moglie, una riccastra griffata che egli non ripudia pubblicamente, diventa nel giro di ventiquattro ore il simbolo della crudeltà contro i migranti e i lavoratori, due categorie notoriamente care al cuore e alle attenzioni di quelli che gli rinfacciano le lacrime finte su Instagram, il social dove lui frigna e la consorte posta fotografie da triangolo della moda.

E questo del pianto, e della motivazione teatrale che l’avrebbe inscenato, è un profilo tutt’altro che trascurabile della vicenda. Perché quell’uomo appartiene a un rango che fino a pochissimo tempo fa era schiavo, e che ancora oggi, e anche qui da noi (o vogliamo negarlo?), è oggetto di sopraffazione, di violenza, di razzismo, appunto. E tutti dovrebbero intenerirsi, non incattivirsi, vedendo un nero che piange e dice “Che cosa vi ho fatto?”. E nessuno dovrebbe ricorrere all’argomento falso e fuorviante secondo cui bisogna guardare solo ai comportamenti, ciò per cui va trattato “come chiunque altro, bianco giallo o nero” (questa è la solita giustificazione del razzista). Perché un nero, ancora oggi e anche qui da noi, non è affatto “come chiunque altro”: un nero, ancora oggi e anche qui da noi, è per molti un “negro”. E non mi si dica che ci sono anche quelli che lo hanno massacrato, sì, ma per ragioni che non c’entrano nulla col razzismo. Perché questo importa molto poco. Quel che importa è che altri (tanti) lo hanno invece massacrato proprio per quel motivo. E senza che i primi, gli equanimi, abbiano mostrato di farsene un problema.

Ma se sei in un collegio giudicante che vuole sbattere in galera l’imputato perché è uno sporco negro, tu non è che ti assolvi argomentando che però in effetti quello ha commesso l’illecito e che tu solo per questo, per l’illecito, non per il colore della pelle, vuoi condannarlo. Se dalla piazza monta la voglia di forca per il negro, tu hai il dovere di occuparti di quella, non della moglie che però a ben guardare qualche mastruzzo l’ha fatto. Ma per chiudere, tornando al merito: io non ho mai sentito parlar tanto di migranti maltrattati e lavoratori sfruttati, mai ho letto tanto di ingiustizia e soperchierie ai danni degli emarginati, mai ho visto un giornalismo così solerte nel raccogliere le prove di tanto degrado, di tanta umiliazione, di tanta disumanità in pregiudizio dei diseredati, come da quando l’Italia cristiana e democratica ha trovato nella vita e nella famiglia di un uomo nero la causa di tutto quell’abominio. Iuri Maria Prado 

La caccia al deputato. Quello che è successo ad Aboubakar Soumahoro è forca, non buon giornalismo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

Io capisco che questa osservazione possa provocare dispetto, ma se un esercito di giornalisti si mette a difesa dei diritti dei migranti a far tempo dal 25 Settembre del 2022, e ci si mette esercitandosi nell’investigazione della marca delle mutande della trisnonna di Aboubakar Soumahoro e nello scrutinio morale del guardaroba della moglie, allora osservo che c’è qualcosa che non fila per il verso giusto. O, per meglio dire, osservo che tutto fila per il solito verso sbagliato che fa emettere al ministro delle Ruspe, Matteo Salvini, la sua requisitoria contro la “zingaraccia”.

Il solito verso sbagliato che fa dire a un noto oligarca democratico, non casualmente ammiratissimo a destra, che “tra Covid e immigrazione c’è una correlazione evidente”, che è il modo progressista per dire che i negri portano le malattie, con il rincalzo del punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti, l’avvocato Conte, secondo il quale “non possiamo tollerare che arrivano dei migranti addirittura positivi e vadino in giro liberamente”. Dove lo sfregio non sta nella macellazione dell’italiano, ma nella riproposizione del modulo discriminatorio che porta a rastrellare gli infetti su base etnica.

Che il caso Soumahoro esploda in questo Paese, cioè il Paese che fu alleato di quelli che assassinavano a centinaia di migliaia gli “zingaracci” su cui fa comizio un ministro della Repubblica, e dove i neri stanno in cosiddetti centri di accoglienza concepiti come strutture detentive forse non per colpa esclusiva della suocera di Soumahoro, oppure a raccogliere ortaggi nelle piantagioni schiaviste forse non per responsabilità concentrata nella cerchia familiare dell’ex bracciante che si è permesso di diventare deputato, e ora è convenuto a “chiedere scusa” a reti unificate, a me pare non proprio tranquillizzante e non proprio il segno dell’equanimità simulata dal giornalismo che, figurarsi, indaga perché ci sono le notizie, non certo perché c’è un nero da bastonare.

Così come è equanime e solo rivolto alla giustizia, solo rivolto a soddisfare la giusta esigenza di informazione dei cittadini, darsi alla militanza social o al titolone sullo stupro sottolineando che il criminale è magrebino, è immigrato, è clandestino, cosa che notoriamente si ripete per ogni stupro con analoga titolazione se lo stupratore è biellese o di Comacchio. Ed è normale, in questo Paese, normalissimo, che su un illustre quotidiano si racconti degli “africani senza biglietto”, com’è normale che se lo fai notare, come ho fatto l’altro giorno durante una trasmissione televisiva, una deputata pensi bene di spiegare che certo, perché quelli, i neri, non pagano il biglietto, mentre i bianchi sì. Ed ero io ad aver detto l’enormità, e cioè che in un Paese civile non ci si lascia andare a certi spropositi: io, mica quella parlamentare che ha ripetuto con un’esattezza stupefacente la fine teoria secondo cui non è che noi siamo razzisti, sono loro che sono negri.

Non so se sia il caso di compiacersi o dolersi del fatto che alcuni abbiano ritenuto di condividere e manifestare l’impressione che le cose stiano in questo modo, e cioè che quel che è successo a Soumahoro ha molto poco a che fare con la ricerca della verità e con le purezze della missione informativa, e piuttosto denuncia la solita voglia di forca ma arricchita di un evidentissimo pregiudizio razziale e classista. A parte questo giornale, il cui spazio mi capita di usurpare nel capitale difetto del titolo di giornalista, c’è stato Paolo Mieli, che ha avuto la cortesia di riconoscere alla nostra denuncia qualche indizio di fondatezza, e poi Vittorio Feltri, forse non casualmente sprovveduto del tesserino dell’Ordine fascista dei giornalisti.

È tanto, e vale il compiacimento, perché significa che non proprio tutti i plenipotenziari dell’informazione sono rimasti inerti davanti al linciaggio. Ma è poco, e vale la doglianza, perché quelle voci contrarie non sarebbero necessarie in un Paese che va per il verso giusto, quello che lo mantiene a un livello decente di civiltà. Iuri Maria Prado

Quantomeno si prepari meglio le risposte. Soumahoro e il “diritto alla moda” della moglie: va bene il garantismo ma le sue risposte fanno sorridere. Hoara Borselli su Il Riformista il  25 Novembre 2022

Non si placa il dibattito intorno a Soumahoro, il sindacalista che, ricorderete tutti, si era presentato alla camera con gli stivali infangati per empatizzare con i lavoratori, deputato di Sinistra italiana e Europa Verde, viene ospitato nei talk show come uomo di punta. Per quale motivo? Perché la Procura ha aperto un’indagine nei confronti della moglie e della suocera ree (ovviamente il garantismo è d’obbligo, sono solo indagini) di gestire le loro due cooperative – che si occupavano di migranti – sicuramente non in modo limpido.

Questo è l’appunto che viene fatto, stanno uscendo giornalmente testimonianze da parte di questi lavoratori, un egiziano diciottenne ha rilasciato un’intervista al Corriere dove ha detto: “Stavamo veramente male, non avevamo nemmeno gli abiti per lavorare“. Sicuramente una situazione a cui Soumhaoro è chiamato a rispondere. Ieri sera si è presentato davanti alle telecamere a Piazza Pulita e Formigli ha cercato di incalzarlo, di fargli più domande possibili. C’è un fatto che ha colto un po’ l’attenzione di tutti, riguardo al fatto del lusso ostentato dalla moglie, che si presentata sul suo profilo Instagram in abiti molto lussuosi, tanto che i giornali hanno ironizzato dicendo che la Ferragni sembrava una dilettante al confronto.

Borse da 4-5mila euro, borse di Gucci, Fendi, Prada, insomma, è stato chiesto a Soumahoro: “Non pensa che questo lusso ostentato da sua moglie possa stridere con la sua immagine di lotta alla povertà?“. La risposta è stata questa: “Quello che fa mia moglie è il diritto alla moda”. Ora, noi sappiamo che c’erano diritti, quali alla salute, allo studio, al lavoro. Ora abbiamo scoperto che esiste anche il diritto alla moda. Ora, si cerca di ironizzare, non voglio mettere alla gogna una persona (c’è un’indagine in corso), vero è, però, che se Soumahoro oggi ha la possibilità di presentarsi davanti alle telecamere, parlare con la stampa per rispondere della situazione, quantomeno si prepari meglio le risposte, perché “diritto alla moda” fa piuttosto sorridere.

Hoara Borselli. Inizio la mia carriera artistica come una delle protagoniste della fortunata "soap opera" CENTOVETRINE per essere poi chiamata dal Cinema a rivestire il ruolo di protagonista nel film PANAREA. Il grande successo è arrivato con la trasmissione BALLANDO CON LE STELLE, vincendo la prima edizione. Ho proseguito partecipando alle tre edizioni successive. Da lì il ruolo da protagonista nella tournèe teatrale la febbre del sabato sera, dove ho calcato, a ritmo di "sold out", tutti i più grandi teatri italiani. A seguire sono stata chiamata come co-conduttrice e prima ballerina nel programma CASA SALEMME SHOW, quattro prime serate su Rai1. In seguito ho affiancato Fabrizio Frizzi nella conduzione della NOTTE DEGLI OSCAR, poi Massimo Giletti nella conduzione di GUARDA CHE LUNA sempre su Rai1. Poi ho condotto il Reportage di MISS ITALIA. Sono stata protagonista della fiction televisiva PROVACI ANCORA PROF, otto puntate in prima serata su Rai1 e TESTIMONIAL di importanti aziende di vari settori.

Soumahoro, "otto sacchi neri nell'immondizia": cosa c'è lì dentro? Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

C'è qualcosa che non torna nella storia di Soumahoro. Il parlamentare della sinistra è stato travolto dall'inchiesta che riguarda i suoi familiari e adesso avrebbe annunciato la sospensione da Sinistra Italiana e Verdi. Ma secondo quanto riportato dal Corriere, proprio in questi giorni sarebbe accaduto qualcosa di strano. Di fatto protagonista di questa storia nella storia è un passante che avrebbe notato qualcosa di strano davanti alla struttura gestita dai familiari di Soumahoro. A quanto pare proprio subito dopo l'esplosione dell'inchiesta sarebbero scomparsi alcuni documenti. O meglio, sarebbero stati gettati tra i rifiuti.  

E proprio un passante, sempre come racconta il Corriere, avrebbe notato otto sacchi neri pieni di fascicoli e di carte che riguardano gli immigrati accolti. Subito dopo è scattata la segnalazione ai carabinieri che hanno subito sequestrato tutto. Il passante è stato insospettito da quel via vai proprio sotto le cooperative riconducibili a Maria Therese. Il comando provinciale dei carabinieri di Latina si è mosso rapidamente recuperando quei sacchi neri.

Cosa hanno da nascondere i familiari di Soumahoro e perché quella pulizia improvvisa e tempestiva? Tutte domande a cui l'inchiesta potrebbe dare delle risposte. Intanto Soumahoro si autosospeso e ha definito una "leggerezza" tutta questa storia intervenendo a PiazzaPulita da Formigli. Di certo bisognerà attendere ancora qualche settimane per avere un quadro chiaro delle indagini. Ma di certo in questo momento la suocera risulta indagata per "malversazione". Tegole su tegole che stanno distruggendo la credibilità politica di Soumahoro. 

Clemente Pistilli per “la Repubblica – ed. Roma” il 26 novembre 2022.

[…] Mentre i dipendenti della Karibu e del Consorzio Aid continuavano a reclamare invano stipendi arretrati anche di due anni e nelle strutture per i minorenni provenienti dal Maghreb sarebbero mancati sia cibo che acqua, quest' anno le due coop di Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo hanno ottenuto 557mila euro dalla Regione Lazio. Altre vicende al vaglio della Procura della Repubblica di Latina. 

[…] La Karibu ha ottenuto 259mila euro « per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa » e Consorzio Aid 298mila euro per i «bisogni degli ucraini per il sostegno socio-lavorativo». Una vicenda sempre più complessa. Tanto che ieri il procuratore capo Giuseppe De Falco ha ribadito che le indagini sono in corso «con riferimento a temi investigativi diversi e complessi, che concernono l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'erario, con i dipendenti e con i soggetti coinvolti »

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 26 novembre 2022.

Nella sede della Karibu e del Consorzio Aid, guidati da Marie Therese Mukamitsindo, ormai non si vede più nessuno da giorni. Gli amministratori sono spariti. Giovedì verso le 12 compare, però, una signora bionda. È ucraina. Fa la mediatrice culturale. «Mi hanno dato appuntamento a mezzogiorno e mezzo, ma non c'è nessuno». La signora lavora qui da due mesi. «Vengo qui ogni tanto». Chi la paga? «Le cooperative. Ma a me hanno dato solo un piccolo acconto». Alla Karibu sono arrivate cifre ben più consistenti di un anticipo. Per esempio, nel 2022, le cooperative della suocera di Aboubakar Soumahoro hanno percepito 557.300,48 euro (provenienti da fondi Ue destinati a «inclusione sociale e lotta alla povertà») dalla Regione Lazio per l'accoglienza dei profughi provenienti dall'Ucraina per sfuggir dalla guerra. La determinazione dirigenziale numero G04199 del 6 aprile scorso infatti ha approvato il progetto Icarus, acronimo di «Interventi per la capillare accoglienza dei rifugiati ucraini e per l'inclusione socio-lavorativa», presentato dalla Karibu e finanziato per 259.000 euro. Anche il progetto Bussola (I bisogni degli ucraini e delle ucraine per il sostegno socio lavorativo) della Aid è rientrato tra quelli scelti dall'ente guidato da Nicola Zingaretti, portando a casa 298.300,48 euro. Ma questa è solo una piccola fetta di quanto incassato. 

È lungo l'elenco delle «esperienze» su cui può contare la coop Karibu: ben 23 progetti finanziati tra il 2004 e il 2021 per un valore complessivo di 62.251.803 euro. 

Quelli più corposi sono stati approvati dal ministero dell'Interno, (ma ne compaiono alcuni della presidenza del Consiglio dei ministri e della Regione Lazio). Come uno per l'accoglienza, i servizi per l'alloggio, la tutela socio-legale, l'aiuto psicologico, l'assistenza e l'orientamento legale. Per rendere autonomi i richiedenti protezione internazionale ospitati nei Cas, i Centri d'accoglienza straordinaria, il ministero dell'Interno ha sborsato, tramite la prefettura, 25 milioni spalmati su sei anni: dal 2013 al 2019.

Ma ce ne sono anche un paio da 15 milioni di euro (30 complessivi). Uno per l'accoglienza, l'integrazione sociale, lavorativa e culturale per lo Sprar di Sezze (Latina), della durata di 15 anni (dal 2004 al 2019). E l'altro, sempre da 15 milioni di euro, per lo Sprar di Roccagorga (Latina), anche questo della durata di 15 anni (2004-2019). Le altre operazioni che Karibu ha portato all'incasso vanno dall'insegnamento delle prassi normative per fare impresa e creare startup all'aiuto psicologico, fino all'assistenza e alla mediazione per il contrasto al fenomeno del caporalato. Ovvero il cavallo di battaglia di Aboubakar. 

I dati sono contenuti in un documento del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del ministero dell'Interno, col quale la Karibu si è candidata a un ennesimo bando, finanziato dal Fondo asilo, migrazione e integrazione, elencando proprio le corpose esperienze pregresse (ma anche i partner: Anci Lazio, associazione Address, università Luiss e Osservatorio economico per lo sviluppo della cultura manageriale d'impresa).

La misura che faceva gola a Karibu era denominata Perseo (l'eroe della mitologia greca che uccise Medusa) e aveva come finalità il «potenziamento del sistema d'accoglienza». Il ministero chiedeva di sviluppare «percorsi individuali per l'autonomia socio-economica» dei richiedenti asilo. E Karibu ha presentato il suo progetto: «Orientamento all'inclusione socio lavorativa dei titolari di protezione internazionale». 

Il costo? 2.135.705 euro per soli 21 mesi. Ma non basta. In una relazione depositata alla Camera dei deputati e relativa al triennio 2018-2020, vengono citati 5.080.261,63 euro andati alla Karibu per «Cas adulti». Non sappiamo se la cifra sia compresa nei 62,5 milioni di progetti indicati dalla coop nel documento inviato al Viminale. A questo tesoretto vanno aggiunti anche i 157.680 euro l'anno per tre anni provenienti dall'otto per mille Irpef, erogati tra il 2019 e il 2021 dalla presidenza del Consiglio dei ministri per il progetto «Koala», relativo all'assistenza lavorativa e abitativa ai rifugiati nella provincia di Latina. In totale alla Karibu sono andati 473.040 euro.

Intanto a fari spenti la Procura di Latina porta avanti le indagini. Ieri il procuratore Giuseppe De Falco ha diffuso un comunicato per descrivere lo stato dell'arte: «Le indagini sono in corso con riferimento a temi investigativi diversi e complessi, che concernono, in generale, l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'Erario, i rapporti con i dipendenti, i soggetti coinvolti». Altro non è dato sapere per ovvi motivi di segretezza delle indagini. 

Ma anche da queste poche parole è possibile capire qualcosa in più. Innanzitutto c'è il riferimento al fascicolo aperto nel 2019 (il procedimento penale 2129/19) che riguarda «l'impiego dei fondi erogati». Se ne parlava già in una segnalazione all'Antiriciclaggio del 12 febbraio 2021. In quel momento aveva preso vigore l'indagine aperta dopo un intervento della polizia e che era partita con ipotesi di sfruttamento. Invece l'anno scorso l'indagine aveva iniziato a puntare sull'uso distorto di fondi pubblici. Per questo alcune fonti hanno riferito alla Verità e all'Ansa che l'accusa è di malversazione di erogazioni pubbliche.

Ma, ieri, fonti giudiziarie ci hanno spiegato che le investigazioni sono in corso e che la qualificazione giuridica del reato potrebbe essere cambiata rispetto alle prime ipotesi. Che cosa significa? 

Che agli indagati potrebbe essere contestata anche una fattispecie diversa, ma che colpisce comportamenti simili, come la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Ma si tratta di distinzioni più adatte ai cultori del diritto. Il cuore della questione non cambia.

La novità è che è stato aperto un nuovo fascicolo per i «buffi» nei confronti del fisco (la Karibu ha segnato nel bilancio 2021 debiti tributari per 933.240 euro e altri 120.951 euro sono stati segnati come «quota scadente oltre esercizio»). A questi denari bisogna aggiungere i debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale (106.905 euro). 

Gli inquirenti stanno indagando anche sui reati collegati ai rapporti con i dipendenti (si tratta probabilmente di un ulteriore procedimento), fattispecie che non concernono i mancati pagamenti, materia da risolvere con l'ispettorato del lavoro e il tribunale civile. 

I «soggetti coinvolti» sono, invece, gli indagati. In un primo momento si parlava solo della Mukamitsindo (la suocera del deputato), ma a quanto risulta alla Verità gli accertamenti sono stati estesi anche agli altri due membri del cda della Karibu, ovvero a Michel Rukundo e Liliane Murekatete, entrambi figli della Mukamitsindo. Ulteriori approfondimenti riguarderebbero anche altri due loro fratelli, Aline Mutesi e Richard Mutangana.

La prima risulta presidente del consorzio Aid, mentre il secondo, ex direttore dei progetti di Karibu, ha gestito, come rivelato dalla Verità, un cospicuo flusso di denaro (segnalato all'Antiriciclaggio) con il Ruanda. Mutangana ha aperto a Kigali, in un resort, un ristorante di cucina italiana e dai conti correnti, che gestiva in Italia ,partivano fondi per la Karibu Rwa, società che si occuperebbe di organizzare safari e di noleggiare fuoristrada.

Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti Serena Riformato per “La Stampa” il 26 novembre 2022.

Diluvia sul bagnato. La vicenda di Aboubakar Soumahoro si fa ogni giorno più pesante. Sul fronte giudiziario, con la procura di Latina che sta indagando su «temi diversi e complessi» riguardo alle due cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie. Su quello politico, scaricato di fatto dai Verdi («Le sue risposte non sono sufficienti») e casus belli di una guerra interna a Sinistra Italiana, dove un gruppo di dirigenti chiede al segretario Nicola Fratoianni di «assumersi interamente la responsabilità della candidatura». 

[...] Angelo Bonelli, leader dei Verdi, lo scarica: «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute». Sinistra italiana si divide. Una decina di dirigenti ha scritto una lettera chiedendo a «chi ha scelto di candidarlo, di assumere su di sé per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto».

Destinatario è il segretario Nicola Fratoianni, accusato di essere «perfettamente a conoscenza», e «da molto tempo prima della prima della candidatura», dei fatti che riguardano Soumahoro. Fratoianni, ospite di Metropolis, parla di «un'accusa infamante, che contesto. Se qualcuno mi avesse messo a parte di indicazioni di reato sarei andato in procura. Che sulla figura si Aboubakar ci fossero punti di vista diversi, dentro una storia di conflitti, questo sì, ma di questo parliamo»

La villetta di "Lady Gucci" tra le bocche cucite. Viaggio a Casal Palocco, dove Liliane ha acquistato l'immobile da 450mila euro. Francesco Curridori il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Abiti firmati, borse griffate e una villetta da 450mila euro. Liliane Murekatete, conosciuta anche come «Lady Gucci», è finita nei guai insieme a sua madre per la gestione poco chiara di due cooperative di migranti. E nei guai ha messo anche suo marito, Aboubakar Soumahoro, che continua a difenderla rivendicando per lei «il diritto alla moda e all'eleganza». Un diritto che la donna ostentava anche a Casal Palocco, nella periferia Sud di Roma dove ha acquistato una villetta a schiera su due piani, ben prima che il marito venisse eletto in Parlamento.

Nelle vie principali di questo quartiere residenziale in pochi sanno chi sia Soumahoro. O fingono di non saperlo per evitare le domande dei giornalisti che in questi giorni hanno preso d'assalto Casal Palocco. «Ho scoperto oggi, sfogliando i giornali, che questo deputato abita in zona», dice un edicolante della via principale del quartiere. Chi, invece, ha conosciuto bene «Lady Gucci» è uno dei vari agenti immobiliare a cui la donna si era rivolta per l'acquisto della villetta. «È una bellissima donna, garbata e molto elegante. Da buona cattolica, non mancava mai di esprimere la sua devozione a Dio», confida l'esperto che conferma l'elevato valore di quell'immobile. «Una casa, di due o tre piani, in quella zona di Casal Palocco si aggira intorno a quel prezzo», dice. L'abitazione, infatti, è una villetta a schiera situata in una strada tranquilla dove i vicini di casa non ne possono più del via vai continuo dei cronisti. «Vedo una persona di colore, ma non so chi sia», taglia corto un anziano signore. «Scusate, ma noi abitiamo qui da poco e non conosciamo nessuno», risponde una coppia che abita in un palazzo che si trova di fronte alla villetta dei Soumahoro. «Sì, abitano qui, ma non rilascio dichiarazioni perché non amo questo tiro al bersaglio anche se riguarda un parlamentare», commenta uno dei pochi vicini di casa che si ferma a parlare, rigorosamente a taccuini chiusi. Il dirimpettaio conferma, ma rivela: «Sì, sì la casa di Soumahoro è questa.

Oggi, però, non abbiamo visto nessuno. Le tapparelle sono abbassate e, secondo me, non ci sono. Avranno voluto evitare l'assalto dei giornalisti». Soumahoro, che nei giorni scorsi si è autosospeso dal gruppo Verdi-Sinistra Italiana pur non essendo indagato, non risponde al telefono. Impossibile, dunque, avere una sua dichiarazione, ma d'altra parte ha già esposto la sua versione dei fatti da Corrado Formigli, lasciando perplessi anche coloro che lo hanno candidato. «Credo che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire ed è quello che noi gli abbiamo chiesto di fare. Nel merito, punto per punto, nell'interesse suo, di chi lo ha votato e della dimensione collettiva di cui fa parte», ha detto Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. «Le risposte date da Soumahoro non sono sufficienti allo stato attuale, dovrebbe essere lui il primo a dare risposte più compiute, cosa che non ha fatto, quello che dovevamo dirgli lo abbiamo detto, abbiamo accettato la sua autosospensione», ha detto il leader dei Verdi, Angelo Bonelli. Soumahoro, l'ex sindacalista famoso per le sue lotte in difesa dei migranti e per aver esordito in Parlamento con le scarpe sporche di fango in segno di vicinanza ai più deboli, ora è costretto a difendere la sua posizione di privilegiato.

Bianca Leonardi per "il Giornale" il 26 novembre 2022.

Indagini blindate quelle sulle coop della cricca Soumahoro, al centro dell'inchiesta di Latina che vede, per adesso, come unica indagata la suocera dell'onorevole, Marie Therese Mukamitsindo. Ora spuntano però i debiti erariali - e quindi una presunta evasione fiscale - emersa dal bilancio 2020 della Karibu. Bilancio di cui ilGiornale è entrato in possesso. 

Il totale ammonta a poco più di 2 milioni di euro. Tra le voci più sostanziose spiccano i debiti verso le banche, pari a circa 590mila euro, e quelli tributari che si conquistano il primo posto. Sono quasi 774mila euro, infatti, le imposte mai pagate nei confronti della tesoreria di Stato. Oltre ad altri 232mila euro di debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale.

In sintesi, quindi, la cooperativa della famiglia Soumahoro non solo non retribuiva i dipendenti, faceva vivere i migranti in ambienti che «manco i cani» - come ha affermato l'ex senatrice di Sinistra Italiana Elena Fattori - ma nemmeno pagava le tasse, né versava i contributi a quei lavoratori che da 22 mesi non vedono un euro. 

Sulla questione, il procuratore Giuseppe De Falco non si sbilancia e in una nota condivisa afferma solo che «le indagini sono in corso con riferimento a temi investigativi diversi e complessi che concernono, in generale, l'impiego dei fondi erogati, i rapporti con l'erario, i rapporti con i dipendenti e i soggetti coinvolti». 

Da sottolineare, però, è che le indagini della procura di Latina nei confronti dell'associazione erano iniziate nel 2019, cioè già un anno prima del bilancio che rivela i debiti e svela una perdita consistente da parte della cooperativa. «Il risultato netto accertato dall'organo amministrativo relativo all'esercizio chiuso al 31 dicembre 2020, come anche evidente dalla lettura del bilancio, risulta essere negativo per euro 171.292 euro», scrive il revisore unico incaricato, Marco Liistro nella relazione data 21 giugno 2021.

Ed è proprio il presidente della coop, la suocera di Aboubakar Soumahoro, a giustificare - o quantomeno spiegare - il motivo di tale andamento. Marie Therese Mukamitsindo, sempre nel bilancio, non fa riferimento né agli stipendi non erogati, né ai milioni di debiti, ma punta il dito contro il Covid. «Essendo un'attività assistenziale per gli immigrati è continuata anche durante il lockdown, ma al tempo stesso gli sbarchi sul territorio nazionale sono diminuiti drasticamente», sostiene. 

Meno immigrati, meno lavoro insomma. E ancora: «La perdita dell'esercizio è stata anche aggravata dal fatto che non si è potuto licenziare il personale non necessario, né tantomeno lo stesso è stato messo in cassa integrazione».

In realtà, il bilancio sottolinea che la cooperativa ha ricevuto più di 112mila euro a fondo perduto per la gestione della pandemia. Eppure lei stessa ha affermato solo pochi giorni fa in un'intervista a Repubblica di essere stata malissimo a causa dei licenziamenti che ha dovuto effettuare.

Intanto Soumahoro sostiene di aver saputo solo di alcuni «ritardi dei finanziamenti da parte degli enti», come aveva detto la moglie. Sembrerebbe proprio, però, che nel pieno della sua attività sindacale non solo sia stato «leggero» - come lui stesso ha affermato - ma non si sia reso conto di quella nave che stava affondando proprio dentro la sua casa e lo stava facendo sulla pelle di tutti coloro per cui si è battuto una vita: gli ultimi.

Soumahoro, spunta un nuovo filone dell’inchiesta: il caso dei fondi anti-caporalato. Virginia Piccolillo e Michele Marangon su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Il progetto regionale, la coop della suocera e le accuse sui compensi. Fratoianni (Sinistra italiana): «Non sapevo di illeciti»

Si chiamava PerLa. Era un progetto contro il caporalato. La Karibu, gestita da lady Soumahoro e sua madre Maria Therese Mukamitsindo, era fra le cooperative che dovevano, con fondi regionali, sottrarre i migranti agli sfruttatori. Ma alla fine la suocera del deputato di Verdi e Sinistra italiana, ora autosospeso, non pagò chi aveva lavorato a quel progetto. Dovette intervenire il sindacato per un accordo. È la più paradossale delle storie che emergono dalle carte dall’inchiesta di Latina sulle malversazioni della presidente delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Una vicenda in cui benefattori e caporali si scambiano di ruolo. È scritta in un verbale di accordo firmato da Maria Therese che attesta come l’imprenditrice abbia ammesso di non aver pagato a un lavoratore le mensilità dovute per il progetto PerLa, né quelle per lavori precedenti né il Tfr.

La vittima di quella mancata retribuzione la racconta al Corriere chiedendo l’anonimato per paura di ritorsioni. «Ho lavorato al progetto PerLa come mediatore linguistico. Era bello. Aiutava chi, come me, era arrivato in Italia cercando lavoro e trovando gente che si approfittava. Io ero già alla Karibu dal 2017. Il progetto è durato altri 4 mesi. Poi è finito. Ma i soldi non me li davano. Mi dicevano che c’erano ritardi. Che mi avrebbero pagato al più presto. Ma non è mai avvenuto: mi sono rivolto al sindacato Uiltucs e dopo mesi, nel luglio scorso, siamo arrivati a un accordo. Spero sia rispettato».

Tra le vittime di mancate retribuzioni anche Aline. Che ricorda con rabbia: «Del resort in Ruanda venimmo a sapere nel 2018, quando si registrò un grave ritardo nei pagamenti. Avevo lavorato in varie strutture tra il 2015 e il 2021. Ma dall’inizio gli stipendi sono stati erogati irregolarmente. E quando saltavano non veniva dato neanche il pocket money ai migranti, creando spesso momenti di tensione». Lei ricorda il ruolo attivo, anche in questo, della moglie di Soumahoro, Liliane. «Alla fine noi dipendenti ci rivolgemmo ai sindacati, Anche la Karibu contattò l’Usb per tentare una mediazione. La nostra protesta venne messa subito a tacere. Ma il fatto che non pagassero i lavoratori era noto a tutti. Anche all’Usb». Sindacato del quale faceva parte Soumahoro, prima di passare alla Lega Braccianti e inaugurare una sede a Latina. Dove? Presso il Consorzio Aid.

Sarà la Procura di Latina a chiarire responsabilità penali dietro quel giro vorticoso giro di bandi, progetti, Cas, affitti, da oltre 60 milioni di euro. Sulle responsabilità politiche invece è bufera. Nicola Fratoianni, che mise in lista Soumahoro, respinge la richiesta dei dirigenti pugliesi del suo partito di «assumersi per intero la responsabilità politica» di quella candidatura da loro contestata. E dice: «Ci sono ancora zone d’ombra da chiarire, ma non mi pento». E la segreteria di Si aggiunge: «Chi sapeva perché non ha informato i pm?».

FdI, con il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, attacca: «Desta sconcerto e ripugnanza ciò che emerge dalle indagini sul clan Soumahoro. Un sistema di gestione dell’accoglienza che si configura, a volte, con scenari da associazione a delinquere». E per il ministro della Difesa Guido Crosetto «il tema non è Soumahoro ma le migliaia di persone sfruttate nell’ indifferenza, utilizzando sistemi “legali”, come alcune cooperative».

“Soumahoro? Fratoianni sapeva tutto”. Da Sinistra Italiana inguaiano il leader.  Il Tempo il 26 novembre 2022

Elena Fattori, militante di Sinistra Italiana ed ex parlamentare, ha firmato insieme altri dieci dirigenti del partito (tra cui Silvia Prodi, nipote dell'ex premier Romano) un documento indirizzato alla leadership per la scelta delle candidature del partito dopo il caso di Aboubakar Soumahoro. Fattori ha poi rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui mette nel mirino proprio Nicola Fratoianni, numero uno di SI: “Si è scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche. Di quelle storie sulle cooperative si sapeva tutto. La dirigenza di Sinistra Italiana sapeva, li avevo avvisati io. Ho visitato la cooperativa Karibu durante un giro di centri per richiedenti asilo che ho fatto quando ero con il Movimento 5 Stelle. Non sapevo nemmeno che fosse tenuta dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita. Era sporca, fatiscente, c’era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male. Ne ho viste tante di strutture ma quella è la peggiore, in mezzo al nulla com’era”.

“Ne parlai - ammette Fattori - anche con Fratoianni. Non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D’altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico. Era appena comparso su una copertina di un settimanale come futuro leader della sinistra. Nessuno è andato a vedere quali sono le sue proposte sul caporalato, sull’accoglienza pubblica, sulle cooperative. Lo hanno cercato per la candidatura sapendo chi era”.

Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 26 novembre 2022.

Non è pentito di averlo candidato in Parlamento: Aboubakar Soumahoro era l'icona perfetta per il messaggio che l'alleanza Verdi-Si intendeva trasmettere, quello di una sinistra ecologista attenta ai migranti, agli sfruttati, agli ultimi. 

Ma certo Nicola Fratoianni fatica a nascondere l'imbarazzo e il malumore provocati dall'inchiesta che ha coinvolto suocera e moglie del leader dei braccianti. Come non bastasse, due dirigenti del suo partito l'accusano pure di aver ignorato le denunce sul neodeputato arrivate dai campi del Foggiano. «Ma nessuno mi aveva mai parlato di ipotesi di reato», si difende il segretario di Si.

Onorevole, le spiegazioni di Aboubakar vi hanno convinto?

«Sino a un certo punto. Credo che ci siano ancora delle zone d'ombra da chiarire ed è quello che noi gli abbiamo chiesto di fare. Nel merito, punto per punto, nell'interesse suo, di chi lo ha votato e della dimensione collettiva di cui fa parte». 

[…] «A ridosso della campagna elettorale mi fu raccontato dalla senatrice Fattori di una sua ispezione, fatta credo nel 2019, in una cooperativa di Latina in cui erano state riscontrate situazioni non positive. Mi disse che circolavano strane voci e io le chiesi se ci fossero elementi di certezza rispetto a queste voci. Elementi che non arrivarono. Perciò decidemmo di procedere con la candidatura, avanzata da Europa verde, che poi valutammo insieme di sostenere». 

[…] Due dirigenti di Sinistra italiana sostengono però di averla avvertita che anche lui poteva essere invischiato in qualcosa di torbido ed era meglio fermarsi.

«Assolutamente no, nessuno mi ha mai parlato di sfruttamento o lavoro nero, se fosse accaduto avrei posto il problema. Attorno a Soumahoro, come capita a tanti personaggi pubblici, c'erano giudizi positivi ma anche polemiche riguardo a un suo eccessivo protagonismo personale nelle lotte sui migranti. Ma, ripeto, mai nessuno mi ha posto questioni di natura penale come quelle che stanno emergendo a Latina, a carico della sua famiglia». 

[…] Lo avete candidato perché era diventato un personaggio vezzeggiato dai media?

«La sua era una candidatura che aveva la forza di consolidare alcune tematiche - la lotta al caporalato, lo sfruttamento dei migranti - che per noi sono centrali. Non stiamo parlando di un partito che non se ne è mai occupato e ricorre al talent show per coprirsi su un punto sensibile per l'opinione pubblica. Io da assessore in Puglia sono stato il primo a portare l'acqua potabile in quei campi». 

Si è pentito?

«No perché la scelta è stata fatta pensando che quei temi, quelle battaglie, sono essenziali per una forza come la nostra. E lo penso anche oggi. Sebbene non mi sfugga che il problema adesso è come sostenere e proteggere le lotte e le ragioni di chi quotidianamente le porta avanti dalle ripercussioni di questa vicenda. Ragioni e lotte che restano al centro della nostra iniziativa politica». 

Basta l'autosospensione dal gruppo o deve dimettersi dal Parlamento?

«Autosospendersi è stato giusto, il resto dipende da lui».

Soumahoro, dirigenti di Sinistra Italiana: dubbi espressi ma Fratoianni non lo scarichi.

È quanto si legge in una nota sottoscritta da 10 componenti della direzione nazionale di Sinistra italiana sul caso del deputato Soumahoro. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022.

«Alcuni componenti pugliesi della Direzione e dell’assemblea nazionale di Sinistra italiana hanno inviato al segretario nazionale Nicola Fratoianni una nota con la quale ricordano, con dovizia di particolari, le ragioni per le quali, a tempo debito, avevano sostenuto l’inopportunità della candidatura di Aboubakar Soumahoro. Non le ripercorriamo nel dettaglio perché non intendiamo prendere parte al linciaggio mediatico in corso, che ha ormai largamente superato il merito degli addebiti politici che gli sono rivolti. Chi ha scelto di candidarlo non può oggi scaricarlo con lo stesso disinvolto cinismo che lo ha indotto ieri a sfruttarne in termini elettorali la popolarità».

E’ quanto si legge in una nota sottoscritta da 10 componenti della direzione nazionale di Sinistra italiana sul caso del deputato Soumahoro e riferendosi (senza citarlo) al segretario Fratoianni. Sono Edoardo Biancardi, Stefano Ciccone, Elena Fattori, Sandro Fucito, Claudio Grassi, Alessia Petraglia, Serena Pillozzi, Antonio Placido, Silvia Prodi, Roberto Sconciaforni.

«Chi ha scelto di candidarlo ha prodotto un immenso danno di immagine a Sinistra italiana - proseguono - a quanti si battono tutti i giorni contro la piaga del caporalato, a chi è impegnato con correttezza e generosità nel settore dell’accoglienza. È bene quindi che assuma su di sé per intero la responsabilità politica di ciò che era prevedibile che accadesse ed è accaduto, convocando una apposita riunione della Assemblea nazionale di Sinistra italiana».

«La segreteria nazionale di Sinistra italiana non era a conoscenza di notizie che configurassero condotte illecite o di indubbia gravità a carico delle cooperative riconducibili ai familiari di Aboubakar Soumahoro prima della sua candidatura. Chi lo afferma mente e cerca di strumentalizzare a fini politici un caso che sta amareggiando ogni cittadino di sinistra, noi per primi. Per questo respingiamo categoricamente ogni strumentale illazione: lo sciacallaggio a posteriori è sempre un brutto spettacolo, e noi non abbiamo intenzione di partecipare. Chi sostiene di aver sempre saputo, dovrebbe chiedere a se stesso come mai non ha informato i cittadini o la magistratura prima delle elezioni». E' quanto si legge in una nota della segreteria nazionale di Sinistra italiana sul caso Soumahoro.

"Fratoianni credeva che lui portasse voti..." Il filosofo: "I partiti sono ormai comitati elettorali con obiettivi di brevissimo periodo". Francesco Boezi il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Il caso Soumahoro impone alla sinistra l'ennesima domanda sulla selezione della classe dirigente. Per il professor Massimo Cacciari, il problema è strutturale e non riguarda soltanto una parte.

L'ennesimo paladino di sinistra che viene messo in discussione. Siamo alla figurina che si sgonfia?

«Guardi, io non so se Soumahoro sia una figurina. Non ho idea di chi sia questo signore e di cosa abbia fatto. Può accadere un caso poco chiaro anche nel miglior partito del mondo, in una situazione politica perfetta. Un ragionamento politico - in nessun caso - può essere declinato su una persona o su un gruppo composto da qualche persona. C'è un ragionamento di sistema da fare, semmai».

Ossia?

«Non c'è più nessuna struttura politica organizzata, nel senso che si intendeva una volta e nel senso proprio del termine. E cioè non c'è nessuna forza politica con un processo di selezione interno che abbia una sua logica e una sua forma. I partiti ormai sono gruppi di persone che hanno un solo obiettivo: sfangarsela alle elezioni prossime venture. Stanno diventando comitati elettorali, e questo vale per tutti».

Però la destra italiana ha una storia militante divenuta vincente da poco. La sinistra non più.

«Secondo me sono soltanto impressioni. Fdi due anni fa aveva il 4%. Condizioni straordinarie hanno condotto quel partito a dov'è ora. Questi voti di adesso sono scritti sulla sabbia, perché nessuna forza politica ha una strategia di lungo periodo in grado di costruire gruppi solidi e stabili».

Che consiglio darebbe però a sinistra.

«A sinistra, a destra... Cosa vuol dire? Sono concetti evaporati. Tutte le forze inseguono i voti. E di volta in volta i partiti assumono i tratti che ritengono utili per raggiungere obiettivi di brevissimo periodo. La sinistra a cui mancano i voti del centro diventa di centro, la destra a cui mancavano i voti delle periferie diventa popolare e così via. In base a che cosa? L'utilità di brevissimo periodo, quella ottenuta mediante la modifica dell'immagine, nient'altro che l'immagine».

E questo stato di salute può interessare anche la scelta delle candidature, come con Soumahoro? Bonelli e Fratoianni sembrano pentiti...

«Ma cosa vuole che pensi Fratoianni! Fratoianni è l'ultimo esponente di uno di questi comitati elettorali, un po' Pd un po' di sinistra, che, quando ci sono le elezioni va a caccia di voti, e avrà pensato che questo personaggio gli portasse dei voti. Punto».

Considerato il quadro che descrive, cosa dobbiamo aspettarci in prospettiva?

«Dobbiamo attendere qualche mutamento radicale. Ormai è evidente che viviamo in una crisi di sistema che riguarda tutti gli assetti del nostro Stato. Anche quelli che sembravano più lontani dalla crisi come ad esempio la magistratura. Dobbiamo attenderci dei mutamenti di Stato che possono avvenire in modo governato, se i partiti capiscono in che condizione si trovano e si rapportano alla società civile in modo serio e responsabile, e riformando i propri ceti dirigenti. Oppure ci sarà qualche rottura traumatica. E questo vale per l'Italia ma anche per l'Europa».

Il caso Soumahoro. “Soumahoro candidato per superare soglia 3% e poi scaricato: la sinistra indecisa e spaccata su tutto”, parla Costa di Azione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Novembre 2022

Enrico Costa è vicepresidente di Azione, per la quale si occupa di giustizia, ed è presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera. Nei governi Renzi e Gentiloni era ministro per gli Affari regionali e si era occupato di quell’abuso del diritto che è diventato l’abuso d’ufficio.

Questo governo sembra intenzionato a cambiarlo davvero.

E sarebbe ora. Perché con la paura della firma, la pioggia di abusi d’ufficio per gli amministratori locali e la Severino che colpisce e affonda chi viene indagato, di fatto la Pubblica amministrazione ha le mani legate. E quando qualche anno fa proposi di depenalizzare questa fattispecie, venne da me un giurista che mi disse: l’abuso d’ufficio non si può aggiustare, va cancellato e basta”.

Si abbatte, non si cambia. Chi era quel giurista?

Carlo Nordio. Mi ricordo quella conversazione del 2016: ‘Il reato di abuso d’ufficio non è riformabile, va eliminato perché è un mostro giuridico’. Aveva ragione, e glielo voglio ricordare adesso che è nella condizione di farlo.

Il ministro della giustizia è un ponte tra centrodestra e Terzo polo. E sulla manovra, porterete le vostre idee a Giorgia Meloni. È un soccorso?

Nordio è un galantuomo, ha idee che sposo da sempre al 100%. Al governo, che deve tirare l’Italia fuori dalle secche, vogliamo dire che secondo noi sono praticabili alcune strade. Abbiamo preparato una manovra-ombra, una controproposta di legge di bilancio. Non per aiutare Meloni. Per aiutare l’Italia, semmai. Vogliamo provare a fare opposizione costruttiva.

Azione e Italia Viva, insieme. Vi unirete?

Azione ha approvato sabato scorso il mandato per attuare la federazione con Italia Viva e altri soggetti che ne condividono i valori. È il primo passo per arrivare ad un partito unitario che metta insieme riformisti e liberali in una struttura diversa dalle coalizioni forzate. Partiamo con l’8% ma presto vedrete che diventeremo il primo partito.

Quando il centrodestra di governo avrà deluso. Da lì verranno nuovi consensi?

Non stiamo a indovinare da dove verranno. Verranno. Perché sempre più cittadini stanchi della vecchia politica si avvicinano a noi. Qualcuno da destra, altri da sinistra. E tutti quelli che non votavano più. Le indecisioni del Pd sono parte della nostra forza, perché noi abbiamo le idee chiarissime su tutto. Loro sono indecisi e spaccati su tutto.

Lei si è battuto molto sulla presunzione di innocenza. Forse andrebbe usata anche in politica, per Aboubakar Soumahoro.

Un caso imbarazzante e rivelatorio. Il suo partito l’ha usato come testimonial per superare la soglia del 3%, ora, appena aleggia qualche ombra giudiziaria l’hanno scaricato. I processi vanno fatti nelle aule di giustizia, non sui giornali. Io penso che Soumahoro possa avere tutte le responsabilità di questo mondo ma non possano essere sentenze dei giornali, e oggi ancor più quelle dei social network, a decidere.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

DAGONOTA il 26 novembre 2022.

Ora, dopo Zoro di Propaganda che si è arrampicato sugli specchi sul caso Soumahoro citando pure papa Francesco (nome usato a sproposito e destra e a sinistra, soprattutto nelle arrampicate sugli specchi) aspettiamo fidenti Damilano: è il primo che ha lanciato Soumahoro. Dandogli pure una rubrica fissa sull’Espresso. 

Su Raitre dove ogni sera fa lezioni morali ammorbando i telespettatori che aspettano "Un Posto al sole", finora non ha detto una parola sul suo eroe di carta. Né sulla copertina dell’Espresso più male invecchiata della storia. Farà ancora lo gnorri o chiederà venia?

Da liberoquotidiano.it il 26 novembre 2022.

Anche Propaganda Live scarica Aboubakar Soumahoro. Il salottino radical chic di La7, che ha contribuito a lanciare politicamente la figura del sindacalista dei braccianti immigrati nel 2018, regala uno spazio inevitabile al commento del caso della settimana, con l'inchiesta sulle coop gestite da moglie  e suocera del neo-deputato di Sinistra-verdi costretto, proprio per questo, ad auto-sospendersi. E Diego Bianchi in arte Zoro non nasconde l'amarezza per il comportamento dello stesso Soumahoro, ormai ex idolo della sinistra. 

Il leader dei verdi Bonelli aveva tirato in ballo proprio Propaganda e L'Espresso, che aveva dedicato al sindacalista una celebre copertina per contrapporlo a Matteo Salvini, Uomini e no, per motivare la scelta di candidare Soumahoro alla Camera. Come dire: con un pedigree mediatico cosi, che bisogno c'è di indagare sulle sue attività?

Bianchi, in qualche modo, mette le mani avanti e si scagiona: "Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…". Ricordando, per altro, che il Soumahoro che loro hanno conosciuto e "lanciato" era quello che parlava con eloquio forbito ma passionale ai migranti e dei migranti, in piazza, citando diritti e denunciando angherie e soprusi.

Poi cos'è cambiato? "Non lo stiamo scaricando - precisa Bianchi -. Ieri mi continuavano ad arrivare messaggi... Lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incaz***ti più di tutti su questa storia! Siamo inca***ti, delusi, amareggiati, non imbarazzati!". Quindi la strigliata finale: "E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong. 

Ma siamo inca***ti con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate".

"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro. Il conduttore di Propaganda Live mette le mani avanti: "Non siamo imbarazzati, stiamo parlando di una persona che ha incontrato il Papa". Luca Sablone il 26 novembre 2022 su Il Giornale.

Il caso Aboubakar Soumahoro continua a mandare in tilt la sinistra. A confermare la soggezione è l'atteggiamento del fronte rosso, che nel giro di poche settimane è passato dal considerare il deputato eletto con i Verdi e Sinistra italiana il potenziale leader progressista al silenzio assordante sugli ultimi sviluppi. La vicenda è stata affrontata anche nell'ultima puntata di Propaganda Live, programma in onda su La7. Il conduttore Diego Bianchi ha usato delle attenuanti per non affossare del tutto l'amico Soumahoro.

L'imbarazzo sul caso Soumahoro

Nel corso della trasmissione Zoro ha voluto trattare il caso dell'italo-ivoriano riconoscendo che nel primo mese di attività parlamentare ha portato a casa un risultato: "È stato uno dei pochissimi che, formalmente e nei contenuti, l'opposizione l'ha fatta con la Meloni ma soprattutto sulle Ong". E ha ricordato che l'attivista era presente al porto di Catania per protestare contro la decisione del governo italiano di consentire lo sbarco solo ai migranti che si trovavano in condizioni di salute precaria.

"Deve chiarire. Noi siamo incazzati più di tutti su questa cosa. Non siamo imbarazzati, l'imbarazzo è l'ultimo dei sentimenti. Siamo incazzati, delusi, amareggiati", ha ammesso Bianchi. Che però, arrampicandosi sugli specchi, ha indicato una sorta di attenuante per non scaraventarsi completamente contro il deputato che porta il timbro di Verdi e Sinistra italiana: "Ha incontrato tutti i leader di sinistra. Vi faccio vedere quello con il leader più di sinistra di tutti". E, mostrando una foto con Papa Francesco, ha aggiunto: "Stiamo parlando di questo fenomeno, stiamo parlando di questo calibro qua".

Il "ruolo" di Propaganda Live

In molti ritengono che la bufera mediatica per certi versi abbia toccato anche Propaganda Live, visto che spesso ha raccontato le azioni del sindacalista e si è rivelata essere una vetrina da cui Soumahoro ha ottenuto visibilità politica. Zoro ha voluto chiarire che l'intento non è quello di lasciare solo l'italo-ivoriano e ha respinto al mittente le accuse di aver creato il personaggio: "Noi non lo stiamo scaricando. Non vorrei sbagliarmi: lui su questo palco è salito due o tre volte: due sicuro, sulla terza ho già qualche dubbio. Da quello che leggo sembra che tutte le settimane stesse qua".

In sostanza il conduttore del programma ritiene che non abbia nulla di cui scusarsi e che non sia la causa per cui Verdi e Sinistra italiana hanno deciso di candidare Soumahoro. Tuttavia, come ha fatto notare Maurizio Gasparri di Forza Italia, la cassa di risonanza è stata evidente: "E ora chiederai scusa per aver creato il personaggio Soumahoro a Propaganda Live? Racconterai il lusso della moglie e le mille opacità che anche la Cgil rileva? O farai finta di nulla? Un po' di vergogna no?".

Estratto dell’articolo di Giorgia Iovane per tvblog.it il 26 novembre 2022.

Propaganda Live ha ‘affrontato’ il caso Aboubakar Soumahoro nella settimana che ha visto il neo-deputato di Sinistra Italiana al centro di una bufera mediatica e politica legata ad indagini sulla condotta di una cooperativa della suocera, accusata – tra l’altro – di non pagare i propri dipendenti. 

Un caso che non vede il sindacalista indagato, ma che è stato condito da foto social della moglie con beni di lusso che hanno alimentato sospetti e accuse. Una settimana di minacciate denunce e di lacrime su Instagram da parte del deputato di SI, che sono sfociate nell’intervista live a PiazzaPulita, che non ha convinto nessuno.

Neanche Diego Bianchi e la squadra di Propaganda Live che ha raccontato le azioni del sindacalista Soumahoro, che gli ha dato certo visibilità, che per qualcuno ha creato il personaggio. Ed è proprio partendo da un tweet di Gasparri in cui chiama in ‘correità’ lui e il programma che Diego Bianchi apre la pagina a lui dedicata.

Una pagina tesa, un fiume in piena. Si avverte tutto il nervosismo di Bianchi contro tutti, in fondo: contro la Destra – di cui sottolinea però la capacità di stare compatti anche di fronte a Ruby nipote di Mubarak – che però si è lasciata scappare l’occasione di scoprire gli scheletri del neodeputato; contro la Sinistra, che lo ha scaricato in un nanosecondo; in fondo sembra ce l’abbia anche un po’ con se stesso per aver sottovalutato alcuni rumors che arrivavano dalla Puglia, da Latina, dai report che sono arrivati da membri del PD, oggi impegnati a specificare che certe decisioni sono state prese da altri, all’insaputa di tutti.

Al di là della vicenda politica, si sente tutta l’amarezza e la delusione, anche il nervosismo di Bianchi nel rispondere, di fatto, al ‘convitato di pietra cui il tweet di Gasparri dà voce. La sintesi del blocco è che non ha nulla di cui scusarsi: il succo è che in tanti hanno sottovalutato le voci che arrivavano, che Soumahoro ha fatto il proprio percorso a prescindere dal programma, che lo ha ospitato in studio 2 o al massimo 3 volte e che non è colpa sua se un partito decide di candidare qualcuno perché andato a Propaganda, perché arrivata in copertina sull’Espresso di Damilano, perché ospite a Che Tempo Che Fa. Come se questi fossero i principi di garanzia sufficienti per una candidatura, come bollino di garanzia che però non è bastato. 

“Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco… stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…” dice Bianchi, sottolineando che Propaganda ha una prevalente funzione di racconto, più che di investigazione. E proprio per questo ci tiene a riproporre il filmato della prima volta in cui incrociò Aboubakar, nella Piana di Gioia Tauro, all’inizio del giugno 2018, quando il Governo Conte 1 aveva appena giurato, quando il neoministro dell’Interno Salvini aveva detto che per i migranti era “finita la pacchia”, quando i braccianti protestavano per la morte di Soumayla Sacko, “ucciso da un italiano” – ricorda Zoro – perché sorpreso a rubare delle lamiere con cui costruire una capanna che non rischiasse di andare a fuoco come successo non molto tempo prima ad altri braccianti. Quel primo intervento pubblico, immortalato da Zoro sul posto, svelò un uomo dalla proprietà di linguaggio impressionante per la media nazionale -intesa come autoctona – e una presenza politica notevole. Da lì l’ospitata a Propaganda e l’attenzione dei media.

“Non lo stiamo scaricando” dice Diego Bianchi, ma quantomeno per adesso se ne prende le distanze in attesa di capire, in attesa che Abou chiarisca la propria posizione. 

“Sì, ieri mi continuavano ad arrivare messaggi… lo abbiamo visto a PiazzaPulita. Ci ha convinto? No! Lui, le borse, i libri… non ci ha convinto. Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incazzati più di tutti su questa storia! Siamo incazzati, delusi, amareggiati, non imbarazzati!” dice tutto di un fiato Bianchi in questo lungo segmento che sembra fatto con un’unica presa di fiato tante sono le cose da dire, tanto è difficile la posizione di dover dividere tra ‘personaggio’ e ‘battaglia’. 

Perché se c’è un motivo per cui Bianchi è incazz@to è che questa storia, come spiega, ha offerto il fianco per colpire il vero bersaglio, ovvero quel che Soumahoro ha rappresentato e rappresenta. Perché, ricorda il conduttore, il sindacalista ha condotto battaglie sul campo, era stato proprio due settimane fa a Catania per seguire la vicenda del blocco della Geo Barents e dello sbarco selettivo che ne è seguito – al centro degli ultimi due reportage di Zoro.

“E’ stato uno dei pochi che in questo mese l’opposizione nelle parole e nei fatti l’ha fatta, sia contro la Meloni sia sulla questione delle Ong […] ma siamo incazzati con lui per le tante cose che deve chiarire a lui e a tutti quelli che portano avanti le lotte che lui ha rappresentato e che sono quelli che da questa storia ci stanno rimettendo e ci rimetteranno più di tutti e che sono, secondo me, il vero bersaglio dell’accanimento che c’è su quello che Aboubakar rappresenta, al di là delle responsabilità che speriamo vengano chiarite ed accertate”.

Questa storia, insomma, rischia di minare anche la credibilità del programma e immaginiamo che questa sia un’altra delle ragioni della rabbia di Bianchi e dell’intera squadra. Ecco perché si è tornati all’origine, a come tutto era iniziato, a Soumayla Sacko, il cui volto campeggia sulla maglia di Zoro. Si è partiti da quello, si è partiti dal racconto di condizioni disumane. E il racconto di Propaganda Live vuole ripartire da lì.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 26 novembre 2022.

Nel giugno 2018 L’Espresso, organo ufficiale dei picchiatori mediatici, fece una copertina - che riproduciamo su questa prima pagina affiancando la foto di Soumahoro, allora astro nascente della sinistra, a quella di Salvini, allora ministro degli Interni. Il titolo era: "Uomini e no", ovviamente con la parola "uomini" sotto l'immigrato vip e il "no" appiccicato al leader della Lega.

Sono passati quattro anni e siccome il tempo è galantuomo oggi possiamo sostenere con ragionevole certezza che quella copertina aveva sì un senso ma a parti inverse: a sfruttare e umiliare gli immigrati, cioè nei codici dell'Espresso il "non uomo", era Soumahoro, la sua famiglia e il suo mondo mentre "l'uomo" era Salvini che con la sua politica di controllo dei flussi ha salvato - lo dicono i numeri - centinaia di immigrati da morte certa scoraggiandone la partenza verso l'Italia e altrettanti ancora oggi ne soccorre e salva in mare.

Sapendo che L'Espresso non lo farà mai pubblichiamo noi oggi la copertina riparatrice, ma non per gioco. La questione infatti è molto seria e riguarda l'ostinazione della sinistra e dei suoi cantori a non voler riscrivere la storia, e neanche la cronaca, neppure di fronte all'evidenza dei fatti. 

Per certi versi li capisco: farlo significherebbe ammettere che il comunismo è stato ed è una tragedia da qualsiasi parte uno giri la questione e che ancora oggi le sue ricette politiche e sociali - vedi quella sull'immigrazione - sono totalmente fallimentari. Soumahoro non è un corpo estraneo alla sinistra, un incidente di percorso come si dice in gergo.

No, Soumahoro con le sue ambiguità, furbizie e con la sua ipocrisia è la sinistra, magari un utile idiota della sinistra salottiera alla quale, diciamocelo con franchezza, gli immigrati fanno schifo, ma pur sempre pedina di quella scacchiera su cui poi i Saviano fanno milioni e di decine di giornalisti - tra i quali l'allora direttore de L'Espresso Marco Damilano, oggi star di Rai3 - campano alla grande. Fate pure, noi ci teniamo stretto con orgoglio "l'uomo" Matteo Salvini, che lui, a differenza di chi lo odia e prova a farlo passare per razzista, agli immigrati non ha mai torto un capello

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.

Elena Fattori, a cosa mirate con quel documento che lei ha firmato con una decina di dirigenti di Sinistra italiana?

«Chiediamo che ci si interroghi sul futuro. Di come vengono scelte le candidature dopo il caso di Aboubakar Soumahoro». 

Cosa si è sbagliato secondo lei con l'ex sindacalista ivoriano?

«Si è scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche».

Si riferisce al caso che ne è venuto fuori? Le inchieste sulle cooperative della sua famiglia?

«Appunto, bisogna riflettere su come vengono scelte le candidature: di quelle storie si sapeva tutto». 

Si sapeva tutto? Che cosa? Chi sapeva?

«La dirigenza di Sinistra italiana sapeva, li avevo avvisati io».

 Come faceva lei a sapere?

«Ho visitato la cooperativa Karibu durante un giro di centri per richiedenti asilo che ho fatto quando ero con i Cinque Stelle. Non sapevo nemmeno che fosse gestita dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita». 

In che stato ha trovato la cooperativa?

«Era sporca, fatiscente, c'era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male. Ne ho viste tante di strutture ma quella è stata la peggiore, in mezzo al nulla com' era. Per questo segnalai la struttura anche all'allora sottosegretario all'Interno Gaetti».

Ne parlò anche con Nicola Fratoianni?

«Sì certo».

 E lui?

«Non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D'altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico. Era appena comparso su una copertina di un settimanale come futuro leader della sinistra. Purtroppo nessuno è voluto entrare nel merito delle sue proposte». 

Cosa intende?

«Nessuno è andato a vedere quali sono le sue proposte sul caporalato, sull'accoglienza pubblica, sulle cooperative. Lui per esempio è contrario alla legge 199 sul caporalato, io personalmente sono invece a favore. Non è un dettaglio per chi della lotta al caporalato ha fondato le sue battaglie». 

Aboubakar Soumahoro si è autosospeso, voi che avete firmato il documento vorreste anche che fosse espulso?

«E a cosa serve ora? È già in Parlamento. E poi sarebbe ipocrita: lo hanno cercato per la candidatura sapendo chi era».

Pensa che si dovrebbe dimettere da deputato?

«Lui non è indagato. Sono storie che riguardano la sua famiglia. Se andassimo a vedere tutti gli scheletri nell'armadio dei parlamentari si dovrebbe dimettere mezzo Parlamento». 

Lei conosce Soumahoro?

«L'ho conosciuto durante alcune battaglie che abbiamo fatto insieme contro i decreti sicurezza». 

In questi giorni lo ha sentito?

«No. È da quando ho fatto la visita alla cooperativa di sua suocera che non l'ho più visto. Mi sembrava imbarazzante la situazione che si era creata. Non ho più voluto fare battaglie insieme a lui». 

E con Fratoianni in questi giorni ha parlato?

 «No».

Grazia Longo per “La Stampa” il 27 novembre 2022.

Un'altra tegola si abbatte sulle cooperative dell'agro pontino gestite dai familiari del deputato Aboubakar Soumahoro. Non solo non retribuivano i lavoratori né versavano i loro contributi, non solo non pagavano le tasse, ma addirittura non saldavano l'affitto delle varie case dove ospitavano i migranti adulti e quelli minorenni. 

Sono decine gli appartamenti utilizzati dalle due coop Karibu e Consorzio Aid, gestiti da Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete e Michel Rukundo, rispettivamente suocera, moglie e cognato di Soumahoro. E adesso emerge che molti titolari degli immobili non ricevevano il regolare pagamento dell'affitto.

Sia nel Comune di Sezze sia in quello di Latina. Proprio in quest' ultimo c'è il proprietario di una casa che aspetta ancora di ricevere 30 mila euro. Anche in questo caso, come per i 26 dipendenti in attesa dello stipendio per un totale di 400 mila euro, le persone in credito con le due coop per gli affitti si sono rivolte al sindacato Uiltucs che per primo ha denunciato le anomalie di Karibu e Aid. Le due coop hanno ricevuto in 20 anni 65 milioni di euro per il business dell'assistenza a profughi e richiedenti asilo. 

Ma negli ultimi due anni hanno smesso di pagare dipendenti e fornitori. Il fenomeno si estende a macchia d'olio e ogni giorno che passa s' impone un problema nuovo.

«Alcune persone si sono già rivolte a noi per chiedere aiuto sul fronte affitti - conferma il segretario Uiltucs di Latina Gianfranco Cartisano -. Più passano le settimane e più ci rendiamo conto che oltre ai lavoratori defraudati c'è tutto un mondo del tessuto locale con problemi nei confronti delle due cooperative. Ultima, in ordine di tempo, è proprio la questione degli affitti non pagati».

Oltre ai dipendenti che reclamano fino a 22 mensilità, hanno sollecitato l'intervento della Uiltucs anche diversi minori extracomunitari che hanno segnalato difficili condizioni di vita nelle case: sono stati costretti a vivere senza acqua e senza luce e spesso non ricevevano neppure pasti regolari e vestiti. Al momento questo aspetto del maltrattamento dei minori non è oggetto di indagine della Procura di Latina che non ha ricevuto denunce in merito, ma non è escluso che gli inquirenti vogliano monitorare questo filone. Vanno invece avanti le due tranche di inchiesta in collaborazione con la guardia di finanza (la suocera del deputato eletto nelle fila di Alleanza Verdi-Sinistra è indagata per malversazione) e con i carabinieri che procedono per distruzione e occultamento di documenti contabili (al momento non ci sono indagati).

Parallelamente alla vicenda giudiziaria c'è poi la bufera politica che ha già indotto Aboubakar Soumahoro, ex sindacalista fondatore della Lega dei braccianti, ad autosospendersi dal gruppo di Alleanza Verdi-Sinistra. Ma c'è chi ne chiede le dimissioni dal Parlamento. 

Come il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli di Fratelli d'Italia che incalza: «Se il sindacalista è diventato deputato in virtù delle battaglie a difesa dei braccianti neri, le dimissioni da parlamentare sarebbero il minimo. La sua autosospensione dal partito è ben poca cosa». E il ministro della Difesa Guido Crosetto su Twitter chiosa: «Il tema non è Soumahoro. Il tema sono le migliaia di persone che ogni giorno vengono sfruttate nell'assoluta indifferenza, spesso utilizzando sistemi formalmente "legali", come alcune cooperative. Una concorrenza tra poveri e derelitti, per comprimere i salari verso il basso».-

Michele Marangon per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.

Si chiamava PerLa . Era un progetto contro il caporalato. La Karibu, gestita da lady Soumahoro e sua madre Maria Therese Mukamitsindo, era fra le cooperative che dovevano, con fondi regionali, sottrarre i migranti agli sfruttatori. 

Ma alla fine la suocera del deputato di Verdi e Sinistra italiana, ora autosospeso, non pagò chi aveva lavorato a quel progetto. Dovette intervenire il sindacato per un accordo. 

È la più paradossale delle storie che emergono dalle carte dall'inchiesta di Latina sulle presunte malversazioni della presidente delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. Una vicenda in cui benefattori e caporali si scambiano di ruolo. È scritta in un verbale di accordo firmato da Maria Therese che attesta come l'imprenditrice abbia ammesso di non aver pagato a un lavoratore le mensilità dovute per il progetto PerLa , né quelle per lavori precedenti, né il Tfr.

La vittima di quella mancata retribuzione la racconta al Corriere chiedendo l'anonimato per paura di ritorsioni. «Ho lavorato al progetto PerLa come mediatore linguistico. Era bello. Aiutava chi, come me, era arrivato in Italia cercando lavoro e trovando gente che si approfittava. Io ero già alla Karibu dal 2017. Il progetto è durato altri 4 mesi. 

Poi è finito. Ma i soldi non me li davano. Mi dicevano che c'erano ritardi. Che mi avrebbero pagato al più presto. Ma non è mai avvenuto: mi sono rivolto al sindacato Uiltucs e dopo mesi, nel luglio scorso, siamo arrivati a un accordo.

Spero sia rispettato». 

Tra le vittime di mancate retribuzioni anche Aline. Che ricorda con rabbia: «Del resort in Ruanda venimmo a sapere nel 2018, quando si registrò un grave ritardo nei pagamenti. Avevo lavorato in varie strutture tra il 2015 e il 2021. 

Ma dall'inizio gli stipendi sono stati erogati irregolarmente. E quando saltavano non veniva dato neanche il pocket money ai migranti, creando spesso momenti di tensione». 

Lei ricorda il ruolo attivo, anche in questo, della moglie di Soumahoro, Liliane. «Alla fine noi dipendenti ci rivolgemmo ai sindacati, Anche la Karibu contattò l'Usb per tentare una mediazione. La nostra protesta venne messa subito a tacere. Ma il fatto che non pagassero i lavoratori era noto a tutti. Anche all'Usb». Sindacato del quale faceva parte Soumahoro, prima di passare alla Lega Braccianti e inaugurare una sede a Latina. Dove? Presso il Consorzio Aid.

Sarà la Procura di Latina a chiarire responsabilità penali dietro quel giro vorticoso di bandi, progetti, Cas, affitti, da oltre 60 milioni di euro. Sulle responsabilità politiche invece è bufera. Nicola Fratoianni, che mise in lista Soumahoro, respinge la richiesta dei dirigenti pugliesi del suo partito di «assumersi per intero la responsabilità politica» di quella candidatura da loro contestata. E dice: «Ci sono ancora zone d'ombra da chiarire, ma non mi pento». E la segreteria di Si aggiunge: «Chi sapeva perché non ha informato i pm?». FdI, con il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, attacca: «Desta sconcerto e ripugnanza ciò che emerge dalle indagini sul clan Soumahoro. Un sistema di gestione dell'accoglienza che si configura, a volte, con scenari da associazione a delinquere». E per il ministro della Difesa Guido Crosetto «il tema non è Soumahoro ma le migliaia di persone sfruttate nell'indifferenza, utilizzando sistemi "legali", come alcune cooperative».

Da open.online il 27 novembre 2022.

«Un cortocircuito problematico». Così il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, definisce il caso Soumahoro che vede il deputato Aboubakar al centro del dibattito pubblico a seguito dell’apertura dell’inchiesta di Latina su presunte violazioni dei diritti dei lavoratori da parte di Marie Thérèse Mukamitsindo e Liliana Murekatete, rispettivamente sua suocera e sua moglie. 

Così come l’esponente dei Verdi Angelo Bonelli, anche Fratoianni torna a ribadire di non pentirsi della candidatura di Soumahoro. A Mezz’ora In Più conferma che all’epoca venne avvisato, ma che di fronte alla richiesta di ulteriori spiegazioni non era stato tratteggiato alcun profilo illecito.

«Se qualcuno trova profili illeciti ha il dovere di dirlo alla procura, non c’è stato seguito e siamo andati avanti sulla candidatura», dice il segretario di SI, secondo il quale il tutto avrebbe avuto origine in questioni più politiche che giudiziarie. «C’è uno scontro politico che da anni si sviluppa in particolare nel foggiano su quel fronte ma non mi furono segnalati elementi di un profilo problematico. Quelle questioni riguardano le dinamiche politiche e non erano sufficienti per decidere di non mettere in campo una candidatura». 

Bonelli: «C’è una destra che specula»

Anche Bonelli ritiene che, al momento, il caso Soumahoro sia prettamente politico. «Il 10 agosto 2022 abbiamo presentato la candidatura di Aboubakar e le liste sono state presentate il 21 agosto successivo. Se qualcuno doveva segnalare un profilo illecito poteva farlo», premette per poi specificare che nessuno aveva posto il problema.

 «Era una personalità molto sostenuta dal mondo della cultura che ha fatto delle battaglie anche molto importanti, ora fare un processo ex post non è corretto: dire “potevate sapere” non è corretto perché chi sapeva doveva dirlo e non intervenire successivamente per dire “ah ma è un personaggio particolare”», spiega Bonelli. A suo dire, è fondamentale sottolineare che in tutto questo «c’è una destra che specula». E conclude dicendo: «Vivo con grande turbamento questa fase in cui c’è una questione di opportunità politica e siamo chiamati a essere estremamente rigorosi».

Da liberoquotidiano.it il 27 novembre 2022.

Don Andrea Pupilla aveva scritto a Nicola Fratoianni per sconsigliare la candidatura di Aboubakar Soumahoro. Il prete ci aveva visto lungo, dato il caso che è poi scoppiato sulla cooperativa gestita dalla moglie e dalla suocera che è finita sotto inchiesta. Il deputato non è direttamente coinvolto, ma in ogni caso la sua immagine è ormai rovinata. “È un personaggio mediatico - ha dichiarato don Andrea a Il Giorno - un grande comunicatore”.

“Però vista da qui, da San Severo - ha aggiunto - la situazione è diversa da come la descrive lui. Soumahoro non è mai andato con gli stivali nel fango, se non per farci dei video da postare sul web”. Dalla provincia di Foggia, il responsabile della Caritas locale ha svelato di aver scritto in privato a Fratoianni di stare attento: “Quando è stato candidato, ho inviato una mail all’onorevole, dicendogli che stava facendo un autogol. Ma naturalmente non mi ha risposto: evidentemente ha prevalso il racconto virtuale del leader di una nuova sinistra”.

Fratoianni ha comune difeso la sua scelta: “Non mi rimprovero di averlo candidato, non è stato un esercizio da talent show per coprire un buco su un tema di cui non ci siamo mai occupati, quello della difesa degli sfruttati. Di questi temi ci siamo occupati sempre”. Don Andrea ha però rincarato la dose: “L'attività di Soumahoro nei campi del foggiano è stata solo virtuale e tesa unicamente ad accendere fuochi polemici. La Caritas è stata attaccata, ma venire a sapere dell'inchiesta sulle cooperative gestite dalla moglie e dalla suocera mi ha amareggiato”.

Daniele Dell'orco per “Libero quotidiano” il 27 novembre 2022.

Nella psicoanalisi, quello della rimozione è il più noto e immediato meccanismo di difesa dagli effetti di un trauma. Come quello che per la sinistra da qualche giorno di nome fa Aboubakar e di cognome Soumahoro. L'onorevole Soumahoro. Dopo essere stato idolatrato per anni da un fronte compatto e straordinariamente influente fatto di autori tv, direttori di testate e segretari di partito, con l'esplosione del caso-coop gestite dalla famiglia dell'ex sindacalista dei braccianti su cui indaga la procura di Latina i suoi sponsor sono spariti più o meno tutti. Hanno rimosso. 

Fratoianni e Bonelli, che gli hanno permesso di approdare in Parlamento con gli stivali di gomma, hanno accettato la sua autosospensione dal gruppo Verdi-Si (e secondo alcuni membri del partito avrebbero ignorato le varie segnalazioni arrivate negli ultimi 3 anni). Altri, come Diego Bianchi, in arte Zoro, si sono in qualche modo autoassolti.

A Propaganda Live, il programma di La7 che ha sancito l'ascesa pubblica di Soumahoro grazie al duo Bianchi-Makkox, per scagionarsi hanno chiamato in causa persino il Papa: «Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco... Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata...».

Poi, ribaltando la situazione, hanno sostenuto di essere loro le vittime, i primi traditi, quelli a cui Soumahoro deve delle spiegazioni: «Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incazzati più di tutti su questa storia! Siamo incazzati, delusi, amareggiati, non imbarazzati!». 

Magari le spiegazioni bastava chiedergliele prima di eleggerlo a Papa Nero. Ma del resto, come si fa a provare imbarazzo con quella faccia tosta? Ancora più barbina la figura di Marco Damilano, il mentore di Soumahoro. Il suo silenzio è, sì, allo stesso tempo imbarazzante e imbarazzato. 

A Soumahoro riservò una rubrica fissa sull'Espresso e gli dedicò la celebre prima pagina del settimanale ai tempi in cui Matteo Salvini era Ministro dell'Interno. Quell'Uomini e no che a distanza di tre anni andrebbe rovesciato di netto. Su Raitre, dove ogni sera pontifica nel suo programma Il cavallo e la torre, Damilano non ha ancora detto una parola sul caso Soumahoro, che aveva ospitato-intervistato l'ultima volta il 12 ottobre (quando disse ai giovani di «non smettere mai di sognare nonostante le cadute») e che aveva moderato il 4 novembre in un incontro all'Università La Sapienza, grazie all'invito del Collettivo Sinistra Universitaria. Per inciso, quell'incontro si tenne a pochi giorni dal sabotaggio del convegno organizzato da Azione Universitaria con ospiti Daniele Capezzone e Fabio Roscani, deputato di Fratelli d'Italia.

Perché il concetto di democrazia secondo la sinistra è sempre stato questo: può parlare solo chi dice cose che piacciono alla sinistra. Finché le dice. Poi, quando diventa imbarazzante, si rimuove e si passa alla costruzione dell'eroe successivo. 

Damilano negli ultimi giorni si è dedicato alle proteste in corso in Iran, alla prima manovra finanziaria realizzata dal governo Meloni, alla guerra in Ucraina e ad interviste al governatore del Veneto Luca Zaia e alla scrittrice anch' essa frotwoman del mondo progressista Michela Murgia. Tutti temi di indiscusso valore, per quanto magari un minutino qua e là l'avrebbe potuto meritare anche la caduta del figlioccio Soumahoro. 

Ma comunque, Damilano è in buona compagnia. Silenzio di tomba anche da parte di altri sponsor, da Fabio Fazio che gli spalancò le porte della prima serata a poche ore dalla gaffe in Parlamento di Giorgia Meloni che nel discorso di insediamento gli diede del "tu" a Giobbe Covatta, che con Soumahoro ha condiviso le liste elettorali. Fino all'altro immancabile, maestro di rimozione, Roberto Saviano. Troppo indaffarato a gestire il processo per diffamazione intentato dalla Meloni, ha tenuto ben nascosto qualsiasi commento sull'ex amico Soumahoro. Se non ne parli non è mai accaduto.

"Sapeva tutto", i compagni scaricano Fratoianni. E la Rai manda subito in onda la sua autodifesa. Il leader SI "indifferente alle segnalazioni". Lui e Bonelli ospiti dall'Annunziata. Massimo Malpica il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

Delle ipotesi di reato si occupa la procura di Latina, che indagherebbe anche sui politici locali messi a busta paga dalla coop Karibu. Delle brutte figure, invece, si preoccupano un po' tutti. Il primo è stato lui, Aboubakar Soumahoro, tra videomessaggi, scuse, contrattacchi e autosospensione da Si come risultato dell'indagine alla quale lui è estraneo, ma che vede indagata sua suocera e coinvolta la coop di cui sua moglie è socia. Poi l'attenzione si è spostata sul leader di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, accusato dal suo stesso partito di essere stato «perfettamente a conoscenza, da molto tempo prima della candidatura» dei dubbi su Soumahoro, ma di aver mostrato «completa indifferenza alle notizie riferitegli». Ieri, l'ex pentastellata Elena Fattori, da febbraio 2021 in Si, torna all'attacco in un'intervista al Corriere. Accusando la leadership del suo partito per aver «scelto un personaggio senza andare a vedere cosa realmente proponesse al di là di tutte le sue comparsate mediatiche». E chiarendo: «Di quelle storie si sapeva tutto. La dirigenza di Si sapeva, li avevo avvisati io». Fattori aveva visitato la Karibu anni fa: «Non sapevo nemmeno che fosse gestita dalla suocera di Soumahoro, me lo ha detto lei quando mi ha accompagnato nella visita». La struttura era «sporca, fatiscente, c'era la muffa, mi dissero che la caldaia funzionava male», aggiunge Fattori, che per questo la segnalò all'ex sottosegretario all'Interno, Gaetti. Quest'estate, Fattori si ricordò di quella visita mentre si lavorava alle candidature. Disse tutto a Fratoianni, ma il segretario, spiega l'ex deputata, «non ha pensato che fosse un fatto rilevante. D'altronde Soumahoro aveva un grande peso mediatico».

Fratoianni, però, nega. Proprio ieri, ospite insieme ad Angelo Bonelli di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più, ha dribblato la questione. Per Bonelli, «se qualcuno sapeva che c'erano circostanze che sconsigliavano quella candidatura avrebbe potuto dirlo», ma il suo alleato, tirato direttamente in ballo, derubrica quelle voci su Soumahoro a questione politica, non giudiziaria. «Se qualcuno trova profili illeciti ha il dovere di dirlo alla procura, non c'è stato seguito e siamo andati avanti sulla candidatura», taglia corto. Quei rumors, aggiunge, per lui erano frutto più che altro, di «uno scontro politico che da anni si sviluppa in particolare nel foggiano su quel fronte», mentre «non mi furono segnalati elementi di un profilo problematico o illecito». Insomma, nessun pentimento o mea culpa di sorta. Quanto basta a far indignare Maurizio Gasparri, che giudica «imbarazzante» che la Rai si metta a disposizione di Fratoianni e Bonelli, definiti «il gatto e la volpe» dal senatore azzurro che rimarca come nell'ospitata a Mezz'ora in più abbiano «eluso le questioni fondamentali» rispetto alla vicenda. E mentre l'Europarlamentare Massimiliano Smeriglio suggerisce creativamente di «respingere la torsione giustizialista che stritola l'anima della sinistra» come exit strategy dal pasticcio, nel mirino delle polemiche finisce anche il Pd, con un manipolo di deputati pentastellati guidati da Stefania Ascari che si domandano «come sia possibile che tutto il Pd emiliano abbia sostenuto e voluto la candidatura di Aboubakar Soumahoro quando già trapelavano eccome dubbi su tutto ciò che ruotava attorno al candidato». «C'erano già una lunga serie di accuse mosse nei suoi confronti dai braccianti», attacca Ascari, che conclude: «La responsabilità, quindi, è di chi ha proposto ai propri elettori la sua figura, senza se e senza ma».

Da Jekyll a Mr. Hyde nel ghetto dei poveri. Per uno che doveva mantenere i piedi ben saldi a terra, ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Rossella Palmieri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022

«Dal bilancio messo insieme da me e me ne venne un dubbio curioso: io ero buono o cattivo?» Nel romanzo di Svevo La coscienza di Zeno il protagonista si pone questa domanda quando assiste senza grande dolore al fallimento dell’amico-rivale Guido fino a sbagliare allegramente funerale per un eccesso di dormita proprio in quel giorno. Non sappiamo se invocare solo la letteratura, sempre in grado di dare risposte ai comportamenti umani, soprattutto a quelli più imprevedibili e assurdi, o anche la morale, la filosofia, la tragedia. Perché in tutta questa vicenda che ha ghermito Soumahoro viene da chiedersi come sia possibile credere per vero un castello di carte in cui realtà e apparenza diventano la stessa cosa come un alambicco degno del dottor Jekyll e di Mister Hyde; come sia possibile vestirsi da Babbo Natale e farsi fotografare a dare regali nel cuore di un ghetto in cui, pare, bambini non ce ne fossero affatto (almeno una buona notizia, quest’ultima). Come sia possibile sfruttare, non pagare ed essere disumani proprio con quelle persone che diceva di voler difendere dismettendo panni e stivali del buon bracciante e indulgendo a un lusso spropositato ed esibito.

Niente di male nel lusso, per carità; ognuno dei propri soldi fa ciò che vuole (se guadagnati onestamente, s’intende). Ma senza indulgere nella retorica e senza debordare in vaghe forme di classismo, sarebbe utile ricordare Chanel quando diceva che il lusso non giace nella ricchezza e nel fasto, ma nell'assenza di volgarità. Ecco, ci aspettavamo esattamente questo in una storia fatta di coop e braccianti arsi dal sole e, specularmente, di social, griffe, resort; ci aspettavamo che l’eroe in grado di non sfigurare in un romanzo post risorgimentale sapesse usare, come diceva Seneca, vasi di terracotta con la stessa dimestichezza dei vasi d’argento e facendo entrare qualcuno a casa, sono ancora le parole del filosofo latino rivolto a Lucilio, consentirgli di ammirare lui piuttosto che le suppellettili. Come in uno specchio che produce ombra e una luna oscura a metà ci appare Soumahoro nei giorni in cui l’autodifesa ha prodotto lacrime, come neanche in una tragedia di Sofocle. Ma per uno che doveva mantenere i piedi ben saldi a terra (i suoi stivali in gomma ne rappresentano una pregnante metafora) ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Del resto – è ancora il tragediografo greco a dirlo – non si può conoscere veramente la natura e il carattere di un uomo fino a che non lo si vede amministrare il potere.

Alla coop dei Soumahoro da 4 anni fondi non dovuti. Nel 2018 un decreto ingiuntivo avrebbe dovuto bloccare tutto. Ma i finanziamenti continuarono. Bianca Leonardi il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

Oggi è nel vortice dell'inchiesta sul presunto sfruttamento di migranti. Ma la coop Karibu è stata per anni la regina del progetto Sprar. Un'iniziativa gestita dal Ministero dell'Interno che prevedeva anche l'emissione di fondi da parte degli enti locali per la lotta al caporalato. L'associazione presieduta da Marie Thérèse Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, vinse il bando nel lontano 2011 con un incarico valido fino al 2013. Subito dopo venne rinnovato per un ulteriore triennio, con la determina 22 del 27 febbraio 2014. Da quel momento la Karibu ha proseguito nell'impegno senza più presentare documentazione né partecipare a ulteriori bandi, ma solo grazie al rinnovo delle proroghe di volta in volta. Nel 2018 la protagonista, Mukamitsindo, viene addirittura premiata come «Imprenditrice immigrata dell'anno», con tanto di consegna solenne da parte dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Una nomina importante che permise alla Karibu di assumere un certo prestigio.

In realtà, però, dietro a tutto ciò si nascondevano problemi economici che andavano avanti da anni, nel totale silenzio. Proprio il 27 novembre del 2018, con il decreto ingiuntivo n.2308/18, emesso dal Tribunale di Latina, si chiedeva il pagamento di 139mila euro entro 10 giorni. Un pagamento mai avvenuto e che ha portato al pignoramento, da parte dell'ufficiale giudiziario, di tutti i crediti che l'associazione vantava con Ministero dell'Interno, Regione Lazio, Comune di Latina, Comune di Sezze e tre banche italiane. In pratica, da quel momento la Karibu non avrebbe più potuto ricevere fondi pubblici. Proprio per questo, dopo 10 anni di finanziamenti ministeriali ottenuti senza bando, nel 2019 viene scelta per i fondi anti-caporalato un'altra associazione, nonostante la Karibu, non si sa come, all'apertura delle buste avesse presentato l'offerta economica più vantaggiosa. A nulla è servito il ricorso al Tar, bocciato a causa di incongruenze.

Nonostante ciò però, si scopre dai bilanci che dal 2020 l'associazione riesce ad andare avanti grazie alla vincita di bandi comunali e ministeriali. L'ultimo, proprio lo scorso aprile ha visto entrare nelle tasche della famiglia Soumahoro - con Karibu ed Aid entrambe vincitrici - la somma di circa un milione di euro per l'assistenza ai rifugiati ucraini.

Non solo. Nonostante questo curriculum non troppo limpido, le indagini della procura di Latina iniziate nel 2019 e l'inchiesta aperta qualche settimana fa, scopriamo che ancora oggi Roccagorga, piccolo paese in provincia di Latina, continua ad ospitare centri d'accoglienza - tra cui uno dedicato ai minori - gestiti da Karibu. Il Comune è commissariato e l'amministrazione prefettizia sta controllando i conti prima di erogare i finanziamenti gestiti dal ministero. Finanziamenti che, a quanto pare, non sembrerebbero essersi mai fermati nel silenzio della sinistra e delle istituzioni. Si scopre infatti che molti esponenti del Pd hanno ricoperto cariche all'interno delle coop, come l'assessore ai servizi sociali per il Comune di Roccagorga Tommaso Ciarmatore, appunto, che dal 2009 risultava anche dipendente della Mukamitsindo. L'assessore ha poi dato l'addio proprio nel 2019. E con lui decine di operatori con contratto a tempo determinato e indeterminato già ai tempi non pagati.

Così Soumahoro voleva indagare sugli sfruttamenti.  Paolo Bracalini il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.

Come primo atto da parlamentare Aboubakar Soumahoro si è subito preoccupato dei lavoratori, suo core business da sindacalista specializzato in mano d'opera immigrata, il profilo che è così piaciuto ai salotti radical televisivi (i suoi mentori Zoro, Saviano e Damilano) e alla coppia Bonelli-Fratoianni tanto da candidarlo in posizione blindata alla Camera come uomo immagine della sinistra anti-Salvini. Appena arrivato a Montecitorio il deputato con gli stivali (ma meno furbo del gatto) ha messo in opera il copione per cui era stato scritturato. E come co-firmatario (insieme a Chiara Gribaudo, deputata e membro della segreteria nazionale del Pd) ha depositato una proposta di «Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati». Un tema che Soumahoro conosce molto bene viste le condizioni di lavoro dei dipendenti delle due cooperative di famiglia, la «Karibu» e la «Consorzio Aid», gestite dalla moglie e dalla suocera del deputato, sotto indagine dalla Procura di Latina e dalla guardia di Finanza per la gestione dei fondi pubblici e per verificare il reato di truffa per il mancato pagamento dei salari, così come denunciato da una trentina di lavoratori. Da tempo l'ispettorato del lavoro indagava, ma il sindacalista era distratto, convinto che la coop di famiglia fosse «virtuosa». Gli era bastato vedere un giorno sui giornali «una pagina con 70 personalità espressione della buona impresa, tra cui la Merkel, e tra quelle persone anche «la foto di mia suocera», per convincersi che fosse tutto a posto. Anche quando ha saputo che non erano stati pagati gli stipendi ai dipendenti, ha chiesto informazioni alla moglie (impegnata nel frattempo a far valere il suo «diritto alla moda e all'eleganza», come dice Soumahoro, comprando abiti e borse di lusso), che gli aveva risposto che era semplicemente dovuto al ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione che dava l'appalto: «Per me era una risposta sufficiente». Tutto ciò mentre in Parlamento chiedeva, con un atto ufficiale, di creare una commissione apposita per indagare su «condizioni di lavoro e sfruttamento» di lavoratori in Italia, cioè situazioni simili a quelle che denunciano i lavoratori delle coop della moglie e della suocera di Soumahouro. Un altro paladino dei diritti e degli ultimi finito sotto accusa per l'opposto, lo sfruttamento dei più deboli e degli immigrati. Un caso che ricorda da vicino un altro santino della sinistra accogliente, Mimmo Lucano, sindaco di Riace, assurto a modello di integrazione degli immigrati e uomo-immagine del fronte progressista (con sempre gli stessi sponsor, Saviano, giornali e programmi tv schierati a sinistra), prima di finire condannato per una lunga serie di reati a danno appunto degli ultimi («Lucano da dominus indiscusso del sodalizio - scrive il giudice nella sentenza -, ha strumentalizzato il sistema dell'accoglienza a beneficio della sua immagine politica»). I santini si rimpiazzano in fretta, caduto un Lucano è arrivato Aboubakar, che ora è in bilico e già in procinto di essere mollato dai compagni. Per ora il deputato pensa di essersela cavata con «l'autosospensione», che suona bene ma è uno stratagemma politichese per prendere tempo e per mantenere lo status quo. La «punizione» sarebbe quella di non far parte del gruppo parlamentare dei Verdi, ma di passare nel Misto. Non un grande sacrificio. Tutti i privilegi e i benefit dello status di parlamentare, a partire dallo stipendio da deputato, non vengono affatto autosospesi, ma gli restano in tasca. In attesa di far luce su quello che accadeva nelle coop di famiglia, anche senza una commissione parlamentare di inchiesta.

Da lastampa.it il 28 novembre 2022.

A Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro, sono contestati, tra gli altri, anche i reati di truffa aggravata e false fatturazioni nell'ambito della indagine dei pm di Latina sulla gestione di due cooperative. In base a quanto si apprende al momento, la donna è l'unica iscritta nel registro degli indagati. 

I magistrati hanno delegato le indagini alla Guardia di Finanza che sta analizzando, dopo alcune denunce presentate dai lavoratori delle coop che lamentano il mancato pagamento degli stipendi, in che modo siano stati impiegati i fondi ricevuti negli anni dalle due strutture.

Il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Italiana nei giorni scorsi si è autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera. Un atto politico, che non ha effetti sulla sua attività da deputato. «Con la massima libertà, Aboubakar Soumahoro ci ha comunicato la decisione di autosospendersi dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra», avevano reso noto Angelo Bonelli co-portavoce Europa Verde e deputato Avs, Nicola Fratoianni segretario Sinistra Italiana e deputato Avs e Luana Zanella, presidente del gruppo parlamentare Avs. «Rispettiamo questa scelta che, seppur non dovuta, mostra il massimo rispetto che Aboubakar Soumahoro ha delle istituzioni – hanno aggiunto – e del valore dell'impegno politico per promuovere le ragioni delle battaglie in difesa degli ultimi che abbiamo sempre condiviso con Aboubakar». 

(LaPresse il 28 novembre 2022) Fari puntati sul caso Aboubakar Soumahoro, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra che si è autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera Marie Therese Mukamitsindo. «Il suo compagno, l'onorevole non sapeva veramente di tutte le attività che facevate, della situazione debitoria delle società, degli stipendi non pagati? Era all'oscuro di tutto?» chiede il giornalista di 'Non è l'Arena' alla moglie di Soumahoro, intercettata fuori dalla sua abitazione di Roma senza, però, ottenere risposta. Massimo Giletti in studio, nel frattempo, punta i riflettori sulla provenienza dei soldi utilizzati per l'acquisto della casa da parte della coppia, costata 360mila euro e pagata in parte in contanti e in parte attraverso un mutuo.

Alla suocera di Soumahoro soldi pure dall'Anci del Lazio. Antonella Aldrighetti il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ora è indagata anche per truffa aggravata. L'incarico dai Comuni da 10 milioni di euro per l'integrazione

Dopo essere indagata per malversazione, ovvero per aver distratto sovvenzioni e finanziamenti pubblici, all'indirizzo di Marie Therese Mukamitsindo - suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, è stata notificata anche l'indagine per truffa aggravata e fatturazioni false, operata dalla cooperativa Karibu e dal consorzio Aid di cui è a capo. Chissà se, comprovate queste ulteriori malefatte, verrà chiarita anche la provenienza di circa 60 milioni di euro di fondi pubblici ricevuti per l'accoglienza degli immigrati. Fatto sta che a oggi la cooperativa Karibu è ancora titolare di un progetto attivo e in corso d'opera, su incarico dell'Anci Lazio per l'integrazione lavorativa sul territorio. Trattasi del progetto «Per.se.o.», finanziato con dal Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione) per oltre 10 milioni di euro e di cui la cooperativa della Mukamitsindo risulta essere capofila per l'intero territorio laziale. Certo nulla di più facile per attirare malcapitati migranti, speranzosi di integrarsi nel mondo del lavoro, seguire corsi di formazione, imparare l'italiano e ricevere un alloggio. Già, proprio coloro che la suocera di Soumahoro avrebbe dovuto aiutare ma che, stando alle denunce presentate e alle quali Procura di Latina e Fiamme gialle hanno dato seguito, venivano bistrattati, malpagati o letteralmente sfruttati gratis, alloggiati in residenze fatiscenti prive di luce e acqua. Eppure la fiducia in lady Mukamitsindo, malgrado più di una voce circolasse da tempo sul fatto che i migranti fossero indignati del trattamento loro riservato, continuava a produrre ovazioni dalle autorità locali e non solo.

Sarà stata anche per l'eco mediatica che ritornava spesso in merito al premio Moneygram Award ricevuto come imprenditrice immigrata dell'anno 2018 e consegnatole dall'ex presidente della Camera Laura Boldrini, sarà stato anche per il numero consistente di collaboratori italiani nelle cooperative di famiglia e dal ruolo di sindacalista di base ricoperto allora dal genero Aboubakar, fatto sta che quelle stesse imprese hanno ricoperto fino a due settimane fa un ruolo di primo piano nell'accoglienza e nei servizi ai richiedenti asilo del Lazio. Negli ultimi giorni Confcooperative ne avrebbe chiesto la cancellazione dagli elenchi regionali. Il risultato di questa istanza potrebbe indurre allo scioglimento del consorzio Aid e quindi della cooperativa Karibu. Tuttavia, collegandosi al sito web, le peculiarità per gli aiuti ai migranti rimangono in bella mostra: «promozione, su tutto il territorio regionale di azioni per l'inserimento socio-lavorativo di persone titolari di protezione internazionale attraverso il rafforzamento del capitale sociale dell'individuo e del contesto in cui vive, coordinamento tra le politiche del lavoro, dell'accoglienza e dell'integrazione». Ma si offrono pure altre attività di particolare rilevanza: una sorta di sportello per mettere in relazione domanda e offerta di lavoro con tirocini e work experience, corsi di italiano L2 per la patente di guida, alfabetizzazione finanziaria, start up di impresa e addirittura un apposito servizio di supporto per l'autonomia abitativa e co-housing sociale di cui si rivendica una collaborazione con Rete casa-amica. Indubitabile; peccato che, oltre ai sostenitori della famiglia Soumahoro, a sinistra ci siano anche voci contrastanti: l'ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris afferma con evidente sicurezza che sia Fratoianni che Bonelli sapessero delle vicende poco chiare attorno alle coop.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 novembre 2022.

Quanto è successo a Roccagorga, in provincia di Latina, è emblematico di un intero sistema. Qui il Comune, un piccolo Comune di 5.000 anime, riceveva centinaia di migliaia di euro per accogliere migranti. E quel tesoretto veniva trasferito alla cooperativa Karibu di Marie Therese Mukamitsindo, la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, oggi indagata per frode e reati fiscali.

Con il sindaco Carla Amici, esponente del Pd, sorella dell'ex potente sottosegretario (in tre governi, Letta-Renzi-Gentiloni) Sesa Amici, tra la signora ruandese e il municipio filava tutto liscio. Poi il ministero dell'Interno, guidato all'epoca da Matteo Salvini, mandò un alert. Un assessore, Nancy Piccaro, presidente dell'Ordine degli infermieri di Latina, non essendo in linea, scese in campo contro il candidato dell'ex primo cittadino e vinse.

Era il 28 maggio 2019. «La Amici cercava di fare entrare tutti questi migranti rinnovando affidamenti su affidamenti. Il Comune di Roccagorga ha ospitato il progetto Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per molti anni, a partire dal 2014, rinnovando l'affidamento diretto alla coop Karibu senza mai fare una gara a evidenza pubblica anche quando ormai erano in vigore le regole del Codice degli appalti, ma durante il periodo dell'amministrazione da me guidata il servizio alla coop è stato revocato il 31 dicembre 2020. 

Ho preso le distanze non appena mi sono resa conto delle troppe commistioni e che tante cose non mi quadravano. Ma non è stato facile opporsi. Erano persone premiate e osannate. Marie Therese venne nominata imprenditrice dell'anno. Così ho fatto una lista civica contro quel sistema».

Come detto, dopo pochi mesi la Piccaro ha rinunciato ai soldi dello Sprar, ma la sua giunta è stata sciolta dopo la mancata approvazione del rendiconto. Un inciampo che per l'ex amministratrice potrebbe non essere casuale: «La mia giunta è caduta forse proprio perché non si sottoponeva a certi accordi, tanto che noi il rapporto con la Karibu e questo modello di accoglienza vizioso e viziato lo abbiamo interrotto.

La mancata approvazione del rendiconto è stata una manovra politica probabilmente legata anche al fatto che facevamo ostracismo contro queste e tante altre modalità di gestione della cosa pubblica. Evidentemente davamo fastidio, tant' è che il commissario ha approvato gli stessi bilanci e rendiconto che avevamo preparato noi». 

Ma è vero che l'ex sindaco Amici era anche la commercialista della Karibu? «Questa voce l'ho sentita anche io, ma adesso spetterà agli inquirenti accertarlo», replica la Piccaro. A cui chiediamo se le sembrasse normale che l'assessore ai Servizi sociali, Tommaso Ciarmatore, fosse anche un dipendente della coop Karibu. 

«Probabilmente non è reato, ma è quanto meno inopportuno». La Piccaro descrive la sua aspra battaglia contro il «modello Roccagorga»: «La scelta di interrompere il progetto Sprar non fu facile perché se da un lato pensavamo che accogliere soggetti fragili, in fuga da guerre o da situazioni drammatiche, fosse nostro dovere morale (anche se poi i soggetti accolti erano tutti giovani uomini), in realtà poi ci rendevamo conto che una tale gestione dell'immigrazione perpetrava in pratica uno sfruttamento di esseri umani che venivano ammucchiati in case-alloggio, con scarsi controlli e in condizioni precarie, che facevano emergere una situazione di sfruttamento della loro condizione, tanto che ricordo di aver trovato agli atti una lettera proveniente dal ministero dell'Interno, pervenuta nel gennaio 2019, che evidenziava diverse criticità emerse nelle visite di monitoraggio effettuate nel 2018».

A quanto risulta alla Verità, la missiva era datata 31 gennaio 2019 ed era stata inviata dal dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale. 

L'oggetto della segnalazione era il «Progetto Sprar 2014-2016 in prosecuzione ammesso al finanziamento del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo per complessivi 40 posti categoria ordinaria». 

Nel documento si minacciavano 18 punti di penalità che avrebbero potuto portare alla «revoca del finanziamento» per questi due motivi: «Mancato rispetto della percentuale di posti destinati al Sistema di protezione indicata nella domanda di contributo»; «mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati e/o mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitivi».

Una carenza, questa, che rischiava di comportare «il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata». Piccaro rimarca come una parte del paese, che è molto piccolo, «fosse diventato praticamente un ghetto»: «C'erano continue risse. Carabinieri e 118 intervenivano in modo incessante. Le condizioni in cui erano tenute quelle persone erano veramente immorali e per questo noi abbiamo interrotto il progetto». 

L'ex sindaco prosegue: «Devo dire che nel 2020, quando rescindemmo la collaborazione con la Karibu e il Sistema di protezione a Roccagorga ci fu una levata di scudi contro la nostra amministrazione da parte del Pd locale, che ci accusava di insensibilità, di mancata solidarietà e finanche di razzismo, ma stranamente ora non si registrano ufficialmente posizioni di condanna da parte dei dem sulla situazione di illegalità diffusa che sta emergendo, come anche nessuna difesa dei lavoratori sia italiani che stranieri. Un atteggiamento che è indice di una doppia moralità».

Da "Striscia la Notizia" il 28 novembre 2022.

Tra i “papà” del fenomeno Aboubakar Soumahoro è ormai una corsa a scaricare l’ex sindacalista travolto dallo scandalo delle cooperative e della Lega Braccianti. Venerdì sera a Propaganda Live, il conduttore Diego Bianchi in arte Zoro ha provato a smarcarsi, facendo scaricabarile addirittura con il Papa: «Stiamo parlando di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco…». 

Volutamente, però, omette che Soumahoro al Papa lo aveva presentato Marco Damilano, storico (dal 2013 al 2022) collaboratore della trasmissione di Zoro. Ricordiamo che Soumahoro è stato pure una firma del settimanale l’Espresso, diretto fino a marzo di quest’anno proprio da Damilano. Ma torniamo all’incontro: era il 1° maggio 2019, e l’allora direttore dell’Espresso aveva accompagnato Soumahoro - all’epoca dirigente sindacale della USB - dal Pontefice, per portargli in dono il libro di Aboubakar (Umanità in rivolta, Feltrinelli, 2019) e alcune copie del suo settimanale, che, guarda caso, in quel numero (a pagina 57) aveva una foto di Zoro insieme a Soumahoro. Era stata la stessa Repubblica a enfatizzare l’incontro, spiegando che l’artefice era stato proprio Damilano.

Tra l’altro, dall’immagine che avevano diffuso era stata pure tagliata fuori la sbarra d’ordinanza che separa il Papa dai coniugi Soumahoro (e dai due promoter al seguito) per far intendere che ci fosse una certa intimità. Sbarra “fantasma” che ricompare invece nelle foto che saranno mostrate questa sera in un servizio di Striscia la notizia che ricostruisce, tra le altre cose, il famoso incontro. 

Insomma, dopo aver astutamente organizzato il meeting con il Papa per accrescere la popolarità “del loro” Soumahoro, ora si dà la colpa al Pontefice di aver posato con lui in una foto. Forse, in tutta questa vicenda, Aboubakar è il più innocente. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35).

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 28 novembre 2022.

Le tre scimmiette sono due: Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, la premiata ditta che non vede, non sente, ma parla e straparla, tanto che nella loro "Mezz' ora in più", ieri su Rai3, i leader di Sinistra Italiana ed Europa Verde, pugili suonati messi alle corde da Lucia Annunziata, sono riusciti perfino a dare la colpa al Papa pur di provare a schivare i ganci del caso Soumahoro, tentativo chiaramente finito con un ko tecnico, chissà se con una scomunica.

È stato Bonelli, invero, l'autore del capolavoro, e non sarebbe giusto togliergli tale altissimo merito. Fratoianni gli ha comunque fatto da spalla, dicendo urbi et orbi - tra le altre cose - che se nel ghetto foggiano di San Severo teatro dei selfie di Aboubakar c'è l'acqua potabile il merito è suo, di quando era assessore in Puglia, e vabbè, San Nicola Fratoianni. Veniamo al Pontefice. 

L'Annunziata ha fatto presente a Bonelli che il vero problema, se come sostengono i due non sapevano nulla di questa storiaccia, è proprio questo, che dovevano sapere delle ombre sul curriculum della famiglia Soumahoro. Vai Bonelli, vai, è il tuo momento.

Ed eccolo, Bonelli: «Non solo non eravamo a conoscenza noi, ma nemmeno tanti prefetti, tanti sindaci, presidenti del Consiglio (stoccata a Giuseppe Conte che era in studio poco prima, ndr), e non voglio scomodare persone che hanno un ruolo spirituale molto importante nel mondo». Bonelli scomoda il Vaticano.

Apriti cielo. Bonelli, ovviamente, non ha nominato Francesco, e però il collegamento è stato fin troppo evidente dato che è noto che due anni fa Bergoglio in occasione dell'udienza generale del primo maggio ha ricevuto Soumahoro e l'episodio è stato ricordato appena una paio di sere fa su La7 a Propaganda Live da uno degli sponsor principali del deputato con gli stivali, ossia Diego Bianchi alias Zoro, e non è stato l'unico tra i paladini della sinistra.

La giacchetta tirata al Papa, o meglio la veste del Santo Padre, è stata il punto più alto (più basso in realtà) di un climax partito al grido di «ci sono anche altri in parlamento che hanno parenti che hanno avuto problemi con la giustizia», e «noi non sapevamo nulla», e «comunque su Aboubakar non c'è alcun procedimento giudiziario», «ma la questione politica è molto forte, perché noi siamo chiamati a essere più rigorosi degli altri», ha tenuto a sottolineare Bonelli. 

E dunque, domanda rivolta al "compagno" Fratoianni, come la mettiamo con tutti quelli che sostengono che su Soumahoro l'avevano avvertita (gli ultimi sono stati dieci dirigenti di Sinistra Italiana e prima ancora il segretario modenese del Pd dove l'ivoriano è stato candidato)? «Ma chi lo sapeva del business Soumahoro"!».

Se ho una segnalazione che non riguarda illeciti, questo mette in discussione una figura che aveva fatto lotte in quell'ambiente ma che dal mio punto di vista rafforzava un lavoro che stavamo facendo su un certo terreno?». Scusi, onorevole: quindi? «C'è un cortocircuito molto problematico tra ciò che interpreta una battaglia e comportamenti, scelte che possono mettere in difficoltà quella battaglia». 

Prematurata la supercazzola, o scherziamo? Fratoianni riprende fiato e riattacca: «Quando il 10 agosto abbiamo presentato la candidatura di Aboubakar, se qualcuno sapeva che c'erano circostanze che sconsigliavano quella candidatura avrebbe potuto dirlo. Non mi pento della scelta, e spero che l'evoluzione della vicenda porti a una soluzione e mi preoccupo di tutelare chi in questo mondo continua a lavorare».

È una risposta indiretta a Elena Fattori, esponente di Sinistra Italiana e firmataria della lettera in cui - dicevamo- dieci dirigenti del partito hanno puntato il dito contro Fratoianni. Fattori, a mezzo stampa, ha tuonato che «è stato scelto un personaggio (Soumahoro, ndr) senza andare a vedere cosa proponesse realmente al di là delle sue comparsate mediatiche». 

«Chiediamo che ci si interroghi sul futuro», ha continuato la Fattori, «su come vengono scelti i candidati: di quelle storie si sapeva tutto». Bonelli ha replicato che Soumahoro «era una personalità molto sostenuta dal mondo della cultura, che ha fatto delle battaglie anche molto importanti», e che «ora fare un processo ex post non è corretto: dire "dovevate sapere" non è corretto, perché chi sapeva, allora, doveva dirlo, e non intervenire successivamente per dire: "Ah ma è un personaggio particolare..."». Giusto: ma nel dubbio meglio dire che Aboubakar l'aveva incontrato anche il Papa, si capisce.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it/che-tempo-che-fa-il-silenzio-di-fazio-sul-caso-soumahoro il 28 novembre 2022.

Durante tutta la scorsa settimana, giornali, notiziari e talk show hanno dedicato ampio spazio alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto indirettamente il Deputato Aboubakar Soumahoro. Il 24 novembre, Soumahoro si è infatti autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra in seguito a presunte irregolarità amministrative che sarebbero avvenute nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla compagna dell'attivista e sindacalista ivoriano, e all'avvio in merito di indagini giudiziarie da parte della Procura di Latina.  

Occorre ribadire che Soumahoro, dichiaratosi del tutto estraneo alla suddetta vicenda, al momento attuale non risulta indagato. 

A margine del dibattito sulle presunte illiceità di cui sopra, un certo scalpore nell'opinione pubblica è stato suscitato dalle fotografie pubblicate su Instagram dalla compagna di Soumahoro, Liliane Murekatete. Scatti che la ritraggono paludata in abiti firmati e onusta di accessori di lusso. Contrasto piuttosto stridente con l'immagine del marito presentatosi per la prima volta in Parlamento con gli stivali "che hanno calpestato il fango della miseria... gli stivali della lotta ... per rappresentare sofferenze, desideri, speranze”. 

E contrasto altrettanto stridente rispetto alle accuse delle quali Liliane Murekatete è chiamata a rispondere, ovvero le presunte malversazioni di erogazioni pubbliche e le - sempre presunte - condizioni "malsane" in cui sarebbero stati costretti a vivere i migranti di cui si occupavano le coop gestite dalla donna e dalla madre. Migranti lasciati, secondo alcune testimonianze, senza acqua né cibo per giorni. Tutto da dimostrare, ovviamente, ma tant'è. 

Le foto griffatissime di Murekatete, sulle quali si sono gettati con avidità giornali e talk show, hanno indotto il marito a difenderla pubblicamente a Piazza Pulita, rivendicandone il "diritto all'eleganza" e "il diritto alla moda", a suo dire espressioni di libertà. Inutile dire che tali giustificazioni non hanno convinto nessuno e che, anzi, hanno attirato ulteriori strali su Soumahoro e sulla Sinistra in generale.

Sinistra che aveva fatto dell'attivista e sindacalista ivoriano uno dei suoi beniamini nonché simbolo di futura rinascita, tanto da considerarlo perfino un papabile candidato alla segreteria del Partito Democratico, prima che si presentasse alle elezioni nelle file di Alleanza Verdi e Sinistra - i cui dirigenti in questi giorni lo hanno prontamente scaricato. Questo per sottolineare quanto la bufera che ha investito Aboubakar Soumahoro si ripercuota negativamente anche su tutta la Sinistra italiana, già in crisi profonda dopo la sconfitta alle urne. 

E dire che, neppure un mese fa, egli veniva celebrato come baluardo di coraggio contro l'arroganza del "signor Presidente del Consiglio Giorgia Meloni" che in Parlamento aveva osato apostrofarlo con il "tu" sbagliandone pure il nome di battesimo. Soumahoro l'aveva immediatamente rimbrottata ricordandole che era tenuta a dargli del lei, assurgendo così a idolo incontrastato dell'Opposizione e della possibile rivalsa contro lo strapotere della Destra. 

Su tali basi il neo Deputato era stato invitato pochissimi giorni dopo, il 30 ottobre 2022, su Rai3 a Che tempo che fa nel salotto domenicale di Fabio Fazio. Tra gli applausi scroscianti del pubblico, Soumahoro aveva ribadito che la Meloni poteva chiamarlo "dottore" visto che è laureato, e si era visto salutare dal conduttore ligure come una sorta di faro di speranza per il futuro della politica italiana. Incredibile come la situazione sia radicalmente cambiata neanche un mese più tardi.

E ieri sera nel salottino perbene di Rai3, dopo una settimana di aspre polemiche che riguardavano l'ospite celebrato solo qualche puntata fa, era del tutto lecito aspettarsi che Fazio - nello spazio in cui ospita giornalisti e commentatori politici a discettare degli argomenti chiave dell'attualità - spendesse qualche parola sulla vicenda giudiziaria che ha investito moglie e suocera di Soumahoro, come hanno fatto praticamente tutti i suoi colleghi conduttori di talk show. E invece nulla. 

Forse Luciana Littizzetto, sempre pronta a infierire sulle derive "social "di politici e personaggi pubblici, ha ironizzato sulle discusse foto ultragriffate di Liliane Murekatete Soumahoro, ribattezzata malignamente in rete "la regina d'Africa"? Nulla anche in questo caso. Fosse successo a un personaggio legato alla Destra lo avrebbe fatto? Non possiamo esserne sicuri ma potremmo quasi scommettere di sì.

In compenso Che tempo che fa ha tributato il solito obolo settimanale alla concorrenza con l'immancabile citazione di Maria De Filippi, e ha regalato al pubblico che paga il canone Rai la promozione del film Improvvisamente Natale con Diego Abatantuono, Nino Frassica e il Mago Forest, disponibile in esclusiva su Amazon Prime Video dal prossimo 1 dicembre. Su questo, Fazio non delude mai.

Virginia Piccolillo e Michele Marangon per corriere.it il 29 novembre 2022.

«Si è vero. Non gli abbiamo fatto il contratto e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà». Marie Therese Mukamatsindo ha ammesso tutte le accuse che le aveva rivolto Youssef Kadmiri, ingegnere 42enne marocchino che al Corriere ha raccontato: «In due anni sono stato pagato solo due volte». 

Di fronte alla commissione dell’ispettorato del lavoro di Latina, la suocera di Aboubakar Soumahoro è giunta a un accordo. «Adesso spero che mi paghi» dice Kadmiri all’uscita. «È andata avanti sempre con scuse, sempre dicendo che aveva i soldi bloccati e non poteva pagare, anche oggi lo ha fatto. Però alla fine ha firmato l’accordo. Quindi spero che adesso tutto finisca».

 Molto amareggiato per le rivelazioni riportare dai media sui milioni di euro di fondi presi dalle cooperative Consorzio Aid e Karibu gestite all’epoca da Maria Therese e sua figlia Liliane Murekatete, dice: «Lo sapevamo. Lo sapevano tutti. Solo il sindacalista della Uiltucs ci ha ascoltato. Anche Soumahoro lo sapeva. Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo, vestiti usati ed erano costretti a lavorare fuori per comprarsi quello di cui avevano bisogno perché gli toglievano anche il pocket money e quindi non andavano a scuola».

All’ispettorato del Lavoro di Latina, Maria Therese Mukamistindo si è presentata prestissimo sfuggendo alle domande dei cronisti. Oltre a quella di Youssef Kadmiri, la suocera di Soumahoro è chiamata a sanare la posizione altri due operatori che hanno lavorato per le cooperative Karibu e Consorzio Aid e non sono stati pagati regolarmente. Stefania Di Ruocco, era in forze alla Karibu dal 2016. 

Per lei è stata definita la somma di oltre 21mila euro comprensive di Tfr. Da quasi due anni non aveva ricevuto nulla: da gennaio a dicembre 2021 e poi da gennaio 2022 sino ad ottobre di quest’anno. La speranza è che Karibu rispetti il piano di rientro stabilito in sede di accordo. Con lei a chiedere di rispettare il diritto alla paga Mohamed El Motaraji.

Le tre vertenze affrontate stamane sono solo una piccola parte. Secondo la stima di Gianfranco Cartisano di Uiltucs ammonta almeno a 400 mila euro il tesoretto di somme sottratte dalle cooperative gestiste da Mukamitsindo alla retribuzione regolare dei lavoratori, in gran parte migranti stranieri. Soumahoro aveva dichiarato nel video, in lacrime, che se fossero state accertate le accuse sarebbe stato dalla parte loro.

Estratto dell’articolo di Michele Marangon per corriere.it il 29 novembre 2022.

[…] La rete di collaborazione delle due cooperative riconducibili a Mukamitsindo nei vari comuni pontini, ha portato negli anni a consolidarsi del rapporto con la politica: assunzioni e consulenze elargite a chi aveva un ruolo di amministratore pubblico rappresentano un filone della storia, senza alcun rilievo nelle indagini ma utile, per ora, ad arricchire il complesso sistema delle cooperative. 

Episodio certo è, ad esempio, l’assunzione di un ex assessore comunale a Roccagorga, Tommaso Ciarmatore. L’uomo era stato assunto quando il comune era a guida Pd. Una vicenda che potrebbe non essere isolata e che da Roccagorga (paese di 4mila anime che interruppe nel 2020 il rapporto con Karibu), potrebbe estendersi ad altre realtà.

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 29 novembre 2022. 

Nel Pd, che finora tace sulla vicenda dei finanziamenti senza gare alle cooperative di lady Soumahoro, qualcuno già nel 2015 aveva sollevato dubbi e richiesto chiarimenti, scontrandosi con un altro pezzo di partito.

Lo scenario è rappresentato dal botta e risposta tra i due consiglieri dem Fabiola Pizzulli e Francesco Scacchetti e Carla Amici, l'allora sindaca di Roccagorga, il centro di quattromila anime in provincia di Latina, uno degli epicentri dello scandalo, insieme a Sezze, dove ha sede la cooperativa della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo. 

«Gentile sindaco - scrivono Scacchetti e Pizzulli - apprendiamo dagli organi di stampa che nell'ambito di specifiche direttive del ministero dell'Interno è stato approvato il piano di accoglienza Sprar per il triennio 2014- 2016: per la provincia di Latina si riconosce al comune di Roccagorga il finanziamento più importante, con 327mila euro l'anno».

Alla luce delle ultime vicende « che hanno sollevato il sistema di lucro con i fondi per la gestione dei migranti - aggiungono - chiediamo l'elenco di tutti i trasferimenti al Comune di Roccagorga e di conseguenza alla cooperativa Karibù». È il 15 gennaio 2015 quando i due consiglieri del Pd presentano l'interrogazione scritta alla sindaca Amici, sollevando dubbi sui finanziamenti erogati alla Karibù. 

Perché a Roccagorga, come è emerso successivamente, avevano lavorato con la Karibù anche pubblici amministratori. E ad affittare gli immobili nei quali ospitare i migranti, erano stati pure funzionari comunali. […]

Caso Soumahoro, sul ghetto di San Severo regna l'omertà. Le autorità negano di conoscere il politico che organizzò la Lega braccianti. Bianca Leonardi il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Silenzio, omertà e indifferenza: questo è ciò che abbiamo trovato a Foggia riguardo la tremenda situazione del Gran Ghetto di Rignano a Torretta Antonacci. Ettari di terreno occupati da baracche dove vivono circa 2500 persone, con solo una piccola parte - la foresteria, dove sono presenti i container - gestita ora dall'associazione Anolf che cerca di fare il possibile in una parte di mondo dimenticata da tutti.

«Chi è Soumahoro?», ci hanno risposto esponenti delle autorità foggiane alla nostra domanda su eventuali interventi, passati e presenti. Perché se è vero che solo adesso l'Onorevole è nel ciclone sul fronte dell'inchiesta sulle coop di famiglia, è anche vero che la situazione a Foggia - dove è invece coinvolto personalmente almeno sul piano politico - va avanti da anni nel silenzio di tutti.

All'inizio della strada che porta alla baraccopoli, in località San Severo, sono presenti infatti costantemente due pattuglie della polizia che però non intervengono direttamente nel ghetto e glissano, senza darci nessuna risposta precisa su di chi è competenza il controllo di quella impenetrabile zona autogestita.

L'operato delle due volanti sembrerebbe limitarsi nell'allontanamento di eventuali turisti o curiosi, lasciando il ghetto lontano da sguardi indiscreti. È noto da sempre che all'interno di quella realtà lo scontro tra «clan», guidati da sindacati e associazioni, sia al centro dei numerosi reati e traffici illeciti. Insieme alla Lega Braccianti opera infatti Usb, che ha visto nascere Soumahoro per poi dividersi quando l'ora deputato ha dato vita, nel 2020, alla sua associazione. «Lega Braccianti e Usb sono i caporali qui. Gli uomini di Soumahoro insieme a quelli del sindacato ogni mattina ci chiedono i soldi per portarci a lavoro», raccontano i braccianti. «Lo chiamano taxi e se non paghi non lavori», spiega un altro bracciante. Il business dietro a questa pratica - che caporalato altro non è - sembrerebbe infatti portare nelle tasche dei gruppi ingenti somme. I «taxi» di cui parlano i braccianti sono semplicemente macchine che «operano per conto di Usb e degli uomini di Soumahoro» nel trasporto dei lavoratori, portandoli «dal padrone bianco». La cifra chiesta si aggira intorno ai 5 euro per ogni bracciante, ogni giorno.

Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi - e documentato - le centinaia di macchine presenti nel ghetto, «la maggior parte, se non tutte, rubate» - ci spiegano dall'associazione - e tutte senza assicurazione, che trasportano fino a 6 braccianti. «Sono mesi che Soumahoro ci ha promesso un pullman per portarci a lavoro ma non è mai arrivato e i suoi uomini continuano a chiederci soldi», ci racconta un lavoratore che ammette di non avere ogni giorno i soldi necessari e, di conseguenza, non poter lavorare.

Su questa situazione, come su molte altre riportate dai braccianti, come il giro di prostituzione gestito dalla «donna, tra le pochissime presenti del ghetto, fedelissima a Soumahoro» - ci spiega un ex affezionato dell'Onorevole - le risposte da parte dei piani alti sembrerebbero quasi inesistenti. Le segnalazioni, come le molte denunce fatte, sembrerebbero ferme e non approfondite. L'ultima operazione, racconta la Procura Foggia, risulta infatti quella che ha visto arrestare un solo caporale dopo due anni di indagini.

Soumahoro, quegli intrecci con il Pd. Gli amministratori dem lavoravano per la Karibu. Dario Martini su Il Tempo il 30 novembre 2022

I politici del Pd della provincia di Latina conoscevano bene la coop Karibu di Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro. Rapporti di «antica» data, che risalgono a quando la cooperativa dedita all'accoglienza dei migranti ha iniziato la sua attività, ormai due decenni fa. Oggi la società che fa capo alla madre della consorte del deputato di Verdi e Sinistra è al centro delle polemiche per gli stipendi non pagati, per l'utilizzo dei fondi pubblici e per le carenze igienico-sanitarie in cui erano costretti a vivere i profughi. Mukamitsindo è indagata per malversazione, false fatturazioni e truffa aggravata.

Ora che lo scandalo è scoppiato, è possibile documentare casi di politici che, prima di occuparsi dell'amministrazione pubblica, hanno lavorato per conto della coop della suocera di Soumahoro in qualità di commercialisti, dal momento che erano loro stessi a presentare i bilanci. Karibu nel corso degli anni si è aggiudicata molti affidamenti nell'ambito dell'accoglienza, sia a Sezze, dal 2001 al 2018, che a Priverno, dal 2014 al 2016. Basti pensare che nella sola Sezze si è aggiudicata circa 5,5 milioni di euro. Partiamo proprio da questo Comune, dove la Karibu ha vinto il primo progetto Sprar nel 2001. Da allora ha continuato a ricevere fondi, tra proroghe e nuovi bandi, per 18 anni, fino al 2019. In alcuni casi con semplice determine, in altri attraverso gare pubbliche. Lo Sprar è il «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati», il servizio del Viminale per i progetti di accoglienza, di assistenza e di integrazione dei richiedenti asilo a livello locale. Nei suoi primi anni di attività, la cooperativa di cui è amministratrice la suocera di Soumahoro, si è affidata alla consulenza di un commercialista, Sergio Di Raimo, che ha presentato i bilanci di Karibu dal 2004 al 2006. Di Raimo è tutt' altro che sconosciuto alla politica locale. È stato consigliere comunale di Sezze nel 2003, con una lista civica, quando il Pd non era ancora nato.

Poi, nel 2007, è stato assessore al Bilancio nella giunta Campoli. Nel 2012, primo degli eletti, è andato a presiedere il consiglio Comunale, fino al 2017, quando è diventato sindaco di Sezze con una giunta di centrosinistra. Sfiduciato nel 2021, si è ricandidato nell'ottobre dello stesso anno, ma è stato battuto da Lidano Lucidi. Attorno al 2015 la Karibu si è aggiudicata anche la gestione del Cas, il Centro di accoglienza straordinaria, sempre a Sezze. A difendere la regolarità degli affidamenti in questo settore è l'ex sindaco Campoli, che alcuni giorni fa ha pubblicato un lungo post con cui ha ricordato che la comunità di Sezze «in venti anni ha accolto centinaia di donne sole e di bambini, nella massima trasparenza amministrativa e senza che mai alcun dipendente o fornitore non venisse pagato o non venisse rispettata la dignità di queste persone, almeno per il progetto gestito dal Comune, che nasce nel 2001 con i protocolli d'intesa forniti direttamente dal ministero dell'Interno e in cui la cooperativa Karibu veniva indicata come ente gestore. Questa modalità - continua Campoli - è andata avanti fino al 2008 (tra l'altro trovando d'accordo un'amministrazione di centrodestra per quattro anni) fino a quando fui io a decidere di indire una gara pubblica per selezionare un partner per la gestione di questo provetto. Karibu vinse legittimamente e mantenne il servizio fino al 2017».

A poca distanza da Sezze si trova Priverno, l'altro comune pontino dove la Karibu ha svolto per anni la sua attività. Dal 2014 al 2016 si è aggiudicata 650mila euro dal Comune: 172mila nel 2014, 187mila nel 2015, 187mila nel 2016, e altri 103mila per accogliere 15 migranti aggiuntivi oltre a quelli già previsti. Questi affidamenti sono stati decisi nell'ottobre 2013 dalla giunta Delogu. Tutte gare con affidamento diretto. Come si legge nella delibera 45 del 2014, è stata individuata «nella cooperativa Karibu di Sezze il soggetto del terzo settore avente le caratteristiche necessarie per la progettazione e la gestione del servizio di accoglienza "integrata" a favore dei richiedenti asilo e/o dei rifugiati, in linea con il progetto Sprar, in quanto soggetto che gestisce analoghi servizi nel distretto dei Monti Lepini». Il vicesindaco di allora era Anna Maria Bilancia, attuale primo cittadino di Priverno.

Tra l'altro, negli anni 2013-2015, tra i consiglieri di maggioranza figurava Enrica Onorati, assessore comunale alle Attività produttive nel 2016 e attuale assessore regionale all'Agricoltura. In queste amministrazioni figurava anche Domenico Stirpe, già assessore nelle giunte Bilancia (2016-2021) e Delogu (2015), che ha ricoperto incarichi pure sotto Mario Renzi, sindaco Pds dal 1993 al 2003. Stirpe, come Di Raimo, ha lavorato come commercialista per la Karibu, presentando il bilancio del 2007. L'anno dopo, la coop di Mukamitsindo ha cambiato commercialista, e si è affidata a Tobia Tommasi, che ha presentato il rendiconto nel 2008. Tommasi è l'attuale assessore al Bilancio di Priverno ed è stato candidato consigliere alle comunali per Delogu sindaco nel 2013. Nel 2019 ha ricoperto anche l'incarico di revisore contabile per il progetto Sprar del Comune.

Intanto, si infiamma lo scontro in Regione Lazio. Il capogruppo della Lega, Angelo Tripodi, fa notare che «tra stipendi non pagati, lavoro in nero, condizioni inumane nei centri di accoglienza», si registra «il silenzio imbarazzato» del governatore dimissionario Nicola Zingaretti, del candidato alla presidenza Alessio D'Amato e dell'assessore all'Agricoltura Enrica Onorati, la stessa che si è fatta le ossa nella politica di Priverno, dove la coop Karibu incassava centinaia di migliaia di euro.

Virginia Piccolillo per corriere.it il 30 novembre 2022.

«Non sono Lady Gucci. Non mi farò diffamare. Porto tutti in Tribunale». Dopo lunghi giorni di silenzio Liliane Murekatete, compagna del deputato Abobakar Soumahoro, è sbottata contro i media proprio mentre gli ispettori del ministero delle Imprese e del Made in Italy chiedevano lo scioglimento del Consorzio Aid, gestito dalla «suocera di Soumahoro per "irregolarità insanabili"».

«Mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking» ha proseguito Liliane in uno sfogo all’Adnkronos, anticipando di aver dato mandato all’avvocato di querelare chi ha avuto atteggiamenti persecutori nei suoi confronti. Liliane non entra nel merito delle accuse di malversazione e truffa aggravata rivolte a sua madre Marie Terese Mukamitsindo nella gestione delle cooperative Consorzio Aid e Karibu di cui lei è stata consigliere fino allo scorso settembre.

Precisa che «peraltro sono in aspettativa dall'aprile 2022» e «sono in attesa della corresponsione degli arretrati». E ovviamente il sottotesto della narrazione esclude a priori l'ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa diventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali».

E aggiunge: «Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno».

Il silenzio di Marie Therese Mukamitsindo: «Non rilascio dichiarazioni»  La Guardia di Finanza, a cui i magistrati hanno affidato le indagini, da mesi è al lavoro per scandagliare le voci di bilancio, flussi di finanziamenti e uscite di denaro per capire se, in primo luogo, i soldi che dovevano essere destinati ai lavoratori, siano stati dirottati altrove - Corriere Tv

Il silenzio di Marie Therese Mukamitsindo: «Non rilascio dichiarazioni»

Respinge il nomignolo di Lady Gucci e aggiunge: «La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata».

Perché, dice, «la gran parte delle foto» risale «al 2014/15», ovvero «quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno». Secondo Murekatete «il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la "cooperativa della moglie di Soumahoro" (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o "la cooperativa della famiglia di Soumahoro" che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell'Autodafé».

Liliane difende il compagno che si è auto sospeso dall’incarico di parlamentare: «Aboubakar - è stato messo in croce per quelle foto perché non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto».

Liliane si scaglia anche contro le «insinuazioni» e i «gratuiti sospetti» sull'acquisto della casa di Casal Palocco.«Che permeano il ragionamento socioculturale di molti articoli malevoli: la Murekatete ha certamente acquistato la casa con i soldi della cooperativa! E invece no, il prezzo non ricompreso nella somma erogata grazie al mutuo è di provenienza lecita», spiega: «E il paradosso è che la colpevolizzazione è arrivata ad un grado di intensità tale da pretendere che io debba spiegare la provenienza delle mie risorse economiche per soddisfare la curiosità pubblica».

E spiegando che se l'autorità giudiziaria glielo chiederà, non avrà problemi a dimostrare la liceità dell'acquisto, respinge «culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche». La misura, dice «è colma».

«Io Lady Gucci? Basta, porto in Tribunale chi mi diffama». Il j'accuse di Murekatete, compagna di Aboubakar Soumahoro: "Dalla stampa un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza". Il Dubbio il 30 novembre 2022

«Adesso basta, porto in tribunale chi mi ha diffamato». È un fiume in piena Liliane Murekatete, compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, finita nella bufera dopo l’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre Marie Therese Mukamitsindo.

Murekatete decide di parlare all’Adnkronos e punta il dito contro il sistema mediatico, lamentando un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti da parte della stampa. «Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno», afferma Liliane, che precisa di non ricoprire più alcun ruolo all’interno della Karibu: «Il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la "cooperativa della moglie di Soumahoro" (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o "la cooperativa della famiglia di Soumahoro" che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell’Autodafé».

A Murekatete non sono stati perdonati i selfie in cui compare con abiti e borse firmate: foto che hanno spinto i suoi detrattori a coniare per lei il soprannome « Lady Gucci». Ma la compagna di Soumahoro non ci sta: «La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata», si sfoga Murekatete con l’Adnkronos, sottolineando come «la gran parte delle foto» risalga «al 2014/15», ovvero «quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno».

Un vero e proprio tornado mediatico ha investito la famiglia Soumahoro, portando Aboubakar ad autosospendersi dal partito con il quale è stato eletto in Parlamento alle ultime elezioni politiche, l’Alleanza Verdi Sinistra: «Aboubakar – dice Liliane – è stato messo in croce per quelle foto perché non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto». E per quanto riguarda il pagamento degli stipendi ai dipendenti, rimarca la compagna di Soumahoro, «si sorvola sul fatto che anch’io (che peraltro sono in aspettativa dall’aprile 2022) sono in attesa della corresponsione degli arretrati. E ovviamente – insiste – il sottotesto della narrazione esclude a priori l’ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa di ventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali».

"Diffamata, ai limiti dello stalking". Soumahoro, la moglie Liliane Murekatete contro gogna razzista: "Lady Gucci? Fa male pensare a donna africana benestante". Redazione su Il Riformista il 30 Novembre 2022.

Ha aspettato e incassato senza dire nulla. E’ finita nel tritacarne mediatico e politico che ha massacrato il marito, e neo deputato, Aboubakar Soumahoro per una inchiesta che è ancora nella fase di indagini preliminari. Dopo settimane di silenzi, Liliane Murekatete, 45 anni, parla e non le manda a dire. Annuncia di portare "in tribunale chi mi ha diffamato" e offre la propria versione dei fatti su una vicenda, quella dell’inchiesta della procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre Marie Therese Mukamitsindo, 68 anni, che ha scatenato giornali, televisioni e politici, quasi in estasi nel massacrare il riscatto dell’ex sindacalista candidato e scaricato da una Sinistra "radical chic e con la puzza sotto il naso".

In una intervista all’AdnKronos, Liliane non ci sta e reagisce alla gogna e all’appellativo di "Lady Gucci", coniato dai suoi detrattori per alcune foto pubblicate con indosso abiti, accessori e borse firmate: "La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica ‘griffata’ e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata" sottolinea prima di chiarire che "la gran parte delle foto" risale "al 2014/15", ovvero "quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno".

In sintesi, così come sottolineato più volte dal Riformista in queste settimane, Soumahoro e la sua famiglia sono stati massacrati perché "negri", perché "vittime del razzismo della sinistra, acido e fasullo come una moneta di piombo". La stessa moglie dell’ex sindacalista ricorda proprio come "il sottotesto della narrazione esclude a priori l’ipotesi che possa esistere una donna africana benestante (e/o che possa diventarlo onestamente) e men che mai che essa possa contemporaneamente impegnarsi nelle questioni sociali".

Altro che presunzione di innocenza in una inchiesta dove il deputato Soumahoro non è indagato. "Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno", afferma Liliane, che precisa di non ricoprire più alcun ruolo all’interno della Karibu.

"Il sapiente, malizioso utilizzo di espressioni quali la ‘cooperativa della moglie di Soumahoro’ (mentre non faccio più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente) o ‘la cooperativa della famiglia di Soumahoro’ che ha connotato sin da subito la campagna mediatica è particolarmente odioso in quanto volto a sollecitare distinguo, prese di distanza, ripudi, magari accuse reciproche, tutti rigorosamente pubblici, nella peggiore tradizione dell’Autodafé".

Soumahoro, che la scorsa settimana nel corso di Piazzapulita su La7, aveva rivendicato "il diritto all’eleganza e alla moda" perché "è libertà, la moda non è né bianca né nera", è stato "messo in croce per quelle foto perché – spiega Liliane -non le ha condannate pubblicamente per appagare le aspettative dei cultori dei reality show e non ha voluto parlare di mie vicende private correlate a quelle foto".

Sugli stipendi non pagati ai lavoratori della Coop, la moglie di Soumahoro rilancia: "Si sorvola sul fatto che anch’io (che peraltro sono in aspettativa dall’aprile 2022) sono in attesa della corresponsione degli arretrati". Infine è chiamata anche a fare chiarezza sulla casa comprata  a Casal Palocco dopo "insinuazioni" e i "gratuiti sospetti che permeano il ragionamento socioculturale di molti articoli malevoli: la Murekatete ha certamente acquistato la casa con i soldi della cooperativa! E invece no, il prezzo non ricompreso nella somma erogata grazie al mutuo è di provenienza lecita", spiega: "E il paradosso è che la colpevolizzazione è arrivata ad un grado di intensità tale da pretendere che io debba spiegare la provenienza delle mie risorse economiche per soddisfare la curiosità pubblica".

"Io – si difende Liliane – a questo processo mediatico non mi presto né intendo prestarmi: se l’autorità giudiziaria me lo chiederà, non avrò problemi a dimostrare la liceità dell’acquisto, ma respingo culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche".

Per Murekatete la misura è colma: "In questo piano inclinato – conclude nella sua intervista all’AdnKronos – non posso quindi fare altro, al momento, che dare incarico al mio avvocato, Lorenzo Borrè, per adire le vie giudiziarie nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking", annuncia la compagna di Aboubakar.

Estratto dell’articolo di Michele Marangon e Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.

[…] Conferma Yussef Kadmiri, un altro lavoratore delle cooperative: «Marie Thérèse e i suoi figli sono andati avanti sempre con scuse, sempre dicendo che avevano i soldi bloccati e non potevano pagare. Adesso Marie Thérèse lo ha ammesso. Spero che finalmente mi paghi. Ma lo sapevano tutti. Lo sapeva anche Soumahoro.

Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo ed erano costretti a lavorare fuori e non andare a scuola perché gli toglievano anche il poket money». [...]

Virginia Piccolillo e Michele Marangon per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.

«Anche a Natale ci hanno lasciato senza stipendio». Titti guarda in basso mentre racconta quello che ancora ha «troppa vergogna» a raccontare in famiglia: la «fregatura» ricevuta da Thérèse Mukamitsindo, suocera del deputato di Alleanza verdi-Si, Aboubakar Soumahoro. Le accuse: stipendi non pagati, promesse tradite e sfruttamento di chi si prendeva cura dei migranti. Un metodo ancora sotto i fari degli ispettori del Mise in una indagine così lunga che fa temere a Mukamitsindo un esito negativo: in presenza di gravi irregolarità si rischia il commissariamento o la messa in liquidazione delle cooperative.

E anche ieri Mukamitsindo è stata convocata dall’Ispettorato del lavoro di Latina per altri lavoratori lasciati senza contratto e troppe volte senza paga. E lo ha ammesso: «Sì, è vero. Non abbiamo fatto il contratto e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà». Un metodo che ha fatto raggranellare alle cooperative gestite allora da Marie Thérèse e dai figli Michel Rukundo e Liliane Murekatete, moglie del parlamentare ivoriano, un tesoretto di almeno 400 mila euro, stima il sindacato Uiltucs.

In quel tesoretto ci sono anche gli stipendi di Titti, operatrice italiana impiegata nel progetto Perseo che con i fondi dell’Anci Lazio prometteva di rendere autonomi i richiedenti asilo che ce l’avevano fatta: la domanda era stata accettata. La cooperativa Karibu avrebbe fatto il resto: borse lavoro, autonomia abitativa e piccole somme per acquistare beni di consumo utili a una vita in autonomia. Titti, giovane mamma, era tra quanti dovevano rendere possibile questo ultimo miglio verso l’inclusione ma, racconta, «per il Perseo non sono stata mai pagata vivendo una enorme frustrazione, oltre alle difficoltà di non avere lo stipendio. Ho accumulato oltre 20 mila euro di spettanze.

Non ero la sola. E nonostante questo andavamo avanti con la presa in carico dei giovani, contattando i possibili destinatari del progetto. Quando si trattava di attivare le "work experience", però, tutto si fermava. Karibu è stata totalmente inadempiente per la propria parte». E l’amarezza cresce se si accenna a Lady Soumahoro che, «mentre noi faticavamo ad andare avanti senza stipendio lei, tra tutti, era quella che ostentava di più».

Conferma Yussef Kadmiri, un altro lavoratore delle cooperative: «Marie Thérèse e i suoi figli sono andati avanti sempre con scuse, sempre dicendo che avevano i soldi bloccati e non potevano pagare. Adesso Marie Thérèse lo ha ammesso. Spero che finalmente mi paghi. Ma lo sapevano tutti. Lo sapeva anche Soumahoro. Veniva a portare la spesa per i ragazzi minorenni che erano trattati male, spesso non gli davano la colazione, poco cibo ed erano costretti a lavorare fuori e non andare a scuola perché gli toglievano anche il poket money».

«Quando vengono colpiti i simboli di battaglie vitali per i democratici e per la sinistra, si deve riflettere. Su come, soprattutto, vengono certe volte incoraggiate ed esaltate figure di cui si conosce poco o non del tutto la sostanza, la vita concreta, gli stili di comportamento», commenta il dem Goffredo Bettini. E Nicola Fratoianni, che candidò Soumahoro, a suo dire all’oscuro di tutto, comincia a prendere le distanze: «Siamo di fronte certamente a una storia non bella. C’è una dimensione che riguarda la magistratura. Per il resto c’è una dimensione politica, la vedremo nel suo sviluppo».

Caso Soumahoro, l'ex socio: "Ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega per evitare di spendere soldi in affitti di mezzi". Storia di Redazione Tgcom24 l’1 dicembre 2022.

"Striscia la Notizia" torna a occuparsi del caso Soumahoro. Dopo la risposta dell'ex sindacalista a mezzo Ansa al servizio del tg satirico in cui venivano fatte le pulci al bilancio della sua Lega Braccianti, anche il socio Soumaila Sambare ha deciso di parlare. "Ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega – dice Sambare – per evitare che di spendere un sacco di soldi in affitti di mezzi". Ma questo furgoncino non lo avrebbe acquistato la Lega Braccianti ma una delle associazioni della moglie di Soumahoro.

L'ex socio aggiunge un altro particolare: "Ci sono stati dei morti qui, Soumahoro poteva pagare il trasferimento delle salme in Africa. I soldi sul conto c'erano, perché non li usava?". Dal bilancio si evince che i soldi della raccolta fondi del 2020 e del 2021 non sono stati mai utilizzati. L'onorevole Aboubakar Soumahoro è finito nell’occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali gestite dalla moglie e dalla suocera e per i fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da "Striscia la Notizia", dei suoi due ex soci. Il tg satirico ha iniziato a contattare Soumahoro dal 25 ottobre per intervistarlo e avere la sua versione della storia. Ma fino a oggi non ha avuto risposte dirette.

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 30 novembre 2022.

Aboubakar Soumahoro non avrà fortuna nella scelta degli affini, ma ne ha sicuramente nell'acquisto delle case. Infatti il deputato con gli stivali, quando era ancora solo un sindacalista che difendeva gli interessi degli «invisibili» braccianti delle nostre campagne, ha acquistato un bel villino su due piani con taverna vicino al mare di Roma. E lo ha fatto a un prezzo davvero concorrenziale. Ha infatti comprato nel giugno di quest' anno per 360.000 euro un immobile che il vecchio proprietario aveva acquistato a 495.000 euro nel 2011. Quasi il trenta per cento in meno.

In questi giorni diversi professionisti hanno studiato il rogito e hanno notato, oltre all'ottimo prezzo, anche altre curiosità. Per esempio nel preliminare era intervenuta solo Liliane Muraketete, la compagna di Aboubakar, mentre all'atto definitivo, senza procedere alla cosiddetta electio amici (ossia la dichiarazione di nomina) è intervenuto anche il parlamentare.

Il preliminare è stato trascritto (con relativo surplus di spese) e, considerando che la caparra in parte è stata versata al notaio, alle nostre fonti è sembrato quanto meno irrituale. Nel prerogito, oltre ai 32.000 effettivamente anticipati (a cui si aggiungono i 5.000 dati in custodia al professionista), c'è una promessa di pagamento di 15.000 da eseguirsi entro i successivi 15 giorni.

Nell'atto definitivo risultano tutti i pagamenti, avvenuti in date diverse: i 32.000 di cui sopra; 10.000 euro inviati dal conto, sembra, di Liliane; 5.000 partiti da un'altra banca (erano la caparra del notaio?); un ulteriore invio da 3.000 euro probabilmente sempre della donna. Dei residui 310.000 euro, circa 264.000 provengono dal mutuo, gli altri arrivano dai Soumahoro: 96.000 euro in tutto tra preliminare e rogito definitivo. La coppia ha anche pagato 15.860 di mediazione.

L'immobile limitrofo, di analoghe dimensioni (130 metri quadrati contro 132) è stato pagato, nel 2019, 420.000 euro. Dunque non solo la casa ha visto crollare il proprio valore nell'arco di undici anni, ma è stata acquistata a un prezzo molto inferiore rispetto a un villino del tutto simile.

Tutto regolare? Facendoci un po' di coraggio abbiamo provato a chiedere al vecchio padrone di casa se per caso una parte dell'importo non sia stato corrisposto in nero.

Apriti cielo. A. V. si è molto arrabbiato: «Sono disponibile a parlare con voi purché non si facciano illazioni. Faccio l'imprenditore e non ho venduto questa casa con una parte in nero. Se andate a vedere sui siti immobiliari potrete verificare con i vostri occhi il valore di quella villetta. Con la crisi c'è stata una forte flessione sul mercato. L'immobiliare oggi non è un buon investimento.

Con mia moglie abbiamo impiegato oltre un anno per vendere quell'abitazione. Per noi era diventata piccola. Loro, come noi all'epoca, si sono innamorati di questa casa e l'hanno comprata. È stata l'offerta migliore che abbiamo ricevuto».

In realtà noi abbiamo visto che la casa adiacente è stata venduta a circa 420.000 euro «Lo ripeto: non accetto illazioni. Come avrei potuto accettare una parte di denaro in nero da uno sconosciuto portatomi dall'agenzia? Io non avevo nessun interesse a vendere una casa con una parte di soldi che non avrei potuto mai giustificare».

Gli facciamo notare che Soumahoro ha detto di aver potuto comprare il villino anche grazie ai proventi di uno suo libro. A. V. ribatte: «Io i soldi li ho ricevuti solamente dalla compagna. È lei che si è occupata dell'acquisto e ha fatto il preliminare con l'agenzia e solo dopo, al momento del rogito, è subentrato lui e hanno deciso di cointestarla. Stiamo parlando di poca cosa rispetto ai 60 milioni (quelli ricevuti dalle cooperative dei famigliari del deputato, ndr) di cui si parla tanto. La casa è poca cosa rispetto a tutto il resto. State prendendo un granchio secondo me».

E i bonifici arrivati in giorni diversi? «Credo che la signora abbia fatto ricorso a questo sistema di pagamento perché doveva racimolare dei soldi. Racimolare forse è una parola grossa. Stava mettendo insieme una riserva per poter acquistare l'immobile. Ma parliamo di poca cosa».

A. V. era al corrente di chi fosse Soumahoro? «Ho saputo solo dopo i primi incontri che era una persona famosa, molto nota. Io, però, non lo conoscevo prima. Quelli dell'agenzia mi hanno detto che era un sindacalista e che la moglie lavorava per una cooperativa.

Ma di più non saprei dire. Tutto quello che ho ricevuto, assegni e bonifici, sono stati tracciati e regolarmente riportati nell'atto».

A. V. ha incontrato i Soumahoro solo tre volte, nella fase di acquisto, e poi una quarta, quando è recato a recuperare la posta a Casal Palocco: «In quell'occasione mi sono accorto che avevano preso una cucina usata. Ognuno di noi spende i soldi come vuole e se vuole comprarsi la borsa di Gucci e poi mangiare pane e cipolle sono fatti suoi. Magari non è così.

O magari dietro a questa storia c'è tutto il marcio che sospettate, ma non lo troverete nell'acquisto di questa casa. Stiamo parlando di quattro soldi». Il denaro utilizzato per comprare la dimora è arrivato dalla stessa filiale in cui Soumahoro ha aperto un conto per ricevere i soldi delle donazioni destinate alla «sua» Lega braccianti.

Sulla piattaforma Gofundme è ancora attiva la raccolta fondi lanciata nel 2020 dal deputato (con l'oggetto «Campagna braccianti»). La raccolta è attiva dal 3 aprile di due anni fa (3 giorni prima che venisse attivata la partita iva della Lega braccianti) e a oggi risultano raccolti 225.000 euro. Il conto corrente su cui nel primo mese arrivavano i soldi non è, però, come detto, quello della Lega, bensì quello personale dell'ex sindacalista.

In quel momento l'Italia è in lockdown, ma nell'estratto conto di Soumahoro spiccano, oltre ai bonifici in entrata provenienti dalla piattaforma di raccolta fondi e una donazione di 5.500 euro fatta il 14 aprile dal presentatore televisivo Flavio Insinna, una serie di prelievi in contanti: due da 500 euro l'8 e il 9 aprile, un altro dello stesso importo il 15, 250 euro il 22 e il 27, giorno il cui Soumahoro effettua un secondo prelievo da 150 euro. Infine, 250 euro il 2 maggio.

Il 6 maggio il conto corrente aveva un saldo contabile di 101.105 euro. I movimenti dell'estratto conto in nostro possesso arrivano sino a quella data. La filiale dove venivano trasferite le donazioni, come detto, è la stessa in cui il 30 giugno di quest' anno Soumahoro e la compagna hanno sottoscritto davanti a un notaio romano il rogito per la villetta di Casal Palocco. Il parlamentare ivoriano e signora dovranno restituire il finanziamento in 360 rate mensili da 1.078 euro l'una, per un totale di 388.080 euro, garantiti esclusivamente da un'ipoteca del valore di 532.000 euro sull'immobile acquistato. Una somma davvero considerevole. Per sua fortuna l'ex sindacalista è riuscito a entrare a Montecitorio. E non per pulire le scrivanie.

Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per "La Verità" il 30 novembre 2022.

In tre anni, dal 2017 al 2019, la Prefettura di Latina ha applicato circa 490.000 euro di sanzioni alla coop Karibu che sono state detratte da quanto dovevano ricevere. In quel periodo la ditta guidata dalla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro ha gestito più di 2.500 migranti. Dal 2014 al 2019 la Prefettura ha pagato, al netto delle penali, circa 26 milioni di euro per i servizi di accoglienza. Molte di queste penali sono state pagate ai tempi del governo gialloverde, precedentemente le multe erano poco consistenti. Non sappiamo se andasse tutto bene o ci fosse un approccio ideologico.

È lungo l'elenco di esperienze su cui può contare la coop Karibu, citate dalla presidente Marie Therese Mukamitsingo (la suocera di Soumahoro) in una presentazione dell'azienda inviata al Viminale: ben 23 progetti finanziati tra il 2004 e il 2021 per un valore complessivo di 62.251.803 euro. Quelli di importo maggiore sono stati approvati dal ministero dell'Interno, (ma ne compaiono alcuni della Presidenza del Consiglio dei ministri e della Regione Lazio). Per l'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale ospitati nei Cas, i centri d'accoglienza straordinaria, il governo ha versato, come detto, tramite la Prefettura, 26 milioni di euro in sei anni. Ma ce ne sono anche un paio da 15 milioni di euro l'uno (30 complessivi) della durata di 15 anni (2004-2019). Uno per lo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) di Sezze e l'altro per quello di Roccagorga.

Lunedì abbiamo raccontato della lettera proveniente dal ministero dell'Interno e datata 31 gennaio 2019 inviata proprio al Comune di Roccagorga dal dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale. L'oggetto della segnalazione era il «Progetto Sprar 2014-2016 in prosecuzione ammesso al finanziamento del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo per complessivi 40 posti categoria ordinaria».

Nel documento si minacciavano 18 punti di penalità che avrebbero potuto portare alla «revoca del finanziamento» per questi due motivi: «Mancato rispetto della percentuale di posti destinati al Sistema di protezione indicata nella domanda di contributo»; «mancata corrispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati e/o mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitativi». Una carenza, questa, che rischiava di comportare «il venir meno dell'intero impianto progettuale e degli standard di accoglienza integrata».

«La vicenda della cooperativa Karibu sta portando alla luce una serie di vizi nella gestione da parte degli enti pubblici ai quali la cooperativa erogava il servizio di accoglienza degli immigrati» è il commento dell'ex assessore di Roccagorga Lubiana Restaini. La quale ha portato avanti la sua battaglia contro questo sistema insieme con l'ex presidente del Consiglio comunale Maurizio Fusco.

La Restaini è molto infastidita da quello che ha letto e sentito in questi giorni: «Per esempio l'ex sindaco Nancy Piccaro ha raccontato al vostro giornale di aver revocato il servizio affidato alla Karibu, ma non vi ha spiegato per quale ragione nello stesso giorno, il 22 dicembre 2020, con due distinte determinazioni, siano stati liquidati 13.250 euro e 24.233,49 euro per il ricalcolo dei pagamenti del progetto Sprar degli anni 2014 e 2015. Io e Fusco ci siamo domandati perché il Comune dopo 5 anni, a ridosso del Natale, abbia dovuto fare una ricognizione delle fatture pagate un lustro prima. Quando siamo venuti a conoscenza di queste operazioni poco chiare abbiamo preso le distanze. Fusco addirittura uscì dalla Lega ed entrambi ci siamo rivolti al Viminale e alla autorità preposte».

Infatti Fusco e la Restaini avrebbero presentato due esposti alla Procura di Latina, al Viminale e alla Corte dei conti sulla questione dei circa 37.500 euro liquidati alla Karibu a cinque anni di distanza «senza una precisa richiesta di ricalcolo da parte della coop» oltre che «senza autorizzazione ministeriale all'utilizzo di eventuali somme risparmiate».

Concluso il contratto per il progetto Sprar 2017-2019 il sindaco Piccaro, con una lettera firmata il 25 giugno 2019, espresse la volontà di portare avanti il progetto e il 29 ottobre 2019 la domanda di prosecuzione venne inserita sulla piattaforma ministeriale. Solitamente tale istanza viene avanzata in situazioni di particolare fragilità dei migranti oppure nel caso siano state risparmiate delle risorse, ma la proroga non può superare l'anno di durata.

«Il Comune nel 2020, con un accordo scaduto, ha liquidato quasi ulteriori 400 mila euro per i servizi di Karibu. Ma la convenzione 2016-2019 non prevedeva né estensioni, né proroghe e neanche rinnovi automatici. In base alla richiesta del Sindaco del giugno 2019, in attesa dell'esame della domanda da parte della commissione, un decreto ministeriale del 13 dicembre 2019 stanziò ulteriori 230 mila euro per sei mesi, precisando che l'affidamento dei servizi dovesse avvenire nel rispetto delle norme».

Recentemente la Karibu ha lamentato il mancato pagamento di 90.000 euro per i servizi prestati e ne ha chiesto il saldo. Un revisore sta verificando insieme con il ministero che la doglianza sia legittima. Ieri all'ispettorato del lavoro Mukamitsindo ha incontrato tre suoi ex dipendenti rappresentati dal sindacalista della Uil Tucs Gianfranco Cartisano. La vertenza di due cittadini marocchini che hanno denunciato di aver lavorato in nero sia per Karibu che per il consorzio Aid è stata rinviata, anche se la loro vecchia datrice di lavoro non ha respinto l'accusa, ammettendo di fatto le retribuzioni fuori busta.

Invece è stata chiusa la pratica di conciliazione monocratica di S.D., assistita anche dall'avvocato Fabio Leggiero. La donna è stata alle dipendenze della Karibu dal 2016 all'ottobre 2022. Reclamava 22 mensilità e il tfr per un totale di 21.600 euro. La presidente Mukamitsindo avrebbe ammesso le proprie responsabilità: «Sì è vero. Abbiamo fatto i contratti e non abbiamo pagato gli stipendi. Ma eravamo in difficoltà» avrebbe dichiarato all'interno dell'ufficio, provando a dilazionare la rateizzazione. Alla fine le parti si sono messe d'accordo per completare il versamento del dovuto entro il gennaio del 2024. Nell'accordo si legge che la Mukamitsindo «riconosce quanto rivendicato dal lavoratore». Chissà se adesso pagherà per davvero.

Giacomo Amadori per "La Verità" l’1 Dicembre 2022.

Non c'era nessun miracolo, nessuna imprenditrice da premiare, nessuna cooperativa modello. Nonostante per anni Marie Therese Mukamitsindo sia stata coccolata dalla politica e dai media, evidentemente interessati a tutelare gli interessi che ruotano intorno all'accoglienza dei migranti, adesso la regina è nuda.

Come anticipato dalla Verità, ieri il ministro Adolfo Urso ha svelato le sanzioni applicate alla coop Karibu dalla prefettura di Latina (491.000 euro in tre anni, a seguito di 22 ispezioni) e al consorzio Aid (38.000 euro dopo 32 ispezioni); quindi ha confermato la proposta di scioglimento fatto dagli ispettori per il consorzio Aid e ha anticipato i risultati dell'ispezione alla Karibu terminata verso le 21 di martedì, dopo circa 12 ore di indagini all'interno della struttura: la richiesta in questo caso è di liquidazione coatta amministrativa.

Il ministro Adolfo Urso l'ha spiegata con l'eccessivo indebitamento (circa 2 milioni di euro, un tema già ampiamente conosciuto ai nostri lettori). Il costante trend di peggioramento dei conti non lasciava intravedere vie d'uscita.

Urso ha dichiarato, come anticipato dalla Verità, che, dopo l'ispezione straordinaria all'Aid «le circostanze rilevate e la documentazione controllata hanno consentito agli ispettori la redazione del verbale» con la proposta di scioglimento e «la immediata notifica agli amministratori presenti».

Infatti gli ispettori hanno riscontrato «irregolarità non sanabili». Che, per la precisione, sono le seguenti: «Assenza di un reale scambio mutualistico, assenza di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell'ente». Inoltre, per il ministro, «è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio in quanto l'Aid di Latina non risulta espletare attività di coordinamento di cooperative collegate».

Per lo scioglimento la procedura è un po' farraginosa: prima che diventi effettivo, la proposta dovrà passare da un comitato centrale dove vi è una rappresentanza del mondo delle cooperative che esprimerà un parere obbligatorio, ma non vincolante. Più rapidi i tempi per la liquidazione della Karibu.

Dopo un primo tentativo di accesso, gli ispettori sono riusciti ad acquisire la documentazione rilevante e trarre le proprie severe conclusioni. Adesso la settima divisione della direzione vigilanza dell'ex Mise dovrà certificare la regolarità del lavoro ispettivo e adottare il provvedimento sanzionatorio. Poi, forse già questa settimana, il ministro nominerà il commissario liquidatore.

Il quale dovrà contestare ai vecchi amministratori eventuali responsabilità patrimoniali (ammanchi, distrazioni), che potrà segnalare anche alle autorità competenti.

Ma la vera novità di tutta questa storia è che la Karibu non sarebbe stata una cooperativa, ma una ditta a conduzione famigliare o al massimo un'associazione. Che nel giro di pochi anni avrebbe gestito più di 60 milioni di euro di fondi per l'accoglienza. Denaro che non è stato concesso solo dal ministero dell'Interno.

Per esempio anche il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese del Mise ha concesso circa 100 mila euro di aiuti alla Karibu tra il 2020 e il 2021. Un fiume di denaro erogato senza che nessuno si accorgesse della reale natura delle due coop sotto inchiesta. Una piccola holding che ha potuto non pagare oltre 1 milioni di euro di tasse e più di 100.000 euro di contributi previdenziali, pur mantenendo il Durc (documento unico di regolarità contributiva) immacolato sino a non molto tempo fa.

Eppure, come avrebbe candidamente ammesso la stessa presidente Mukamitsindo, la sua creatura non avrebbe avuto una vera struttura organizzativa. Tutto ruotava intorno all'ex profuga ruandese. Che aveva trasformato se stessa in una specie di Wanna Marchi dell'accoglienza.

Un'astuzia imprenditoriale ammantata di buoni sentimenti che ha potuto macinare soldi, fuori da ogni regola e controllo, sotto gli occhi distratti di istituzioni e donatori.

Insospettabile al punto che nessuno ha preso sul serio i tanti segnali di allarme che arrivavano, a partire dalle denunce dei lavoratori e dei migranti accolti nelle strutture gestite dalla Mukamitsindo.

Gli unici soci lavoratori presenti nei libri della Karibu erano lei stessa e il figlio Michel Rukundo, rispettivamente presidente e consigliere della coop. La prima (che risulta essere anche un'assistente sociale) percepiva circa 4.500 euro netti al mese, il suo ragazzo più o meno la metà (ma i suoi emolumenti raddoppiavano grazie alla presidenza in Aid).

C'erano poi 17 soci non lavoratori che erano veri e propri ectoplasmi.

Non risultavano neanche informati delle riunioni dell'assemblea dei soci. In una coop sana questi ultimi fanno molte cose, hanno scambi mutualistici, usufruiscono dei vantaggi che la coop genera, partecipano alle assemblee dove vengono prese le decisioni nell'interesse della cooperativa, vengono informati di eventuali contratti, approvano il bilancio. A Latina non accadeva niente di tutto questo.

Gli ispettori hanno letto dichiarazioni in cui si diceva che i soci erano stati convocati tramite posta certificata. Ma nel libro dei soci accanto ai nominativi di questi signori non c'erano gli indirizzi di pec. In Aid le convocazioni avvenivano tramite l'affissione di un foglio di carta nella sede legale del consorzio. Ma non è così che funzionano le cooperative. Sono gli organi amministrativi che devono inviare raccomandata, pec, qualcosa da cui risulti che il socio è stata raggiunto dalla comunicazione.

In sostanza tutti gli accertamenti hanno verificato che si trattava di assemblee farlocche che andavano completamente deserte. I soci erano figure svuotate di qualsiasi ruolo all'interno della vita democratica della coop, stavano lì per fare numero.

Nell'ultima assemblea della Karibu, indetta lo scorso 30 agosto per l'approvazione del bilancio, c'erano solo due nomi scritti nero su bianco: quella della Mukamitsindo e della figlia, «chiamata a fungere da segretario».

Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e «il consiglio di amministrazione al completo».

Ma per gli ispettori a quell'assemblea probabilmente non c'era nessuno se Marie Therese con i figli Liliane e Michel.

Il capitolo più interessante riguarda proprio la compagna di Aboubakar Soumahoro, la quale, ieri, attraverso l'Adnkronos ha rilasciato dichiarazioni in «giuridichese». Denunciando presunte campagne diffamatorie e rivendicando la regolarità dell'acquisto del villino di Casalpalocco in cui vive con il deputato con gli stivali, ha fatto sapere di non far «più parte della cooperativa né come membro del Cda, né come socia né tantomeno come dipendente». E, dopo aver precisato di non essere più consigliera da settembre, ha aggiunto di essere «in aspettativa dall'aprile 2022» e di essere «in attesa della corresponsione degli arretrati».

Insomma turlupinata tra i turlupinati, sebbene dalla propria madre o forse per colpa degli enti cattivi che non liquidano il dovuto (anche se al momento non risultano pagate poche decine di migliaia di euro a fronte di milioni di finanziamenti regolarmente incassati negli anni).

Ma gli ispettori, nelle carte della Karibu, hanno trovato due lettere che in parte smentiscono le dichiarazioni della donna. Si tratta di due scritture private vergate a mano dalla signora, con una grafia molto ordinata ed elegante. Una è datata 14 aprile (era giovedì santo), l'altra 13 maggio.

Con la prima Liliane annunciava le sue dimissioni dal Cda, nella seconda esprimeva la volontà di lasciare anche il ruolo di socio lavoratore della cooperativa. In entrambe le missive ringraziava e salutava. In calce la sua firma. Per gli ispettori si tratta di documenti che non avrebbero nessun valore giuridico perché le dimissioni avrebbero dovuto essere ratificate e ufficializzate dagli organi amministrativi e avrebbero dovuto essere comunicate alla Camera di commercio.

Per questo lei risulta ancora a tutti gli effetti essere un membro del consiglio di amministrazione. «Ha preso e si è messa da una parte. Ma in una coop si entra e si esce attraverso atti ufficiali» commenta una nostra fonte . Comunque, nonostante avesse espresso la volontà di lasciare dopo essersi una breve aspettativa, ha continuato a percepire il suo stipendio netto di oltre 2.000 euro sino al luglio scorso.

Ovvero sino a quando (era il 30 giugno) ha firmato il rogito e ha ottenuto il mutuo per il villino. Un finanziamento concesso probabilmente anche grazie anche alle buste paga della Karibu, da cui aveva già deciso di andar via. Prima di incassare 266.000 euro da rifondere in 360 rate mensili da 1.078 euro l'una, per un totale di 388.080 euro, aveva comunicato alla banca che da lì a pochi giorni avrebbe rinunciato allo stipendio e sarebbe diventata una «disoccupata»? Gli ispettori hanno verificato che l'ultimo cedolino è di luglio e conteneva anche il trattamento di fine rapporto. Alla fine ispettori e collaboratori hanno avuto l'impressione che Marie Therese e il figlio Michel abbiano vissuto gli accertamenti quasi come una liberazione. Di fronte alla tempesta mediatica e alle indagini penali, avrebbero manifestato quasi sollievo di fronte alla prospettiva di essere privati del controllo due società che sono diventate autentici fardelli.

Clemente Pistilli per "la Repubblica – Edizione Roma" l’1 Dicembre 2022.

Non ci sono stati solo gli ottimi rapporti con diversi Comuni pontini a garantire la gestione dei centri per migranti alle coop della moglie e della suocera del deputato Aboubakar Soumahoro.

Le cooperative ora al centro dell'inchiesta della Procura di Latina, che sta indagando sulle decine di lavoratori lasciati senza stipendio e sugli stranieri costretti a vivere con poco cibo, senza acqua e luce, sarebbero riuscite a incassare circa 65 milioni di euro in venti anni anche grazie alle Prefetture.

Soltanto il consorzio Aid, di cui è consigliera Maria Therese Mukamitsindo, ha infatti ottenuto ben 2,4 milioni di euro in soli tre anni dalle Prefetture di Latina e Lecce.

Tra servizi di accoglienza per richiedenti asilo e richiedenti protezione internazionale, nel 2018 la Prefettura di Latina ha dato 640.449 euro al Consorzio, che nel capoluogo pontino attualmente ha sede nello stesso immobile dove l'onorevole eletto con Alleanza Verdi e Sinistra ha stabilito la sede anche della sua Lega Braccianti.

Nel 2019 la stessa Prefettura ha poi concesso ad Aid oltre 914mila euro e oltre 640mila nel 2020. Ad affidarsi alla coop della suocera di Soumahoro non è però stata solo la Prefettura di Latina, dove Aid e Karibu sono radicate e dove hanno iniziato a muovere i primi passi sia Maria Therese Mukamitsindo che la figlia Liliane Murekatete.

Il Consorzio ha infatti ottenuto anche dalla Prefettura di Lecce 184.230 euro nel 2018 e tremila euro nel 2019. In Puglia, dove ha svolto larga parte della sua attività sindacale Soumahoro, quattro anni fa la stessa coop ha infine ottenuto, come emerge dai bilanci, 27.621 euro dalla Prefettura di Brindisi. Un fiume di denaro pubblico a cui, come ipotizzano gli inquirenti, non sarebbero corrisposti i servizi previsti.

Ieri intanto, rispondendo a un'interrogazione alla Camera di FdI, il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, ha sostenuto che la Prefettura di Latina, dal 2017 al 2019, dopo 22 ispezioni ha applicato circa 491mila euro di sanzioni alla cooperativa Karibù e che, negli anni 2018- 2022, dopo 32 ispezioni ha comminato 38mila euro di sanzioni ad Aid. Ben poco rispetto ai pagamenti fatti dalla stessa Prefettura.

Urso ha poi annunciato che, alla luce di quanto emerso dalle ispezioni avviate dal suo Ministero, nel Consorzio Aid sono state riscontrate « irregolarità non sanabili » per l'« assenza di un reale e autentico scambio mutualistico, di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell'ente » , e che « è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio», per cui gli ispettori hanno proposto lo scioglimento dello stesso. Ha poi aggiunto che è stata proposta pure la messa in liquidazione coatta amministrativa della Karibu, «per eccessivo indebitamento » . Cooperative a cui lo stesso Ministero, tra il 2020 e il 2021, ha concesso 110mila euro di aiuti con il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese.

Mentre Gianfranco Cartisano, segretario della Uiltucs, ieri ha chiesto al prefetto di convocare tutti gli enti che hanno affidato servizi alle due coop affinché si trovi una soluzione per i lavoratori non pagati, Angelo Tripodi, capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio ha poi criticato i silenzi dei vertici della Regione e dell'ex sindaco di Latina: « Gli esponenti di punta del Pd del Lazio prima hanno finanziato tutto questo senza controllare, andando a fare selfie e passerelle alle iniziative della Karibu. Ora tacciono sul sistema Latina».

Soumahoro, gli affari della famiglia col Pd: il caso si ingrossa. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 30 novembre 2022

Inchieste giudiziarie, le prime ammissioni di colpevolezza, ombre nere che riguardano i legami col Pd. Il "caso Soumahoro" si allarga. Ieri è stata una giornata molto tesa: i carabinieri fuori dalla porta dell'ispettorato del lavoro di Latina, mentre altri ispettori, incaricati dal ministero delle Imprese, nella vicina sede del Consorzio Aid stavano passando al setaccio i documenti dell'altra coop presieduta da Marie Therese Mukamitsindo, la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro indagata per truffa aggravata, fatture false e malversazioni. La cooperativa sociale Karibu doveva alla 30enne Stefania di Ruocco, sposata e mamma, oltre 20mila euro, e dopo due anni di rifiuti la Mukamitsindo, nella sede dell'ispettorato del lavoro, ha ammesso i mancati pagamenti: «È vero, non le abbiamo pagato gli stipendi per due anni». È la prima svolta.

GLI OBBLIGHI

Di fronte al conciliatore monocratico la suocera di Soumahoro ha accettato di pagare alla giovane gli arretrati: 21.595,20 euro- si legge nel verbale - che corrispondono alla tredicesima del 2020, a tutte le mensilità 2021, alle retribuzioni da gennaio a ottobre 2022. Mukamitsindo ha voluto liquidarla a rate. In passato ha già disatteso promesse simili, e dunque l'avvocato Fabio Leggiero, incaricato dal sindacato Uiltucs, ha imposto una condizione: la prima rata, 4.319 euro, a stretto giro, entro il 20 dicembre. «Il mancato pagamento nei termini previsti», dice a Libero, «darà la facoltà di richiedere la somma in un'unica soluzione».

In questo caso si è trattato di una lavoratrice che la suocera di Soumahoro aveva contrattualizzato, a differenza dei marocchini Youssef Kadmiri e Mohamed El Moutaraji, per i quali parlerebbero la sfilza di messaggiWhatsApp scambiati sia con Mukamitsindo sia con la figlia Aline, e però "lady Karibu" ha negato che abbiano lavorato per lei, o meglio, l'avrebbero fatto solo per poche settimane - sostiene - e si è rifiutata di pagarli. A complicare la posizione della famiglia Soumahoro dicevamo che potrebbero essere anche i rapporti col Pd. Si sta delineando un sistema di assunzioni e consulenze elargiti dalle due coop. A Roccagorga (Latina), quando amministravano i Dem, Karibu ha assunto un ex assessore comunale del Pd ai Servizi sociali, Tommaso Ciarmatore. Lo stesso Comune nel 2015 aveva ottenuto la gestione del centro d'accoglienza migranti. «In tutto questo il governatore del Lazio Nicola Zingaretti tace», tuonano i consiglieri regionali leghisti, «e tace anche il candidato alla presidenza Alessio D'Amato». Il deputato di Fdi Giandonato La Salandra ha presentato un'interrogazione parlamentare.

GLI INTRECCI

Ma anche nello stesso Pd, già nel 2015, c'erano dubbi, diciamo così, su certe operazioni: due consiglieri dem di Roccagorga, Fabiola Pizzulli e Francesco Scacchetti, avevano presentato un'interrogazione diretta all'allora sindaco, Carla Amici: «È stato approvato il piano d'accoglienza Sprar 20142016: per la provincia di Latina si riconosce al comune di Roccagorga il finanziamento più importante, 327mila euro l'anno. Alla luce delle ultime vicende che riguardano il sistema di lucro con i fondi per la gestione dei migranti chiediamo l'elenco dei trasferimenti al Comune di Roccagorga e alla cooperativa Karibu». In un comune di 4mila anime, 327mila euro all'anno a una coop. Ci sono poi stati funzionari che hanno affittato propri immobili agli stessi migranti.

E a Sezze, dove ha sede la coop, Karibu ha incassato in 18 anni 5 milioni e mezzo, senza gare d'appalto, tutto di proroga in proroga. Tutto sospetto. Intanto l'ex socio di Soumaoro, Soumaila Sambare, lancia nuove accuse: «Con i soldi del nostro conto Abou ci aveva promesso di comprare un pulmino per la Lega Braccianti per evitare di spendere un sacco di soldi in affitti di mezzi». Il pulmino lo avrebbe acquistato una delle associazioni della suocera Soumahoro. E poi: «Ci sono stati dei morti qui, Soumahoro poteva pagare il trasferimento delle salme in Africa. I soldi sul conto c'erano, perché non li usava?». I conti perla raccolta fondi, ha mostrato Striscia la Notizia, coincidevano con quelli di Abou. Coincidenze?

Così la coop della famiglia di Soumahoro era legata a esponenti del Pd. A Roccagorga, piccolo centro in provincia di Latina, elargiti centinaia di migliaia di euro per l'accoglienza dei migranti. E si scopre che l'assessore ai Servizi sociali era dipendente della coop Karibù. Tonj Ortoleva il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Quella della cooperativa Karibù, gestita da Marie Therese Mukamitsindo, suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, è una storia complessa fatta di proteste, denunce e gestione sui generis dell’accoglienza di immigrati e richiedenti asilo. Oggi si sono accesi i riflettori della procura di Latina che indaga Mukamitsindo per i reati di malversazione, truffa aggravata e false fatturazioni. Ma già da tempo c'erano dubbi e perplessità sulle modalità di gestione e sui rapporti con la politica in particolare in piccoli comuni della provincia di Latina.

La coop "regina" dell'accoglienza in provincia di Latina

La coop di Sezze Karibù ha vinto la prima gara per i progetti Sprar nel 2001. Fino al 2019 ha gestito l’accoglienza dei migranti grazie a una serie di proroghe (giustificate dalla continua emergenza) nel comune setino e poi in altre realtà della provincia pontina. Inoltre la Karibu, nel 2015, ha ottenuto anche la gestione dei Cas. Nel 2018 erano ben 51 su 129 i centri per l’accoglienza dei migranti gestiti da Karibu in provincia di Latina, accogliendo 2600 stranieri, dei quali 2200 richiedenti asilo. Una coop che aveva per le mani una montagna di soldi pubblici, qualcosa come cinque milioni e mezzo di euro in 18 anni.

Il caso Roccagorga

Sulle attività di questa cooperativa, gestita dalla suocera di Soumahoro e dalla moglie, Liliane Murekatete, si sono spesso addensate nubi fatte di proteste, lamentele e sospetti. Già nel 2018 balzarono alle cronache le denunce del capogruppo regionale della Lega, Angelo Tripodi, che dava eco alle domande sollevate dall’esponente del suo partito a Roccagorga, Andrea Orsini. La Lega aveva infatti “scoperto” che l’assessore ai Servizi sociali del comune di Roccagorga, esponente del Partito democratico, era anche dipendente della coop Karibù. Si tratta di Tommaso Ciarmatore che si è sempre difeso sostenendo che sì lavorava per Karibù, ma in un’altra sede. Come dire, non c’è alcun conflitto d’interesse. La cooperativa della famiglia di Soumahoro gestiva l’accoglienza dei migranti nel comune ed era “arrivata ad incassare anche 300 mila euro in un anno”, come spiega Tripodi. Il capogruppo regionale del Carroccio presentò all’epoca una interrogazione in Regione corredata di documenti, come “la determina del 13 settembre 2017 con cui, a di un progetto di accoglienza per 40 posti, l’ente riceve dal Ministero 535 mila euro all’anno per tre anni, con affidamento diretto del servizio alla Karibù”.

A Roccagorga, 5 mila anime sui Monti Lepini, Karibù ha gestito per quindici anni l’accoglienza dei migranti e quasi sempre alla guida del paese c’era una amministrazione di centrosinistra. La convenzione veniva rinnovata automaticamente alla scadenza di ogni triennio, fino ad arrivare all’ultimo rinnovo per il triennio 2016-2019. Solo nel 2014 Roccagorga ha ottenuto oltre 300mila euro di fondi per i rifugiati mentre tra il 2017 e il 2019, sono stati elargiti 535mila euro l'anno. I soldi per questo genere di servizio, ricordiamolo, sono erogati dallo Stato, non dai singoli comuni. Una gestione comunque oscura, come ricorda il capogruppo regionale della Lega Angelo Tripodi: “La coop Karibù ha da sempre un legame forte col Partito democratico e con i comuni che esso amministra in provincia di Latina. Affidamenti spesso senza gara, proroghe generose, immobili affittati dai dipendenti pubblici alla cooperativa o come nel caso di Roccagirga l’assunzione di un amministratore del Pd nella società della suocera di Soumahoro”.

Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” il 29 novembre 2022.

Non è tutto Soumahoro quello che luccica. Partiamo dalla vicenda del mutuo per la casa di proprietà, poi passiamo alla suocera, che da ieri è indagata anche per truffa aggravata. Ebbene l'ex sindacalista, ospite a Piazzapulita (La7), ha sostenuto di aver acquistato il villino "grazie" alla moglie. Ma lei, Liliane, è "disoccupata". Quali garanzie hanno dato alla banca per accedere al credito (270mila euro), ha domandato Corrado Formigli. Il deputato ha risposto che la sua fonte principale di reddito all'epoca del rogito era "Umanità in rivolta", il libro scritto per Feltrinelli.

Ok. Si può campare con i proventi di un manoscritto, comprandosi anche casa? Vediamo un po': il saggio in questione, uscito nel 2019, aveva un prezzo di copertina di 13 euro. Di solito le case editrici lasciano un dieci percento all ' autore, quando va bene. E diciamo che sia andata così, dal momento che Abou aveva alle spalle due padri nobili a fare da garanti: uno dei più importanti giornalisti politici italiani, Marco Damilano, e colui che è conosciuto nel mondo come il nostro più grande scrittore contemporaneo: Roberto Saviano. 

Nonostante gli sponsor e la promozione, a questo giornale risulta che "Umanità in rivolta" abbia venduto in tre anni poco più di 9mila copie. Tante per un esordiente. Poche, in relazione all'hype creato dai padrini intorno al personaggio. Ora due conti: un euro e spicci a copia (nelle librerie digitali oramai è in saldo) e viene fuori che Soumahoro ha ricavato dalla sua fatica letteraria poco meno di diecimila euro. Neanche i soldi per la proposta d'acquisto del bilivello in zona Roma Sud (quartiere dove vivono i calciatori della Roma). Insomma: "Qualquadra non cosa".

Ancora il libro: è il primo maggio 2019 e il paladino dei braccianti va dal Papa per donargli una copia. Ce lo porta Damilano, che a Francesco regala dei numeri dell'Espresso. La foto viene mostrata a Propaganda Live. Ma, sorpresa: secondo Striscia La Notizia dagli scatti sparisce la sbarra che separa Sua Santità dal nuovo "papa nero" della sinistra. Perché? Forse si vuole dare l'idea dell'intimità tra "colleghi". Forse Soumahoro è vittima inconsapevole del "caporalato" dei suoi mentori. 

Lo spintonano sulla strada che porta alla gloria. Ma lui inciampa. Sempre ieri Striscia ha raccolto le testimonianze degli ex soci di Abou nella Lega Braccianti. Mamadou Balde racconta: "Durante il Covid abbiamo fatto richiesta per l'assegno del reddito d'emergenza: l'accordo era che 25 euro sarebbero andati al patronato e 25 euro a noi braccianti". Però "quando i soldi sono arrivati e abbiamo chiesto la nostra parte, Soumahoro ha cambiato faccia e ci ha ignorato". Imbarazzante.

Ma perché i colleghi dell'uomo di origini ivoriane parlano solo ora e hanno taciuto all'epoca dei fatti? Boh. Sempre secondo Pinuccio di Striscia ci sarebbero delle irregolarità anche nelle spese per il trasporto merci della Lega Braccianti: "Gli ex soci di Aboubakar ci hanno fornito gli estratti conto di spesa e per i trasporti vengono fuori 3-4mila euro: gli altri 33mila dove sono finiti?". Va detto che Soumahoro non è indagato. 

Sua suocera invece sì. Per fattispecie penali pesantissime: truffa aggravata, false fatturazioni e malversazioni di erogazioni pubbliche. Le accuse dei pm di Latina nei confronti di Marie Therese Mukamitsindo si concentrano sulla "gestione opaca" delle coop Karibu e Consorzio Aid, che negli anni hanno ottenuto finanziamenti per cifre che superano i 60 milioni di euro. "L'indagine è a buon punto", spiegano gli inquirenti. 

La Guardia di Finanza da mesi sta passando al setaccio le voci di bilancio, i flussi di finanziamenti e le uscite di denaro per capire se i soldi che dovevano essere destinati ai lavoratori, siano stati dirottati altrove. «Una vicenda bruttissima», dice Angelo Bonelli (verdi), «mi ha colto alla sprovvista». Parlare di «diritto all'eleganza» in relazione alle Vuitton di Lady Soumahoro è «totalmente inopportuno».

Aboubakar Soumahoro, l'ex socio della Lega Braccianti denuncia: "Ci ha sfruttati per fare carriera". Storia di Redazione Tgcom24 il 30 Novembre 2022

Caso Aboubakar Soumahoro. A  "Striscia la Notizia" parla Mamadou Balde, uno degli ex soci della Lega Braccianti che denuncia il modus operandi del parlamentare di Verdi e Sinistra finito nell'occhio del ciclone per lo scandalo delle cooperative sociali nel Lazio gestite dalla moglie e dalla suocera, iscritta nel registro degli indagati. «Durante il Covid abbiamo fatto richiesta per l’assegno del reddito d’emergenza: Soumahoro ci ha detto di fare tutti domanda dal nostro patronato e l’accordo con lui era che 25 euro sarebbero andati al patronato e 25 euro a noi braccianti», racconta Balde intervistato dall'inviato di "Striscia" Pinuccio.

Mamadou Balde denuncia: «Abbiamo fatto più di 600 domande, peccato che quando i soldi sono arrivati e abbiamo chiesto la nostra parte, Soumahoro ha cambiato faccia e ci ha ignorato. Ci ha sfruttato, ha utilizzato noi migranti per fare carriera».

Che fine hanno fatto i soldi per il trasporto delle merci? Pinuccio evidenzia un'altra incongruenza: nel bilancio della Lega Braccianti presentato da Soumahoro nella trasmissione "Piazza Pulita", alla voce “spese per i trasporti delle merci” risultano circa 38mila euro. «Eppure, gli ex soci di Aboubakar ci hanno fornito gli estratti conto di spesa e per i trasporti vengono fuori 3-4mila euro: gli altri 33mila dove sono finiti?», domanda l’inviato di Striscia.

Clemente Pistilli per repubblica.it il 2 dicembre 2022.

"Sull’onestà di Aboubakar Soumahoro metto la mano sul fuoco. Ha la mia solidarietà totale". Di più: "Forse nei prossimi giorni ci vedremo qui a Riace. È una persona distrutta, contro di lui c’è una strategia finalizzata alla denigrazione del valore morale e dell’impegno di una vita".

Esploso il caso delle coop della moglie e della suocera del deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, al centro di un’inchiesta della Procura di Latina su tributi evasi, lavoratori non pagati e migranti costretti a vivere in condizioni terribili, sono state ben poche le voci che anche a sinistra si sono levate a difesa del sindacalista diventato parlamentare.

L’unico che ha cercato subito di blindare Soumahoro è stato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che impiegavano migranti, e condannato lo scorso anno dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio, ritenendo che avesse messo su anche una vera e propria associazione per delinquere.

Tra il cosiddetto "Modello Riace" di Lucano e quello della famiglia di Soumahoro emerge però ora un punto di contatto e a scovarlo è stato Angelo Tripodi, capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio, il primo a sollevare una serie di dubbi sugli affari della coop Karibu e del Consorzio Aid e a denunciare un "sistema Latina".

Il presidente della coop Promidea, Carmine Federico, indagato dalla Corte dei Conti della Calabria insieme a Lucano e ad altri rappresentanti di una serie di cooperative, ipotizzando un danno erariale milionario nella gestione migratoria, è stato impegnato anche nel Consorzio Aid. Il Consorzio – come sostenuto anche da Tripodi – ha avuto la sede legale, dal 2009 al 2014, a Rende, in provincia di Cosenza, allo stesso indirizzo della Promidea. Il 31 dicembre 2009, tra l’altro, quando il Consorzio ha approvato il bilancio su quel documento c’è la firma della presidente Maria Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e dello stesso Carmine Federico, nella veste di segretario. L’emergenza migratoria calabrese – conclude – mi sembra connessa all’accoglienza nel Lazio e a Sezze, ma anche con la Lega Braccianti e i ghetti del foggiano.

La Corte dei Conti della Calabria, alla luce degli accertamenti della Guardia di finanza, ha contestato a Lucano, Federico e altre 40 persone un danno erariale di oltre 5 milioni di euro, relativo a irregolarità negli affidamenti per la gestione dei centri di accoglienza per i migranti in Calabria. Il presidente di Promidea risulta anche nel consiglio direttivo del Consorzio Sfide di Roma, costituito nel 2018 per partecipare agli avvisi di Fondimpresa, essere amministratore della società Inet, presidente del CdA della coop Atlante, amministratore di Promidea Impresa Sociale, e risulta avere quote del Cosenza Calcio.

Il Consorzio Aid, al centro dell’inchiesta della Procura di Latina e degli accertamenti dell’Ispettorato del lavoro di Latina, che solo dalle Prefetture di Lecce e Latina ha incassato 2,4 milioni in tre anni, a fronte di sanzioni per soli 38mila euro comminate alla luce di irregolarità riscontrate con 32 ispezioni, rischia ora lo scioglimento.

Lo ha sottolineato il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, al termine dei controlli inviati alle coop di Mukamitsindo e Liliane Murekatete, aggiungendo che sono state riscontrate "irregolarità non sanabili", per "l’assenza di un reale e autentico scambio mutualistico, di partecipazione dei soci alla vita democratica e alle decisioni dell’ente", e che "è stata accertata la natura di cooperativa e non di consorzio".

"Sostengo da tempo – evidenzia il consigliere regionale Tripodi – che c’è un sistema Latina e i fatti sembrano darmi ragione. Aid ha approvato i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibù a Sezze mantenendo la sede legale a Rende. Sono un garantista, però, ci sono processi e inchieste importanti in Calabria, nel Lazio e in Puglia".

Da nicolaporro.it il 2 dicembre 2022.

Continua ad essere il caso mediatico più importante di questi ultimi giorni, quello relativo al deputato di Verdi-Sinistra Italiana, Aboubakar Soumahoro, al centro di una vera e propria grana politica per il caos che ruota attorno alla coop della suocera.

A non convincere sono anche le posizioni del deputato con gli stivali e di sua moglie, al centro delle diatribe proprio per non essersi mai accorti di quanto succedeva nei centri gestiti dalla suocera (di cui la figlia ne risultava essere consigliere). Nel corso di queste settimane, il sito nicolaporro.it ha ripercorso, da cima a fondo, tutte le varie sfaccettature relative al caso. Dalle dichiarazioni dell’ex senatrice SI Fattori, che ha raccontato le condizioni igienico-sanitarie precarie delle coop gestite, al pianto di Soumahoro in un video pubblicato sui suoi canali social, fino ad arrivare alla sua difesa negli studi televisivi di Piazzapulita, il caso è arrivato anche tra le stanze di Radio24, dove Giuseppe Cruciani, dai microfoni de La Zanzara, ha attaccato il parlamentare con gli stivali.

Il fatto riguarda il libro di Soumahoro, Umanità in Rivolta, con il quale (a detta dello stesso deputato) sarebbe riuscito a mantenersi grazie all’ingente somma guadagnata dalla vendita di copie. Ma il dato lampante è che il saggio ha venduto circa 9mila. Facendo due calcoli, se la casa editrice avesse corrisposto a Soumahoro una cifra pari al 10 per cento del costo di una singola copia (13 euro), ecco che il parlamentare avrebbe ottenuto una somma intorno ai 10mila euro di guadagno. Un buonissimo traguardo per un esordiente (il libro è del 2019), ma sicuramente non sufficiente per riuscire a vivere senza altri proventi.

E, a questo punto, interviene Cruciani: "Il signor Bruno Vespa, cosa doveva comprarsi con gli introiti dei suoi libri allora? La reggia di Versailles, il Campidoglio, che cosa?". E ancora: "Ogni giorno ne escono di cotte e di crude, adesso la suocera ammette di non avere pagato gli stipendi. Basterebbe questo per mettere la pietra tombale sulla vicenda Soumahoro e di qualsiasi persona lo abbia portato sul palmo di mano". Ma non finisce qui, Cruciani sentenzia: "Il simbolo dell’integrazione, il simbolo dell’Italia nuova, dell’immigrazione regolare, questo era Soumahoro ed in questo modo è crollato".

Fabio Amendolara e François de Tonquédec per "La Verità" il 2 dicembre 2022.

Ha continuato a ripetere «non sono interessata» per tutta la telefonata. Inutile cercare di spiegare a Dafne Malvasi, la poetessa nata a Bari ma partenopea d'adozione che a 27 anni in seconde nozze ha sposato nel settembre 2008 Aboubakar Soumahoro, quale fosse la finalità della telefonata.

Appena ha sentito il nome di Aboubakar si è arroccata, dribblando pure le domande sul matrimonio. A un successivo messaggio, quando le abbiamo spiegato che secondo alcune fonti risulta ancora sposata con Soumahoro, ha risposto stizzita: «Io non voglio entrare in alcun modo in una vicenda che non mi riguarda. Siamo divorziati. Non ho nulla a che fare con tutto ciò».

La fine della relazione resta avvolta dal mistero. Di certo, però, quelle nozze sono un tassello importante nella scalata verso la vetta da icona dell'ultrasinistra che Aboubakar aveva già cominciato a costruire. Nel 2008 a Napoli era già un personaggio. E, così tra un corteo, una manifestazione e un sit-in con Rdb, del quale diventò subito il referente nazionale del settore immigrazione (per poi mollare poco dopo la sigla passando alla Rete antirazzista), si sposò a favore di telecamere al Maschio Angioino di Napoli.

Con una sorridente Rosa Russo Iervolino, all'epoca sindaco, visibilmente orgogliosa di celebrare l'unione tra l'intraprendente ivoriano e la cittadina napoletana Dafne.

«Nozze miste, leader immigrati sposa ragazza di Pianura (popoloso rione periferico napoletano, ndr)», titolò l'edizione napoletana di Repubblica. Che nell'articolo definì «speciale» il matrimonio. Il Corriere della sera, invece, dedicò una foto-notizia, definendo l'evento «un bel matrimonio».

«Abou, così lo chiamano gli amici, è punto di riferimento di tutta la comunità africana in città» e Dafne «è una bella ragazza bionda del quartiere di Pianura a Napoli teatro, negli ultimi giorni, di episodi di intolleranza nei confronti della locale comunità di immigrati che si è affidata proprio ad Abou per cercare soluzioni alle gravi condizioni di degrado in cui vive». Insomma, quello per Abou era il momento giusto.

Con il matrimonio a Pianura tutti i riflettori erano ormai su di lui. Tanto da diventare protagonista, ha scoperto Striscia la notizia, di una puntata della trasmissione Un mondo a colori (Rai Educational) di quello stesso anno.

«Una unione che va ben al di là del sentimento di tolleranza», pontificò Iervolino durante la cerimonia, aggiungendo: «e che prelude a rapporti ben più profondi e duraturi tra due ragazzi come voi che provengono da due mondi molto diversi».

Un particolare, quest' ultimo, che non deve aver portato granché fortuna alla coppia. Dei due ancora insieme si trovano tracce fino al 2011 (parteciparono insieme a un sit-in). Iervolino augurò comunque «tutto il bene di questo mondo» agli sposini. Chi ha partecipato alla cerimonia ricorda un Abou commosso, che alla vista di Dafne in un classico vestito da sposa completo di velo, non riuscì a trattenere le lacrime. L'emozione svanì quando alla domanda di rito rivoltagli dal sindaco sulla volontà di sposare Dafne, Abou rispose con un forte sì che rimbombò nell'antica sala del castello. A immortalare la favola di Abou e Dafne c'erano fotografi e telecamere.

«Ci siamo conosciuti il 14 luglio del 2004 nella mensa universitaria», raccontò all'epoca Dafne. Nella sua biografia disponibile online Dafne Malvasi racconta di essere nata a Napoli e di vivere «temporaneamente» a Torino da «molti anni», dove attualmente lavora come social media manager per la filiale italiana di una multinazionale tedesca.

La donna che sul web si descrive come «attenta osservatrice delle tematiche legate al gender gap e parte attivista dei movimenti femministi», è stata la vincitrice del XII Premio Poesia Città di Pesaro, per il Premio Letterario Internazionale «La Donna si racconta». Ma nella sua biografia, oltre che per la poesia, c'è spazio per «il sud del mondo».

«È stata la presa della Bastiglia e io rimasi incantato», precisò Abou. Ma già a fine cerimonia, al momento della foto di gruppo, cominciarono a mostrarsi le prime contraddizioni. Davanti alle torri del castello, riportano le cronache dell'epoca, un gruppo di ambulanti extracomunitari si allontanò di corsa con la merce raccolta in un telo al sopraggiungere di una macchina della polizia municipale.

È così da sempre: lui davanti alle telecamere, quelli che chiama «fratelli», invece, a vendere per strada o a lavorare nei campi. Ciononostante di difensori d'ufficio Soumahoro ne ha ancora più d'uno.

«Tutto quello che si sta raccontando sulla Lega Braccianti sono bugie per colpire Abou per motivi legati alla politica», afferma Zare Issa, membro della lega fondata da Soumahoro. Per lui «non esiste violenza nel campo di Torretta Antonacci e non c'è nessun esercito armato, siamo solo un'associazione che aiuta i braccianti, ci aiutiamo l'un l'atro». E rivendica: «Abou si è battuto per noi, prima di lui non avevamo neppure l'acqua potabile qui a Torretta Antonacci, mentre oggi abbiamo anche i container dove dormire».

Bufera in Campidoglio dopo la nostra inchiesta Karibu Capitale. Rita Cavallaro su L’Identità il 2 Dicembre 2022

Pubblicata oggi su L’Identità, ricostruisce il fiume di denaro, per oltre due milioni di euro, versato dal Comune alla coop della suocera di Soumahoro, Maria Therese Mukamitsindo. Sulla questione è intervenuta la Lega di Matteo Salvini, che sul caso presenta un’interrogazione alla Giunta Gualtieri e chiede la riunione delle Commissioni capitoline, per chiarire la vicenda.

"La Lega chiede conto di quanto emerge sui rapporti del Campidoglio con la coop Karibu che fa capo alla suocera del deputato Alleanza Verdi Soumahoro. Cifre altissime, che dal 2016 ad oggi ammonterebbero a oltre due milioni di euro di cui duecentomila solo nel 2022. È necessario che gli assessori competenti riferiscano e siano immediatamente riunite le Commissioni capitoline preposte. Quanto accade è una vergogna, un fiume di denaro uscito dalle tasche dei contribuenti per l’accoglienza e l’assistenza sociale sul cui destino si deve fare piena luce: quanti soldi, dal 2016, con la giunta Raggi, ad oggi, con la giunta Gualtieri, sono stati pagati alla coop, e che cosa è stato fatto. Vogliamo leggere i bilanci, sapere quanti bandi sono stati vinti da questa cooperativa anche a livello regionale, con la giunta Pd e M5S guidata da Zingaretti e D’Amato, e se siano mai arrivate prima lamentele dai lavoratori o da chi era loro vicino". Lo dichiara in una nota il capogruppo della Lega in Campidoglio Fabrizio Santori, a proposito delle ultime notizie pubblicate sul caso della cooperativa Karibu. "Una situazione così grave lascia pensare anche ad una pressoché totale mancanza di controlli puntuali, seri ed accurati, non soltanto sul piano economico e gestionale, ma anche su quello dei diritti del lavoro, per la sicurezza, l’igiene, la sanità e la condizione dei dipendenti. Di tutti questi dovuti controlli attendiamo di conoscere il numero, le modalità e i contenuti", conclude Santori.

Quell'inchiesta su Mimmo Lucano e l'ex collaboratore della suocera di Soumahoro. Dar. Mar. Il Tempo il 02 dicembre 2022

Il Consorzio Aid della suocera di Aboubakar Soumahoro ha avuto la sede legale dal 2009 al 2014 a Rende, in provincia di Cosenza. Nella stessa via e allo stesso civico si trovava anche Promidea, cooperativa che ha come presidente Carmine Federico, che è stato indagato dalla Corte dei Conti su un presunto danno erariale da circa 5 milioni nella gestione migratoria in Calabria, insieme all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e a un'altra quarantina di persone.

Carmine Federico è stato anche un collaboratore della coop della suocera di Soumahoro. Il 31 dicembre 2009, infatti, il Consorzio Aid approvò il bilancio in cui figuravano Marie Terese Mukamitsindo, in qualità di presidente, e proprio Carmine Federico come segretario. Inoltre, Aid approvò i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibu a Sezze, mantenendo la sede legale però a Rende.

A scoprire le connessioni tra la cooperativa di Mukamitsindo e la Calabria, è Angelo Tripodi, capogruppo della Lega alla Regione Lazio, uno dei primi a parlare del "Sistema Latina", riferendosi alla gestione delle società che fanno capo alla famiglia del parlamentare di Verdi e Sinistra su cui ha finito per indagare anche la Procura del capoluogo pontino.

Soumahoro & Lucano: un loro collaboratore indagato dalla Corte dei Conti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022

A provare a difendere Soumahoro è stato Mimmo Lucano l' ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che utilizzavano migranti, vendendo condannato nel 2021 dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per "truffa", "peculato", "falso e abuso d’ufficio"

Esploso il caso delle coop della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro deputato eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, al centro di un’inchiesta della Procura di Latina su tributi evasi, lavoratori non pagati e migranti costretti a vivere in condizioni terribili, sono state ben poche le voci che anche a sinistra si sono levate a difesa del sindacalista diventato parlamentare."Sull’onestà di  metto la mano sul fuoco. Ha la mia solidarietà totale. Forse nei prossimi giorni ci vedremo qui a Riace. È una persona distrutta, contro di lui c’è una strategia finalizzata alla denigrazione del valore morale e dell’impegno di una vita".

A provare a difendere Soumahoro è stato Mimmo Lucano l’ ex sindaco di Riace, arrestato nel 2018, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due coop calabresi che utilizzavano migranti, vendendo condannato nel 2021 dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di carcere per "truffa", "peculato", "falso e abuso d’ufficio", ritenendo che avesse messo su anche una vera e propria associazione per delinquere.

Cosa unisce il "Modello Riace" di Lucano ed il modus operandi della famiglia di Soumahoro ? Esiste un punto di contatto scoperto dal capogruppo della Lega al consiglio regionale del Lazio, Angelo Tripodi, il primo a sollevare una serie di dubbi sugli affari della coop Karibu e del Consorzio Aid denunciando un "sistema Latina". Stiamo parlando di  Carmine Federico, presidente della coop Promidea, indagato insieme a Lucano e ad altri rappresentanti di una serie di cooperative, dalla Corte dei Conti della Calabria che ipotizza un danno erariale milionario nella gestione migratoria, il quale è stato impegnato anche nel Consorzio Aid.

Come evidenziato anche da Tripodi, il Consorzio Aid dal 2009 al 2014, ha avuto la sede legale a Rende in provincia di Cosenza, guarda caso allo stesso indirizzo della coop Promidea guidata da  Carmine Federico. Infatti quando il Consorzio Il 31 dicembre 2009 ha approvato il proprio bilancio sul verbale di assemblea compare la firma della presidente Maria Therese Mukamitsindo, la suocera dell’ on. Soumahoro, e dello stesso Carmine Federico, nella veste di segretario. L’emergenza migratoria calabrese sembra collegata all’accoglienza nel Lazio e a Sezze, ma anche con la Lega Braccianti e i ghetti del foggiano.

La Corte dei Conti della Calabria, sulla base degli accertamenti svolti dalla Guardia di finanza, ha contestato a Mimmo Lucano, Carmine Federico ed altre 40 persone un danno erariale di oltre 5 milioni di euro, relativo a irregolarità negli affidamenti per la gestione dei centri di accoglienza per i migranti in Calabria. Il presidente della coop Promidea Carmine Federico risulta anche nel consiglio direttivo del Consorzio Sfide di Roma, costituito nel 2018 per partecipare agli avvisi di Fondimpresa, essere amministratore della società Inet, presidente del CdA della coop Atlante, amministratore di Promidea Impresa Sociale, e risulta persino detenere quote di partecipazione del Cosenza Calcio.

"Sostengo da tempo che c’è un sistema Latina e i fatti sembrano darmi ragione" evidenzia il consigliere regionale Tripodi che aggiunge "Il consorzio Aid ha approvato i bilanci 2012-2014 nella sede di Karibù a Sezze mantenendo la sede legale a Rende. Sono un garantista, però, ci sono processi e inchieste importanti in Calabria, nel Lazio e in Puglia". Redazione CdG 1947

Liquidazione coatta per la "Karibu". Ma la Lamorgese firmò per altri soldi. L'annuncio del ministro Urso al Question time. Intanto da gennaio partono i rinnovi firmati dall'ex ministro dell'Interno: ai migranti dovrà essere trovata una nuova sistemazione. Antonella Aldrighetti su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

La vicenda imprenditoriale di Marie Therese Mukamitsindo, suocera del deputato Alleanza Verdi Sinistra Italiana Aboubakar Soumahoro, sta volgendo al termine. Gli ispettori del ministero delle Imprese e del Made in Italy inviati a Latina, dopo aver verificato diverse irregolarità hanno proposto lo scioglimento del consorzio Aid e la liquidazione coatta della cooperativa Karibu. Lo ha riferito il ministro Adolfo Urso al question time specificando: «Il ministero dell'Interno ha informato che la prefettura di Latina, negli anni 2017-2019, a seguito di 22 ispezioni, ha applicato circa 491.000 euro di sanzioni alla cooperativa Karibu. E che negli anni 2018-2022, a seguito di 32 ispezioni, sono state comminate sanzioni nei confronti di Aid per un ammontare complessivo di circa 38.000 euro». Nel frattempo dovranno essere ripristinati i termini dell'accoglienza cui le coop della Mukamitsindo avrebbero dovuto fare fronte. Non bisogna dimenticare infatti i rinnovi firmati dall'ex ministro dell'Interno Lamorgese il 21 settembre e in vigore da gennaio 2023 a dicembre 2025. Rapporti contrattuali e appalti per Aid e Karibu a Latina, Priverno e Sezze per un totale annuo 2.868.622,27 euro ovvero 5.737.244,54 nel biennio. Prefettura, Comune e Viminale ora dovranno trovare una nuova collocazione per gli stranieri. Ci sarebbero inoltre altre 20 richieste di intervento in capo all'Ispettorato del lavoro di Latina per il riconoscimento degli emolumenti da corrispondere ad altri lavoratori migranti. Vale a dire che, sull'intero fronte, le indagini andranno avanti.

Sul fronte opposto invece la figlia della Mukamitsindo, Liliane Murekatete compagna di Aboubakar: un'intervista rilasciata all'AdnKronos punta il dito contro il sistema mediatico, lamentando un atteggiamento persecutorio e promette querele contro coloro che l'hanno diffamata «cinica griffata» per «affibbiarmi icastici titoli derisori». L'allusione è all'epiteto di «Lady Gucci», mentre spiega che: «Gran parte delle foto risale al 2014-2015, quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e non avevo ancora conosciuto il mio compagno». Già, infatti Soumahoro nel 2008 aveva sposato a Napoli Dafne Malvasi, un matrimonio a dir poco speciale al Maschio Angioino celebrato dall'allora sindaco Rosa Russo Iervolino, che gli è valso la cittadinanza italiana. Successivamente l'allora sindacalista dell'Unione sindacale di base si trasferì a Torino dove portò a frutto ulteriori battaglie pro migranti e poi a Roma, come dirigente nazionale. Qui iniziò l'ascesa politica e al contempo, nell'ambiente dell'accoglienza, iniziarono a circolare voci di gestione anomala dei ricavi raccolti, tra sottoscrizioni e fondo cassa, nelle baraccopoli di Foggia. Era il 2020 quando Abou fu attaccato frontalmente dall'Usb: «Si chiedeva conto di dove fossero finiti i soldi, alcune centinaia di migliaia di euro, raccolti attraverso ripetute sottoscrizioni finalizzate a portare cibo, durante il periodo del lockdown, nei ghetti dove vive una fetta importante del bracciantato migrante del nostro Paese, una sorta di cassa di resistenza». Di lì a poco Soumahoro fondò la Lega dei braccianti. Mentre l'Usb lo diffidò contro intimidazioni e strumentalizzazioni dei migranti nelle baraccopoli. Tant'è che a Torretta Antonacci, a Foggia, i migranti scaricarono presto Soumahoro che, di rimando, ha lasciato il seggio pugliese a Betta Piccolotti, moglie di Nicola Fratoianni.

Così Soumahoro e l'Usb Caruso dettavano legge tra i braccianti. Hanno basato entrambi la loro carriera politica sui migranti, l'uno nel Pd e l'altro in Rifondazione. Due carriere parallele poi naufragate in maniera simile. Bianca Leonardi su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

«Lo scontro nel ghetto è da sempre tra Soumahoro e Caruso»: così riferiscono a Il Giornale gli abitanti di Torretta Antonacci, il ghetto foggiano dove entrambi i protagonisti sembrerebbero aver costruito le proprie carriere. Da una parte Aboubakar Soumahoro, a capo della Lega Braccianti; dall'altra Francesco Saverio Caruso, delegato Usb a Foggia che si occupa - a nome del sindacato - delle questioni legate al Gran Ghetto.

«Gli uomini della Lega Braccianti e dell'Usb ci chiedono soldi per portarci a lavorare e per qualsiasi altra cose, anche per un materasso»: queste le principali accuse rivolte ai due «capi-clan». La loro storia si intreccia proprio all'interno del sindacato, dove Soumahoro ha militato per decenni fino all'abbandono, nel 2020, quando ha deciso di costruire la sua realtà.

Da lì, la guerra: tanto che i fedelissimi del deputato con gli stivali, ex soci della Lega Braccianti, sembrerebbero passati a Usb. Uno su tutti Alpha Barre, che è «l'uomo del ghetto che nel suo capannone ha una cassaforte per tenere i soldi chiesti ai braccianti», ci racconta una persona che vive a Torretta Antonacci da più di 20 anni. E se la storia di Soumahoro è ormai cosa pubblica grazie alla potenza mediatica che negli ultimi anni è riuscito a costruire, quella dell'ex deputato di rifondazione comunista, Caruso, non sembra poi così diversa. Entrambi a fianco dei più deboli, in lotte ideologiche a sostegno degli ultimi. Proprio il rappresentante di Usb salì agli onori della cronaca quando durante il G8 venne accusato - e poi prosciolto - insieme ad altri militanti no global, movimento a cui apparteneva, di associazione sovversiva per aver organizzato gli incidenti durante la manifestazione del 2001. L'anno dopo, nel 2022, fu arrestato su ordine della procura di Cosenza con l'accusa di «sovversione, cospirazione politica e attentato agli organi costituzionali dello Stato». Nonostante questo, nel 2006, venne candidato da Rifondazione comunista - non senza dissenso - e ottenne il mandato alla Camera.

Proprio come successo con Soumahoro (la cui candidatura è stata messa in dubbio da Bonelli), anche Fausto Bertinotti, al tempo, affermò su Caruso che la sua proposta del suo nome era stata una «mossa poco felice». Ad accomunare i due casi anche l'estrema spettacolarizzazione in nome della libertà e della giustizia: Soumahoro incatenato davanti a Montecitorio «per far sentire la voce dei braccianti» e Caruso barricato - nel 2006 - all'interno di un centro di permanenza temporanea in provincia di Crotone.

Ed anche sulla gestione dei fondi i due capi di Torretta Antonacci sembrano seguire lo stesso modus operandi. Aboubakar inchiodato per quelle donazioni sospette che «non sono mai arrivate qui», come affermano i braccianti del ghetto, e Caruso condannato a restituire un'ingente somma di denaro per aver ricevuto un finanziamento pubblico che doveva servire per la costituzione di un network e di un giornale dei centri sociali campani, ma che poi, come accertato dalle indagini, è stato usato per scopi personali.

Ad oggi, sia Soumahoro che Caruso sembrerebbero agire nell'ombra del ghetto, delegando ai loro uomini gli affari. «Abbiamo paura di Usb e di Lega Braccianti», raccontano infatti i lavoratori di Torretta Antonacci. Entrambi hanno scelto il silenzio, tanto che proprio Usb non ha risposto a nessuna delle accuse mosse nei loro confronti ma anzi, riferiscono a Il Giornale fonti Usb che preferiscono restare anonime, «non è il caso di parlare di Soumahoro visto i casini che ci sono stati tra noi e lui».

Insomma, gli slogan sono gli stessi: da «libertà e autogestione» per Soumahoro a «certe leggi hanno armato le mani dei padroni» di Caruso, in un contesto in cui - stando alle testimonianze - quei padroni sembrerebbero proprio loro.

Veleni di Selvaggia Lucarelli sull'avvocato della moglie di Soumahoro, lui la querela. Il Tempo il 02 dicembre 2022

Selvaggia Lucarelli attacca l'avvocato di Liliane Murekatete, moglie del parlamentare Aboubakar Soumahoro: "Ha difeso Priebke". La giornalista e giurata di Ballando con le Stelle si rivolge direttamente a Lorenzo Borrè: "Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione", scrive su Twitter, scatenando sui social diverse reazioni polemiche, a favore e contro, la sua presa di posizione.

Da notare l'utilizzo dell'aggettivo "griffato", chiaro riferimento alle foto che la compagna di Soumahoro ha pubblicato sui suoi profili sociali anni fa in cui sfoggiava abiti o borse firmate. Pochi giorni fa, Murekatete si è sfogata contro il "racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata".

Non si è fatta attendere nemmeno la replica di Borrè: "Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post", dice il legale. Le parole della giurata di Ballando gli non sono piaciute. "La quelererò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale. Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.

"Peraltro - punge il legale - non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".

Estratto dell’articolo di Marina de Ghantuz Cubbe per repubblica.it il 3 dicembre 2022.

L’avvocato di Liliane Murekatete, moglie dell’onorevole Aboubakar Soumahoro, è Lorenzo Borrè. Una scelta che sta facendo discutere perché il legale, noto anche per essere la spina nel fianco del M5s, in passato ha difeso il criminale di guerra nazista Erich Priebke, condannato all'ergastolo per aver partecipato alla realizzazione dell'eccidio delle Fosse Ardeatine nel 1944. 

Murekatete ha deciso di adire le vie legali "nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking" dopo la bufera scoppiata per l’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu fondata da sua madre, Marie Therese Mukamitsindo, indagata per truffa aggravata, false fatturazioni e malversazioni di erogazioni pubbliche.

Ma torniamo a Borrè: da ragazzo ha fatto parte del Fronte della gioventù […]. Poi la carriera da avvocato e lo studio in Prati da cui ha difeso trentuno ex pentastellati espulsi dal partito fondato da Beppe Grillo. Su 31 espulsioni impugnate, facendo le pulci allo statuto del M5s ha ottenuto la reintegrazione di tutti i suoi assistiti. Con buona pace di Grillo che un tempo è stato anche il suo di leader. Fino al 2012, quando è fuoriuscito dal Movimento dicendosi pentito. […]

"L'ex avvocato di Priebke...". La Lucarelli sferza la moglie di Soumahoro. Liliane Murekatete ha scelto Lorenzo Borrè come avvocato: duro l'intervento di Selvaggia Lucarelli contro la moglie di Soumahoro. Francesca Galici su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

Che i Soumahoro siano diventanti ingombranti anche per la sinistra, lo dimostra una storia pubblicata questa mattina da Selvaggia Lucarelli. La giornalista ha commentato la vicenda che da giorni riempie le pagine di cronaca con una considerazione personale: "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c'era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione". Che il suo avvocato sia Lorenzo Borrè è cosa nota, visto che è stata lei stessa a riferirlo nel corso di una lunga intervista concessa all'agenzia Adnkronos: "In questo piano inclinato non posso quindi fare altro, al momento, che dare incarico al mio avvocato, Lorenzo Borrè, per adire le vie giudiziarie nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking".

Al di là del caso di Erich Priebke, agente della Gestapo e capitano delle Ss durante la Seconda guerra mondiale, Lorenzo Borrè è spesso definito come "l'avvocato dei 5s", perché dal suo studio di Roma Prati sono passati oltre 30 ex esponenti del Movimento 5 stelle espulsi dal partito, che si sono rivolti a lui per avviare un'azione contro il Movimento. L'azione di Borrè, per quanto concerne i 5 stelle, è stata efficace, considerando che nel 2016 è riuscito a far reintegrare 20 espulsi napoletani nel partito. Liliane Murekatete Punta sulle competenze dell'avvocato per uscire dal turbinio mediatico nel quale è stata coinvolta per la gestione di due cooperative nella provincia di Latina insieme a sua madre.

"A questo processo mediatico non mi presto né intendo prestarmi: se l'autorità giudiziaria me lo chiederà, non avrò problemi a dimostrare la liceità dell'acquisto, ma respingo culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche", ha detto ancora Liliane Murekatete, che non vuole nemmeno essere chiamata "Lady Gucci", così come da tempo l'hanno soprannominata nella zona in cui operano le coop e come viene chiamata dai quotidiani da quando è esploso il caso mediatico, che la giustizia segue da ben prima che arrivasse sui giornali.

La gogna contro i familiari. Intervista a Lorenzo Borré: “Ecco perché attaccano me per la difesa della moglie di Soumahoro”. Nicola Biondo su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

Entrare nello studio dell’avvocato del Diavolo incute soggezione. E se l’avvocato si chiama Lorenzo Borré viene facile trasformare i pregiudizi in realtà: venti anni fa ha difeso, da giovane assistente di studio, il criminale di guerra nazista Erich Priebke e oggi è finito sui media perché difende Liliane Murekatete, moglie del deputato verde Aboubakar Soumahoro al centro di inchieste legate alle cooperative di famiglia. Scatenando una tempesta mediatica che rivela molto dell’idea di giustizia che scorre nell’intestino del Paese.

Iniziamo a curiosare le stanze dello studio, magari ci scappa lo scoop: un drappo nazista da collezione, qualche busto mussoliniano, un reperto da Thule. Niente di tutto questo, dannazione. Lo studio dell’avvocato del Diavolo è di una noia mortale, solo stampe tibetane e Budda. Tutto è iniziato con una domanda dell’intervistato. “Perché mi vuole intervistare?”. “Mi manda la Costituzione -è la risposta- l’art.24 in particolare: la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. E così inizia l’intervista riprendendo il giusto binario: il cronista domanda, l’intervistato risponde.

Il suo nome è ovunque avvocato, è il cattivo del giorno, il difensore dei nazisti dal quale si dovrebbe stare lontani. La signora Murekatete rimane una sua cliente nonostante il clamore?

Credo proprio di sì. Non mi ha chiesto il curriculum. Senza volerlo sono diventato un nuovo feticcio morale dell’intrattenimento populista. Il messaggio che sta passando poggia su un’aberrante logica secondo cui l’avvocato è di buona reputazione se difende le persone buone, ma è da allontanare come la peste se ha patrocinato i diritti dei cattivi. Di conseguenza è cattivo, pessimo, e stupido chiunque si rivolga all’avvocato medesimo.

Perché la signora Murekatete si è rivolta a lei?

Mi occupo da sempre di tutela della privacy e della reputazione e lei sostiene che questi suoi diritti siano stati lesi. Tutto molto semplice. Ora forse toccherà a me trovare un legale per tutelare la mia reputazione.

Perché?

Chi predica che l’avvocato che ha difeso un criminale di guerra nazista deve essere per forza un nazista, sostiene il fallimento della nostra cultura giuridica e, con esso, il collasso deontologico dell’avvocatura, con conseguente cortocircuito: applicando l’assioma della naturale contiguità ideologica tra l’avvocato e il proprio assistito si spalanca il baratro della criminalizzazione dell’avvocatura: basti pensare ai corollari che ne discenderebbero per i processi di mafia, per quelli su casi di stupro, tratta degli schiavi, traffico di stupefacenti, pedofilia. Mi dica lei se questo ragionamento possa essere quello di un difensore della legalità democratica.

Qualcuno dice che lei avrebbe addirittura protetto Priebke, è vero?

Il signore in questione, che scrive per un importante quotidiano, è incorso in un abbaglio colossale, confondendomi con un altro avvocato. Come ha visto non ho busti del ventennio in studio e nemmeno a casa, unica nota coloniale: una foto d’epoca di un guerriero dubat. Che poi sarebbe anche singolare che un nazista accetti di difendere una donna di colore, non crede? Come Lei sa ho partecipato a convegni accanto a luminari del diritto come Cassese e Onida e sa che le dico: un avvocato non democratico è una contraddizione in termini.

Forse tutto questo è spiegabile con l’espressione “business dell’attenzione”, che fa appello alle pulsioni perché è da lì che ha deciso anche di sostanziare la sua posizione nel mondo.

Conosco bene il populismo giudiziario, esercitato nelle sue varie forme. Un chirurgo opera tutti, non chiede chi è e cosa ha fatto il suo paziente. Ho la sensazione però che ciò che lamenta la mia assistita continui ancora adesso, utilizzando me come strumento.

Spieghi meglio questa sensazione.

La signora non può che essere giudicata negativamente a maggior ragione perché sceglie un avvocato cattivo, non democratico, non allineato. Perché ha scelto appunto l’avvocato del diavolo.

Lei sta facendo capire che c’è un tentativo di far apparire la sua cliente come una Circe, l’unica persona che deve pagare, al di là delle responsabilità penali che andranno accertate, per lo scandalo politico che ha coinvolto il marito, è così?

La signora Murekatete è stata gettata in un tritacarne mediatico, nella logica “colpevole a prescindere”. Una barbarie.

L’ordine degli avvocati si è fatto sentire da lei?

Già una volta intervenne in mia difesa quando venni inserito in una lista di proscrizione pubblicata su Facebook da un consigliere municipale del M5S. Oggi è tutto più grave perché è sotto attacco lo stesso concetto di libera avvocatura. Confido in una nuova ferma presa di posizione perché come disse una volta il giudice Alfonso Sabella, uno che di crimini efferati e di giustizia se ne intende, “quella dell’avvocato è una delle professioni più nobili al mondo e merita rispetto, anche i criminali peggiori hanno diritto alla difesa”. Nicola Biondo

Selvaggia Lucarelli e il vecchio vizio di sovrapporre cliente e avvocato. Dal caso Mollicone, alle polemiche su Lorenzo Borré, legale di Liliane Murekatete. Storie di avvocati “processati” dal Tribunale del popolo. Valentina Stella su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.

«Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione»: con questo tweet del 2 dicembre Selvaggia Lucarelli sembra essere caduta nel solito cliché per cui l’avvocato è assimilabile al suo assistito e al reato da lui commesso.

Basterebbe replicare come fece il famoso avvocato francese Jacques Verges: «Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis». Eppure si tratta di una distorsione culturale che interessa purtroppo una grossa fetta dell’opinione pubblica. Lo dimostrano i tanti casi che vi raccontiamo spesso su questo giornale.

Il più recente riguarda l’omicidio di Serena Mollicone ad Arce. A luglio di quest’anno la Corte di Assise di Cassino ha assolto l’intera famiglia Mottola dall’accusa di aver ucciso ventuno anni fa la giovane. Fuori dal Tribunale sia i Mottola che i loro avvocati e consulenti hanno rischiato un vero e proprio linciaggio: sono stati aggrediti dalla folla inferocita con spintoni e sputi e la situazione si è resa talmente incandescente che sono dovute intervenire le forze dell’ordine per creare un cordone intorno a loro per condurli nella sede dove era stata programmata una conferenza stampa. Come ha detto l’avvocato Francesco Germani, a capo del pool difensivo: «È molto triste vivere in un Paese dove per fare una conferenza stampa bisogna essere scortati dalla polizia, è molto triste ed amaro vivere in un Paese che non rispetta le sentenze dei giudici perché si ritiene da parte dei più che giustizia significhi solo condannare».

Poco prima vi avevamo partecipato la storia di tre avvocati viterbesi – Domenico Gorziglia, Marco Valerio Mazzatosta, Giovani Labate – colpevoli, secondo gli hater di Facebook, di assistere due giovani ex militanti di CasaPound arrestati nell’aprile del 2019 per lo stupro ai danni di una 37enne, avvenuto in un pub del capoluogo laziale. Così hanno scritto: «Ma gli avvocati sono i peggio», «i due vanno condannati in base alle leggi, vanno puniti, ma chi andrebbe arrestato seduta stante deve essere l’avvocato» e ancora «Lasciateli al popolo, saprà fare giustizia più di quella togata… non dimenticate il legale che andrebbe anche radiato». La Camera penale viterbese ha presentato anche querela con gli odiatori social e nonostante la richiesta di archiviazione del pm, il gip ha disposto nuove indagini, deducendo che la querela è stata giustamente presentata dalla Camera Penale di Viterbo che ha tra i suoi scopi statutari quello di «tutelare la dignità, il prestigio ed il rispetto della funzione del difensore».

E che dire delle minacce di morte ricevute da Massimiliano e Mario Pica, ex legali di tre indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte? Allora commentò con noi il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza: «Il clima è quello tipico di un Paese che ha smarrito la cultura civile e liberale. L’avvocato, in un contesto imbarbarito dai processi che si svolgono parallelamente sui media, diventa un ostacolo alla giustizia sommaria, quindi da minacciare ed eliminare». Ad aprile dello scorso anno vi abbiamo raccontato la storia di due avvocate di Brescia S.L. e M.M processate e insultate dal Tribunale del popolo per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale: «Ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza»; e persino più grave: «Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati».

Altro caso mediatico, altro attacco agli avvocati. Andrea Starace e Giovanni Bellisario, legali di Antonio De Marco, reo confesso del duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis, sono finiti nel mirino dei leoni da tastiera: «Anche l’avvocato dovrebbe andare in carcere», «non vi vergognate a difenderlo», «se le vittime fossero stati i vostri figli vi sareste comportati allo stesso modo?».

Nel 2017 alcuni balordi diedero fuoco alla macchina dell’avvocato Pierluigi Barone. Dopo ricevette una telefonata anonima al suo studio: «Il tuo cliente è un assassino», riferendosi ad uno dei cinque giovani, difeso da Barone, indagato al tempo con altri per omissione di soccorso per la morte del 18enne Matteo Ballardini. Proprio al Dubbio l’avvocato raccontò che nella telefonata fecero altre minacce: «Mi hanno detto che poi toccherà alla casa, e poi a mia moglie. Paura? Io sono un legale e non mollo i miei clienti. Questo modo di fare violento mina i principi base della Costituzione e della civiltà. E noi non possiamo cedere».

«Volevo complimentarmi con gli avvocati Mario Scarpa e Ilaria Perruzza, che assistono i 4 maiali stupratori di Rimini! Complimenti per la dignità che avete dimostrato nell’accettare la difesa e non aver rifiutato! Questo Stato tra qualche anno li promuoverà facendoli entrare a pieno diritto nella Casta dei Togati. Nel frattempo speriamo che il tempo regali ad entrambi l’esperienza vissuta dai due polacchi», fu invece uno dei tanti messaggi gravemente offensivi indirizzati ai due avvocati che assunsero l’incarico difensivo di quattro immigrati accusati dello stupro e della violenza avvenuti nei confronti di una giovane polacca e di un suo amico. Come scrisse Ettore Randazzo: «Tutti devono essere processati e dunque difesi. Incondizionatamente; altrimenti basterebbe un’accusa grave e infamante per giustiziare sommariamente una persona, espellendola dal consesso civile; non possiamo di certo consentire una simile barbarie».

Lucarelli censore del nulla: "Moglie Soumahoro sceglie Borrè, ex avvocato di Priebke". E si becca una querela ! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022

All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet. All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale"

L’alza-palette di "Ballando con le Stelle", Selvaggia Lucarelli pubblicista da Civitavecchia ha scritto oggi su Twitter questo commento (bloccando inutilmente la visione al nostro giornale): "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione" scatenando sui social diverse reazioni polemiche sulla sua presa di posizione.

il tweet che la Lucarelli non voleva farci vedere

"Da avvocato, questa volta non sono d’accordo con te, Selvaggia. Noi abbiamo il dovere di rappresentare e difendere legalmente l’Assistito e non siamo, in alcun modo, associabili alle condotte o procedimenti dello stesso. Ogni avvocato ha poi il proprio stile di comunicazione", la stoppa subito @MirkoMelluso. Interviene in risposta all’avvocato e alla Lucarelli, @BettoMandolini "Curiosità, è mai esistito un avvocato difensore che di fronte all’evidenza, scoperta logicamente in un secondo tempo, abbia abbandonato il proprio assistito?".

E la scia continua con Emily74: "Magari alcuni avvocati potrebbero scegliere di non accettare incarichi anche se mediaticamente importanti, se la persona è oggettivamente indifendibile (Priebke). Ognuno risponde alla propria coscienza e si c’è un problema di comunicazione". E poi con @fantprecario: "Proprio perché indifendibile deve avere un avvocato. C’è chi si è fatto ammazzare per difendere le br pur sapendo di andare al patibolo ed essere contrario alle loro idee. Si chiama giustizia".

Botte e risposte vanno avanti: "La questione personale qui è irrilevante. Libero di scegliersi il cliente. Ad es non difenderei mai uno di Italia viva. Quello che rileva è che ciascuno, anche Veltroni ove imputato debba avere diritto a un giusto processo", dice @fantprecario. La lista delle frecciate reciproche fra chi la pensa come la Lucarelli e chi no è ancora lunga. E non manca chi storce talmente il naso da scrivere, come fa @JonnyFirebead: "Ma adesso si ‘giudica’ un avvocato dai suoi clienti? E che dovremmo pensare degli avvocati della Lucarelli?".

"Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post". All’avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di ‘ex avvocato di Priebke’ come se fosse un disdoro professionale", annuncia Borrè all’Adnkronos. "La Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke…", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.

"Peraltro non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, – aggiunge il legale – della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".

Finalmente qualcuno ci auguriamo darà una "lezioncina" in tribunale alla "tuttologa-pubblicista" nota alle cronache solo per le polemiche ricercate e talvolta provocate, dissertando su tutto dall’alto del nulla.

Redazione CdG 1947

Avvocato uguale indagato”: Lucarelli precisa. Ma qualcosa forse le sfugge…La precisazione della giornalista sul caso di Lorenzo Borré, legale di Liliane Murekatete. E la risposta del direttore del Dubbio. Il Dubbio l’8 dicembre 2022.

Gentile direttore,

leggo sul suo giornale un articolo dal bizzarro titolo “Selvaggia Lucarelli e il vizio di confondere la difesa dell’imputato con la difesa del reato”. Segue una lunga lista di casi di avvocati minacciati e insultati per aver difeso assassini e stupratori. A questa lunga lista, appunto, viene associato un mio tweet che nulla ha a che fare con l’argomento trattato. Il tweet era: “Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione”. Dunque, sottolineavo il rischio di un inciampo in chiave di comunicazione, visto che la signora è accusata di aver violato diritti umani e di aver danneggiato la sinistra e ha scelto di rivolgersi a un avvocato ex Fronte della gioventù, noto soprattutto per aver difeso Priebke. La mia perplessità era per giunta sensata, visto che molti giornali hanno riportato la notizia della curiosa scelta di quell’avvocato (per giunta già data da Il Fatto prima di me), confermando una mossa comunicativa poco indovinata. Per il resto, sottolineo che io stessa in passato mi sono rivolta a uno dei tanti avvocati di Priebke, quindi direi che l’accusa di associare gli avvocati ai reati di cui si occupano non dovrebbe riguardarmi. E dovreste essere così gentili da non includermi in ragionamenti così barbari e semplicistici.

Grazie, Selvaggia Lucarelli

Gentile Selvaggia Lucarelli,

la sua “precisazione” ci fa molto piacere. Come avrà capito noi del Dubbio siamo parecchio sensibili all’argomento e “ossessionati” dai numerosi inciampi logico-dialettici per i quali gli avvocati diventano magicamente complici se non addirittura correi dei propri assistiti. È capitato spessissimo in passato, e continua ad accadere ogni giorno. E le posso assicurare che la nostra Valentina Stella, nel suo articolo, ha mostrato solo una parte della macelleria dei diritti e del massacro che subiscono sia gli avvocati sia gli indagati, la cui presunzione di innocenza è quotidianamente asfaltata da una informazione, quella sì, semplicistica e barbara. D’altra parte siamo certi che lei sia perfettamente in grado di distinguere tra le due categorie: tra chi esercita il diritto alla difesa di ognuno di noi e chi è invece accusato di aver commesso delitti spesso orrendi, come nel caso di Priebke. Ciò non toglie che anche nel suo tweet ci sembra di rintracciare un paio di sbavature. Nel momento in cui anche lei scrive che la signora Liliane Murekatete, la moglie di Soumahoro, avrebbe fatto bene a scegliersi un avvocato diverso dal difensore di Priebke, ammette implicitamente che sì: talvolta la sovrapposizione tra avvocato e cliente è fisiologica, inevitabile.

Provo ad anticipare la sua legittima obiezione: “Io non ho mai detto che la signora Liliane Murekatete avrebbe dovuto scegliere un altro legale perché identifico l’avvocato di Priebke con i reati commessi dal suo vecchio assistito; io l’ho fatto perché conosco il mondo della comunicazione e so bene che questo argomento sarebbe stato usato contro di lei”. Cosa che – gliene diamo atto – è puntualmente accaduta. E qui siamo alla seconda obiezione: ammettere che la scelta di un avvocato possa condizionare l’opinione pubblica, significa infatti cedere alla mediatizzazione del processo penale, vero male della nostra giustizia. È questo, gentile Lucarelli, che abbiamo cercato di mettere in luce. E confidando di avere una nuova alleata contro la carneficina dei diritti e il massacro della reputazione dei nostri avvocati, siamo certi che la avremo accanto nelle nostre battaglie quotidiane.

Davide Varì, direttore de Il Dubbio

«Sono una garantista. Soumahoro è innocente fino a prova contraria».  L'avvocata e deputata di Fratelli d’Italia, fa il punto, a quasi due mesi dall’inizio della XIX legislatura, sui primi passi mossi dal governo Meloni. Ma parla anche del caso giudiziario che ha travolto l'ex sindacalista. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 7 dicembre 2022.

Sara Kelany, avvocata e deputata di Fratelli d’Italia, fa il punto, a quasi due mesi dall’inizio della XIX legislatura, sui primi passi mossi dal governo Meloni. Un’analisi che tiene conto anche della vicenda dell’onorevole Aboubakar Soumahoro, nei confronti del quale è scattata la solita gogna mediatica, che, però, non deve far finire su un secondo piano alcune questioni legate alla gestione dei fenomeni migratori.

«Fratelli d’Italia – spiega al Dubbio Sara Kelany -, subito dopo le elezioni politiche dello scorso 25 settembre, ha indicato una direzione chiara. Rispetto al programma sia del centrodestra che del mio partito, il presidente Meloni ha iniziato subito a seguire delle linee programmatiche molto precise. Si tratta di un percorso individuato non solo nell’ultima campagna elettorale, ma già qualche tempo prima nella conferenza di Milano. In tutto questo vedo una grande continuità».

Onorevole Kelany, di recente la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha manifestato vicinanza ai sindaci e ha rilevato che bisogna intervenire in materia di abuso d’ufficio. Qualcuno parla di “svolta garantista” di Fratelli d’Italia. Cosa ne pensa?

Io mi stupisco quando ci si viene a dire “svolta garantista” di Fratelli d’Italia. Il partito al quale appartengo non è mai stato giustizialista. Anche rispetto alla questione specifica dell’abuso d’ufficio, come il presidente Meloni ha avuto modo di chiarire bene, durante l’assemblea dell’Anci, la linea non è cambiata affatto. Sulla questione della “svolta garantista” mi permetto sommessamente di dire che se noi non fossimo stati un partito garantista, non ci sarebbe mai stata l’indicazione come ministro della Giustizia di una persona del calibro di Carlo Nordio. Eravamo e siamo consapevoli delle qualità del ministro della Giustizia, che, tra l’altro, è stato ospite della nostra conferenza programmatica di Milano. Fratelli d’Italia sta, dunque, seguendo un percorso naturale. Con riferimento all’abuso d’ufficio il presidente Meloni ha detto quello che in realtà chiedono tutti i sindaci. Pertanto, più che “svolta garantista” parlerei di “svolta pragmatica”. Mi faccia però aggiungere un’altra cosa.

Prego, dica pure…

La necessità che l’abuso d’ufficio venga rivisto, nonostante la norma sia stata ritoccata più volte, dimostra attenzione verso i sindaci, impegnati in prima linea sui territori. Si tratta, inoltre, di una necessità bipartisan, come dimostrano, per esempio, le dichiarazioni del sindaco di Firenze e del presidente dell’Anci, da affrontare senza paletti ideologici. La percentuale delle archiviazioni e delle assoluzioni con riferimento al reato di abuso d’ufficio nei confronti degli amministratori è altissima. Si tratta di una ulteriore spia che indica la necessità di apportare dei cambiamenti per evitare che le PA vadano incontro alla paralisi con la famosa paura della firma.

Lei si è espressa in maniera chiara sul caso del suo collega deputato, Aboubakar Soumahoro, affermando la contrarietà a “sparare ad alzo zero contro un avversario su questioni giudiziarie tutte da accertare”. Una critica chiara contro la gogna mediatica?

Bisognerebbe affrontare le cose con molta più serenità e soprattutto con cognizione di causa. Il collega Soumahoro non è neanche indagato. Il problema, quindi, non deve essere considerato di natura giudiziaria. Anche perché ci sono i Tribunali che giudicano e le Procure che indagano. Occorrerebbe che anche la stampa fosse, più che meno attenta, meno strillona rispetto a quelle che sono le vicende giudiziarie. Spesso e volentieri possono trasformarsi in una bolla di sapone. Il problema del caso Soumahoro è di natura strettamente politica.

A cosa si riferisce nello specifico?

La vicenda di cui stiamo parlando ha scoperchiato, secondo me, il vaso di Pandora rispetto alla gestione dell’immigrazione a livello territoriale. Il politico ha il dovere di guardare queste vicende sotto la lente non dell’innocentismo o del colpevolismo, ma sotto la lente della dinamica politica sottesa a determinati fatti. La dinamica politica parla di una gestione sconsiderata dei flussi migratori non solo a monte. Fratelli d’Italia si approccia alla questione dell’immigrazione con grande attenzione e oculatezza. Il blocco navale, per esempio, è necessario nei termini di una missione europea congiunta di pattugliamento delle coste del Mediterraneo per evitare le morti in mare. Il problema migratorio si presenta pure a valle in merito alla gestione dei centri di accoglienza e dei migranti sul territorio. Di qui il tema delle garanzie da fornire a chi sbarca sul suolo italiano. La vicenda Soumahoro ha messo in luce una serie di situazioni ed eviterei di aizzare il caso giudiziario, mentre mi soffermerei di più sul caso della gestione delle cooperative che si occupano di immigrati.

Il successo elettorale di FdI sta mettendo in crisi l’altro partito di destra della coalizione, la Lega?

Fratelli d’Italia è anche un partito territoriale. Abbiamo tanti contenuti. La crescita di FdI si è consolidata nel tempo e non è casuale. Siamo partiti nel 2012, fra pochi giorni celebreremo i primi dieci anni di vita. Siamo eredi di Alleanza nazionale, siamo poi confluiti nel Pdl. Io personalmente cammino al fianco del presidente Meloni da quasi trent’anni, per la precisione da ventisette. Siamo abituati a pensare il partito in termini territoriali. Abbiamo tanti amministratori capaci con esperienza ultra- decennale. Per questo io credo che FdI andrà incontro ad una crescita esponenziale sui territori.

Stiamo per celebrare il Natale con la guerra in Europa, come ottant’anni fa. Il vecchio continente fa i conti con i fantasmi del passato?

La speranza è che la guerra in Ucraina si risolva il prima possibile. Come già chiarito dal presidente Meloni in più occasioni, noi siamo senza esitazioni al fianco dell’Ucraina. Se una soluzione del conflitto si può immaginare, questa può avere come base la possibilità per l’Ucraina di difendersi da un attacco ingiustificato da parte della Russia. La chiarezza della nostra posizione in politica estera è sotto gli occhi di tutti.

Giustizia, il reato non è tutto. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022.

Partiti, pm e realtà. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie 

I casi di cronaca con forte impatto politico accendono spesso un derby tra cosiddetti garantisti e cosiddetti giustizialisti. L’aggettivo «cosiddetti» qui è d’obbligo perché accade non di rado che opposte fazioni si scambino le parti secondo convenienza: chiedendo punizioni per gli avversari e invocando tutele per gli alleati. La presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio (per tutti, non solo per amici e affini) è già prevista dall’articolo 27 della Costituzione.

E tuttavia in Italia la teoria è spesso contraddetta dalla prassi. Così, dopo decenni di conferenze stampa usate da pubblici ministeri e investigatori per esibire arrestati e indagati (neppure rinviati a giudizio) quali trofei del Male sconfitto, è stato necessario correre ai ripari. Il nostro Paese, patria del diritto, ha dovuto farsi dettare da una direttiva europea del 2016 i criteri minimi di decenza per assicurare che la comunicazione pubblica di un’indagine non diventi una gogna per chi è finito nelle sue maglie. Abbiamo impiegato cinque anni per raggiungere il «compiuto adeguamento» dell’ordinamento interno alle previsioni dell’Unione europea e ci siamo riusciti con un decreto legislativo accorto e forse perfino più restrittivo della direttiva da cui origina, tanto da sollevare qualche perplessità tra gli addetti ai lavori.

In realtà, al netto di sempre possibili miglioramenti, non si può che essere lieti se un perimetro garantito di civiltà giuridica viene ripristinato nel rapporto tra la giustizia penale e l’informazione. E però non si può non ricordare che l’informazione ha doveri a prescindere dalla sfera giuridica di una vicenda. Il vizio consolidato di pescare a strascico dalle «carte» della Procura lacerti di verbale o di intercettazione contro l’indagato per spararli in pagina, così contribuendo a una gazzarra politica dove non si capiscono più torti e ragioni, non va confuso in alcun modo con gli obblighi che l’informazione ha verso i cittadini: il principale dei quali resta quello nei confronti del cittadino-elettore.

In democrazia i media (suoi «cani da guardia» secondo un’immagine un po’ retorica ma sempre viva) servono a segnalare a chi deve esercitare il diritto di voto se il politico che sta per essere eletto ne sia degno o se il politico già eletto stia facendo con dignità e onore il suo mestiere (ex articolo 54 della nostra Costituzione). E tutto questo, si badi, a prescindere dall’esistenza o meno di un’indagine della magistratura. Se il candidato Tizio fa campagna elettorale sostenendo di essere una bicicletta, non è inappropriato che i giornalisti vadano a controllare se abbia due ruote al posto delle suole. Se entra in Parlamento un sindacalista con gli stivali coperti del fango dei campi, per segnalare al mondo che il suo mandato sarà tutto rivolto a proteggere i diritti degli ultimi e il lavoro di braccianti e immigrati, il minimo che deve attendersi è che i media vadano nei campi e nei ghetti da cui è venuto per verificare la qualità delle sue promesse. Non lo si fa sempre, è vero, e questo è sbagliato. Ma è esattamente ciò che si è fatto nel recente caso dell’onorevole Aboubakar Soumahoro.

A prescindere dai suoi esiti, la vicenda del neoparlamentare eletto con Alleanza Verdi e Sinistra è preziosa perché segnala alcune peculiarità: ma, attenzione, non nel circuito tra giustizia e informazione quanto piuttosto in quello tra informazione e politica. A differenza di tante altre vicende in cui è sacrosanto invocare il garantismo perché la stampa si muove al traino di un’inchiesta giudiziaria, qui è l’inchiesta che s’è mossa, con cautela, al traino della stampa. I cronisti sono andati alla fonte diretta della notizia, da quei migranti e da quei rifugiati che si presumeva fossero protetti nei centri d’accoglienza gestiti dalla suocera e dalla compagna di Soumahoro e che negli anni s’erano ribellati più volte per le pessime condizioni delle strutture. Il resto, dalle borse griffate della signora Soumahoro sino alla difficoltosa autodifesa del deputato, è contorno e si iscrive alla voce delle umane debolezze. La sostanza è una finzione svelata, che chiama in causa da una parte la cronica opacità di molte cooperative che si occupano di migranti e dall’altra la difficoltà crescente nella selezione della nostra classe politica. Perché solo ora, dato che le proteste nei centri d’accoglienza erano reiterate negli anni? Perché adesso il ruolo dell’onorevole rende lecito il pubblico scrutinio anche sugli affari di famiglia.

Questa non è in alcun modo una vicenda penale (il deputato non è indagato e non ha parte attiva nelle cooperative della suocera e della compagna): è una vicenda tutta politica. E lo è anche per un altro motivo, segnalato da Alessandro Campi sul Messaggero: ci costringe a riflettere sulla costruzione in laboratorio di un falso mito ad uso di un’ideologia o di una leadership, rimandando ad altri casi, il più assonante dei quali è quello di Mimmo Lucano. Anche l’ex sindaco di Riace venne innalzato dalla sinistra radicale e dal sistema mediatico (non solo italiano) come simbolo della giustizia sociale, salvo rifiutare un seggio europeo sicuro, che pure gli era stato offerto, ed essere risucchiato poi dalle sue stesse leggerezze di gestione dentro un processo che ha già portato a una condanna in primo grado.

L’ostensione della bontà è un potente prodotto da veicolare in un mondo politico la cui profondità di visione si ferma a un tweet. Ma fa un salto di specie quando incrocia una pessima legge elettorale. Soumahoro, sul conto del quale erano già arrivati segnali di perplessità dai territori fino alle orecchie dei leader che lo hanno candidato, era stato bocciato dagli italiani nel confronto diretto: il 25 settembre aveva perso contro Daniela Dondi di Fratelli d’Italia, nel collegio uninominale di Modena, storico feudo della sinistra. Ma era stato ripescato in Lombardia nella lista plurinominale del centrosinistra grazie al proporzionale: con quel meccanismo sempre deprecato e sempre immutabile che assegna ai segretari di partito diritto di vita o di morte sui candidati in virtù della posizione nel listino. E che, di fatto, spezza il rapporto tra eletto ed elettore, base di qualsiasi dialettica democratica, almeno in teoria.

Soumahoro e il giallo della salma spedita tre volte in Mali. La Lega Braccianti ha dichiarato che parte di due raccolte fondi su GoFoundMe sono state utilizzare per spedire la stessa salma in Mali: una era quella per i regali dei bambini e l'altra per sostenere le spese di uno sciopero. Francesca Galici il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

"Striscia la notizia" continua a scavare su Soumahoro. Da quando è scoppiato il caso delle coop legate alla famiglia di Aboukabar Soumahoro, deputato eletto con Sinistra italiana e Verdi, l'inviato Pinuccio ha iniziato un'inchiesta seguendo il filone che non solo porta alle coop ma anche alla Lega Braccianti, il sindacato fondato proprio da Soumahoro. Sono state numerose le persone intervistate che hanno rivelato le proprie verità al telegiornale satirico di Antonio Ricci. Striscia la notizia ha anche dichiarato di aver più volte cercato di contattare il deputato, fin dallo scorso 25 ottobre, senza aver ancora ottenuto una risposta.

La prefettura di Latina toglie gli affidamenti alla coop della famiglia di Soumahoro

Nell'ultima puntata andata in onda, quella del 2 dicembre, Pinuccio ha intervistato la direttrice di GoFundMe, Elisa Finocchiaro, perché alcune delle raccolte fondi online promosse dalla Lega Braccianti sono state aperte proprio su quella piattaforma. In particolare, l'inviato di Striscia la notizia ne ha individuate tre, lanciate con lo scopo dichiarato di aiutare chi vive nei ghetti dei braccianti. Iniziative lodevoli da parte di Aboubakar Soumahoro, che infatti hanno ottenuto un ottimo riscontro nelle donazioni. Gli obiettivi dichiarati di ciascuna erano diversi: una era per l’acquisto di cibo durante la pandemia; una per i regali di Natale ai bambini del ghetto; la terza per organizzare uno sciopero. In tutto, sono stati raccolti così 280.000 euro.

Ma, stando a quanto riferisce Pinuccio, i conti non tornerebbero. "Come ci ha detto la direttrice della piattaforma, negli aggiornamenti che doveva pubblicare la Lega Braccianti si trovava una sorta di rendicontazione. Però siamo andati a vedere gli aggiornamenti fatti sotto la raccolta per i regali di Natale e troviamo una cosa strana", dice Pinuccio nel servizio. L'inviato riferisce che "tra gli aggiornamenti giustificativi di spesa c'è la spedizione di una salma di un migrante". Un uso diverso rispetto allo scopo per la quale è stata lanciata la campagna, confermato anche dalla direttrice, intervenuta telefonicamente: "Aboubakar Soumahoro non ha dichiarato di averli recapitati a dei bambini, ha dichiarato di averli recapitati a Borgo Mezzanone alle persone presenti in quell'occasione senza specificare l'età dei beneficiari".

Ci sarebbe un elemento ancora più particolare dall'inchiesta portata avanti da Pinuccio. "Se andiamo a vedere gli aggiornamenti fatti sotto la raccolta fondi per lo sciopero a Roma c'è un aggiornamento uguale: anche lì sono stati usati fondi per spedire una salma. Solo che la salma è la stessa. L'hanno mandata due volte, è strano", dice l'inviato. A voler essere precisi, però, le date di aggiornamento delle due raccolte fondi sono le medesime: 20 gennaio 2022. Quindi è probabile che siano stati utilizzati fondi dall'una e dall'altra raccolta per il medesimo fine, perché forse solo con una non si sarebbe raggiunto l'importo necessario per il rimpatrio della salma. Resta però il punto dell'utilizzo dei fondi dei donatori per scopi diversi rispetto a quelli dichiarati. "Sulla piattaforma abbiamo una forma di garanzia che prevede che viene dimostrato l'utilizzo improprio dei fondi rispetto a quello che viene dichiarato sul testo della campagna, tutti i donatori vengono rimborsati. Li rimborsiamo noi e poi, ovviamente, in base alla lettera di attestazione facciamo i nostri passi successivi", spiega Elisa Finocchiaro.

Ma per il rimpatrio della stessa salma, Aboubakar Soumahoro aveva lanciato una raccolta fondi dal suo profilo Facebook il 4 gennaio di quello stesso mese. In quel caso, la raccolta passava attraverso le coordinate bancarie del conto corrente intestato alla Lega Braccianti.

Soumahoro e il "grand hotel migranti". Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La suocera del deputato "sistemò" 100 persone in un albergo fallito

Nuovo triste capitolo della saga sulle coop Soumahoro. Protagonista la Karibu, con presidente la suocera del deputato di sinistra Aboubakar Soumahoro che nel 2014 decise di sistemare i «suoi» migranti all'interno di un hotel di Latina fallito.

La struttura in questione è l'Hotel de la Ville, un quattro stelle - si fa per dire, stando alle recensioni - sottoposto a fallimento nel 2013 emesso dal giudice delegato Fabio Miccio del Tribunale di Roma, a causa delle istanze di tre creditori. L'hotel sarebbe dovuto finire sotto il controllo del curatore fallimentare in attesa di un'asta ad evidenza pubblica che ne decretasse i nuovi proprietari, ma non andò proprio così. Una società privata, infatti, continuò ad affittare le stanze dell'hotel ai turisti. Ed è in questo scenario che entrò in gioco Karibu firmando addirittura un contratto di locazione con la suddetta società per accogliere i migranti. Ciò avvenne senza nessun controllo da parte dei piani alti tanto che tra il 2016 e il 2017 all'interno di quella struttura alloggiarono turisti e migranti contemporaneamente. A confermare ciò le recensioni su Tripadvisor di alcuni clienti.

«Dopo la consegna delle chiavi attraverso un corridoio coperto con tende alquanto fatiscenti - si legge in una recensione del 2016 - da una parte noto un gruppo di extracomunitari fuori a fumare. Proseguendo lungo le scale cominciano (i migranti, ndr) a scendere in ciabatte, non mi rendevo conto di dove mi trovassi. Entro nella mia camera squallida a dir poco, con moquette e mobili orrendi, la porta che non chiudeva e gli uomini fuori a guardare. Sono subito tornata alla reception per ritirare i documenti e andarmene, la signora aveva il diritto di avvisarmi della situazione».

Gli ospiti non sarebbero stati infatti avvertiti che avrebbero soggiornato in quello che, concretamente, era un casolare sporco e degradato, ma che sulla carta Karibu presentava come centro di accoglienza all'avanguardia. E ancora: «Nemmeno il tempo di entrare in possesso delle chiavi della camera, che si apre la porta della sala da pranzo e fuoriesce una quarantina di extracomunitari. Non fraintendete - si legge nella recensione di un altro ospite, sempre nello stesso anno - ma come è possibile che non vengano informati anticipatamente gli eventuali clienti?».

Si scopre, poi, che i migranti nella struttura erano quasi 100: «La struttura ospita al momento 96 migranti maschi e giovani che gironzolano per hall e corridoio», specifica un'altra recensione. Che aggiunge: «Aiutano i gestori nei lavori». La madrina per eccellenza dell'accoglienza sembrerebbe quindi, in quel caso, aver posizionato le sue «risorse» all'interno di una struttura fallita, gestita a caso da una società che, oltretutto, chiedeva ai presenti di «aiutare» senza ricevere compenso, come hanno raccontato i migranti. «Cari signori - si legge infatti in un'altra recensione - se avete deciso di guadagnare con questa povera gente chiudete la porta al pubblico. Abbiate almeno la dignità di avvisare le persone che arrivano».

Ma c'è di più: oltre a tutto questo degrado Mukamitsindo, e quindi la Karibu, è risultata inadempiente anche al pagamento dei canoni pregressi e delle indennità richieste, per cifre che si aggirano intorno a centinaia di migliaia di euro. In pratica, nemmeno pagava l'affitto. Di conseguenza il curatore ordinò per Karibu lo sfratto per morosità. Era il 2017, ma solo nel 2019 Madame Soumahoro decise di trovare un'altra struttura, il tutto senza fare rumore.

Alla coop Karibu dei Soumahoro la villetta abusiva del medico pregiudicato. Un altro caso oscuro nel passato della coop Karibu della famiglia di Aboubakar Soumahoro, sindacalista eletto deputato con la sinistra. Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Un altro caso oscuro nel passato della coop Karibu della famiglia di Aboubakar Soumahoro, sindacalista eletto deputato con la sinistra. Tutto avviene nel 2016. Un blitz della Digos scopre che in una struttura gestita dalla coop vi sono 140 migranti invece di 80, numero massimo consentito dalla legge. Scatta un'evacuazione forzata imposta alla Karibu e la presidente, suocera del deputato, è costretta a spostare i lavoratori in un'altra sistemazione. A quel punto, sotto consiglio della Prefettura di Latina, Mukamitsindo individua una nuova location a Latina, in via Nascosa, una zona buia e lontana da occhi indiscreti. La suocera di Soumahoro conclude con i proprietari della villetta - due medici del posto - un contratto di locazione da 15 mila euro al mese. Ma poco dopo i residenti della zona presentano un esposto sulle condizioni fatiscenti della struttura e gli stessi migranti denunciano condizioni igienico-sanitarie disastrose, tra cui l'assenza dell'allaccio alla rete fognaria e la mancanza di cibo, acqua, luce e il non pagamento del pocket money.

Le ispezioni dei Carabinieri portano alla scoperta del fatto che la villa scelta per accogliere i migranti era abusiva. Ma non finisce qui. Si scopre che il proprietario del casolare, Carlo Del Pero, è un pregiudicato. L'uomo era presente per lavori di manutenzione in entrambi gli incontri con le forze dell'ordine: una sorpresa in quanto Del Pero era stato arrestato anni prima e si trovava in quel momento agli arresti domiciliari, evasi proprio sotto gli occhi delle guardie. Il medico, in quel momento giudicato in appello ma poi condannato in Cassazione nel 2018 con le accuse di associazione a delinquere finalizzata al falso in atto pubblico e falso materiale ideologico, era noto in città per il suo passato quando, concretamente, distribuiva certificati falsi ai pazienti. Inoltre, sempre Del Pero, era conosciuto anche dalle autorità per aver lavorato nella questura di Latina.

Il sequestro dell'abitazione per abusivismo edilizio è stato immediato e Marie Therese Mukamitsindo ha dovuto trovare un'altra sistemazione per i «suoi» migranti. Lo scandalo, all'epoca, occupò tutte le prime pagine dei giornali locali, ma non è ancora chiaro il motivo per cui le autorità competenti non verificarono né la struttura né il «curriculum» del proprietario prima di dare l'ok.

Ombre sui sindaci che osannavano Soumahoro. La Prefettura di Latina: stop gestione dei centri. Le denunce passate sotto silenzio: "Strutture senza gas né acqua potabile". Bianca Leonardi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La vicenda delle coop di famiglia Soumahoro è ormai esplosa con l'inchiesta della procura di Latina. Ed è fresco «l'annullamento dell'affidamento dei Centri di accoglienza straordinaria affidata alla Aid e alla Karibu» da parte della prefettura di Latina per assegnarli ad altri. In realtà, nonostante solo nelle ultime settimane sia venuta a galla un'amara verità, quello dell'associazione Karibu sembrerebbe un percorso opaco già da molti anni.

La coop vinse, infatti, il bando per la gestione del progetto Sprar - in ordine alla gestione dell'accoglienza migranti - nel lontano 2011 restando l'imperatrice dei migranti fino al 2018. Tutto senza rinnovare il bando, ma solo mediante continue proroghe da parte del Comune di Sezze di cui è stata partner per tutta la gestione.

A far passare come modello di integrazione per gli immigrati la Karibu è stata la sinistra delle amministrazioni dei comuni pontini che, fin da subito, ha esibito la creatura di Madame Soumahoro come esempio da seguire.

Gli occhi puntati su Latina attirarono, infatti, molta attenzione tanto che nel 2010 anche il Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna si recò a Sezze per fare i complimenti alla fondatrice della Karibù: «Cercheremo di non farvi mancare nulla, troveremo la maniera migliore per venire incontro alle vostre esigenze», disse.

Il metodo «immigrati che gestiscono l'accoglienza di altri immigrati», nascondeva però problematiche importanti ignorate dai piani alti e, sembrerebbe, insabbiate dalle amministrazioni locali. Le proteste per le condizioni in cui gli ospiti venivano fatti vivere furono immediate e a macchia d'olio in tutte le strutture - grandi e piccole - gestite dalla coop. Nel 2018 i migranti di un centro Karibù la accusarono pubblicamente: cibo immangiabile, pocket money inesistente e strutture non conformi ai minimi requisiti igienico sanitari, come confermato anche dall'Asl.

Un gioco andato avanti fino al 2019, quando non era più possibile prorogare la gestione alla Karibu senza un nuovo bando.

A partecipare furono l'associazione Arteinsieme e la coop di Mukamitsindo. Nonostante a quest'ultima le fossero stati pignorati i finanziamenti solo l'anno precedente, riuscì a presentare l'offerta economica più vantaggiosa - non è dato sapere come - e il comune di Sezze fu in procinto di decretarla vincitrice.

È solo grazie al presidente della Commissione Appalti, l'architetto Eleonora Doga, che riscontrò anomalie nella gestione economica e incongruità nei costi di sicurezza aziendali tanto da affidare una verifica che si concluse con l'affidamento all'altra associazione.

I nuovi gestori, una volta insediatosi nei centri gestiti fino a poco tempo prima da Karibu, trovarono esattamente ciò che oggi è agli onori della cronaca: condizioni di vita degradanti, mancanza di cibo e trattamenti al limite dell'umano.

«Strutture prive di allacci per l'erogazione di acqua e metano e acqua non potabile»: queste, tra le tante, le denunce rimaste inascoltate.

La Prefettura di Latina: stop gestione dei centri. Ombre sui sindaci che osannavano Soumahoro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

Tutto quello che i "giornaloni" della sinistra si guardano bene dal raccontae: altrimenti chi li sente Marco Damilano e Roberto Saviano, i "protettori" mediatici di Soumahoro.

Aseguito dell’inchiesta della procura di Latina è ormai deflagrata la questione delle coop gestite dalla suocera e moglie di Soumahoro . E’ fresco “l’annullamento dell’affidamento dei Centri di accoglienza straordinaria affidata alla Aid e alla Karibu“ disposto della Prefettura di Latina per assegnarli ad altri. In realtà, quello della coopertiva Karibu sembrerebbe un percorso opaco già da molti anni, nonostante solo nelle ultime settimane sia venuta a galla un’amara verità sinora taciuta da molti, controllori compresi.

La coop Karibu infatti vinse il bando per la gestione del progetto Sprar per la gestione dell’accoglienza migranti nel lontano 2011 restando indiscussa fino al 2018. Tutto ciò senza rinnovare il bando, ma solo attraverso continue proroghe rilasciate dal Comune di Sezze di cui la cooperativa è stata partner per tutta la gestione.

E’ stata la sinistra delle amministrazioni dei comuni pontini che immediatamente ha esibito la “creatura” Karibu di Marie Therese Mukamitsindo come esempio da seguire, facendola passare come modello di integrazione per gli immigrati.

Gli occhi puntati su Latina attirarono molte attenzioni al punto tale che nel 2010 anche il Ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna si recò a Sezze per fare i complimenti alla fondatrice della Karibù: “Cercheremo di non farvi mancare nulla, troveremo la maniera migliore per venire incontro alle vostre esigenze“, manifestando un’evidente cecità politico-amministrativa.

Il metodo Karibu “immigrati che gestiscono l’accoglienza di altri immigrati”, occultava delle importanti problematiche letteralmente ignorate dai piani alti e, sembrerebbe dalle prime indagini ed accertamenti della Procura di Latina, insabbiate dalle amministrazioni locali. Le proteste per le condizioni in cui gli ospiti erano costretti a vivere furono tante ed immediate estese a macchia d’olio in tutte le strutture gestite dalla cooperativa. I migranti di un centro di accoglienza della coop Karibù Nel 2018 la accusarono pubblicamente: strutture non conformi ai minimi requisiti igienico sanitari, come confermato anche dall’ Asl cibo immangiabile, pocket money inesistente .

Una situazione vergognosa protrattasi fino al 2019, cioè sino quando non è stato più possibile prorogare la gestione alla coopertiva Karibu senza un nuovo bando. A partecipare furono l’associazione Arteinsieme e la coop di Marie Therese Mukamitsindo. Nonostante a quest’ultima le fossero stati pignorati i finanziamenti solo l’anno precedente, riuscì a presentare l’offerta economica più vantaggiosa – non è dato sapere come – e il Comune di Sezze fu in procinto di decretarla vincitrice.

Il “giochetto” non andò in porto soltanto grazie all’architetto Eleonora Doga presidente della Commissione Appalti, la quale riscontrò anomalie nella gestione economica e incongruità nei costi di sicurezza aziendali disponendo una verifica che si concluse con l’affidamento all’altra associazione che una volta insediatosi nelle strutture gestiti fino a poco tempo prima dalla coop Karibu, trovarono esattamente ciò che oggi è agli onori della cronaca: “Strutture prive di allacci per l’erogazione di acqua e metano e acqua non potabile” ed i riscontri alle tante denunce rimaste inascoltate, con i migranti abbandonati a condizioni di vita degradanti, mancanza di cibo e trattamenti al limite dell’umano.

Ma tutto questo i “giornaloni” della sinistra si guardano bene dal raccontare: altrimenti chi li sente Marco Damilano e Roberto Saviano, i “protettori” mediatici di Soumahoro. Redazione CdG 1947

Bianca Leonardi per “il Giornale” il 6 dicembre 2022.

Erogazioni alla Karibu anche da parte del Comune di Roma. L'amministrazione capitolina avrebbe, prima con la pentastellata Raggi e poi con il dem Gualtieri, finanziato molto generosamente la creatura di Mukamitsindo, suocera dell'onorevole Soumahoro, ora indagata per truffa aggravata. 

Come rivela L'Identità, nel 2021 la Karibu avrebbe ricevuto «pagamenti dalla Capitale per 30.303 mila euro: 8mila l'11 giugno, 6200 e 2900 il 9 settembre e 13203 il 5 novembre». Nell'anno precedente, il 2020, nelle tasche della regina dei migranti, sarebbero arrivati quasi 63mila euro «con due versamenti da 31.090 l'11 febbraio e 31.531 il 21 febbraio». 

Controllando i bilanci, questo giro di soldi non compare. Nel 2020 la Karibù non ha - carte alla mano - rendicontato le entrate del Comune di Roma. Nel 2021 stessa cosa: il bilancio non mostra nessun finanziamento da parte della giunta Gualtieri. Allo stesso tempo anche i bilanci del Comune di Roma non tornano: la sezione relativa a «cooperative ed associazionismo», che corrisponde alle spese sostenute a sostegno delle associazioni del terzo settore, riporta uno zero. 

Nessun finanziamento né per il 2020, né per il 2021 agli enti del terzo settore: questo è ciò che dicono i documenti dell'amministrazione capitolina. A contestare lo strano e presunto legame tra amministrazione e Karibu è Fabrizio Santori, capogruppo della Lega in Campidoglio: «Cifre altissime, che dal 2016 ad oggi ammonterebbero a oltre 2 milioni».

E ancora: «Vogliamo vedere i bilanci, sapere quanti bandi sono stati vinti da questa cooperativa anche a livello regionale e se siano mai arrivate prima lamentele dai lavoratori o da chi era loro vicino», conclude Santori. Le lamentele c'erano, le proteste dei lavoratori nei centri di accoglienza gestiti da Karibu anche - come Il Giornale ha documentato - ma la bomba è esplosa solo adesso. 

Il leghista parla anche di «totale mancanza di controlli puntuali, seri ed accurati anche su quello dei diritti del lavoro, per la sicurezza, l'igiene, la sanità e la condizione dei dipendenti». Caso emblematico su questo fronte è proprio il blitz della polizia nel 2011, quando le forze dell'ordine trovarono in un centro Karibu 51 africani in un solo appartamento in condizioni di malnutrizione e sofferenza. La coop non venne colpita dallo scandalo ma, proprio nello stesso anno, vinse il bando Sprar assumendo la gestione di tutti i migranti sul territorio di Latina, continuando fino al 2018. Non solo: nonostante la perdita della maggior parte dei centri i finanziamenti a Madame Soumahoro sono andati avanti fino a pochi mesi fa. Che la pioggia di contributi non si sia fermata, quindi, sembrerebbe certo; più difficile capire in che modo e perché tutto quel denaro da parte del comune di Roma, non rendicontato nelle spese per le associazioni, sia arrivato nelle tasche di Karibu.

I soldi dallo Stato, il focus sulle fatture: le indagini sulla coop dei Soumahoro. La procura di Latina sta vagliando tutti i documenti contabili della cooperativa Karibù a caccia di anomalie. Intanto i sindacati continuano a chiedere un salvataggio per i dipendenti rimasti senza lavoro. Tonj Ortoleva il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il denaro ricevuto dallo Stato per l’accoglienza dei migranti e l’uso effettivo che ne è stato fatto. Su questo si concentrano le indagini della procura di Latina che nelle ultime settimane ha moltiplicato i riflettori sulla cooperativa Karibù, gestita dai familiari dell’onorevole Aboubakar Soumahoro e che sta cercando conferme alle denunce arrivate da varie fonti. Gli investigatori della guardia di finanza stanno concentrando la loro attenzione su alcuni particolari rapporti tra la cooperativa ed alcuni fornitori su fatture con importi consistenti.

Un fiume di denaro per gestire l’accoglienza

La cooperativa Karibù ha gestito almeno 5 milioni di euro in 18 anni di attività nella provincia di Latina. La coop di Marie Therese Mukamitsindo ha gestito negli anni i maggiori centri di accoglienza nella provincia di Latina e lo ha fatto non senza polemiche e sospetti. Sui quali però solo ora si sono accese seriamente le luci delle indagini. Tanto per fare un esempio, sui soldi percepiti dalla cooperativa ci sono sempre state illazioni. Alcuni dipendenti, arrabbiati perché senza stipendio, riferivano di presunti passaggi di denaro dall’Italia all’Africa, in particolare in Ruanda, terra natia di Mukamitsindo. Illazioni, chiacchiere le hanno sempre bollate dalle parti di Karibù. Sfoghi senza alcun fondamento da parte di personale dipendente che era senza stipendio. Solo che ora, a quanto pare, quella chiacchiera è finita all’attenzione degli investigatori che intendono verificare se sia vera o meno questa vicenda. Di certo gli investigatori della guardia di finanza di Latina stanno approfondendo il capitolo relativo alle fatture verso l’estero emesse dalla cooperativa e ritrovate nei documenti di bilancio.

Il nodo dei lavoratori ancora senza soldi

In queste ore continuano gli incontri tra i sindacati e il prefetto di Latina Maurizio Falco per risolvere il nodo legato alla situazione difficile in cui versano i lavoratori di Karibù e del consorzio Aid. “Abbiamo incontrato il prefetto - spiega Gianfranco Cartisano della Uiltucs - e gli abbiamo ufficializzato le nostre richieste, ossia le criticità che riteniamo opportuno affrontare nell'incontro che sarà fissato a breve. In primo luogo la necessità urgente è il pagamento degli stipendi arretrati e la ricollocazione dei lavoratori nelle società nuove affidatarie dopo l’azzeramento degli appalti applicato dalla Prefettura. Come Uiltucs Latina oltre alle problematiche causate dalla Coop Karibu e AID abbiamo la necessita' di rispristinare e sensibilizzare un modello di politiche nel settore dell'accoglienza ed integrazione diverso, virtuoso e soprattutto dignitoso per i lavoratori. Il settore le cooperative i soggetti che gestiscono i progetti possono e debbono tener conto di questa forza Il tavolo istituzionale deve servire a voltare una brutta pagina della nostra Provincia: l'obiettivo è ricollocare i veri addetti dell'accoglienza e dell’integrazione, i soli che hanno gestito con professionalità ed hanno pagato il prezzo più alto della cattiva gestione delle cooperative".

Il caso Soumahoro a parti invertite. Lacrime, sceneggiate, stivali verdi da bracciante, la solita autoanalisi della sinistra afflitta e contrita. Gabriele Barberis su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

Lacrime, sceneggiate, stivali verdi da bracciante, la solita autoanalisi della sinistra afflitta e contrita. La brutta vicenda legata alla coop di famiglia del parlamentare Aboubakar Soumahoro si sdoppia in uno psicodramma che viaggia in parallelo con una Procura, quella di Latina, decisa ad andare fino in fondo su accuse di irregolarità e sfruttamento di poveri lavoratori stranieri.

Sul piano giudiziario, visto con l'ottica garantista, c'è soltanto da lasciare operare in tranquillità i magistrati senza sollecitare o auspicare svolte clamorose. Dal punto di vista politico c'è poco da aggiungere alla figuraccia irrimediabile dell'ex sindacalista di colore, rivelatosi un opportunista lambito da tutti i fenomeni negativi legati allo sfruttamento degli immigrati. Proprio lui che ha costruito la sua resistibile carriera di paladino dei migranti su delega della solita sinistra chic e annoiata che ha costruito in salotto un anti-Salvini da erigere a esempio di disinteresse e virtù.

Forse è stata questa gogna, realizzata da Soumahoro con le sue stesse mani, a placare la sete giustizialista. Il volto nuovo del Parlamento che cade un mese dopo l'elezione, di fatto è già condannato dalla corte dell'opinione pubblica. Il Palazzo ha digerito negli anni ogni tipo di personaggio che pareva irresistibile, figurarsi un parvenu come Aboubakar.

Il dibattito sereno su guai giudiziari o paragiudiziari è senz'altro un grande segno di maturità generale. E va dato atto al centrodestra, che predica il garantismo come elemento fondante del suo Dna, di avere censurato l'esponente verde sul piano dei comportamenti pubblici senza invocare giri di manette o decadenza del seggio per indegnità. L'onorevole Soumahoro può restare tranquillamente al proprio posto e proseguire l'attività parlamentare in attesa degli sviluppi del caso.

Non occorre tuttavia una fantasia sfrenata per immaginare un caso analogo a parti invertite, con un esponente del centrodestra sfiorato da analoghe vicende penali e familiari. Il tribunale mediatico avrebbe già issato le ghigliottine con lo stesso spirito con cui gli allora ministri Federica Guidi e Maurizio Lupi furono giustiziati e costretti a dimettersi sull'onda di uno spirito giacobino che ingigantì episodi marginali alla stregua di reati da galera. Guarda caso nei confronti di due esponenti moderati di un governo di sinistra.

Le anime belle alla Soumahoro, che predicano fratellanza solo all'interno della stessa compagnia di giro, sono le stesse che hanno invocato provvedimenti per la figlioletta del premier Meloni al seguito della mamma al G20 di Bali e per le accelerate del figlio di Salvini sulla moto d'acqua della Polizia. Qualcuno è ancora convinto che i valori si annidino soltanto da una parte mentre l'altra diventa il ricettacolo di fascisti, evasori e ladri da fermare preventivamente per il bene superiore della società. La loro. Sempre più lunare e sempre più irriconoscibile per milioni di elettori normali.

Da “Striscia la notizia” il 29 novembre 2022.

Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Valerio Staffelli consegna il Tapiro d’oro a Laura Boldrini che nel 2018, in occasione della decima edizione del MoneyGram Awards per imprenditori immigrati, premiò come migliore imprenditrice straniera Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Aboubakar Soumahoro, oggi indagata per truffa aggravata e false fatturazioni nell’ambito dell’indagine della procura di Latina sulla gestione di due cooperative. 

«Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte», si difende Laura Boldrini, che aggiunge: «La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Il Tapiro d’oro consegnatelo anche alla giuria del premio». 

«Quindi lei non aveva verificato?», chiede l’inviato. «Con una giuria di questo tipo chi non si fida? - risponde la deputata del PD - Penso che avrebbero dovuto fare loro questo lavoro. In quegli anni lì chi ha deciso di darle il premio evidentemente non sapeva nulla. Poi sono emerse queste magagne. Chiaramente oggi nessuna giuria avrebbe fatto questa scelta», conclude Boldrini. 

Caso Soumahoro, Striscia la notizia consegna il tapiro a Laura Boldrini. Striscia la notizia continua a seguire il caso Soumahoro e ha raggiunto Laura Boldrini per consegnare il tapiro d'oro. Francesca Galici il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Da quando è scoppiato il caso delle Coop della famiglia di Aboukabar Soumahoro, Striscia la notizia ha deciso di occuparsi della vicenda per andare a fondo e scoprire cosa ci sia dietro le indiscrezioni che sono uscite negli ultimi giorni. L'inviato Pinuccio si sta occupando della Lega Braccianti e delle segnalazioni di chi ha conosciuto il deputato durante le sue battaglie per i braccianti, rivelando alcuni presunti retroscena sulla sua partecipazione alle battaglie in favore dei braccianti. Ma nel servizio che andrò in onda questa sera nel corso della puntata odierna del telegiornale satirico di Antonio Ricci, Valerio Staffelli consegnerà un tapiro d'oro a Laura Boldrini.

"Usava noi migranti per fare carriera". Altre accuse a Soumahoro

Come altri prima di lei, anche l'ex presidente della Camera dei deputati si smarca dalla vicenda. Va specificato che Aboukabar Soumahoro non è indagato e che le attenzioni della procura si concentrano su sua moglie e sua suocera. Ed è proprio quest'ultima il perno del servizio di Valerio Staffelli. Marie Therese Mukamitsindo, infatti, è stata premiata nel 2018 in occasione della decima edizione del MoneyGram Awards per imprenditori immigrati, premiò come migliore imprenditrice straniera. La donna ora è indagata per truffa aggravata e false fatturazioni. A premiare la suocera di Aboukabar Soumahoro è stata proprio Laura Boldrini, raggiunta da Valerio Staffelli.

"Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte", ha dichiarato l'ex presidente della Camera, smarcandosi dal premio: "La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Il Tapiro d’oro consegnatelo anche alla giuria del premio". Davanti alle parole di Laura Boldrini, Valerio Staffelli ha punto la deputata chiedendole se avesse premiato senza aver prima verificato, ma l'esponente del Pd ha immediatamente replicato: "Con una giuria di questo tipo chi non si fida? Penso che avrebbero dovuto fare loro questo lavoro. In quegli anni lì chi ha deciso di darle il premio evidentemente non sapeva nulla. Poi sono emerse queste magagne. Chiaramente oggi nessuna giuria avrebbe fatto questa scelta".

Bianca Leonardi per “il Giornale” il 7 Dicembre 2022. 

«La situazione che emerge su sua suocera è terrificante», così la dem Boldrini a Radio 1, a «Un giorno da pecora», riguardo la vicenda Soumahoro. Quella suocera che lei personalmente ha premiato come miglior imprenditrice straniera nel 2018. E anche sulla moglie del deputato, anzi sulle famose borse, dice la sua: «Bastano 200 euro per una borsa, magari erano finte». 

E il collega deputato lo scarica così: «Non ha fatto sentire la sua voce, questo è un neo pesantissimo», «non ritengo plausibile che lui non sapesse». E sul «non sapere» citato dall'ex presidente della Camera c'è da dire che le coop di famiglia Soumahoro non sono le uniche ad aver nascosto lati oscuri, tanto più - sembrerebbe - sui rapporti diretti con esponenti Pd. 

Nel comune di Roccagorga, insieme a Karibu operava un'altra coop dal nome «Fantasie».

Un blitz dei carabinieri trovò all'interno di un appartamento, che doveva ospitare 6 persone, addirittura 46 rifugiati. A causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita disumane, i Carabinieri prima irruppero negli uffici della Regione Lazio, che aveva come presidente Zingaretti, poi presentarono un dossier sulle anomalie nei contratti tra «Fantasie» e Regione. 

Carte che sono rimaste nei cassetti e che hanno visto solo l'arresto dei padroni di casa della coop in questione. 

Ad intervenire fu la Lega, nelle parole del capogruppo in Consiglio regionale Angelo Tripodi, sui presunti legami tra dem e le coop, a partire dalla Karibu: «Ora si capisce l'attenzione del Pd per i migranti. L'assessore ai servizi con delega ai migranti di Roccagorga è dipendente della Karibu, un ex funzionario comunale - Nareste Orsini- risulterebbe consulente della stessa, il responsabile dell'ufficio tecnico comunale- Vincenzo Basilisco - ha messo a disposizione uno degli immobili di proprietà e anche il comandante dei vigili urbani- Fiorella Tolfa - avrebbe affittato alla Karibu un locale di famiglia».

E anche sui finanziamenti il consigliere del Carroccio fu chiaro, presentando anche un'interrogazione proprio al governatore Zingaretti: «Il paradosso è che Latina, con 126mila abitanti gestiva circa 500mila euro in tre anni, mentre Roccagorga, con 5mila abitanti, oltre 300 mila in un anno». Ma c'è di più: un'altra coop agiva insieme a Karibu, dividendosi i migranti da destinare alle strutture. 

La romana «Tre Fontane» è stata infatti sbugiardata da testimonianze shock da parte degli ospiti. Una su tutte quella di Mohammed Ba che racconta di un trattamento di schiavitù: «Le condizioni di vita di questo centro sono miserabili, sono disumane» e ancora «perché italiani pensano di avere il diritto di maltrattarci come oggetti senza alcun valore». Su questo, oltre a una replica della coop che smentiva tutto, è calato il silenzio. 

Si scopre però che «Tre Fontane» è la cooperativa coinvolta nel business dei migranti nell'inchiesta Mafia Capitale, che ha visto arrestati molti esponenti politici - la maggior parte del Pd - tra cui l'ex presidente dem del consiglio comunale di Roma Mirko Croatti. La coop nel 2015 ricevette infatti un'interdittiva anti-mafia, ma già agli inizi del 2016 risultò legittimata a partecipare ai bandi emessi dalle prefetture di tutta Italia. Oggi quella coop è confluita nel colosso italiano dell'accoglienza, Medihospes, che nonostante fiumi di indagini e non solo, nel 2020 solo a Roma lavorava in una condizione quasi di monopolio, gestendo il 63% di tutti i posti di accoglienza.

Da liberoquotidiano.it il 29 novembre 2022. 

"Sorprendentemente guadagna uno 0,3%": Enrico Mentana snocciola le cifre dell'ultimo sondaggio Swg condotto per il TgLa7. E sottolinea con un certo stupore la crescita di Alleanza Verdi-Sinistra Italiana. Il giornalista, infatti, ha fatto presente che sarebbe stato lecito aspettarsi tutt'altro risultato considerato il caso Soumahoro, eletto proprio con Verdi-Si in Parlamento. L'Alleanza di Bonelli e Fratoianni, invece, sale dal 4 al 4,3% in una settimana.

In vetta alla classifica resta Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, che in sette giorni perde solo lo 0,1% dei consensi, arrivando così al 30,3. A seguire, con un distacco non indifferente, c'è il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, stabile al 16,9%. Ormai al terzo posto il Pd di Letta, che continua a perdere consensi. I dem, infatti, sono passati dal 16,2% del 21 novembre al 15,8 di oggi, perdendo così lo 0,4%.

Subito dopo ci sono Azione e Italia Viva all'8,1% (+0,2%); la Lega al 7,8% (+0,2%) e Forza Italia al 6,5 (+0,1%). A seguire, dopo Verdi e Sinistra Italiana, troviamo PiùEuropa al 2,8%, ItalExit al 2,2 e Unione popolare all'1,6%. Il sondaggio in questione ha registrato anche l'opinione generale dei cittadini sulla manovra approvata dal governo. Su una scala di voti da 1 a 10, la legge di Bilancio della Meloni è stata giudicata con un 5,3. In passato quella di Draghi era stata valutata 5,8; quella del Conte II 4,7 e quella del Conte I 5,3.

Piero Santonastaso per professionereporter.eu il 7 Dicembre 2022.

Ho visto cose che voi giornalisti non potreste immaginarvi… Eccomi, mi candido a essere intervistato: dal 2017 al 2020 ho lavorato insieme ad Aboubakar Soumahoro – nell’Unione Sindacale di Base – rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo – anche come autista – nelle prime uscite ufficiali. 

Era il momento della costruzione del personaggio, salito alla ribalta in contemporanea con il governo gialloverde nel giugno del 2018. Merito della famigerata copertina dell’Espresso “Uomini e no”, con i faccioni affiancati di Abou e Matteo Salvini.

Quella copertina fu il trampolino di lancio per la carriera politica di Soumahoro, una lunga rincorsa iniziata non con lo sparo di uno starter ma con le fucilate che il 2 giugno si erano prese la vita di Soumaila Sacko, bracciante maliano e attivista sindacale USB, assassinato mentre recuperava lamiere in una fornace abbandonata per costruire l’ennesima baracca nel “campo informale” di San Ferdinando, in Calabria.

Abou guidava allora le manifestazioni di protesta dei braccianti, con il suo carisma, la presenza fisica, il perfetto italiano da laureato. Poteva Diego Bianchi – in arte Zoro – non rimanere folgorato sulla via di San Ferdinando da tanta magnificenza? No, e come dargli torto? Il barometro politico a sinistra segnava “brutto stabile”, sul lato opposto un tale sentenziava che “la pacchia è finita” e un altro che la povertà era stata abolita.

La vista di Soumahoro dovette sembrare a Zoro l’apparizione di una “madonna pellegrina”, per dirla con Sergio Saviane. Fu così che il nostro bravo conduttore tornò dalla Calabria con un bel servizio e una convinzione, subito condivisa con il sodale Marco Damilano: abbiamo un leader per la sinistra. 

L’invito per Abou a Propaganda Live e la copertina dell’Espresso furono i botti di richiamo prima di uno spettacolo pirotecnico. Da quel momento si moltiplicarono le richieste di intervista dall’Italia e dall’estero. 

Non contava il contenuto, l’importante era che Abou parlasse. Così, se prima il meglio che potesse capitare era un servizio – con tutto il rispetto – di Radio Radicale, ora si mettevano in fila la BBC e Le Monde, Rolling Stone e Russia Television, Orf e Frankfurter Rundschau. Per tacere degli italiani, tra i quali solo Mediaset ci pensò su una ventina di giorni, prima di farsi viva.

Ma era solo l’inizio, tutti lo cercavano, tutti lo volevano. La regia, però, uscì pian piano dalla disponibilità di USB e passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano (consiglio, in proposito, di recuperare la spassosa pagina di Stefano Disegni sul Fatto Quotidiano di domenica 4 dicembre). 

La costruzione del personaggio da quel momento divenne una faccenda a tre, fino alla definitiva e immotivata (o motivata, questione di punti di vista) rottura con USB nel luglio 2020.

Abou svanì in lontananza, verso il suo sindacatino personale, la Lega Braccianti oggetto oggi di tanta attenzione. Sparì per un po’ dai media nazionali e internazionali, anche la sua rubrica sull’Espresso si fece saltuaria, fino al ritorno in pompa magna per le ultime elezioni politiche con la conquista di un seggio alla Camera.

Oggi è tornato sotto i riflettori, tristissimi, dei media italiani. Fatta la tara alle opinioni personali e politiche su Aboubakar Soumahoro, le varie testate – con pochissime eccezioni – somigliano a una muta di bloodhound impegnati nella caccia al negro per applicare la legge di Lynch. 

Perché di questo si tratta: quattro anni fa Abou era il nuovo che avanzava, circonfuso di luce, oggi è un politico debole e isolato, ideale per il tiro al bersaglio. Ha fatto errori a valanga, così come i suoi mentori che adesso se ne lavano le mani, ma non è oggetto di indagini giudiziarie.

Sarebbe bello – e la stampa italiana ne trarrebbe lustro – se questo incessante rovistare, anche nella spazzatura, fosse applicato con la stessa intensità e la stessa costanza a schiere di politici dalla pelle bianca che magari oggetto di indagini giudiziarie lo sono veramente.Coraggio cari colleghi, la pratica Abou vi dimostra che “si-può-fare” (cit.). Basta volerlo.

"Così Damilano e Zoro hanno creato il fenomeno Soumahoro". Piero Santonastaso svela la scalata mediatica del deputato italo-ivoriano: "Sulle sue doti si è innestata un'operazione politica, volevano un nuovo leader della sinistra". Luca Sablone l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Al di là dell'aspetto giudiziario, la vicenda Aboubakar Soumahoro è stata l'occasione che ha svelato tutta l'ipocrisia della sinistra. Il fronte rosso era convinto di aver trovato il suo nuovo potenziale leader, salvo poi abbandonarlo in un silenzio assordante alla luce della vicenda sulla cooperativa Karibu. Il deputato italo-ivoriano è arrivato in Parlamento anche grazie a una scalata mediatica che gli ha dato l'opportunità di prendersi spazi televisivi non indifferenti che l'hanno portato a essere dipinto come un estenuante difensore dei lavoratori stranieri sfruttati.

Come è nato il fenomeno Soumahoro

L'approdo alla Camera è solo l'ultima fase di un'ascesa mediatica che si è fatta via via più potente. A spiegare come è nato il fenomeno Soumahoro è stato Piero Santonastaso che, scrivendo su professionereporter.eu, ha fatto sapere di aver lavorato insieme all'italo-ivoriano nell'Unione sindacale di base dal 2017 al 2020 "rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo – anche come autista – nelle prime uscite ufficiali".

Come si è giunti alla creazione del personaggio? Santonastaso ha individuato due fulcri principali: da una parte Marco Damilano, dall'altra Diego Bianchi (in arte Zoro). Non può passare in secondo piano la nota copertina de L'Espresso risalente al 2018 dal titolo "Uomini e no" che ritraeva rispettivamente il volto di Soumahoro e quello di Matteo Salvini. Questo passaggio viene reputato il trampolino di lancio per la carriera politica del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana.

Aboubakar Soumahoro: il silenzio dei buonisti della tv di sinistra

L'italo-ivoriano è salito alla ribalta mentre era in vita il governo gialloverde, precisamente nel giugno del 2018. Guidava le manifestazioni di protesta dei braccianti, sfoggiando il suo carisma e una presenza fisica che hanno attirato l'attenzione della sinistra. Non a caso Santonastaso, intervistato da Libero, ha fatto notare che "sulle sue doti, innegabili, a livello di leadership e sulle lotte sindacali si è innestata un'operazione politica".

Il duo Damilano-Zoro

A svolgere un ruolo importante è stata anche l'intervista a Propaganda Live, programma in onda su La7 capitanato da Zoro. "Poteva Diego Bianchi non rimanere folgorato sulla via di San Ferdinando da tanta magnificenza?", ha annotato Santonastaso. Secondo cui la prima pagina de L'Espresso e l'ospitata a Propaganda Live hanno rappresentato "i botti di richiamo prima di uno spettacolo pirotecnico". Da qui "una convinzione, subito condivisa con il sodale Marco Damilano: abbiamo un leader per la sinistra". Il risultato? Una marea di richieste di interviste dall'Italia e dall'estero.

Santonastaso ha posto l'attenzione sul fatto che "la regia" uscì pian piano dalla disponibilità di Usb e "passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano". Infine ha sottolineato che Soumahoro "era molto calato nella parte e un po' di vanità l'ha coltivata", tanto che a un certo punto della sua vita da sindacalista "è stato tentato da altre sirene".

"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro

Nei giorni scorsi Diego Bianchi ha affrontato il caso e ha messo le mani avanti: "Non siamo imbarazzati, l'imbarazzo è l'ultimo dei sentimenti". Non ha fatto mancare una presa di posizione ("Siamo incazzati, delusi, amareggiati"), ma al tempo stesso ha messo le mani avanti e ha voluto accentuare i contorni di Soumahoro ricordando la foto con Papa Francesco: "Stiamo parlando di questo fenomeno, stiamo parlando di questo calibro qua". Poi ha respinto le accuse di aver creato il personaggio: "Noi non lo stiamo scaricando. Non vorrei sbagliarmi: lui su questo palco è salito due o tre volte: due sicuro, sulla terza ho già qualche dubbio. Da quello che leggo sembra che tutte le settimane stesse qua".

Soumahoro? "La vera storia della sua ascesa": chi inchioda Diego Bianchi. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano l’08 dicembre 2022

Questa è la storia della costruzione di un personaggio che pensava di spiccare il volo. Fino alla conquista della leadership della sinistra. «Aboubakar era molto calato nella parte e un po' di vanità l'ha coltivata. Diciamo che a un certo punto della sua vita da sindacalista è stato tentato da altre sirene...». Piero Santonastaso ha lavorato per Aboubakar Soumahoro per quasi quattro anni (tra il 2017 e il 2020) ai tempi dell'Unione sindacale di base (Usb). E nessuno meglio di lui può raccontare l'ascesa, e i prodromi della caduta, del deputato dell'Alleanza Verdi-Sinistra, travolto dalle disavventure che hanno colpito la sua famiglia, sotto accusa per la gestione di due Cooperative specializzate nell'accoglienza dei migranti.

COPERTINA E TV - Santonastaso ha affidato a professionereporter.eu la sua testimonianza sul caso del momento. Del resto chi meglio di lui, che ha passato tutto quel tempo con Soumahoro - «rivedendo i suoi testi, studiando insieme strategie, scortandolo, anche come autista» - può sapere cosa si cela dietro la maschera di Abou, che dall'inizio della bufera mediatica ha alternato lacrime a invettive?

Santonastaso, conversando con Libero, individua due tornanti decisivi. Il primo nel giugno 2018, quando esce la famosa copertina dell'Espresso- «Uomini e no»- che mette Soumahoro in contrapposizione a Matteo Salvini. Quello fu «il trampolino di lancio per la carriera politica» di Aboubakar. L'ivoriano già guidava le manifestazioni di protesta dei braccianti, ricorda il giornalista. «Sulle sue doti, innegabili, a livello di leadership e sulle lotte sindacali si è innestata un'operazione politica». I cui registi sono stati Diego Bianchi - alias "Zoro", conduttore di Propaganda live- e Marco Damilano, ex direttore dell'Espresso. «Tutti lo cercavano, tutti lo volevano. La regia, però, uscì pian piano dalla disponibilità di Usb e passò lentamente sotto il controllo del duo Zoro-Damilano», scrive Santonastaso. Propaganda live visita San Ferdinando, in Calabria, centro di azione di Abou. «Da quel momento si moltiplicarono le richieste di intervista dall'Italia e dall'estero».

Nulla pareva fermare l'ascesa di Soumahoro. «Abbiamo un leader per la sinistra», arriva a pensare il duo Zoro-Damilano. Perché ai temi tipicamente "progressisti", l'attuale deputato aggiunge carisma, presenza fisica, perfetto italiano da laureato e una certa predisposizione per la «forma. Indugiava in pomposità e ampollosità. Diciamo che era un Macron in sedicesimo», la butta là Santonastaso.

IL NUOVO SINDACATO - Il secondo snodo è l'improvviso addio all'Usb, nel luglio 2020. «Dall'oggi al domani, senza dire una parola. Non ci sono rimasto male solo io, ma tutto il sindacato, dove Soumahoro è sempre stato portato in palmo di mano». Aboubakar sceglie di correre da solo, fonda la Lega braccianti. Una rottura che Santonastaso definisce «immotivata (o motivata, questione di punti vista»). A ben guardare le avvisaglie della corsa solitaria c'erano già state con la celebre immagine di Soumahoro che si incatena a villa Phamphilij mentre sono in corso gli "Stati generali dell'economia" convocati dall'allora premier Giuseppe Conte. «Era prevista l'audizione di tutte le parti sociali, compresa l'Usb, ma lui decise di dissociarsi, chiedendo di essere ricevuto come "soggetto altro" rispetto alle sigle sindacali», ricorda l'ex collaboratore. Da quel momento inizia la cavalcata che lo porterà in Parlamento. L'inizio della fine, a guardare ciò che è successo dall'ingresso a Montecitorio con gli stivali lordati di fango. «Ha fatto errori a valanga, così come i suoi mentori che adesso se ne lavano le mani, ma non è oggetto di indagini giudiziarie», è la sentenza di Santonastaso. Già, gli errori: quale il principale? «Si è fatto prendere dal suo personaggio, si è sopravvalutato».

Il caso Soumahoro, ascesa e caduta della sinistra «televisiva» che rischia di trascurare i diseredati. Ieri i leader della sinistra ecologista Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, entrambi con un passato recente di impegno in Puglia tra Regione e consiglio comunale di Taranto, hanno provato a spiegare la loro «irresponsabilità» sulla vicenda nel salotto Rai di Lucia Annunziata. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Novembre 2022

Il caso Soumahoro? Una salita e discesa vorticosa tra «altare» e «polvere», come in un surreale verso del «5 maggio» in loop. L’inchiesta sulle presunte irregolarità a danno degli immigrati che sarebbero state commesse nelle cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie del sindacalista eletto alla Camera da Verdi-Sinistra italiana, registra ogni giorno nuovi sviluppi. La disavventura familiare del politico italo-ivoriano, però, corre il rischio di travolgere in un colpo solo la sinistra solidarista pro migranti, il mondo generoso delle cooperative che si impegnano rispettando le regole per l’accoglienza e anche lo stesso Aboubakar, che alla tempesta mediatica ha risposto con battute di dubbio gusto, richiamando «il diritto alla moda e all’eleganza» per difendere la moglie tutta griffata nonostante i lavoratori delle sue strutture lamentassero drammatici ritardi negli stipendi.

Ieri i leader della sinistra ecologista Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, entrambi con un passato recente di impegno in Puglia tra Regione e consiglio comunale di Taranto, hanno provato a spiegare la loro «irresponsabilità» sulla vicenda nel salotto Rai di Lucia Annunziata. Il risultato, nonostante la non particolare incisività delle domande formulate dalla giornalista (evidenziata in una nota puntuta dal vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri), lo possono giudicare i lettori ripercorrendo con noi le risposte salienti dei due politici. Fratoianni in replica alla definizione di «raggiro» per definire il caso del sindacalista: «Non direi frode ma sicuramente un corto circuito, questo sì, tra chi interpreta una battaglia e comportamenti e scelte che gettano ombre. E questo pone un problema, che quelle lotte vengano messe in difficoltà. (…) Io non mi pento della scelta (di candidarlo, ndr). Spero che l'evoluzione della vicenda porti a una assoluzione e comunque mi occuperò di tutelare chi su questo fronte continua a lavorare».

Angelo Bonelli sui rilievi mediatici della vicenda: «Soumahoro non è coinvolto in nessuna inchiesta giudiziaria. Oggi, i giornali titolano “Il clan Soumahoro”. Lo trovo incredibile, perché si è garantisti con chi ha in corso procedimenti giudiziari, qui non c’è alcun procedimento». Poi aggiunge: «Noi siamo chiamati ad essere rigorosi, molto di più di altri. Non eravamo a conoscenza di queste questioni prima della campagna elettorale e non lo erano nemmeno tanti sindaci e prefetti, presidenti del Consiglio».

Soumahoro nel giro di pochi mesi è passato da icona delle lotte bracciantili, una sorta di «Giuseppe Di Vittorio di colore» ospitato da Fabio Fazio con crismi di santità, o «Un Obama di Cerignola» (Luigi Mascheroni dixit), a simbolo di tutto quello che non funziona nel sistema dell’accoglienza degli immigrati, con profili riportati dai giornali che superano anche gli argomenti propagandistici della destra sovranista. In un Paese dove l’Espresso - in una celebre e pessima copertina - aveva inscenato la dicotomia sull’accoglienza tra Soumahoro e Matteo Salvini con il titolo «Uomini e no», dove la negazione dell’umanità era l’allora vicepremier, questo caso è qualcosa di più del «cortocircuito» che evoca Fratoianni, e per questo politica e magistratura devono fare di tutto per chiarire i termini della vicenda in tempi brevi, al fine di non infangare chi opera nell’ambito delicatissimo dell’accoglienza e della difesa dei braccianti stranieri nella piena legalità.

L’autosospensione del parlamentare dal gruppo di Sinistra Italiana con l’ammissione di «aver commesso una leggerezza», si accompagna ai rilievi che emergono dalle testimonianze sulle inchieste. Chi ha lavorato per le coop ed è in attesa di soldi mai avuti è netto: «In realtà quello che pensiamo noi lavoratori è che siamo stati presi in giro - argomenta un impiegato che vuole restare anonimo -. Quando ho visto Aboubakar nei video e tutto quello che ha detto mi è venuto da ridere. Non può dire che non ha visto, non ha sentito e che non era parte della situazione».

L’ex parlamentare della sinistra Elena Fattori, inoltre, accusa Fratoianni di non essere intervenuto per stoppare la candidatura del leader della Lega Braccianti, nonostante gli avesse segnalato delle criticità emerse in un sopralluogo nelle coop di famiglia. E Fratoianni replica che la Fattori avrebbe dovuto, se in possesso di elementi, andare anche in Procura…

L’apertura dei partiti democratici alla società civile una volta si declinava con le candidature di alto profilo degli indipendenti di sinistra. È utile ricordare figure luminose come Lelio Basso, Stefano Rodotà, Mario Gozzini, Claudio Napoleoni, Ferruccio Parri o Carlo Levi. La crisi identitaria della sinistra ha trasformato gli indipendenti in «figurine», o peggio in meme come quelli che girano sui social di Soumahoro, con gli stivali da bracciante firmati Vuitton o con i piedi da hobbit. Se tutto questo è definibile un «cortocircuito», non va spiegato solo nei programmi tv di turno, ma anche nei luoghi storici della sinistra: nelle sezioni, davanti alle fabbriche e magari anche ai dimenticati che ogni giorno vivono nel ghetto dei diseredati di Borgo Mezzanone.

"I media, le lacrime, il moralismo. Così è nato il fenomeno Soumahoro". Fabio Torriero, docente di comunicazione politica alla Lumsa di Roma, considera Aboubakar Soumahoro una delle tante "fotografie ideologiche" che la sinistra ha già stracciato. Francesco Curridori il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Siamo nell’era del partito post-ideologico e informatico e tutte le candidature sono mediatiche come Aboubakar Soumahoro". Fabio Torriero, docente di comunicazione politica alla Lumsa di Roma, non ha alcun dubbio su questo tant'è vero che "la destra, oggi, viene accusata di essere il partito dei giornalisti, mentre la sinistra ha sempre avuto la peculiarità di ricorrere al papa straniero o alle fotografie ideologiche".

Può fare degli esempi?

"Aboubakar Soumahoro è figlio di questa fotografia. La sinistra, quando sceglie i candidati, fa la fotografia: la società civile, i cantanti, i filosofi, i professori universitari ecc… E di questi target prende gli esponenti che dal punto di vista mediatico sono stati più rilevanti. Non escludo che qualcuno sia anche competente però di solito la scelta va sempre verso la mediaticità. Per Soumahoro, ovviamente, non esiste un 'reato di cognome' però il cortocircuito di una realtà opaca riguardante le irregolarità sui migranti per cui la legalità che si pretende dalla destra non viene sempre rispettata dalle cooperative. Il “non poteva non sapere” vale per tutti, non solo per Berlusconi. Anche Ilaria Cucchi ha, in qualche modo, beneficiato degli effetti di una dolorosissima vicenda personale che lei, sia ben chiaro, non ha mai strumentalizzato. Certo è che è venuta alla ribalta per le sue dichiarazioni e l’hanno scelta come portatrice di una battaglia civile. Anche in questo caso, dunque, abbiamo un’altra fotografia ideologica della sinistra".

Cosa pensa del video di Soumahoro?

"Assolutamente negativo. È un giocare sul vittimismo che dovrebbe intenerire e ricalcare il messaggio per cui c’è sempre una vittima e un carnefice. Qui il carnefice è chi lo ha messo in mezzo in una sorta di tribunale d’inquisizione. È una sorta di sindrome di Caino che riguarda vari personaggi politici che fanno le vittime, ma poi in realtà uccidono proprio come fece Caino con Abele. Quel filmato ha confermato questo vittimismo, mentre quando ci sono vicende opache dovrebbe prevalere la sobrietà. Giocare sul vittimismo ideologico è stato un autogol".

Si riferisce anche all’intervista rilasciata a Formigli?

"Sì, ma d’altronde che altro poteva dire oltre a dire che non aveva vigilato? Cosa doveva dire? Forse che non si è mai accorto che non venivano pagati gli stipendi oppure che esiste un business dell’immigrazione? Ripeto, la vicenda giudiziaria è cosa ben diversa dal dato politico. Adesso i carnefici diventano i giornali che hanno trattato la vicenda, mentre chi è opaco diventa la vittima. Questo discorso, invece, vale per tutti e non solo per il governo di centrodestra. Anche quando i giornalisti chiedono alla Meloni “cosa le insegna questa vicenda?” è una specie di tribunale mediatico".

Questa vicenda rientra nella famigerata “superiorità morale” della sinistra?

"Certo, è la cosiddetta sindrome di Voltaire. La sinistra non ha ancora capito la lezione del 25 settembre, ossia che questo schema bene/male è perdente. Se continuano a rappresentarsi come i puri e i perfetti significa perseverare negli errori. È sbagliato ritenersi i professionisti dell’ambientalismo, dei migranti e dei diritti civili. Ci sono più idee e più ricette per ognuno di questi temi. Finché ci sarà questo schema ci sarà sempre un Soumahoro che dirà di difendere gli umili, quando in realtà nessuno può attestarsi questa patente".

Ma proprio Soumahoro veniva dipinto come nuovo leader del Pd o del centrosinistra. In questi giorni, invece, è stato scaricato in poco tempo. Lei cosa ne pensa?

"Perché quando si incarna il puro e il giusto e si danno lezioni etiche e morali alla destra, poi non si può negare che c’è sempre uno più puro di te che ti epura. Si obbliga tutti a seguire uno schema rigido che, alla fine, diventa un autogol come un cane che si morde la coda. In nome della purezza, infatti, Soumahoro viene sbattuto fuori. Un partito garantista avrebbe fatto un’altra comunicazione e un’altra scelta più garantista ed equilibrata".

Il Pd, invece, come opera?

"Anche le primarie del Pd risentono dello stesso casting perché se da un lato è vero che è il partito dei sindaci e degli enti locali però, anche in questo caso, Stefano Bonaccini ed Elly Schlein sono le personalità più mediatiche per cui il criterio supera il contenuto. La Schlein, soprattutto, è una bandierina che rappresenta la sinistra liberal che lotta per i diritti civili così come David Sassoli rappresentava il cattolicesimo democratico oppure cercano di difendere i migranti. Se, però, la fotografia ideologica sbiadisce viene strappata".

Ottavio Cappellani per “La Sicilia” il 27 novembre 2022.

“Esiste il diritto all’eleganza”, ha detto questo, Aboubakar Soumahoro rispondendo, durante la trasmissione “Piazzapulita”, a Corrado Formigli che gli chiedeva degli abiti griffati della moglie (che pare comprasse mentre i braccianti alle dipendenze della cooperativa gestita dalla stessa moglie e della suocera, non avevano diritto all’energia elettrica e all’acqua). 

Lo ha detto convinto, quasi indignato, a momenti gli faceva un cazziatone, al povero Formigli, che non era informato sul sacrosanto diritto all’eleganza, facendone persino una questione di colore della pelle. La risposta da dare a Soumahoro può essere una e una soltanto: “Sta minchia”. 

Perché può esistere un diritto alla libertà di vestirsi ognuno come gli pare, ed esiste senz’altro un diritto alla dignità (per questo rivolgersi ai braccianti gestiti dalla moglie e dalla suocera), ma di diritto all’eleganza non si parla in nessun codice. 

Che un parlamentare dica una cosa del genere, dai, fa ridere, soprattutto se a dirlo è un parlamentare che della “seriosità” ha fatto la sua cifra, anche nel ditino alzato e accusatorio, e al quale tutti riconoscono linguaggio forbito dove invece, adesso è chiaro, si tratta probabilmente soltanto di retorica strasentita e strasputtanata.

Perché, ove esistesse, il diritto all’eleganza obbligherebbe lo Stato a erogare contributi all’eleganza, magari anche agli sfruttati, che forse preferirebbero cibo, acqua, energia elettrica, e noi vedremmo queste file di sfruttati dal caporalato andare al lavoro ogni mattina in abiti griffati. 

Certo, pretendere che ogni parlamentare abbia una minima nozione di diritto sarebbe pretendere troppo, ma almeno qualcuno che non sia convinto che possa esistere il “diritto all’eleganza” sarebbe auspicabile. 

Peccato non ci sia un diritto al “vada affan...”.

Scontri nel ghetto: cosa c'è dietro le aggressioni degli uomini di Soumahoro. Come già denunciato da ilGiornale.it, nel ghetto di Torretta Antonacci gli uomini di Sumahoro si impongono con la forza. Ma a Latina Karibu e Anolf vanno a braccetto. Bianca Leonardi il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Era lo scorso agosto quando nel ghetto di Torretta Antonacci si insediva l’associazione Anolf, dopo aver vinto il bando regionale per la gestione della foresteria. L'associazione, che opera a livello nazionale, se a Foggia è stata presa di mira da con aggressioni da parte degli uomini della Lega Braccianti, sul fronte Latina si scopre sia stata a fianco per anni dell coop di famiglia di Soumahoro. L'arrivo di Anolf nel ghetto ad Aboubakar Soumahoro non è mai piaciuto, tanto che proprio il deputato pubblicamente manifestò, con tanto di megafono e braccianti piazzati come comparse dietro di lui, rivendicando il diritto della tanto osannata autogestione. E se sui social il "diritto alla libertà" e la "protezione della dignità dei braccianti" ha conquistato molte persone, in quella terra di nessuno le belle parole si sono trasformate fin dall’inizio in violenza.

Il presidente Anolf Puglia, Mohammed Elmajdi, che è anche segretario territoriale Cisl di Foggia, è stato il primo nel mirino degli uomini del deputato tanto da essere aggredito il primo giorno che si è presentato al ghetto, come abbiamo documentato. "Mi hanno fermato mentre andavo a ritirare le chiavi, erano gli uomini della Lega Braccianti e dell’Usb. Mi hanno intimato di andarmene e mi hanno battuto sulla macchina. Alcuni li ho riconosciuti e li ho denunciati", così raccontava a IlGiornale.it fornendoci anche la denuncia dove si leggono i nomi degli aggressori. Ad oggi Elmajdi non può entrare nel ghetto.

Una sorte simile è toccata al coordinatore Anolf che, solo qualche giorno fa - come ci ha riferito - , dopo la nostra visita a Torretta Antonacci è stato minacciato e aggredito. Una vera e propria lotta contro questa realtà che, abbiamo scoperto, sia collegata a Soumahoro più di quanto lui stesso voglia far credere a tutti. La stessa associazione, infatti, ha operato per anni a fianco proprio della Karibu, la coop di Latina che vede indagata la suocera di Soumahoro per truffa aggravata. È proprio il Comune di Latina nel dicembre 2018, quando Soumahoro era già insieme alla compagna Liliene, figlia di Mukamitsindo, a raccontare la collaborazione tra la coop di famiglia del deputato e l’associazione aggredita e presa di mira dagli uomini dell’ex sindacalista nella "sua" terra dei braccianti.

"Questa amministrazione ha sempre condiviso e incentivato la politica dell’accoglienza e dell’integrazione", spiega l’amministrazione di Latina durante il convegno Associazioni di migranti, nuove energie per il territorio. A partecipare, ed essere ringraziate, le due realtà - Anolf e Karibu - che vengono presentate come partner del nuovo progetto. La stessa Marie Thérèse Mukamitsindo, presidente della coop pontina, affermò: "Aver visto due associazioni formarsi con tanto entusiasmo e vederle muoversi sul territorio ci ha riempito di orgoglio".

Due pesi e due misure: nello scenario degradato di Foggia la Lega Braccianti, fomentata da Soumahoro, si scaglia - anche violentemente - proprio contro l’associazione che collabora con le coop della sua famiglia, a Latina lavorano insieme. Sembrerebbe quasi che quel finto alone patinato che la suocera del deputato ha dato per anni alle coop da lei gestite, rivelatosi poi film dell’orrore, fruttasse di più delle baracche del ghetto. Facile ruggire nelle terre di nessuno, ancora più facile far finta di non vedere di fronte alle istituzioni che aiutano.

"Per giorni senza cibo e riscaldamento". La denuncia sulla coop Karibu. I ragazzi ospiti nella comunità Karibu di Roccasecca si lamentano: "Oggi non abbiamo niente da mangiare". La scoperta di Non è l'arena: "Mancano cibo e acqua calda da almeno sei giorni". Luca Sablone il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il caso che ha travolto Aboubakar Soumahoro continua a trovare ampio spazio nel dibattito politico del nostro Paese. L'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda la domenica sera su La7, ha riservato grande attenzione alla vicenda relativa alla cooperativa Karibu in seguito a ciò che sta continuando a venire a galla. Tra stipendi non pagati e condizioni di quotidianità non proprio ideali, si delinea una situazione sempre più imbarazzante per la sinistra nostrana.

Silvio Schembri, inviato di Non è l'arena, si è recato a Latina per cercare di ottenere risposte sulla questione. In attesa di parlare con la signora Mukamitsindo ha notato un gruppo di ragazzi stranieri uscire dalla sede della Karibu notevolmente infastiditi, delusi e amareggiati per quanto avvenuto da poco. "Niente di buono", è stata la lamentela che un ragazzo ha palesato davanti alle telecamere della trasmissione.

Non è stato possibile instaurare una conversazione in lingua italiana a causa delle difficoltà riscontrate dai giovani, motivo per cui è stato deciso di utilizzare un traduttore vocale sul cellulare per poter dialogare. Così i ragazzi hanno spiegato il motivo della loro presenza in quel posto: "Oggi non abbiamo niente da mangiare". Uno di loro ha confermato di essere nella comunità della Karibu, precisamente a Roccasecca (provincia di Latina). La richiesta espressa è quella di avere cibo ogni giorno.

A quel punto l'inviato di Non è l'arena ha deciso di andare a verificare di prima persona la realtà dei fatti nella comunità di Roccasecca dei Volsci. Lo scenario che si è presentato di fronte alle telecamere è palese: frigo quasi vuoto, freezer completamente vuoto. "Ragazzi, ma fa freddo qua...", ha annotato il giornalista. Che poi ha fatto una scoperta di non poco conto: "In struttura mancherebbero cibo e acqua calda da almeno sei giorni".

"Aspetta, aspetta, aspetta", è la risposta che i ragazzi denunciano di ricevere quando vengono avanzate determinate richieste. I contorni della situazione si commentano da soli: un ventilatore acceso per asciugare i vestiti, riscaldamenti spenti, un coltello al posto della maniglia della porta.

Silvio Schembri è riuscito a intercettare Michel che però non ha fornito risposte ben precise al grido d'allarme dei ragazzi della comunità di Roccasecca. "Lo dicono i ragazzi che non hanno cibo...", si è limitato a dire. Allo stesso modo non è arrivata una precisazione da Mukamitsindo, entrata in macchina senza voler replicare.

Lady Soumahoro, gli scatti hot per cui non ha pagato il fotografo. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.

La moglie di Aboubakar Soumahoro avrebbe scattato delle foto hot una decina di anni fa. Scatti che sono spuntati in maniera casuale dagli archivi del fotografo Elio Carchidi: si trovano inserite nel portofolio tra le “fotografie glamour”. Sono in tutto undici scatti che ritraggono una donna che sembra essere proprio Liliane Murekatete. Intervistato da Mowmag.com, Carchidi ci ha tenuto a precisare che non è stato lui ad andare a rispolverare quelle foto, che si trovavano da anni sul suo sito. 

“Venderle? Non è il mio mestiere e non rientra nella mia etica professionale - ha dichiarato - speravo che rimanessero lì per gli amanti della fotografia e non a uso e consumo della cronaca”. Inoltre il fotografo ha svelato che il servizio è stato effettuato gratis, con Dagospia che ha subito ironizzato sul “vizietto” di lady Soumahoro di non pagare. “In questo caso non è costato nulla - ha spiegato Carchidi - perché si trovano accordi tra modella e fotografo e si spera di poter poi vendere a giornali e riviste queste foto. All’epoca non andò così e rimasero invendute”. 

Il fotografo si è detto anche piuttosto sicuro che si tratti di Liliane Murekatete nei sui scatti: “So che si chiama così, come avevo riportato sul nome del portfolio sul sito, e ho saputo di loro quando ne hanno parlato le cronache in questi giorni. Prima non sapevo chi fossero questi signori. Ho visto le loro foto sui giornali e mi è sembrata lei”.

Soumahoro, Liliane Murekatete "devastata": la mossa dopo le foto hot. Il Tempo il 06 dicembre 2022

Passa alle vie legali Liliane Murekatete, la compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, e non per l'inchiesta della Procura di Latina sulle coop gestite dalla madre. La donna, infatti, si dice "devastata psicologicamente" per la divulgazione del servizio fotografico piuttosto esplicito realizzato una decina di anni fa e spuntato sul sito del fotografo Elio Leonardo Carchidi, colui che ha scattato le immagini. 

La compagna di Soumahoro è "devastata psicologicamente" per la circolazione delle foto online e sulla stampa quotidiana, afferma il legale della donna, l'avvocato Lorenzo Borrè intervistato da Mowmag.com. "È stato come se le fosse esplosa una bomba atomica in casa. La signora è devastata psicologicamente. Si è superato ogni limite accettabile e ho ricevuto mandato, in parte già assolto, affinché i responsabili siano chiamati a risponderne nelle competenti sedi giudiziarie. Nessuna esclusa", dichiara il legale. 

Il primo a dare risalto alle immagini da molti definite "hot" è stato lunedì 5 dicembre il sito Dagospia. In seguito Mow aveva intervistato Carchidi che aveva precisato di non essere stato lui ad andare a rispolverare le foto, che si trovavano da anni sul suo sito. Borrè oggi fa sapere che non era a conoscenza che quelle foto fossero disponibili sul sito del fotografo fin dal 2012: "Assolutamente no. Né mi risulta che la signora abbia mai dato l’autorizzazione alla divulgazione. E poi a quali fini l’avrebbe data?! Non scherziamo, perché qui la vicenda è grave, gravissima", sottolinea l'avvocato.  Borrè inoltre sottolinea che i Soumahoro "sono sconcertati per quello che sta accadendo. Ma sanno che il tempo è galantuomo. Al momento sono incudine, ma ricordiamoci di cosa diceva Leonardo Sciascia sul rapporto incudine/martello", afferma l'avvocato.  

Sulla polemica lanciata da Selvaggia Lucarelli, sulla scelta di Borrè, che è stato anche difensore dell’ex Ss Priebke, come legale, l'avvocato commenta: "Fa parte del processo di mostrificazione". "Perché questo accanimento convergente, di destra e di sinistra, contro persone la cui responsabilità è tutta da dimostrare?", conclude. 

Lady Soumahoro, foto di nudo? Cosa c'è dietro davvero. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 07 dicembre 2022

È un risveglio da bollenti spiriti. Dagospia pubblica le foto hot della "Cooperadiva". La "Cooperadiva", ficcante calembour - gioco di parole giornalistico - è Liliane Murekatete, fino all'alba di ieri "Lady Gucci" per via delle foto con gli abiti griffati e del diritto all'eleganza rivendicato per lei dal marito Aboubakar Soumahoro, ma degli abiti costosi, adesso e almeno per un po', parleranno in pochi. D'altronde sono spariti. Dagospia spara come prima notizia alcuni scatti di un'avvenente signora senza veli e la somiglianza con la consorte del deputato scelto da Fratoianni e Bonelli è impressionante. «Un lettore birichino ci segnala:», scrive Dago, «"navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo"». «Quella bella signorina dai modi accoglienti», continua il sito, «sembrerebbe in effetti la compagna di Soumahoro. Sarà davvero lei o è una donna che le somiglia moltissimo?». È lei o non è lei? Ci informiamo.

A CACCIA DI FAMA

Certo che è lei. Le foto, che risalgono al 2012, lasciano poco all'immaginazione, e pubblichiamo solo quelle pubblicabili. Sono inserite, peraltro in primo piano, nella sezione "foto erotiche e di nudo" del sito Studio154 del fotografo Elio Carchidi, che nel suo ricco archivio fotografico vanta lavori di altro genere con molti volti noti dall'ex arbitro Pierluigi Collina, alla modella Claudia Koll, all'allenatore della Spagna Luis Enrique- e altri sconosciuti che però aspirano o aspiravano a diventare celebri. Tra questi Liliane Murekatete. «Ma allora è un vizio!», aggiunge Dagospia. «Per quel servizio il fotografo non ha ricevuto manco un euro (manco i lavoratori della cooperativa Karibu)». Il riferimento è a una delle due coop (l'altra è il Consorzio Aid) finite nel mirino della procura di Latina, gestite dalla mamma di Liliane - la suocera del deputato con gli stivali - indagata per frode aggravata, fatture false e malversazioni. La Murekatete è stata a lungo nel Cda di queste coop, accusate di non aver dato un euro per anni a decine di lavoratori.

L'ACCORDO

Quanto ha pagato per queste foto Lady Gucci? Parla il fotografo, Carchidi: «Niente. A volte ci si accorda tra modella e fotografo e si spera di vendere gli scatti a giornali o riviste. All'epoca però non ci siamo riusciti. È rimasto tutto invenduto. La signora non le ha pagate», ha sottolineato Carchidi, «ma si è occupata di altre cose, dell'ambientazione, del suo look».

Quindi non ha fatto lei la soffiata a Dagospia? «No, non è il mio mestiere. E poi mi sono accorto casualmente della cosa vedendo le foto che sono state pubblicate in questi giorni dai giornali. Le foto hanno 10 anni». Altra parentesi giudiziaria: dopo gli accertamenti delle forze dell'ordine, lo ricordiamo, la prefettura di Latina ha predisposto l'annullamento dell'affidamento dei centri di accoglienza straordinaria alle due coop.

Ieri Gianfranco Cartisano, segretario del sindacato Uiltucs che a Latina segue molti ex lavoratori di Karibu e Consorzio Aid, ha incontrato il prefetto, Maurizio Falco, il quale ha confermato che la prefettura è disposta a farsi da garante per i pagamenti legati agli affidamenti pubblici della Regione Lazio e dei Comuni di Latina e Roma. Il sindacato chiede anche la «ricollocazione dei lavoratori nelle società nuove affidatarie». Torniamo a Lady Soumahoro. A che scopo ha chiesto di fare le foto? «Ne faccio di ogni tipo», spiega il fotografo, «per profili istituzionali o pubblicitarie. Anche per profili Linkedin. Ci sono donne, uomini, modelle, attori e attrici che vogliono avere un archivio fotografico di un certo tipo». Foto senza veli. Nemmeno uno stivale.

Lady Soumahoro "devastata": esplode l'ira, chi porta in tribunale. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2022.

Non c'è pace per Liliane Murekatete. La moglie del deputato Aboubakar Soumahoro non deve solo fare i conti con la cooperativa indagata con l'accusa di mancati pagamenti e di pessime condizioni di lavoro in cui teneva i dipendenti. Ad oggi infatti la Murekatete è al centro della cronaca per le sue foto osé. Scatti che la ritraggono senza veli pubblicati in forma anonima e diffusi da Dagospia. Una mossa che avrebbe "devastato psicologicamente" la donna, tanto da spingerla a prendere seri provvedimenti.

Stando al Messaggero sarebbe già scattata la denuncia ai danni del fotografo Elio Leonardo Carchidi. "Come suo avvocato - commenta Lorenzo Borrè - segnalo continui appostamenti di troupe televisive davanti alla sua abitazione, furti di immagini del figlio di tre anni (attività vietata), immagini diffuse senza consenso". Per questo "reagiremo nelle competenti sedi giudiziarie". 

Eppure lo stesso Carchidi ha chiarito di non essere stato lui l'autore della soffiata. "No, non è il mio mestiere. E poi mi sono accorto casualmente della cosa vedendo le foto che sono state pubblicate in questi giorni dai giornali. Le foto hanno 10 anni". Per di più - come precisato dal fotografo - le immagini non sono mai state pagate. Dago, a scoop diffuso, ha scritto: "Un lettore birichino ci segnala: 'navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo'". Chi ci sia dunque dietro non è dato sapersi. Certo è che Liliane è pronta ad andare a fondo della questione

La donna "devastata psicologicamente". Liliane Murekatete denuncia per le foto di nudo diffuse sui media, “attacco senza precedenti” alla moglie di Soumahoro. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Dicembre 2022

Liliane Murekatete passa alle vie legali anche contro chi ha diffuso online le sue foto senza veli su media e quotidiani. Un’altra mossa che avrebbe “devastato psicologicamente” la donna finita al centro dell’attenzione mediatica per lo scandalo scoppiato intorno all’indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa fondata da lei e sua madre, Marie Therese Mukamitsindo, indagata frode aggravata, fatture false e malversazioni. Caso che ha coinvolto anche il suo compagno, appena eletto alla Camera, il sindacalista impegnato a difesa dei diritti dei braccianti Aboubakar Soumahoro.

Prima del caso delle foto Murekatete aveva già annunciato querele per tutti quelli che l’avevano definita Lady Gucci. “Adesso basta, porto in tribunale chi mi ha diffamato”, aveva detto la donna ad AdnKronos accusando la stampa di un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti. “Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno“.

La donna aveva anche precisato di non ricoprire più alcun ruolo nella cooperativa. “La costruzione del racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica ‘griffata’ e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata“. La maggior parte delle foto, aveva precisato, risaliva agli anni 2014 e 2015, “quando non avevo alcun incarico nella cooperativa Karibu e quando non avevo ancora conosciuto il mio compagno”.

Quel tornado mediatico che l’aveva travolta, e di cui la donna lamenta di essere vittima, ha tuttavia raggiunto il punto più grave nella diffusione online di alcune foto senza veli di Murekatete, scattate anni fa a quanto risulta da Il Messaggero da un fotografo che ora sarebbe stato denunciato. Quelle foto sono state riprese nei giorni scorsi anche da giornali e stampa. “Un lettore birichino ci segnala” scriveva Dagospia “navigando mi sono imbattuto in due interessanti indizi: lasciando nome e mail, riceverete un pdf brochure contenente 11 foto di Liliane Murekatete. Vi consiglio di darci uno sguardo”.

Il fotografo, interpellato, ha fatto sapere di non essere stato lui a diffondere le foto, che sarebbero state secondo questa versione rispolverate casualmente. Striscia la notizia le aveva mandate in onda in un montaggio in cui sovrapponeva alle parti intime della donna volti di personaggi noti legati alla sinistra: come il giornalista Diego Bianchi, il giornalista Marco Damilano, Gad Lerner, i leader di Verdi e Sinistra Italiana Bonelli e Fratoianni.

L’avvocato di Murekatete ha definito l’attacco mediatico subito nelle ultime settimane dalla famiglia di Soumahoro come “senza precedenti” in Italia. “Come suo avvocato segnalo continui appostamenti di troupe televisive davanti alla sua abitazione, furti di immagini del figlio di tre anni (attività vietata), immagini diffuse senza consenso“, ha aggiunto il legale. “Reagiremo nelle competenti sedi giudiziarie”.

La donna è ” devastata psicologicamente” per la diffusione dei vecchi scatti ha aggiunto il legale a Mowmag. “È stato come se le fosse esplosa una bomba atomica in casa. Si è superato ogni limite accettabile e ho ricevuto mandato, in parte già assolto, affinché i responsabili siano chiamati a risponderne nelle competenti sedi giudiziarie. Nessuna esclusa”. Una replica all’attacco che da un’indagine, un caso politico, era arrivato al “diritto all’eleganza”, come definito in una grottesca difesa di Soumahoro a Piazza Pulita, fino al corpo di una donna diffuso sui media senza alcuna ragione.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Borse di lusso e corpo esibito: perché difendo Liliane Murekatete, lady Soumahoro. Concita De Gregorio il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

La moglie del deputato rosso-verde (che si è sospeso) è finita sotto inchiesta ed è stata irrisa perché colpevole di aver posato seminuda e di amare gli abiti di marca: ma perché Chiara Ferragni può farlo e lei no?

Questo è un articolo in difesa di Liliane Murekatete, direi in sintesi: ma prima di strillare la radical chic difende la nera, comunisti col Rolex, vergognatevi, vi pregherei di leggerlo. Sono domande rivolte a tutti — destra sinistra centro, gente che non si occupa di politica, intellettuali, semplici curiosi — e sarebbe interessante discuterne anziché insultare.

DAGONOTA il 12 dicembre 2022.

Concita nel suo articolo su Lady Soumahoro scambia lucciole per lanterne. Cosa che le riesce piuttosto bene. Si fa paladina di una  causa inesistente. Si arrabbia e rotea la sua spada ma lo fa contro i mulini a vento. Nessuno ce l’ha con Liliane Murekatete, compagna del deputato Soumahoro - che gestiva il ghetto dei migranti - perché ha posato senza veli. 

Nessuno ce l’ha per le foto della signora Liliane che avrebbero dovuto probabilmente essere riunite in un book per il mondo dello spettacolo. Nessuno ce l’ha con la signora Murekatete per il colore della sua pelle. Nessuno ce l’ha con chi si esibisce svestita e nemmeno con chi viene da paesi lontani.  

La cosa che turba e che disturba non è che la signora Liliane ami i vestiti firmati. Infatti la Murekatete non è indagata dalla procura di Latina; lo è la madre Marie Terese Mukamitsindo. 

Quello che disturba, anzi che ci fa orrore, è la coop di mammà, dove in passato Lady Gucci ha ricoperto incarichi societari. Coop dove – a insaputa dei Soumahoro - i più deboli, i più fragili, i più esposti, quelli che sbarcano dalle carrette del mare e che invece di venire accolti, coccolati, aiutati e amati vengono vilipesi, sfruttati, ospitati in case gelide e affamati. Che vengano fatti lavorare senza essere pagati. 

Concita elogia l’ipocrisia di chi si fa paladino degli ultimi per trattarci da gonzi e per utilizzare la nostra buona fede. Questo ci indigna, i milioni che sono svaniti nel nulla e la nudità delle donne o il colore della pelle niente hanno a che vedere con il nostro sdegno. 

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 12 dicembre 2022.

Questo è un articolo in difesa di Liliane Murekatete, direi in sintesi: ma prima di strillare la radical chic difende la nera, comunisti col Rolex, vergognatevi, vi pregherei di leggerlo.

Sono domande rivolte a tutti - destra sinistra centro, gente che non si occupa di politica, intellettuali, semplici curiosi - e sarebbe interessante discuterne anziché insultare. Non perdo le speranze. 

La prima domanda a cui non trovo risposta è in cosa divergano, a parte gli esiti, le aspirazioni di Liliane Murekatete (compagna del sindacalista Aboubakar Soumahoro, lui al centro di una bufera politica e reputazionale, lei esibita e irrisa in tv come colpevole di aver posato dieci anni fa seminuda e di amare, oggi, gli abiti di marca) e quelle di Chiara Ferragni, la più popolare influencer italiana al mondo, una trentina di milioni di follower su Instagram, imprenditrice di se stessa, prossima co-conduttrice del Festival di Sanremo e riferimento per milioni di giovani donne.

Ferragni, quest' estate al centro di una piccola polemica perché nelle foto aveva - cito - "le stelline sulle tettine", cioè si fotografava in mutande come è liberissima di fare, nella vita ha messo il suo corpo da Barbie al servizio della sua personale impresa. Ha esibito se stessa per avere popolarità, ha pubblicizzato abiti altrui fino a essere corteggiata dai grandi marchi e, quando è diventata abbastanza celebre, ha messo in commercio il suo. 

Un talento imprenditoriale celebrato dalle femministe come esempio di emancipazione.

Il metro del successo sono i soldi, naturalmente: è un criterio mercantile. La cercano Liliana Segre e gli Uffizi: una sua foto al museo della Shoah o davanti a un Botticelli vale oro. 

Dunque: un modello virtuoso. Non vedo perché una giovane donna arrivata in questo Paese dal Ruanda non debba prendere appunti e provare a imitarla. Chiedo. Se il gioco è questo, è così che si fa.

Anni fa, era il 2009, Lorella Zanardo curò un lavoro intitolato "Il corpo delle donne". Era un film che mostrava l'uso del corpo femminile in tv, in pubblicità, nei media. Dopo la rivoluzione degli anni Settanta una netta involuzione, sosteneva. Perché se nello stesso studio c'è un uomo in giacca e cravatta e una donna in mutande ma la temperatura è la stessa non è perché lei ha caldo, che sta nuda. Se sta accucciata sotto un tavolo di plexiglas non è perché sta comoda così.

Zanardo portò per anni il suo lavoro nelle scuole, nelle università. Ricordo che in un'aula magna, a fine proiezione, si alzò una studentessa per dire: mi scusi prof ma lei ha presente come funziona il mondo? L'abbiamo trovato così. Adesso ci dite che no, non dobbiamo usare il nostro corpo, è sbagliato: allora cosa ci resta? 

Poi certo ci sono le motivazioni. Puoi girare un film porno per militanza femminista, perché non hai come mantenere la famiglia, per allegria o per disperazione. Puoi esibire il seno e il sedere perché ti va, ti diverte la mattina mentre nel pomeriggio scrivi un saggio su Wittgenstein.

O puoi farlo perché non hai altro da vendere. Una volta Dacia Maraini mi disse che al tempo della sua gioventù dovevi "essere un po' carina e sembrare un po' cretina" per non spaventare nessuno e fare in pace quel che volevi. Lei, per dire, ha fatto Dacia Maraini. 

Ci sono giornaliste di cui conosciamo tutti le misure di reggiseno. Diletta Leotta e Giovanna Botteri fanno lo stesso mestiere, in ambiti diversi, sono entrambe amatissime - nei rispettivi rami d'impresa e da porzioni di pubblico con diverse attitudini. Però credo che Leotta guadagni di più. Che sia contesa in ragione del seguito e delle copertine che colleziona oltre che per le sue doti di cronista.

Chi ti ingaggia desidera a volte quello che sai fare bene solo tu, per esempio raccontare la guerra come Francesca Mannocchi, altre volte per i punti Auditel che il tuo seguito può portare in dote. Il seguito si ottiene più facilmente con una foto cosparsa di olio solare in piscina che con un'inchiesta sui Casamonica, su questo credo non ci siano dubbi. 

Se mostri il corpo generi consenso - o dissenso, che è una diversa forma di incremento della popolarità. Puoi persino, da quella posizione, fare campagne contro il bullismo, il revenge porn. Battaglie per le donne abusate. Essere testimonial nella lotta al cancro al seno, partendo dalla magnificenza del tuo.

Ho sentito due giorni fa Azar Nafisi, scrittrice iraniana, dire che per le ragazze di Teheran mettere il rossetto significa fare la rivoluzione. Certo, perché in Iran è proibito. Ma se vivi in un Paese dove il rossetto glitterato Ferragni te lo regalano a tredici anni per Natale che rivoluzione è. La minigonna fu eversiva quando Mary Quant dette un taglio ai gonnelloni alla caviglia, il burqa del senso occidentale del pudore.

Oggi la minigonna la indossa per andare a scuola la stessa tredicenne del rossetto. Torna sempre in auge, il tema, quando gli insegnanti invitano i genitori a far vestire i loro figli più sobriamente, in classe. Le madri insorgono in chat: censura. A proposito del concetto di libertà sull'asse Roma-Teheran. La cura del proprio corpo è un gesto di amor proprio, è un altro argomento: lo fai per te stessa.

Tuttavia non mi pare che di solito avvenga in condizioni di monachesimo: più spesso è per mostrarsi sui social di tre quarti, in quella speciale torsione in cui si vedono insieme il volto e il sedere, meglio se allo specchio. Tempo fa Elisabetta Canalis, bellissima ragazza che vive in America, fu oggetto di una polemica politica perché - di nuovo per Sanremo - un ente pubblico l'aveva chiamata pagandola assai perché sponsorizzasse la Liguria.

Ho tantissimo rispetto per il lavoro di Elisabetta Canalis, la seguo su Instagram: le ultime foto la trovano accucciata in microshort sul piano del suo lavello di cucina. Vedo il lavoro immane che fa. Bisogna correre fin dall'alba non so quante ore, boxare, bere beveroni verdi, nutrirsi di germogli di soia. Una vita di sacrifici. Lo scopo dei quali mi sembra generare reddito e intanto mostrare alle ragazze come diventare come lei. Per tornare a Maraini: "Fare quello che vuoi" in questo caso finisce qui.

Ho sentito che un regista importante sta girando un film sulla vita di Elisabetta Gregoraci, madre del figlio di Briatore. Di cosa abbia messo al servizio la sua bellezza, le domanderà di certo. Non vedo l'ora. Quindi, tornando a Liliane Murekatete. In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese. Perché è nera? Impossibile: escludiamo il razzismo.

Perché ha scelto per difendersi l'avvocato di Priebke? Ma gli avvocati migliori sono quelli che fanno assolvere gli imputati peggiori. Allora è perché qualcuno ha detto di averla sentita dire di essere la nipote del premier del Ruanda? 

È una voce di terza mano. Invece che Ruby (Karima El Mahroug) fosse la nipote di Mubarak l'ho sentito dal premier allora in carica e ho visto il Parlamento italiano, nella sua maggioranza, annuire e votare la ridicola menzogna. Ma forse è perché la madre è sotto accusa per aver commesso illeciti, reati.

Però se le malversazioni dei padri ricadessero sui figli sarebbe al collasso il sistema economico del Paese. Direte: ma lei era nel consiglio di amministrazione di quella coop. Sì, eppure non tirerei in ballo i figli delle famiglie imprenditoriali regnanti a cui sono intestate casseforti o fondazioni, che di parenti prestanome è lastricata l'italica impresa. 

Ultima ipotesi. Sarà perché è la compagna di un sindacalista e non di un miliardario? Sarà un'accusa di incoerenza (lui difende i poveri e tu ti vesti da ricca) per interposta persona?

Non entrerò nel caso Soumahoro, la giustizia dirà. Parlo di lei, persona distinta. Segnalo che la responsabilità penale è personale, l'identità inviolabile. Non puoi essere colpevole di essere la moglie di, figlia, amante, la cugina di. Donne-appendice: questa sì una grande battaglia degna del femminismo di ogni epoca. 

Il fatto è che le battaglie vinte, quelle al servizio di chi è molto popolare, sono facili da combattere: sono vinte anche se le perdi, riverberi nell'eco mediatica e nella luce di chi ne ha già molta di suo. Più difficile è mettersi dalla parte del buio. Combattere le battaglie perse. Che sono però le sole che avrebbero bisogno di voci autorevoli, argomenti cristallini e post sui propri social da milioni di follower. Costano, effettivamente: non rendono.

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2022.

Realtà, stammi lontana (non sia mai si scoprissero le ipocrisie della sinistra). I tempi sono duri (è meglio fantasticare). Signori e signore, colti e ignoranti, curiosi e menefreghisti, la notizia oggi è che il diritto alla scemenza surclassa quello all'eleganza (l'argomentone delle scorse settimane). 

Suo sponsor è Concita De Gregorio, che ne approfitta per deliziarci con ben due paginone su Repubblica, l'equivalente di quelle che lo stesso quotidiano dedica al Qatargate. In un processo penale invocheremmo fior di attenuanti di tipo sanitario, ma di questo pane si ciba certo giornalismo. Donna Concita voleva difendere lady Soumahoro. In verità l'ha finita.

Distrutta. Denudata moralmente più di quanto abbia fatto dieci anni fa un fotografo.

Dicevano che il problema di Palermo è il traffico. Johnny Stecchino oggi potrebbe interpretare gli articoli di Concita De Gregorio. Balle in quantità industriale. I social si sbellicano dalle risate, le persone serie strabuzzano gli occhi. E si chiedono dove si voglia arrivare scrivendo fiabe sul lupo cattivo che nessuno si azzarderebbe mai ad accarezzare sul muso.

Paragonare Liliana Murekatete, la compagna di Aboubakar Soumahoro, a Chiara Ferragni è un esercizio di fantasia a cui non avremmo mai potuto pensare. Al massimo un sogno notturno del deputato preferito dalla cooperativa Karibu. Ma il confronto non regge, e non per questioni fisiche o di portamento.

Non credi a ciò che leggi quando scorri questa frase: «In cosa divergono, a parte gli esiti, le aspirazioni di Liliane Murekatete», «esibita e irrisa in tv come colpevole di aver posato dieci anni fa seminuda e di amare, oggi, gli abiti di marca», e «quelle di Chiara Ferragni»?

Mica è finita. 

Così prosegue la De Gregorio: «In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese Chiara Ferragni.Perché è nera?».

 Sì, l'esame conferma che siamo in pieno e conclamato diritto alla scemenza. Progressisti di tutto il mondo, unitevi. Signora De Gregorio, che resta una penna brillante e la sciupa così, ma lei lo sa che Chiara Ferragni le tasse le paga e quel mondo che ruota attorno alle cooperative per «aiutare» i migranti e a cui Liliane non era estranea, deve rispondere persino di contributi non pagati? 

Cara Concita, lei è informata delle condizioni in cui erano ridotti i dipendenti della Karibù rispetto a quelle in cui operano i dipendenti della moglie di Fedez? Ad esempio, chissà se è una balla che lì gli stipendi non li pagavano e qui invece sì... 

Per caso alla Ferragni sono piovuti dal cielo 60 milioni di euro di fondi pubblici senza gare, senza rendiconti, senza nulla, mentre i soldi suoi l'influencer che lei usa come paragone della Murekatete ha speso persino soldi privati ricavati dalle donazioni per realizzare una terapia intensiva e molto altro ancora utile alla sanità? 

E tutto quel che è accaduto in casa Soumahoro - non i presunti reati, che sono compito del magistrato accertare, ma proprio i comportamenti - si spacciava per opere caritatevoli servite a portare in Parlamento il celebre deputato autosospeso? Pubblicità ingannevole, potrebbero chiamarla alcuni.

Lady Concita fa di più, elenca una serie di donne - tutte belle - che hanno fatto successo anche per il loro fascino. Ha dimenticato una delle più avvenenti, la parlamentare greca che sembrava aver qualche tasso di familiarità con il compagno Panzeri. Ovviamente non ne parliamo... Occultamento di vergogna. Liliane Murekatete uguale a Chiara Ferragni. E Soumahoro uguale a chi, se è possibile domandarlo? Oppure lui non c'era? E se c'era dormiva? Sa che cosa si rimprovera a quel clan, ma la De Gregorio non se lo ricorda?

 Lo scrive Nicola Porro: «Il mancato pagamento del fisco, degli operai, dei propri dipendenti, dell'Inps, dell'Irpef, dell'Ires ecc. Alla faccia della sinistra che ce la mena un giorno sì e un altro pure con l'evasione!». E non c'è neppure bisogno della grande firma per esprimere sconcerto per un delirio inaspettato. Basta scorrere twitter: «Spiace, ma io non attacco la compagna di Sumahoro per aver posato nuda o avere bei vestiti. Io la critico per aver fatto scempio dei miei soldi, invece di darli a quei poveretti che lei, la madre ed il marito avevano giurato di difendere e di proteggere». Lo ha scritto una persona normale. Molto più normale di Concita De Gregorio. Due pagine che potevano essere spese meglio.

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 13 dicembre 2022.

C'è una grande confusione sotto l'altra metà del cielo. E più che quella delle donne, intendiamo quella delle professioniste del femminismo. Sono successe troppe cose, tutte insieme e in poco tempo. Troppe cose complicate da decodificare, digerire e poi spiegare a se stessi e agli altri, siano lettori o elettori. 

Per amor di sintesi elenchiamo i tre eventi principali di questa crisi: la vittoria del centrodestra e quindi l'ascesa di Giorgia Meloni a palazzo Chigi; lo scandalo che ha coinvolto l'onorevole Aboubakar Soumahoro e la moglie Liliane Murekatete, trascinando con loro tutto il mondo dell'accoglienza e del suo apparato ideologico; il Qatar-gate con il coinvolgimento, tra gli altri, della vice presidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili. Tre colpi che hanno fatto tremare anche le più solide certezze della sinistra più convinta della propria superiorità morale e, appunto, di genere.

Ieri, su Repubblica, si è esibita Concita De Gregorio, firma di punta della galassia politica che fonde il progressismo più chic con la difesa più radicale dei diritti delle donne. L'ex direttrice dell'Unità non si nasconde dietro una borsa di Louis Vuitton e, con coerenza, ammette subito la sua missione: difendere Liliane Murekatete. Tentativo più che legittimo, a patto di non sconquassare tutto il sistema di valori con il quale la sinistra per anni ci ha sconquassato le scatole. 

Cosa che puntualmente avviene. I due pilastri del pensiero della De Gregorio sono le basi della nuova sinistra dei diritti: cioè il diritto al lusso e il diritto all'esibizione del proprio corpo. Il primo teorizzato - con invidiabile coraggio - in diretta televisiva dall'onorevole Soumahoro e il secondo addebitato dalla giornalista a Chiara Ferragni. E potremmo anche fermarci già qui: perché se parlando di diritti siamo passati da Rousseau e Locke ai due sopraccitati, beh, qualche problema c'è, ci è sfuggita almeno una via di mezzo.

E ora, la De Gregorio, per difendere la passione di lady Soumahoro per borse griffate e foto sexy, la paragona proprio alla Ferragni, perché anche lei pubblica foto su Instagram con marchi di lusso e mutande bene in vista. Da queste colonne siamo sempre stati piuttosto severi con la regina delle influencer, ma cosa c'entra con Liliane Murekatete? 

Al netto di un certo insipido buonismo e uno spiccato qualunquismo vagamente di sinistra, la Ferragni non si è mai occupata di accoglienza e ha fatto i suoi (tanti) soldi nel nome del più spudorato capitalismo, senza nascondersi dietro il paravento dell'umanitarismo e soprattutto senza finire in torbide inchieste su milioni dispensati dallo Stato. 

Ma è diventata l'ultimo scudo dietro al quale i dem tentano di occultare le loro magagne. Un vizio antico, quello del doppiopesismo rosso. Sinistra al caviale, sinistra da ztl e comunisti col Rolex - per citare solo i più diffusi non sono solo modi di dire e luoghi comuni. O meglio, nel tempo lo sono diventati, ma si basano su solide realtà fattuali.

Per capire geograficamente dove vince la sinistra ormai non serve più consultare gli esperti di flussi elettorali, basta aprire immobiliare.it e cercare dove costano di più le case al metro quadrato. Il Pd, e i suoi cespugli sinistri, sono animali che abitano la fauna dei centri storici. Si sbracciano, dai loro salotti, per il proletariato, ma hanno l'orrore per le periferie proletarie, veleggiano su comode barche a vela - come il famoso Ikarus di D'Alema lontano dai marosi del populismo e soprattutto del popolo.

D'altronde l'ultimo comunista di successo di cui si abbia memoria è Fausto Bertinotti, uno che somigliava molto di più a un lord inglese che a un operaio di Mirafiori. E anche Olivia Palladino, compagna di Giuseppe Conte, neo avvocato degli ultimi, è già finita nel mirino del web per aver sfoggiato borse firmatissime: perfetta per essere la first lady della gauche. 

Tra la sinistra e il lusso c'è sempre stato un grande feeling. E non ci sarebbe nulla di male, se non predicassero pauperismo per poi vivere come nababbi, se non detestassero il capitalismo salvo poi esserne ingranaggi oliatissimi, se non predicassero inclusività facendo parte di una delle caste più esclusive. Il problema è solo uno: l'ipocrisia. Ultimo vero comune denominatore rimasto alla sinistra.

L’indifendibile Liliane Murekatete. Il suo lusso esibito uno schiaffo ai poveri. Francesco Bei su La Repubblica il 13 Dicembre 2022.

Intanto onore a Concita De Gregorio. Poteva starsene zitta, poteva evitare di esporsi alla sputacchiera dei social difendendo Liliane Murekatete, da noi giornalisti appellata con il discutibile (molto discutibile, chiediamo venia) titolo di "lady Soumahoro". Onore a Concita perché, come dice lei nell'articolo che abbiamo pubblicato ieri, è difficile "mettersi dalla parte del buio", combattere battaglie perse in partenza che "costano e non rendono".

Francesco Bei per “la Repubblica” il 13 dicembre 2022.

Intanto onore a Concita De Gregorio. Poteva starsene zitta, poteva evitare di esporsi alla sputacchiera dei social difendendo Liliane Murekatete, da noi giornalisti appellata con il discutibile (molto discutibile, chiediamo venia) titolo di "lady Soumahoro". 

Onore a Concita perché, come dice lei nell'articolo che abbiamo pubblicato ieri, è difficile «mettersi dalla parte del buio», combattere battaglie perse in partenza che «costano e non rendono». Lo dimostra, ma Concita lo sapeva già, il fatto che ieri nello scantinato maleodorante di Twitter il suo nome - suo di Concita, non di Murekatete - sia finito nei trend topics . E ovviamente a prevalere, diciamo 9 a 1, erano i commenti a sfavore della sua apologia.

Devo quindi sforzarmi per scrivere queste poche righe "contro", perché anche a me, come a Concita, d'istinto appassionano più le salite che le discese. E tuttavia proprio per rispettare quell'invito alla discussione sul caso, sine ira ac studio , ecco perché non sono d'accordo con la sua tesi. È sbagliato accostare Chiara Ferragni o Diletta Leotta a Liliane Murekatete. Possiamo discutere se sia legittimo o meno, quanto sia davvero femminista "vendersi" la propria nudità per vendere un prodotto, quanto dobbiamo essere post-moderni per ritenerla una cosa normale. Io penso, pasolinianamente, che sarebbe meglio non essere così proni alla cultura consumista di massa - che spinge a consumare anche il proprio corpo - ma mi rendo conto che il mondo, purtroppo anche il mondo della maggioranza delle donne, va da un'altra parte.

Lo accetto, come Concita, senza moralismi. Lo accetto da Ferragni, liberissima di fare quello che vuole. Non lo accetterei invece da Murekatete, che di mestiere non fa l'influencer, ma dovrebbe gestire una cooperativa che aiuta gli ultimi tra gli ultimi, quelli arrivati in Italia senza nemmeno un paio di scarpe. Anche se bisogna subito dire che Liliane le sue foto nude non le ha pubblicate, ma le sono state estorte senza il consenso. Concentriamoci dunque soltanto sugli scatti pubblici, quelli con le griffe del lusso. Discutiamo di quelli. 

E non parliamo nemmeno dell'inchiesta della procura di Latina, restiamo garantisti e speriamo che Liliane Murekatete e sua madre siano prosciolte da ogni accusa. Il problema è politico, non penale. Il problema sono le testimonianze univoche delle decine di vittime - uso volutamente un termine forte - del "sistema" Murekatete. Se lasci al freddo dei ragazzini, li nutri a pane e acqua e non dai loro nemmeno quei pochi spiccioli che la carità di Stato prevede come argent de poche , sei su un piano morale (morale: un aggettivo da rivalutare) diverso, diciamo così, da Ferragni. Che il personale alle sue dipendenze lo paga e immagino anche non poco, con i soldi che legittimamente guadagna. Non c'entra il colore della pelle.

Non c'entra il razzismo per quelle persone, soprattutto di sinistra, che sono rimaste giustamente inorridite dalla vicenda Soumahoro. C'entra invece la professione di Murekatete, il senso della sua missione, il fatto che abbia forse ingannato i migranti che le erano stati affidati affinché se ne prendesse cura, il fatto che abbia sfruttato, insieme alla madre, i lavoratori alle sue dipendenze lasciandoli senza stipendio per mesi. È qui che la questione delle fotografie esplode. Mi riferisco, ripeto, agli scatti pubblici con i vestiti firmati.

L'uso squallido, voyeuristico, misogino, che ne hanno fatto i quotidiani della destra non cambia di una virgola il ragionamento. Quel lusso ostentato sui social, mentre i ragazzi africani ospiti della Karibù facevano la fame, quello sì che indigna e non potrebbe essere altrimenti. 

Come, giustamente, indignano le buste piene di banconote trovate a casa dei sedicenti campioni dei diritti umani, che di giorno si facevano belli nei convegni e di notte contavano i soldi degli emiri. Proprio perché la sinistra si vanta di avere degli standard morali diversi e più alti, il tonfo quando cade fa più rumore. Durante la crisi ci sono stati imprenditori che si sono suicidati perché non riuscivano più a dare lo stipendio ai loro operai. Nessuno pretende dalla signora Murekatete sacrifici simili, ma forse con una borsa griffata in meno avrebbe potuto garantire qualche settimana di pasti decenti ai migranti ospiti della cooperativa.

C'è infine la vecchia storia della moglie di Cesare, che deve essere al di sopra di ogni sospetto. Sostiene Concita che le eventuali accuse di incoerenza andrebbe rivolte semmai al solo Soumahoro e non anche alla moglie, perché le colpe (eventuali) sono sempre personali e Murekatete non deve essere considerata una donna-appendice. Il fatto è che in questa brutta storia casomai è Aboubakar a essere un uomo-appendice. Nel senso che a lui personalmente, nella storia dei soldi alla cooperativa, non viene imputato nulla, fatta salva forse una culpa in vigilando . È stato lui a essere travolto dalle due donne, non viceversa.

Post scriptum sulla scelta dell'avvocato: anche su questo dissento. Lo so, è vero come dice Concita che gli avvocati migliori sono quelli che fanno assolvere gli imputati peggiori. Tuttavia, non sia mai, domani dovessi avere bisogno di un legale, sceglierei piuttosto un Pisapia. Così, a naso, per affinità, anche per poterci andare a prendere un caffè insieme sotto lo studio e poterci parlare di Paolo Conte invece che di Priebke.

"Come la Ferragni". La folle difesa della De Gregorio della lady Soumahoro. Concita De Gregorio, per difenderla, ha paragonato la compagna di Soumahoro a Chiara Ferragni e ha sottinteso un razzismo latente. Francesca Galici il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Concita De Gregorio, nell'ultimo suo articolo su la Repubblica, difende Liliane Murekatete, compagna di Aboukabar Soumahoro e la paragona a Chiara Ferragni. Usa belle parole la De Gregorio nel suo lunghissimo articolo in difesa della Murekatete, gliene va dato atto e non c'è nemmeno da scandalizzarsi se la sinistra ha scelto di prendere le sue parti. O meglio, una porzione di sinistra, perché gli altri hanno deciso di tacere. Lecita una posizione e lecita l'altra. Ma paragonare la moglie di Soumahoro a Chiara Ferragni e lasciar intendere che dietro le critiche a Liliane Murekatete ci sia il razzismo è intellettualmente scorretto per molti motivi.

Il silenzio di Soumahoro sulla coop che gestiva il ghetto dei migranti

"In cosa è scandaloso che una giovane bellissima donna arrivata in Italia dal Ruanda guardandosi attorno nel mondo nuovo abbia ritenuto che farsi fotografare poco vestita potesse esserle utile. Cosa disturba del fatto che ami gli abiti firmati come la suprema imprenditrice del Paese. Perché è nera?", scrive Concita De Gregorio. Sulle foto senza veli nessuno deve intervenire, in quanto l'uso libero che la compagna di Soumahoro (così come qualunque ogni altra donna) fa del suo corpo non deve essere oggetto di giudizio. Ma sul paragone con la moglie di Fedez c'è più di qualche passaggio fallace, partendo proprio dal ruolo che le due donne hanno nella società.

Liliane Murekatete è (o è stata) nel consiglio di amministrazione di coop operanti nella gestione dei migranti. Quel tipo di cooperative ricevono ingenti finanziamenti dallo Stato per operare, che non ricevono le imprese tradizionali come quella di Chiara Ferragni. Il componente di un consiglio di amministrazione, in linea di principio, interviene nella gestione e per quanto al momento sotto la lente di ingrandimento delle autorità ci sia sua madre, difficilmente Liliane Murekatete non sapeva delle incongruenze che sono emerse nelle ultime settimane. Ed è proprio l'ambito operativo a solcare le maggiori differenze tra Liliane Murekatete e Chiara Ferragni: belle e giovani entrambe, ma con obiettivi dichiarati evidentemente diversi.

E non c'entra niente il fatto che la compagna di Aboukabar Soumahoro sia nera. Le critiche le avrebbe ricevute comunque davanti a quello che è emerso, anche perché si accompagna al deputato "con gli stivali". Certo, probabilmente se il suo compagno non fosse stato Soumahoro ci sarebbe stata un'eco mediatica meno importante ma anche qui il razzismo non c'entra nulla. Aboukabar Soumahoro ha fatto della difesa dei braccianti sfruttati il suo "core business" politico. Ha basato l'intera carriera, sindacale prima e politica poi, sulla difesa dei migranti e non sulle canzoni rap come ha fatto Fedez. È proprio sul tema centrale dell'inchiesta che coinvolge le coop nelle quali è coinvolta Liliane Murekatete che il deputato ha ottenuto popolarità. E questo è un dato incontrovertibile.

Il caso Soumahoro e nepotismi di Sinistra. Shukri Daid su La Repubblica il 4 Dicembre 2022.

Inevitabilmente, dal punto di vista mediatico, lo scandalo delle malversazione di fondi pubblici delle cooperative Karibù e Consorzio AID di Latina, dedite all’accoglienza ed integrazione degli immigrati, non poteva che prendere il nome dell’On.le Aboubakar Soumahoro il quale, sebbene del tutto estraneo alle inchieste penali avviate, è pur sempre l'esponente di maggiore notorietà del gruppo familiare del quale egli è entrato a far parte da quando, nel 2018, ha iniziato a legarsi sentimentalmente a Liliane Murekatete, la 45enne ruandese (anch'ella estranea alle inchieste penali attualmente in corso) che sedeva nel consiglio di amministrazione dei due enti collettivi presieduti da sua madre Marie Therese Mukamitsindo, l'unica del gruppo nei confronti della quale è stata sollevata un'accusa - ancora tutta da verificare - dalla Procura della Repubblica di Latina.

L’adesivo mediatico dello scandalo al neo-deputato di Verdi e Sinistra italiana deriva da due formule, anch’esse di sintesi mediatica, derivate dal mondo giudiziario: “non poteva non sapere” ovvero “a sua insaputa” che, a loro volta, sottolineano due peccati opposti ma comunque gravi quali l’ignavia nel non eliminare aspetti negativi di vicende conosciute, oppure l’inammissibile ingenuità di non essersi accorti di qualcosa di negativo che era invece di solare evidenza.

L'On.le Aboubakar Soumahoro eletto deputato per l'Alleanza di Verdi e Sinistra italiana nella XIX Legislatura

L’accecante bagliore dello “scandalo Soumahoro” ha però messo in ombra diversi altri scandali di più vasta portata che hanno, invece, origine politica e che si sono radicati nella Sinistra in Italia.

Nel rispondere alla Camera al question time a fine dello scorso novembre, il Ministro delle imprese e del made in Italy (Mimit) Adolfo Urso ha rivelato che le due cooperative, attive dai primi anni 2000, erano state oggetto di diversi controlli da parte delle autorità preposte: fra il 2017 ed il 2019, vi erano state 22 ispezioni all’esito delle quali la Coop. Karibù aveva collezionato sanzioni per circa 491.000 euro mentre il Consorzio AID, tra il 2018 e il 2022, era stato sanzionato, a seguito di 32 ispezioni, per circa 38.000 euro.

Nonostante queste gravi penalità, tuttavia, i due enti collettivi erano ancora attivi con l’ovvia conseguenza che, o per pagare le sanzioni le cooperative avrebbero diminuito i benefici per gli ospiti, oppure che le sanzioni non sarebbero state pagate potendo così continuare nei comportamenti invano sanzionati. In ogni caso ci avrebbero - come ci hanno - rimesso gli ospiti immigrati sicché è l’intero sistema dell’accoglienza e dell’integrazione che manifesta la sua incapacità di perseguire gli scopi prefissati.

Questa inadeguatezza nel gestire correttamente il fenomeno dell’immigrazione rende chiara l’inefficienza della normativa del settore (una responsabilità generale) ma anche l’incompetenza gestionale della Sinistra che, dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati, fa una delle sue bandiere tanto da aver inserito Aboubakar Soumahoro nelle sue ultime liste elettorali, laddove la destra si schiera per arginare nuovi arrivi e per respingere gli arrivati.

In questa propensione alla gestione in prima persona del settore, la Sinistra ha commesso la palese ingenuità di limitarsi al curriculum di Soumahoro e alle sue manifestazioni pubbliche senza approfondire il suo contesto di vita dal quale sarebbe emerso che, ben prima della formazione delle liste, sull’attività cooperativistica della compagna Liliane Murekatete e della di lei madre Marie Therese Mukamitsindo, si addensavano nembi oscuri perché erano già in corso doglianze sindacali (e della Procura della Repubblica di Latina) per mancati pagamenti di stipendi e contributi a 26 lavoratori per circa 400 mila euro. Gli effetti di questi errori si scaricano adesso non solo sulla Sinistra, ma su tutto il settore dell’accoglienza e dell’integrazione che va invece preservato da ogni scandalo per l’importanza del supporto ai più deboli che svolge.

L'On.le Nicola Fratoianni eletto deputato per l'Alleanza Verdi e Sinistra italiana nella XIX Legislatura

Il pesante gravame che incombe sulla Sinistra per questa specifica esperienza appare conseguenza dell’imperizia del suo gruppo dirigente che ha perfino accettato che la moglie di Fratoianni venisse candidata alle ultime elezioni (ed infine eletta) senza accorgersi di porre in essere un nepotismo che era stato già oggetto di scherno quando Berlusconi aveva candidato persone a sé vincolate da legami assai meno forti del coniugio. Ma quel che è più grave è che la superficiale scelta di Aboubakar Soumahoro quale testimonial della lotta al razzismo ed all’emarginazione degli immigrati rischia di ricadere proprio su questi ultimi, che appaiono oggi incapaci di esprimere, da Sinistra, neppure un loro rappresentante dei circa 4 milioni di nuovi italiani che non possa essere coinvolto, a torto o a ragione, nei più antichi vizi degli indigeni.

La Sinistra impari da Salvini, Segretario della Lega Nord, che nella scorsa XVIII Legislatura portò al Senato l’On.le Tony Chike IWOBI, di origini nigeriane, che ha svolto il suo mandato senza scaldali né manifestazioni egocentriche e tragga anche le dovute conseguenze da quella seduta al Senato del 6 febbraio 2015 in cui il PD si schierò contro il rinvio a giudizio di Calderoli per gli insulti razzisti lanciati dal palco della festa leghista di Treviglio contro l’On.le Cecile Kyenge, sua parlamentare: lasciando così intendere che non è razzista dare dell’orango ad una persona nera.

Di fronte a quello che appare ormai un vizio nello scegliere superficialmente i propri comportamenti ed i propri candidati, per poi non difenderli dagli attacchi per le loro debolezze, appare giunto il momento di una serie di sedute di autocoscienza nella Sinistra d’Italia.

Paolo Bracalini per ilgiornale.it il 12 dicembre 2022.  

Dalle sardine ai cavallini rampanti, il passo è breve e transita dalla politica. Si tratta di una battuta sbagliata, ma la foto (e il commento) pubblicata sui social da Mattia Santori, leader delle Sardine, non è stata particolarmente apprezzata. «Non ho fatto in tempo a mettermi la camicia che subito Stefano Bonaccini mi ha preso l'auto aziendale» scrive Santori pensando di essere ironico e postando una foto di lui, in abito e camicia visto il clima estivo di Dubai, con a fianco il governatore Stefano Bonaccini e dietro una fiammeggiante Ferrari gialla.

Un simbolo di lusso che non ci si aspetta dai rivoluzionari alla bolognese, dichiaratamente ispirati a ideali «di stampo gramsciano» (cit). Ora, a parte il fatto di essere a Dubai per l'Expo2020 in qualità di consigliere comunale Pd «con delega al turismo», a parte il fatto di essere a braccetto con il governatore, a parte il fatto di farsi la foto tamarra con le auto di lusso sullo sfondo, è tutto il quadretto che stona. I commenti al post glielo fanno notare in massa. «E brava la sardina! Questo ha capito tutto della vita. Vedrai che presto arriverà pure per te una poltroncina ben retribuita», «Passare dalle sardine al caviale è un attimo....», «Ma come è caduta in basso la sinistra», «Ma non avevi detto che non volevi entrare in politica?

Ti stai preparando per accomodarti, giusto? Tra sardine e tonno il posto è già bello che pronto», e via così. Al netto di alcuni che penseranno davvero che Santori avrà come auto di servizio una Ferrari, le altre critiche riguardano l'evoluzione (tipica) della sardina, da movimentisti a politici (ormai organici al Pd emiliano), una parabola già vista. Già un'altra volta Santori era inciampato in uno scatto infelice, quando si era fatto fotografare insieme a Luciano Benetton e Oliviero Toscani, un'immagine che scatenò un mare di polemiche e portò alla scissione di un gruppo romano di Sardine («Un errore politico ingiustificabile»).

Il movimento nel frattempo si è sgonfiato, qualche giorno fa all'anniversario del primo famoso raduno a Bologna, quando riempirono piazza Maggiore, non c'erano migliaia di persone, ma solo poche decine. «Non saremo mai un partito» ha detto Santori. Al massimo una corrente del Pd.

I rivoluzionari che pretendono il diritto al lusso. L'odiosa ipocrisia di chi predica l'inclusione facendo parte di un mondo esclusivo. Francesco Maria Del Vigo il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

C'è una grande confusione sotto l'altra metà del cielo. E più che quella delle donne, intendiamo quella delle professioniste del femminismo. Sono successe troppe cose, tutte insieme e in poco tempo. Troppe cose complicate da decodificare, digerire e poi spiegare a se stessi e agli altri, siano lettori o elettori. Per amor di sintesi elenchiamo i tre eventi principali di questa crisi: la vittoria del centrodestra e quindi l'ascesa di Giorgia Meloni a palazzo Chigi; lo scandalo che ha coinvolto l'onorevole Aboubakar Soumahoro e la moglie Liliane Murekatete, trascinando con loro tutto il mondo dell'accoglienza e del suo apparato ideologico; il Qatar-gate con il coinvolgimento, tra gli altri, della vice presidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili. Tre colpi che hanno fatto tremare anche le più solide certezze della sinistra più convinta della propria superiorità morale e, appunto, di genere.

Ieri, su Repubblica, si è esibita Concita De Gregorio, firma di punta della galassia politica che fonde il progressismo più chic con la difesa più radicale dei diritti delle donne. L'ex direttrice dell'Unità non si nasconde dietro una borsa di Louis Vuitton e, con coerenza, ammette subito la sua missione: difendere Liliane Murekatete. Tentativo più che legittimo, a patto di non sconquassare tutto il sistema di valori con il quale la sinistra per anni ci ha sconquassato le scatole. Cosa che puntualmente avviene. I due pilastri del pensiero della De Gregorio sono le basi della nuova sinistra dei diritti: cioè il diritto al lusso e il diritto all'esibizione del proprio corpo. Il primo teorizzato - con invidiabile coraggio - in diretta televisiva dall'onorevole Soumahoro e il secondo addebitato dalla giornalista a Chiara Ferragni. E potremmo anche fermarci già qui: perché se parlando di diritti siamo passati da Rousseau e Locke ai due sopraccitati, beh, qualche problema c'è, ci è sfuggita almeno una via di mezzo.

E ora, la De Gregorio, per difendere la passione di lady Soumahoro per borse griffate e foto sexy, la paragona proprio alla Ferragni, perché anche lei pubblica foto su Instagram con marchi di lusso e mutande bene in vista. Da queste colonne siamo sempre stati piuttosto severi con la regina delle influencer, ma cosa c'entra con Liliane Murekatete? Al netto di un certo insipido buonismo e uno spiccato qualunquismo vagamente di sinistra, la Ferragni non si è mai occupata di accoglienza e ha fatto i suoi (tanti) soldi nel nome del più spudorato capitalismo, senza nascondersi dietro il paravento dell'umanitarismo e soprattutto senza finire in torbide inchieste su milioni dispensati dallo Stato. Ma è diventata l'ultimo scudo dietro al quale i dem tentano di occultare le loro magagne. Un vizio antico, quello del doppiopesismo rosso. Sinistra al caviale, sinistra da ztl e comunisti col Rolex - per citare solo i più diffusi - non sono solo modi di dire e luoghi comuni. O meglio, nel tempo lo sono diventati, ma si basano su solide realtà fattuali. Per capire geograficamente dove vince la sinistra ormai non serve più consultare gli esperti di flussi elettorali, basta aprire immobiliare.it e cercare dove costano di più le case al metro quadrato. Il Pd, e i suoi cespugli sinistri, sono animali che abitano la fauna dei centri storici. Si sbracciano, dai loro salotti, per il proletariato, ma hanno l'orrore per le periferie proletarie, veleggiano su comode barche a vela - come il famoso Ikarus di D'Alema - lontano dai marosi del populismo e sopratutto del popolo. D'altronde l'ultimo comunista di successo di cui si abbia memoria è Fausto Bertinotti, uno che somigliava molto di più a un lord inglese che a un operaio di Mirafiori. E anche Olivia Palladino, compagna di Giuseppe Conte, neo avvocato degli ultimi, è già finita nel mirino del web per aver sfoggiato borse firmatissime: perfetta per essere la first lady della gauche.

Tra la sinistra e il lusso c'è sempre stato un grande feeling. E non ci sarebbe nulla di male, se non predicassero pauperismo per poi vivere come nababbi, se non detestassero il capitalismo salvo poi esserne ingranaggi oliatissimi, se non predicassero inclusività facendo parte di una della caste più esclusive. Il problema è solo uno: l'ipocrisia. Ultimo vero comune denominatore rimasto alla sinistra.

Alessandro De Angelis per “La Stampa” il 12 dicembre 2022.

In questa storiaccia, che annuncia uno scandalo gigantesco, di corruzione gozzovigliante - soldi nei borsoni che evocano la mazzetta gettata da Mario Chiesa nel water, padri in fuga col malloppo, mogli e figlie che prenotano vacanze faraoniche - peggio del denaro c'è solo la reazione balbettante della sinistra. Ed è proprio questa reazione, che col garantismo non c'entra nulla, a configurare il caso come un elemento di strutturale collasso politico e morale. Non il mariuolo o la classica mela marcia in un corpo sano.

Soumahoro e Panzeri, mutatis mutandis, ognuno con le sue signore, sono due volti dello stesso cinico modello: la disinvoltura, propria o familiare, agita dietro e grazie all'immagine pubblica di difesa dei diritti umani. Circostanza tale da rendere ancora più intollerabili quei comportamenti. 

A meno che il cronista non sia così limitato da non comprendere che non di cedimento morale si tratta, ma di diabolica e raffinata strategia posta in essere da chi, impegnato a criticare il capitalismo, quando si discute il Manifesto dei valori, adesso tace, da Articolo 1 al Pd: chissà, magari sembra corruzione ma è un modo per dissanguare i ricchi della terra, versione aggiornata al terzo millennio dell'esproprio proletario di cui Bruxelles è l'avamposto più avanzato.

Scherzi a parte, in questo assurdo dei principi, c'è chi arriva a consumare il reato senza neanche l'alibi ipocrita del "rubare per il partito", ma l'assenza di una messa a tema della questione morale, da parte dei vertici della sinistra, rivela un meccanismo omertoso generalizzato. Le cui radici sono nel fatto che "può capitare" a tutti, di ritrovarsi tra colleghi o famiglie altri Soumahoro o Panzeri, in un partito schiacciato sul governismo affaristico o dove il tesseramento è affidato ai capibastone.

E dunque, in un clima di appartenenza allo stesso consorzio politico-morale, nessuno ha la forza di difendere i valori, parola ridotta solo a chiacchiera nell'ammuina congressuale sui Manifesti. Accadde lo stesso con Nicola Oddati, responsabile delle Agorà di Enrico Letta, beccato a gennaio a Termini con 14mila euro in tasca, controllo non casuale perché da tempo la procura stava indagando per un presunto giro di favori con imprenditori: si dimise e finì lì. Come finì con la relazione Barca lo sforzo di rinnovamento del marcio partito romano, dopo Mafia Capitale.

In questo quadro si spiega la reazione della destra, tutto sommato misurata. Da un lato, da questa vicenda incassa il terreno ideale per una campagna contro le Ong; dall'altra preferisce (a sinistra) un gruppo dirigente condizionabile a una "piazza pulita" da cui nasca qualcosa di nuovo e insidioso. E non a caso il governo incontra D'Alema, gran consigliere di Conte e della sinistra Pd, nei panni di consulente di un gruppo di investitori qatarini pronti a competere per rilevare la raffineria di Lukoil a Priolo. La destra sa che questi dirigenti sono la sua polizza a vita.

(ANSA il 13 dicembre 2022) - Gli uffici dell'assistente dell'eurodeputato Pietro Bartolo all'Eurocamera di Strasburgo sono stati posti sotto sigillo, ha constatato l''ANSA. I sigilli sono stati apposti questa mattina, ha confermato una persona del suo staff.

Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2022.

Da una parte c'è lo sgretolamento totale e definitivo, sulla scia di Mafia Capitale e dei casi Mimmo Lucano e Aboubakar Soumahoro, del grande castello di ipocrisia creato dalla sinistra oltre quarant' anni or sono con la famosa "questione morale" di Berlinguer. Una roba che, va detto, per essere vista fin dall'inizio con diffidenza non richiedeva grandi sforzi. 

Bastava leggersi non il libro, ma l'ultima pagina della Fattoria degli animali di Orwell per avere le idee chiare: «Le creature volgevano lo sguardo dal maiale all'uomo, e dall'uomo al maiale, e ancora dal maiale all'uomo: ma era già impossibile distinguere l'uno dall'altro». Dove l'uomo era ovviamente lo spietato oppressore e il maiale l'intrepido rivoluzionario.

Ma gli effetti del Qatar gate non si abbatteranno, purtroppo, solo su quel mondo dei buoni e degli onesti a prescindere in cui la corruzione, il mercimonio e lo sfruttamento dei più deboli dietro lo scudo della presunta superiorità morale si sono alimentati e diffusi. 

Tra i molti danni collaterali del clamoroso traffico di mazzette finito nel mirino della giustizia belga tra lobbisti e parlamentari europei di area socialista, molti dei quali legati a doppio filo al nostro Pd (e ai suoi cespugli) sta iniziando a materializzarsi anche quello di una colossale colata di fango sull'intero Paese. 

Per carità, con il passar delle ore si moltiplicano gli appelli a circoscrivere l'accaduto alle persone coinvolte, per evitare che il discredito si allarghi a macchio d'olio. Anche la presidente dell'europarlamento Roberto Metsola ha provato, aprendo la plenaria di ieri tra le urla e le proteste, a spiegare che «questo scandalo non è una questione di destra o sinistra, non è questione di nord o sud».

Epperò nei corridoi dell'europarlamento iniziano a circolare con insistenza espressioni come "italian connection" o "italian job". Ad alimentare la convinzione che si sia trattato di «un colpo all'italiana», del resto, ci sono anche le indagini che, allargandosi, vedono sempre più connazionali coinvolti.

Illazioni e accuse sicuramente velate e dette a mezza bocca, ma non così trascurabili. Al punto che ieri sera persino Antonio Tajani ha sentito il bisogno di respingere pubblicamente l'attribuzione geografica ed antropologica della responsabilità dello scandalo.

«L'Italia», ha detto il ministro degli Esteri in un punto stampa al termine del consiglio degli Affari esteri a Bruxelles, «è un grande Paese: se ci sono dei parlamentari o degli assistenti che hanno commesso dei reati, sono questioni che riguardano le singole persone, non il sistema Italia, come non riguardano il sistema Parlamento». 

Insomma, la frittata è fatta. Dopo il mandolino, la pizza e la mafia ora gli italiani nel mondo dovranno anche giustificarsi di non andare in giro con borsoni zeppi di banconote ricevute da Paesi arabi per ripulirgli un po' il pedigree in materia di rispetto dei diritti civili e sindacali.

E, per ironia della sorte o, come dicono quelli che parlano bene, per eterogenesi dei fini, a svergognare l'Italia in Europa alla fine ci hanno pensato proprio gli amici di quelli che hanno passato gli ultimi mesi a raccontare che a fare figuracce oltreconfine, mettendo in imbarazzo tutto il Paese, sarebbe stato il nuovo governo. 

Le vicende sono troppo recenti per essere dimenticate anche da un popolo con la memoria corta come la nostra. «Questa destra ci porterebbe molto lontano dai valori europei»; «Meloni lavora per sfasciare l'Europa»; «Noi vogliamo un'Italia che conti in Europa». Solo per citare alcune dichiarazioni fatte dal segretario dimissionario del Pd, Enrico Letta, durante la campagna elettorale. Che poi sono le frasi più innocue.

Già, perché tra intellettuali, politici e media di area le accuse che volavano erano ben più pe santi. Comprese quelle sulla imminente demolizione dei diritti civili, a cui alcuni alti esponenti delle istituzioni Ue hanno persi no abboccato, sostenendo che avrebbero vigilato sulle azioni del nuovo governo.

E mentre gli occhi di Strasburgo e Bruxelles erano tutti puntati sul centrodestra postfascista, nemico degli immigrati, omofobo, anti immigrati, anti Pnrr, anti patto di stabilità e anti tutto, gli eurodeputati del Pd si riempivano tranquillamente le tasche di tangenti per difendere il Qatar.

La beffa delle beffe è degli ultimi giorni, con tutte le opposizioni impegnate a descrivere un governo amico degli evasori, dei riciclatori di denaro e di chi gira coi contanti in tasca intenzionato a commettere reati di ogni tipo. 

Salvo poi scoprire che il tetto a 5mila euro inserito in manovra non solo è la metà di quello proposto dalla Ue, ma anche infinitamente più basso della quantità di contante con cui circolano normalmente i "sinistri" finiti sotto indagine nell'inchiesta sul la Tangentopoli Ue. 

Ma non è finita. Della serie il lupo perde il pelo ma non il vi zio, nelle ultime ore i due contendenti per la segreteria del Pd, Elly Schlein e Stefano Bonaccini, hanno fatto a gara a prendere le distanze dallo scandalo Qatar.

«La vicenda è gravissima e ripugnante», ha detto la prima. «Se confermato sarebbe uno scandalo clamoroso», ha detto il secondo. Il sottinteso è che quella ro ba appartiene al vecchio e marcio Pd, non al nuovo che si apprestano a guidare e rifondare. In altre parole, la superiorità morale vale ancora, ma solo per chi li vota.

Mozione Qatar. Il grande imbarazzo sulla nuova questione morale della sinistra. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022

Prima di trarre conclusioni bisogna aspettare le sentenze, ma la storia dei politici progressisti di Bruxelles merita comunque un chiarimento da parte dei leader vecchi e futuri del Pd e di Articolo 1

Nel tardo 1989, in una drammatica riunione del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca uno degli esponenti più autorevoli di quel partito, intervenne senza giri di parole: «Ligato è un uomo nostro, non possiamo tacerne». Ludovico Ligato era il presidente del Ferrovie, democristiano, ucciso nell’agosto di quell’anno per motivi mai chiariti.

Scalfaro contestava il silenzio dei suoi amici democristiani perché «è un uomo nostro» ma non ebbe successo e il silenzio perdurò. Ecco, la cosa che certe volte fa più paura è questo, il silenzio. Che può significare due cose: o è vergogna o è instupidimento.

Enrico Letta ha chiesto doverosamente chiarezza e annunciato che il Partito democratico si costituirà come parte lesa. Bene. Ma non ci ha detto minimamente come sia stato possibile uno schifo del genere nella sua famiglia politica. Qualcuno anzi si scoccia pure e si dice «incazzato».

Se sono incazzati loro figuriamoci gli elettori. Ci fosse uno che abbia chiesto scusa (premettendo alle scuse l’estenuante ma giusto richiamo al garantismo), che abbia detto una cosa tipo «non ce ne siamo accorti, era una così brava persona», come dicono quelli del piano di sotto quando arrestano l’inquilino del piano di sopra.

E allora: Antonio Panzeri è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Partito democratico e infine Articolo Uno per decenni. «È un uomo nostro»: la frase di Scalfaro non l’ha detta nessun dirigente. È possibile, per quanto inquietante, che nemmeno uno si sia accorto della personalità di costui, forse di un probabile cambio del suo tenore di vita, che so, di un qualche cosa che non quadrasse con il cliché di ex sindacalista votato alla causa dei lavoratori di tutto il mondo, segnatamente, da ultimo, del mondo arabo.

I vari europarlamentari del Partito democratico di questi anni non lo hanno frequentato? Gli assistenti, che a Bruxelles lavorano ora per uno ora per l’altro, non hanno notato nulla? Così come è possibile, anche se allucinante, che i socialisti europei, e in particolare greci, non si siano mai accorti di che tipetto fosse Eva Kaili, una compagna talmente capace da essere eletta vicepresidente dell’Europarlamento su designazione dei socialisti. È possibile, anzi è probabile, che nessuno avesse sospettato alcunché. Ma allora sono tutti degli sprovveduti, dei tontoloni, degli addormentati.

Tra tante persone intelligenti e oneste non uno che avesse rizzato le antenne: un tempo, dispiace dirlo, a sinistra non funzionava così. C’erano gli anticorpi. A partire dalla sensibilità dei dirigenti.

Si dice: le mele marce ci sono sempre. Sì, ma qui sta emergendo un sistema, una rete che probabilmente è stata pazientemente intessuta per anni. Al di là dei luoghi comuni, che dice Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito democratico e leader morale di Articolo Uno che si appresta a rientrare nel Partito democratico? L’arrestato non era un uomo suo? Ha parlato Matteo Renzi, come al solito polemico: Panzeri «se ne andò dal Partito democratico perché diceva che io ero contro i valori della sinistra. Ma quali erano questi valori?».

Renzi era segretario del Partito democratico quando nel 2014 Panzeri venne ricandidato, ma giova ricordare che le liste elettorali sono lottizzate tra le correnti ed è difficile che una corrente metta il becco sulle scelte delle altre: e anche questo nel Partito democratico ci sarebbe da correggere. E Articolo Uno, un partito così piccolo, non si accorge che c’è del marcio a Bruxelles che origina da un suo esponente? Nessuno se n’è accorto ma è proprio questo che sotto il profilo politico preoccupa.

Si aspettano i risultati delle indagini, com’è giusto, e poi dei processi, ma pare veramente difficile a questo punto pensare che si tratti di un errore giudiziario, visto che ci sono personaggi, come il padre della ex vicepresidente greca, che scappano con il bottino; e va sempre ricordato che le responsabilità penali sono personali.

Le responsabilità politiche però no, sono collettive. Sono dei partiti, Partito democratico e Articolo Uno che ormai è nel Partito democratico. Stefano Bonaccini ha ricordato Enrico Berlinguer e la questione morale: solo che ora la questione morale è un problema della sinistra. Quella sinistra che ha il dovere di capire e di spiegare come sia stata possibile questa roba soprattutto per rispetto dei suoi elettori, già frastornati dalla crisi di questi mesi a cui si aggiunge adesso la vergogna di «un uomo nostro» al centro di uno scandalo internazionale. Il grande silenzio è la risposta peggiore.

È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Marco Gervasoni il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Ma così è. Pensiamoci: l'area politica socialista che, dal crollo del Muro di Berlino in poi, per sostituire una nuova utopia con quella appena morta, è stata la più fanatica sul piano dell'europeismo, sposato con i diritti e il secolarismo multiculturalista, è anche quella che sta danneggiando maggiormente non solo il sogno europeo, come tale irrealizzabile, ma anche la Unione Europea reale. Le banconote di decine di migliaia di euro in casa di parlamentari, ex parlamentari, loro collaboratori; le ong, le sacre ong, utilizzate come organizzazioni di raccolta fondi per spese sembra personali, le vacanze a 9 mila euro, paiono uno scenario che neppure i brexiters più scatenati, i Nigel Farage, le Le Pen e i Salvini di un tempo, avrebbero potuto costruire, nella loro propaganda per l'uscita dalla Ue e dall'euro. E oggi ancora, a gongolare è Orban, che può accusare di ipocrisia il Parlamento europeo, promotore, non senza ragione, di mozioni per condannare la corruzione e la violazione dello stato di diritto in Ungheria. Violazioni certo presenti, ma se poi paragoniamo Budapest a Doha, Orban ne esce come un seguace di Soros.

Non ultimo, l'effetto negativo è anche nei confronti della Russia, la cui propaganda ora afferma di non voler prendere lezioni da un'entità corrotta come la Ue - benché un europarlamentare Pd, non indagato, ma lambito, sia anche uno di quelli che vota regolarmente pro Putin da quando è iniziata la guerra.

Come scriveva nell'editoriale di ieri il Financial Times, «che regalo agli anti europeisti», tanto più che il parlamento si presenta come «la coscienza morale dell'Europa». Certo, siamo tutti garantisti, anzi lo siamo più noi degli esponenti del Pd, che fingono di non conoscere figure elette per diverse legislature e prestigiosi esponenti del loro gruppo, il Pse. Ma certo, i socialisti dovrebbero chiedersi perché i paesi arabi abbiano puntato soprattutto su di loro: la risposta, tra le tante, è che mai nessuno, come loro, ha sviluppato un rapporto cosi forte con l'Islam, con tutto il correlato di tolleranza verso l'immigrazione clandestina e legami con le ong. E chi ha fatto crescere maggiormente l'Islam nelle società europee, se non sindaci e premier di partiti del Pse? Insomma, come nell'antica tragedia, la nemesi non è cieca e finisce sempre per colpire laddove deve.

Superiorità morale, così crolla la bugia. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Augusto Minzolini il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A volte si rimuovono il passato e le proprie convinzioni ideologiche ed etiche in un batter d'occhio. Con un colpo di spugna si cancella dalla memoria ciò che si è predicato per mezzo secolo. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Questo, almeno per adesso, è un dato di fatto. E solo ora, in assenza di una linea di difesa credibile, il commissario europeo Paolo Gentiloni, ex premier del Pd, ammette: «Penso che la sinistra abbia riconosciuto che comportamenti di corruzione non sono appannaggio della destra o della stessa sinistra. I corrotti sono di destra e di sinistra».

Ragionamento che non fa una piega, perché l'onestà, come la corruzione, non ha colore. Purtroppo, però, la sinistra, in tutte le sigle cangianti con cui si è presentata negli anni, ha sempre teorizzato il contrario. È sempre vissuta, da Enrico Berlinguer in poi, nel mito della propria diversità, pardon della propria superiorità morale. Un totem che ora viene drasticamente meno. Ciò che è avvenuto a Strasburgo, infatti, mette fine ad una rendita di posizione di cui per decenni ex-comunisti, cattocomunisti, sinistra democristiana, ds, margherite, ulivi e partiti democratici o articoli uno, hanno sempre beneficiato, coltivando un'illusione - o una maleodorante bugia: quella che gli schieramenti politici non si formano sulle idee, ma sull'etica.

Ora è rimasto solo qualche Savonarola da strapazzo a teorizzarlo. Anche perché accettare mazzette da chi considera nel proprio Paese la vita e la libertà delle persone meno di niente mentre si mettono in piedi Ong per la difesa dei diritti umani, dimostra che tutto è in vendita: ideologia, coscienza e anima. Qualcuno ha fatto il paragone con Tangentopoli, ma neppure questo calza, perché la maggior parte degli indagati e dei condannati di allora fu mandato al «patibolo morale» per finanziamento illecito ai partiti, cioè le mazzette nella maggior parte dei casi - non tutti, perché i mascalzoni ci sono sempre stati - servivano a tenere in piedi un'attività politica, cioè coltivare nella società idee, appunto, di centro, di destra o di sinistra. Qui, invece, il paravento degli ideali di libertà e di rispetto della vita umana servono solo a consegnare le vittime che, sulla carta, si difendono ai carnefici. Appunto, si vende l'anima al diavolo.

Per cui non c'è alibi, motivazione, ragione che in questo caso possa coprire il marcio. Questa vicenda è la pietra tombale sulla diversità della sinistra perché la corruzione investe l'ultima bandiera di quel mondo, cioè la difesa dei diritti umani, delle libertà e del rispetto dei lavoratori, le battaglie su cui partiti e sindacati si sono concentrati, dall'immigrazione alla lotta contro le autocrazie. Ma c'è anche un elemento simbolico da non trascurare. La storiaccia è ambientata in un posto che la sinistra ormai da anni ha eletto a luogo sacro contro il populismo e il sovranismo: il Parlamento europeo. E, invece, grazie ai nuovi farisei che oggi si alimentano di «retorica europeista» come ieri di «questione morale», i mercanti hanno violato il tempio.

Il bianco e il nero. "Qatar? A sinistra finalmente sono 'normali'.." "Una vicenda ininfluente" Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Ecco le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto. Francesco Curridori il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo raccolto le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto.

La vicenda delle mazzette arrivate dal Qatar quanto danneggia il Pd e la sinistra?

Piepoli: “Il danno lo hanno ricevuto dalle elezioni, non dal Qatar. Si sono disfatti, hanno lottato per perdere e hanno perso. Di questa vicenda mi vien da dire solo questo: ‘Finalmente sono normali, rubano anche loro’. Che, poi, è ciò che pensa anche l’opinione pubblica. Pensa che sono normali filibustieri, altro che ‘sacre ruote del carro della vita’. E, in effetti, personalmente, ritengo questa una vicenda normale e priva di qualsiasi rilevanza politica”.

Noto: “Il Pd è in calo da mesi. Dalle elezioni a oggi è passato dal 19 al 16%. Non è detto che subirà un’ulteriore flessione dovuta a questa vicenda. Il vantaggio è che i parlamentari europei coinvolti sono poco noti. Il problema che si pone in vista del congresso Pd, casomai, è quello relativo alle regole da darsi per non incorrere in questi rischi?”

Il caso Somahoro com’è stato percepito dall’opinione pubblica?

Piepoli: “Non abbiamo fatto rilevazioni in merito a questo caso, ma posso dire ciò che ho percepito io. Anche in questo caso si tratta di una normale vicenda che non appassiona l’opinione pubblica che, in realtà, è molto più interessata all’esito dei Mondiali di calcio. ‘Panem et circenses’ dell’imperatore Claudio è valido ora come nel 53 a.C.”.

Noto: “C’è stata una forte delusione perché Somahoro era diventato un personaggio pubblico. Non sono i singoli fatti che spostano il consenso però, anche se c’è stata una forte delusione, non è detto che qualcuno cambi la propria intenzione di voto”.

Minacce alla Meloni. Il premier passa come vittima oppure ha sfruttato mediaticamente le intimidazioni ricevute?

Piepoli: “No, la Meloni è una donna che si fa rispettare. È l’unica donna post-fascista in Italia ed è riuscita a imporsi in un partito di maschi. Sono convinto che governerà bene e per cinque anni”.

Noto: “Questi eventi, invece, colpiscono molto gli italiani che sono molto attenti a queste cose. Gli italiani si sentono sicuramente vicini al premier e la Meloni ne esce ‘vittima’ in termini politici”.

Alla Meloni converrebbe elettoralmente ritirare la querela nei confronti di Saviano?

Piepoli: “Ritirare una querela è sempre un atto d’onore e, se lo facesse, avrebbe la mia ammirazione. Ma, se non la ritira, fatti suoi. Non è un qualcosa che tocca l’opinione pubblica. È solo un problema personale. Al Paese interessa che ci siano più posti di lavoro, non Saviano. Chi è Saviano? Che cosa ha prodotto per il Paese?”.

Noto: “Il consenso a un partito politico non cambia come noi cambiamo i programmi televisivi. Il consenso è più duraturo che cambia in base a più fattori. Dovendo pensare al proprio elettorato, non dovrebbe ritirare la querela. Se, invece, volesse rendersi più attraente verso l’elettorato di sinistra che non l’ha votato, allora dovrebbe ritirarla. Fare una scelta o l’altra non sposta consenso nell’immediato”.

Regionali nel Lazio e nella Lombardia. Chi è il favorito?

Piepoli: “I tre candidati della Lombardia sono tutte persone degne e preparate per governare una Regione che ha il Pil della Svizzera. Sul Lazio non abbiamo ancora dati. Al momento, però, posso dire che non c’è alcun favorito certo”.

Noto: “Nel Lazio è difficile dirlo perché mancano ancora i candidati. Il centrodestra, è avanti, ma senza il candidato si può dire poco, ma non è certamente un buon segnale. In Lombardia è avanti Fontana e subito dopo Majorino e la Moratti si contendono il secondo posto. Secondo i nostri sondaggi il candidato del Pd è un po’ più avanti, ma per il momento Fontana è avanti in maniera significativa”.

Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista. Federico Novella su Panorama il 12 Dicembre 2022.

La vicenda Panzeri, come quelle degli ultimi mesi di altri big italiani del Pd, racconta come sono sempre più i comunisti che non difendono gli interessi degli ultimi ma soprattutto i loro stessi Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista

Per quanto sia obbligatorio considerare tutti innocenti fino a prova contraria, lo spaccato che esce dall’eurotangentopoli in salsa Qatar è desolante per diversi motivi. Il primo è che tutti i protagonisti politici sono affiliati alla sinistra europea. A dar retta alle accuse della procura sono loro, i paladini degli ultimi, i primi a tentare di arricchirsi personalmente. Dal fulcro dell’indagine, Antonio Panzeri, fino alla vicepresidente del parlamento Kaili, sacchi di denaro volano sui bei propositi umanitari di chi dice di lottare per i diritti dei più sfortunati. Attendiamo i dettagli dell’inchiesta, e soprattutto aspettiamo di vedere se ci sia qualcosa di più grande sotto la punta dell’iceberg. In particolare dietro quest’ennesima Ong dal nome che è tutto un programma, “Fight Impunity” , creatura di Panzeri dal quale si sono dimesse in blocco le eccellenze italiane ed estere che fino a ieri ne abitavano il board: dalla Bonino al greco Avramoupolos.

In Italia abbiamo appena finito di indignarci per il caso Soumahoro, ed ecco arrivare la tempesta di Bruxelles: vicende diverse, ma equivalenti su un punto: occorre prestare attenzione a chi si professa buono e pio. La bontà può diventare spesso un paravento per nascondere traffici quantomeno oscuri. L’altra certezza, mentre la procura indaga, è che il Parlamento Europeo non sembra esattamente quel palazzo di vetro che vorrebbero raccontarci. Stando a quanto si legge in queste ore, somiglia più ai corridoi bui delle Nazioni Unite, dove transita gente di ogni risma, senza controlli e senza grandi slanci morali. Non poteva che essere così, dal momento che le istituzioni europee , così congegnate, non hanno mai avuto reale legittimità democratica. E laddove non c’è trasparenza, prima o poi arrivano soldi e lobbisti. Il quotidiano “Il Giorno” ha ricordato che 485 deputati hanno lasciato l’europarlamento nel 2019: di questi, il 30% lavora oggi per gruppi di pressione. Panzeri era uno di questi. La politica delle porte girevoli spesso non è illegale, ma si sviluppa selvaggiamente all’ombra di regole deboli e oscure. Come si diceva in principio, sulla materia dei diritti umani sembra essere la sinistra quella più propensa a coltivare rapporti di alto livello. Sul secondo lavoro di Massimo D’Alema, cioè quello della consulenza finanziaria, si è detto molto: ultimamente pare abbia fatto da tramite tra una cordata di sceicchi del Qatar e il governo, per l’acquisizione della raffineria Lukoil di Priolo. Nulla di male, per quanto ne sappiamo. Ma quest’abitudine ha fatto dire al vicesegretario del Pd Provenzano che “vedere grandi leader della sinistra fare i lobbisti la dice lunga sul perché la gente non si fida più”. E qui arriviamo all’ultima certezza di questa storia, a prescindere dagli esiti delle indagini: ad essere morta e sepolta è la cosiddetta “superiorità morale” della sinistra. La sindrome per cui da quella parte politica ci si arroga il diritto di distribuire agli avversari patenti di onestà e limpidezza morale. Una sindrome nata con Tangentopoli, e morta con Qataropoli. Nata con la presunta difesa dei diritti degli sfortunati, e morta con la difesa dei diritti degli Emirati.

Da lastampa.it il 10 dicembre 2022.

«Continuo a leggere sui media che la Signora Soumahoro mi avrebbe denunciato per avere diffuso sue fotografie senza veli, da me scattate, senza il suo consenso. L'accusa che mi si muove è del tutto infondata». Il fotografo Elio Leonardo Carchidi replica alla notizia della moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, Liliane Murekatete, che lo avrebbe denunciato per la «diffusione senza permesso» di alcuni scatti hard che la riguardano. 

La donna è al centro dello scandalo delle coop che gestiva insieme alla madre, sulle quali sta indagando la Procura di Latina tra stipendi e tasse non pagati e migranti costretti a vivere senza cibo e acqua. Non le sono stati perdonati i selfie in cui compare con abiti e borse firmate: foto che hanno spinto i suoi detrattori a coniare per lei il soprannome «Lady Gucci».

Nei giorni scorsi Liliane Murekatete si è difesa accusando i media per «la costruzione del racconto volto a rappresentarmi come una cinica 'griffata' e ad affibbiarmi icastici titoli derisori». E ora tramite l’avvocato Lorenzo Borrè ha fatto sapere di aver presentato una denuncia verso il fotografo, Elio Leonardo Carchidi, che a suo dire ha pubblicato online le foto –  individuate e riprese poi da alcuni organi di informazione – senza permesso. 

Ma Carchidi non ci sta. E a sua volta ha definito «infondate» le accuse di lady Soumahoro, «come potrò dimostrare». «Ho conferito mandato all'Avv. Fabrizio Galluzzo – ha concluso il fotografo – affinché mi difenda nelle opportune sedi e tuteli la mia onorabilità e professionalità, lese dalle non veritiere notizie trapelate».

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 6 dicembre 2022.

Il caso di Aboubakar Soumahoro, della sua compagna Liliane e della di lei famiglia ha preso una piega hot. Anzi rischia di diventare un vero sexygate. Tutto è iniziato ieri mattina quando il sito Dagospia ha pubblicato alcune foto in pose ammiccanti di Liliane, già soprannominata Lady Gucci, con grande scorno della protagonista. 

In un video del 2018 trasmesso domenica da Non è l'Arena la donna ha spiegato che quelle borse potevano essere dei regali del passato. E adesso dal passato spuntano le foto scollacciate. Un portfolio intitolato Glamour con sotto il nome della modella: Liliane. 

Era il 2012 e la donna ai tempi aveva 35 anni e bazzicava o aveva bazzicato Palazzo Chigi, quando capo del governo era Silvio Berlusconi. I dodici scatti che si trovano ancora sul sito del fotografo calabrese Elio Carchidi, non lasciano molto spazio all'immaginazione.

 La giovane ruandese sfoggia diversi completi intimi e anche una parrucca bionda.

In quattro pose indossa un body rosso trasparente, in altre due una culotte nera, in una un reggiseno carioca e in cinque è senza vestiti, sia sotto la doccia che in un letto sfatto, dove esibisce un nudo integrale frontale appena celato dal drappeggio di un lenzuolo. 

All'epoca Liliane non conosceva Soumahoro e veniva da una lunga esperienza a Palazzo Chigi. Poi era arrivato Mario Monti e lei si era tolta lo sfizio di farsi ritrarre senza veli.

Per capire il senso dell'operazione abbiamo contattato Carchidi, che nega di aver inviato lui le immagini a Dagospia. Gli chiediamo se quegli scatti potessero servire per qualche inserzione online. Ma il professionista è categorico: «Escluderei a priori che quelle foto siano state fatte per un annuncio sexy».

Per quel lavoro Carchidi non sarebbe stato pagato: «Mi sarebbe dovuto tornare utile solo dal punto di vista del portfolio. Ho pubblicato questa brochure per dire che realizzo quel tipo di immagini». 

Il fotografo ammette di aver sperato di poter cedere suoi scatti a qualche rivista glamour: «Ma purtroppo, non essendo lei un personaggio noto, sono rimasti invenduti». 

Gli ricordiamo che quella modella aveva appena lasciato Palazzo Chigi e domandiamo se durante lo shooting Liliane avesse parlato di quel mondo. Risposta: «Mi ha solo detto che lavorava o che aveva comunque contatti con Palazzo Chigi o con settori della politica, ma non mi fece nomi di personaggi anche perché non c'era grande confidenza. L'avrò vista tre volte in tutto». Da allora si sono scambiati solo un messaggio su Facebook, quando Carchidi ha scoperto dai social che Liliane era rimasta incinta.

Ma alla fine del set fotografico la futura compagna di Soumahoro si mostrò contenta: «Sì, era molto soddisfatta delle immagini». Non le ha mai chiesto di toglierle dal sito? «No, altrimenti l'avrei fatto». Aveva scelto lei il genere di pose? «Quelle si scelgono insieme, non c'era un layout da seguire, era abbastanza libero. Il nudo è venuto così, non si chiede mai espressamente». 

Di fronte alla nostra curiosità, il fotografo un po' si ritrae, anche perché ieri 3-4.000 utenti hanno visitato il suo sito: «Ho clienti di ogni genere, dal prete al chierichetto, sportivi, giornalisti. Ci sono anche signori e signore che amano farsi fotografare in atteggiamenti sexy senza nessun obiettivo preciso forse per un piacere intimo. Quelle non erano foto per vendersi questo sicuramente no».

La ragazza le sembrava una professionista della moda? «No, non posava come una modella esperta, era una ragazza normale che lo faceva per il gusto di divertirsi, nulla di più». 

Fu accompagnata da qualcuno sul set? «No, venne da sola. Lei mi ha sempre parlato della famiglia, verso la quale aveva un grosso attaccamento. Mi disse che lavorava in politica, ma non sono stato lì a indagare, in tanti millantano conoscenze nei palazzi. Lo ripeto, mi confidò di avere qualche contatto a Palazzo Chigi».

Nei giorni scorsi abbiamo parlato anche con V.G., cognata di Liliane. Le abbiamo chiesto lumi sui trascorsi della donna ruandese con il governo Berlusconi e questa è stata la risposta, a giudizio della nostra interlocutrice, «esemplificativa»: «Una sera eravamo tutti a cena. Non ricordo se fosse Natale o Pasqua o un'occasione così e mio figlio, il secondo, che era piccolino, avrà avuto 5 o 6 anni, ha chiesto alla zia che era sempre in giro, in viaggio: «Ma tu veramente che lavoro fai?". 

È sceso il silenzio. Nessuno ha risposto, tanto meno lei che ha sviato il discorso. Io non so esattamente quale fosse la sua attività, non l'ho mai saputo io ero curiosa aspettavo la risposta, ma non è arrivata». L'idea di V.G. qual era? La donna ha replicato con un sorriso eloquente e queste parole: «Non lo so e non mi interessa più di tanto.

Ognuno nella sua vita fa quello che crede. Comunque ci sono persone che hanno il potere di far sembrare quello che non è e lei probabilmente è una di queste». 

Liliane Murekateke, figlia della fondatrice della Karibu Marie Therese Mukamitsindo, era stata a Palazzo Chigi con Berlusconi, tra il 2003 e il 2006, cooptata da Alberto Michelini all'epoca nominato rappresentante personale di Berlusconi per il «Piano di azione per l'Africa». Poi ci era rimasta con Romano Prodi e, di nuovo, con il Cavaliere dopo il suo trionfo elettorale del 2008. Di lei Michelini ha ricordato un aneddoto: «Un giorno incontrammo il primo ministro del Ruanda e lei me lo presentò come suo zio.

Così mi disse. E vidi che si salutavano in modo affettuoso».

L'unico riscontro che si trova su Internet di questi incarichi istituzionali risale al 2009, anno in cui ha percepito dalla Presidenza del Consiglio per una consulenza 8.500 euro (a fronte di uno stanziamento per il progetto di 17.000). Sul suo profilo Linkedin la compagna di Soumahoro, riguardo alla sua esperienza a Palazzo Chigi, sostiene di essere stata per un anno, a partire dal 2008 «vice rappresentante personale a interim per l'Africa del Primo ministro» e poi, dal 2009 al 2011, «rappresentante personale a interim per l'Africa del Primo ministro».

Ed è durante questo incarico che, nel giugno 2010, l'allora ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna si reca a Sezze (Latina) per visitare la sede della Karibu, evidenziando «l'importanza di sostenere, finanziariamente e non solo, realtà che, come queste, cercano di far dimenticare alle donne i traumi terribili subiti». 

L'anno dopo arriva, proprio grazie al centro-destra, quella che forse è stata la svolta per la coop. È raccontata negli atti di un'indagine congiunta della Polizia locale e della stazione dei carabinieri di Sezze. L'inchiesta riguardava la gestione dei profughi approdati nei comuni della Provincia di Latina dopo l'ondata di sbarchi causata dalla guerra in Libia che aveva messo a dura prova l'ultimo governo Berlusconi.

La gestione della tendopoli di Manduria, in provincia di Taranto, aveva infatti portato alle dimissioni sia del sindaco della cittadina pugliese sia a quelle, ben più eclatanti, dell'allora sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano. 

La Regione Lazio, all'epoca guidata dalla giunta di centro-destra presieduta da Renata Polverini, coinvolge, insieme ad altri Comuni limitrofi, quello di Sezze. Inizialmente partecipano al progetto tre realtà del posto, ma non la coop della Mukamitsindo. Ma, come annotano gli investigatori, «successivamente ci sono una serie di comunicazioni tra la Regione Lazio - soggetto attuatore - e la cooperativa Karibu, dove si richiedeva la disponibilità all'accoglienza». Che viene offerta per 50 profughi.

Gli investigatori sentono due volte la presidente Marie Therese, mamma di Liliane. Nel secondo interrogatorio del luglio 2011 la donna riferisce le presunte accuse di alcuni ospiti contro una delle realtà coinvolte nel progetto: «Mancava il corso di lingua obbligatorio, il medico che effettuasse delle visite, l'acqua potabile, la corresponsione del pocket money». E di fronte a questo scenario, l'imprenditrice, ritenendo di essere stata «tratta in inganno», prende l'iniziativa e comunica telefonicamente alla Regione Lazio «che per tale situazione venivano presi in carico completamente dalla coop Karibu» e che «sarebbero stati allocati in altre sedi con aggravio di spese». 

Una mossa che dà il via alla crescita esponenziale della Karibu, che era diventata partner Sprar del Comune di Sezze nel 2010, dopo aver gestito, dal 2001, lo Sportello immigrazione municipale. Un exploit confermato dal bilancio del 2011 della cooperativa che, grazie anche alla distribuzione dei profughi libici sul territorio pontino, vede schizzare il valore della produzione da 837.297 euro a 2.065.310 euro. Cifra che nel 2012 cresce ulteriormente, arrivando a 2.696.519. Un fatturato più che triplicato, anche grazie all'emergenza libica.

Tommaso Labate per corriere.it il 7 dicembre 2022.

«No, non avevo assolutamente collegato, d’altronde sarebbe stato impossibile. Ero davanti alla televisione, a un certo punto parte un servizio sul caso Soumahoro e appare la sua compagna. Sulle prime dico tra me e me “mah, può essere, forse, chissà…”. Poi ho guardato meglio, ed era davvero lei». 

Questo racconto comincia con la testimonianza di Laura Boldrini. Che, all’inizio dello scandalo che ha travolto la cooperativa Karibu di Marie Therese Mukamitsindo e macchiato l’immagine del di lei compagno della figlia Aboubakar Soumahoro, fresco deputato della Repubblica eletto con l’alleanza Verdi-Sinistra e oggi autosospeso dal gruppo parlamentare, sta seguendo in tv un programma che si occupa del caso. 

L’ex presidente della Camera, che ha un passato importante nell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, conosce ovviamente Soumahoro e in passato ha incontrato anche Marie Therese. Le manca il «link»  tra i due. Le manca, o quantomeno è quel che crede fino a quel momento, la figura di Liliane Murekatete, figlia di Therese e compagna di Aboubakar.

Sembra la scena finale de I Soliti Sospetti, quando il commissario interpretato da Chazz Palminteri scruta con attenzione la lavagna di fronte alla quale ha interrogato l’anonimo personaggio interpretato da Kevin Spacey. E accende un nuovo faro sulla storia della donna più «cercata» d’Italia. La cooperante dalle borse e degli abiti firmati, la «Lady Soumahoro» che qualcuno ha ribattezzato «Lady Gucci», la «CooperaDiva» (copyright Dagospia), la donna che invoca per interposta persona «il diritto all’eleganza» (copyright Soumahoro), la bellezza che in alcuni scatti del web ripiombati dal passato posa in vesti a dir poco succinte. Per le foto che ritraggono Liliane è partita la diffida alla pubblicazione. 

Ma soprattutto, e qui la storia è talmente sorprendente da far impallidire anche l’intreccio del Bel Ami di Maupassant, l’ex sconosciuta che attraversa quattro diverse legislature con quattro travestimenti differenti: quella dei governi Berlusconi II e III da dipendente della Task force per l’Africa guidata da Alberto Michelini, quella del Prodi II da dipendente di Palazzo Chigi, quella del Berlusconi IV sempre al palazzo del governo e l’inizio del Meloni I come ultracelebre compagna di un deputato dell’opposizione. 

L'arrivo a Palazzo Chigi

Intervistato dal programma de La7 Non è l’arena, condotto da Massimo Giletti, l’ex berlusconiano Michelini racconta di come la giovane Liliane Murekatete, che all’inizio degli anni Duemila lavora con lui, si presentasse come «nipote del premier rwandese». Quando la Task Force per l’Africa voluta da Berlusconi va in missione in Rwanda, «il premier me l’ha presentato lei dicendo 'è mio zio'.  E non avevo dubbi di credere che lo fosse, anche perché ho visto come lui salutava lei, affettuosamente, come un familiare…». 

Ma com’era arrivata una ragazza poco più che ventenne come Liliane a lavorare per il governo Berlusconi? Racconta Laura Boldrini: «Come sapete, ogni 21 giugno si tiene la Giornata mondiale del rifugiato. Per l’occasione, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite chiede alle organizzazioni di segnalargli alcuni testimoni da far intervenire alle celebrazioni. Ora non ricordo quale fosse l’organizzazione, se la Caritas o il Cir o qualcun altro, ma proprio da una di queste viene segnalata questa ragazza, Liliane. Che infatti prende la parola. Era l’inizio degli anni Duemila, non saprei dire l’anno di preciso. So solo che, qualche tempo dopo, incontro Michelini. Che mi dice: 'Ma lo sai che quella bravissima ragazza che è intervenuta il 21 giugno l’abbiamo presa a lavorare con noi?’». 

Solo quindici anni dopo, nel 2017, durante la consegna di un premio assegnato da Moneygram, Boldrini farà la conoscenza – a un evento a cui partecipano anche Emma Bonino e Gianni Pittella – della mamma Maria Therese e ritroverà la giovane Liliane conosciuta anni prima. Il link con Soumahoro le apparirà invece solo guardando la tv qualche settimana fa, all’inizio del «caso». 

«Ad Arcore non è mai venuta»

Ma che cos’aveva fatto Liliane negli anni precedenti? Dai primi anni Duemila all’autunno del 2011, quando cade il governo Berlusconi IV, non si muove da Palazzo Chigi. Nel 2006 Michelini, per sua stessa ammissione, la segnala al governo Prodi insieme a un’altra componente della sua segreteria particolare. E quando i berlusconiani tornano al governo due anni dopo, ecco che Liliane è ancora al suo posto. Solo che stavolta sale di grado e «assume addirittura il ruolo - è sempre Michelini che parla - di rappresentante personale facente funzioni». 

L’ex senatrice Maria Rosaria Rossi, in quella fase, è il braccio operativo del Cavaliere. Monitora la sua attività a Palazzo Chigi e, com’è noto, controlla chi entra e chi esce da Palazzo Grazioli a Roma e dalla Villa di Arcore. «C’era una persona che assomigliava a lei che lavorava per il governo a quel tempo. Ma non saprei dire con certezza se si trattasse o meno della compagna di Soumahoro che ho visto sui giornali e in tv in questi giorni. Mi chiede se potrebbe essere lei? Col condizionale rispondo di sì, potrebbe».

È possibile che Liliane Murekatete frequentasse le residenze private di Berlusconi? «Su questo posso essere più precisa. E la risposta è assolutamente no. Ad Arcore di sicuro non è mai venuta». 

Il 21 giugno di una ventina di anni fa, durante la Giornata mondiale del rifugiato, la vicenda di Liliane prende un’altra piega. Vent’anni dopo è tutta un’altra storia, con decine di altre storie in mezzo. Gli scatti decisamente piccanti tornati a circolare sulla Rete hanno adesso una firma, quella del fotografo Elio Carchidi. Scattate nel 2012, non erano state richieste o acquistate da nessuno. Oggi vanno a ruba.

Giacomo Amadori per La Verità il 10 dicembre 2022.

La lista dei soci non lavoratori della Karibu che la presidente Marie Therese Mukamitsindo ha consegnato agli ispettori del ministero delle Imprese e del made di Italy il 29 novembre scorso è sconcertante. Non solo a fianco dei nomi non c'erano riferimenti per eventuali contatti, ma l'identità degli stessi lascia pochi dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte a una cooperativa fasulla. 

Nell'elenco c'è di tutto: sette soci fanno parte della famiglia allargata di Aboubakar Soumahoro, gli altri dieci sono quasi tutti ex lavoratori che non hanno quote, né hanno partecipato alla vita sociale della coop. Anzi più di uno deve ancora incassare vecchi stipendi. Alcuni hanno lasciato la Karibu da anni e ricevono o hanno ricevuto l'indennità di disoccupazione. 

C'è chi vive all'estero e persino chi è morto. Ma nessuno di loro, a parte i parenti acquisiti di Soumahoro, sembra aver mai deciso qualcosa o votato bilanci.

La Verità ha visionato in esclusiva la lista dei soci della coop per cui è stata chiesta la liquidazione coatta amministrativa. Oltre ai consiglieri di amministrazione, Marie Therese, il figlio Michel Rukundo e la figlia Liliane Murekatete (compagna di Aboubakar) nel libro soci ci sono altri 14 nominativi. Probabilmente inseriti a insaputa dei diretti interessati. Tra questi c'è anche Valeria G. che, in esclusiva, ci aveva raccontato di essere stata licenziata nel 2021 e di aver denunciato il coniuge Richard Mutangana per violazione degli obblighi di assistenza famigliare.

Anche Richard, terzo figlio di Marie Therese, è ovviamente socio, sebbene da febbraio non sia più un dipendente e, dal 2017, si sia trasferito in Ruanda dove gestisce una pizzeria e altre attività. Mutangana, lo ricordiamo, è stato, almeno sino al 2017, rappresentante legale dell'associazione di promozione sociale Jambo Africa, spesso presentata come una cooperativa; un'organizzazione che offriva servizi alla Karibu. Dal conto della Jambo partivano le ricariche per i migranti, ma anche ricchi bonifici diretti verso il Ruanda, movimenti attenzionati dal nostro Antiriciclaggio.

Socia della Karibu era pure Aline Mutesi, quarta figlia di Marie Therese. La trentatreenne di origini ruandesi è recentemente ritornata in Australia dal compagno iraniano e ufficialmente era anche presidente retribuito del consorzio Aid, altra struttura per cui Confcooperative e il ministero hanno chiesto lo scioglimento. Nell'elenco c'è anche la compagna italiana di Rukundo, Marina V., e con lei siamo a sette soci tutti interni alla famiglia. 

Gli altri dieci sono in gran parte ex operatori di origine straniera. Alcuni non siamo riusciti a rintracciarli. Come Eugenie U., sessantenne originaria del Burundi e residente in provincia di Latina, che non sembra aver mai percepito redditi dalla galassia di cooperative degli affini di Soumahoro. Vana è stata anche la ricerca della quarantottenne «socia» camerunense Alem Catherine N.. La libanese Zahia H., classe 1948, ha lavorato part-time per la Jambo Africa dal 2013 al 2016 prima di percepire la disoccupazione dal 2016 al 2017. Il 29 novembre sera, quando Marie Therese e il figlio hanno consegnato la lista dei soci agli ispettori, sopra c'era anche il suo nome. Peccato che fosse morta il giorno prima.

Evidentemente le comunicazioni tra soci dovevano andare a rilento. Mekdes T., trentaduenne etiope, è, invece, tornata in Africa. O per lo meno così ci ha riferito chi la conosce. Dal 2016 al 2019 ha lavorato per la Karibu, percependo redditi oscillanti tra i 12.000 e i 18.000 euro annui. 

Nel 2020 e nel 2021 ha riscosso la Naspi. La donna su Internet risultava presidente dell'associazione Gmia, che nella propria pagina Facebook non spiega quale sia l'attività svolta. La Rete ci informa che l'8 marzo 2019 Mekdes T. ha partecipato insieme con Liliane Muraketete alla manifestazione «Lottomarzo, lo sciopero globale transfemminista». Nell'occasione Karibu, Aid e Gmia hanno affrontato il tema della formazione e dell'aggiornamento professionale in un seminario intitolato «Libere di muoverci, libere di restare». 

Ieri siamo riusciti a parlare con un'altra rappresentante di Gmia, la vicepresidente Margaret Musio M., cinquantenne keniota. Nel 2017 è transitata dalla già citata e misteriosa Jambo Africa alla Karibu. Anche per lei gli stipendi variavano tra i 13.000 e i 17.000 euro annui. Dal marzo di quest' anno, dopo aver lasciato la coop della Mukamitsindo, ha iniziato a percepire l'assegno di disoccupazione. Quando le nominiamo il nome della Gmia, sibila una lunga interiezione: «Aaaaaaah. Noi abbiamo creato questa associazione, ma non abbiamo avuto entrate.

La Karibu ci deve ancora pagare perché abbiamo fatto le pulizie nelle strutture. Andavamo in giro con le macchine a puli' di domenica, ma non abbiamo ricevuto un centesimo. Per due anni non siamo stati retribuiti e alla fine ci siamo rifiutati di andare a puli'». Chi vi ha fatto aprire la Gmia? «È stato un consiglio vabbé lasciamo perdere». La Gmia e la Jambo Africa erano satelliti della Karibu, emanazioni della holding che negli anni ha ottenuto più di 60 milioni di fondi per l'accoglienza. 

Anche Margaret Mutio risulta socia della Karibu «Socia io? No, ho solo lavorato come operatrice nei centri di accoglienza della Karibu. Magari avessi preso i soldi come socia». Ribattiamo con la signora che il suo nome è stato inserito nel libro soci e lei esclama: «Nei miei conti non ho neanche un centesimo. Ho dovuto chiedere aiuto a degli amici italiani per pagare l'affitto e per mangiare. Venisse la Guardia di finanza a controllare. Se fossi socia mi spetterebbe una quota. Ma dalla Karibu e da Aid a me non è arrivato un euro per quel ruolo. Avrei dovuto anche conoscere tutti i progetti, le entrate, i guadagni, ma io non so nulla e sto morendo di fame».

Quindi Margaret era uno dei finti soci che serviva a garantire il rispetto della fondamentale prerogativa di una coop? La donna concorda: «Sì, per poi poter vincere i bandi. io sono solo una ex dipendente e non mi hanno liquidato neanche tutti i soldi che mi dovevano». Dunque nemmeno questa lavoratrice ha votato l'ultimo bilancio della Karibu, quello con un buco 2 milioni di euro di debiti? «Io stavo nelle strutture di accoglienza. Noi non sapevamo tante cose che competono ai soci e che si trovano nelle carte». 

Nella lista dei «fantasmi» si trova anche la ex presidente di Jambo Africa, Christine Ndyanabo K., cinquantaduenne ugandese. Ha lavorato tra il 2016 e il 2017 come dipendente part-time (salario tra i 14.000 e i 16.000 euro). Nel 2018 per sei mesi alla Karibu ha incassato 9.000 euro. Da dicembre 2018 ad aprile 2020 ha preso la disoccupazione. «Quando ero alla Jambo, la Karibu ci finanziava per fare la spesa e noi mandavamo le ricevute alla coop». Mutangana aveva una retribuzione di circa 40.000 euro.

«Macché» obietta la nostra interlocutrice piuttosto incredula. «Io no di sicuro. Io prendevo circa 7-800 euro al mese per il lavoro che facevo, che non era solo quello di presidente». Chiediamo a Christine se fosse socia e la replica anche questa volta è netta: «No, io ero solo una lavoratrice della Karibu. So che mettevano alcuni di noi come soci, ma non venivamo retribuiti per questo». In mezzo a tanti falsi soci, ce n'era una vera che nella scorsa primavera ha lasciato la barca che affondava. 

Si tratta di Liliane, la compagna di Soumahoro. Non sappiamo se la quarantacinquenne amante della moda, Aline e Richard siano usciti dalla Karibu e da Aid perché i conti stavano per saltare o perché avevano avuto notizia delle indagini in corso della Procura di Latina sulla presunta gestione truffaldina di fondi pubblici. Qualunque sia il motivo, il 13 maggio 2022, poche settimane prima di firmare l'acquisto della sua prima casa e di prendere l'ultima busta paga dalla Karibu, Liliane scrive alla madre, rivolgendosi a lei con l'ossequioso appellativo di «egregio presidente».

Una scrittura privata che nell'ultimo periodo è circolata anche dentro alla coop e di cui siamo entrati in possesso. È scritta a mano e l'intestazione con il vecchio indirizzo di casa di Liliane è in stampatello. Il testo è il seguente: «Come anticipato per le vie brevi, considerato che ho preso in data 4/4/2022 un'aspettativa e in data 11/4/2022 mi sono dimessa dal cda Karibu, confermo anche in questa breve missiva di essere tolta come socia della cooperativa. Con l'augurio di buon lavoro, colgo l'occasione per rinnovare i miei più sinceri sentimenti di stima». 

A luglio, come detto, Liliane prenderà l'ultima busta paga con tfr e il 30 agosto, invece, comparirà come segretario nel verbale di assemblea per l'approvazione del bilancio della coop. Di quella serata è dato sapere che erano «presenti tanti soci in rappresentanza della maggioranza del capitale sociale» e «il consiglio di amministrazione al completo». Ma per gli ispettori ministeriali a quell'assemblea probabilmente non partecipò nessuno se non Marie Therese con i figli Liliane e Michel. Anche perché gli altri soci sembra proprio che non possedessero quote, né avessero voce in capitolo nelle decisioni della Karibu.

Soumahoro, "mai un attacco". Scandalo senza fine, cosa spunta adesso. Libero Quotidiano l’11 dicembre 2022

L'ex sindacalista Aboubakar Soumahoro urlava contro le istruzioni per i ghetti foggiani, in particolare Borgo Mezzanone. Contro tutti, tranne che contro "il colosso dell'accoglienza Meidhospes che a Roma agisce in regime di monopolio ed ha appalti in tutta Italia", riporta il Giornale. "La gestione-lager della cooperativa legata a Mafia Capitale, documentata dall'inchiesta di Fabrizio Gatti per l'Espresso e finita poi sotto inchiesta, non ha mai riguardato il deputato con gli stivali", si legge.

I fatti risalgono al 2017 quando Camillo Aceto, presidente della coop che al tempo si chiamava Senis Hospes, si aggiudica il bando per la gestione del CARA al gran ghetto di Borgo Mezzanone. La scoopvince a ribasso con con 15 milioni, "abbassando la diaria dei 30 euro per ogni migrante - come riportava il bando, anche se per legge dovrebbero essere 35 - a 22 euro. 'Un'offerta anormalmente bassa che suscita il sospetto della scarsa serietà', scrisse l'Autorità Nazionale Anticorruzione che rimase inascoltata. Il bando della prefettura fu infatti affidato comunque ad Aceto, fino a quando il Viminale non la revocò: 1400 migranti al posto di 636 scritti nel contratto, condizioni di vita disumane e un utile - per i gestori - di un milione di euro al mese".

Nel 2018, Soumahoro è nell'Usb e si fidanza con Liliane che era nel cda di Karibu di proprietà della madre - ora indagata per truffa aggravata - "che, scopriamo, lavorava proprio fianco a fianco de"Le Tre Fontane, di proprietà di Medihospes, con cui si divideva i migranti a Latina. Un intreccio tra Latina e Foggia nel completo silenzio di Soumahoro". Non solo. "Dopo lo sfratto dal ghetto foggiano si avvia una procedura aperta per la gestione del CARA di Borgo Mezzanone, questa volta divisa in lotti. Nel 2021 è il presidente della Regione Emiliano che firma un protocollo d'intesa 'per la riconversione di Borgo Mezzanone' tra Regione, Provincia, Prefettura e ministero dell'Interno mettendo in campo la cifra di poco più di due milione e mezzo di euro, che vanno aggiunti, peraltro, ai fondi Pnrr, 103 milioni, emessi dal governo Draghi per lo smantellamento dei ghetti foggiani", si legge ancora. E il 12 ottobre 2021 "risulta che la Regione Puglia abbia erogato un finanziamento che sul sito del ministero non compare - per la gestione del Lotto 1 e per il valore di 698mila euro. La causale è la stessa del maxi bando da 2 milioni e mezzo ma non presenta il nome dell'aggiudicatario". Quindi la domanda è: a chi sono andati quei soldi?

Il silenzio di Soumahoro sulla coop che gestiva il ghetto dei migranti. Contro tutti, ma non contro i potenti: nessuna protesta, nessuna proclamazione di "autogestione" sulla gestione del lager di Borgo Mezzanone. Ecco perché il sindacalista con gli stivali ha taciuto. Bianca Leonardi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

“Non possono appaltare la libertà dei braccianti”, “Libertà!”, “Via da qui”: questi gli slogan dell’ora deputato ed ex sindacalista Aboubakar Soumahoro contro la gestione istituzionale nei “suoi” ghetti foggiani, in particolare Borgo Mezzanone. Contro tutti, tranne uno: il colosso dell’accoglienza Meihospes, proprio quello che a Roma agisce in regime di monopolio, detenendo oltre il 63% dei centri di accoglienza della capitale.

Si scopre che la mega coop legata a Mafia Capitale ha un passato oscuro proprio nel ghetto-patria di Soumahoro. Era il 2017 quando Camillo Aceto, presidente al tempo di Senis Hospes e ora di Medihospes - stessa coop, ma con nome diverso - vince l’appalto per la gestione del Cara di Borgo Mezzanone. Un bando con una base d’asta di 21 milioni di euro per la gestione di un solo anno: una vincita che fin dall’inizio è apparsa controversa per svariati motivi. Al primo posto i legami tra Senis Hospes e il Gruppo La Cascina, presente in tutte le inchieste di Mafia Capitale e di cui proprio Aceto era il vicepresidente tanto che, al momento dell’aggiudicazione, proprio il protagonista aveva un avviso di garanzia legato a quei fatti. Ma c’è di più: le anomalie strettamente collegate a quel bando erano visibili fin dall’inizio a tutti, ma non hanno fermato l’aggiudicazione.

La base d’asta era appunto poco meno di 21 milioni di euro, ma la Senis Hospes propone un’offerta a ribasso - che gli permette di vincere - di 15 milioni mediante l’abbassamento della diaria sui migranti. Per legge il corrispettivo minimo da destinare ad ogni ospite dei centri accoglienza al giorno è di 35 euro, sul bando della Prefettura di Foggia era già ribassato a 30 euro ma Aceto propone soli 22 euro.

“Un’offerta anormalmente bassa, che suscita il sospetto della scarsa serietà”, affermò al tempo l’Autorità Nazionale Anticorruzione, che rimase però inascoltata. E Fabrizio Gatti - autore del dossier per l’Espresso “Sette giorni all’inferno” che ha permesso di avviare un’inchiesta dopo la documentazione delle condizioni inumane all’interno del ghetto - dichiarò: “La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità”.

E infatti le cose non andarono nel modo giusto: nel 2018 il Viminale decise di revocare la gestione a Senis Hospes, che incassava un utile di un milione di euro al mese, a causa delle condizioni in cui venivano fatti vivere i migranti/braccianti. Sovraffollamento al primo posto, con 1400 persone al posto di 636 scritti nel contratto, misure di sicurezza inesistenti, personale praticamente inesistente, condizioni igienico- sanitarie al limite del vivibile e lavoro in nero mediante caporali che sfruttavano i braccianti con turni massacranti di più di 12 ore.

A livello giudiziario, dopo l’apertura dell’inchiesta, non sono emerse conseguenze concrete nei confronti della coop, ne di Camillo Aceto, tanto che negli anni successivi si è espansa ancora di più su tutto il territorio italiano con la vincita - all’ordine del giorno - di appalti milionari. A livello politico, nemmeno.

Quello che incuriosisce è la figura di Aboubakar Soumahoro: proprio nel 2018 si fidanzava infatti con Liliane Murekatete, ai tempi nel cda della Karibu di proprietà della madre - che ora è indagata per truffa aggravata - e che a quel tempo collaborava a Latina proprio con una creatura di Aceto. Karibu e “Le Tre fontane” - ora inglobata in Medihospes e anch’essa nel ciclone di Mafia Capitale - si scopre che si “dividevano” i migranti sul territorio pontino. Un filo diretto tra Foggia e Latina, tra il ghetto del deputato con gli stivali e le vicende della famiglia di cui dice di aver mai saputo nulla.

Un silenzio, quello di Soumahoro, che pesa come un macigno considerando che la gestione della Senis Hospes è l’unica che non ha ricevuto le forti e potenti proteste di cui l’ex bracciante si è sempre fatto portavoce in nome dell’autogestione dei ghetti.

Quel finanziamento fantasma di Emiliano: il giallo delle coop per i migranti. Un'erogazione da parte della Regione Puglia, che non compare sul sito del Ministero dell'Interno e non presenta il nome dell'aggiudicatario, per la gestione di Borgo Mezzanone. Ma nel ghetto, al momento, non c'è nessuno. Bianca Leonardi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Le vicende legate al presunto “business migranti” e agli appalti milionari sui centri accoglienza continuano e sembrerebbe non si siano mai fermate. Come già abbiamo documentato, al centro di questo vortice c’è ancora la Medihospes, uno dei colossi dell’accoglienza che opera in tutt’Italia ma principalmente a Roma e in Puglia, dove ha anche la sede.

Ed è proprio in Puglia che la coop, legata a Mafia Capitale, è stata al centro di un’inchiesta a causa della gestione del ghetto di Borgo Mezzanone. Nel 2018, dopo un anno di presenza nella “casa” del deputato Soumahoro - che non ha mai proferito parola sulla questione - il Viminale decise di revocare il bando - che già in partenza presentava qualche magagna come già abbiamo raccontato - a causa delle condizioni inumane in cui venivano fatti vivere i migranti. La coop di Camillo Aceto, che al tempo si chiamava Senis Hospes, fu quindi “sfrattata” senza però conseguenze giudiziarie concrete. Subito dopo venne infatti indetto una nuova procedura aperta alla ricerca di un nuovo gestore per il Cara di Borgo Mezzanone, questa volta diviso in lotti per, come ha sottolineato il Presidente della Regione Michele Emiliano, evitare l’egemonia di una sola realtà.

Ed è sempre Emiliano che nel 2021 firma un protocollo d’intesa specifico sulla “riconversione di Borgo Mezzanone” tra Regione, Provincia di Foggia, Prefettura di Foggia e Ministro dell’Interno. Il nuovo bando mette sul tavolo la cifra di poco più di due milioni e mezzo di euro che vanno aggiunti, peraltro, ai fondi Pnrr emessi dal governo Draghi proprio per lo smantellamento dei ghetti foggiani e che corrispondono a 103 milioni di euro. L’iter di aggiudicazione va però a rilento e si protrae per anni così da sembrare più complesso e lungo del previsto. Consultando i documenti, infatti, si legge di un annullamento improvviso del bando, per poi tornare attivo solo pochi giorni dopo, il tutto senza il nome degli offerenti.

Poco chiara, però, è la scoperta de IlGiornale.it di un finanziamento fantasma da parte della Regione Puglia. Proprio il 12 ottobre 2021, nemmeno tre mesi dopo l’indizione del suddetto bando per “Interventi urgenti per la realizzazione di insediamenti per ospitalità migranti presso il Cara di Borgo Mezzanone”, compare un’erogazione di poco meno di 700mila euro da parte della Regione Puglia per l’affidamento di uno dei lotti. Affidamento che sul sito del Ministero dell’Interno non compare, nonostante il protocollo d’intesa sancisca la cooperazione tra gli enti. I dettagli, inoltre, non ci sono: è presente solo il nome dell’incaricato del procedimento - tale Roberto Polieri - ma il nominativo a cui è stato liquidato quell’importo non compare. Ma c’è di più: cercando di accedere alla documentazione, che dovrebbe essere pubblica, si legge: “la presente è riservata ai soli operatori invitati dalla stazione appaltante” e cioè dalla Regione Puglia.

I dubbi sembrerebbero inevitabili: a chi sono andati quei soldi e per quale reale motivo, visto che al momento Borgo Mezzanone non è gestito da nessuno?

Striscia, Soumahoro e i soldi spariti: la frase al telefono che può cambiare tutto. Libero Quotidiano il 13 dicembre 2022

A Striscia la Notizia arriva un'altra stoccata ad Aboubakar Soumahoro. Questa volta Pinuccio - l'inviato del tg satirico di Canale 5 -  indaga su una raccolta fondi a parte del parlamentare di Sinistra Italiana e Verdi per l'emergenza Covid. Durante la pandemia, Soumahoro aveva organizzato una raccolta fondi per destinare aiuti a chi era in difficoltà, inclusi dispositivi come mascherine e altri strumenti per far fronte al pericolo contagio.

Poi sarebbe arrivato il grande giorno della consegna degli aiuti a Pescara. Ma a quanto pare come ha raccontato uno degli amici di Soumahoro, l'incontro è stato annullato. Insomma Soumahoro non avrebbe portato quello che aveva promesso. "Io conosco Aboubakar da anni, abbiamo anche diviso la casa insieme. Non avrei immaginato un simile comportamento", ha affermato l'amico di Soumahoro.

Poi arriva l'affondo: "Quella mattina tutti aspettavano Aboubakar per consegnare a chi li attendeva gli aiuti promessi. Mi è arrivata una telefonata, era Soumahoro e mi disse rimandiamo, non posso venire, rimandiamo", racconta l'amico del parlamentare. E di fatto quell'incontro per distribuire i dispositivi e i beni di prima necessità acquistati con la raccolta fondi, non venne mai recuperato. E a questo punto Pinuccio a Striscia la Notizia si pone una domanda importante: che fine hanno fatto quei soldi?

Comunicato stampa di “Striscia la notizia” il 13 dicembre 2022.

Stasera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) torna l’appuntamento con Pinuccio e il “caso Aboubakar”, con la seconda parte dell’intervista esclusiva a Yacouba Saganogo, sindacalista connazionale di Soumahoro e una delle prime persone che l’attuale onorevole ha incontrato al suo arrivo in Italia. 

“In ventidue anni in Italia non ho mai conosciuto la pacchia, ho dormito per strada, lavorato nei campi e sofferto per non riuscire a mangiare”, dichiarava un Aboubakar “stivalato” all’ingresso del Parlamento poco dopo l’elezione. Una versione della storia che non convince il suo storico amico:

«Abù non ha mai fatto il bracciante – racconta Saganogo – e non ha mai lavorato la terra. L’immagine di lui con gli stivali fuori dal Parlamento non mi è piaciuta, perché la verità è che gli stivali non li ha mai portati». «Gli interessava della propria immagine – continua Saganogo – e veniva nel ghetto solo per fare selfie e video, mentre quelli che lavoravano eravamo noi. Ha usato la Lega Braccianti e i migranti per fare carriera, ad alcuni ha anche promesso permessi di soggiorno che, ovviamente, non poteva procurare». 

 A differenza degli altri media, Striscia la notizia non si è occupata solamente dello scandalo delle cooperative sociali gestite dalla compagna e dalla suocera (indagata) dell’ex sindacalista ma dei fondi spariti dalla Lega Braccianti, dopo le accuse, raccolte da Pinuccio, dei suoi due ex soci.

Striscia ha iniziato a contattare Soumahoro il 25 ottobre per intervistarlo e avere la sua versione della storia. Ecco le dieci domande (più una) a cui vorremmo da lui una risposta: 

1. Come sono stati spesi i fondi raccolti per la pandemia? 

2. A chi sono stati consegnati i regali della raccolta di Natale destinati ai bambini di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone? 

3. Quanti soldi sono stati raccolti su PayPal e sul suo conto corrente personale e come sono stati spesi i fondi di quelle collette? 

4. Come mai il rimpatrio della stessa salma è stato utilizzato come giustificativo di tre raccolte diverse? 

5. Nell’accordo col patronato cosa era previsto e perché i suoi ex soci riferiscono di percentuali sulle pratiche?

6. Ci può fornire il verbale dell'assemblea in cui sono stati estromessi i due soci fondatori della lega braccianti? 

7. Oltre al bilancio, è possibile vedere nel dettaglio le entrate e uscite dell’Associazione Terzo Settore Lega Braccianti? 

8. Ha mai fatto il bracciante agricolo in Italia? 

9. Con che fondi ha pagato la campagna elettorale? 

10. Gli stivali di gomma portati in parlamento sono suoi? 

11. Perché non voleva fare entrare altre associazioni all’interno del ghetto e doveva gestire tutto lui con la Lega Braccianti?

Zona bianca, "davvero non sapevate nulla di Sumahoro?". La Evi balbetta. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.

A Zona Bianca si parla del caso Soumahoro. Ospite di Giuseppe Brindisi, nella puntata del 4 dicembre, c'è Eleonora Evi di Europa Verde, la quale, incalzata dalle domande del conduttore, si mette praticamente a balbettare: "Davvero nessuno sapeva nulla delle ombre sulla cooperativa di Soumahoro?", chiede Giuseppe Brindisi. "No non lo sapevamo", risponde imbarazzata la Evi. "Obiettivamente facciamo un mea culpa, ci prendiamo tutta la responsabilità di aver fatto delle valutazioni e un esame sui profili non così approfondita". Però prova a difendersi e difendere il suo partito che ha candidato Aboubakar Soumahoro: "Non siamo però una polizia giudiziaria, la sua fedina penale era pulita. Abbiamo fatto delle scelte cercando dei profili, la sua storia parla per lui". 

E ancora, si arrampica sui vetri Eleonora Evi: "C'è stata una gogna mediatica, un accanimento mediatico molto forte". Ma a quel punto Roberto Poletti che è ospite in studio perde la pazienza e le fa notare che "Soumahoro prenderà 15mila euro al mese per cinque anni, compresa la buona uscita gli daremo un milione di euro". E affonda: "E voi dite vabbè, è stato uno sbaglio, la giustizia farà il suo corso... Ci sono dei servizi giornalistici di Striscia la notizia che provano raccolte fondi quantomeno sospette".  

Adesso Gad Lerner difende Soumahoro: "Accanimento quasi morboso". Il giornalista si schiera col deputato: "Nei suoi confronti c'è un senso di rivalsa. State ingigantendo una vicenda che riguarda la suocera". Luca Sablone il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La sinistra non riesce ancora a farsene una ragione. Il caso Aboubakar Soumahoro rappresenta un forte imbarazzo a prescindere dal corso che la giustizia farà: è una vicenda politica che, ancora una volta, ha smascherato l'inconsistenza degli slogan teorici e la fragilità con cui il fronte rosso ha dipinto l'italo-ivoriano come potenziale leader per le sue parole a difesa dei migranti e dei lavoratori sfruttati. Gli ultimi sviluppi hanno messo in soggezione la sinistra, ma c'è chi come Gad Lerner non si rassegna e non si dà pace.

Il giornalista de Il Fatto Quotidiano ha voluto prendere le difese del deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana, schierandosi dalla sua parte e puntando il dito contro chi - a suo giudizio - accentua i contorni della vicenda in modo inappropriato: "È evidente che nei suoi confronti c'è un accanimento speciale, quasi morboso. C'è un gusto, un senso di rivalsa dovuto al fatto che abbiamo smascherato un furbo?".

Gad Lerner ha voluto sottolineare che al momento Soumahoro è fuori dalla questione giudiziaria e tende a escludere che possa aver commesso dei reati in tal senso. Ha parlato di "compiacimento" per il comportamento che si adotta quando si affronta il caso Soumahoro e ha lanciato un'accusa ben precisa: "State ingigantendo una vicenda che riguarda la suocera o quasi suocera". "Il fatto che questi invisibili abbiano trovato come portavoce la persona che poi è caduta nel discredito dà quasi un senso di sollievo...", ha aggiunto in riferimento a chi tratta in maniera sferzante il caso.

Sulla questione si è espresso anche Alessandro Sallusti, che ha commentato senza giri di parole il tentativo di Gad Lerner di stigmatizzare l'accanimento mediatico: "È un po' come sentire un piromane che mette in guardia dal fuoco. Lui ha costruito la sua carriera contro i suoi rivali politici". Il direttore di Libero ha poi chiamato in causa l'intellighenzia della sinistra: "Si è fatta fottere da una signora accusata di essere una truffatrice, questo deve farci riflettere".

"L'avete premiata come migliore imprenditrice dell'anno...", ha aggiunto Sallusti. Infatti proprio nei giorni scorsi Striscia la notizia notizia, storico tg satirico in onda su Canale 5, ha consegnato il tapiro d'oro a Laura Boldrini visto che nel 2018 Marie Therese Mukamitsindo era stata premiata come migliore imprenditrice straniera in occasione del MoneyGram Awards. A consegnare il premio era stata proprio Boldrini.

Aboubakar Soumahoro: il silenzio dei buonisti della tv di sinistra. Parlare di Aboubakar Soumahoro a sinistra sembra essere un tabù: eppure è possibile farlo riportando anche solo i fatti, senza processi mediatici. Francesca Galici il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Da settimane, i media si stanno occupando del caso delle coop legate alla famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro, eletto in Parlamento lo scorso settembre in quota Sinistra italiana - Verdi. Un caso mediatico importante, con risvolti che potrebbero essere di più ampio respiro sull'intero sistema di gestione dei migranti, e non solo su due specifiche coop. Aboubakar Soumahoro è un personaggio "inventato" dal buonismo di sinistra, quello imperante in certi programmi televisivi e riviste, dedito alla propaganda. E questo spiega il silenzio di quegli stessi attori in queste settimane in cui, probabilmente, sta emergendo che Aboubakar Soumahoro non è esattamente la persona che loro pensavano fosse.

Il caso Soumahoro a parti invertite

Attenzione: il deputato non è indagato. La giustizia si sta concentrando prevalentemente sull'attività di sua suocera e della sua compagna. E si badi bene, compagna e non moglie: per molti a volte si tratta di sinonimi ma a livello legale ci sono sfumature che non possono essere ignorate. Ma fatta questa doverosa premessa, le considerazioni sul modo in cui i media buonisti trattano la vicenda è comunque, per usare un eufemismo, bizzarro.

"Anche il Papa...". Zoro si arrampica sugli specchi per salvare Soumahoro

Sì, perché da parte di Fabio Fazio non si è vista la faccia contrita delle grandi occasioni, quella dedicata alle denunce dei presunti misfatti che gravitano nell'area politica a lui sgradita. Ed è calato il gelo nello studio di Che tempo che fa, quando Massimo Giannini (direttore de La Stampa) ha accusato la stampa di destra di bacchettare Soumahoro, definendo il tutto "inaccettabile". Però al direttore andrebbe ricordato che ci sono stati la Repubblica e il Corriere della sera tra i primi quotidiani a riportare, com'è giusto che sia, le notizie inerenti l'indagine della procura di Latina (non pettegolezzi).

Nessuna "letterina" è stata scritta da Luciana Littizzetto a lady Soumahoro per l'ostentazione del lusso, quanto meno stridente con l'attività di accoglienza dei migranti. Forse perché, come ha detto il deputato, la compagna ha "diritto alla moda", quindi davanti a questi diritti anche Lucianina fa un passo indietro? Il "diritto alla moda" sembra comunque ormai entrato stabilmente nelle abitudini consolidate della sinistra, visto che Pierluigi Bersani è stato visto nella nota boutique di un marchio d'alta moda francese con un bel sacchetto in mano. O forse era un moto di solidarietà per la moglie di Soumahoro?

"Il mutuo? Grazie al libro". Ma Soumahoro ha venduto solo 9 mila copie

E ha fatto silenzio anche Bianca Berlinguer nel suo Cartabianca, che ha dedicato ancora spazio alla guerra in Ucraina per giustificare la presenza fissa di Alessandro Orsini. Tace Marco Damilano, che in un certo senso ha lanciato il personaggio di Aboubakar Soumahoro. Tacciono Lilly Gruber, Lucia Annunziata e anche Roberto Saviano, che pure ha spesso dimostrato di non aver problemi sfoderare la sua penna affilata. L'unica intervista televisiva in questo caos mediatico, il deputato l'ha rilasciata a Corrado Formigli a Piazzapulita. Peccato che il giornalista non sia stato in grado di ribattere (com'è capace di fare in altre occasioni) quando il suo ospite gli ha detto che negli ultimi anni ha vissuto grazie alla vendita delle copie del suo libro. Che pare siano state circa 9mila. Pur sempre all'interno della necessaria tutela e del garantismo, forse i soloni dell'informazione che si arrogano il diritto di distribuire patenti di democrazia e di correttezza, dovrebbero imparare a lavorare con un po' più di obiettività. Non guasterebbe né a loro e nemmeno all'informazione italiana.

Striscia, Flavio Insinna? All'inaugurazione della "Casa dei diritti" di Soumahoro... Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.

Striscia la Notizia torna sul caso Soumahoro. E nella puntata in onda lunedì 5 dicembre su Canale 5 Pinuccio avanza nuovi sospetti. In particolare l'inviato del tg satirico si concentra sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti direttamente dal profilo Facebook di Aboubakar Soumahoro. Alcuni di questi soldi dovrebbero essere stati utilizzati per la costruzione della "Casa dei diritti" del ghetto di Rignano, inaugurata a gennaio 2022 alla presenza del conduttore Flavio Insinna. Immobile - e qui sta il problema - che però da gennaio a oggi è rimasto chiuso.

Mostrando le diverse raccolte, Pinuccio trova l'inaugurazione della nota "Casa" che vedeva quella che Striscia definisce "la mamma putativa": il conduttore Rai. Proprio Insinna, interpellato da Soumahoro in un video diffuso sui social spiega: "Uno nella vita deve scegliere da che parte stare, questa è la nostra". 

Eppure qualcosa non torna: "Ma questa raccolta fondi fatta con la Lega Braccianti - si domanda Pinuccio - quanti soldi ha raccolto? Ci sono dei giustificativi? Qui non si sa proprio nulla". E ancora: "E sulla Casa dei diritti non sappiamo nemmeno se sia o meno abusivo. Per di più è pure chiusa. Abbiamo dei video". I filmati parlano chiaro: all'interno dell'abitazione non c'è nessuno e le porte sono sbarrate. "Qui - conclude Striscia - i conti non tornano. Chiediamo ora alla mamma Insinna se per caso sa qualcosa".

“Rai imbarazzante, cassa di risonanza della sinistra”. Gasparri esplode sulla difesa di Soumahoro. Il Tempo il 27 novembre 2022

Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, è imbufalito per l’intervista doppia di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli andata in scena nel corso della puntata del 27 novembre di Mezz’ora in Più, il programma tv di Rai3 condotto da Lucia Annunziata. L’esponente azzurro ha esternato la propria rabbia pubblicamente: “È imbarazzante vedere la Rai messa a disposizione di Bonelli e Fratoianni che invece di rispondere del grave errore fatto candidando Aboubakar Soumahoro hanno utilizzato gli spazi di Raitre e in particolare della trasmissione dell'Annunziata ‘In mezz'ora’ per accusare il mondo intero, dai problemi Ischia a Sharm el-Sheikh, invece di rispondere del loro gravissimo errore. L'Annunziata alternava domande poco incisive ad atteggiamenti da amica appena un po’ perplessa, quasi complice del ‘gatto e la volpe’, che nel suo studio hanno eluso le questioni fondamentali che andavano poste in ben altro modo. 

Gasparri prosegue nell’invettiva: “Abbiamo letto sui giornali le vicende delle cooperative, le fantaluche che ha raccontato Aboubakar Soumahoro, dicendo che per tre anni ha vissuto grazie ai proventi di un libro che ha venduto poche copie, poi teorizzando ‘il diritto all'eleganza e alla moda’ di sua moglie, fotografata con abiti e accessori di lusso, mentre doveva occuparsi, con le sue cooperative, di tutelare persone in difficoltà. Di tutto questo non si è parlato. Sembrava quasi che Bonelli e Fratoianni dovessero loro mettere sotto accusa il resto della umanità. Non si fa così il servizio pubblico. Questa è la vecchia Rai, cassa di risonanza dei settori più estremi e più fallimentari della sinistra. 

“Fratoianni e Bonelli devono - l’auspicio finale di Gasparri - prima di tutto scusarsi dell'errore fatto e non arzigogolare negando di essere stati informati, quando ci sono stati esponenti del loro partito e noti sacerdoti della Caritas che li avevano messi sull'avviso. Una brutta ulteriore pagina di un servizio pubblico che deve andare verso una nuova stagione. Non può continuare a essere il predellino di una sinistra ambigua e perdente”.

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 25 novembre 2022. 

Ops. Che figura compagni! Ci scappa da ridere, molto, ma è una risata triste, ed è un peccato. Certo, non triste come la copertina dell'Espresso del 17 giugno 2018, molto più tragica come comica, almeno per chi l'ha pensata. Titolo: "Uomini e no", come il romanzo di Elio Vittorini sulla Resistenza.

L'uomo, sulla sinistra, è il sindacalista Aboubakar Soumahoro, ancora cittadino semplice, non un deputato della Repubblica. Il "no", sulla destra, è Matteo Salvini, allora neo-ministro dell'Interno. "Il cinismo", si legge sotto i due volti, "l'indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l'empatia, l'appello all'unità dei più deboli". Poi il domandone, retorico: "Voi da che parte state?".

Aboubakar paladino degli "ultimi", per Repubblica. Aboubakar strenuo difensore, forse l'ultimo, dei diritti dei neri e delle minoranze, per La7, che assieme al settimanale progressista ha costruito, elevato e idolatrato l'immagine del futuro parlamentare ivoriano con gli stivali, oggi crollata sotto i colpi di un'inchiesta giudiziaria che se al momento non lo vede indagato, fa a brandelli la narrazione portata avanti per anni da lui e dalla sinistra.

Salvini quella copertina l'aveva criticata: «Alla faccia del giornalismo, ormai alla sinistra rimangono bugie e insulti. Mi fanno tenerezza», e aveva allegato l'emoticon di un bacio. 

Era il tempo dei "bacioni" inviati ad avversari politici e insultatori vari, tutti a sinistra. La replica di Marco Damilano, allora direttore dell'Espresso, era stata durissima: «Di bugie e insulti la Lega di Salvini è esperta da anni: i dati amplificati sull'immigrazione per creare la percezione di un'invasione che non c'è, il dileggio dell'avversario politico.

A noi interessa reagire e rappresentare la voce di quella parte di società italiana che non si rassegna a un governo e a un politico impegnato in una campagna elettorale permanente sulla pelle dei migranti e di chi dissente. Un politico che», aveva aggiunto Damilano, «da anni discrimina tra cittadini di serie A e di serie B. Chiediamo ai lettori di giudicare chi sia l'uomo tra un ministro sicuro del suo potere politico e mediati co e un sindacalista di strada che difende i suoi fratelli e compagni».

E come li ha difesi! Ma il "ciclone Soumahoro", dicevamo, s' è fatto sempre più potente anche grazie ad altri buonisti militanti in servizio permamente. Fabio Fazio, Roberto Saviano, Giobbe Covatta, Michela Murgia. Poi c'è il leader maximo dell'esercito, Diego Bianchi, "Zoro", il mattatore di Propaganda Live che a colpi di «Daje!» caricava il Soumahoro che guidava gli scioperi nei campi del Foggiano. Pugno chiuso e calosce.

Tra le perle più pure la puntata del 22 maggio 2020, appena terminata la fase più dura della pandemia. Decine di braccianti in aperta campagna capeggiati da Aboubakar. Finisce il servizio in cui l'eroe dei due stivali viene messo a confronto col bruto Salvini il quale sollevava delle perplessità per il fatto che a scioperare fossero «dei clandestini», e Bianchi esclama: «Grazie, Aboubakar! Si batte la mano sul petto, sul cuore». Aboubakar, alla fine, lancia il grido di battaglia: «È solo l'inizio, è solo l'inizio!». Applausi dallo studio. Mah. A occhio, compagno Aboubakar, siamo più o meno alla fine. Certo, non dello stipendio da parlamentare...

Da Soumahoro a Saviano il contrappasso dei moralisti.  Antonio Terrenzio su Culturaidentita.it il 25 Novembre 2022

“Il borghese è il proletario alla prima opportunità”. L’aforisma fulminante deve appartenere a Gomez Davila, se ricordo bene.

Parafrasandolo ne verrebbe in mente uno più cattivello:” Il bianco sfruttatore è il negro alla prima opportunità”, perché è questo che si adatta meglio alla figura di Soumahoro, con nuovi importanti novità che emergono dal giro di affari delle cooperative gestite dalla suocera o da chi per lui. Lo ricordate? Le sceneggiate con gli stivali davanti al Parlamento, le cialtronate da Martin Luter King dei poveri nel campo Borgo Torretta, che arringa tra i poveri africani sfruttati e che tuona contro Michele Emiliano e la Regione Puglia. Soumahoro che fa la raccolta fondi per i bambini per 16 mila euro, anche se di bambini nel campo non ce ne sono e si viene a sapere che con la sua Lega Braccianti incassava quasi 200mila Euro solo nel periodo della pandemia. In più stipendi non pagati. Come se non bastasse sua moglie fa la Ferragni in versione afro su Instagram e tra un selfie e l’altro apre un mutuo di 250mila Euro per una villa da 450mila: tu chiamala se vuoi, cooperazione. Non c’è crimine peggiore di lucrare sulla pelle dei propri connazionali.

Eppure don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo, come riferisce a Repubblica, aveva avvertito Fratoianni di non fidarsi e che candidarlo nelle liste del suo partito sarebbe stato un clamoroso autogol. Adesso che si aspetta un riscontro giudiziario, la sinistra tutta vive uno psicodramma collettivo che si aggrava scandalo dopo scandalo. Prima Mimmo Lucano inguaiato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, poi Saviano denunciato per aver dato di “bastardi” a Meloni e Salvini, i contributi non pagati alle colf dalla Boldrini, ora lo scandalo del sindacalista ivoriano, astro nascente ma già in caduta libera del PD: la sinistra vive una crisi di identità a tutti i livelli. La difficoltà nella individuazione di un leader che la rappresenti, con patetici psicodrammi nelle kermesse dei suoi congressi, è molto più della rielaborazione di una sconfitta elettorale. La sinistra progressista è ormai entrata in una crisi antropologica, persa tra i meandri di ideali astratti e fumosi: ma i progressisti lo capiranno mai? La sinistra uscirà mai dal concentrato di stereotipi ed ipocrisia che la caratterizzano da anni? Quando capirà che non è affidandosi a nuovi “santini” che riuscirà a dimostrare la sua superiorità umana e valoriale?

Nell’establishment editoriale si intravedono le divisioni regnanti tra le forze di opposizione che non riescono a tenersi insieme nemmeno in funzione antigovernativa. Lo stato di confusione è massima. Se poi si aggiunge una tragicomica capacità di farsi del male con scandali che si ripetono in maniera cadenzata, allora la crisi è un tunnel che non vede mai la luce all’uscita.

Il vertici del PD sembrano smarriti, stentano a rimodellare una propria identità ed insistono nella ripetizione dei propri errori ideologici, come l’abbraccio fanatico a tutte le cause della correttezza politica.

La candidatura di Elly Schlein come guida del PD, è il sintomo di una radicalizzazione su istanze lontane anni luce dal popolo, e se tale linea dovesse prevalere, non è difficile immaginare un governo guidato da Giorgia Meloni per altri 10 anni, come ricorda il politologo Orsina in una intervista.

Gli scandali come quello di Soumahoro e dei suoi familiari sembrano il naturale contrappasso di chi predica rispetto, diritti, lotta alle discriminazioni e poi fa tutt’altro. Se la sinistra cade sempre sui suoi principi fondamentali, che sventola di fronte ai suoi avversari, e poi dà prova dell’esatto contrario, una ragione ci dovrà essere. Non bastano un paio di stivali sporchi per darsi una patente di immacolabili, adesso lo sapete.

Antonio Giangrande: Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Paladini dei lavoratori, però li sfruttano. Pasquale Napolitano il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

Da Fico a Boldrini e Bellanova: la sinistra spesso pizzicata a fare la furba

In piazza per difendere i diritti dei lavoratori. Ma quando si tratta di pagarli i leader della Pd e della sinistra se ne scappano a gambe levate. Fico, Boldrini, Bellanova, Di Battista, Soumahoro: tutti con il braccino corto e allergici a pagare (e dire grazie) ai propri lavoratori. E poi c’è il «il campione del riformismo: il sindaco di Milano Beppe Sala che vuole un social media con uno stipendio da 9 euro lordi all’ora. Natale, Pasqua e Capodanno compresi. Un’idea rivoluzionaria di salario minimo. Chapeau. Tutti i leader della sinistra con il braccino corto hanno anche un’altra cosa in comune: sono sempre pronti a minacciare querele. La storia recente ci ha regalato tante bandiere della sinistra cadute sui lavoratori. Laura Boldrini è forse il nome più illustre. Ma anche quello che fa più rumore. Un doppio inciampo. L’assistente e la colf avrebbero rivendicato dall’ex numero uno di Montecitorio, oggi tra i big del Pd, stipendi e straordinari. Ma la Boldrini nega e minaccia querele. Il caso rimbalza un anno fa. L'ex colf di nazionalità moldava si è rivolta a un patronato di Roma per chiedere il pagamento della liquidazione di 3000 euro, a dieci mesi dalla fine del contratto, dopo una collaborazione durata otto anni. Anche Roberta, la sua ex collaboratrice parlamentare, aveva raccontato al Fatto di mansioni che esulavano dai propri compiti contrattuali. «Ho lavorato due anni e mezzo con la Boldrini posso dire che ho tre figli, partivo il martedì alle 4.30 da Lodi per Roma, lavoravo per tre giorni 12 ore al giorno, dalla mattina presto alle nove di sera. Per il resto lavoravo da casa, vacanze comprese. Guadagnavo 1.200 / 1.300 euro al mese, da questo stipendio dovevo togliere costi di alloggio e dei treni da Lodi». Boldrini aveva parlato di equivoco. La colf è stata la buccia fatale per un altro presidente della Camera: Roberto Fico. Le Iene tirano fuori la storia della domestica pagata in nero dall’allora presidente di Montecitorio nell’abitazione di Napoli. Fico si infuria e denuncia il programma Mediaset. Querela persa (per Fico). Altro verdetto negativo è arrivato per l’ex ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova, sindacalista come Saumahoro. La Corte di Appello di Lecce ha condannato l’ex ministra delle Politiche agricole e il Pd provinciale di Lecce per aver impiegato per oltre tre anni un addetto stampa senza averlo mai assunto come dipendente. Per i giudici di fatto l’addetto stampa era un dipendente del partito. La Corte d’Appello ha riconosciuto la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato e condannato Bellanova e il partito a risarcire il lavoratore e a pagare le spese processuali. Il Pd provinciale e Bellanova dovranno pagare oltre 50 mila euro a Maurizio Pascali: 43 mila il partito e 6.700 l’ex sindacalista. Storia simile è accaduta alla federazione Pd di Napoli: l’ex portavoce Alessandra Romano rivendica gli stipendi arretrati: il caso è finito in Tribunale. C’è poi il "leader morale" della sinistra: Alessandro Di Battista, il Che grillino che gira il mondo alla scoperta di idee per i suoi libri. Nel 2018 l’azienda del padre, Vittorio Di Battista, finì nella bufera per debiti e stipendi non pagati ai lavoratori. Nulla di male. La strategia è semplice: quando si tratta di mettere mano al portafogli scappare. Fuga. Fratoianni e Bonelli chiedono l’autosospensione di Soumahoro. Perché mai? È così in buona compagnia tra Pd e sinistra.

Giulio Tremonti: "Voto contro Enrico Letta", rivolta Pd alla Camera. Libero Quotidiano il 25 ottobre 2022 

Giallo risolto: Giulio Tremonti non vota contro la fiducia al governo di Giorgia Meloni, ma contro Enrico Letta. L'ex ministro dell'Economia dei governi Berlusconi prende la parola a sorpresa alla Camera, in chiusura di dichiarazioni di voto (il governo ha alla fine ottenuto il via libera con 235 sì) e regala una fulminante, clamorosa provocazione intellettuale contro il segretario uscente del Pd che pochi minuti prima lo aveva chiamato polemicamente in causa. 

Secondo Letta, i governi di centrodestra degli anni Duemila avevano dissestato i conti dello Stato. "Onorevole Letta - esordisce Tremonti -, lei ha citato i dati del triennio 2008-2011: i numeri dell'Italia erano migliori rispetto a quelli di altri Paesi, come è scritto nella relazione conclusiva di Bankitalia dove si dice che la gestione dei conti pubblici è stata prudente. Dato che l'onorevole Letta produce il suo meglio facendo il peggio, dichiaro che voto contro Letta". Una battuta clamorosa che in diretta non si era colta in pieno. Proprio quel "voto contro", sovrastato dal brusio di Montecitorio, aveva dato adito alle più clamorose ipotesi.

Di fronte a queste parole, i banchi del Partito democratico e delle opposizioni si sono ribellati, ancora una volta come accaduto in precedenza constando a Tremonti che il suo intervento non fosse una dichiarazione di voto, ma una semplice polemica personale. Qualche minuto prima, la Meloni era stata accusata di aver violato il regolamento non rivolgendosi al presidente della Camera, ma direttamente ai deputati Debora Serracchiani e Aboubakar Soumahoro.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2022.

Non perdere l’ironia, questo è importante, anche quando è difficile servirsene. Nel suo discorso di insediamento alla Camera dei Deputati, Giorgia Meloni ha citato le donne che l’hanno ispirata: «Tra i tanti pesi che oggi sento gravare sulle mie spalle oggi c’è quello di essere la prima donna capo del governo di questa nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto sento la responsabilità che ho nei confronti di tutte quelle donne che attraversano difficoltà per affermare il loro talento».

Un ringraziamento del tutto speciale che ha spinto il signor presidente del Consiglio a chiamarle confidenzialmente per nome: da Cristina (Trivulzio di Belgioioso) ad Alfonsina (Strada, pioniera del ciclismo italiano), da Maria (Montessori) a Grazia (Deledda (premio Nobel; e chi la legge più?), da Oriana (Fallaci) a Tina (Anselmi). Secondo lo schema «una grande chiesa che passa da…», tanto per citare Jovanotti.

Si può ironizzare su queste donne? Certo che no. Ma si può ironizzare sull’uso di questo pantheon al femminile, come ha fatto «Blob», nella puntata del 28 ottobre, «Un giorno da Meloni», firmata da Vittorio Manigrasso. Mentre Giorgia Meloni ricordava le sue ispiratrici, «Blob» alternava alla solennità dei nomi alcune immagini di «Uomini e donne»: i soliti litigi volgari con i nomi delle contendenti bene in vista in un crescendo rossiniano.

Quando Giorgia pronuncia il nome di Tina (Anselmi) ecco apparire trionfante Tina Cipollari. E il gioco è fatto. Per non farsi mancare nulla, «Blob» ha sottolineato alcuni frammenti del discorso di Giorgia Meloni per la fiducia alla Camera con il brano dei Vianella «Semo gente de borgata»: «Core mio, core mio la speranza nun costa gnente…». Così come ha montato al contrario alcuni spezzoni storici della marcia su Roma (retromarcia su Roma) affidando a Renato Zero «I migliori anni della nostra vita».

Da corriere.it il 25 ottobre 2022. 

«Con una donna premier si è rotto il pesante tetto di cristallo», ha detto Giorgia Meloni nel suo discorso per chiedere la fiducia alla Camera, citando poi un Pantheon tutto al femminile di donne da omaggiare, elencate solo per nome: «Ringrazio le donne che hanno osato, per impeto, per ragione per amore, come Cristina, Rosalie dei Mille, come Alfonsina contro il pregiudizio, come Maria o Grazia che con il loro esempio spalancarono i cancelli dell’istruzione alle bambine di tutto il Paese. E poi Tina, Nilde, Rita, Oriana, Ilaria, Maria Grazia, Fabiola, Marta, Elisabetta, Samantha e Chiara. Grazie! Grazie per aver dimostrato il valore delle donne italiane, come spero di riuscire a fare anche io». 

Rosalie Montmasson

Un lungo elenco che omaggia le donne della Storia come Rosalie Montmasson (1823-1904), che sbarcò in Sicilia con Giuseppe Garibaldi e i Mille, eroina cancellata dai libri di testo e protagonista del volume di Maria Attanasio La ragazza di Marsiglia. 

Cristina Trivulzio di Belgiojoso

Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808-1871), organizzatrice di salotti e barricate: la nobildonna — patriota, giornalista e scrittrice — partecipò al Risorgimento e fu editrice di giornali rivoluzionari. 

Alfonsina Strada

Alfonsina Strada (1891-1859), nata Alfonsa Rosa Maria Morini, la ciclista su strada fu la prima donna a competere in gare maschili come il Giro di Lombardia e il Giro d’Italia: è considerata tra le pioniere della parificazione tra sport maschile e femminile.

Maria Montessori

Maria Montessori (1870-1952), l’educatrice, pedagogista, filosofa, fu tra le prime donne in Italia a laurearsi in Medicina. Neuropsichiatra infantile e scienziata, è universalmente nota per il metodo educativo che prende il suo nome, adottato in migliaia di scuole dell’infanzia, elementari, medie e superiori in tutto il mondo.

Grazia Deledda

La scrittrice sarda Grazia Deledda (1871-1936), è stata la prima italiana a vincere il Premio Nobel per la Letteratura 1926. La motivazione del riconoscimento: «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».

Tina Anselmi

Omaggiate anche le donne in politica come Tina Anselmi e Nilde Iotti. Tina Anselmi (1927-2016), partigiana e insegnante, è stata la prima donna ad aver ricoperto la carica di ministra della Repubblica (guidò il Lavoro e la Previdenza sociale dal ‘76 al ‘78 nel governo Andreotti). 

Nilde Iotti

Nilde Iotti (1920-1999), invece, fu la prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire la terza carica dello Stato, la presidenza della Camera. 

Ilaria Alpi

La premier Giorgia Meloni ha voluto ringraziare anche le giornaliste che hanno perso la vita lavorando come Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, e quelle che hanno scritto instancabilmente fino all’ultimo come Oriana Fallaci. Ilaria Alpi (1961-1994) era la giornalista e fotoreporter assassinata a Mogadiscio, dove lavorava come inviata per il Tg3, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. 

Maria Grazia Cutuli

Maria Grazia Cutuli (1962-2001), la giornalista del Corriere della Sera assassinata il 19 novembre 2001 mentre si trovava sulla strada che da Jalalabad porta a Kabul, in Afghanistan, insieme all’inviato di El Mundo Julio Fuentes e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari. 

Oriana Fallaci

Oriana Fallaci (1929-2006), firma storica del Corriere della Sera, partecipò giovanissima alla Resistenza e fu la prima donna italiana ad andare al fronte come inviata speciale.

Rita Levi Montalcini

E ancora, la prima presidente del Consiglio donna della storia d’Italia ha ricordato le donne di scienza come Rita Levi Montalcini, Fabiola Giannotti e Samantha Cristoforetti. Rita Levi Montalcini (1909-2012), neurologa e accademica, scoprì e illustrò il fattore di accrescimento della fibra nervosa, una scoperta che le valse il Nobel per la Medicina nel 1986 . È stata anche la prima donna ad essere ammessa alla Pontificia accademia delle scienze.

Fabiola Giannotti

La fisica Fabiola Giannotti, 61 anni, direttrice generale del CERN di Ginevra al suo secondo mandato (un record anche qui: è la prima volta nella storia dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare che un dg venga selezionato per una riconferma). 

Samantha Cristoforetti

L’astronauta Samantha Cristoforetti, 45 anni, prima donna italiana negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea e prima donna europea comandante della Stazione spaziale internazionale.

Marta Cartabia e Elisabetta Casellati

Poi ancora Marta Cartabia — la prima donna presidente della Corte costituzionale, , Guardasigilli nel governo Draghi — ed Elisabetta Casellati, la prima donna a ricoprire, nella storia d’Italia, la seconda carica dello Stato, presidente del Senato. 

Chiara Corbella Petrillo

Infine Chiara Corbella Petrillo (1984-2012), proclamata serva di Dio dalla chiesa cattolica nel 2018. Era la giovane romana, morta a 28 anni, che scelse di non curarsi da un cancro per proteggere il bimbo che aveva in grembo: i primi 2 figli erano morti alla nascita per gravi malformazioni.

Le citazioni di Giorgia Meloni: la scelta di tre grandi del Cristianesimo. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 26 Ottobre 2022.

San Benedetto, Giovanni Paolo II e Papa Francesco come chiavi per affrontare le questioni più attuali. La figura di Borsellino vero nume tutelare della leader. 

Non è facile costruirsi un Pantheon quando devi escludere l’intera area che va da Che Guevara a Madre Teresa, già appannaggio di una sinistra onnivora in materia di ideali. Anche perché sennò «fàmo le tre», e già «sto a morì», come garbatellianamente il/la premier ha sussurrato a voce bassa ma a microfoni accesi. Così l’abituale elenco dei grandi ispiratori, in cui di solito i politici meno colti sono e più indulgono, stavolta si è ridotto all’osso.

Le ultime notizie sul nuovo governo

Si potrebbe quasi dire che hanno fatto più notizia quelli che non ci sono, nel Pantheon di Giorgia Meloni. E non c’è soprattutto Berlusconi, mai nominato, infilato anonimamente nei ringraziamenti «ai partiti della coalizione di governo e ai loro leader». Per lo «sdoganatore» della destra nazionale, e inventore del centrodestra, un’espulsione che pesa, forse persino un po’ ingenerosa.

Ci sono invece con nome e cognome Sergio Mattarella e Mario Draghi, rispettivamente il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio contro cui lei ha sempre votato da sola, ma ai quali riconosce l’impegno, «anche internazionalmente», di favorire una transizione ordinata, come si addice a una «grande democrazia».

Ma per declinare a modo suo le più attuali questioni su cui la destra è attesa al varco, Giorgia Meloni ha ingegnosamente fatto ricorso a tre grandi nomi del Cristianesimo.

La prima è l’Europa, risolta con un: «Siamo eredi di San Benedetto». Il riferimento al santo di Norcia, traghettatore della classicità greco-romana nel Medioevo di origine giudaico-cristiana, è infatti perfetto per dire: l’Europa di cui lui è patrono è quella che a noi piace, perché è nata in Italia e nei monasteri, non a Bruxelles o nei mercati. È la «casa comune dei popoli europei»; ma «uniti nella diversità, portando ciascuno la propria identità». Abbozzi di un nazional-europeismo tutto da costruire.

La seconda caldissima questione è stata invece «battezzata» con una citazione di papa Francesco: «La povertà non si combatte con l’assistenzialismo, la porta della dignità di un uomo è il lavoro». Sistemando così il reddito di cittadinanza e annunciandone la riforma, perché finora è stato «una sconfitta per chi era in grado di fare la sua parte per l’Italia, oltre che per sé stesso».

La terza questione, ancor più delicata per chi come lei viene da una tradizione politica non liberale, è quella della libertà. Invocata più volte a gran voce, anche per garantire che non «saranno ridotte quelle esistenti» sui diritti civili e sull’aborto; ma aggettivata, specificata, precisata, per distinguerla dalla «licenza». Ricorrendo a una formidabile frase di Giovanni Paolo II, per il quale «la libertà non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve». Il che — oltre a far fuori la liberalizzazione della cannabis — annuncia lo stile politico cui la premier s’impegna: pronta anche a perdere le prossime elezioni, pur di «non indietreggiare, non gettare la spugna, non tradire» il compito che si è assegnato di risollevare la Nazione.

La risposta di destra a Greta Thunberg, invece, è il filosofo Roger Scruton, citato per ascrivere ai conservatori la vera «ecologia» e per contrastare «un certo ambientalismo ideologico»: «Ce ne occuperemo — ha detto — perché è l’esempio più vivo dell’alleanza tra chi c’è, chi c’è stato e chi verrà dopo di noi».

Per finire, e per dire ai giovani che già manifestano contro il governo che li capisce perché anche lei ha passato nelle piazze la sua gioventù, ha perfino corretto Steve Jobs, aggiungendo al celebre appello «siate affamati, siate folli» un «siate liberi», che nel suo sottotesto significa: non lasciatevi ingannare dalla propaganda della sinistra.

E però, se proprio vogliamo trovare nel discorso di Giorgia Meloni un vero nume tutelare, un modello che ne incarna l’universo morale e ideale, ebbene quello è Paolo Borsellino. L’alfa e l’omega di una carriera politica, almeno fin qui. Il giudice il cui assassinio per mano della mafia la spinse a iscriversi al Fronte della Gioventù e a far politica a 15 anni. E anche l’uomo la cui foto ha trovato in cima allo scalone di Montecitorio subito dopo aver letto la lista dei ministri, quasi come se «si chiudesse un cerchio». Nel nome della lotta alla mafia, anzi, la nuova premier ha forse trovato l’unità più ampia dell’assemblea di Montecitorio; ha citato tra le vittime anche un capo comunista come Pio La Torre, e ha ottenuto applausi anche dai banchi della sinistra.

Può essere che in fin dei conti qualcosa che ancora unisce il Paese sia rimasto. Starà a Giorgia Meloni dimostrare di volerlo e saperlo trovare. 

Tina Anselmi per qualcuno è troppo «politica». Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Giorgia Meloni le rende omaggio in Parlamento, il sindaco di Marcon Matteo Romanello ha cancellato la scelta di dedicarle la nuova Scuola Elementare Primaria di primo grado. Troppo «ideologica e politica»

Se l’Italia fosse stata di più in mano alle donne sarebbe stata amministrata meglio? «Sì, assolutamente sì», rispose Tina Anselmi, «Le donne hanno più attenzione al bene comune. E sono più disponibili a battaglie politiche trasversali. Tante leggi sono passate perché le donne sono state capaci, pur di arrivare all’obiettivo, di costruire maggioranze trasversali sapendo rinunciare agli interessi di parte o di partito. Va detto: le donne hanno di più il senso del potere come servizio. Di qualunque schieramento siano».

Sarebbe bastata quella sola intervista di trent’anni fa, alla straordinaria e pugnace «Tina vagante» democristiana per aver diritto all’omaggio riservato ieri da Giorgia Meloni alle donne che hanno avuto un peso nella storia d’Italia. Perché fu lei, prima donna a partecipare a un Consiglio dei Ministri dopo 115 anni dall’Unità d’Italia e 836 ministri maschi, ad aprire la strada. La prima ad affrontare il tema del genere: «Vennero in delegazione nella mia stanza: “Scusi, non sappiamo come chiamarla”. “Ma per favore!”, risposi, “chiamatemi come vi pare, signor ministro o signora ministra, basta che non restiate lì imbambolati!»

La prima a porre il problema dell’armadio al ministero: «C’erano solo stampelle da uomo. Non una per appendere una gonna». La prima quello della toilette a Palazzo Chigi: «C’era solo per i maschi: dovevo andarci con un commesso alla porta». Per non dire del Quirinale: «C’era una cena ufficiale e Andreotti ridacchiava: sul biglietto era scritto “L’invito è strettamente riservato agli uomini”».

Eppure, proprio ora che una donna assai combattiva a (che l’Anselmi non avrebbe votato) arrivava lassù in cima, Matteo Romanello, il sindaco di Marcon, Venezia, che ha appena mollato la Lega per passare, pare, a Fdl, ha avuto una pensata: cancellare la scelta di dedicare all’Anselmi la nuova Scuola Elementare Primaria di primo grado. Perché? Per intitolarla a Piero Angela. Chi mai potrebbe contestare una dedica al mitico divulgatore? La motivazione ufficiale della revoca però è del tutto insensata: «pur riconoscendo come la figura di Tina Anselmi sia di rilevante importanza», la giunta che comprende anche Fdl ritiene che «l’intitolazione di una scuola dovrebbe avere una valenza soprattutto educativa piuttosto che ideologica e politica». Testuale. Ma davvero pensano che il grande Piero, visto il contesto, sarebbe d’accordo?

Martedì 25 ottobre 2022 Gian Antonio Stella

Tina, Nilde, Oriana. L'omaggio alle donne snobbato a sinistra. Il peso di essere "la prima donna a capo del governo" lo sente, eccome. Lodovica Bulian il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il peso di essere «la prima donna a capo del governo» lo sente, eccome. E per questo, dice Giorgia Meloni in Aula, sente anche «la responsabilità nei confronti che di tutte quelle donne che attraversano difficoltà per affermare il loro talento». Nel discorso per la fiducia alla Camera la premier ricorda le altre donne che «hanno costruito quella scala che oggi permette a me di rompere il tetto di cristallo». Che «hanno osato, per impeto, per ragione, per amore, come Cristina, Rosalie dei Mille, come Alfonsina contro i pregiudizi. E ancora Grazia, Tina, Nilde, Oriana, Samantha Chiara, grazie per aver dimostrato il valore delle italiane». Cristina Trivulzio di Belgioioso «elegante organizzatrice di salotti e barricate», nobildonna, patriota e protagonista del Risorgimento e della lotta per l'Unità d'Italia. Rosalie Montmasson, «testarda al punto da partire con i Mille che fecero l'Italia». Alfonsina Strada che «pedalò forte contro il vento del pregiudizio». E ancora Maria Montessori e Grazia Deledda «che con il loro esempio spalancarono i cancelli dell'istruzione alle bambine di tutto il Paese». E poi Tina Anselmi, Nilde Jotti, Rita Levi Montalcini, Oriana Fallaci, Ilaria Alpi, Mariagrazia Cutuli, Fabiola Giannotti, Marta Cartabia, Elisabetta Casellati, Samantha Cristoforetti, Chiara Corbella Petrillo.

Dopo gli applausi in aula, arrivano a stretto giro le puntualizzazioni delle donne del Pd. «È stato un comizio - dice Paola De Micheli - L'unica cosa positiva del discoso il ringraziamento alle donne che l'hanno preceduta nelle istituzioni, come Tina Anselmi e Nilde Iotti». E poi Laura Boldrini: «Se non mi piace il nome Fratelli d'Italia? Dico solo che in questo nome non sono rappresentate le donne, nelle denominazioni bisognerebbe esser inclusivi», dice la deputata a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Quindi Fratelli e Sorelle d'Italia? «Ecco, ad esempio, sarebbe meglio». Per la dem Valeria Valente «è un ritorno al passato sulla necessità della conciliazione tutta al femminile tra lavoro e figli. Non una parola contro la violenza di genere e i femminicidi». Meloni risponde però alla capogruppo del Pd Debora Serracchiani che aveva puntualizzato: «Coltivo la speranza, che l'idea che questo tetto di cristallo che si è rotto non si richiuda con una politica, che ci sembra di scorgere, vuole le donne un passo indietro agli uomini e dedite solo alla famiglia e ai figli». La premier replica: «Ho sentito dire che io vorrei le donne un passo dietro agli uomini. Onorevole Serracchiani, le sembra che io stia un passo dietro agli uomini? Ho parlato di lavoro, di welfare, di una società che non costringa a scegliere tra lavoro e maternità. Certo ho parlato anche di natalità e di famiglia». 

Il Pantheon della Presidente del Consiglio. Tutte le donne della presidente: le italiane citate da Giorgia Meloni nel discorso alla Camera. Redazione su Il Riformista il 25 Ottobre 2022 

È nella storia Giorgia Meloni: la prima Presidente del Consiglio donna nella storia della Repubblica italiana. “Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi trovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho nei confronti di tutte quelle donne che in questo momento affrontano difficoltà per affermare il proprio talento o, più banalmente, il diritto a vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani. Ma penso anche con riverenza a coloro che hanno costruito con le assi del loro esempio la scala che oggi consente a me di salire e di rompere il pesante tetto di cristallo che sta sulle nostre teste”, ha detto la Presidente del Consiglio.

Così la premier nel suo discorso alla Camera dei deputati, nel giorno della fiducia. Un discorso di oltre un’ora e dieci minuti, a tutto campo, con larghi tratti auto-biografici, messaggi alla maggioranza, alle opposizioni e ai cittadini. Meloni si è descritta come un’underdog. “Sono la prima donna incaricata come presidente del Consiglio dei ministri nella storia d’Italia, provengo da un’area culturale che è stata spesso confinata ai margini della Repubblica, e non sono certo arrivata fin qui fra le braccia di un contesto familiare e di amicizie influenti. Rappresento ciò che gli inglesi chiamerebbero l’underdog. Lo sfavorito, per semplificare, che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici. Intendo farlo ancora, stravolgere i pronostici”.

La prima donna Presidenza del Consiglio nel suo discorso ha enunciato un pantheon tutto al femminile, politicamente bipartisan, di donne entrate nella storia dell’Italia. Tutte omaggiate ed enunciate solo per solo per nome: “Ringrazio le donne che hanno osato, per impeto, per ragione per amore, come Cristina, Rosalie dei Mille, come Alfonsina contro il pregiudizio, come Maria o Grazia che con il loro esempio spalancarono i cancelli dell’istruzione alle bambine di tutto il Paese. E poi Tina, Nilde, Rita, Oriana, Ilaria, Maria Grazia, Fabiola, Marta, Elisabetta, Samantha e Chiara. Grazie! Grazie per aver dimostrato il valore delle donne italiane, come spero di riuscire a fare anche io”.

L’elenco è lungo insomma e parte dal secolo XIX. Con Rosalie Montmasson, che sbarcò in Sicilia con Giuseppe Garibaldi e i Mille; Cristina Trivulzio di Belgiojoso, nobildonna oltre che giornalista e scrittrice che partecipò al Risorgimento e che fu editrice di giornali; la ciclista Alfonsina Strada, all’anagrafe Alfonsa Rosa Maria Morini, che fu la prima donna a competere in gare maschili come il Giro di Lombardia e il Giro d’Italia; l’educatrice e pedagogista Maria Montessori, tra le prime donne a laurearsi in medicina, neuropsichiatra infantile e scienziata nota in tutto il mondo per il metodo educativo che porta il suo nome.

E quindi la scrittrice Grazia Deledda, prima italiana a vincere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1926 “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”; le politiche Tina Anselmi e Nilde Iotti, rispettivamente la prima donna Presidente della Camera e prima ministra della Repubblica; le giornaliste morte sul campo Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, rispettivamente a Mogadiscio e in Afghanistan; la giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, prima italiana ad andare al fronte come inviata speciale; le donne di scienza Rita Levi Montalcini, Fabiola Giannotti e Samantha Cristoforetti: rispettivamente neurologa e accademica Nobel per la Medicina nel 1986, fisica e direttrice del CERN di Ginevra, astronauta prima italiana negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea e prima europea comandante della Stazione Spaziale Internazionale.

E infine l’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, prima donna presidente della Corte costituzionale; Maria Elisabetta Alberti Casellati, prima donna a presiedere il Senato e ministra per le riforme istituzionali del governo Meloni; Chiara Corbella Petrillo, la 28enne che morì nel 2018 scegliendo di non curarsi da un cancro per proteggere il bambino di cui era incinta, proclamata serva di Dio dalla Chiesa cattolica.

Storia delle nazioni guidate al femminile. Emanuele Beluffi su CULTURAIDENTITA’ il 25 Ottobre 2022.

Non c’è Ursula von der Leyen che tenga, il vero potere femminile, a cavallo dello spazio e del tempo, lo ha avuto lei, Lisistrata, che nel pieno della guerra del Peloponneso convince le donne di Atene a fare lo sciopero del sesso: occupano l’Acropoli, gli uomini mollano la battaglia e tornano a casa, da allora è “colei che scioglie gli eserciti”, altro che la von der Leyen ministro della Difesa di Angela Merkel. E ci vien da aggiungere che forse quel famoso detto sulla minor forza di un carro di buoi vien da lì, con le ateniesi che incrociano le gambe e ottengono quello che né commissari né araldi riescono a ottenere: forse ci vorrebbe una Lisistrata anche oggi, nel pieno di una guerra in mezzo all’Europa.

Ma da Lisistrata a von der Leyen il passo non è breve e, contrariamente alla vulgata femminista di quegli anni che per Mario Capanna sono stati formidabili, le streghe non sono mai andate via (anche perché ci son sempre stati gli stregoni, ça va sans dire), pur se sicuramente sottodimensionate a livello numerico rispetto all’altra metà del potere. La Storia è lì a dircelo, forse il vero potere è Donna, pensate solo a quante donne hanno condotto una Nazione dalla fine del secolo scorso: tante, anche là dove meno te l’aspetti. Ma la prima, o certamente la più nota fra le prime, è Nefertiti, epoca degli antichi Egizi, regnante bellissima che condivide il potere politico e religioso con il faraone Akhenaton suo consorte per poi detenerlo in toto dopo la sua dipartita: non scioglie nessun esercito però rivoluziona lo scenario religioso introducendo il culto del Sole, dici poco.

Nell’antica Roma Messalina, bella come Nefertiti ma più ”capricciosa”, a 16 anni diventa imperatrice: non si fa mancare nulla soprattutto a livello di piaceri della carne, i letterati latini la definiscono meretrix augusta e, quanto a crudeltà e lussuria, forse poco le manca per essere la progenitrice di Erzsébet Báthory, la “Contessa Dracula”. Tutto il contrario di Drusilla, moglie fedele di Ottaviano Augusto e sua consigliera politica, praticamente un Luigi Bisignani in gonnella ante litteram: sussurra ai potenti ed esercita il vero potere, quello che non si vede. Nel IV secolo dominano il campo Pulcheria imperatrice dell’impero romano d’Oriente e Galla Placidia della parte occidentale dell’impero, governano la prima in nome del fratello Teodosio II e la seconda per conto del figlio Valentiniano III.

Ma è con Amalasunta, regina degli Ostrogoti, che assistiamo a un viraggio “maschile” dell’esercizio del potere: condottiera contro gli eserciti, che a differenza di Lisitrata non li scioglie ma li sgomina, diplomatica, di lei lo storico e politico Cassiodoro, consigliere e ministro nella reggenza del regno, dice che ha qualità maschili, mentre lo storico bizantino Procopio di Cesarea ce la descrive come una donna che “tenne il comando con saggezza e giustizia, dimostrando nei fatti un temperamento mascolino” (Guerra gotica, V 2, 2-3). Un modello, questo dell’esercizio del potere da parte delle donne senza se e senza ma, che ritroviamo, sulla scena politica europea dalla metà del Settecento, con donne accomunate dalla volontà di imporsi e di trasformare la realtà, al punto che con un po’ di libertà filologica potremmo dire che con loro inizia la nicciana volontà di potenza applicata al potere concreto: in Russia Caterina II, in Austria Maria Teresa, in Francia la marchesa di Pompadour, donne che hanno comandato il loro mondo con un’attitudine e una fortezza che ritroviamo nel nostro, di mondo. Aderiscono ai propri ideali con strenuo impegno e attitudini al comando tipicamente “maschili” che ritroviamo, per arrivare più vicino a noi, in Golda Meir: di lei Ben Gurion dice che «è l’unico vero uomo nel mio governo» e di fatto diventa Primo Ministro di Israele dal 1969 al 1974, unica donna nella Storia del Paese.

Impossibile anche non pensare a Indira Gandhi, Primo Ministro e leader del Congresso Nazionale Indiano a 49 anni, antesignana di quello che avremmo chiamato “compromesso storico”: governa per 11 anni, armonizza le anime contrapposte dei conservatori e dei riformisti, ha grinta e passione, che tuttavia non bastano per evitarle l’agguato mortale nel 1980, quando due delle sue guardie la uccidono alla fine di un comizio. Una fine cui ai giorni nostri è andata molto vicino un’altra donna di governo, Cristina Kirchner, Presidente dell’Argentina dal 2007 al 2015 (due mandati dopo quello del marito Nestor), scampata a un attentato a Buenos Aires lo scorso 2 settembre: una “iron Lady” come la “Lady di ferro” inglese, Margaret Thatcher, con cui non corre buon sangue a causa delle Isole Falkland. Sempre state “ai ferri corti” le due donne di governo, da quel 1982 quando il Regno Unito vince lo scontro con l’Argentina, che sulle Malvinas rivendica la sovranità. Margaret Thatcher si riprende le Falkland e crea un metodo di governare amato e odiato, il “thatcherismo”, al quale variamente si ispirano i suoi epigoni da Major a Cameron a Boris Johnson e le colleghe donne, Theresa May prima e oggi la premier Liz Truss. E, soprattutto, reinterpreta un europeismo senza fanatismi: esattamente 34 anni fa, il giorno in cui viene scritto questo articolo, la Thatcher tiene un discorso preveggente a Bruges in Belgio sulla crescita della libertà (non solo economica) dei cittadini UE. Dice: «La Comunità (europea, n.d.r.) non è un fine in sé. La Comunità Europea è un mezzo pratico attraverso il quale l’Europa può assicurare la futura prosperità e sicurezza dei suoi popoli in un mondo in cui ci sono molte altre potenti nazioni». Tradotto: basta con l’Europa dell’omologazione ai diktat economici e culturali, si rispettino le diversità nazionali. Suona familiare, a distanza di 34 anni?

Giorgia e Alfonsina. Antonio Ruzzo il 25 Ottobre 2022 su Il Giornale.

«Ringrazio le donne che hanno osato, per impeto, per ragione per amore, come Cristina, Rosalie dei Mille, Grazia, Tina, Nilde, Oriana, Samantha, Chiara, come Alfonsina che pedalò forte contro il vento del pregiudizio. Grazie per aver dimostrato il valore delle donne italiane come spero di fare io…». Già, Alfonsina. Giorgia Meloni, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio alla Camera, va a scovare nei ricordi e nella storia Alfonsina Strada. Alfonsina Morini da  Riolo di Castelfranco Emilia che sposerà poi Luigi Strada, nata il 16 marzo 1891 e detta “il diavolo in gonnella”. Fu la prima donna ciclista in Italia a correre alla pari con i corridori maschi, per una specie di “buco” nel regolamento di allora, che non specificava -non ci si pensava proprio- il sesso dei concorrenti. Vinse 36 competizioni e corse due giri di Lombardia (1917 e 1918) e un Giro d’Italia (1924) nel quale figurò tra i 30 eroici “sopravvissuti” che lo conclusero. A lei è dedicata una canzone dei Tetes de Bois , la folk band romana “pedalante” che ha messo a punto il primo eco-spettacolo al mondo sulla bicicletta alimentato a pedali dove l’energia elettrica che illumina il palco e dà energia agli strumenti è generata dagli spettatori. Alfonsina , ribelle di una famiglia povera e numerosa, che scoprì la bici a 10 anni quando suo padre gliela portò a casa. Non aveva giochi e quindi si divertiva a pedalare. Forte, sempre più forte, su un pezzo di via Emilia. Correva più dei maschi e dava scandalo perchè nel secolo scorso le donne che andavano in bici mica le guardavano come adesso. Ma lei se ne fregava e ogni  domenica gareggiava, vinceva e nel 1911 stabilì il record mondiale di velocità femminile con oltre 37 chilometri orari. Corse un Giro di Lombardia con Costante Girardengo e poi un altro ancora finchè nel 1924 arrivò il Giro. La storia di Alfonsina è quella di un ciclismo da pionieri.  Una storia di riscatto e di emancipazione fatta con il coraggio, con il cuore e con le pedivelle  che fa scomparire il marketing delle mimose. E la retorica delle quote rosa.

L’incredibile accusa della Boldrini: “Il partito della Meloni doveva chiamarsi Sorelle d’Italia”. Marta Lima su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.

Nelle ore in cui infuria la polemica delle femministe di sinistra contro Giorgia Meloni, che non si piega al linguaggio di genere imponendo a tutti di chiamarla “il presidente” e non “la presidente”, scende in campo con una delle sue inimitabili sciocchezze l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, che si spinge oltre ogni immaginazione, sostenendo che il partito del nuovo premier è maschilista e dovrebbe chiamarsi “sorelle d’Italia” e non solo “Fratelli”.

La Boldrini oltre ogni limite: critica la Meloni per il nome del suo partito

Ieri anche l’Accademia della Crusca si era espressa in maniera categorica: la Meloni può farsi chiamare come vuole, come aveva spiegato il presidente Claudio Marazzini all’Adnkronos, secondo cui non si può interpretare il maschile non marcato come un errore di grammatica: “Chi preferisce le forme tradizionali maschili ha diritto di farlo”.

Nonostante tutto, Laura Boldrini, oggi, sulla sua pagina Twitter, ha scritto cose deliranti: “La prima donna premier si fa chiamare il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare anche nella lingua il suo primato. La Treccani dice che i ruolo vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FdI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?”.

L’ironia di Fratelli d’Italia e della rete

L’unico commento politico, al momento, è quello del deputato di FdI Andrea Del Mastro, glaciale: “La psicopolizia del linguaggio”.

In rete, invece, sulla stessa pagina della Boldrini, si va di sfottò e di rabbia: “Io voto a sinistra, mannaggia a me, ma quando leggo queste stronzate non mi stupisco che al governo ci si la destra”.

“Per la legge io sono il ‘medico veterinario responsabile di…’ e a me, da donna, va benissimo Per inciso ‘la veterinaria”‘ invece è il nome scelto da diverse farmacie che vendono esclusivamente farmaci veterinari”.

“Anche per l’inno nazionale è troppo. Che dice il treccani (o la treccana) sul primato di Mameli?”.

“Non è che ora riesce fuori la roba della Matria al posto della Patria, vero?”.

“Avanti così con queste cazzate facciamoli arrivare al 50% dai che la strada è giusta”.

Da liberoquotidiano.it il 24 Ottobre 2022.

Anche Alessandro Di Battista si scaglia contro Laura Boldrini. Lo scivolone della deputata del Partito democratico sul presidente del Consiglio Giorgia Meloni scatena l'ex Cinque Stelle. È lui, con un tweet, a ridicolizzare la paladina delle donne. "Sono queste potenti prese di posizione - cinguetta - che ci spiegano perché il primo premier donna è di FdI e non del Pd (ed io la Meloni non la voterei mai nella vita). Se questa sarà l’opposizione senza sconti annunciata da 'occhi di tigre' Letta prepariamoci al ventennio meloniano". 

D'altronde la Boldrini ha promesso battaglia, o come piace a loro "resistenza", all'articolo maschile scelto dalla neo premier. "La prima donna premier - ha scritto su Twitter - si fa chiamare al maschile, il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare nella lingua il suo primato? La Treccani dice che i ruoli vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FDI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?". 

Ma in queste ore Dibba non è stato l'unico a far notare alla dem di aver commesso una tragicomica gaffe. Prima di lui sulla questione è intervenuto il presidente Claudio Marazzini.

"Io non credo che qualcuno possa cercare di 'imporre' complessivamente ai giornalisti italiani la propria preferenza linguistica - ha detto il presidente dell'Accademia della Crusca - In presenza di un'oscillazione tra il maschile e il femminile, determinata da posizioni ideologiche, penso che ognuno possa e debba mantenere la propria piena libertà di espressione, optando di volta in volta per il maschile o per il femminile, in base alle proprie ragioni". Da qui la lezione alla Boldrini: "Il presidente Meloni? Nulla di strano, è corretto". E se lo dice la Crusca, c'è da crederci.

L'errore della Boldrini. Figuraccia Boldrini: attacca Meloni ma fraintende il suo discorso. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it. il 26 Ottobre 2022

La paladina dei diritti ed il numero uno dell’Accademia della Crusca ha toppato. Ancora una volta. Dopo la polemica relativa alla scelta della premier Meloni di utilizzare la formula “il presidente”, e non l’articolo femminile, è arrivata la volta del partito Fratelli d’Italia. Secondo l’ex presidente della Camera, infatti, il movimento fondato dalla nuova presidente del Consiglio sarebbe discriminatorio, proprio perché non includerebbe nel nome le “Sorelle d’Italia”. E, a questo punto, diciamo noi: perché non ammettere anche la comunità Lgbt, di cui Laura si è scordata?

Scontro Meloni-Boldrini

Ma non finisce qui. Oggi, durante il voto di fiducia alla Camera, è arrivata una duplice steccata. Da una parte, Meloni ha ripreso ironicamente l’attacco di Laura Boldrini, secondo cui, con la dicitura “ministero della Sovranità Alimentare“, si andrebbe a vietare l’importazione di qualsiasi cibo straniero nel nostro Paese (la rappresentante del Pd ha utilizzato come esempio l’ananas). Dall’altra, però, la vera figuraccia arriva nel pomeriggio di ieri, quando l’ex terza carica dello Stato ha twittato il seguente post: “Il discorso di Meloni è stato a base di retorica nazionalista, polemico, vago su economia e lavoro, carente sull’immigrazione, autoreferenziale. Ha detto “non disturbare chi vuole fare“. In democrazia chi governa è sempre al vaglio dell’opposizione. Stia certa: disturberemo”.

La figuraccia

Boldrini ha alluso ad un presunto attacco di Giorgia Meloni all’opposizione, traducendo la frase come un monito alla sinistra, che non avrebbe dovuto mettere i bastoni tra le ruote al lavoro svolto da FdI, Lega e Forza Italia, a Palazzo Chigi. Eppure, la frase della premier riguardava tutt’altro tema. Il presidente del Consiglio – da notare l’articolo maschile – stava parlando del rapporto tra imprenditori e Stato, con l’intenzione di salvare il mondo dei produttori privati dalla burocrazia, dall’iper-tassazione (che tanto piace a sinistra), dalle migliaia di norme che imbrigliano le imprese. Insomma, ancora una volta, Boldrini ha preso un’altra strada, e ha collezionato l’ennesimo svarione, fraintendimento, errore.

Non è un caso che gli utenti della piattaforma Twitter glielo abbiano fatto notare: “Ma perché hai capito che il non disturbare era riferito all’opposizione? Ha detto non disturberemo chi vuole fare, rivolto alle imprese. Che c’entra l’opposizione?”; “Non disturbare a chi vuole fare era riferito agli imprenditori che sono imbrigliati in migliaia di norme, spesso in contraddizione tra loro. Il suo taglia e cuci è veramente infimo e – quello sì – retorico”. Ma la risposta di Laura non arriva, come neanche le scuse per aver frainteso la frase della premier.

Pochi giorni fa, inoltre, Boldrini è stata anche contestata da una giovane femminista romana, proprio sul tema caro all’ex presidente della Camera: i diritti delle donne. In un acceso confronto, ripreso dalle telecamere, la studentessa ha abiurato la rappresentanza della Boldrini al sit-in sull’aborto, colpevole di aver “tradito i giovani” attraverso “stage non pagati, lavoro sfruttato, alternanza scuola-lavoro o progetti in azienda”. Le mazzate, almeno in queste ultime settimane, arrivano da tutte le parti: da destra a sinistra, dalla frangia radical alle femministe più convinte. Non il periodo migliore per Laura. Matteo Milanesi, 26 ottobre 2022

Il Bestiario, la Rosichina. La Rosichina è un essere leggendario che si nutre di parole arcobaleno. Giovanni Zola il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La Rosichina è un essere leggendario che si nutre di parole arcobaleno.

Per inquadrare la natura della Rosichina basta pensare alla doppia personalità del fenomenale personaggio di Gollum. La Rosichina è divisa. Da una parte c’è il Gollum buono, che poi non è buono, in difesa di tutte le donne in tutto e per tutto. Dall’altra c’è il Gollum cattivo, che è proprio cattivo, per cui è vero che le donne sono uguali, ma alcune sono meno uguali, soprattutto se le tolgono la poltrona da sotto il sedere quando pensava di rimanere seduta comoda comoda.

Facendo un passo indietro, la Rosichina è citata da Freud come un caso emblematico nel suo “Interpretazioni dei sogni”. Il padre della psicanalisi ci ricorda infatti che se sogniamo una Rosichina che ci rapisce e tenta di divorarci il cuore significa che nel nostro inconscio temiamo che una Rosichina ci rapisca e tenti di divorarci il cuore o che più probabilmente non abbiamo digerito la peperonata.

Il problema della Rosichina è che mancando di argomenti validi per fare una critica sensata, attinge dalla propria ideologia i luoghi comuni che più le appartengono. Così si attacca alle parole. Le parole diventano valori, i valori diventano parole. Così la scelta tra chiamarsi “la presidente”, “il presidente” o “la presidenta” diventa importante come ottenere la pace del mondo o trovare la soluzione definitiva ai peli superflui.

Ma ben altre battaglie sulle parole mitigano il livore della Rosichina. Ad esempio non sopporta il concetto di “sovranità alimentare” come se non godesse anche lei delle unicità culinarie del nostro Paese, preferendo ad esse il latte di scarafaggio che fa tanto globalismo ed è utile solo se si ha bisogno di rimettere la peperonata di cui sopra.

Altra parola che non piace alla Rosichina è “famiglia”. Termine odioso per l’essere mitologico perché definisce l’uomo che lavora e la donna che stira, mentre la donna e l’uomo dovrebbero, secondo la Rosichina, andare a lavorare entrambi coi vestiti stropicciati o stirare entrambi senza lavorare e patendo la fame. Ma la Rosichina non si pone il problema perché lei ha una immigrata che le stira le camicie arcobaleno.

La Rosichina in fondo in fondo, ma molto in fondo, fa tenerezza perché, ideologicamente convinta della giustezza delle sue battaglie nominali, non si rende conto di non rispondere ai problemi reali. Per questo è destinata, a questa stregua, a non governare per i prossimi vent’anni e soprattutto a continuare a non digerire la peperonata.

Femministe contro Libero: ci insultano perché scriviamo "Giorgia". Claudia Osmetti Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022

Da «Sputiamo su Hegel» a «sputiamo su Libero». C'è qualcosa che non va. E non va in una parte (mica nel tutto, ma poi ci arriviamo) del femminismo tricolore che sì, avrebbe dovuto essere in prima fila ad applaudire l'entrata a Palazzo Chigi di una donna e invece no, proprio non gli va giù che sia Giorgia Meloni.

Arrivano -i -fasci, una -giornata-triste, su su fino a tacciare di maschilismo (sì, di maschilismo) chi se ne fa un vanto. Lo rivendica. Lo scrive e lo colora (di rosa), perché sabato scorso è stata per davvero una ricorrenza storica, dopo 76 anni di premier con la cravatta e di politica fatta e decisa e pensata solo dagli uomini. Eppure apriticielo. Se provi a farlo notare parte il cancan sguaiato di chi ti accusa di «perpetuare il patriarcato travestito» (le virgolette si riferiscono a uno dei tanti commenti che rimbalza sui social).

DI DESTRA...

Su Instagram la pagina "ladonnaacaso" ci incolpa, nell'ordine: uno) di aver riferito che «per la prima volta alla guida del governo c'è una donna»; due) di aver usato l'articolo determinativo davanti al nome («La Meloni si gioca tutto»); tre) di aver optato per una scelta cromatica che si usa «per le femminucce» e quattro) nientepopòdimeno che di «cuginismo». Qualsiasi cosa voglia dire.

E pazienza se la notizia, tre giorni fa ma anche oggi e sarà lo stesso tra tre giorni, è esattamente quella: che «una donna» (non una a caso, ma pur sempre una donna), finalmente, è diventata presidente del Consglio. Viene da sospettare che il problema in realtà sia un altro, e cioè che si tratti di «una donna di destra».

I VERI PROGRESSISTI

Ma allora lor signore dallo sdegno facile (e a senso unico) si dovrebbero fare una breve carrellata storica perché da Margaret Tatcher ad Angela Merkel, da Condoleezza Rice a Golda Meir, sono i partiti conservatori che arrivano laddove quelli progressisti tanto blaterano e poi s' impantano. Segno che, forse forse, le quote rosa non funzionano granché e che la sinistra di mezzo mondo, se fosse seria la metà di quanto s' incensa, dovrebbe prenderne atto.

Per tutto il resto non vale la pena di ribadire che il termine "femminucce" noi non lo abbiamo mai usato (com' è che dice, la saggezza popolare? Che la malizia è spesso nelle orecchie di chi ascolta piuttosto che nella bocca di chi parla?). Mentre sul fronte del "cuginismo", espressione che non è manco presente nei tomi della Treccani, qual è il problema? La freccetta che, sui social, lo indica punta a un articolo di Renato Farina dal titolo: «La cavalcata di Giorgia dalla Garbatella al potere». E allora? È andata così: magari è il nome proprio, questa volta che disturba? Ma basta sfogliare una qualsiasi edizione di Libero per accorgersi che un identico trattamento è riservato agli uomini (una su tutte, l'apertura del 19 ottobre: «Silvio, fermati»). Niente. Un certo femminismo (ci siamo arrivati) quello dell'uguaglianza a tutti i costi, rimugina, rosica e si fa prendere dall'ideologia. E non ha ancora imparato la lezione delle "compagne" che, negli anni Settanta, avevano capito che "differenza" non è una parolaccia, che le diversità sono arricchimento e ignorarle è un errore. Ma il discorso, a questo punto, si fa complesso: vaglielo a spiegare a quel femminismo daltonico che dice rosa e vede nero.

Ferdinando Camon per “Avvenire” il 25 ottobre 2022.

Quel che dirò vale in campo letterario e linguistico, non ha alcun valore in campo politico. Sto avanzando delle riserve su alcune decisioni del nuovo governo. Nel nuovo governo son presenti con cariche ministeriali sei donne, e ognuna di esse nella presentazione ufficiale è stata chiamata "ministra" e non "ministro". 

Lo trovo corretto e doveroso, non rivoluzionario: sono donne, di loro è giusto parlare al femminile. Poi però si va avanti con la notizia, e si scopre che Giorgia Meloni, nelle comunicazioni ufficiali, vien chiamata (il testo che ho qui davanti dice: «ha scelto di farsi chiamare») "il" presidente e non "la" presidente. Vedo anche che c'è una nota aggiunta dell'Accademia della Crusca, che dice così: «Ognuno è libero di scegliere quale forma preferire». Non sono d'accordo né con Giorgia Meloni né con l'Accademia della Crusca.

Avevo una collega scrittrice, una brava collega, con la quale mi son trovato a un incontro col pubblico, mi toccava presentarla, e l'ho chiamata "scrittrice": lei s' è inalberata di colpo, m' ha strappato il microfono e m' ha corretto con veemenza: «Ma io pubblico con Einaudi e Feltrinelli, sono uno scrittore, non una scrittrice!». 

H o capito che s' era offesa. A lei "scrittrice" sembrava meno che "scrittore". Per tutta la vita, era cresciuta e aveva lavorato ammirando gli scrittori, e sognando di diventare come loro, adesso era giunto il momento e pubblicava i suoi libri con i loro stessi editori, era come loro, meritava lo stesso titolo di "scrittore", perché dunque chi la presentava la chiamava "scrittrice"? Se una che scrive libri entra in un'antologia intitolata "Scrittori del nostro tempo", è anche lei uno "scrittore", con dignità pari a tutti gli altri. Se la chiami ""scrittrice" la separi in una stanzetta a parte e minore.

Da scrittore-uomo dico subito che mi pare un timore assurdo. La verità è l'esatto contrario. Un editore pubblica più volentieri una donna che un uomo. Un lettore o una lettrice comprano più facilmente il libro di una donna che il libro di un uomo. Essere una scrittrice è più interessante. E così essere "una" presidente del consiglio è più "carico" che essere un presidente. 

A me pare che Giorgia Meloni, chiamando sé stessa "il presidente del Consiglio" invece che "la presidente", lascia cadere per strada gran parte del fascino che sta nella sua carica. La notizia della sua nomina a quel ruolo sta anche e soprattutto nel fatto che lei è donna, e quel ruolo finora è stato affidato sempre (sempre) a uomini. Se vuol presentare correttamente e compiutamente sé stessa deve dire "la presidente", non è vero che può usare il termine che vuole. La Crusca sbaglia. Alla Crusca stanno professori, non scrittori.

Gianfranco Ferroni per “Il Tempo” il 25 ottobre 2022.

Giorgia Meloni è il presidente del Consiglio dei ministri. Punto. Quanti “bla bla bla” sono stati subito sprecati in un inesistente dibattito su “il” e “la” presidente, generato ovviamente da parte dei soliti sfaccendati. Che si dimostrano, oltretutto, ignoranti del dettato costituzionale. Nel senso specificato dalla Treccani: quel testo non lo conoscono, lo ignorano. Già, perché scegliendo di comunicare ufficialmente che si tratta “del” presidente, Meloni non fa che attenersi a quanto è scritto nella Costituzione italiana. Alla faccia di chi dice che non rispetterà il testo dei padri costituenti. 

Nessun linguista, nessuna femminista, nessun “professorone” ha avuto la bontà, o meglio il buongusto, di aprire il sacro testo della Repubblica (forse non ne hanno mai avuto una copia?) alle pagine che contengono gli articoli 92, 93, 94, 95 e 96. E’ la parte seconda della Costituzione, titolo terzo, sezione prima: titolo, “Il Consiglio dei Ministri”. Leggiamo l’articolo 92: “Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”.

E’ tutto chiaro: la carica, legalmente, e al più alto livello, è “il Presidente”, e vale sia per il Capo dello Stato che per il premier. Andiamo all’articolo successivo, il 93: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”. Qui il concetto viene ribadito: perché è il ruolo che conta, indipendentemente dal sesso, alla faccia di asterischi e ridicole invenzioni contemporanee. 

E l’articolo 95? “Il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”. Gran finale, con l’articolo 96: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”.

Quando si parla della Costituzione non c’è “libertà di scelta”: va applicata e basta. Ed è davvero curioso che tra coloro che accusano il capo del governo di “non valorizzare le battaglie delle donne” e di avere una “impostazione politico-culturale” d’altri tempi, addirittura ostile alla “declinazione della cariche al femminile”, ci sono proprio quelli che non vogliono cambiare nemmeno una virgola del testo costituzionale e fulminano con invettive ed anatemi qualsiasi ipotesi di modifica. 

Ma Meloni ha dimostrato nei fatti che la Costituzione si difende anche rispettandola in quelli che solo apparentemente sono dettagli: c’è scritto “il Presidente del Consiglio”, e così deve essere definito. Punto.

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 26 ottobre 2022.

A spettiamo che Giorgia Meloni cominci il suo discorso.

Ma intanto: occhiate di perfidia liquida, brusio, quella certa percezione di evento imminente, i ministri tutti in ghingheri già ai tavoli del governo, Anna Maria Bernini - al solito - la più chic, le sinapsi dei cronisti friggono, guardate un po' Antonio Tajani. 

Cos' ha Tajani?

Ha uno sguardo grigiastro, accigliato.

Vabbé. 

No, che vabbé: dov' è Giorgio Mulè? Eccolo laggiù, Mulè. E in effetti Mulè, neo vicepresidente della Camera, se ne sta invece lì bello pacioso, di ottimo umore: il regolamento di conti interno a Forza Italia, con possibili ripercussioni dentro l'esecutivo appena nato, è partito alla grandissima («Ho solo chiesto se Antonio, per caso, non ritenga di aver accumulato qualche incarico di troppo: ministro degli Esteri, vicepremier, probabile capo delegazione di FI e anche coordinatore nazionale del partito. Ecco, forse da coordinatore potrebbe dimettersi, o no?»). 

Ragazzi, ma la Meloni?

Arriva, arriva. Intanto, da dieci minuti, seduto sulla tribuna dell'emiciclo di Montecitorio riservata agli ospiti, attaccata a quella della stampa, c'è già il compagno, Andrea Giambruno, giornalista Mediaset e padre di Ginevra, 6 anni (più tardi Giambruno dirà di essersi molto emozionato; smentendo, però, ad alcuni giornalisti che lo incalzavano, di avere idee sinistrorse: del resto poi stasera a casa, da solo con Giorgia, ci resta lui).

Lei, finalmente, eccola: l'avrete vista già nelle immagini dei tigì e in qualche talk. Indossa un tailleur blu e una maglia di seta bianca: fresco il famoso taglio già detto anche Biondo/Meloni, che - come lei stessa ha comunicato - decine di donne ormai pretendono dai parrucchieri (certo: è un attimo, e si diventa stampa di regime. Solo che questa è purissima cronaca). 

Il succo del suo discorso lo trovate in un'altra pagina. È stato interrotto 70 volte (alcuni solerti lacchè, con lingue a frullino, giurano che gli applausi siano stati molti di più: certi ormai fanno e dicono di tutto pur di saltare sul carrozzone di Fratelli d'Italia). Sensazioni più forti: discorso con dentro molta politica (definitivo quel «Mai provato simpatia per i regimi, fascismo compreso»), e massicce dosi di mestiere; quindi un'ora e un quarto, tra pause studiate e colpi di tosse, ad alto tasso di empatia. Le gag dei bicchieri d'acqua hanno fatto il giro del web in tempo reale.

Dopo l'ennesima standing ovation, sorseggiando e facendo ricorso al romanesco della Garbatella, slang Cesaroni, ha sussurrato a Matteo Salvini: «Così finimo aeee tre» (ma poi ha sfoggiato una citazione in inglese: «Io underdog, stravolgerò i pronostici»). 

A proposito: e Salvini? 

Qualche faccetta delle sue, che non capisci mai se stia per sganasciarsi o sia d'accordo; botte di forzata complicità (un paio di volte le ha parlato all'orecchio); ma non c'è cascato nessuno: il Capitano, crollato sotto il 9%, s' era già portato avanti con il lavoro; dettando, qualche ora prima, la sua personale e spinosa agenda: flat tax, ponte sullo Stretto, riforma Fornero.

Dopo un po', ci siamo messi a guardare i banchi delle cosiddette opposizioni. Spettacolo drammatico. Hanno applaudito anche loro il passaggio sul presidente Mattarella. Applausi, meno entusiastici, su Draghi. Poi, quando la presidente del Consiglio ha ricordato la recente alluvione delle Marche, momento di imbarazzo: il governatore delle Marche è Francesco Acquaroli di FdI. Accidenti: e adesso? Si applaude o no? 

Stesso panico, soprattutto tra gli scranni del Pd, quando la Meloni ha ringraziato le donne e gli uomini delle forze armate: «Come una scolaresca impaurita - descrive la scena Roberto Giachetti, tra i renziani più autorevoli - Alla fine s' è messo a battere le mani solo Guerini».

Il compagno Nicola Fratoianni, capo di Sinistra italiana, che è riuscito a far eleggere qui alla Camera anche sua moglie, la compagna Elisabetta Piccolotti, ha applaudito solo il passaggio sulla lotta alla mafia. Laura Boldrini, livida. Le mani stringevano nervosamente il cellulare. Ha alzato la testa quando ha sentito la Meloni che citava alcune donne: «Tina, Nilde, Rita, Oriana, Ilaria, Maria Grazia». 

 Tina sarà mica la Anselmi? E Nilde: ma no, dai, davvero sta citando Nilde Jotti? Altra botta di confusione: applaudiamo o no? I 5 Stelle, per dire, applaudono. Mai vista un'opposizione così indecisa, lacerata, distante. Intanto la premier ha concluso il suo intervento tra gli evviva e Salvini che l'abbracciava (sì, Santo Cielo: l'ha proprio abbracciata. Non è stupendo?).

Poi, nelle repliche, la Meloni risponde al deputato Aboubakar Soumahoro, sindacalista ivoriano eletto nell'alleanza Verdi e Sinistra, dandogli del «tu». Proteste, qualche fischio. Lei subito si corregge, senza impacci chiede scusa. E prosegue verso una scena strepitosa. Sentite qui. Debora Serracchiani, confermata (tra molti dubbi) capogruppo dem, si era alzata tutta puntuta: «Temiamo che il governo Meloni voglia le donne un passo indietro e». Meloni: «Mi guardi, onorevole Serracchiani: le sembra che io sia un passo dietro agli uomini?». Tra i banchi dem, pochi raggelati sguardi chini. Gioco, partita, incontro.

Andrea Malaguti per “La Stampa” il 27 Ottobre 2022.

Dibattito del giorno: davvero gli ha detto «che merda»? Possibile? Probabile. Quasi certo. Il Var televisivo lascia pochi dubbi. Giorgia Meloni riprofila garbatellescamente Giuseppe Conte, reo di averle ricordato l'astensione in Europa di Fratelli d'Italia sul Next Generation Eu. «Se fosse per voi i soldi di Bruxelles non li avremmo mai avuti». 

La (il) presidente non gradisce, perde l'aplomb del mattino e dal nobile scranno della Camera sussurra a mezza bocca il giudizio maleodorante. La (il) Premier del Popolo contro l'Avvocato del Popolo. Un kolossal. Chi la rappresenta davvero l'Italia che soffre, quella degli ultimi e dei poveri? Chi la difende? E soprattutto come?

«Noi» (cioè lui), dice Conte in questa intervista a La Stampa, in cui spiega perché il piano-quinquennale della Destra gli sembra sbagliato, iniquo, pericoloso: irricevibile. A partire dal tetto sui contanti da alzare a 10mila euro e dal condono fiscale. «Così tornano mazzette e valigette». Bel clima. 

Presidente, un(a) premier, può dire «che merda» a un parlamentare?

«Non ha smentito la frase?».

Al momento no.

«Sa, ero concentrato sul mio intervento. Ma in effetti ho visto Meloni molto nervosa e infastidita». 

L'epiteto sembrava qualcosa di più di un fastidio.

«Se davvero l'avesse detto non sarebbe una frase accettabile da un presidente del consiglio. Per altro io stavo dicendo la verità». 

Non l'è piaciuto nulla nel discorso per la fiducia?

«Il passaggio in cui prende le distanze dal regime fascista e condanna le leggi razziali. Passaggio per altro dovuto per chi giura su una Costituzione che si fonda sull'antifascismo». 

Esiste ancora il pericolo fascista?

«Esiste un partito che in alcune sue componenti, dal presidente del Senato in giù, non nasconde rigurgiti nostalgici. E poi c'è da fare i conti con la stagione stragista di matrice neofascista».

Meloni è il primo presidente del consiglio donna. A questo applaudirà anche lei, no?

«Sicuramente questo è un punto a suo favore» Lei come la chiamerà: il o la presidente del consiglio?

«Rispetterò la sua indicazione, dunque il». 

Perché ha bollato il discorso di Meloni come "restaurazione identitaria"?

«Perché la Meloni invece di concentrarsi più concretamente sui problemi di famiglie e imprese, o sulle difficoltà reali di sanità, ricerca, scuola e università, si è preoccupata di rivendicare un progetto culturale conservatore e a tratti reazionario». 

Le citazioni di Scruton e Burke?

«Per esempio. Scruton e Burke come cornice dell'eterno richiamo alla triade Dio, Patria e Famiglia alla base della sua visione del mondo. Una visione che rischia di riportarci a modelli non inclusivi e divisivi». 

Magari l'hanno votata per quello.

«Non credo. Penso che l'abbiano votata per combattere i problemi economici e affrontare il disagio sociale». 

Con Burke non si può?

«Si può se lo si legge davvero.

Consiglio al premier le riflessioni sulla rivoluzione francese in cui Burke invita alla prudenza politica e a una attenta circospezione, doti distanti dalla sicumera mostrata dal premier alla Camera». 

Perché l'innalzamento del tetto dei contanti a 10mila euro è sbagliato?

«Perché girare con valigette piene di contante non risponde alle necessità dei cittadini, ma corrisponde piuttosto alle tentazioni di corrotti ed evasori. E allora si comprende meglio il motto del governo, che non è più non disturbare chi ha voglia di fare, bensì non disturbare chi ha voglia di dedicarsi al malaffare. Mi sembra solo un altro pezzo della controriforma cominciata dal governo dei Migliori con la cancellazione del cash-back». 

Non agevola commercianti e artigiani?

«Secondo gli studi di Bankitalia favorisce l'evasione. Io sposo la logica degli economisti che teorizzano la spinta gentile». 

Ossimoro delicato. Che cosa significa?

«Che senza svantaggiare chi usa il contante dobbiamo alimentare l'uso della moneta elettronica, incentivando l'economia in chiaro e disincentivando quella in nero».

Il reddito di cittadinanza va rivisto?

«Il reddito di cittadinanza durante la pandemia ha salvato un milione di persone dalla povertà. Chi pensa di toglierlo o non ha idea dei problemi del Paese o guarda con disprezzo a chi non ce la fa. Per altro sarebbe in contraddizione col filone della destra sociale». 

Detto questo?

«Detto questo va migliorato nella parte che riguarda le politiche attive del lavoro, rendendo operativi i centri per l'impiego, senza i quali è impossibile pensare di dare un lavoro a chi percepisce il reddito. Dovremmo approfittare di questo governo per stimolare i governatori delle regioni guidate dalla destra che fino ad ora, sul tema, sono stati piuttosto riottosi». 

Nel suo discorso alla Camera la premier non ha mai nominato la parola pace.

«In un'ora e dieci di intervento è stata capace di evitare accuratamente la prospettiva di un negoziato che porti alla fine del conflitto». 

La pace la vorrà anche Meloni, non crede?

«Credo, senza girarci attorno, che il suo discorso confermi la vocazione guerrafondaia di Fratelli d'Italia. Un partito che abbraccia convintamente e irresponsabilmente la prospettiva di una escalation militare». 

Diciamo che in Europa è in buona compagnia.

«Purtroppo è così. Ma Fratelli d'Italia aggiunge una volontà di esibire i muscoli che alimenta le tensioni internazionali anziché prevenirle». 

Non esagera?

«No e l'idea di un nuovo blocco navale nel mediterraneo per fermare i migranti lo conferma».

Meloni è più atlantista dei Cinque Stelle?

«Lo può dire soltanto chi confonde l'adesione alla Nato con una strategia contingente decisa in tutta fretta per questo conflitto». 

Presidente, giusta la commissione d'inchiesta per la gestione del Covid?

«Giusta se non se ne fa un uso strumentale, e dunque politico, come successe durante la pandemia. E giusto, soprattutto, se ci sarà la possibilità di approfondire le responsabilità dei sistemi regionali che sono i primi titolari del servizio sanitario». 

Parla della Lombardia?

«Parlo in generale. Non sarò certo io a strumentalizzare». 

All'opposizione sarà più duro lei o Berlusconi e Salvini?

«Io sarò sicuramente durissimo. Però trasparente».

La premier giura che non attaccherà i diritti, a partire dall'aborto, ma da un mese non si parla d'altro.

«Torniamo all'idea di restaurazione identitaria a cui facevo riferimento prima, per cui non è necessario toccare la 194. Basta ostacolare e fermare il cammino che accompagna una lunga serie di diritti: l'aborto (che in molte regioni di destra, a partire dalle Marche, è ormai quasi impossibile), ma anche le battaglie sul fine vita o la legge sull'omotransfobia». 

Le ha viste le botte a La Sapienza?

«Le ho viste e ho anche sentito dire alla premier che manifestare le proprie idee è sempre giusto, impedire agli altri di farlo sempre sbagliato». 

Mi pare ineccepibile.

«Lo è. Ma bisognerebbe aggiungere che nel tempio del confronto delle idee, cioè l'università, usare cariche e manganelli contro studenti evidentemente disarmati è sbagliato. Se non lo si sottolinea si rischia di mandare un messaggio sbagliato». 

Presidente che voto dà al governo Meloni?

«Aspetto che parta per valutarlo. Per ora mi limito all'insufficienza piena al discorso. Noto però che nell'esecutivo non mancano i conflitti di interesse». 

Santanché e Crosetto?

 «Al di là dei singoli voglio dire che quando la destra declina la sua idea di meritocrazia lo fa privilegiando gli interessi di chi conta pretendendo il rispetto delle regole solo da parte di chi non conta e sta fuori dai circoli del potere». 

L'opposizione la fate da soli o con il Pd?

«Ripeto che noi saremo intransigenti. Il Pd mi pare ancora molto vincolato al metodo Draghi». Calenda lo vuole alla marcia della pace? «Mi sembra che lui preferisca la marcia della guerra».

Estratto dell’articolo di Luca Bottura per “La Stampa” il 27 Ottobre 2022.  

Insieme al Ponte, presto al via una nuova grande opera: il carro dei vincitori a nove corsie.

Se accosti una pantegana del Tevere all'orecchio, invece che il rumore del fiume senti lo sciabordio delle lingue.

L'innamoramento dei media per la premier. Repubblica e Corriere alla corte di Giorgia Meloni “la fuoriclasse”. Michele Prospero su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Forse più ancora del fascismo esteriore, che nel secolo breve avanzava con i suoi tradizionali simboli di morte e si affermava al potere totalizzante con i nudi apparati repressivi, occorre temere il fascismo interiore, quello spirito di conformismo che, come un’onda inarrestabile, conquista i media e li trasporta all’unisono nella quotidiana offerta di esaltata riverenza verso “Madonna Giorgia” che tiene saldamente in pugno l’autorità.

Le note entusiastiche di storici e opinionisti del Corriere, che elogiano l’empatia, la leadership, il coraggio, la genialità della comandante in capo, sono solo l’aspetto più patetico del sentimento di ossequio trasformistico che, al cospetto del padrone del tempo nuovo, contagia molte firme (non solo) di via Solferino. Emblematica espressione della omologazione culturale così volgarmente dilagante è, senza dubbio, un editoriale apparso su Repubblica a firma di una cronista che il giustizialismo light dell’era veltroniana condusse nientemeno che alla direzione del quotidiano fondato da Gramsci. Persino il giornalista di Libero presente oramai in tutte le trasmissioni di telepolitica in qualità di amico di “Giorgia” e unico rappresentante doc della nouvelle vague meloniana, che invece adesso si appresta a radunare anche file enormi di aspiranti lacchè, mostrava di non credere alle proprie orecchie mentre veniva inopinatamente scavalcato a destra dalle parole ispirate da un profondo rapimento mistico verso le gesta oratorie della “fuoriclasse”.

Davvero , come ritiene Repubblica, “è nata una leader”, il cui discorso in Aula è “impeccabile, convinto, competente, appassionato, libero, sincero”? Ed è proprio certo che il problema di questo governo appena insediato sono semplicemente i “compagni di viaggio”, ovvero “il caravanserraglio di vecchie cariatidi che sono salite a bordo della sua scialuppa”? Secondo il quotidiano fondato da Scalfari, in spericolata corsa verso il celere riposizionamento dinanzi alla “grandissima comunicatrice” stimata come destinata alla lunga egemonia, il principale problema italiano consiste nello squilibrio sin troppo palpabile tra la grandezza e la “giovinezza” di una “leader che c’era già, da anni, solo che ora l’hanno vista tutti -cancellerie del globo comprese-” e una “galleria di mostri” che ha incautamente (e a questo punto, forse, a sua insaputa) scelto come ministri.

La questione politico-istituzionale urticante che la conquista del controllo del governo da parte della leader della destra più radicale solleva non è risolvibile in maniera così schematica e semplice, purtroppo. Il più cospicuo limite di questo esecutivo composto da tre distinte destre (una liberal-popolare, una etno-populista e l’altra radicale di ascendenza post-fascista) risiede, più che nella squadra difettosa allestita tra compromessi e minacce, nella fragile capacità direttiva della pretesa “fuoriclasse” insediata a Palazzo Chigi. Si può anche scambiare per parole epocali le frasi di semplice circostanza consegnate in un discorso di assoluta pigrizia espressiva. Resta il fatto inoppugnabile, però, che la cosiddetta costituzionalizzazione della destra con la fiamma ancora in corpo non c’è stata. Ed è anche naturale che sia così. Stucchevole è che gli umiliati di settembre, invece di leccarsi le ferite e di assumere con dignità quel liberatorio senso di vergogna per la sconfitta storica rimediata a causa di una totale insipienza tattica, invochino la partecipazione al 25 aprile dei capi più neri della nuova élite al potere.

Offesa maggiore alla memoria dei combattenti partigiani e ai padri costituenti forse non ci potrebbe essere. Davvero ha un senso implorare Ignazio La Russa affinché, magari dopo aver ben spolverato i domestici busti del duce, gentilmente invii un bel messaggio retorico sul valore della Resistenza antifascista? La destra a guida Meloni in realtà ha profanato, e in maniera democratica, le radici storiche della Repubblica. È troppo rassicurante cogliere in taluni vaghi cenni emersi alla Camera la capacità assorbente della Carta che costringe i suoi antichi nemici a chiari gesti di riconciliazione. Non solo “il” Presidente del Consiglio ha diluito nella categoria ingannevole di “totalitarismi” la mancata “simpatia” per il fascismo storico e le leggi razziali (con un’enfasi, a dire il vero, soprattutto su queste ultime), ma ha gettato un inequivocabile guanto di sfida rivolto all’ordinamento costituzionale quando ha annunciato la ferma volontà della maggioranza di seppellire la vetusta repubblica parlamentare, per costruire una nuova forma di governo in nome del principio supremo della stabilità.

L’odierna battaglia antifascista non può esaurirsi nelle reiterate implorazioni agli uomini nuovi della destra affinché venga da loro tributato un omaggio al martire Matteotti e ai più rilevanti simboli storici della Repubblica. Il vero terreno di scontro va ricercato oggi nel contrasto risoluto alla volontà di istituzionalizzare il preteso dono personale-carismatico della “capa” in una nuova repubblica di stampo presidenziale. Fa male per questo Renzi a giocare sul piano meramente tattico, con aperture alla modellistica semipresidenziale, una questione che in realtà è ben più sostanziale, scavalca gli stampini dell’ingegneria costituzionale per abbracciare i fondamenti storico-valoriali di ciò che permane della Repubblica.

Ha un bel dire Marco Damilano che adesso, con Meloni insediata al posto supremo di comando, finalmente si chiude il cerchio del trentennio della Seconda Repubblica e il professionismo della politica si prende la sua vendetta sulle forme di rivolta inscenate dalla società civile contro la casta. Era forse possibile un epilogo diverso rispetto a quello che ha portato inesorabilmente al revanscismo post-missino? Aveva una sorte bella e segnata la sfida alquanto ignobile tra l’adunata nera che intimava al Parlamento degli inquisiti di “arrendersi” e la piazza della Rete e dei movimenti civici che gettavano le monetine contro Craxi e poi si mobilitavano per la “repubblica dei cittadini” in luogo della partitocrazia, per il “partito personale” del leader contro gli apparati, per la “rottamazione” contro i politici di lungo corso.

Il cerchio si chiude in questo modo, caro Damilano, anche perché tutte le categorie interpretative in cui hai creduto, dal giustizialismo al culto del movimento referendario, dalla ripulsa antipartito alla necessità di conciliare la sinistra con il leaderismo, hanno fatto cilecca opponendo il vuoto (organizzativo e identitario) all’onda montante della destra. Berlusconi, che dopo anni torna a parlare in un’aula parlamentare, si inganna anche lui di grosso se crede che Meloni, con la quale appunto una fase storico-politica si compie, sia una sua creatura. Il Cavaliere per alcuni decenni, proprio sdoganandoli, ha in realtà contenuto i “fascisti”, come lui li chiama. Ha dato con la sua opera un paradossale supplemento di vita alla repubblica, infestandola certo con i conflitti di interessi e le decadenze dello spirito pubblico.

A parabola conclusa del ciclo del berlusconismo, con la mancata istituzionalizzazione del partito-azienda tramite l’invenzione di una linea successoria di tipo familiare-proprietario capace di occupare il vuoto dovuto all’usura del corpo del capo, il nero, che negli anni 90 il partito di plastica ha soltanto rimosso, torna con prepotenza a rivendicare uno spazio egemonico.

La crisi della Prima Repubblica ebbe sin dalle origini un esito chiaramente di destra (basti pensare ai netti segnali lanciati nelle elezioni amministrative del ’93), Berlusconi lo ha nascosto a lungo con la sua discesa in campo che, saldando la fiamma e il carroccio, regalò ai missini le agognate spoglie ma impedì ai camerati la fondazione, anche formale-costituzionale, di una Seconda Repubblica. Questa storiella, raccontata in toni edificanti anche da Luca Telese, secondo cui con Meloni almeno torna la politica, è una perfetta insulsaggine. Quest’ultima non va mai via, e ora arroccata saldamente al potere non c’è la politica, ma la destra radicale. Che ricomincia con le battaglie navali, la pace fiscale e i favori ai signori del riciclaggio, che intende esercitare un potere disciplinare sul corpo delle donne, che spacca la testa a qualche studente scambiando la Sapienza per una piazza sudamericana. Michele Prospero

Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 27 Ottobre 2022.  

Speriamo che Giorgia Meloni sappia nuotare, vista la cascata di bava e saliva che la inonda e che affogherebbe pure Gregorio Paltrinieri. "Una fuoriclasse" (C. De Gregorio, Rep), "sano pragmatismo", "principio di realtà", "responsabilità", "ortodossia" senza l'"armamentario ideologico del sovranismo" (Verderami, Corriere), "un bel discorso, si può dire?" (G. Tortora), "una bella sorpresa: il sovranismo col loden" (rag. Cerasa) e via leccando.

Da “il Fatto quotidiano” il 27 Ottobre 2022.  

Li ha approcciati con un lessico all'apparenza nuovo e che invece è il linguaggio della politica, a cui da molti anni il Parlamento non era più abituato. Si è ancorata a un sano pragmatismo, che è una presa d'atto del principio di realtà.

Francesco Verderami (Corriere della Sera) 

Una fuoriclasse. Lei è di destra. Certo, che ha fatto un discorso di destra. Impeccabile, tuttavia. Convinto, competente, appassionato, libero, sincero. Concita de Gregorio (Repubblica)

So bene che è paradossale, per uno come me, provare rispetto per una persona cresciuta politicamente nel neofascismo. Ma la realtà è che quando Berlusconi entrò a Palazzo Chigi ero molto più avvilito e più spaventato. Michele Serra 

Il discorso di Meloni mi ha sorpreso. Avrebbe potuto fare di quest' aula sorda e grigia un bivacco per i suoi simboli, invece sembrava la presidente del Consiglio scelta dagli elettori.

Giuliano Ferrara (Il Foglio)

Estratto dell'articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 26 ottobre 2022.  

Sono spiazzato. Pensavo di sapere tutto delle cose politiche [...] e invece il discorso di Meloni alla Camera mi ha sorpreso. C’era certo della retorica e una certa vanità personale, forse giustificata dalla circostanza, donna e underdog, […] ma non è stato un discorso demagogico, ha parlato in bianco e nero, senza spreco di colori. Niente di tossico, di trumpiano, per una che si professava ammiratrice di Bannon e di Vox [...].

[…] Ma chi è questa zingara andalusa donna madre cristiana che risultava minacciosa per le minoranze identitarie, intrattabile per le varie sinistre, centro di alleanze dubbie, ora che al governo si dice pronta a ogni sacrificio politico in nome della guerra europea all’autocrate del Cremlino e al ricordo, perfino al ricordo, dei totalitarismi del XX secolo, a partire dal cedimento al razzismo del Terzo Reich?

Il percorso del governo della destra è tutto ancora da decifrare, eppure la sua base programmatica non irrita alcuna corda in un vecchio realista di matrice comunista e vaga conversione liberale, anticomunista, e non eccita nessuna velleità nemmeno in un vecchio adepto del circolo Ratzinger-Ruini, così presente nell’esecutivo però con discrezione, a quanto pare, a quanto indica la presidente del Consiglio.

Questo discorso coi tacchi, invece che con i baffi, per me fa mistero avvolto in un enigma. [...] Una destra che inforca gli occhiali, decisa a studiare, leggere, capire e costruire una sua egemonia non bellicosa, razionale, intelligente? Dei miei recenti amici Ztl mi sono fidato, anche se per pura compassione li ho votati, una volta esaurita (ormai da anni) la forza propulsiva del Cav., ma il presepe di Madonna Giorgia non mi ispirava e non mi ispira. 

Mi sembra tutto troppo facile, affidato come a un gioco di parole, di parafrasi, di facilismi parlamentari. Tuttavia sorpresa e spiazzamento li devo riconoscere. Avrebbe potuto fare di quell’Aula sorda e grigia un bivacco per i suoi simboli, invece sembrava la presidente del Consiglio scelta dagli elettori.

Da libero.it il 26 ottobre 2022.

Anche Paolo Mieli si sofferma sul discorso di Giorgia Meloni alla Camera. In più di un'ora di intervento, la premier ha già terremotato l'opposizione. Per il giornalista, intervenuto ai microfoni di Radio 24, non poteva passare inosservato il caos tra i banchi avversari: "I più grandi oppositori della Meloni sono Salvini e Meloni, però la leader di Fratelli d'Italia ha creato parecchio scompiglio tra il Pd, M5s e Italia Viva". Questi, spiega, "non capivano se applaudire o meno". Stesso discorso vale "sul fronte delle donne di sinistra che hanno scritto oggi sui giornali, stesso panico di ieri in Aula".

Ecco dunque che l'editorialista del Corriere della Sera fa i nomi: "C'è un fronte della resistenza con Lucia Annunziata che dice che è 'una peronista' e un fronte guidato da Concita De Gregorio che dice che è 'una fuoriclasse, bisogna riconoscerlo' e perfino Ilda Bocassini dice 'mi fa tenerezza'". Insomma, la Meloni piace pure alla sinistra. Tanto che "si è aperta una breccia".

Ma Mieli nota anche un altro dettaglio che tira in ballo Giuseppe Conte e il Fatto Quotidiano: "Entrambi sembrano buttare a mare più Mario Draghi che la Meloni e questo mette in imbarazzo il Pd che invece ha fatto della continuità con Draghi il proprio cavallo di battaglia". Poi la tirata di orecchie al presidente del Consiglio: "Non mi è piaciuta la pizzicata a Debora Serracchiani, perché la piddina ha detto una cosa ovvia, ma c'era una sproporzione. Mi è sembrata una battuta facile su una donna".

Estratto dell’articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 26 ottobre 2022.  

Una fuoriclasse. Sgombriamo subito il campo dalle ideologie, dire bè sì però era un discorso di destra fa sorridere, non trovate? Che obiezione è? Vi aspettavate Dolores Ibarruri? Non vi ricordate di chi stiamo parlando, non sapevate che ha cominciato a quindici anni nel Fronte della Gioventù? Lei è di destra. Certo, che ha fatto un discorso di destra.

Impeccabile, tuttavia. Convinto, competente, appassionato, libero, sincero. Avercene, si dice a Roma: avercene a sinistra di presenze di questo calibro da opporre, eventualmente, alle sue ragioni con la forza della ragione. «È nata una leader », mi ha scritto un amico anziano e autorevole, uno non del suo mondo, mentre lei parlava tossendo e bevendo alla Camera. […] 

Piccola inessenziale precisazione personale. Non sono d'accordo coi due terzi delle cose che ha detto, per quel niente che conta, ma l'ho ascoltata con grande attenzione. Per la prima volta da molti anni ho sentito - in un discorso di insediamento - l'eco di una storia personale appassionata e convinta e ho avuto voglia, avrei voglia, di discuterne. Non è questa forse la linfa della democrazia? Avere qualcuno con idee diverse dalle tue a cui opporre altre ragioni? […]

Il problema di Giorgia Meloni, il suo grandissimo problema, sono i suoi compagni di viaggio. Non è lei che spaventa, è il caravanserraglio di vecchie cariatidi che sono salite a bordo della sua scialuppa entusiaste di ritrovare una verginità grazie alla sua giovinezza. Credo che lo sappia bene anche lei, che tuttavia deve fare con chi ha. Anche a sinistra, del resto, il problema della "compagnia" è stato sempre un freno, un alibi, una valida scusa: si voleva fare, non si poté. […] Ecco: i suoi sono, lo dico con rispetto, una galleria di mostri. Non tutti, parecchi.

Lei rivendica di non essere ricattabile, ma molti di loro sì: lo sono e lo sono stati. La usano come scialuppa, come paravento. Sono, in molti, profittatori e portatori di opachi interessi personali. Tuttavia, una cosa c'è da dire: il maestoso potere del tempo è dalla sua parte. È una questione di anni, forse di mesi: la resa dei conti dentro Forza Italia si consumerà a breve, l'elettorato leghista dirà dove si sente più comodo, i vecchi fatalmente spariranno.

Qui interviene l'altro tema: se lei lo sappia o no, di essere "usata". Io credo che lo sappia, e faccia buon viso perché altro non può fare, nell'attesa. Di più, se lei finga: se sia alla fine uguale a loro, solo molto più brava a comunicare - a fare il gioco delle tre carte. Una pericolosa affarista, un'antidemocratica travestita da ragazza di borgata. Rischio, ma non credo. Penso che sia una giovane donna di destra, convinta delle sue ragioni e abituata a fare da sola con la farina che ha. Una grandissima comunicatrice, un'equilibrista, una dissimulatrice: certo. Una che cambia pelle secondo necessità: sicuro.

Una politica, insomma. La sua campagna elettorale è stata la migliore di tutte, difatti ha vinto. Draghi l'ha capito bene. Non è questo che conta? Non è saper comunicare, la politica? Quando Meloni dice «sono pronta a fare quello che va fatto a costo di non essere compresa» parla per la prima volta da secoli di clima e non di meteo: dei prossimi dieci anni e non dei futuri dieci giorni. […]

Dall'odio all'invidia, contrordine compagni. Il discorso di Giorgia Meloni ha deluso, anzi gettato fortissimamente nello sgomento, una parte politica. Francesco Maria Del Vigo il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il discorso di Giorgia Meloni ha deluso, anzi gettato fortissimamente nello sgomento, una parte politica. L'opposizione, ovviamente. Non perché non condividano le volontà programmatiche della leader di Fdi - questo lo diamo per scontato - ma perché è stata troppo brava. Perché - come ha scritto con adamantina onestà intellettuale Concita De Gregorio - la vorrebbero loro una così, a sinistra. L'hanno sempre sognata e se la sognano ancora. Speravano che uscisse da quelle prigioni-incubatrici che sono le quote rosa, ma i leader non nascono in laboratorio. E ora domina lo sbigottimento. La sorpresa. Come se Giorgia Meloni fosse piovuta dal cielo come un acquazzone improvviso e non facesse politica da una ventina di anni. Eppure, prima di diventare la prima donna presidente del Consiglio della storia della Repubblica, ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della Camera e di ministro della Gioventù. Non era esattamente una sconosciuta. Però per la sinistra era comunque una invisibile, come ha detto lei due giorni fa alla Camera, era un underdog. Fino a quando non hanno dovuto fare inevitabilmente i conti con il suo talento politico.

Si aspettavano una barbara in camicia nera, una esaltata che disconosce l'italiano, biascica in romanesco e sciorina un pantheon sgangherato raccattato dalle periferie intellettuali della destra più minoritaria. Si aspettavano, dunque, quello che loro da mesi profetizzavano: l'avvento delle squadracce nere nel centesimo anniversario della marcia su Roma. Si aspettavano, insomma, l'arrivo del loro pregiudizio. E invece si sono trovati davanti una donna di giudizio. Una politica che negli anni ha studiato e ha fatto un discorso da statista: certamente identitario, ma senza essere divisivo. Femminile al punto giusto, rivendicando la storicità della sua nomina e citando le donne che hanno permesso la rottura del tanto citato «tetto di cristallo». Comprese quelle di sinistra. Senza lasciare nessun adito alle stupide e anacronistiche speculazioni storiche sulla provenienza di Fratelli d'Italia. E così, la sinistra, è passata direttamente dall'odio all'invidia. Si prevedono infinite sedute di autoanalisi collettiva sul perché la Meloni è nata a destra e non a sinistra. Si prevede un uso massiccio di Maalox.

Governo Meloni, la Camera ha votato la fiducia all’esecutivo con 235 voti a favore e 154 contrari

Il voto a Palazzo Madama. Governo, al Senato l’esito del voto: la Meloni ottiene la fiducia. L’esecutivo del leader di FdI si presenta a Palazzo Madama dopo la fiducia incassata alla Camera. Attesa la replica della Meloni. Nicolaporro.it il 26 Ottobre 2022.

Il giorno del Senato. Dopo aver incassato la fiducia della Camera dei deputati, Giorgia Meloni si presenta a Palazzo Madama per il secondo giro di dichiarazioni e voto. Stavolta niente discorso programmatico: il premier ha depositato ieri il testo scritto e dalle 13 si parte direttamente con la discussione generale. Se ieri però c’era attesa per il programma del Meloni I, oggi gli occhi sono tutti puntati sui voti. Al Senato infatti la maggioranza ha numeri più risicati rispetto a Montecitorio, considerato anche che dei 24 ministri ben 9 sono senatori e, dunque, difficilmente saranno presenti durante la legislatura per votare in Aula.

Grande attesa per il discorso che ha tenuto Silvio Berlusconi, il primo dopo la “cacciata” dal Senato a causa della Legge Severino. Ieri l’ex premier ha fatto sapere di aver apprezzato il discorso della Meloni, ma all’interno della maggioranza ci sono state delle fibrillazioni sulle caselle dei ministri e restano delle tensioni per i posti da sottosegretario.

Leggi: “Non arretreremo mai”. Il discorso completo della Meloni a Camera e Senato

Qui sotto la diretta video del Senato (in fondo gli aggiornamenti scritti più attuali): 

12.59 Il programma della giornata

La seduta dell’Aula inizierà alle 13 con la discussione generale sul testo del discorso programmatico pronunciato ieri alla Camera. La replica di Meloni è prevista per le 16,30, seguiranno le dichiarazioni di voto e, alle 19 circa, la chiama.

13.00 Inizia la seduta del Senato

13.01 Grande attesa per il discorso di Silvio Berlusconi

13.20 L’intervento di Mario Monti

Il senatore a vita Mario Monti fa un intervento in cui sulla fiducia si asterrà e “valuterò in seguito i provvedimenti”. E probabilmente si tratta di una decisione a sorpresa.

13.30 Sud chiama Nord si astiene sulla fiducia

13.32 Mariastella Gelmini: “Iv-Azione farà opposizione repubblicana”

La Gelmini fa sapere che non sarà una opposizione ideologica o “sul maschile e il femminile”, ma sui contenuti. “Sarebbe sciocco non riconoscere che lei è la prima donna premier: le facciamo le congratulazioni per un risultato storico. Ma non faremo sconti”.

15.00 Prosegue la discussione generale al Senato

16.31 Raffaella Paita (IV-Azione): “Sì alla commissione d’inchiesta sul covid”

“Abbiamo apprezzato le parole di Meloni sull’indicazione della commissione di inchiesta sul Covid: siamo stati i primi a chiederla per chiarire molte opacità sulla gestione della pandemia, dall’acquisto di dispositivi sanitari alla missione dei russi nei nostri ospedali durante il governo Conte. Crediamo inoltre sia giusto vada alle opposizioni “.

16.41 Parla Licia Ronzulli

Dopo le “liti” e il “non voto” verso Ignazio La Russa, al Senato prende la parola Licia Ronzulli. “Ci hanno voluto rappresentare divise, ma lei sa quante cose ci uniscono: abbiamo combattuto e continueremo a combattere le battaglie per affermare i nostri diritti e i nostri ideali. Lei ha chiesto il nostro sostegno e non sarà mai sola verso la rinascita del Paese”.

17.30 Berlusconi: “Votiamo convintamente la fiducia”

17.35 Attesa per la replica della Meloni. Berlusconi è arrivato al Senato

17.42 Meloni: “Povertà in Italia è quello che ereditiamo”

17.45 Ho fatto la scelta di disegnare l’Italia del futuro, poi sceglieremo i provvedimenti

A chi la contestava di non essere entrata nel merito delle questioni, Meloni replica che la sua scelta è stata quella di “disegnare l’Italia del futuro” e solo dopo verranno scelti i provvedimenti per realizzare quel progetto.

17.50 Non si passi da dipendenza dalla Russia a quella dalla Cina

17.53 Meloni: contro il caro energia pronti alla lotta alla speculazione

17.55 Meloni: riprendere estrazione del gas italiano

Per la Meloni l’impatto ambientale sarebbe lo stesso: se quel gas lo estrae qualcun altro, inquina lo stesso. Ma ci costa di più.

17.56 Meloni: “Per le bollette soldi da pieghe bilancio e extraprofitti”

In attesa del price cap o di altri provvedimenti che incidano sul costo dell’energia, Meloni intende “lavorare con molta puntualità a interventi calibrati per le imprese e le famiglie e recuperando risorse dalle pieghe del bilancio, dagli extraprofitti (con una norma che per me è da riscrivere) e dai ricavi dello Stato”.

17.57 Meloni: “Senza price cap Ue, faremo disaccoppiamento”

Meloni fa sapere che in Ue “si ragiona sul price cap dinamico, vedremo i tempi. Incalziamo l’Europa a dare soluzioni comuni e c’è il tema della separazione del gas da altre fonti energetiche. Siamo pronti e se anche l’Europa non darà risposte” allora il governo penserà a un “disaccoppiamento crescente anche sulla base delle determinazioni europee”.

18.00 Meloni: “Scelte sul covid senza evidenze scientifiche”

Meloni torna a rispondere a chi difende il “modello Speranza: “Sono d’accordo con Lorenzin sul riconoscimento del valore della scienza- ha detto- e per questo penso che dobbiamo scambiarla mai con la religione. Infatti, quello che non abbiamo condiviso dei vostri governi è il fatto che non ci fossero evidenze scientifiche alla base dei provvedimenti che prendevate”

18.05 Meloni: no a salario minimo, la soluzione è il taglio al cuneo fiscale

18.10 Meloni replica a Monti: flat tax è merito a chi si rimbocca le maniche

“Ho parlato di regime forfettario e flat tax incrementale, cioè una tassa piatta del 15% su quanto dichiarato in più rispetto all’anno precedente: per chi è in difficoltà e si rimbocca le maniche è un segnale di merito”, lo ha detto Giorgia Meloni rivolgendosi al senatore Mario Monti.

18.12 Meloni: “Flat tax solo per gli ipermilionari?”

Ricordando la misura della tassa piatta a 100mila euro per gli ultramilionari stranieri che vengono a investire in Italia, Meloni si rivolge al Pd e chiede: “La tassa piatta va bene solo per gli ipermilionari e non per le partite Iva?”.

18.14 Meloni “frega” la sinistra sul tetto al contante

Giorgia Meloni mette in campo un “trabocchetto” verso i parlamentari del Pd. Parlando del tetto al prezzo del gas legge alcuni virgolettati, i seguenti: “Voglio dirlo con chiarezza: non c’è correlazione tra intensità del limite del contante e la diffusione dell’economia sommersa. Ci sono Paesi in cui il limite non c’è e l’evasione fiscale è bassissima”. A quel punto Meloni si rivolge verso i parlamentari del Pd e chiede: “Non siete d’accordo?”. Alla risposta negativa del gruppo dem, lei tira fuori il coniglio dal cappello: “Beh, sono parole di Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia del governo Renzi e del governo Gentiloni. Sono parole del ministro Pd. E io sono d’accordo col ministro del Pd Pier Carlo Padoan”.

Inoltre, Meloni ha confermato “che metteremo mano al tetto al contante” che tra l’altro, “penalizza i più poveri”.

18.19 Meloni: “Non ho mai organizzato manifestazioni per vietare a qualcuno di parlare”

Parlando dei fatti della Sapienza, Meloni dice: “Non erano manifestanti pacifici, ma gente che stava facendo un picchetto per impedire a persone pacifiche di parlare”. E ancora: “Se qualcuno della mia parte politica facesse una manifestazioni per impedire a qualcuno di parlare, sarei il primo a condannarlo”.

18.27 No alla capitolazione dell’Ucraina

Meloni è tornata a ribadire che l’Italia non smetterà di inviare armi all’Ucraina perché non cambierebbe l’esito del conflitto (“Londra manda più armi di tutta l’Ue”), ma metterebbe in difficoltà il posizionamento italiano nel contesto internazionale. Inoltre, Meloni ha ricordato che sono più gli scambi economici con l’Occidente che quelli con la Russia.

18.32 Iniziano le dichiarazioni di voto

18.33 Noi Moderati vota a favore della fiducia

19.00 Renzi: “Governo legittimato”

Renzi afferma che il discorso della Meloni è stato “molto politico”. “Oggi voi avete vinto e dovete governare”, dice Renzi. “Lei ha fatto un’apertura importante sulla Riforme Costituzionale. Se vorrete sfidarci davvero sull’elezione diretta del premier, noi ci saremo”. Poi una battuta: “Per esperienza personale non le suggerirei di andare avanti da sola”, in riferimento al referendum fallimentare su cui Renzi aveva scommesso nel 2016.

19.07 Renzi: “Folle fare polemiche sul merito”

19.08 Renzi attacca il Pd su “il” o “la” premier

Renzi fa buona parte del suo intervento “contro” le altre opposizioni, più che contro la Meloni. Al Pd e al M5S chiede come sia possibile fare polemica su “il” o “la” presidente del Consiglio. “Per me può anche farsi chiamare con l’asterisco, anche se non credo, ma possibile che tra tutte le cose che si possono dire alla Meloni dobbiamo attaccarla per il suo essere donna?”.

19.13 La Russa: “Bentornato al presidente Berlusconi”

19.15 Berlusconi annuncia: “Appena nato il mio 17esimo nipotino”

19.18 Berlusconi: “Voteremo convintamente la fiducia”

19.22 Berlusconi: “Noi dalla parte dell’Ucraina”

Berlusconi torna a parlare della situazione internazionale e ricorda di essere sempre stato al fianco della Nato e degli Stati Uniti. Poi ricorda il famoso accordo di Pratica di Mare tra Usa e Russia che “pose fine alla guerra fredda” e che “fu considerato da tutti un miracolo”. “Il mio progetto era quello di recuperare la Russia all’Europa. Questo progettavamo per poter affrontare insieme con un’occidente rafforzato dalla Russia la grande sfida sistemica del 21esimo secolo: quella dell’incombente espansionismo cinese. Purtroppo l’invasione dell’Ucraina ha vanificato il nostro disegno. In questa situazione noi non possiamo che essere nell’occidente a difesa di un Paese libero e democratico come l’Ucraina. Dobbiamo lavorare per la pace nel rispetto della volontà del popolo ucraino. La nostra posizione è ferma e convinta. E non può essere messa in dubbio da nessuno”.

19.25 Berlusconi alla Meloni: “Saremo al suo fianco”

19.26 Berlusconi a Meloni: “Auguri per i prossimi 5 anni di lavoro”

Il discorso di Silvio Berlusconi si chiude con l’applauso di quasi tutta l’aula, compresa Giorgia Meloni che si è alzata in piedi.

19.28 Il Movimento Cinque Stelle vota no alla fiducia

19.37 Per la Lega parla il capogruppo Salvatore Romeo

19.46 Romeo: “Discontinuità con Speranza”

La Lega chiede di fermare le cartelle esattoriali con le multe per chi non si è vaccinato, parlando di “pacificazione nazionale”. Inoltre domanda di fermare “i tamponi a tappeto che mandano in tilt gli ospedali”. E di cambiare approccio rispetto a Speranza.

19.49 Romeo: “Pace in Ucraina? Deve decidere la comunità internazionale”

Sulla diplomazia, la Lega richiama la Meloni a non aspettare solo le decisioni dell’Ucraina ma a guardare anche all’interesse internazionale.

19.50 Per il Pd parla Simona Malpezzi

20.14 Malpezzi: “Alzare il tetto al contante favorisce l’evasione”

20.53 Meloni ottiene la fiducia con 115 voti a favore, 79 contrari e 5 astenuti

Fabrizio Roncone per corriere.it il 27 Ottobre 2022.  

Pedinamenti.

Il parquet scricchiola sotto i passi incerti del Cavaliere, la mano destra stretta al braccio di un gigante della scorta, l’altra che sfiora il velluto rosso delle pareti con i putti dorati, i candelabri tutti accesi, nel corridoio che conduce all’aula di Palazzo Madama. 

La senatrice Licia Ronzulli gli cammina dietro. E sussurra: «Andrà bene». Lui, senza voltarsi: «Siamo sicuri?». Lei, quasi una carezza sulla nuca: «Devono capire che Berlusconi è sempre e ancora Berlusconi». 

Adesso, mentre loro entrano nell’emiciclo, sentite: pochi minuti fa, la Ronzulli ha già preso la parola durante il dibattito.

Non è una grande oratrice, ha la vocina sottile, ma tra gli scranni è calata una cappa. Tutti sappiamo che per lei, accettare l’incarico di capogruppo del plotoncino di Forza Italia, è stato un mortificante ripiego; per la sua adorata Licia, Silvio Berlusconi aveva chiesto con ostinazione il ministero della Sanità, in alternativa quello dell’Istruzione, e poi, alla fine, sarebbe andato bene persino il Turismo; però la Meloni, a ogni proposta, replicava: «E-sclu-so».

Così la Ronzulli inizia il suo intervento e la Meloni non se la fila completamente. Distratta. Mette in ordine alcuni fogli. Sussurra qualcosa ad Antonio Tajani, ministro degli Esteri, vicepremier e coordinatore nazionale di FI: attualmente considerato a capo dell’ala «governista», e infatti l’altro giorno Giorgio Mulé gli ha detto chiaramente che è arrivato il momento di sloggiare, di mollare la guida del partito; Mulé è amico della Ronzulli, entrambi sono fedelissimi di Berlusconi, e insomma avrete capito perché Tajani ha quello sguardo un po’ abbacchiato, le guance appese, e ai cronisti ripete una bugia travestita da mantra: «Come va? Bene, direi proprio bene». 

Comunque: la Ronzulli parla e la Meloni non se la fila (probabile che qualcuno le abbia spifferato il soprannome con cui la chiamavano durante le riunioni a Villa Grande). Poi la Ronzulli — sobrio abito a quadretti, le spalline gonfie in stile Fascina, la quasi moglie di Berlusconi — dice rivolta alla premier: «Ci hanno volute rappresentare divise e diverse, ma noi sappiamo quante cose ci accomunano...». La Meloni alza prima un sopracciglio, poi fa musetto: un incrocio tra una smorfia di ironia e una di incredulità (prevale l’incredulità). La Ronzulli vuol ricucire? O, piuttosto, è un messaggio cifrato: ti ho già fatto mancare i voti quando avete eletto Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, posso farteli mancare quando voglio. La Meloni va di mestiere: e allarga una specie di sorriso (ma proprio una specie).

Intanto, in attesa di Berlusconi: Matteo Renzi tiene banco alla buvette (per la cronaca: il suo intervento sarà quasi tutto contro il Pd: «La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice»; intenso anche Francesco Boccia; suggestive, in successione, le parole dell’ex pm del processo a carico di Giulio Andreotti, il grillino Roberto Scarpinato, e subito dopo quelle della leghista Giulia Bongiorno, che fu l’avvocato dell’ex presidente del Consiglio indagato per mafia).

Carlo Calenda — zainetto tremendamente radical chic — ha detto due cose nel salone Garibaldi e poi è sparito. Passa la grillina Paola Taverna, ormai fuori dal Parlamento, senza più una delle sue Louis Vuitton (tipo Ilary Blasi). Molti neo senatori, senza esperienza, vanno al buffet della buvette: e divorano tristissimi piatti freddi che ormai nemmeno più in certi film coreani. Gennaro Sangiuliano, neo ministro della Cultura, avanza tutto impettito su un cuscinetto di purissimo godimento. 

Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei, rientra nell’emiciclo stringendo mani come facevano i vecchi democristiani di un tempo (cioè, con educazione, a chiunque: dall’ultimo lobbista al portaborse che gli sussurra: «Se fosse possibile quel posticino nella sua segreteria...»).

Però ora Berlusconi si è seduto. 

Salvini accorre a rendergli omaggio (il Capitano, anche oggi, ha comunque già puntualmente regalato qualche spina alla Meloni: prima facendosi fotografare con Letizia Moratti, poi tornando su flat tax e tregua fiscale). Ecco pure Tajani che china il capo davanti al Cavaliere. E poi, in processione, Santanchè, Monti, Piantedosi. Ignazio La Russa, dalla poltrona più alta, un filo irrituale: «Bentornato presidente!». 

Lui, Berlusconi, gongola. Lo stanno trattando ancora come piace a lui: da sultano. Lima gli appunti, aggiusta un discorso messo a punto nella residenza sull’Appia Antica insieme ai soliti saggi consiglieri. Torna a parlare qui dopo 9 anni, dopo l’umiliazione della decadenza. Non deve sbagliare nemmeno un verbo. «Sì alla fiducia, saremo leali». E ancora: «Sono sempre stato un uomo di pace, dalla parte dell’Occidente». Attenua certe ambiguità sul suo amico Putin e sulla guerra, rivendica meriti.

Applausi, grida di evviva. Molti ministri in piedi come in uno stadio (Giorgetti, opportunamente, resta seduto). 

Tutto bene? 

Aspettate. Il Cavaliere pretende almeno 9 sottosegretari per FI. Un sottogoverno dei trombati. Trattative serrate, feroci, minacciose (per chiarimenti, chiedere a Licia: auguri). 

Marianna Aprile per “Oggi” il 27 Ottobre 2022.

Durante l’inarrestabile ascesa di Giorgia Meloni verso Palazzo Chigi, ci si è chiesti come avrebbe fatto ad arrivarci avendo per alleati due leader maschi avvezzi al comando e restii (eufemismo) a riconoscerle la leadership della coalizione. E invece lo scoglio principale della sua corsa è stata una donna, Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia, la persona più vicina a Silvio Berlusconi. 

E rischia di esserlo ancora. Un ministero “di peso” per lei è stata per giorni la principale richiesta del Cavaliere a una Meloni che si preparava a giurare. Un’impuntatura per ammorbidire la quale la premier ha dovuto ricorrere alla – inedita - mediazione di Marina e Pier Silvio Berlusconi. Alla fine, Ronzulli il ministero non l’ha avuto, è stata eletta Capogruppo di Forza Italia al Senato, e l’esecutivo Meloni è partito. Ma la vicenda lascia sul tavolo due domande: perché Meloni non ha voluto Ronzulli nel suo governo? E cosa invece rendeva così irrinunciabile per Berlusconi quella presenza? La risposta a entrambi i quesiti non può che partire da lei, Licia Ronzulli.

In comune con Meloni, Ronzulli ha molto. Come lei ha iniziato dal basso e lontana da centro storico e salotti. Se la premier è cresciuta in una famiglia poco abbiente nel quartiere (allora) popolare della Garbatella, a Roma, Ronzulli, figlia di maresciallo dei Carabinieri e di impiegata delle Poste, lo ha fatto a Baggio, periferia di Milano. Hanno entrambe iniziato presto a cavarsela da sole. 

Ronzulli ha iniziato a lavorare a 17 anni, si è diplomata con scuole serali, è diventata infermiera professionale, ha preso una laurea in psicologia e un master in economia sanitaria che l’ha portata a lavorare nelle risorse umane dell’Ospedale Galeazzi di Milano (Gruppo San Donato). Ha raccontato di aver conosciuto Berlusconi al decennale di Forza Italia, nel 2004, con l’allora fidanzato, Renato Cerioli, amministratore delegato del gruppo ospedaliero San Donato e di Confindustria Monza e Brianza.

Sostiene Ronzulli che con Renato avvicinarono il Cavaliere per “estorcergli” una donazione per una Onlus con cui collaborava. In altre occasioni, però, fa risalire l’incontro al 2003. Alcune cronache lo associano a un periodo di convalescenza di Silvio in cui Ronzulli sarebbe stata impegnata come infermiera. Comunque sia andata, Licia entra presto nelle simpatie del fondatore di Forza Italia (che lei chiama «capo» o «Dottore») e che nel 2008 le fa da testimone di nozze e la candida alle Politiche: sarà la prima dei non eletti nelle Marche. 

Finisce quindi in lista per le Europee del 2009, accanto alle “veline eurodeputate” che Veronica Lario, andandosene, definì «ciarpame senza pudore». Ronzulli ha sempre rispedito al mittente le allusioni («Poteva informarsi meglio prima di parlare») e le accuse. Come quella di Barbara Montereale, “Papi girl” coinvolta nel processo a Giampy Tarantini per le feste ad Arcore, che – interrogata – disse che Ronzulli curava la logistica delle trasferte delle giovani ospiti del Cavaliere. «Davo una mano se non c’era la segretaria », replicherà lei. Nel frattempo, sta al Parlamento Europeo, mette al mondo Vittoria, divorzia da Renato. Ma è tra la fine del 2013 e il 2014 che inizia la corsa che la porta a diventare la «plenipotenziaria con diritto d’agenda e telefono» che è oggi ( parole di un suo collega di partito).

Da eurodeputata, Ronzulli tesse relazioni che saranno molto utili quando nel 2014, non rieletta, tornerà in pianta stabile a Milano. E adArcore. Una di quelle relazioni porterà l’imprenditore thailandese Bee a trattare la vendita del Milan con Berlusconi (e Ronzulli). Un’altra relazione, quella con Matteo Salvini, sarà preziosa per avvicinare la Lega a Forza Italia dopo un periodo di grande freddo. Nel primo caso, l’intercessione di Licia toglie al Cavaliere qualche castagna dal fuoco; nel secondo, ne ha aggiunte e rischia di farlo ancora.

Ronzulli si fa spazio ad Arcore con dedizione, pazienza e, all’inizio, con discrezione. Gode della simpatia e del sostegno di Marina e anche di Barbara Berlusconi. Quando il “cerchio magico” formato da Maria Rosaria Rossi (anche lei senatrice) e Francesca Pascale (ex compagna del Cavaliere) entra in crisi, lei è lì, fa asse con il compianto avvocato Niccolò Ghedini e insieme gestiscono agenda e impegni del Dottore. 

Poco dopo arriva anche Marta Fascina, anche se la sua apparizione “improvvisa” nelle liste elettorali di Forza Italia avverrà solo nel 2018 e nelle cronache sulla vita privata del Cav solo nel 2020. Tra Ronzulli e Fascina si crea in quegli anni un rapporto solido e complice che oggi è plasticamente rappresentato dalla presenza costante di entrambe accanto a Silvio, Marta in privato, Licia in pubblico. Accudimento a tenaglia. Alla cerimonia per il finto matrimonio tra Berlusconi e Fascina, a marzo scorso, è la figlia di Licia, Vittoria, a portare le fedi che i due non-sposi oggi indossano. Tutti d’amore e d’accordo, ad Arcore. In Forza Italia un po’ meno.

La “LineaRonzulli” non piace. I parlamentari la accusano di filtrare in modo interessato i contatti che Berlusconi ha con loro e di tramare per spostare il partito su posizioni vicine alla Lega del suo amico Salvini. Nel corso della legislatura appena finita, proprio su questo si sono create profonde spaccature in Forza Italia che hanno portato, in coda di Governo Draghi, a uscite pesanti: Elio Vito, Renato Brunetta, Maria Stella Gelmini, Mara Carfagna. 

Da quelle parti c’è chi descrive Ronzulli come un muro tra Silvio e una parte del suo partito, quella più moderata, europeista e meno “salviniana”. Quella del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, insomma. Lui sì scelto da Meloni per il governo (suo figlio Filippo sedeva accanto al compagno della premier Andrea Giambruno, al giuramento). Tajani è stato fin qui coordinatore nazionale di Forza Italia, ora – dicono – Berlusconi vorrebbe passare l’incarico a Ronzulli. Che diventerebbe l’altra “donna forte” del Governo.

C’è una sliding door che le coinvolge Ronzulli e Meloni e si colloca in una manciata di mesi a cavallo tra il 2013 e il 2014 dopo che Giorgia Meloni, lasciato il Pdl e rotto con Silvio Berlusconi, aveva fondato Fratelli d’Italia. Nello stesso periodo Licia Ronzulli tesse la sua rete di relazioni che spenderà per scalare posizioni alla “corte” di Arcore e in Forza Italia. La prima lascia un partito al maschile per fondarne uno suo, la seconda ci resta, cercando di avere la meglio non solo sugli uomini ma anche sulle donne che ruotano attorno al potere di Berlusconi.

Le due si ritrovano insieme in maggioranza, ma su sponde opposte e in una tregua armata in cui ciascuna ha fatto qualcosa che l’altra ritiene imperdonabile. La prima deve governare, la seconda guida i senatori su cui può reggersi o cadere la maggioranza. Pop corn.

Berlusconi al Senato dopo 9 anni: “Sono un uomo di pace e ho sempre lavorato in accordo con Ue, Nato e Usa”. Eugenio Battisti su Il Secolo d'Italia il 26 Ottobre 2022.

“Ho tante cose da dire e sono felice di essere qui”. Sono le prime parole dell’attesissimo intervento di Silvio Berlusconi, ritornato a Palazzo Madama dopo 9 anni. Prima di entrare nel vivo della sua ‘arringa’ il Cavaliere strappa il primo applauso dando la notizia della nascita del 17esimo nipotino. “Se oggi per la prima volta alla guida del paese c’è un esponente della destra italiana è possibile perché 28 anni fa è una nata una formazione plurale con destra e centro insieme. Che non si è mai divisa. Che ha saputo governare e stare insieme all’opposizione”, ha detto Berlusconi rivendicando la primogenitura di un percorso che viene da lontano all’insegna della stella polare della libertà.

Berlusconi: “In 28 anni abbiamo scritto pagine straordinarie”

È lui che ha dato vita 28 anni fa al centrodestra e oggi si presenta nei panni del padre nobile. “Abbiamo scritto pagine straordinarie”, ha ripetuto con malcelato orgoglio. “Senza ripercorrere i nostri successi. Voglio solo dire che non abbiamo mai approvato una legge che limitasse gli spazi di libertà dei cittadini”, ha detto rivolgendosi a una Giorgia Meloni particolarmente attenta e concentrata. E che al termine dell’intervento si è alzata in piedi partecipando alla standing ovation tributata al Cavaliere.  “Voteremo convintamente la fiducia a questo governo”, ha ripetuto due volte. “E  da domani  lavoreremo con spirito costruttivo”, ha aggiunto garantendo al presidente del Consiglio l’appoggio totale di Forza Italia.

“Serve una riforma garantista della giustizia”

Un intervento a tutto tondo, dall’economia alla politica estera, dal fisco alla guerra russo-ucraino quello di Berlusconi, che ha apprezzato le parole “definitive e condivisibili” di Giorgia Meloni su diritti, pace fiscale e abbassamento dei costi dell’energia per imprese e famiglie. Come era prevedibile, si è soffermato lungamente sulla riforma della giustizia. “È  una priorità irrinunciabile, per una questione non solo di durata ragionevole dei processi. Serve una riforma davvero garantista, non contro la magistratura, ma per il diritto, per l’equità, per la libertà”.

“Sono un uomo di pace, confermo la solidarietà all’Occidente”

Parole nette e inequivocabili sul posizionamento internazionale a smentire la narrazione di un Cavaliere timido nei confronti dell’appoggio a Kiev. ”Noi non possiamo che confermare la nostra solidarietà all’Occidente, io, lo sapete, sono sempre stato un uomo di pace”, ha detto dopo aver ricordato il miracolo di Pratica di Mare, annullato con l’invasione di Mosca dell’Ucraina. “Di fronte all’attuale situazione non possiamo che ribadire e consolidare le linee portanti della nostra politica estera. E cioè la solidarietà con l’Occidente. Quella solidarietà che ha sempre caratterizzato i nostri governi. E che deve essere patrimonio comune della nazione. Soprattutto di fronte alle minacce internazionali vecchie e nuove. Io sono sempre stato un uomo di pace e i miei governi hanno sempre operato per la pace. E sempre in pieno accordo con i responsabili di governo dell’Europa, della Nato e degli Stati Uniti. Come ho avuto modo di ricordare solennemente davanti al Congresso americano”.

“Affettuosi auguri al governo per i prossimi 5 anni”

E ancora un passaggio sulle politiche sociali e sui diritti. “Nelle nostre decisioni dobbiamo poi mettere al centro di tutto la persona. Portatrice per sua natura di diritti che non sono concessi dallo Stato. Ma che lo Stato ha il dovere di garantire e di tutelare. Siamo quindi per la tutela della vita, dal concepimento alla morte naturale, siamo per il sostegno alla natalità, siamo per la difesa e la valorizzazione della famiglia e della sua funzione sociale irrinunciabile. Sono tutti temi sui quali il nostro governo, ne sono certo, saprà intervenire con coraggio, e con senso di responsabilità”. Poi la conclusione: “Al presidente del Consiglio e al governo, i miei, i nostri migliori più convinti a affettuosi auguri per tutti i prossimi cinque anni di lavoro”. Ed è standing ovation.  I primi ad applaudire i senatori azzurri, che si levano tutti in piedi. Poi i ministri, a partire da Salvini e Tajani. Anche il primo presidente del Consiglio donna della storia repubblicana è in piedi ad applaudire l’ex premier.

Il ritorno di Berlusconi dopo nove anni, Ronzulli lo scorta: «Silvio, andrà tutto bene». Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

L’ex premier si presenta con il discorso (che lima). La senatrice gli cammina di fianco in Senato. Intanto tratta per le cariche del «sottogoverno»

Pedinamenti.

Il parquet scricchiola sotto i passi incerti del Cavaliere, la mano destra stretta al braccio di un gigante della scorta, l’altra che sfiora il velluto rosso delle pareti con i putti dorati, i candelabri tutti accesi, nel corridoio che conduce all’aula di Palazzo Madama.

La senatrice Licia Ronzulli gli cammina dietro. E sussurra: «Andrà bene». Lui, senza voltarsi: «Siamo sicuri?». Lei, quasi una carezza sulla nuca: «Devono capire che Berlusconi è sempre e ancora Berlusconi».

Adesso, mentre loro entrano nell’emiciclo, sentite: pochi minuti fa, la Ronzulli ha già preso la parola durante il dibattito.

Non è una grande oratrice, ha la vocina sottile, ma tra gli scranni è calata una cappa. Tutti sappiamo che per lei, accettare l’incarico di capogruppo del plotoncino di Forza Italia, è stato un mortificante ripiego; per la sua adorata Licia, Silvio Berlusconi aveva chiesto con ostinazione il ministero della Sanità, in alternativa quello dell’Istruzione, e poi, alla fine, sarebbe andato bene persino il Turismo; però la Meloni, a ogni proposta, replicava: «E-sclu-so».

Così la Ronzulli inizia il suo intervento e la Meloni non se la fila completamente. Distratta. Mette in ordine alcuni fogli. Sussurra qualcosa ad Antonio Tajani, ministro degli Esteri, vicepremier e coordinatore nazionale di FI: attualmente considerato a capo dell’ala «governista», e infatti l’altro giorno Giorgio Mulé gli ha detto chiaramente che è arrivato il momento di sloggiare, di mollare la guida del partito; Mulé è amico della Ronzulli, entrambi sono fedelissimi di Berlusconi, e insomma avrete capito perché Tajani ha quello sguardo un po’ abbacchiato, le guance appese, e ai cronisti ripete una bugia travestita da mantra: «Come va? Bene, direi proprio bene».

Comunque: la Ronzulli parla e la Meloni non se la fila (probabile che qualcuno le abbia spifferato il soprannome con cui la chiamavano durante le riunioni a Villa Grande). Poi la Ronzulli — sobrio abito a quadretti, le spalline gonfie in stile Fascina, la quasi moglie di Berlusconi — dice rivolta alla premier: «Ci hanno volute rappresentare divise e diverse, ma noi sappiamo quante cose ci accomunano...». La Meloni alza prima un sopracciglio, poi fa musetto: un incrocio tra una smorfia di ironia e una di incredulità (prevale l’incredulità). La Ronzulli vuol ricucire? O, piuttosto, è un messaggio cifrato: ti ho già fatto mancare i voti quando avete eletto Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, posso farteli mancare quando voglio. La Meloni va di mestiere: e allarga una specie di sorriso (ma proprio una specie).

Intanto, in attesa di Berlusconi: Matteo Renzi tiene banco alla buvette (per la cronaca: il suo intervento sarà quasi tutto contro il Pd: «La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice»; intenso anche Francesco Boccia; suggestive, in successione, le parole dell’ex pm del processo a carico di Giulio Andreotti, il grillino Roberto Scarpinato, e subito dopo quelle della leghista Giulia Bongiorno, che fu l’avvocato dell’ex presidente del Consiglio indagato per mafia). Carlo Calenda — zainetto tremendamente radical chic — ha detto due cose nel salone Garibaldi e poi è sparito. Passa la grillina Paola Taverna, ormai fuori dal Parlamento, senza più una delle sue Louis Vuitton (tipo Ilary Blasi). Molti neo senatori, senza esperienza, vanno al buffet della buvette: e divorano tristissimi piatti freddi che ormai nemmeno più in certi film coreani. Gennaro Sangiuliano, neo ministro della Cultura, avanza tutto impettito su un cuscinetto di purissimo godimento. Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei, rientra nell’emiciclo stringendo mani come facevano i vecchi democristiani di un tempo (cioè, con educazione, a chiunque: dall’ultimo lobbista al portaborse che gli sussurra: «Se fosse possibile quel posticino nella sua segreteria...»).

Però ora Berlusconi si è seduto.

Salvini accorre a rendergli omaggio (il Capitano, anche oggi, ha comunque già puntualmente regalato qualche spina alla Meloni: prima facendosi fotografare con Letizia Moratti, poi tornando su flat tax e tregua fiscale). Ecco pure Tajani che china il capo davanti al Cavaliere. E poi, in processione, Santanchè, Monti, Piantedosi. Ignazio La Russa, dalla poltrona più alta, un filo irrituale: «Bentornato presidente!». Lui, Berlusconi, gongola. Lo stanno trattando ancora come piace a lui: da sultano. Lima gli appunti, aggiusta un discorso messo a punto nella residenza sull’Appia Antica insieme ai soliti saggi consiglieri. Torna a parlare qui dopo 9 anni, dopo l’umiliazione della decadenza. Non deve sbagliare nemmeno un verbo. «Sì alla fiducia, saremo leali». E ancora: «Sono sempre stato un uomo di pace, dalla parte dell’Occidente». Attenua certe ambiguità sul suo amico Putin e sulla guerra, rivendica meriti.

Applausi, grida di evviva. Molti ministri in piedi come in uno stadio (Giorgetti, opportunamente, resta seduto).

Tutto bene?

Aspettate. Il Cavaliere pretende almeno 9 sottosegretari per FI. Un sottogoverno dei trombati. Trattative serrate, feroci, minacciose (per chiarimenti, chiedere a Licia: auguri).

Berlusconi al Senato per le dichiarazioni di voto: dalla nascita del nipotino alla fondazione del centrodestra. Ilaria Minucci il 26/10/2022 su Notizie.it.

Quali sono stati i punti salienti del discorso di Berlusconi al Senato durante le dichiarazioni di voto che hanno preceduto la fiducia al Governo?

Berlusconi al Senato: la fiducia a Giorgia Meloni

In occasione del suo lungo intervento al Senato durante le dichiarazioni di voto che hanno preceduto la fiducia al Governo Meloni, Silvio Berlusconi ha annunciato la nascita del suo 17esimo nipotino e ha rivendicato la paternità del centrodestra.

Berlusconi al Senato per le dichiarazioni di voto: dalla nascita del nipotino…

Silvio Berlusconi è tornato in Senato a distanza di nove anni dall’addio avvenuto per effetto della legge Severino. Nel prendere la parola durante le dichiarazioni di voto a Palazzo Madama che hanno preceduto il voto di fiducia al Governo Meloni, il Cav ha esordito affermando: “Signor Presidente del Consiglio sono felice di intervenire in Senato dopo nove anni, soprattutto per la fiducia a un governo di centrodestra”.

Subito dopo, il leader di Forza Italia ha aggiunto: “E sono felice anche perché tre ore fa è nato il mio 17esimo nipotino.

Evviva”.

Nella giornata di mercoledì 26 ottobre, infatti, il secondogenito del Cavaliere, Luigi Berlusconi, ha avuto dalla moglie Federica Fumagalli, che opera nel mondo della comunicazione e della moda, il piccolo Tommaso Fabio.

Per la coppia, si tratta del secondo figlio dopo l’arrivo di Emanuele Silvio, nato il 28 luglio 2021.

…alla fondazione del centrodestra

Focalizzandosi sul Governo, poi, Berlusconi ha dichiarato: “Per me un motivo di grande soddisfazione riprendere la parola in Senato, dopo nove anni, e farlo proprio quando il popolo italiano ha scelto ancora una volta di affidare il governo del Paese alla coalizione di centrodestra. Coalizione a cui ho dato vita 28 anni fa”.

Nel corso del suo intervento, il presidente di FI ha più volte rivendicato la paternità e il suo ruolo cruciane nella formazione del centrodestra. “Se oggi è per la prima volta al governo del Paese, è stato possibile perché 28 anni fa è nata una coalizione plurale”, ha detto rivolgendosi a Giorgia Meloni. “È nata una coalizione che non si è mai divisa, che ha saputo stare insieme anche all’opposizione. Una coalizione che è stata sempre artefice di grandi scelte di democrazia e libertà”.

Proprio la parola “libertà” è stata una delle più usate dal Cavaliere che, alludendo velatamente a tutti i “successi” ottenuti negli anni, ha annunciato che il suo partito avrebbe votato compatto la fiducia alla Meloni. “Non è questo il momento per ricordare tutti i successi ottenuti dai governi di centrodestra. Ma una cosa voglio rivendicare con orgoglio: i nostri governi hanno sempre avuto come stella polare del loro agire la libertà. Non abbiamo mai approvato una norma che potesse ridurre gli spazi di libertà dei cittadini. Mai compiuto una scelta di politica internazionale che non fosse dalla parte dell’Occidente, della libertà. Oggi voteremo convintamente la fiducia”, ha ribadito.

Le sfide del Governo e il posizionamento di Forza Italia rispetto alla guerra in Ucraina

A Palazzo Madama, il senatore ha poi elencato tutte le sfide che il centrodestra dovrà affrontare per guidare il Paese, cintando “la lentezza della burocrazia, l’inefficienza del sistema giudiziario, l’insostenibilità del carico fiscale su famiglie e imprese”. E ha aggiunto: “Tra le priorità, la riforma della tassazione, per un fisco più equo e più leggero. Anche la riforma della giustizia è una priorità irrinunciabile. Non solo per la durata dei processi: bisogna fissare le udienze al massimo dopo due settimane. Dobbiamo farlo per una questione di civiltà e di libertà. Una riforma davvero garantista. Al centro di tutto, poi, dobbiamo mettere la persona. Siamo per la tutela della vita, dal concepimento alla morte naturale, del sostegno alla natalità, della difesa della famiglia la cui funzione sociale è irrinunciabile”.

Ha voluto anche chiarire ancora una volta il posizionamento del suo partito sul conflitto russo-ucraino, rivolgendosi – come quasi per tutta la durata del suo discorso – ai colleghi senatori presenti in Aula. “Onorevoli senatori, il nuovo governo si insedia in un momento particolarmente difficile. Il momento più pericoloso dalla fine della Guerra Fredda. Non possiamo che ribadire le linee portanti della nostra politica estera, e cioè la solidarietà dell’Occidente, soprattutto di fronte alle minacce internazionali vecchie e nuove. Io sono sempre stato un uomo di pace e sempre in pieno accordo con i responsabili dei governi dell’Europa, della Nato, degli Stati Uniti. Il mio progetto, condiviso da molti, era quello di recuperare la Russia all’Europa – ha detto citando l’accordo di Pratica di Mare del 2002 –. Questo progettavamo per poter affrontare come Occidente la grave crisi dell’espansionismo cinese. Purtroppo l’invasione dell’Ucraina ha vanificato questo disegno. In questa situazione non possiamo che essere con l’Occidente. Dobbiamo lavorare per la pace, e lo faremo con i partner occidentali e nel rispetto della libertà del popolo ucraino”.

Berlusconi al Senato: la fiducia a Giorgia Meloni

Infine, Berlusconi si è rivolto a Giorgia Meloni e ha garantito l’appoggio del suo partito al Governo, auspicando che raggiunga la fine della legislatura. “Signora presidente del Consiglio. Forza Italia lavorerà al suo fianco con lealtà. Da europeisti, atlantisti, garantisti. Nel 1994, in questa stessa Aula, chiedendo la fiducia, conclusi il mio intervento parlando della possibilità di sognare un futuro migliore per questo Paese. Parlai di un’Italia più moderna ed efficiente. Un’Italia più prospera e serena, più ordinata e sicura. Queste le mie parole di allora, queste le mie parole di oggi. Auguri per i prossimi cinque anni di lavoro”.

A margine dell’intervento, l’Aula e quasi tutti i ministri dell’esecutivo si sono alzati in piedi per applaudire il Cavaliere.

Forza Italia, il partito monarchico-anarchico regno ballerino di Berlusconi. Debolezze e fibrillazioni del movimento che da sempre si identifica nel suo leader. Ecco cosa dice il suo amico Caligiuri. Paola Sacchi su Il Dubbio il 27 ottobre 2022.

«Berlusconi è un grande e si è mai visto nella storia un grande lasciare un erede? Tensioni interne? Certo che ci sono, lui ha 86 anni, ma convincetevi che anche ora Forza Italia è lui, era e resta lui. Quell’insperato 8,4 per cento ottenuto, seppur tallonato da Fratelli d’Italia, prima dalla Lega (il sorpasso del 2018 è stato pareggiato, ndr), poi da Renzi e Calenda, è tutto suo, con una campagna elettorale pazzesca TV e social». Ma Giovanbattista Caligiuri, detto Gegè, già presidente della Calabria, senatore, sottosegretario, soprattutto uno dei 27 uomini azzurri di Publitalia, che con Marcello Dell’Utri amministratore delegato, Massimo Palmizio, Gianfranco Miccichè, Enzo Ghigo, per citarne i più noti, furono l’embrione di Forza Italia, ovvero la base dell’iniziale e vituperato partito- azienda, non è un acritico fan adorante.

Amico personale del “dottore”, imprenditore-politico, non nasconde che abbia commesso pure errori. «Lui dice sempre quello che pensa, a volte anche troppo, ma qualsiasi cosa dica e faccia è sempre show. È unico», spiega Caligiuri, osservatore prezioso anche perché da tempo fuori dalla politica attiva. E sempre al di sopra delle diatribe interne che, come dicono altri esegeti delle cose di Arcore, ci sono sempre state, ma ora si sono accentuate nel «partito monarchico- anarchico».

Il movimento-partito «di quelli che fanno come c… gli pare», disse una volta l’avvocato senatore Niccolò Ghedini con ironia su un disguido in una votazione, per stigmatizzare l’errore ma al tempo stesso anche, con ironico affetto, quello specifico tratto liberale, persino troppo, anche nella stessa vita interna di FI. Così diversa dalla struttura più rigida di FdI o dallo schema organizzativo interno “leninista” della Lega. Forza e debolezza al tempo stesso di FI. Partito che il “dottore” ha plasmato con «il sole in tasca» (imperativo per i suoi top manager) delle idee liberali, anti- pressione fiscale, garantiste, europeiste e atlantiche. Proprio su questo giornale abbiamo ricordato la “rottura” che il Cav fece nel ’ 94 al suo primo mandato da premier recandosi al Cimitero militare Usa di Nettuno, rottura rispetto a una narrazione di sinistra tutta incentrata soprattutto sulla Resistenza, mettendo in ombra il decisivo sacrificio angloamericano.

Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, già sottosegretario alla Difesa, un significativo curriculum da direttore di testate Mediaset e Gruppo Mondadori, di casa a Arcore, molto vicino al Cav e alla top manager Marina Berlusconi, ha ribadito il valore aggiunto euro- atlantico di FI. Dopo l’uscita delle frasi rubate dagli audio «decontestualizzate e strumentalizzate» pro- Putin di Berlusconi che ha condannato l’aggressione all’Ucraina e schierato sempre FI con tutto il centrodestra a favore dei provvedimenti di sostegno all’Ucraina, ma rivendicando il grande risultato di Pratica di Mare nel tentativo di portare Putin in Occidente, nella Nato.

Mulè ha anche pungolato il vicepresidente e coordinatore azzurro Antonio Tajani, mai però chiedendone dimissioni, auspicando che non si sobbarchi come altri, dopo essere diventato ministro degli Esteri, «della fatica» di accumulare troppi incarichi. Questo, ha precisato, non per ostilità ma «per il rilancio di FI». Mulè nella geografia azzurra viene classificato tra i “falchi”, l’area che insieme con il nuovo capogruppo alla Camera, il quarantenne Alessandro Cattaneo, fa riferimento all’altra quarantenne, personaggio di punta nel nuovo firmamento azzurro Licia Ronzulli, capogruppo al Senato, stretta emanazione del Cav. Ronzulli “capa” dello staff di Arcore, è stata demonizzata, dopo il veto di FdI su di lei al governo, anche dai malpancisti non ricandidati da FI, pure con accuse dai tratti di misoginia che nei confronti delle donne di potere in particolare non mancano mai.

Ma i “falchi” non sono solo nomi, rappresentano soprattutto una linea nettamente antitetica alla sinistra, ovvero l’anima profonda liberale e marcatamente anti- comunista del Cav. Ma questa la impersonifica anche Tajani, che è cofondatore di FI con Antonio Martino, Dell’Utri, Giuliano Urbani. Tajani però è anche l’uomo della diplomazia Ue e dal curriculum tutto europeo. Ex presidente del Pe, ex commissario Ue, è tuttora vicepresidente del Ppe. Descritto sempre come un vero soldato leale di Silvio, più diplomatico che front- man, è entrato nel mirino delle critiche interne con l’accusa di essere a capo dell’ala dei cosiddetti governisti, sospettati di aver bypassato il Cav con Meloni, e per le nomine di personaggi a lui vicinissimi, come l’ex capogruppo Paolo Barelli. Accuse che il ministro degli Esteri e vicepremier ha seccamente respinto.

La partita dei sottosegretari è ora importante per allentare le tensioni azzurre che potrebbero anche provocare fuoriuscite verso il nuovo gruppo cuscinetto dei Moderati di Maurizio Lupi con cui FdI potrebbe tutelare il governo al Senato, in particolare. Resta comunque il punto di fondo del futuro azzurro. Ma c’è chi sostiene che Berlusconi ormai ha plasmato un’area liberale anti-sinistra che resterà sempre fino a lasciare la sua decisiva impronta sullo stesso FdI. Questo significano le sue parole di apprezzamento a Meloni che «ha detto cose definitive su tasse e libertà».

Un modo per il leader azzurro di sottolineare il suo decisivo contributo per portare la destra più verso il centro. Solo che «da signore di vecchio stampo, da Meloni si sarebbe aspettato altrettanta generosità», chiosa l’amico Caligiuri. Anche ieri al Senato in aula e sui banchi del governo tra le file di FdI spiccavano ex personalità azzurre di rango, dal professore liberale, massimo studioso di Karl Popper, Marcello Pera, già seconda carica dello Stato, al ministro agli Affari Europei e Pnrr, Raffaele Fitto. Cav dappertutto.

Renzi apre sul presidenzialismo: «Noi ci saremo». Poi attacca Pd e opposizione. Giorgia Castelli su Il Secolo d'Italia il 26 Ottobre 2022.

«Lei ha fatto un’apertura importante sulle riforme costituzionali. Se la maggioranza vorrà davvero sfidarci in positivo, ad esempio sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, quello che noi abbiamo chiamato il sindaco di Italia, noi ci saremo. Il punto fondamentale è che se c’è un’apertura sulle riforme costituzionali un no a prescindere è sbagliato». Matteo Renzi nella dichiarazione di voto sulla fiducia al governo Meloni al Senato apre alla riforma costituzionale in senso presidenziale. E aggiunge: «Lei ha detto che nel caso andrò avanti da sola, per esperienza personale non lo consiglio…». Renzi ha poi detto che «il gruppo di Azione/Iv voterà no alla fiducia al governo».

 Renzi al Pd: «Attacco a Meloni su rappresentanza femminile masochismo»

«Tutto si può dire sulla presidente Meloni, ma attaccarla sulla rappresentanza femminile non è ridicolo, è masochismo», ha poi detto rivolgendosi al Pd dopo lo scambio ieri alla Camera tra la premier Giorgia Meloni e la dem Debora Serracchiani. E poi ancora. «Lo dico agli amici del Pd: io non riesco a capire come sia possibile che il primo argomento di discussione sia attaccare la maggioranza per il merito, per il nome dato a un ministero… Lo dico a Simona Malpezzi che era una pasdaran del fatto che bisognasse inserire il merito nella buona scuola».

«Sbaglieremo – ha detto durante il suo discorso – colleghi delle due opposizioni a non considerare il valore politico di ciò che accade oggi: un governo di destra, legittimato dal successo elettorale con la prima donna alla guida. E con una generazione di politici che scommette sulla politica, diversa dalla nostra, ma sempre sulla politica. Il discorso di Giorgia Meloni ieri è stato molto politico. L’aspettiamo lì, la sfidiano lì… Oggi voi avete vinto e voi avete il dovere di governare… Noi facendo opposizione cerchiamo di dare una mano alla nostra democrazia».

«La commissione d’inchiesta Covid dovrebbe essere guidata da FdI»

Prima del suo intervento parlando coi giornalisti ha anche sottolineato: «La commissione d’inchiesta del Covid dovrebbe essere guidata da uno di Fratelli d’Italia, non da uno nostro. Ho tutto l’interesse ad avere la commissione ma se devo essere onesto intellettualmente è più giusto che la guidi chi era all’opposizione».

Senato, Renzi conferma il no alla fiducia ma apre a Meloni: “Sul presidenzialismo ci siamo”. Ilaria Minucci il 27/10/2022 su Notizie.it.

Matteo Renzi ha pronunciato un lungo discorso al Senato durante il quale ha negato la fiducia al Governo ma ha aperto sul presidenzialismo.

Merito e femminismo

Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ha tenuto un lungo ed eloquente discorso al Senato in occasione delle dichiarazioni di voto che hanno preceduto la fiducia al Governo Meloni. Durante il suo intervento, il senatore non ha perso l’occasione di scagliarsi contro i colleghi del Partito Democratico.

Le dichiarazioni di voto al Senato di Matteo Renzi

Il no di Azione-Italia Viva al Governo è arrivato chiaro e forte anche al Senato. Ad annunciare il voto contrario senza mezzi termini è stato l’ex premier Matteo Renzi che ha preso la parola a Palazzo Madama durante le dichiarazioni di voto. “Il gruppo di Azione e Iv voterà no alla fiducia al governo Meloni per le ragioni che hanno ben argomentato i colleghi che mi hanno preceduto facendo opposizione, noi cerchiamo di dare una mano alla nostra democrazia, come devono fare le persone che riconoscono quelli che escono vincenti dalle elezioni”, ha detto Renzi.

E ha aggiunto: “Le faremo opposizione, a viso aperto, con la politica, non con il vocabolario. Le auguro di vincere la sfida del governo sapendo che noi saremo da un’altra parte”.

Nel corso del suo discorso, Renzi ha voluto anche replicare alle citazioni delle donne che hanno cambiato la storia italiana di Giorgia Meloni, aggiungendo i nomi di Artemisia e di Alda Merini. “Quando me ne sono andato da Palazzo Chigi una delle cose che mi ha fatto stare meglio è stata una frase della Merini: ‘La migliore vendetta è la felicità’ – e ha ribadito –.

Noi le saremo lealmente contro ma pronti a dare una mano per il bene del Paese“.

Senato, Renzi conferma il no alla fiducia ma apre a Meloni: “Sul presidenzialismo ci siamo”

Nelle dichiarazioni di voto alla fiducia al Governo Meloni, il leader di Iv ha però anche aperto alla Meloni. Dopo aver mostrato simpatia per la scelta di nominare Carlo Nordio come ministro della Giustizia, ha sostenuto il presidenzialismo: “Se la maggioranza vorrà sfidarci sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, quello che noi abbiamo chiamato il sindaco di Italia, noi ci saremo.

Il punto fondamentale è che se c’è un’apertura sulle riforme costituzionali un no a prescindere è sbagliato”.

Inoltre, ha scelto di attaccare il Pd ricollegando allo scambio avvenuto alla Camera martedì 25 ottobre tra il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la deputata dem Debora Serracchiani. “Tutto si può dire alla presidente Meloni, tutto, ma la 31esima presidente del Consiglio dopo 30 maschietti, è una donna che ha vinto delle battaglie. La contesto, ma andarla ad attaccare sulla rappresentanza femminile non è ridicolo, è masochismo”, ha detto Renzi.

L’ex premier ha poi sottolineato che il discorso della Meloni è stato “molto politico”, ma “il centrodestra ha il dovere di governare”. Poi ha invitato a “non confondere sovranità con sovranismo” e sull’immigrazione ha aggiunto: “Giochiamo la carta della cultura”.

Merito e femminismo

Infine, Matteo Renzi è riuscito a raccogliere gli applausi dei senatori del centrodestra riuscendo anche ad attirare l’attenzione della Meloni e a suscitarne l’ilarità. L’ondata di entusiasmo della maggioranza, in particolare, si è generata quando il leader di Iv ha criticato il Pd per aver contestato l’uso della parola “merito” nella denominazione del Ministero dell’Istruzione e per aver affermato che la prima premier donna non rappresenti a pieno le donne.

L’intervento di Matteo Renzi ha strappato applausi ai senatori del centrodestra, destando anche la viva attenzione di Giorgia Meloni che, con l’espressione divertita ha scambiato qualche parola con Matteo Salvini. In particolare, a proposito di “merito”, rivolgendosi alla senatrice dem Malpezzi, ha tuonato: “Lo dico agli amici del Pd: io non riesco a capire come sia possibile che il primo argomento di discussione sia attaccare la maggioranza per il merito, per il nome dato a un ministero… Lo dico a Simona Malpezzi che era una pasdaran del fatto che bisognasse inserire il merito nella buona scuola”. 

Scarpinato evoca i teoremi giudiziari contro la destra. Meloni: lei giudice intriso di ideologia. Redazione su Il Secolo d'Italia il 26 Ottobre 2022.

Intervento durissimo del senatore M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, in Aula al Senato. Scarpinato punta l’indice contro la destra eversiva, evoca le stragi “neofasciste” e i depistaggi. Giudica insufficienti le parole di Giorgia Meloni sul fascismo. I conti col passato si chiuderanno “solo quando ci sarà verità sulle stragi del neofascismo e verranno esclusi dal vostro Pantheon taluni personaggi”.

Scarpinato preoccupato anche dal presidenzialismo

“Resta viva – va avanti Scarpinato – la preoccupazione sul vostro voler mettere mano alla Costituzione” con la riforma del “presidenzialismo che potrebbe rivelarsi una ritorsione autoritaria” che porterà “all’uomo solo al comando”.

Applausi ripetuti dai banchi del centrodestra durante la replica del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Prima, quando in modo pacato replica a Ilaria Cucchi, che aveva criticato gli interventi di ieri della Polizia a ‘La Sapienza’.

La replica di Meloni a Ilaria Cucchi

“Ho fatto tante manifestazioni, ma non ho mai impedito ad altri di manifestare”, afferma la premier. Poi quando in modo molto fermo ribatte alle affermazioni dell’ex magistrato Roberto Scarpinato, le cui parole dimostrano – ha detto – un modo di procedere per teoremi e ideologizzato da parte della magistratura.

Meloni a Scarpinato: da lei atteggiamento smaccatamente ideologico

Da lei – ha affermato Meloni rivolgendosi a Scarpinato –  arriva un atteggiamento “così smaccatamente ideologico da chi doveva giudicare, che mi stupisce fino a un certo punto, il transfert tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è significativo, a cominciare dal depistaggio per la strage di via D’Amelio”.

Scarpinato sostenne l’accusa contro Andreotti. Bongiorno: mi ricordo bene…

Dopo Scarpinato aveva preso la parola Giulia Bongiorno, che aveva così esordito: “Mai avrei immaginato 20 anni dopo di prendere la parola dopo il dottor Scarpinato “, alludendo ai processi che li videro avversari in Aula. “Conosco bene l’efficacia delle sue requisitorie”, ha detto Bongiorno rivolgendosi all’ex pm. Il riferimento è a quando, anno 1999, in tribunale Scarpinato sostenne le tesi dell’accusa nel processo in cui Andreotti era accusato di associazione mafiosa.

Gasparri: da lui parole sconcertanti

Anche Maurizio Gasparri ha commentato l’intervento di Scarpinato: “Sconcertano le parole di Scarpinato al suo esordio in Senato”, risponde a stretto giro il senatore di Forza Italia. “Ed è motivo di riflessione il fatto che abbia ricoperto a lungo incarichi di vertice nella magistratura. Penso che sarà opportuno nel corso della legislatura ricordare in Aula circostanze riguardanti anche Scarpinato. L’Italia dovrà riflettere su vicende che alcuni ignorano, taluni accantonano, ma alcuni di noi conoscono e avranno modo di illustrare all’Aula e agli italiani”.

Il voto al Senato. Meloni e lo scontro con Scarpinato: “Con i suoi teoremi ha costruito processi fallimentari”. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

E il secondo giorno, quello della fiducia piena al suo governo, Giorgia Meloni ha messo da parte la “visione politica” seppure identitaria ma anche un po’ equilibrista ed è entrata nel merito. I vaccini “non sono un atto di fede ma devono avere una base scientifica”. Via libera al contante “perché la moneta elettronica penalizza i più poveri”. La polizia ha usato i manganelli sui manifestanti? “È stato necessario se quei manifestanti volevano impedire ad altri di manifestare ed esprimersi”.

Il carcere misura la civiltà di un paese e l’alto numeri dei suicidi ne misura quindi l’inciviltà. “Tutto vero, ma la soluzione non è la depenalizzazione bensì costruire e avere più carcere perché non si può pensare di garantire il bene se chi agisce nel male non paga mai”. E la pace, “non si fa in piazza con le bandiere tricolore, non si ottiene con la resa democratica ma sostenendo la democrazia”. Accusata, il giorno prima, quello dell’esordio alla Camera dei deputati, di non aver pronunciato alcune parole chiave di questo tempo – ad esempio vaccini e pace – di essere stata troppo “generalista” e anche un po’ “ambigua”, di aver certamente fatto un discorso politico, utile ad esaltare la sua leadership (innegabile) nel centrodestra ma di non essere entrata nel merito, ieri la presidente del Consiglio ha risposto nel merito per tre quarti d’ora seguendo decine di fogli di appunti presi in oltre cinque ore di dibattito generale. Risposte chiare, che non volevano piacere a tutti e che volevano essere molto chiare. Forse anche più di quello che poi sarà nei fatti.

La fiducia sarà piena e totale anche nella camera alta del Parlamento italiano. Le tensioni con gli alleati, arrivate a vere e proprie spaccature tematiche sulla politica estera e a rivendicazioni sulla stessa leadership dell’alleanza, sono magicamente scomparse. Tutto svanito. Tutto a posto. “Molte bene” ha detto Meloni dopo l’intervento di Silvio Berlusconi, un discorso intenso, da padre nobile del centrodestra che chiede gli venga riconosciuto che “tutto questo oggi è possibile grazie ad una sua intuizione di quasi trent’anni fa” e che rivendica “l’impronta liberale, europeista ed atlantista della coalizione”. C’era grande attesa e qualche timore che al Cavaliere potesse nuovamente scappare il freno. Che si potesse ripetere la scena thriller del giorno dell’elezione del Presidente del Senato quando Forza Italia decise di non votare la fiducia. Alla fine tutti in piedi e standing ovation.

L’intervento della senatrice Licia Ronzulli, un paio d’ore prima, aveva già allontanato dubbi e timori. La capogruppo è stata al centro di un braccio di ferro infinito nella fase di formazione del governo: Berlusconi la voleva ministro, Meloni no. Ha vinto la premier ma quel no è una ferita difficile da chiudere. “Ci hanno dipinto divise, ma oggi qui, da donne e da mamme possiamo dirlo, non è vero” ha detto Ronzulli. La premier l’ha degnata di una veloce occhiata e poi ho rimesso gli occhi sui fogli che andava scrivendo. Anche Salvini non ha creato ulteriori tensioni. Il vicepremier vuole fare, ha bisogno di risalire nei sondaggi, ha poco tempo. Meloni gli sta dando agio e gioco: il ministro dell’Interno Piantedosi ha già firmato una circolare per non fare entrare nei porti italiani le navi delle Ong; ci sarà una qualche forma di flat tax; si metterà mano “in modo sostenibile” alle pensioni. Ieri anche il via libera al contante su cui giusto in mattinata il vicepremier ha presentato un disegno di legge. Meloni-Salvini: si registra una straordinaria intesa sui temi (per ora). O sono d’accordo, oppure uno dei due insegue l’altro che per non farsi superare. Vedremo. Lo capiremo nelle prossime settimane.

Scoppiata la pace nella maggioranza, ieri si sono fatte vedere un po’ meglio le opposizioni. Simona Malpezzi (Pd) è rimasta sui temi, accusandola di essere stata “vaga e contraddittoria nelle linee programmatiche”. Matteo Renzi ha fatto un intervento politico, uno dei suoi quando in aula non vola una mosca. “Le faremo opposizione, a viso aperto, con la politica, non con il vocabolario. Perché mentre quelli che le siedono accanto (Lega, ndr) facevano Quota 100, noi facevano Industria 4.0, investivamo in cultura con cui è dimostrato che si mangia e firmavano le unioni civili che ancora mi tremano le mani per l’emozione. Quindi noi non vi regaliamo la parola identità. Le auguro – ha aggiunto – di vincere la sfida del governo sapendo che noi saremo da un’altra parte e anche che mai attaccheremo le famiglie degli avversari”. Da Renzi è arrivato un consiglio non richiesto ma sincero: “Si ricordi di essere felice, noi saremo leali cercando di dare una mano alla nostra democrazia, come devono fare le persone che riconoscono quelli che escono vincenti dalle elezioni”.

Durissimo lo scontro della premier Meloni con l’ex pm antimafia Roberto Scarpinato. Il senatore dei 5 Stelle in una sorta di requisitoria in difesa della storia e della memoria, ha incentrato il suo intervento sul “fascismo che è sopravvissuto come ideologia nel neofascismo”. Passando da Ordine nuovo e altre formazioni neofasciste, Scarpinato ha messo in fila, logica e storica, “il neofascismo, lo stragismo della destra per arrivare al presidenzialismo”, cioè al progetto di riforma costituzionale che è uno dei punti chiave del programma Meloni. È stato uno degli interventi seguiti con più attenzione, stupore e stizza dalla premier. Che nella replica ha liquidato così: “Senatore Scarpinato, per il tramite del presidente La Russa, vorrei dire che dovrebbe colpirmi che una persona che ha avuto la responsabilità di giudicare gli imputati nelle aule di tribunale emerga oggi un approccio così smaccatamente ideologico.  Purtroppo, mi stupisce fino a un certo punto, perché l’effetto transfert, che lei ha fatto, tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico dei teoremi con cui parte della magistratura ha costruito processi fallimentari, a cominciare dal depistaggio nel primo giudizio per la strage di via D’Amelio. E questo è tutto quello che ho da dirle”.

Applausi e standing ovation. Non solo dai banchi del centrodestra. Un piccolo cameo che si ripeterà altre volte in questa aula. Subito dopo Scarpinato ha preso la parola la senatrice Giulia Bongiorno (Lega): “Mai avrei immaginato di prendere nuovamente la parola, vent’anni dopo, dal procuratore Scarpinato…”. Che fu la pubblica accusa nei processi a Giulio Andreotti di cui Bongiorno era la giovane e poi vincitrice avvocata. Ma torniamo ai punti del programma che ieri Meloni ha voluto specificare. “Non l’ho fatto ieri perché credo che prima di tutto si debba avere una visione di paese, che è quella che ho cercato di darvi ieri e che manca da anni all’Italia. Una volta capito dove vogliamo andare, poi entriamo nello specifico”.

Ragionamento di per sé impeccabile. Così come sulla visione di paese si può in generale essere d’accordo. Sono i contenuti che ha voluto specificare che invece apriranno il dibattito. Sui vaccini, ad esempio. Meloni ha voluto rispondere all’ex ministro della Salute Beatrice Lorenzin che le ha chiesto una parola di chiarezza sulla “fiducia nella scienza”. La risposta è stata secca: “Non c’era evidenza scientifica nel somministrare i vaccini ai bambini sotto i 12 anni. Mentre c’era assoluta evidenza scientifica del danno che gli abbiamo fatto chiudendoli in casa invece che portarli a fare sport. Altra cosa che la scienza ci dice che avremmo dovuto fare”. Lorenzin poi ha giudicato “gravissime” le parole di Meloni. “La comunità scientifica riteneva indispensabile vaccinare i bambini per non farli ammalare e per proteggere gli adulti fragili. Portarli a fare sport, poi, avrebbe significato creare ulteriori focolai”.

Tranchant su manganelli, carceri e pace, Meloni ha voluto precisare anche cosa intende quando dice di voler procedere con gli aggiustamenti al Pnrr. “Dobbiamo attivare l’articolo 21 del Next Generation Eu come previsto quando ci sono modifiche di contesto. Come vogliamo chiamare il fatto che i materiali, causa inflazione, sono aumentati del 35%?. E che dire del fatto che nel 2022 dovevano spendere 42 miliardi e invece ne abbiamo spesi 31? E’ chiaro che dobbiamo apportare delle modifiche”. Peccato che attivare l’articolo 21 voglia dire ammettere di non rispettare il cronoprogramma, bloccare tutto e ottenere nuovamente il via libera di 26 paesi. Sarebbe un pessimo incipit per il governo Meloni.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 27 Ottobre 2022.

Molto bello ieri il dibattito al Senato. Per esempio ho molto apprezzato il senatore Luigi Spagnolli del Pd, indisposto a concedere fiducia a Giorgia Meloni, colpevole di aver pensato a un ministero del Mare e non a uno della Montagna. 

Per la natura di questa rubrica, non posso dilungarmi e mi concentro sull'accattivante intervento del senatore Roberto Scarpinato, riveritissimo e ormai pressoché mitologico magistrato antimafia ora eletto al Parlamento col Movimento Cinque Stelle. 

Mi scuso in anticipo perché non sono sicurissimo di averlo capito a fondo, ma ha parlato di strategia della tensione, di neofascismo eversivo alleato della mafia, di autori di stragi condannati con sentenza definitiva, di Franco Freda, di Carlo Maria Maggi, di Giovanni Ventura, di Ordine nuovo, di formazioni politiche variamente denominate e dedite al sovvertimento della Costituzione del 1948, del generale Gianadelio Maletti, già condannato a diciotto mesi con sentenza passata in giudicato per favoreggiamento degli autori della strage di piazza Fontana, di depistaggi di indagini posti in essere, di fattispecie di reato, di mandanti ed esecutori, in particolare di mandanti eccellenti, di colletti bianchi, la mafia dei colletti bianchi, ovvero la corruzione, e il leader di uno dei partiti della maggioranza ha intrattenuto pluriennali rapporti con la cupola mafiosa, per cui Dell'Utri, condannato in via definitiva, tale reato, a seguito della sentenza, e insomma lo so, ho perso presto il filo del discorso, ma sono quasi certo che alla fine Scarpinato abbia chiesto quindici anni di reclusione per Giorgia Meloni.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 27 Ottobre 2022.

La grana del cervello di Roberto Scarpinato era piuttosto nota, ergo a essere responsabile di tutto il tempo che fa perdere è solo chi ha permesso che sedesse in un tempio sacrale come il Senato dopo che lui, per una vita, aveva giudicato sacrale ogni suo atto da magistrato. 

Noi navigati della giudiziaria ci siamo pure abituati alle fumisterie dietrologiche di questo neoprodotto senile del grillismo: ma Giorgia Meloni magari no, quindi potrebbe anche essersi invero stupita, ieri, quando si è sentita additare come una che ha «eletto a figure di riferimento alcuni personaggi che sono stati protagonisti del neofascismo e tra i più strenui nemici della nostra Costituzione», con menzione per Pino Rauti che fondò Ordine Nuovo (1965) e relative azioni incubatrici di «idee messe in opera nella strategia della tensione», già sanzionate con «sentenze definitive» su stragi hanno «insanguinato il nostro Paese» eccetera.

Insomma, una requisitoria come tante delle sue, con citazioni dei soliti Franco Freda, Giovanni Ventura, Carlo Digilio, Carlo Maria Maggi e altra gente morta. Tralasciamo la citazione del defunto generale Gianadelio Maletti (a cui in Senato, in aprile, dedicò un convegno: scandalo) perché mettersi a seguire Scarpinato nei suoi percorsi porta alla labirintite. 

Registriamo per mera cronaca che il presidente del Consiglio ha reagito così: «Un approccio così smaccatamente ideologico mi stupisce fino a un certo punto, perché l'effetto transfert che Lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è emblematico del teorema di una parte della magistratura che è partito dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via d'Amelio. È tutto quello che ho da dire».

Ed è pure troppo, per Roberto Maria Ferdinando Scarpinato da Caltanissetta: un archetipo della toga della Trinacria più pura e dietrologica, malfidente, dietrologica, storicizzante e adesso-ti-spiego, un personaggio inquietante non solo per le sue barbe e le sembianze mefistofeliche.

Tutti a ricordarlo come ex fallimentare accusatore del fallimentare processo Andreotti (processualmente parlando) ma nessuno che sappia o ricordi che ora siede in Senato, appunto tempio della democrazia: e però da antimafioso professionista, nel 2003, fu autore di teorizzazioni arditissime e spiegò che alla democrazia, tutto sommato, si potrebbe anche rinunciare: «Bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale... 

Nella nuova Costituzione europea bisogna pure porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri i cui vertici dovessero risultare in collegamento con la criminalità organizzata». Lo scrisse su Micromega. 

Poi si meritò un procedimento disciplinare del Csm (sappiamo come finiscono) per una frase pronunciata proprio durante una commemorazione per la strage di via D'Amelio nel 2010: «Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra la negazione dei valori di giustizia e legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere».

Una frase come tante sue, ripetiamo, pronunciata da un personaggio che andrebbe raccontato: se ce ne fregasse sinceramente qualcosa. Ma, parlando in fin dei conti di una fiducia al Senato, non è chiaro quanto importi, ora, ricostruire le elaborazioni tra le più incredibili da lui sviluppate. Indimenticabile l'inchiesta «Sistemi criminali» in cui giunse a ipotizzare che tra il '91 ed il '93 Cosa Nostra avrebbe progettato di dividere il Meridione dal resto d'Italia grazie all'appoggio della massoneria deviata e dell'estrema destra, questo dopo essersi accordata in qualche modo con le leghe del Nord e prima di trovare un nuovo referente, alla fine del 1993, in Forza Italia. L'inchiesta - che strano - è stata archiviata. E ci sarebbe un sacco di altra roba da dire su Scarpinato. Ma è finita la voglia. È finito lo spazio. È finito il tempo: il suo.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2022.

Dopo il durissimo intervento di Roberto Scarpinato, ex toga antimafia ed ora esponente di punta del M5s, in cui dubitava che il governo Meloni fosse sorretto dalla «convinta e totale condivisione dei valori della Costituzione», vale la pena ricordare come venne nominato procuratore generale di Palermo. 

La risposta è contenuta nel libro "Lobby & Logge" scritto da Alessandro Sallusti con Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati ed ex ras della spartizione delle nomine al Csm in barba ad ogni disposizione di legge.

«Nel 2012, per la Procura generale del capoluogo siciliano, oltre Scarpinato, magistrato molto quotato, era in corsa Guido Lo Forte, uno dei procuratori storici di Palermo, vicino a Gian Carlo Caselli. 

Io e Pignatone (Giuseppe, ex procuratore di Roma, ndr), un sabato di metà dicembre, andiamo a casa di Riccardo Fuzio che all'epoca era membro del Csm e poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Con lui decidiamo la strategia: io avrei dovuto convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio di un'assicurazione, garantita anche dalla corrente di sinistra, Magistratura democratica: avrebbe preso il posto di Francesco Messineo a capo della Procura della Repubblica di Palermo appena quel postosi fosse liberato». 

Le correnti di sinistra volevano Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata, si legge ancora nel libro. Che prosegue: «Era necessario che la corrente moderata di Unicost, la mia, convergesse nella votazione su di lui, e che la corrente di sinistra ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione. 

Da casa di Fuzio io chiamo Lo Forte e gli assicuro la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l'altro era suo amico. E, dopo averci parlato, gli passo nell'ordine prima Pignatone e poi il padrone di casa. Niente, in punta di logica e pure di diritto.

Ma il potere non ha confini, e Pignatone in quel momento era un pezzo forte del "Sistema", anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sta di fatto che Lo Forte revocherà quella domanda e Scarpinato andrà alla Procura generale di Palermo».

Fra. Gri. per “la Stampa” il 28 ottobre 2022.

È stato lo scambio polemico più rovente, al Senato, quello tra Giorgia Meloni e Roberto Scarpinato, ex magistrato palermitano, punta di diamante del nuovo corso grillino. Lei l'ha liquidato con toni sprezzanti, facendo riferimento ai «teoremi» che sarebbero stati alla base del suo intervento e prima della sua carriera di pubblico ministero. Lui, il giorno dopo, si sente ancora indignato. «Ho fatto riferimento ad alcuni fatti documentati in sentenze, le stragi neofasciste, le figure di Rauti e Maletti. Non è stata in grado di rispondermi». 

Una cosa veniva fuori chiara, dal suo intervento: un filo nero attraversa la storia della Repubblica. «Mi sono attenuto alle sentenze passate in giudicato, niente di opinabile. Ho citato stragi accertate del neofascismo: piazza Fontana, Brescia, la bomba a mano alla questura di Milano, Peteano. Portano la firma di Ordine Nuovo. E Pino Rauti era l'ideologo di Ordine Nuovo. Perché non mi ha risposto sui fatti? Con una sola frase, poi, ha fatto un doppio errore: mi ha definito giudice quando sono sempre stato un pubblico ministero; mi ha addebitato il depistaggio su via D'Amelio, quando l'ho smascherato io. È disinformata.

Ma la cosa grave è che la maggioranza al Senato l'ha applaudita. Non leggono le sentenze, non conoscono nemmeno i fatti più elementari». 

Riconoscerà che la verità giudiziaria non coincide sempre con la verità storica.

«Perché i testimoni vengono uccisi, i documenti spariscono. È già un miracolo fin dove la magistratura arriva». E ci è andato giù piatto. 

«Perché vedevo una grave lacuna nel dibattito. Tutti parlano del fascismo, un fatto storico, finito nel 1945. Perché non parliamo del neofascismo che ha insanguinato l'Italia e gravemente deviato la storia repubblicana? Il neofascismo che è alle radici culturali del partito di Meloni. La strategia della tensione ha segnato la nostra storia. E non dimentico che Giovanni Falcone ha imboccato la via crucis quando cominciò a indagare sulla pista nera nel delitto Mattarella».

Perplesso sulla fermezza contro la mafia dei colletti bianchi? «Con la mafia, non si deve pensare soltanto ai brutti sporchi e cattivi, tipo Riina. L'asse portante è la borghesia mafiosa. Torno alle sentenze: parliamo dello stalliere Vittorio Mangano, dei soldi pagati da Fininvest alle cosche, di Marcello Dell'Utri che continua a dettare la linea in Sicilia? Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?». 

Il presidenzialismo è così pericoloso? «Ne abbiamo viste anche troppe, di democrazie presidenziali che poi si trasformano in regimi illiberali. Per questo i padri costituenti immaginarono un sistema di robusti pesi e contrappesi. Hanno già cominciato con l'attacco alla magistratura». Intende i progetti del ministro Carlo Nordio? «Vorrebbe togliere le indagini ai magistrati per darle solo alla polizia. Fosse per lui, si tornerebbe a una giustizia di classe».

Il Pd e l’imbarazzo per gli applausi a Scarpinato, l’ex Pm della trattativa. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Il Partito Democratico è garantista nei convegni e troppo spesso giustizialista in aula. In tanti hanno rotto l’argine che Enrico Letta aveva alzato tra i dem e il Movimento, sbandando alla prima occasione. E sì che era un’occasione pubblica, di quelle solenni. L’esecutivo di Giorgia Meloni muove i primi passi all’indomani della fiducia ottenuta, dopo la Camera, anche dal Senato. Nell’aula di Palazzo Madama è andato in scena il primo intervento di Roberto Scarpinato, appesa la toga al chiodo, in veste di parlamentare.

Un gran debutto al primo giorno di scuola, tanto per puntare i piedi anche all’interno del gruppo 5S e far capire allo stesso Conte, neo deputato, chi è che comanda nel Movimento, nella camera alta. E Conte deve essersi sentito minacciato davvero se il giorno dopo dedica un tweet a sottolineare l’aderenza al pensiero dell’ex magistrato. “Proprio così”, scrive infatti su Twitter il presidente del Movimento cinque stelle, rimarcando quanto affermato del senatore Scarpinato. Cosa aveva detto? “Noi siamo le nostre scelte, presidente Meloni. E lei ha scelto da tempo da che parte stare. Non dalla parte degli ultimi, non dalla parte della Costituzione, non dalla parte dei martiri della Resistenza, di coloro che per la difesa della legalità costituzionale hanno sacrificato la propria vita”, le parole di Scarpinato.

Per poi abbandonarsi a una coda polemica, facendosi beffa delle regole sul tempo di parola assegnato, superato di oltre due minuti in barba al rispetto degli altri senatori e in spregio ai richiami del presidente La Russa: “Meloni, lei si dice contro la mafia. Bene, ma bisogna andare contro alla mafia dei colletti bianchi, contro la corruzione. E il suo governo si regge sull’accordo con una forza politica il cui leader ha intrattenuto rapporti pluriennali con la mafia ha avuto collusioni”. I senatori del M5S scattano in piedi per applaudire e trascinano nella foga diversi colleghi seduti sui banchi dem. Gli applausi a scena aperta rivelano per la prima volta, in questa diciannovesima legislatura, quanto deboli siano le resistenze dei riformisti in seno al Pd. Il garantismo di facciata nasconde una tentazione scivolosa: riappropriarsi di quel patto indecente siglato nel 1992 con certa magistratura e tornare a cavalcare la tigre contro gli avversari politici.

La saldatura tra i dem di oggi e quella deriva di allora rivive in aula, sotto gli occhi di chi può ben vedere chi si spella le mani per Scarpinato e chi no. “Io non ho certo applaudito”, rende noto il senatore Andrea Martella, segretario del Pd Veneto. “Non si possono fare le elezioni cavalcando i populismi e poi pensare di affrontare la fase di governo con le stesse idee”, dice Martella al Riformista. Vale per la maggioranza ma anche per il M5S. “Dobbiamo essere coerenti con la prevalenza di posizioni riformiste nel nostro partito”, indica sul piano della giustizia, mettendo in guardia i suoi colleghi di gruppo dalle libere uscite. “Pochi hanno applaudito Scarpinato”, ci dicono dal gruppo Pd. Si riconosce nei filmati Susanna Camusso. E Walter Verini, che però specifica: “Non ho condiviso tutto il suo intervento ma l’esigenza di tenere altissima l’attenzione e la lotta alle mafie l’ho condivisa molto. Per questo alcuni di noi (io tra questi) hanno applaudito”.

Prova a gettare acqua sul fuoco Anna Rossomando, che del Pd è Responsabile giustizia ed è vice presidente del Senato: “Francamente non mi pare rilevante chi ha applaudito o meno l’intervento del senatore Scarpinato. Piuttosto sulla Giustizia credo sia importante dare attuazione alle riforme Cartabia approvate durante la scorsa legislatura, a partire dall’organizzazione degli uffici e dalle risorse, perché il garantismo vive anche nell’attuazione delle norme. E aggiungo che la cultura delle garanzie non prevede che si possa parlare di carcere come se il problema fosse l’edilizia carceraria, come fa la destra. Su questi argomenti misureremo il grado di garantismo di tutti. E una verifica arriverà presto, sull’ergastolo ostativo, già approvato alla Camera pochi mesi fa con un accordo complessivo”. Prende le distanze da Scarpinato anche Andrea Orlando, uno dei nomi che la sinistra interna fa balenare in tema di primarie per il prossimo segretario.

“I magistrati – dice l’ex ministro del lavoro riferendosi a Scarpinato – dovrebbero smettere di fare i magistrati quando entrano in Parlamento e fare i parlamentari. Non c’è nesso tra repubblica presidenziale ed un’impostazione politica di origine neofascista. Esiste il rischio che ci possa essere una curvatura autoritaria, ma il momento di discuterne non è questo”. All’intemerata rivolta dall’ex giudice a Forza Italia risponde dal Salone della Giustizia un senatore azzurro dai toni sempre frizzanti: per Francesco Paolo Sisto, già sottosegretario di Draghi, l’intervento dell’ex magistrato Scarpinato è stato “un po’ vintage, tornare indietro alle conflittualità tra pubblici ministeri arrabbiati e politica e giudici… non c’è più tempo. L’Italia non si può più permettere guerre di religioni, abbiamo bisogno di riappacificare il cittadino con la giustizia”, che “non può di diventare un argomento divisivo”.

Il governo, in tema di Giustizia, accende i motori. Ieri mattina c’è stato il primo colloquio tra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il vicepresidente del Csm, David Ermini. All’incontro nella sede del Ministero, in via Arenula, hanno partecipato anche il nuovo capo di gabinetto, Alberto Rizzo, e il segretario generale del Csm, Alfredo Viola. I dossier sono tanti e urgenti.

Aldo Torchiaro.  Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

La porta in faccia presa al Senato. Roberto Scarpinato e i teoremi sgangherati: la mania dell’eversione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

“È tutto quello che ho da dire”. Mai era stato liquidato in questo modo, neanche il giorno in cui ha perso il processo della sua vita, la “Trattativa”, e poco dopo è andato in pensione da sconfitto, il procuratore Roberto Scarpinato. C’è voluta la fierezza di una giovane donna, da lui trattata come un’imputata, come l’erede non solo del fascismo, ma anche di tutte le stragi, comprese quelle di mafia, nella solennità dell’aula di Palazzo Madama, per mettere al suo posto il neo-senatore.

Giorgia Meloni, il (la) Presidente del Consiglio, aveva risposto con un certo garbo, sia alla Camera che al Senato, a ogni critica dei rappresentati dell’opposizione. Aveva replicato con sicurezza ma sempre mantenendo un tono rispettoso su ogni argomento, anche i più spinosi. Ma un’unica volta la sua voce si è fatta ispida e gli occhi hanno fiammeggiato. Ed è parso strano questo singolare trattamento nei confronti di una ex toga, da parte dell’esponente di un partito, Fratelli d’Italia, e di una storia, quella della destra italiana discendente dal Msi, che si è sempre posta al fianco delle forze dell’ordine e della magistratura. E questo nonostante i morti e i processi che in determinati anni hanno riguardato la destra tanto quanto la sinistra.

Ma Scarpinato l’ha fatta grossa. Ha costruito il solito teorema, forse pensando di essere ancora ai tempi dei fasti dell’antimafia. Le prove generali erano già andate in scena, ancor prima delle elezioni del 25 settembre. Ma forse Giorgia Meloni non l’aveva notato. C’era stata una domenica pomeriggio in cui l’ex procuratore era stato esibito come la ciliegina sulla torta a Cinque stelle da Giuseppe Conte in una trasmissione elettorale negli studi Rai di Lucia Annunziata. Era stato quel giorno che il vestito della militanza antifascista aveva preso il posto di quella antimafia. Se qualcuno aspettava da lui un forte programma di riforme sulla giustizia, la speranza è stata subito spenta. Il candidato del partito grillino aveva il problema di dimostrare il sangue neo-fascista ancora vivo nelle vene di Giorgia Meloni e di tutto il centro-destra, perché al Senato era stato presentato un libro storico che raccontava la vita del generale Maletti. Cioè di un uomo del Sid degli anni sessanta-settanta, morto centenario un anno fa a Johannesburg e condannato per favoreggiamento nel processo per la strage di Piazza Fontana. Preistoria.

Ma usata in campagna elettorale come antipasto della bomba che il senatore Scarpinato ha deciso di tirare (un po’ con la mano sinistra, visto lo scarso successo) al suo esordio da senatore. Perché si è così inferocita Giorgia Meloni? Perché Scarpinato ha cercato di buttare lei e tutta la coalizione che ha vinto le elezioni, fuori dall’ “Arco Costituzionale”. Era questa la denominazione con cui fino al 1994 e l’arrivo di Silvio Berlusconi, il Msi era sempre schiacciato fuori dal mondo civile. Quello in cui chi governava, la Dc e i partiti laici e riformisti, aveva sempre tenuto aperto il dialogo e spesso la complicità con il Pci, il più grande partito comunista d’Europa, ma mai con il partito che rappresentava la destra. I missini erano i paria e dovevano stare nascosti come la polvere sotto il tappeto. I comunisti erano i cugini spesso invitati a tavola con i padroni di casa. Scarpinato ha detto a Meloni che lei era seduta indegnamente sullo scranno più alto del governo perché era brutta sporca e cattiva. Come i suoi antenati, ma anche come i protagonisti della “strategia della tensione”, secondo un copione dell’antifascismo militante e complottardo degli anni settanta cui non crede più neppure qualche nostalgico stalinista del mondo che fu.

“Signora presidente del consiglio”, ha esordito l’ex procuratore, e mai il richiamo all’appartenenza al genere femminile del(la) Premier è parso stonato. Perché la bomba è stata sganciata subito. Lei ha giurato sulla Costituzione, le ha buttato lì, ma “molti indici inducono a dubitare che tale giuramento sia stato sorretto da una convinta condivisione dei valori della Costituzione”. L’ex procuratore tratta Giorgia Meloni come aveva già fatto con Mario Mori nel “processo Trattativa”: due traditori dello Stato, alleati di coloro che intendono sabotare la Costituzione. “O peggio -aggiunge oggi- di stravolgerla instaurando una repubblica presidenziale..”. Non basta prendere le distanze dal fascismo, le dice. Non basta mai, si sa. Perché i furori dell’inquisizione prescindono da qualsiasi ragionamento. Lo abbiamo già visto. Diversamente non si sarebbe andati da “Sistemi criminali”, passando per il “papello” di Totò Riina fino al “Processo Trattativa”. E i carabinieri eroici che lottarono contro Cosa Nostra trattati come criminali. E trent’anni di processi costosi quanto fallimentari, fino alla sconfitta finale con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Così oggi, passando dalle aule giudiziarie a quella del Senato della repubblica, alla storia di chi ha vinto le elezioni vengono imputati come “figure di riferimento, alcuni protagonisti del neofascismo”. Riecco ancora il generale Maletti, cui viene aggiunto Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo il cui nome ormai per i più può solo ricordare il fatto che la figlia Isabella è un’esponente di rilievo di Fratelli D’Italia. E non è una neo-fascista né una terrorista delle stragi. Salti logici cui abbiamo assistito nelle aule di giustizia siciliane. Il principio è sempre quello della favoletta del lupo e l’agnello. “Non basta la sua presa di distanza dal fascismo storico”, cara Meloni, dice Scarpinato. Perché il fascismo è proseguito per via “occulta” con le stragi, e quindi, finché non ci sarà la verità su quelle, lei non è degna di governare. Poi, sempre nella logica del “se non sei stato tu a sporcarmi l’acqua sarà stato qualche tuo parente”, si chiama in causa il progetto di Repubblica presidenziale e del pericolo autoritario insito nella proposta. Vogliamo aggiungere un altro pizzico di sale dell’antifascismo militante d’un tempo? Eccolo: la “bibbia liberista” che avrebbe sostituito i valori costituzionali, insieme ai biechi “interessi del padronato”.

Eccoti servita, cara Meloni. Da parte di un ex magistrato che, nei giorni in cui aveva appena ricevuto la candidatura già strillava compiaciuto “ditemi voi se me ne potevo restare a casa”. Ma che già nel passato, a proposito di valori democratici, andava sostenendo che “bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale”. Lo diceva senza timore che le proprie parole potessero un po’ puzzare di eversione. Che è un po’ quello di cui lui è abituato a contestare agli altri. Si è messo sullo scranno del pubblico ministero, forte di quella che un tempo fu l’intangibilità del ruolo, e ha cercato di mettere Giorgia Meloni sul banco degli imputati. Del resto si è sempre vantato, quasi un programma elettorale, di aver inquisito i potenti e i Presidenti del consiglio. Ma non ha mai spiegato ai suoi ammiratori come sono andati a finire quei processi e quelle indagini, a partire dal processo Andreotti fino alle inchieste archiviate su Berlusconi.

Con Giorgia Meloni gli è andata male. anche perché è impossibile mettere fuori dall’”arco costituzionale” un(a) presidente del consiglio. Così lei è andata a muso duro, ed è stata l’unica volta nei due giorni del dibattito sulla fiducia al governo. “Un approccio così smaccatamente ideologico –ha sillabato- mi stupisce fino a un certo punto, perché l’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è emblematico del teorema di una parte della magistratura che è partito dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via D’Amelio. È tutto quello che ho da dire”. Ha fatto benissimo a ricordare la vergogna della vicenda Scarantino, anche se ha riguardato più Di Matteo che Scarpinato. La prossima volta basterà aggiungere la parola “trattativa”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L'anniversario del putsch di Mussolini. Il fascismo è ancora un pericolo: quali sono i rischi per il nostro Paese. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Ottobre 2022

Cent’anni fa ci fu la marcia su Roma. Il 28 ottobre del 1922. Era sabato. La marcia fu guidata da Benito Mussolini, capo di un piccolo partito, cioè il partito fascista, che alle elezioni dell’anno precedente aveva eletto 35 deputati su 535. Il partito di Mussolini era entrato in parlamento grazie all’alleanza con i liberali di Giolitti. La marcia avvenne dopo mesi di violenze, delitti, uccisioni di militanti antifascisti, roghi nelle prefetture, nelle camere del lavoro, nelle sedi socialiste.

Il re, in quel tragico giorno di autunno, cedette al panico e invece di firmare lo stato d’assedio che gli era stato chiesto dal primo ministro chiamò Mussolini e gli consegnò l’incarico di formare il nuovo governo. Come mai Mussolini, che controllava circa il 7 per cento del Parlamento, riuscì ad avere l’incarico dal re e poi la fiducia dalla Camera? Perché molti settori liberali, e anche in parte popolari, si convinsero che la cosa migliore da fare fosse piegarsi. Serviva a spegnere l’incendio. Non sapevano chi era Mussolini? Non conoscevano il torrente di violenze e delitti che avevano preceduto la marcia su Roma? Sapevano, conoscevano.

In politica molti hanno doti e molti hanno difetti. Il difetto più comune è la vigliaccheria. Da quel giorno, e per molti anni, l’Italia non fu più uno stato di diritto. Si tornò a votare con pluralità di liste solo una volta, nel 1924, ma furono elezioni sfregiate da una campagna elettorale nella quale la violenza fascista dominò tutto, e poi il voto fu inquinato dai brogli. Il successo di Mussolini fu clamoroso, prese più del 60 per cento dei voti. Il capo dei socialisti, Giacomo Matteotti, pronunciò un furioso discorso in parlamento per denunciare violenze e imbrogli. Qualche giorno dopo una squadraccia fascista lo aspettò sul Lungotevere, vicino a piazzale Flaminio, mentre usciva di casa e si dirigeva alla Camera, lo rapì poi lo uccise e gettò il suo corpo in un bosco. Mussolini fu travolto dallo scandalo. Il regime per almeno sei mesi rischiò di cadere.

Poi, il 3 gennaio del 1925 Mussolini andò in parlamento, rivendicò il delitto, minacciò di trasformare la Camera in un bivacco dei suoi manipoli. Rischiò e vinse. L’anno dopo varò leggi speciali, mise fuorilegge i partiti, ne fece arrestare i capi. Fu imprigionato anche Antonio Gramsci, sebbene fosse deputato e protetto dall’immunità. Sturzo, il capo dei popolari, Turati, il mito socialista, i fratelli Rosselli, Togliatti e moltissimi altri si rifugiarono all’estero. In Francia e in Russia. La democrazia tornò in Italia solo vent’anni più tardi, dopo una guerra terribile e dopo l’olocausto degli ebrei al quale il governo italiano partecipò. Tornò grazie alla guerra partigiana e alle armate americane e britanniche (ma anche di altri paesi, per esempio del Marocco francese, i cui soldati furono decisivi ed eroici nello sfondare le linee tedesche e prendere Cassino).

Cent’anni. Sono passati cent’anni dalla marcia su Roma. Non ci sono più, da almeno una decina d’anni, persone viventi che se ne ricordino. Oggi la domanda è questa: esiste ancora l’ombra, il rischio, la minaccia del fascismo? Io rispondo di no e di sì. Di quel fascismo, quello squadrista e assassino, no. L’ombra è svanita e non tornerà. La civiltà europea, che a metà del secolo scorso toccò il punto più basso rispetto a ogni civiltà precedente, è cresciuta enormemente in questi ottanta anni. Spinta dalla forza portentosa di ideologie e culture che si richiamavano – e ancora si richiamano, credo – al liberalismo, al socialismo, al cristianesimo democratico. C’è stata Bad Godesberg, che è il luogo fisico e dello spirito nel quale il marxismo europeo ha compiuto la scelta democratica. Non solo il socialismo tedesco. C’è stato il Concilio Vaticano II, che ci ha portato fino al “socialismo” montiniano e poi agli sviluppi clamorosi del bergoglismo.

C’è stata la grande modernizzazione e americanizzazione della cultura e del pensiero liberale, che oggi non è più figlia di Giolitti, ma della sua robusta fronda antifascista, amendoliana o radicale che dal fascismo era stata sbaragliata. E poi c’è l’Europa. Mettetela come vi pare con l’Europa, criticatela – e fate bene – disprezzatela anche, se volete – e forse fate bene – ma è una muraglia contro le dittature. Invalicabile. Poi però rispondo anche sì. Il fascismo, come ordine di pensiero, non è affatto morto. È vasto. Attraversa il popolo e i partiti. Entra nei vicoli delle città e dei paesi e si insinua dentro i luoghi del potere. Nel governo, nel sottogoverno, nell’opposizione e nella sotto-opposizione. Parlo del fascino intriso di intolleranza, di odio, di illiberalità, di repressione, di culto della punizione, di giustizialismo, di sospettissimo, di presunta eticità che oggi ha preso il sopravvento nello spirito pubblico.

Certamente questo fascismo nella destra è molto forte. Ed è di natura tradizionale. Lo si sente aleggiare nelle stesse parole di Giorgia Meloni, nel suo vocabolario. Merito, famiglia, patria, nazione. Avete notato o no che Giorgia Meloni ha abolito la parola “paese” e l’ha sostituita con la parola “nazione”? Nel linguaggio politico italiano – democristiano, socialista, comunista, liberale, repubblicano – dal 1945 ad oggi si è sempre usata la parola “paese” per indicare l’Italia. Perché? Perché la parola nazione contiene l’idea di nazionalismo, e il nazionalismo è una malattia dalla quale la politica italiana nata dopo la fine del fascismo era vaccinata. La politologia conosceva come un assioma il fatto che il nazionalismo è l’embrione del fascismo e dell’autoritarismo. Del resto neanche in America (che pure il fascismo non lo ha vissuto) non si usa la parola Nation. Si dice Country, cioè terra, paese. Da qualche giorno invece Giorgia Meloni sta imponendo la parola nazione a tutti. Lei usa solo quella parola. Altri la stanno imitando. Ha fatto questa scelta per caso? No, Giorgia Meloni è una politica navigatissima e anche sofisticata, nonostante il romanesco.

Sta cambiando il vocabolario, e imponendo il suo, per ragioni strettamente ideologiche. Meloni non è fascista ma pensa di avere bisogno di un continuo ammiccamento, di uno sguardo all’indietro, di un po’ di nostalgia. È il cemento della sua politica. È ideologia? Si, è l’ideologia vecchia vecchia, quella senza ideali. O con ideali inservibili: patria, nazione, famiglia, decoro, merito. E dietro questi ideali si nasconde la tipica intolleranza della destra. Punizione, giustizia, carceri, 41 bis, severità. Poi certo – e questa, è vero, è una garanzia per tutti – c’è l’ambiguità, la giravolta. Perciò sceglie Nordio alla giustizia, cioè l’opposto esatto del fascismo.

E qui si arriva all’altro pezzo del fascismo, che a volte amoreggia e spesso invece si scontra col fascismo di destra. Il grillismo, per capirci. Che ha sostituito tutte le ideologie precedenti col qualunquismo e il giustizialismo. Ha moltissimi punti in comuni con il vecchio fascismo, escluso, evidentemente, l’aspetto più truce del fascismo, cioè la violenza. Il grillismo è pacifico. Odia ma non picchia. Avete sentito Scarpinato l’altro giorno alla Camera? Ha detto più o meno questo: usando la legalità non ho ottenuto niente, non sono riuscito a portare nemmeno un grammo di valore alla battaglia contro la mafia. Allora ci provo col sospetto, con la politica, con la mia idea che certi partiti, che odio, vanno esclusi dal consesso civile.

Leggete bene il discorso di Scarpinato perché l’essenza del fascismo moderno è proprio lì. In quel pensiero, anche in quella idealità, in quel desiderio di purificazione, incoltamente dannunziano. La cosa che mi preoccupa di più è che quando ha parlato Scarpinato, un pezzo di Pd l’ha applaudito. Che vuol dire? Che l’antifascismo, nel senso vero e moderno del termine – tolleranza, garantismo, inclusione, accoglienza, indulgenza, uguaglianza – è diventato uno schieramento esilissimo. Anche un pezzo di sinistra è stata travolta dal nuovo fascismo. Scusate se uso termini forti, ma se non li usi è inutile, Non si capisce. Io dico solo questo. Cent’anni dopo la marcia su Roma il rischio di un nuovo fascismo è grandissimo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'ex magistrato, il depistaggio Scarantino e la casa all'imputato. Con Scarpinato il partito di Grillo è diventato garantista e berlusconiano…Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

Roberto Scarpinato, ex magistrato e oggi esponente di punta dei grillini, si è un po’ indignato per la risposta leggermente sprezzante che Giorgia Meloni ha dato, in sede di replica, al suo intervento al Senato (che per la verità era piuttosto sconclusionato). Dice Scarpinato – in una intervista alla Stampa – che Giorgia Meloni ha sbagliato due volte: nel definirlo giudice perché lui è stato sempre e solo Pm, e nell’accusarlo di essere responsabile del depistaggio (col falso pentito Scarantino) nelle indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Poi ha aggiunto di essere stato lui ad avere “smascherato il depistaggio”.

Ha ragione Scarpinato? Ha ragione nel dire che non è mai stato giudice e di non essere responsabile del depistaggio (ma Meloni non ha attribuito a lui quel depistaggio ma ad alcuni settori della magistratura palermitana. In effetti il depistaggio coinvolse il Procuratore Tinebra e anche il giovane Di Matteo, ma non Scarpinato). Che però sia stato lui a smascherarlo è del tutto falso. Fu la procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore Lari, che si accorse nell’inguacchio e chiese alla Procura generale di Palermo di sospendere le pene alle persone innocenti vittime del depistaggio. La Procura generale (cioè Scarpinato) non poteva che dare seguito alla richiesta di Lari. Nessun ruolo di Scarpinato nello smascheramento. Nel seguito dell’intervista Scarpinato propone altre due tesi che meritano un breve commento. Chiede: “Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?” Stupisce il fatto che Scarpinato parli di Borsellino. Perché è stato proprio lui, poche ore dopo la morte di Borsellino, a chiedere l’archiviazione del dossier mafia-appalti, avviato da Falcone e sul quale Borsellino voleva indagare.

Vi sembra che chi ha archiviato quel dossier sia l’uomo giusto per onorare Borsellino? Le mancate indagini su quel dossier sono state un danno probabilmente irreparabile al lavoro di chi tentava in quegli anni di colpire la mafia. Tanto che oggi, finalmente, proprio la Procura di Caltanissetta (la stessa che smascherò Scarantino) ha aperto una indagine su quella dannata archiviazione. Vuole capire bene perché fu fatta e che danni provocò. Attenti, per carità, a usare la parola smascherare… Infine l’ultima battuta dell’intervista di Scarpinato è contro Nordio accusato di voler restituire alla polizia giudiziaria l’indipendenza che oggi non ha, rendendo in questo modo più libere ed equilibrate le indagini. Oggi la polizia giudiziaria è interamente nelle mani del Pm (che si sceglie gli uomini che dovranno indagare) ed è costretta ad obbedirgli, a seguire la strada che il Pm indica e a lavorare a favore delle sue tesi. Una follia, degna davvero degli Stati autoritari.

P.S. Ma Scarpinato, sebbene non sia stata smentita la notizia sull’acquisto, qualche anno fa, a un prezzo piuttosto alto, di un appartamento di cui era comproprietario, da parte di un suo ex imputato (assolto su sua richiesta) resta un esponente di punta dei 5 Stelle. Sebbene nessun articolo del codice penale proibisca a un magistrato di fare affari con i propri imputati, e dunque non c’è il reato, eravamo tutti convinti che il codice etico del partito di Grillo non considerasse accettabili simili comportamenti e dunque procedesse contro Scarpinato, allontanandolo dal gruppo parlamentare. Invece lo hanno fatto capogruppo. Forse, all’improvviso, sono diventati tutti garantisti e anche un po’ berlusconiani…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per repubblica.it il 27 Ottobre 2022.

Kiev risponde al leghista Massimiliano Romeo e lo accusa di fare il gioco di Putin. Durante le dichiarazioni di voto sulla fiducia al governo Meloni di ieri, il senatore ha affermato, a proposito della guerra in Ucraina: “Si fa fatica a sentire ‘decideranno gli ucraini’. È la comunità internazionale che deve decidere per loro”. Un passaggio che ha fatto rumore e che non è piaciuto affatto ai ministri di Volodymyr Zelensky, attentissimi in questa fase alle prime mosse della premier Giorgia Meloni e dei suoi alleati. 

La replica è stata affidata a Oleg Nikolenko, portavoce del ministro degli Esteri ucraino Dymitro Kuleba. “In precedenza questo senatore ha presentato al Parlamento una richiesta di riconoscimento della Crimea russa”, dice Nikolenko. “Quasi tutti i Paesi troveranno politici che cercheranno di piacere a Putin. Allo stesso tempo, dovrebbero rendersi conto che diffondendo narrazioni russe stanno incoraggiando la Russia a continuare i crimini contro l’Ucraina” […]

Nikolenko, poi, ribadisce che il legame tra Zelensky e Meloni è solido. “La premier ha chiaramente spiegato la posizione dell’Italia, sia sulla necessità di un continuo sostegno all’Ucraina aggredita dalla Russia, sia sul diritto indiscusso degli ucraini a determinare il loro futuro. La posizione di Romeo (capogruppo della Lega in Senato, ndr) è solo un’opinione personale”. […]

Geopoliticanti. Il caso Romeo e i troppi fautori della «pace per procura». Francesco Cundari su L'Inkiesta il 28 Ottobre 2022.

Le parole del capogruppo leghista, secondo il quale non dovrebbero essere gli ucraini a decidere sul negoziato, bensì «la comunità internazionale», hanno suscitato la reazione di Kyjiv. Ma sta anche ai promotori delle manifestazioni per la pace chiarire cosa vogliono 

L’incredibile discorso pronunciato mercoledì in Senato dal capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo, convinto che sulla pace non bisognerebbe dire «decideranno gli ucraini», bensì «deciderà la comunità internazionale, nell’interesse dell’Ucraina», ha suscitato ieri la comprensibile irritazione di Kyjiv («In quasi tutti i paesi ci saranno politici che cercheranno di compiacere Putin», ha detto tra l’altro il portavoce del ministro degli Esteri). Ma avrebbe meritato maggiore attenzione anche in Italia, anzitutto da Giorgia Meloni, alla quale del resto l’intervento di Romeo era indirizzato, con chiari riferimenti polemici, a partire dall’affermazione, pronunciata poco prima dalla presidente del Consiglio, secondo cui la pace non si otterrebbe «sventolando bandiere arcobaleno» (che in ogni caso non credo piacciano troppo a nessuno dei due).

Limitarsi però a denunciare l’ambiguità della posizione leghista, e di conseguenza le enormi contraddizioni all’interno della maggioranza su questo punto decisivo, vorrebbe dire raccontare solo metà della storia. L’altra metà è infatti rappresentata dai tanti politici, intellettuali, politologi e geopolitologi che da mesi esprimono sostanzialmente lo stesso concetto, che Romeo ha avuto solo la malagrazia di ripetere in un’occasione ufficiale e particolarmente solenne.

L’idea che siano gli Stati Uniti, la Nato, l’Europa, e insomma ciascuno di noi a dover lavorare per imporre all’Ucraina la pace che a noi sembra più giusta e conveniente, cioè la resa, è in effetti la conseguenza più logica e inevitabile della teoria, continuamente ripetuta su giornali e tv, della «guerra per procura». Se gli ucraini non sono che dei pupazzi nelle mani della Nato, come vuole la propaganda putiniana, è evidente che sta ai burattinai, non certo ai burattini, decidere come, dove e quando fermarsi.

Romeo in fondo ha solo esplicitato, con parole non troppo diverse da quelle usate mille volte da Giuseppe Conte e da tanti altri, la teoria della pace per procura.

Coloro che il 5 novembre andranno in piazza a manifestare farebbero bene a chiarire sin d’ora se è questo che intendono, quando invocano la pace. Come hanno fatto Carlo Calenda e gli organizzatori della manifestazione di Milano, ma anche, ad esempio, il gruppo di intellettuali firmatari dell’appello promosso da Micromega, a favore della manifestazione romana. Appello che comincia con queste – sacrosante – parole: «Tutti parlano e straparlano di pace, tutti vogliono la pace. La questione cruciale è in cosa consista la pace. Quando una dittatura imperialista invade con il suo esercito una democrazia, e i cittadini di quest’ultima resistono eroicamente malgrado la schiacciante inferiorità bellica, la risposta, per ogni democratico, è adamantina: pace vuol dire il ritiro dell’aggressore entro i suoi confini, ogni altra soluzione sarebbe un premio a chi la pace l’ha violata, sterminando civili, violentando donne, massacrando e torturando».

Sarebbe bello sentire anche dagli altri promotori e aderenti alla manifestazione di Roma parole così chiare, nella speranza che l’esempio di Paolo Flores d’Arcais e degli altri sottoscrittori del suo appello sia la regola e non l’eccezione.

Rauti: quella di Meloni è una rivoluzione che va studiata e capita, dalla sinistra solo fuffa. Francesco Severini su Il Secolo d'Italia il 26 Ottobre 2022. 

Isabella Rauti, esprimendo il voto di fiducia favorevole per Fratelli d’Italia, si è detta orgogliosa del governo Meloni, che rappresenta coloro che erano dalla parte “sbagliata ma che era quella giusta”. E che saprà dare risposte anche a quegli italiani che non hanno votato per delusione o per sfiducia, anche a coloro che non hanno votato per il centrodestra. Il governo ha il compito di ridurre la distanza tra “popolo e politica”.

Meloni la più brava, senza quote e cooptazioni

Rauti ha quindi sottolineato la svolta storica di una donna presidente del Consiglio passata da “una sezione di partito a Palazzo Chigi” non beneficiando di quote o essendo cooptata dai maschi ma perché era ed è “la più brava”. Ha portato FdI dall’1,9 del 2013 al 26% del 2022. Si tratta di un fenomeno che va capito e analizzato.

Gli operai hanno voltato le spalle alla sinistra

La senatrice di FdI ha invitato la sinistra a domandarsi perché gli operai hanno scelto di voltare loro le spalle. “La sinistra deve interrogarsi su una propaganda faziosa e sbagliata che anche in quest’aula abbiamo dovuto di nuovo ascoltare”. Rauti ha sottolineato che esiste una storia femminile della destra italiana che solo il pregiudizio femminista ha avvolto in un cono di ombra. “Oggi questa storia vi si disvela, per voi è uno smacco ma per noi non è una sorpresa”.

Sul merito critiche assurde da sinistra

Sul “merito” ha quindi criticato la levata di scudi della sinistra, richiamando l’articolo 34 della Costituzione. “Perché il merito vi scandalizza? Onore al merito che è presupposto di democrazia come l’uguaglianza”. Critiche infondate anche quelle sul concetto di sovranità alimentare invocata da tutti i movimenti contadini e agricoli internazionali.

Rauti: agenda Meloni dopo la stagione dei tecnici

Infine sulla natalità Isabella Rauti ha parlato di accuse folli da parte della sinistra. “Noi vogliamo le donne a casa a fare figli? No. Noi vogliamo smantellare le penalità e gli ostacoli al lavoro femminile e rispondere alle emergenza demografiche come fa da anni la Francia. Il resto è fuffa”. Questo non è “oscurantismo” è “pragmatismo”, è “voglia di futuro”.

“Finalmente – ha concluso – c’è un’agenda Meloni dopo la stagione dei tecnici. Lei presidente ha impresso un cambio di passo, una rivoluzione gentile nella forma e io mi auguro e le auguro una rivoluzione conservatrice nella sostanza.  I cittadini le hanno affidato una nazione nel pieno di una tempesta ma chi sa dove andare conduce la nave in porto”.

Meloni controreplica al Senato: “Alzeremo il tetto al contante e taglieremo il cuneo fiscale”. Ilaria Minucci il 26/10/2022 su Notizie.it.

Controreplica di Giorgia Meloni al Senato: tanti i temi trattati dal presidente del Consiglio come povertà, cuneo fiscale e tetto al contante.

Il conflitto russo-ucraino

L’appello di Giorgia Meloni all’opposizione durante la controreplica al Senato

Al termine delle repliche al Senato, Giorgia Meloni ha ripreso parola per la controreplica. In questo frangente, il presidente del Consiglio ha toccato svariati temi che spaziano dalla povertà al cuneo fiscale, dal tetto al contante alla guerra in Ucraina.

Meloni controreplica al Senato: la povertà

A margine del dibattito avviato nel primo pomeriggio al Senato, ha avuto inizio la controreplica del presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Dopo aver ringraziato i senatori che sono intervenuti per un “dibattito franco, rispettoso e soprattutto composto”, Meloni ha affrontato numerosi temi rispetto alle diverse criticità emerse e le accuse rivolte al Governo rispetto alle scarse risorse di cui l’esecutivo disporrà.

“Emerge una realtà, gli interventi ci aiutano a fare una grande operazione di verità sulle condizioni dell’Italia che ereditiamo anche da chi ci accusa”, ha detto il premier nella sua replica al Senato.

“Forse è un racconto più sincero di quanto è stato fatto in altri tempi in cui si sbandierava e si brindava per l’abolizione della povertà: è bene che gli italiani sappiano le condizioni che ereditiamo”, ha aggiunto. “A maggior ragione con risorse limitate devi scegliere una strada, dove vuoi andare e poi ragioni sui provvedimenti concreti. Per questo io e FdI abbiamo scelto di non fare mai parte di maggioranza arcobaleno, distoniche.

Prima bisogna vedere dove vogliamo andare, dare una visione e poi fare calare da quella visione i provvedimenti”.

Il tema della crisi energetica

Il presidente del Consiglio, poi, si è focalizzato sul tema della crisi energetica, precisando: “Tutto quello che si può fare contro la speculazione siamo pronti a farlo. Servono misure che nel medio-termine liberino l’Italia da una dipendenza energetica inaccettabile. penso all’estrazione di gas naturale, Penso che le risorse nazionali vadano utilizzate come chiede l’Europa.

Poi estraggono altre nazioni e non è che il gas estero inquina di meno – e ha aggiunto –. Non possiamo pensare di demolire filiere di eccellenza produttiva nazionale per assecondare obiettivi stabiliti prima della guerra e in un contesto diverso da quello di oggi. Non ci renderemo mai disponibili a passare dalla dipendenza dal gas russo alla dipendenza dalle materie prime cinesi, non mi sembra una strategia intelligentissima”.

Meloni controreplica al Senato: “Taglieremo il cuneo fiscale”

Giorgia Meloni ha anche rivendicato la necessità di procedere al taglio al cuneo fiscale: “Se non partiamo dal taglio del cuneo fiscali i salari saranno bassi comunque e voi questo taglio non lo avete fatto. È stata fatta una scelta diversa che ha impattato meno. Impegno arrivare progressivamente a un taglio fiscale di cinque punti. Due terzi ai lavoratori, un terzo alle aziende. Naturalmente ha un costo rilevante ed è un impegno di medio-termine. Il contrasto al lavoro povero è per tutti noi una priorità, ma capiamoci su come combatterlo”.

E ha rimarcato: “Io penso che il salario minimo legale rischi di non essere una soluzione ma uno specchietto per le allodole perché sappiamo tutti che gran parte dei contratti di lavoro dei dipendenti è coperto dai Contratti nazionali che già prevedono salari minimi. Allora il problema per me è estendere la contrattazione collettiva. Ma perché in Italia i salari sono così bassi? Perché la tassazione è al 46%. Per questo serve un taglio di 5 punti del cuneo fiscale”.

Tetto al contante e Pnrr

Oltre al cuneo fiscale, ha affrontato anche la questione del tetto al contante che il Governo ha intenzione di alzare. Proprio nella giornata di mercoledì 26 ottobre, Matteo Salvini ha annunciato di aver presentato una proposta per procedere alla misura.

“Vado random da un tema all’altro ma cerco dare risposte. Tetto al contante. In questi anni abbiamo assistito a una discussione ideologica, collegandolo al tema dell’evasione fiscale. Lo dirò con chiarezza, non c’è correlazione fra l’intensità del limite al contante e la diffusione dell’economia sommersa. Ci sono paesi in cui il limite non c’è e l’evasione è bassissima, sono parole di Piercarlo Padoan, ministro dei governi Renzi e Gentiloni, governi del Pd”, ha detto Meloni. “Confermo che metteremo mano al tetto al contante che tra l’altro, penalizza i più poveri, come emerge anche dai richiami alla sinistra da parte della Bce”, ha precisato, sottolineando anche che da un lato “rischia di non favorire la nostra competitività” visto che paesi come Austria o Germania non ce l’hanno.

Un altro nodo cruciale sul quale il presidente del Consiglio si è soffermato riguarda il Pnrr. “Il cronoprogramma delle spese del Pnrr prevedeva al 31 dicembre di quest’anno avremmo speso 42 mld. Nel Def di aprile scorso il dato è stato aggiornato a 33,7 mld. Nella nota di aggiornamento del Def, prevede per il 2022 21 miliardi, meno della metà. È andato tutto bene? Forse no. Per questo ci carichiamo la responsabilità di dare anche velocità all’attuazione del Pnrr”, ha osservato in sede di replica al Senato.

A proposito del Pnrr, inoltre, ha precisato: “Se potete mostrarmi quando mai io abbia detto che volevo stravolgere il Pnrr vi sarò grata. Abbiamo detto una cosa chiara, non abbiamo mai detto che lo volevamo riscrivere ma che in base all’articolo 21 del Next generationEU sono consentiti aggiustamenti sulla base di scenari che dovessero cambiare. Non c’era ancora la guerra, i prezzi delle materie prime non erano così alti. È lecito ragionare se tutte le risorse e su quali siano gli interventi più efficaci in questo tempo o no?”.

Il conflitto russo-ucraino

Affrontato, poi, anche il problema della guerra in Ucraina: “L’unica possibilità, da che mondo è mondo, per favorire i negoziati nei conflitti è che ci sia un equilibrio. A meno che mi vogliate dire che la pace si ottiene con la resa, la pace si ottiene proseguendo con il sostegno all’Ucraina, consentendole di difendersi. Ho grande stima della Nazione che vado a governare, però pensate che la posizione che l’Italia decide di tenere sulla situazione in Ucraina, se l’Italia si voltasse dall’altra parte – e io non lo farò mai – barattando la sua posizione per la propria tranquillità, cosa farebbe l’occidente? La stessa cosa! Non cambierebbe dunque l’esito per l’Ucraina, ma l’approccio che altri avranno su di noi, sulla nostra credibilità, affidabilità anche sul piano commerciale”.

Durante la controreplica al Senato, Giorgia Meloni ha ricordato che “il nostro volume di esportazione con la Russia è più o meno dell’1% mentre con il resto dell’occidente più o meno dell’80%. Ciò che decidiamo sull’Ucraina decidiamo del destino dell’Italia”.

L’appello di Giorgia Meloni all’opposizione durante la controreplica al Senato

Infine, il presidente del Consiglio ha rivolto un appello all’opposizione: “Noi abbiamo fatto sempre un’opposizione molto franca, credo che il dibattito sia il sale della democrazia. Credo che diverse volte si è potuto contare sul sostegno di FdI. Ci chiesero, quando votammo sulla riduzione dei parlamentari, ‘cosa vi aspettate in cambio?’. Niente, perché la condividiamo. E questo coraggio e questa lealtà che posso chiedere all’opposizione, che si possa parlare nel merito, che non si facciano dibattito ideologici. Mi auguro che vogliate valutare i provvedimenti nel merito e valutare se votarli o meno”.

Governo Meloni: la fiducia al Senato. Sì al taglio del cuneo fiscale, no al salario minimo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2022 

Il premier Meloni a Palazzo Madama per la fiducia al Governo: "La priorità è fermare gli speculatori sul caro energia". E annuncia: "Riprendere l'estrazione del gas italiano". Poi promette il taglio del cuneo fiscale

Dopo la fiducia ottenuta ieri alla Camera, oggi è il giorno della fiducia dell’aula del Senato per il governo guidato da Giorgia Meloni. La discussione generale è iniziata alle 13 poi la replica del presidente del Consiglio che non ripete il discorso ed intorno alle 19 circa la chiama per il voto .  Alle 17.40 è arrivata la replica del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel dibattito sulla fiducia al governo. “Ringrazio tutti i senatori che sono intervenuti per un dibattito franco, rispettoso e soprattutto composto. Dovremo fare una grande operazione di verità sull’Italia che ereditiamo da quelli che ne denunciano le condizioni”.

“Sono stata criticata da vari interventi per aver ieri cercato di segnare un manifesto programmatico. Alcuni hanno contestato la scelta dicendo che gli italiani non si aspettavano questo ma risposte concrete. Sono d’accordo in parte. Senza che vi sia una visione, un manifesto programmatico a monte, senza un’idea di Italia da disegnare, anche le risposte che si danno rischiano di non essere efficaci. Lo abbiamo visto con governi in cui c’erano partiti che avevano visioni contrapposte che non stavano insieme” ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in sede di replica al Senato.

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“Servono misure che nel medio-termine liberino l’Italia da una dipendenza energetica inaccettabile. penso all’estrazione di gas naturale, penso che le risorse nazionali vadano utilizzate come chiede l’Europa. Poi estraggono altre nazioni e non è che il gas estero inquina di meno” ha continuato Giorgia Meloni nella sua replica al Senato.

“Il tema dell’energia è una delle nostre grandi priorità. Per contrastare la situazione molto complessa nella quale ci troviamo bisogna lavorare su tre livelli diversi. Il primo è il contrasto alla speculazione, per noi priorità assoluta. E se l’Europa non darà risposte siamo pronti a lavorare a un disaccoppiamento crescente anche sulla base di quelle che saranno le determinazioni a livello europeo”. Così il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella replica al Senato dopo la discussione sulla fiducia al governo. “Tutto quello che si potrà fare per fermare la speculazione siamo pronti a farlo” aggiunge. 

“Noi abbiamo sempre riconosciuto il valore della scienza, ma non abbiamo condiviso decisioni prese senza il supporto di evidenze scientifiche, non abbiamo condiviso che si scambiasse la scienza con religione” ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante la replica al Senato. “Per esempio è stato un errore impedire a ragazzi di 12 anni non vaccinati di non fare sport quando la comunità scientifica non era unanime su questo. Lo sport gli avrebbe fatto bene”, ha aggiunto.

“Il contrasto al lavoro povero è per tutti noi una priorità, ma capiamoci su come combatterlo. Io penso che il salario minimo legale rischi di non essere una soluzione ma uno specchietto per le allodole perché sappiamo tutti che gran parte dei contratti di lavoro dei dipendenti è coperto dai Contratti nazionali che già prevedono salari minimi. Allora il problema per me è estendere la contrattazione collettiva. Ma perché in Italia i salari sono così bassi? Perchè la tassazione è al 46%. Per questo serve un taglio del cuneo fiscale”. ha detto il premier Giorgia Meloni nella sua replica al dibattito sulla fiducia al governo. 

La premier si è rivolta al Pd parlando della “flat tax” e rispondendo alle critiche su questo punto del programma del centrodestra, ha affermato “La tassa piatta va bene solo per gli ipermilionari e non per le partite Iva?” aggiungendo “Vado random da un tema all’altro ma cerco dare risposte. Tetto al contante. In questi anni abbiamo assistito a una discussione ideologica, collegandolo al tema dell’evasione fiscale. Lo dirò con chiarezza, non c’è correlazione fra l’intensità del limite al contante e la diffusione dell’economia sommersa. Ci sono paesi in cui il limite non c’è e l’evasione è bassissima, sono parole di Piercarlo Padoan. ministro dei governi Renzi e Gentiloni, governi del Pd“

“Non vogliamo stravolgere il Pnrr, non abbiamo mai detto che andasse riscritto. Ma rivederlo sulla base dell’articolo 21 del Next generation Eu che consente agli Stati di fare degli aggiustamenti se cambiano gli scenari e di valutare quegli scenari. Il Pnrr è stato scritto in un tempo in cui non c’era la guerra e gli aumenti dei costi dell’energia. È lecito ragionare se quegli interventi sono validi ancora oggi o no?”. ha ribadito il presidente del Consiglio durante la sua replica al Senato. 

“Confermo che metteremo mano al tetto al contante che tra l’altro, penalizza i più poveri, come emerge anche dai richiami alla sinistra da parte della Bce“. Così la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in replica dopo la discussione sulla fiducia al Senato, sottolineando anche che da un lato “rischia di non favorire la nostra competitività visto che paesi come Austria o Germania non ce l’hanno“.

“Nella mia vita ho organizzato centinaia di manifestazioni, non ho mai organizzato una manifestazione per impedire a qualcun altro di dire quello che voleva dire. E’ un suo diritto farlo: ieri non erano manifestanti pacifici, ma manifestavano per impedire a ragazzi che non la pensano come loro di di dire come la pensano. La democrazia è rispetto, se qualcuno della mia parte tentasse di bloccare una manifestazione io sarei la prima a condannarlo, non l’ho mai fatto in vita mia” ha detto il presidente del Consiglio rispondendo alla senatrice Ilaria Cucchi che era intervenuta sugli scontri di ieri all’Università La Sapienza. 

“La pace non si fa sbandierando le bandiere arcobaleno”. Così il presidente del Consiglio Giorgia Meloni parlando della guerra in Ucraina e ribadendo di non poter accettare l’aggressione della Russia. “Non credo ci convenga un mondo con una guerra di aggressione” osserva Meloni, “la pace si fa sostenendo Kiev”.

Il leader M5s Giuseppe Conte aveva attaccato il ministro della Difesa Guido Crosetto, accusandolo di conflitto di interessi: “Lei ha indicato alla Difesa chi fino al giorno prima ha fatto gli interessi dell’industria bellica”. Oggi, per rispondere a Conte, la Meloni, nella sua replica al Senato, estrae un foglietto e decide di interrompere il discorso a braccio. Meloni afferma in aula: “Il M5s fa polemica sul ministro della Difesa. Fa sorridere che lo facciate voi e Conte. Perché quando era presidente del Consiglio non ha venduto le aziende della difesa italiane che producono armi?“. 

Nella sua replica al Senato Giorgia Meloni è stata molta dura e chiara: “Al senatore Scarpinato dovrei dire che mi dovrei stupire di un approccio così smaccatamente ideologico. Ma mi stupisce fino a un certo punto perché l’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico del teorema di parte della magistratura, a cominciare dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via d’Amelio. E questo è tutto quello che ho da dire”.

“Sconcertano le parole di Scarpinato al suo esordio in Senato. Ed è motivo di riflessione il fatto che abbia ricoperto a lungo incarichi di vertice nella magistratura“, dice da parte sua Maurizio Gasparri vice presidente dei senatori di Forza Italia. “Penso che sarà opportuno nel corso della legislatura ricordare in Aula circostanze riguardanti anche Scarpinato. L’Italia – continua il senatore forzista – dovrà riflettere su vicende che alcuni ignorano, taluni accantonano, ma alcuni di noi conoscono e avranno modo di illustrare all’Aula e agli italiani”

Il governo guidato dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ottenuto la fiducia al Senato. In Aula, 200 presenti. I votanti sono stati 199. I favorevoli sono stati 115, i contrari 79. Gli astenuti sono stati 5. Ieri il Governo aveva ottenuto la fiducia alla Camera.

Anche il Senato ha votato #fiducia al Governo. Abbiamo presentato in campagna elettorale un programma chiaro e dettagliato. Manterremo gli impegni: il vincolo tra rappresentante e rappresentato è l’essenza della democrazia. Subito al lavoro per rispondere alle urgenze dell’Italia 

Meloni al Senato: “Metteremo mano al tetto sui contanti. La moneta elettronica penalizza i più deboli”. Alessandra Danieli su Il Secolo d'Italia il 26 Ottobre 2022.

“Dal dibattito emerge il reale stato in cui versa il paese. Emerge un racconto che ci aiuta a fare una grande operazione di verità sull’Italia che ereditiamo. Un racconto più sincero di  quando si brindava per l’abolizione della povertà in Italia”. Così Giorgia Meloni, nella replica al Senato sulla fiducia, che in apertura di intervento si è scusata per la tosse che l’ha infastidita per tutta la giornata. Ma che non le ha impedito di farsi capire sui passaggi cruciali della prossima navigazione di governo. Il presidente del Consiglio ha rispedito al mittente l’accusa di non essere entrata nel merito concreto dei provvedimenti. Non si tratta di una dimenticanza, ma di una scelta precisa.

Meloni al Senato: dal dibattito esce un racconto sincero dell’Italia

“Quando hai risorse limitate devi scegliere una strada, decidere dove vuoi andare e poi ragionare sui provvedimenti concreti”, dice rivendicando la scelta di disegnare l’Italia che vorremmo. “Dove andare e poi far calare da quella visione i provvedimenti”. Perché – ha insistito – senza un’idea di Italia le risposte concrete rischiano di non essere efficaci.  “Lo abbiamo visto negli anni scorsi, con governi retti da forze che avevano idee contrapposte. Rivendicavano obiettivi che non stavano insieme. Producendo un mancato miglioramento delle condizioni per questa nazione. E producendo miliardi di debito che graveranno sulle spalle dei nostri figli”.

A volo d’uccello ha chiarito le linee programmatiche del governo in seguito al dibattito serrato che ha visto impegnato il Senato sotto la presidenza di Ignazio La Russa. Sull’ambiente ha garantito che andrà di pari passo con sostenibilità sociale ed economica. Tra le priorità ribadite la fine della dipendenza energetica, giudicata ‘inaccettabile’ puntando a estrarre gas nazionale. Ma, attenzione, “non saremo mai disponibili a passare dalla dipendenza del gas russo alla dipendenza delle materie prime cinesi. Bisogna investire sulla componentistica essenziale”.

Il salario minimo legale non è una risposta al lavoro

“Il contrasto al lavoro povero è una priorità per tutti noi”, ha detto ancora Meloni. “Ma bisogna capire quale è il modo migliore per farlo. Io penso che il salario minimo legale rischi di non essere una soluzione a questo problema. Ma piuttosto uno specchietto per le allodole. Perché tutti sappiamo bene che ci sono contratti collettivi nazionali che hanno già dei salari minimi”. La strada per il governo è quello di estendere la contrattazione collettiva. Perché  i salari sono bassi in Italia? “Perché la tassazione sul lavoro è al 46% e quindi se non abbassiamo le tasse sul lavoro, i salari resteranno bassi comunque”. Quindi l’impegno al taglio del cuneo fiscale di almeno 5 punti. “È una misura che ha un costo rilevante ma ci prendiamo questo impegno nel medio termine”.

“Mai detto che il Pnrr vada riscritto o stravolto”

Un lungo passaggio è dedicato al Pnrr e al tetto al contante. Su entrambi i temi il premier ha invitato a mettere da parte le contrapposizioni ideologiche. “Sul Pnrr è stato detto che volevamo stravolgerlo e poi siamo tornati indietro. Noi abbiamo detto una cosa molto chiara. Mai che andasse riscritto o stravolto. Ma che, sulla base dell’art. 21 del Next Generatio Ue, bisognava valutare se gli scenari sono cambiati. Quando è stato scritto non c’era la guerra in Ucraina, non c’era la questione energetica e il rincaro delle materie prime. Con un aumento dei costi delle materie prime del 35%, voi pensate senza affrontare questo aspetto riusciremo a mettere a terra le risorse? Io temo di no, temo che le gare andranno deserte”.

Meloni nell’aula del Senato: “Metteremo mano al tetto al contante”

Sul tetto al contante, tema di grande attualità dopo l’iniziativa della Lega per portarlo a 10mila euro, Meloni ha confermato l’intenzione di “metterci mano”. “Non c’è correlazione con il sommerso. Ci sono paesi in cui il limite non c’è, ma l’evasione fiscale è bassissima. Non lo dico io. Ma Pier Carlo Padoan, ministro del Pd dei governi Renzi e Gentiloni. La Germania non ha un tetto, l’Austria pure. La moneta elettronica non è moneta a corso legale, penalizza i più poveri”.

“Non ho mai organizzato manifestazioni per impedire a qualcuno di parlare”

Non manca nel corso della replica di Giorgia Meloni in Senato una risposta diretta alla senatrice Cucchi che in Aula ha denunciato “i modi violenti e disumani con i quali sono stati trattati” i manifestanti di ieri alla Sapienza. “Vengo dalla militanza giovanile”, ha detto il presidente del Consiglio tra gli applausi. “Ma in tutta la mia vita non ho mai organizzato una manifestazione per impedire a qualcuno quello che voleva dire. Quelli non erano manifestanti pacifici. Ma facevano un picchetto per impedire ad alcuni ragazzi di esprimere le loro idee. Su questo ci dobbiamo capire. È il principio della democrazia”. Parole chiare anche sulla pace. “Penso e spero e lavoro per giungere a una pace giusta, ma dobbiamo capirci su come ci si arriva. Non si fa sventolando bandiere arcobaleno nelle piazze”. Infine un appello all’opposizione, alla quale chiede coraggio e lealtà. “Noi abbiamo fatto sempre un’opposizione molto franca”, ha premesso il presidente del Consiglio. “Non gliele abbiamo mandate a dire e mi aspetto che l’opposizione faccia altrettanto. Ma vorrei si valutassero i provvedimenti nel merito, senza fare dibattiti ideologici. Questo è un tempo in cui i posizionamenti pregiudiziali possono farci perdere qualche occasione”.

Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” il 27 Ottobre 2022.

Sono anni che cerco controindicazioni al limite ragionevole di utilizzo del contante, ma non ne ho mai trovata una. Il Ministro Salvini invece ne trova molte, visto che propone di alzare il tetto da 2.000 euro a 10.000, e allora gli chiedo: «Per chi è vantaggioso girare con 10.000 euro in tasca?». Sicuramente per gli spacciatori, per chi paga tangenti, per chi lavora in nero (che può anche accedere a tutti i benefici e aiuti previsti per gli indigenti, incluso il reddito di cittadinanza). 

Dai dati dell’Ocse, Unione Europea, Tax Research emerge che siamo un Paese molto corrotto, e tutte le inchieste legate al mondo degli appalti dimostrano che le tangenti si pagano in contanti. Non solo: di cash vive lo spaccio di droga, il contrabbando di petrolio, di merce contraffatta. Scoraggiarne l’uso, a favore dei pagamenti tracciabili è un dovere perché si contrastano le attività illecite.

 È un dovere perché contribuisce a ridurre l’illegalità nel mondo del lavoro. È un dovere perché rende più complicata la vita agli evasori. Vale la pena rinfrescare le tabelle Istat pubblicate nel 2021 sull’economia sommersa: 183 miliardi. Un’economia composta da 3,5 milioni di lavoratori irregolari e «a nero», cioè lavoratori pagati in contanti. Questo significa zero entrate fiscali e zero contributi versati. E coinvolge un’infinità di settori: dall’edilizia alla sanità, dal commercio all’ingrosso alla ristorazione, alla logistica. A questo si aggiungono centinaia di attività che vanno dall’avvocato al medico, dall’estetista al parrucchiere, dal libero professionista all’idraulico, che incassano le prestazioni in contanti e su cui non pagano tasse.

Dunque: alzare il tetto a 10.000 euro quali vantaggi porta e a chi? Tra l’altro è meno rischioso tenere in tasca un bancomat o una carta di credito rispetto al cash. Il vicepremier intende allinearsi ad una «media europea». E cioè quale? In Francia e in Spagna il tetto è a 1.000 euro, in Grecia 500, in Belgio e Portogallo 3.000. In Germania, Austria, Lussemburgo, Irlanda per esempio non ci sono limiti, ma non c’è nemmeno l’evasione e il sommerso che abbiamo noi. Nemmeno negli Stati Uniti c’è un limite al contante, ma se vai a comprare qualcosa sopra i 100 dollari difficilmente accettano contanti, perché nessuno vuole trovarsi a gestire una cassa piena di cash.

Anche nei nostri supermarket la rendicontazione è più facile da quando i clienti pagano per lo più con carta. Negli Usa quando beccano un evasore, l’evasore se lo ricorda per tutta la vita. In Italia siamo meno cattivi. Le ricordo ministro che chi evade ruba i servizi sanitari di cui usufruisce senza aver contribuito a pagarne il costo, come non ha contribuito a pagare la scuola dove manda i suoi figli, o la costruzione delle strade che percorre ogni giorno. 

Tutto questo lo pagano i soliti, quelli che 10.000 euro tutti insieme fanno fatica a vederli. Loro non si sono mai lamentati del tetto al contante, anzi la vedono come una misura giusta di contrasto. La premier Meloni ha dichiarato che è una discussione ideologica, che non c’è correlazione fra economia sommersa e limite al contante. A dire il vero un recente studio di Bankitalia la correlazione l’ha dimostrata.

Il tetto al contante non piace solo a chi vuole spiarci. Gianfranco Ferroni su Il Tempo il 28 ottobre 2022

Il popolo è sovrano. E, come insegnano al primo anno del corso di economia nelle università, «l'emissione della moneta da parte di uno Stato è un'estrinsecazione della propria sovranità, attraverso l'esercizio del potere di emettere o stampare moneta in linea con le proprie scelte di politica monetaria». In qualità di presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ha difeso la sovranità parlando contro il «tetto al contante». Da anni se ne parla nelle stanze della Banca d'Italia, oltre che in quelle della Bce: «Il tetto al contante è un'offesa rivolta a chi emette legalmente, essendo una istituzione, la moneta». Ovvero le banche centrali. Con una campagna populista e fuorviante i contrari spacciano e diffondono la paura dell'evasione fiscale, che secondo questi oppositori del contante verrebbe facilitata dalla diffusione del cash: niente di più falso. La tracciabilità già esiste nelle banconote: ognuna ha un codice identificativo. Con un semplice lettore ottico al momento del pagamento si può sapere che «vita» ha avuto un pezzo da 50 euro, dalla sua nascita: certo, chi si mette a disposizione degli emittenti delle carte di credito darà sempre il suo contributo controla circolazione del contante, visto che la forza di quei gruppi è superiore a quella delle singole nazioni. Giganti contro formiche. Ma che a volte si incazzano.

Leggiamo cosa ha detto Fabio Panetta, componente del comitato esecutivo della Bce, in occasione della conferenza internazionale sul contante della Deutsche Bundesbank dal titolo «Cash in times of turmoil»: «L'Eurosistema è impegnato a preservare il ruolo del contante. Stiamo adottando misure concrete affinché esso rimanga ampiamente accessibile e accettato come mezzo di pagamento, anche qualora fosse introdotto l'euro digitale». Non solo, perché ha ricordato che all'inizio della pandemia «i consumatori, specialmente quelli con basso reddito, hanno ridotto gli acquisti di beni e servizi e aumentato le scorte di attività finanziarie liquide; ciò ha alimentato la domanda di contante, che rappresenta l'attività finanziaria in assoluto più liquida e quindi, per la sua stessa natura, maggiormente adatta a soddisfare la preferenza per la liquidità espressa dai cittadini». Tra l'altro, i soloni anti-contante dimenticano che per mesi le filiali delle banche sono state poco accessibili, e solo su prenotazione. Con una importante annotazione di carattere sociale, Panetta ha rilevato che «la carenza di contante danneggerebbe sia i commercianti sia i consumatori, soprattutto quelli con basso reddito. Difficoltà emergerebbero in particolare per i segmenti della popolazione, quali gli anziani o le persone con un minore livello di istruzione, che preferiscono il contante ad altri mezzi di pagamento».

Anche perché molti dimenticano che non è obbligatorio avere un conto corrente bancario, visto che non si tratta di un servizio gratuito. In Germania, dove il contante è rivestito di sacralità, in tanti non sono mai entrati in una banca e si fanno consegnare lo stipendio «cash». E acquistano anche automobili costose pagando con le banconote. Ma la cosiddetta tracciabilità, si sa, interessa coloro che vogliono mettere sotto la lente d'ingrandimento la vita di ognuno di noi, conoscendone tutte le spese. Dati personali che dovrebbero essere venduti volontariamente a peso d'oro, e che invece servono ai grandi gruppi per orientare le scelte dei consumatori. Chi ha a cuore le sorti del proprio Stato difende anche la moneta che utilizza, e che viene emessa dalle istituzioni e non dai privati. Per i sovranisti più rigidi, tra l'altro, il tetto, invece che al contante, andrebbe riservato alle spese effettuabili con carte di credito e di debito.

Tutta la verità sul tetto al contante. Andrea Muratore il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tutta la verità sul tetto al contante. Battaglia ideologica non di secondaria importanza, ma che non c'entra nulla con le strategie anti-evasione per fermare il sommerso: lo confermano i dati europei

Sul tetto al contante la Lega ha, per mezzo dell'onorevole Alberto Bagnai, depositato una proposta di legge che alza il tetto da 2mila a 10mila euro per i pagamenti. E Matteo Salvini è tornato alla carica confermando quanto dichiarato da Bagnai e dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni al Senato sull'inesistenza di un nesso diretto tra tetto al contante ed evasione.

Salvini: "Contante e riciclaggio, nessuna correlazione"

"L'evasione fiscale va perseguita, soprattutto la grande evasione fiscale miliardaria, ma non si abbassa perseguendo e perseguitando i piccoli risparmiatori e gli acquirenti che vogliono e possono far la spesa pagando in denaro contante", ha detto il Ministro delle Infrastrutture e segretario leghista in un video di Twitter.

"Non c'entra nulla il pagamento in contanti con l'evasione fiscale o il riciclaggio tanto che", ha aggiunto Salvini, "ci sono nell'attuale Unione Europea Austria, Cipro Estonia, Finlandia, Germania, la virtuosa Germania, l'Ungheria, la pericolosa Ungheria, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Polonia" e "il Regno Unito da fuori, che non hanno nessun limite di spesa in denaro contante".

Il contante in Europa

Salvini elenca un ampio numero di Paesi con fattispecie assai diverse. In Germania ad esempio un limite tecnicamente c'è ma più operativo che concreto: chi vuole spendere in contanti più di 10mila euro tutti assieme deve dichiarare le motivazioni dell'acquisto. In Regno Unito invece è obbligo per chi compie pagamenti superiori alle 10mila sterline di registrarsi come "High Value Dealers". Ma in generale quanto detto dal segretario del Carroccio è corretto: tutti i Paesi in questione non hanno limiti di fatto alla spesa in contanti.

E anche Malta, che ha recentemente introdotto un limite di 10.000 euro sulle transazioni in contanti , lo ha limitato a transazioni sensibili per la vendita di immobili e oggetti di valore. Introdotto nella legge lo scorso marzo, questo limite è nuovo per Malta – poiché in precedenza, qualsiasi somma di denaro poteva passare di mano.

"Anzi", nota Salvini, "il Paese europeo che ha un tasso di evasione superiore a tutti gli altri è la Grecia, che ha la spesa in contanti più bassa di tutto il continente", sottolinea. E "quindi in un momento di difficoltà economica per cittadini, imprenditori, artigiani e commercianti, obbligare all'utilizzo della carta di credito tutti quanti significa arricchire le banche, perdere clienti e perdere business", afferma il vicepremier. Il pagamento massimo consentito in contante in Grecia è di 500 euro. E purtroppo per Atene il Paese resta ancora quello maggiormente soggetto alla piaga dell'evasione. Stimare il peso dell'evasione fiscale sul Pil di ogni Paese è complesso: ma tra le economie europee Atene si posiziona indubbiamente ai primi posti, con un sommerso paragonabile al 30% del Pil. La Germania, con un sommerso al 13,3% del Pil, è meglio piazzata di Spagna e Portogallo, sopra il 18%, che un tetto al contante lo hanno.

E del tema se ne è occupata anche la Bce. Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale, in un intervento ufficiale ha ricordato per esempio che "le banconote rappresentano l'unico modo per garantire l'inclusione finanziaria di ampi strati della popolazione". "Il ruolo del contante sia come mezzo di pagamento che come riserva di valore, va salvaguardato con politiche attive», ha spiegato ancora Panetta. Uno dei timori è che tetti troppo bassi all'uso del contante, ne riducano troppo la circolazione rendendone quindi l'uso più difficile penalizzando proprio la parte più fragile dei cittadini. In momenti di crisi, come durante la pandemia, ha ricordato sempre Francoforte, l'uso del contante è paradossalmente aumentato.

Il top manager dell'Eurotower ha ricordato che "nell'area dell'euro ci sono 13,5 milioni di adulti privi di un conto bancario che effettuano quasi esclusivamente pagamenti in contante". Il contante, insomma, non è il diavolo "e per gli strati più poveri della popolazione resta l'unico strumento gratuito a disposizione". Panetta è peraltro il massimo sostenitore dell'euro digitale nei vertici Bce, dunque la sua opinione è decisamente pesante.

Una questione di libertà

In generale, il tetto al contante non sembra statisticamente significativo come strumento con una correlazione diretta col contrasto all'evasione. Questo perché non ha inciso minimamente sulla questione di cui l'evasione è la derivata prima: il sommerso. Meloni ha citato al Senato l'ex Ministro dell'Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan, che nel 2015 rubricò il dibattito sul tetto al contante, alzato allora dal governo Renzi da mille a 3mila euro, come una "questione ideologica". Padoan nel 2019 ha poi dichiarato di essere contrario alla misura che si trovò a dover varare. E certamente l'ideologia in economia vuole la sua parte laddove una componente politica vuole promuovere una visione del sistema più consona alla sua visione. Ma interpretare il "dibattito sul contante" come ideologico non ha solo significato critico.

"Il contante è uno strumento di civiltà e inclusione finanziaria, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione", un simbolo di libertà secondo Ranieri Razzante, docente di legislazione antiriciclaggio nell'università di Bologna e tra gli autori delle norme antiriciclaggio oggi vigente. Razzante all'AdnKronos ha detto che "essere contro l'innalzamento della soglia per la sua circolazione va spiegato ai milioni di italiani che lo utilizzano e soprattutto a quelli che non hanno associato al conto corrente bancario una carta di credito, circa 15 milioni per essere attendibili". Per quale motivo un cittadino che lavora, guadagna onestamente, paga le tasse, non deve poter decidere liberamente e con quali modalità utilizzare e spendere i suoi soldi? Perché lo Stato deve imporre ai cittadini come devono disporre dei propri soldi, anche a coloro che non possono ancora seguire le linee guida delle regole nazionali fino in fondo?

Il sommerso certificato dall'Istat, del resto, non risulta diminuito per effetto del tetto al contante, e questo purtroppo non è mai avvenuto quantomeno dal 2000 in poi, nonostante le variazioni al limite di circolazione, mentre per Razzante "sull'abitudine a richiedere scontrini e fatture a fronte dei pagamenti effettuati si dovrebbe aprire un capitolo a parte, che impatta poco sulla tipologia di mezzo di pagamento utilizzato". E del resto anche in letteratura economica c'è consenso sul fatto che la correlazione tra pagamenti in contante e evasione può essere colta solo a livelli altissimi e non riguardanti le spese ordinarie dei cittadini. La soglia di 10mila euro di Malta, "Tortuga" dell'elusione e in cui in passato nei settori ove ha stretto vigeva la più totale anarchia. Non per ogni bene: anche perché, e questo vale per l'Italia, sono ben pochi i cittadini chiamati a avere effettive opportunità di spesa in più a prescindere che la soglia sia di 2mila o di 10mila euro. Il vero portato della legge proposta dalla Lega avrà infatti, qualora la proposta divenisse realtà, più impatti ideologici e di metodo che risvolti concreti.

Il vero problema: l'elusione dei giganti senza tasse

La questione che si può porre, e che è sempre evitata nei dibattiti sull'evasione fiscale, è il fatto che penalizzare i contanti in nome di una crociata fine a sé stessa non aiuta a cogliere il vero punto del problema. E cioè che non è l'economia sommersa, in Italia quantificabile tra il 10 e il 15% del Pil, la massima fonte di evasione fiscale, quanto le pratiche di elusione praticate soprattutto dai grandi gruppi multinazionali.

Tutto ruota intorno ai diversi trattati stipulati dall’Italia in passato al fine di evitare a un’azienda di dover pagare le tasse in due Paesi differenti ma che hanno stipulato l’accordo. Su cui si può giocare con la strategia di trasferire la sede fiscale, che è solo uno degli artifici a disposizione. Come ha spiegato Milena Gabanelli su Dataroom del Corriere della Sera, infatti, la seconda manovra possibile è quella del cosiddetto transfer pricing: ” transazioni economiche (spesso fittizie) all’interno di un gruppo multinazionale (come prestiti, cessione di marchi o brevetti, servizi assicurativi), il tutto gestito da una controllata che ha sede in un paradiso fiscale”.

Infine, terza e ultima strategia è quella estremamente aggressiva sfruttata dai giganti del web in Europa: fatturare nel Paese “di comodo” tutti i ricavi di un’area geografica e contribuire così a creare quella posizione dominante contro cui più volte le autorità europee si sono lanciate senza cambiare le carte in tavola. Prima del Covid la concorrenza fiscale sleale generava evidenti vantaggi per taluni Paesi: il Lussemburgo, paese di circa 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del PIL, a fronte del 2% dell’Italia; e in virtù del sistema fiscale penalizzante l’Italia attira investimenti esteri diretti pari al 19% del PIL; il Lussemburgo pari a oltre il 5.760%, l’Olanda al 535% e l’Irlanda al 311%.

Tutte queste problematiche sono ben più complesse e difficili da risolvere di quanto si vorrebbe fare colpendo unicamente il tetto al contante. Battaglia che, aveva ragione Padoan, è ideologica, ma non da sottovalutare, in quanto capace di affermare una linea di controllo delle risorse da parte della cittadinanza che lavora e produce, sottraendola ai circuiti immateriali che proprio del rapporto di dipendenza degli utenti si nutrono per conquistare posizioni dominanti. Ma che al contempo, ovviamente, non c'entra con le strategie di primo piano per combattere elusione e sommerso, che passano per partite ben più grandi.

La famiglia Borsellino: “Giorgia Meloni può ricordare Paolo a buon diritto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Ottobre 2022  

Il marito di Lucia Borsellino, l'avvocato Fabio Trizzino: "Ho visto con i miei occhi una giovanissima Giorgia Meloni partecipare più volte alla fiaccolata"

“Ho visto con i miei occhi una giovanissima Giorgia Meloni partecipare più volte alla fiaccolata in onore di Paolo Borsellino. A buon diritto può dunque ricordare la figura di Paolo Borsellino, il cui migliore amico, il professore Giuseppe Tricoli, è stato un grande esponente politico siciliano dell’allora Msi”. Lo ha detto Fabio Trizzino, avvocato della famiglia Borsellino, ma anche marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore del magistrato, parlando all’ Adnkronos a nome della famiglia del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio. 

Durante le dichiarazioni programmatiche, Giorgia Meloni ieri aveva affermato che “la legalità sarà la stella polare dell’azione di governo. Ho iniziato a fare politica a 15 anni, il giorno dopo la strage di Via D’Amelio, nella quale la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino, spinta dall’idea che non si potesse rimanere a guardare, che la rabbia e l’indignazione andassero tradotte in impegno civico. Il percorso che mi ha portato oggi a essere Presidente del Consiglio nasce dall’esempio di quell’eroe”. Il premier ha poi aggiunto: “Dopo aver accettato il mandato, arrivando a Montecitorio per incontrare il presidente Lorenzo Fontana mi sono imbattuta, alla fine dello scalone, nella foto di Borsellino, ed è stato come se si chiudesse un cerchio“. Redazione CdG 1947

Così Meloni ha distrutto l’egemonia culturale della sinistra. I primi passi del nuovo governo lasciano annichilite le opposizioni. L’asse Meloni-Salvini. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 27 Ottobre 2022.

Son bastati i primi, pochi passi ufficiali del governo Meloni, e il”castello di sabbia” messo su in tutti questi anni di egemonia culturale dalla sinistra è crollato come d’incanto. Quelli che erano automatismi mentali e verbali, tic di pensiero, totem e correlativi tabù, affermazioni forti acclamate come granitiche verità non discutibili ma in verità mai ragionate e argomentate, sono stati semplicemente smontati. In maniera così radicale e semplice (la verità non è mai complessa) da lasciare atonica, afona, al massimo ridotta a ripetere senza convinzione e timidamente qualche slogan del passato, la sinistra di opposizione.

Si pensi un attimo al gioco di squadra fra Meloni e Salvini che ha letteralmente spiazzato e messo in crisi ieri Letta e compagni. Quando di buon’ora il segretario della Lega ha annunciato che il governo avrebbe innalzato a diecimila euro il tetto d’utilizzo del contante, già la macchina propagandista si era messa in moto per segnalare colpi di mano che avrebbero irritato la Meloni e indebolito il governo che tutto era fuorché coeso. Una bufala! Passate poche ore, non solo la Meloni confermava le parole del suo vice ma assestava ai sinistri un fendente dei suoi: quello di una presunta correlazione fra uso del contante ed evasione è un falso sillogismo, o un sofisma, sconfessato anche da un esperto della loro parte, Padoan. Ko tecnico!

E che dire del mito della scienza, del “modello Speranza” che aveva guidato la gestione della pandemia e che aveva fatto sì che la sinistra accusasse di irresponsabilità chiunque manifestasse qualche piccola perplessità o un’obiezione. Qui la premier ha affermato che la scienza non può farsi a sua volta religione, ed ha sciorinato le cifre: siamo stati il Paese con le misure più restrittive e lesive delle libertà fondamentali di tutto l’Occidente e nonostante ciò siamo anche uno di quelli che ha registrato più vittime.

E che dire di quell’altra grossa bugia istituzionalizzata per cui il presidenzialismo sarebbe il succedaneo del fascismo, il parto di chi sogna un uomo (in questo caso una donna) solo al comando? Il semplice fatto che esso sia la regola in molte democrazie occidentali taglia la testa al toro. E si può poi affermare che le manifestazioni di piazza contro il pericolo del fascismo siano una palestra di democrazia, mentre vogliono proprio negare agli altri il primo diritto che la democrazia deve per principio tutelare: quello di parlare? Ci piace, in definitiva, questa destra che non è sulla difensiva, che smonta i falsi teoremi di sempre rispondendo per le rime a chi li ripropone, con argomenti inoppugnabili, senza complessi di inferiorità e reverenze mal riposte. E che impone le sue parole e i suoi discorsi. In un attimo tutta la sicumera e l’arroganza della sinistra scompare. E i piedi d’argilla su cui quel colosso si reggeva si sgretolano. Corrado Ocone, 27 ottobre 2022

State al vostro posto ma con orgoglio. Quando nasce un Governo si avverte l’impressione che possano non esserci le persone giuste nella funzione giusta. Michele Mirabella  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022.

Sarà per l’emozione istigata dalla procedura politica per rispettare il dettato costituzionale onde attivare il lavoro del nuovo Parlamento e del nuovissimo Governo, ma sento una sorta di ansia che so condivisa da molti cittadini che aspettano rassicurazioni su una questione che è, insieme, politica e umana. In questi casi, sempre, una sensazione pervade il Paese ed è l’impressione inquieta che possano non esserci le persone giuste al posto giusto. Aspettiamo d’essere rassicurati. Ma il tema è sociologico. Nel vecchio ordinamento spontaneo della civiltà contadina rimpianta e, in verità, oggi poco conosciuta se non per vezzi sociologici, appunto, o coloriture picaresche, ognuno stava al suo posto. Anzi, per meglio dire, ognuno sapeva stare al suo «posto». Questo modo di dire esprimeva ammonimenti mondani, ma, anche, ragguardevoli precetti di buon senso. Sapeva stare al suo posto la persona bene educata che rispettava ruoli e competenze, responsabilità e funzioni aspettandosi altrettanto rispetto dal prossimo. È vero, spesso imporre a qualcuno di saper stare al proprio posto poteva incutere l’imposizione di costringersi nella servitù della gleba, gleba di vario genere, naturalmente, senza speranza di ineludibile redenzione sociale o di promozione di rango. Poteva significare la sacrificata rassegnazione a mantenersi nella classe sociale senza ambizioni di elevazione o di cambio di diritti e doveri. Inaccettabile.

«Stia al suo posto!» era ammonimento perentorio e gerarchico che suonava come imposizione dispotica. In una società rigidamente classista, l’ordine risultava odioso e veniva voglia di cambiarlo, quel posto, se non altro per sfottere il «capoccia», il caporeparto, il capoufficio, il caporale, il padrone. E farlo indispettire. Totò ha insegnato che o si è uomini o si è caporali. Anzi, Totò lo domandava provocatoriamente, dimostrando con lo sberleffo sacrosanto che caporali si resta e gli uomini possono cambiare. Liberamente. E, forse, caporali in metafora, si nasce, uomini si diventa. Con tutto il rispetto affettuoso per i caporali in divisa che sono lì, in uniforme, per servire la Patria.

Per questo, oggi, mi piace pensare che gli uomini possano, e debbano, saper stare al proprio posto non nel senso della costrizione fatale nel ruolo appiccicato addosso da altri, ma con l’orgoglio della funzione e del compito. Quel che lamento con rabbia e inquietudine è la scarsa o inesistente competenza in quella funzione e in quel compito. Questo si contempla spesso, ed è quel che fa più rabbia, con l’alibi dell’eterno praticantato, dell’entusiasmo tutto italico per l’improvvisazione. Italica, poi, la capacità spasmodica nell’inventare titoli da biglietto da visita per nobilitare da felloni le incompetenze ridicole e le giulive approssimazioni. La fantasia non manca e si va da «addetto alle relazioni esterne» a «responsabile della gestione delle risorse artistiche medio alte» da «ideativi per il customers service» a «attorney at call center». Dove non arriva il contorcimento linguistico e ipocrita della lingua italiana capace, parlata dagli sciocchi, di diventare un alibi poderoso, aiuta il maltrattamento dell’Inglese.

Sono molte le mansioni misteriose che servono a garantire il salario a chi non sa cosa fare e teme, comunque, di fare qualcosa che somigli ad un lavoro. È la vecchia teoria che sostiene sia molto meglio trovare un posto piuttosto che un lavoro. Se, poi, è un posto di lavoro, bisognerebbe saper fare quel lavoro. Ed quella, si, è, una fatica. Un tempo scansare accuratamente i lavori che esigono fatica fisica o intellettuale era privilegio dei frequentatori dei potenti e della galassia della politica e dell’amministrazione pubblica che, nel nostro Paese, è vergognosamente smisurata con punte paradossali nell’impresa culturale. Oggi la legge sul reddito di cittadinanza, talora astutamente applicata, aiuta nel disbrigo delle furberie e istituzionalizza il saper restare al proprio posto di nullafacente senza cercarne uno di lavoro.

Bernard Shaw diceva che «se uno una cosa la sa fare la fa, altrimenti la insegna». Se fosse campato abbastanza per fare una scampagnata in Italia, avrebbe potuto lasciar beare il suo grande spirito iconoclasta registrando quel che succede, per esempio in certe Università pubbliche e private, con qualche amplificazione in queste ultime, riguardo alla nascita di nuovi insegnamenti, cattedre, potentati accademici. È un quadro pittoresco e ridicolo. Si arriva ad istituire corsi di laurea in discipline marginali e insignificanti che potrebbero essere comodamente assorbite da corsi di laurea veri e consolidati di più ampio respiro. Discipline bizzarre e cervellotiche inventate, spesso, per far posto all’istituzione di cattedre, cadreghini, contratti, sinecure accademiche al limite del grottesco. Il tutto sottraendo risorse alla ricerca vera e all’autentico studio. Facoltà e insegnamenti per laureare «caporali» che non saranno mai persone giuste al posto giusto, ma persone inutili in posti inventati. Loro sì che hanno tutto l’interesse a stare al proprio posto. Sempre meglio che lavorare.

Decreto approvato dal Cdm. Stop obbligo vaccino per sanitari, restano mascherine in ospedali e Rsa. Elenco dei 31 sottosegretari (8 viceministri). Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Ottobre 2022

Il governo ha approvato anche la lista dei viceministri e sottosegretari. Il presidente Meloni: ""Ho fatto il possibile utilizzando criteri di esperienza parlamentare oltre che nel settore specifico". L'elenco dei nominati. La conferenza stampa in diretta del premier Meloni

Verrà anticipata la scadenza dell’obbligo vaccinale per chi esercita la professione sanitaria, compresi quindi medici e infermieri, dal 31 dicembre 2022 al 1° novembre 2022. Lo prevede la bozza del decreto Covid-Giustizia che, secondo quanto si apprende, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri. Sarà prorogato l’obbligo di mascherine in ospedali, Rsa e ambulatori, secondo la nuova ordinanza che sarà firmata a breve dal ministro della Salute, Orazio Schillaci. L’obbligo, che scade oggi, dovrebbe restare in vigore fino al 31 dicembre di quest’anno.

Bozza Decreto Giustizia. Slitta al 30 dicembre l’entrata in vigore del decreto legislativo di riforma del processo penale, originariamente, prevista per domani, secondo quanto dispone la bozza del decreto legge. Lo slittamento è stato disposto, come è stato spiegato da fonti del Governo, per garantire l’impatto ottimale della riforma sull’organizzazione degli uffici giudiziari, accogliendo anche la richiesta di 26 procuratori generali che, in una lettera al ministro Carlo Nordio, hanno messo in evidenza i problemi e le difficoltà interpretative delle norme, in assenza di una disciplina transitoria, soprattutto per la parte relativa alle indagini preliminari. Il rinvio, hanno chiarito le stesse fonti, rispetta comunque le scadenze del PNRR, che prevede che la riforma sia attuata entro la fine dell’anno.

L’accesso ai benefici penitenziari, inoltre, si legge sulla bozza del decreto legge, per i condannati per reati di mafia e terrorismo è possibile “anche in assenza di collaborazione con la giustizia” se è avvenuta una “riparazione pecuniaria” del danno alle vittime e se è stata dimostrata la cessazione dei collegamento con la criminalità organizzata attraverso “elementi specifici“.

Rave party: reclusione, multe salate e confische

Reclusione da 3 a 6 anni, multe da 1.000 a 10.000 euro e si procede d’ufficio “se il fatto è commesso da più di 50 persone allo scopo di organizzare un raduno dal quale possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica incolumità o la salute pubblica“. È quanto si legge nella bozza del decreto legge all’esame oggi del Consiglio dei ministri – composta di 9 articoli e che riguarda anche norme in materia di giustizia e di Covid – nella parte che riguarda il contrasto ai rave party. In caso di condanna, “è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e di quelle utilizzate per realizzare le finalità dell’occupazione”.

Il consiglio dei ministri ha approvato la nomina dei sottosegretari e dei viceministri. È quanto si apprende al termine del Consiglio dei ministri. Bruno Frattasi è stato nominato nuovo prefetto di Roma. Frattasi, fino a oggi capo di gabinetto del Viminale con l’ex ministro Lamorgese, succede all’ex prefetto Matteo Piantedosi, nominato ministro dell’Interno del governo Meloni. Il Governo Meloni ha nominato 8 viceministri e 31 sottosegretari.  Le donne sono 13 su 39. Fratelli d’ Italia ha 18 caselle, la Lega 11, Forza Italia 8, Noi Moderati 1 e poi c’è Vittorio Sgarbi. 

Queste le nomine di Governo:

Sottosegretari alla Presidenza del consiglio

Alessio Butti (Fratelli d’ Italia) all’ Innovazione;

Giovanbattista Fazzolari (Fratelli d’ Italia) all’ Attuazione del programma;

Alberto Barachini (Forza Italia) all’ Editoria;

Alessandro Morelli (Lega) al Cipe;

Esteri

Edmondo Cirielli (Fratelli d’ Italia) viceministro

Giorgio Silli (Noi Moderati)

Maria Tripodi (Forza Italia)

Interni

Emanuele Prisco (Fratelli d’ Italia)

Wanda Ferro (Fratelli d’ Italia)

Nicola Molteni (Lega)

Giustizia

Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) , viceministro

Andrea Delmastro Delle Vedove (Fratelli d’ Italia)

Andrea Ostellari (Lega)

Difesa

Isabella Rauti (Fratelli d’ Italia)

Matteo Perego (Forza Italia)

Economia

Maurizio Leo (Fratelli d’ Italia) viceministro

Lucia Albano (Fratelli d’ Italia)

Federico Freni (Lega)

Sandra Savino (Forza Italia)

Mise

Valentino Valentini (Forza Italia) viceministro,

Fausta Bergamotto (Lega)

Massimo Bitonci (Lega)

Mite

Vannia Gava (Lega) viceministro

Claudio Barbaro (Fratelli d’ Italia)

Agricoltura

Patrizio La Pietra (Fratelli d’ Italia)

Luigi D’Eramo (Lega)

Infrastrutture e trasporti

Edoardo Rixi (Lega) viceministro, .

Galeazzo Bignami (Fratelli d’ Italia)

Tullio Ferrante (Forza Italia)

Lavoro e politiche sociali

Maria Teresa Bellucci (Fratelli d’ Italia)

Claudio Durigon (Lega)

Istruzione

Paola Frassinetti (Fratelli d’ Italia)

Università e ricerca

Augusta Montaruli ((Fratelli d’ Italia))

Cultura

Gianmarco Mazzi (Fratelli d’ Italia)

Lucia Borgonzoni (Lega)

Vittorio Sgarbi (Rinascimento) 

Salute

Marcello Gemmato (Fratelli d’ Italia)

Rapporti con il Parlamento

Giuseppina Castiello (Lega) 

Matilde Siracusano (Forza Italia)

La conferenza stampa odierna ha segnato anche l’ingresso nello staff della comunicazione del presidente del Consiglio, guidato dalla storica portavoce di Giorgia Meloni, Giovanna Ianniello, di Fabrizio Alfano, nel ruolo di capo ufficio stampa. Capo del servizio politico dell’Agenzia Italia, e stimatissimo tra i colleghi, Alfano è stato il portavoce di Gianfranco Fini quando ricopriva la carica di presidente della Camera.

Il caso. Meloni si inchina a Gratteri: vigliaccata a Mangialavori che resta fuori dal governo. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'1 Novembre 2022 

Non è colpa della società corrotta e impunitista se bisogna dare il credito che merita (nessuno) alle invocazioni di specchiatezza e onestà fondate sulle vaghe dichiarazioni di un pentito, o sul colpevolismo giacobino che affibbia a un politico la responsabilità di sodalizi criminosi perché in una sua azienda era impiegata la figlia di un boss (concorso in assunzione parentale, pressappoco).

Eppure, a meno di novità che probabilmente non mancheranno di aggiungersi, pare che siano questi gli impedimenti che si frappongono alla nomina a sottosegretario di un parlamentare calabrese di Forza Italia, Giuseppe Mangialavori. Del quale francamente noi non sappiamo nulla, salvo che non è indagato (il che dovrebbe dire qualcosa, se non si vuol credere che sia l’ennesimo colpevole che la sta facendo franca), e salvo che, come riferisce il Fatto Quotidiano, il suo nome è comparso “nelle carte degli inquirenti coordinati dal procuratore Nicola Gratteri” (il che, vista l’identità del coordinatore, non proprio recordman di indagini azzeccate, e vista la fonte che ne riporta le gesta, dice molto più che qualcosa).

Inutile precisare che questo politico potrebbe essere in ipotesi il peggior manigoldo, come i tanti che in ipotesi avrebbero potuto esserlo ma, pur non essendolo, sono stati mascariati da vociferazioni inidonee a provare alcunché ma ottime per rovinare irrimediabilmente una reputazione e una carriera.

Ma leggere i giornali che se ne sono occupati (Repubblica scrive che “il suo nome compare negli atti giudiziari”, urca, e che “la trasparenza può attendere”, caspita) significa assistere alla solita, mille volte vista operazione di turbativa civile e politica, che ripropone sempre lo stesso modulo allusivo, sempre la stessa grammatica screditante e parecchio vigliacca, sempre la medesima trascuratezza in nome – inutile dirlo – del diritto dei cittadini a essere informati: un diritto soddisfatto dall’accusa in prima pagina e dall’assoluzione tra le notizie sul meteo, col dettaglio che qui siamo addirittura a un passo indietro, manco all’accusa ma solo al chiacchiericcio da sottoscala di procura della Repubblica, la roba da bar ammantata di improbabile lustro da giornalismo d’inchiesta.

Chissà che venga prima o poi un giorno in cui l’informazione dimostrerà di saper lavorare al contrario, facendo le pulci alle verità emergenti “dalle carte” anziché farne veline in favore della compiacenza giustizialista. Iuri Maria Prado

Marco Grasso per “il Fatto quotidiano” l'1 novembre 2022.

La condanna è arrivata nel dicembre del 2021: un anno e 7 mesi per peculato, nell'ambito dell'inchiesta sulle spese pazze della Regione Piemonte. All'epoca dei fatti, Augusta Montaruli era consigliera regionale di maggioranza nel Pdl, negli anni in cui la giunta era guidata dall'ex governatore leghista Roberto Cota (2010-2014). 

Dopo l'elezione in Parlamento con Fratelli d'Italia nel 2018, la "pasionaria" della destra torinese entra adesso nel governo Meloni come sottosegretaria all'Università. Un incarico che arriva a pochi mesi dall'ultimo strascico giudiziario della rimborsopoli piemontese: una sentenza d'appello bis in cui i magistrati hanno confermato le condanne nei confronti di molti dei politici coinvolti. 

Per i giudici quello scoperto dalla Procura di Torino era un sistema che si fondava su un "tacito accordo", "spartitorio" e "criminoso", e su "una scelta cosciente e volontaria" basata sulla "reciproca conoscenza dell'illegittimità dei rimborsi". E si fondava sull'aspettativa che non vi fosse alcun controllo.

A proposito di Montaruli, i giudici rimarcano: "Se quest' ultima avesse avuto anche soltanto il timore di incorrere in un minimo controllo da parte del soggetto, che istituzionalmente era il garante della corretta destinazione del fondo destinato al gruppo, certamente si sarebbe astenuta dal proporre a rimborso spese non solo del tutto non inerenti alle finalità del gruppo, ma decisamente stravaganti ed eccentriche rispetto a dette finalità".

Estratto dell’articolo di Andrea Giambartolomei per ilfattoquotidiano.it l'1 novembre 2022.  

Due cristalli Swarovski, una borsa Borbonese, storico marchio di moda torinese, tantissimi scontrini di ristoranti, pub e bar, scontrini “a catena”, battuti nello stesso locale nel giro di pochi minuti, oppure fatti quando lei, però, altrove. 

Sono alcune delle spese per cui Augusta Montaruli, la nuova sottosegretaria all’Università e alla Ricerca in quota Fratelli d’Italia, è finita nell’inchiesta Rimborsopoli della Regione Piemonte, un procedimento per il quale nel dicembre 2021 è stata condannata a un anno e sette mesi di reclusione per peculato. aspetta la Cassazione.

[...] In appello, i pubblici ministeri rilanciano le loro accuse e la Corte d’appello dà una valutazione diversa dal tribunale, così Montaruli viene condannata per peculato per essersi fatta rimborsare spese per un totale di 25mila euro circa: 20mila euro di bar e ristoranti, il corso per i social network, borse, Swarovski e i libri Mia suocera beve e Sexploration, “di cui non si coglie il nesso con l’evento letterario sulla violenza sulle donne, stranamente organizzato in notturna”, si legge nelle motivazioni. 

Nel novembre 2019 la Cassazione conferma l’impianto delle accuse, fatta eccezione per un dettaglio minore, ragione per cui ha ordinato un secondo processo in corte d’appello che il 14 dicembre 2021 ha confermato la condanna a un anno e sette mesi.

Letizia Tortello per lastampa.it – articolo del 26 marzo 2016

«Sexploration». L’esperienza del sesso che fa divertire le coppie stanche e annoiate. Edizione Mondadori, allegate istruzioni per l’uso. Un testo senz’altro «hard» da far passare come attività istituzionale per un consigliere regionale. Eppure, qualcuno ci ha provato. L’ha letto in privato, molto in privato. 

L’ha messo in conto alla Regione Piemonte, per farselo pagare con soldi pubblici. Il libretto libertino, i pm di Torino Enrica Gabetta e Giancarlo Avenati Bassi l’hanno citato l’altro giorno nella loro requisitoria, nell’ambito del processo sulle «spese pazze» della Regione, come uno degli scontrini incredibili di cui i politici hanno voluto il rimborso. 

Si è poi scoperto che sarebbe stata l’ex consigliera eletta nel Pdl, Augusta Montaruli, a chiedere di farlo passare come spesa istituzionale. Lei si difende: «È tutto da provare che quel volume sia mio. Ma non è chissà che libro...».

I pm parlano di un manuale «hot» tra i suoi rimborsi. Le sembra il caso di far pagare ai contribuenti un oggetto del genere?

«Quello scontrino non è nelle mie contestazioni, nell’elenco dei 41 mila euro che i magistrati mi hanno imputato. Lo tirano fuori ora che la fase istruttoria è chiusa. I procuratori sono in difficoltà rispetto alla mia posizione, usano questo colpo basso proprio ora». 

Colpo basso proprio ora? Vuole candidarsi alle comunali di Torino?

«Fino alla fine di questo procedimento giudiziario non cerco un posto istituzionale. L’ho detto». 

Tornando al libro hard, è agli atti del processo. Questo non può negarlo.

«Per me, il dato importante è che hanno tirato fuori la spesa adesso, ho appreso l’altro ieri dello scontrino, non mi posso più difendere nel merito. Il magistrato, comunque, su questo rimborso, non ha fatto il mio nome in aula».

Però il libro l’ha comprato?

«Non rispondo in questa fase e a questa domanda, tantomeno ai giornalisti. Quando parleranno i miei avvocati, parleranno di tutto. Però mi scusi...». 

Ci dica...

«Se una procura ha visto quello scontrino lì e non me l’ha contestato... Mi avevano affibbiato anche un acquisto in gioielleria, poi non era vero. La verità è che alla fine del dibattimento non hanno niente in mano, se non le loro suggestioni. Questo è un processo mediatico. Le procure non dovrebbero comportarsi così». 

Com’era allora questo libro pagato dai piemontesi? Le è piaciuto?

«Non rispondo. Qui la danneggiata sono io». 

Lei?

«Sì, è una mossa per screditarmi. Comunque non mi sembra un libro di chissà che tipo eh? Dimostra il bigottismo della società in cui viviamo. Se me lo contestano, dimostrerò che era riconducibile all’attività istituzionale». 

Quindi un manuale di «giochi erotici» secondo lei è una spesa istituzionale?

«Guardi, se è per questo il Comune finanzia libri che parlano di transgender. Va tutto bene lì vero?». 

Transgender? Le paiono sullo stesso piano?

«Sì, libri sui transgender distribuiti nelle scuole e pagati dal Comune, non mi sembra che qualcuno sia imputato per questo».

Estratto dell’articolo di Ilaria Proietti per “il Fatto quotidiano” l'1 novembre 2022.

Alla fine valeva la pena far il diavolo a quattro e minacciare sfaceli: con gli incarichi di sottogoverno, Silvio Berlusconi fa il pieno mettendo nelle mani fidate dei suoi fedelissimi ciò che gli è più caro. 

Ecco allora Valentino Valentini, uomo che per conto suo teneva i rapporti con Mosca, planare come viceministro al ministero dello Sviluppo che oggi si chiama delle imprese e del Made in Italy, ma la sostanza non cambia perché sempre lì sono le deleghe su frequenze e tv.

[…] Ma B. comunque incassa acchiappando come se non ci fosse un domani: Alberto Barachini, che nella scorsa legislatura aveva piazzato a presiedere la commissione di vigilanza Rai, ossia vigilare sulla concorrenza, ora sarà il nuovo sottosegretario all'Editoria. 

[…] E la giustizia? Idem come sopra: confermato, anzi promosso Francesco Paolo Sisto che era già sottosegretario in Via Arenula col Governo dei Migliori, e ora affiancherà da viceministro il guardasigilli Carlo Nordio imposto da Giorgia Meloni all'ex Cavaliere che rivendicava per sé la casella: per piazzarci Maria Elisabetta Alberti Casellati pronta a giurare che sì Ruby rubacuori era davvero la nipote di Mubarak. O lo stesso Sisto, che di Berlusconi è stato difensore nel processo escort in salsa pugliese.

[…]  Ma se Licia sorride, Marta è proprio contenta, perché tra gli incarichi di sottogoverno si è trovato uno strapuntino di lusso pure per Matteo Perego di Cremnago, amico suo (oltreché di Luigi Berlusconi), recuperato come sottosegretario alla Difesa. 

[…]  Ma Lady Fascina ha ottenuto, a dispetto delle promesse che erano state già fatte ad altri, come lamenta il consigliere campano Massimo Grimaldi, la nomina a sottosegretario (alle Infrastrutture) di Tullio Ferrante. Un suo compaesano nonché vecchio compagno di banco. […]

DAGOREPORT l'1 novembre 2022.

Il primo atto della marcia su Palazzo Chigi di Giorgia Meloni all’insegna a noi il potere è l’ukase vergato dal nuovo segretario, il consigliere di Stato Carlo Deodato, in cui si intima che la nuova inquilina dovrà essere chiamata “signor presidente” e non presidentessa come imporrebbe la stessa lingua italiana. 

Si tratta soltanto di una infelice questione lessicale (gaffe) o si tratta di mostrare pure gli attributi (maschili) della Meloni? E come la mettiamo con l’appellativo inglese premier? Il premier e la premier Meloni? Ah saperlo!  

Non si fa cenno nell’editto ai castighi (escluso l’olio di ricino che richiamerebbe il ripudiato regime) in cui andranno incontro chi (usceri, funzionari, personale della sicurezza) non si atterrà alla circolare che, purtroppo, non è una fake news ma segnala una certa aria punitiva che starebbe attraversando la sede del governo. 

L’altro giorno gli addetti all’ufficio stampa sono stati invitati, su due piedi, a lasciare le proprie scrivanie e a tornarsene a casa. Senza neppure una giustificazione o un grazie. 

Parlare di epurazione è forse sbagliato, ma la circolare dello zelante Deodato, subito rimesso in riga dalla diretta interessata: “chiamatemi pure Giorgia” rischia di essere l’aratro che traccia il solco (nero) della nuova premier Meloni.

Ps. Nei suoi Diari Giulio Andreotti ricorda che al presidente della Repubblica del tempo, Luigi Einaudi, fu detto che Clare Luce potente rappresentante in Italia degli Usa, doveva essere chiamata ambasciatore, ma lui si rifiutò facendo osservare: “al capo dello Stato si possono chiedere tutti i sacrifici, ma non quello della lingua italiana”.

Flavia Amabile per “La Stampa” l'1 novembre 2022.

Il primo atto di Galeazzo Bignami, dopo la nomina a viceministro alle Infrastrutture e Mobilità Sostenibili, è stato di prendere le distanze dall'immagine che gira da anni sui social dove è in camicia e cravatta nera e al braccio sinistro porta una fascia rossa con la svastica nazista. 

«Una goliardata», l'ha definita lui più volte, una foto scattata per scherzo durante un addio al celibato. È il 2005 quando Bignami si veste con i colori e i simboli delle SS. 

Ha trent' anni suonati, l'età della goliardia dovrebbe essere superata da un pezzo e lui ha già collezionato i primi ruoli politici: consigliere comunale e presidente della commissione Bilancio del comune di Bologna - la sua città - e segretario regionale di Azione Giovani, il movimento dei giovani di An, una vita a destra, come il padre, un pilastro della destra bolognese.

Ora Bignami si affaccia alla politica nazionale. È diventato il numero due del ministero guidato da Matteo Salvini, un premio per la costante opera di travaso di voti dalla Lega a Fratelli d'Italia che lo ha portato a diventare campione di preferenze della destra alle comunali e alle regionali. 

Giorgia Meloni lo considera uno dei suoi luogotenenti più fidati e gli ha affidato il compito di marcare proprio il segretario della Lega. 

La foto del 2005, però, torna alla ribalta e continua a creargli imbarazzo soprattutto nei rapporti con la comunità ebraica. Ieri Bignami ha sentito il dovere di prendere ancora una volta le distanze e ricordare la sua «ferma e totale condanna dell'antisemitismo».

«Consegnare di me una rappresentazione grottesca, denigratoria, vergognosa è solo frutto di una strumentalizzazione politica che non accetto», dice. 

Ricorda di essersi già scusato in passato «per essermi prestato a immagini inaccettabili riferite ad una delle pagine più buie dell'umanità. Provo profonda vergogna per quelle immagini e, comprendendone da tempo la gravità, non posso che rinnovare quelle scuse». 

Nel curriculum di Bignami però non ci sono soltanto i simboli delle SS. Nel 2019 insieme a Marco Lisei - amico fraterno, quasi coetaneo, bolognese, una lunga carriera in Fratelli d'Italia che lo ha portato ora in Senato - pubblicò un video su Facebook mentre indicava sui campanelli i nomi degli stranieri che vivevano in una casa popolare, precisando che «non ce ne frega nulla» della privacy.

Fu lo stesso denunciato al Garante della Privacy per aver esposto alla gogna social i residenti delle case popolari ma a lui non importa, combatte sempre le battaglie in cui crede. 

Un'altra causa che difende senza ambiguità è la denuncia dei crimini commessi dai partigiani. Ha sostenuto e difeso Gianfranco Stella nella presentazione di un libro che raccontava un'altra storia della Resistenza. 

«Revisionismo senza alcuna base storica», fu il giudizio dell'Anpi locale. E in tribunale Stella è stato condannato più volte per diffamazione senza prove. Ma non sono questi dettagli a fermare Bignami. Lui le sue battaglie le combatte comunque.

Da nextquotidiano.it l'1 novembre 2022.

Non sono fascisti, ma… condividevano sui social i pensieri di Benito Mussolini e di Leon Degrelle. Le nomine dei viceministri e dei sottosegretari del nuovo governo Meloni hanno provocato molte polemiche. Si è già abbondantemente parlato della scelta di Galeazzo Bignami scelto come vice di Salvini alle Infrastrutture.

Così come è stato detto tutto quel che c’era da dire sulla figura di Claudio Durigon (Lega). Ma dagli archivi social di altri due esponenti di Fratelli d’Italia che hanno ricevuto – nella giornata di ieri – un incarico istituzionale nei vari dicasteri, ecco emergere altre pubblicazioni che potremmo definire, per usare un eufemismo, alquanto controverse. I due protagonisti sono Andrea Delmastro delle Vedove ed Edmondo Cirielli. 

Delmastro Cirielli, le cit nazifasciste dei nuovi viceministro e sottosegretario

Il primo, Delmastro, è stato scelto da Giorgia Meloni per ricoprire il ruolo di sottosegretario al Ministero della Giustizia. E nel 2010, quando era giovane ma non più giovanissimo (aveva appena compiuto 34 anni) decise di celebrare il suo compleanno sui social condividendo una frase attribuita (come riporta la firma “in calce” alla suo post) a Léon Joseph Marie Ignace Degrelle, un politico dell’estrema destra nazionalista belga alla guida delle Waffen SS (uno dei corpi che facevano riferimento alle SS naziste tedesche) fino alla fine della guerra. Insomma, uno di quei personaggi che andrebbero ricordati solo per evitare che gli orrori di quella pagine di storia non si ripetano mai più, non sicuramente per delle frasi da condividere sui social.

Ma oltre al nuovo collaboratore di Carlo Nordio al Ministero della Giustizia, anche l’appena nominato viceministro agli Esteri – Edmondo Cirielli (sempre di Fratelli d’Italia), non perse l’occasione per arricchire il suo profilo Facebook con pensieri mussoliniani. 

Quella card social, con la citazione e il mezzobusto impettito di Benito Mussolini ad accompagnarla, è stata pubblicata sul profilo social del nuovo viceministro agli Esteri nel 2016, quando aveva 52 anni. Insomma, nessun “errore di gioventù”, come spesso vengono etichettate queste fuoriuscite nostalgiche da chi tenta di arrampicarsi sugli specchi del giustificazionismo. 

E poi ci sono Bignami e Durigon

Oltre al duo Delmastro Cirielli, come detto, le polemiche non sono mancate neanche attorno alle nomine di Galeazzo Bignami (Viceministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile) e Claudio Durigon (Lavoro e Politiche Sociali).

Il primo decise di vestirsi da nazista, con tanto di svastica sul braccio, in occasione di un addio al celibato; il secondo, invece, divenne il grande protagonista di una polemica a Latina (poi diventata oggetto di cronaca nazionale) quando voleva intitolare un parco ad Arnaldo Mussolini (fratello minore del duce) e non a Falcone e Borsellino. 

E a tutto ciò aggiungiamo quel che rimarrà nella storia della Repubblica italiana: l’elezione a Presidente del Senato di Ignazio Benito La Russa, l’uomo che nella sua casa di Milano colleziona – e ostenta con grande giubilo e soddisfazione – i cimeli fascisti e i busti di Benito Mussolini.

(ANSA l'1 novembre 2022) - "Sono entrato in quota me stesso", dice in un'intervista a Repubblica Vittorio Sgarbi, neosottosegretario alla Cultura: "Noi Moderati ha fatto alcuni nomi, ma Meloni ha pensato di dare a Lupi solo un posto da sottosegretario, dicendo che se ne voleva due, uno avrebbe dovuto essere Sgarbi. Un riconoscimento alla questione del merito che lei ha sollevato". 

"Non sono mai stato di destra, sono un anarchico - sottolinea -. E in questo governo sono un plus". "Bisogna conservare, non spostare, alterare, sconvolgere, distruggere": intervistato anche dal Corriere della Sera, Sgarbi indica "la conservazione" come strategia. 

Ad esempio, "non puoi mettere al posto dei muretti a secco il fotovoltaico. Così come non puoi distruggere la Tuscia mettendo al posto della vite e dell'ulivo i campi fotovoltaici. Ci sono principi fondamentali che vanno rispettati. Occorre conservare nel modo più totale, più radicale possibile. Che poi nell'ambito dei beni culturali la conservazione ha un'accezione totalmente positiva".

"Al ministero Gennaro Sangiuliano è conservatore nel senso più ideologico mentre io - dice Sgarbi - lo sono nel senso proprio del termine". Come prima cosa, il neosottosegretario alla Cultura intende "restituire dignità alla Pietà Rondanini di Michelangelo che ha dei problemi di allestimento. L'hanno tolta dall'allestimento storico e l'hanno messa in una stanza anonima, volgarissima mancanza di rispetto per un capolavoro". E a Repubblica dice anche che chiamerà Morgan: "Bisogna creare un dipartimento ad hoc per la musica, che deve essere affiancata all'arte, e lui avrà un ruolo".

Periferie, amianto e omicidio Cesaroni. Solita pioggia di commissioni d'inchiesta. I partiti chiedono di poter indagare su tutto, il centrodestra insiste: "Ora fare luce sulla morte del manager Mps David Rossi". Il Pd vuole quella su via D'Amelio, Fdi sulla gestione del Covid. Felice Manti il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.

«Il miglior modo per affossare la verità è farci una commissione d'inchiesta (ride)». Un parlamentare di lungo corso dà un'occhiata alle costituende commissioni d'inchiesta della legislatura numero diciannove: disagio delle periferie, amianto e mancate bonifiche, condizioni di lavoro e fenomeni come la pedofilia, con le inchieste dalla Bassa modenese a Bibbiano passando per il Forteto. Il Pd ne chiede una sull'omicidio irrisolto di Simonetta Cesaroni, di cui si è occupata anche la commissione Antimafia. La Procura a Roma indaga dopo le rivelazioni del criminologo Francesco Lavorino a Frontedelblog. Nei prossimi giorni dovrebbe essere depositata la richiesta di una commissione sui depistaggi dietro la strage di via D'Amelio a Palermo del 19 luglio 1992 dove morì il giudice Paolo Borsellino. Ci sarà sicuramente la commissione d'inchiesta sul Covid, invocata anche dal premier Giorgia Meloni al suo insediamento, per fare chiarezza su chi «si è arricchito illecitamente grazie a mascherine e respiratori» e su come è stata gestita l'emergenza dal governo di Giuseppe Conte.

Secondo le informazioni raccolte dovrebbe essere monocamerale: «Con il taglio dei parlamentari e il caos sulle commissioni permanenti sarebbe impossibile organizzare un calendario», dice chi conosce bene l'Aula. A guidarla un esponente dell'opposizione: plausibile che la presidenza vada a Italia viva-Azione, ma prima bisognerà aspettare il risiko sulle tre commissioni di controllo (Antimafia, Copasir e Vigilanza Rai) tra Pd, Cinque stelle e Terzo polo. Le conclusioni in questo caso potrebbero intrecciarsi con quelle dei pm. A brevissimo infatti la Procura di Bergamo dovrebbe chiudere le indagini per epidemia colposa e omicidio colposo. Si parte dalla mancata applicazione del piano pandemico e la mancata chiusura della Zona rossa tra Alzano e Nembro, che si basa sul report occultato dall'Oms e ritrovato dal consulente dei legali delle vittime della Bergamasca Robert Lingard e sull'analisi del neo deputato Pd Andrea Crisanti, che avrebbe fornito ai pm le prove del rapporto eziologico tra la mancata chiusura e i morti record.

Dal 1951 di commissioni ce ne sono state un'ottantina, con conclusioni molto discusse, dall'omicidio di Ilaria Alpi alla tragedia della Moby Prince fino al rapimento di Aldo Moro o a quella sulla P2, guidata da Tina Anselmi. Sono organi giurisdizionali che si muovono nel perimetro previsto dall'articolo 82 della Costituzione, con gli stessi poteri dell'autorità giudiziaria. Il rischio è che diventino organismi funzionali ad affermare una verità «politica» o a smontare le conclusioni delle indagini giudiziarie, legate da un duplice filo rosso: rapporti tra politica e magistratura e depistaggi realizzati da manine più o meno abili. Il tipico esempio è la strana morte del manager Mps David Rossi.

Due le richieste di commissione già depositate: quella dell'ex presidente della commissione Pierantonio Zanettin di Forza Italia (nella foto), che al Giornale dice «doveroso andare avanti, visti i risultati raccolti», e quella di Walter Rizzetto (Fdi), uno dei più agguerriti componenti della commissione, convinto che le indagini della Procura di Siena - che hanno escluso qualsiasi altra pista diversa dal suicidio - «siano state inficiate da condotte che hanno compromesso l'accertamento dei fatti». L'altra sera lo speciale delle Iene avrebbe ricevuto anche i complimenti di Palazzo Chigi e l'impegno a fare luce in Parlamento su una verità evidentemente fin troppo scomoda pure per i pm. Col rischio di inasprire ancora di più i rapporti tra esecutivo e magistratura.

Arrivati a tre repubbliche i problemi sembrano tornare e somigliarsi. Per una volta, forse la prima – ma non c’è dubbio che quello appena insediatosi è un governo di «prime volte» - più delle nomine fanno discutere le denominazioni. Pino Donghi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Novembre 2022

In principio era il verbo, e se le parole contano, i fatti dovrebbero conseguire. Per una volta, forse la prima – ma non c’è dubbio che quello appena insediatosi è un governo di «prime volte» - più delle nomine fanno discutere le denominazioni. Merito, sovranità, natalità, mare e made (in Italy)… l’impressione, almeno di chi scrive, è che si tratta di furbate semantiche, ma starò, staremo a vedere. E non perché mi iscrivo al partito del «lasciamoli lavorare»: lo faranno, a prescindere la mia o altrui condiscendenza.

D’altra parte, dall’altra parte, le opposizioni promettono opposizione, ci mancherebbe. Ma non basta, a nessuna: c’è chi la promette dura e anche durissima, chi la annuncia ferma, intransigente e/o responsabile: come se invece fosse possibile manifestarla molle, soffice, mobile e tollerante, o addirittura scriteriata. Altri avvertono che non faranno sconti: del resto chi non avrebbe pensato, dopo il 6 Gennaio, ad una opposizione in saldo?! Da giovanissimo pubblicitario, molti, molti anni fa, mi battevo con i colleghi anziani per eliminare dal documento di presentazione al cliente l’insostituibile premessa «la comunicazione sarà essenziale ed efficace…»: ne avremmo potuto proporre una arzigogolata e inutile? Tautologie. Siamo un paese in cui si parla molto, siamo il paese (ma non il solo) in cui attraversare i binari è «severamente vietato»: l’implicito è che se fosse vietato e basta in verità sarebbe quasi permesso, meglio rafforzare. Le traduzioni in inglese di qualsiasi paragrafo italiano sono, mediamente, un 20% più brevi: sarà un caso? In questi giorni, sulla cronaca di Roma di qualche quotidiano leggo titoli che annunciano la sospensione dell’occupazione della facoltà di Scienze Politiche della Sapienza per le festività d’inizio Novembre: anche la protesta fa il ponte. E fa tenerezza. Quando alla Sapienza ci andavo io – primo a.a. ‘76-’77, un periodo complicato – seguivo e partecipavo dei tumultuosi collettivi di quegli anni di piombo, ma anche le lezioni di Filosofia del Linguaggio di Tullio De Mauro: alle 8 del mattino di ogni Lunedì. Una di quelle mattine, a fine lezione, De Mauro ci invitò a tornare puntuali la settimana seguente; con timidezza – Tullio De Mauro era uno che metteva qualche soggezione – gli annunciai che, con tutta probabilità, l’università sarebbe stata occupata: «Giovanotto! – mi rispose – si ricordi che la rivoluzione non si è mai svegliata prima di mezzogiorno. Vi aspetto settimana prossima, puntuali, alle 8!». Forse facevamo tenerezza anche noi, forse anche a lui. Per lavoro ci siamo incontrati di nuovo, molti anni dopo, e mi raccontò, sorridendo, che nel ‘68, quando era a Palermo, e poi a Roma tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio dei ruggenti ‘80, non aveva mai peso un’ora di lezione. Anche le parole d’ordine della rivoluzione vanno declinate a tempo debito.

«Fatti, non parole» è stato lo slogan d’obbligo per tutti i partiti, per tutta la prima Repubblica: sufficientemente generico, voleva dire tutto e niente e, puntualmente, alle parole non seguivano grandi accadimenti: raramente, comunque, quelli annunciati. Poi, dalla «discesa in campo» in poi è cambiato qualche lemma, e parecchio anche i discorsi, e almeno di quello ce n’era bisogno. Ma non è bastato: il «vaffa» ne è conseguito, per tutti e da tutti. È stato un grande vaffa collettivo, rigorosamente mediatico, a suo modo democratico. Nei fatti, però, arrivati a tre Repubbliche, i problemi sembrano tornare e somigliarsi: il Sud, la disoccupazione giovanile, di nuovo l’inflazione, chi paga le tasse… Nella cacofonia, e a tratti anche nella cafonaggine attuale, ambedue infinitamente amplificate dall’ipertrofia social, urgerebbe in effetti qualche appiglio concreto. Per uno che di comunicazione e nella comunicazione è vissuto e ha lavorato per già una quarantina d’anni, può sembrare paradossale e antistorico, ma la conferma di qualche fatto coniugato alle parole di riferimento rappresenterebbe una novità interessante, un imprevisto capace di eccitare.

Qualche governo fa, uno simile all’attuale, licenziò una campagna informativa promozionale che timbrava con «Fatto!» una serie di provvedimenti, normative, decisioni, che davano seguito ad alcune promesse elettorali. Ma era solo comunicazione, anche quella volta. Il timore di molti è che, con il ritorno di parole dell’altro secolo (del resto, a inizio d’anno, dal ‘900 è rigurgitata una guerra d’antan) ne conseguano i medesimi fatti, o comunque troppo simili per essere sottovalutati. Non lo faremo. Sicché il timore maggiore è che non consegua alcunché e che all’ennesimo annuncio di una politica del fare e di un’opposizione concreta, non seguano altro che vecchie parole dentro vecchi e nuovi format. Con qualche soddisfazione giornalistica: l’infinito chiacchiericcio dei talk show nutrendosi meglio dell’esegesi di ciò che si sarebbe detto più che della verifica di quel che (non) è stato fatto.

Federico Capurso per la Stampa il 13 novembre 2022.

Di fronte all'annuncio di Giorgia Meloni di «nuovi provvedimenti» in cantiere contro le navi delle Ong, Forza Italia risponde con un avvertimento: «Le leggi ci sono già. Facciamo attenzione a non ricorrere a certi facili espedienti come l'inasprimento delle pene, perché rischiamo di ottenere un effetto controproducente, facendo diventare quelli delle Ong dei martiri». E in questo momento di tensioni con Parigi e con l'Europa, sottolinea un dirigente di peso del partito parlando con La Stampa, «è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno». 

Nel partito di Silvio Berlusconi si condivide la linea generale adottata da palazzo Chigi, ma si marcano anche le differenze. La reazione della Francia è stata «spropositata», dice il ministro degli Esteri Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia. «A dir poco sorprendente», aggiunge la presidente dei senatori azzurri, Licia Ronzulli. E le frizioni diplomatiche con Parigi e Bruxelles vengono viste come un problema necessario, quasi un'occasione per trovare soluzioni alternative agli accordi sui ricollocamenti, che non funzionano, e per avanzare una proposta di revisione del trattato di Dublino.

Ma sui modi con cui si è arrivati a tutto questo, si muove un appunto. Berlusconi - come raccontato dal Corriere - non ha apprezzato l'immagine dei migranti lasciati in mare per giorni. Il braccio di ferro con Francia e Ue giocato sulla loro pelle ha gettato un'ombra sulla reputazione internazionale dell'Italia. 

«Ora che il problema delle Ong è sul tavolo - dicono dal partito del Cav -, non c'è più bisogno di comportarsi in questo modo. La prossima volta facciamo scendere subito i migranti, senza tenerli su una nave per due settimane, e facciamoci sentire in Europa».

È un freno, l'ennesimo tirato in queste poche settimane di vita del governo. Una corda che si tende verso il centro, per evitare che il fulcro del governo si sposti troppo a destra. Una tensione leggera e continua, fatta di significativi distinguo su ogni scelta. 

Sui migranti, sui rave, sul superbonus, sulle pensioni: «Serve maggiore condivisione, altrimenti si fanno pasticci», sottolineano da FI. E chiedono che da questo momento si trovi uno strumento per coordinare l'azione del governo. Se non con una cabina di regia tra partiti di maggioranza, almeno nelle riunioni che di consueto precedono i Consigli dei ministri, per evitare di trovarsi ancora di fronte a provvedimenti «scritti male come quello sui rave». 

Matteo Salvini annusa l'aria e, non a caso, fa un richiamo all'unità della coalizione.

Una cosa che di per sé, a venti giorni dalla nascita dell'esecutivo, dovrebbe essere tanto scontata da non far sentire il bisogno di invocarla. E invece, non appena i giornalisti gli chiedono delle tensioni con la Francia, lui risponde a brutto muso: «Se pensano di farci litigare, non hanno capito». Si dice «orgoglioso di quello che sta facendo il governo, da tutti i punti di vista» e «in totale sintonia con quello che il premier Meloni e il ministro Piantedosi stanno portando avanti» sul tema delle Ong. 

Latte e miele. D'altronde, per il leader della Lega, Meloni sta suonando uno spartito conosciuto. Si trova a suo agio. Tra i forzisti, invece, inizia a montare una certa insofferenza. Si aspettando modifiche sul decreto anti-rave, per evitare di allargare troppo le maglie sulle intercettazioni. E anche sul Superbonus edilizio al 110%, che Meloni vorrebbe abbassare al 90%, chiedono che si introduca un periodo transitorio, così da non mettere in pericolo il lavoro e i bilanci di centinaia di aziende edili. E ora, sui migranti. 

Intanto il presidente del Ppe, Manfred Weber, sta giocando di sponda tra palazzo Chigi, la Farnesina del vecchio amico Tajani e Bruxelles, nel tentativo di calmare le acque. Il primo segnale potrebbe arrivare al G20, il 15 novembre. Lì Meloni incontrerà il presidente Usa Joe Biden per un bilaterale, ma non Emmanuel Macron. L'occasione per parlarsi, seppur in via informale, si potrebbe trovare.

Berlusconi e l'incessante controcanto di Forza Italia a ogni scelta di Meloni. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

Dal tetto al contante ai migranti, il partito guidato da Silvio Berlusconi si smarca sempre dal nuovo asse tra Fratelli d'Italia e Lega: è la coda delle tensioni sui nomi dell'esecutivo o l'inizio di una sorta di Vietnam?

Hanno cominciato da subito. E, finora, non hanno mai smesso.

L’innalzamento del tetto al contante? «Non è una priorità».

Il decreto anti-rave? «Va cambiato».

Le modifiche al Superbonus per l’edilizia? «Presentiamo un emendamento».

E persino sull’immigrazione, e cioè sullo spinoso dossier in cui le posizioni sembravano destinate a un allineamento quasi perfetto, è venuto fuori l’approccio morbido di Silvio Berlusconi, che in una cena privata — come ha rivelato Francesco Verderami sul Corriere — ha spiegato ai commensali che «quelle povere persone» imbarcate dalle navi delle Ong andavano «salvate tutte», con buona pace degli sbarchi selettivi decisi dal Viminale prima che esplodesse il caos diplomatico con la Francia.

Il governo guidato da Giorgia Meloni non ha neanche compiuto un mese. Ma nelle tre settimane di presenza sulla scena, con un ritmo scandito dall’asse Fratelli d’Italia-Lega, non c’è stato praticamente giorno in cui Forza Italia si sia astenuta dal controcanto.

A ogni mossa del tandem Meloni-Salvini, una contromossa di Berlusconi.

Sempre, sistematicamente, come una goccia cinese, su tutti i provvedimenti messi in campo; quelli approvati in Consiglio dei ministri, quelli allo studio, quelli visti, rivisti, soltanto annunciati o semplicemente ventilati. Una situazione che ha completamente ridisegnato gli equilibri «geopolitici» interni al centrodestra, arrivato al voto con un solito asse Berlusconi-Salvini in chiave anti-Meloni e uscito dalle urne con un assetto completamente stravolto: Fratelli d’Italia e Lega di qua, Forza Italia sempre e comunque dall’altra parte.

Che sia la coda velenosissima della tormentata composizione della squadra di governo oppure l’anticipo di una sorta di Vietnam parlamentare, questo lo si capirà presto. FI rimane un partito diviso al proprio interno, con il fronte «governista» che ha posizioni diverse rispetto a chi è rimasto a presidiare il Parlamento, certo. Ma, sfumature e voci di scissione a parte, al momento i numeri sono quelli che sono. Tra i banchi di Palazzo Madama, le «Colonne d’Ercole» che storicamente separano la necessità di approvare la Finanziaria entro l’anno dall’incubo dell’esercizio provvisorio, la maggioranza assoluta è fissata a 204; e i senatori del gruppo azzurro, al momento 18, bastano e avanzano per far saltare il banco. E non è un caso, come nota un big azzurro con una perfidia nascosta dietro la garanzia dell’anonimato, che «alla buvette i senatori di Meloni e Salvini si trovano sempre a ridere e scherzare più con i colleghi di Azione-Italia viva che non con noi di FI».

Agli atti, l’ultima dichiarazione di un forzista di primo piano e non ministro millimetricamente allineata con Giorgia Meloni è stata quella pronunciata da Berlusconi il giorno della fiducia in Senato. Prima e dopo, sempre e solo voci fuori dal coro. È stato così da subito, da quando l’eterogeneo pacchetto rave-contanti ha iniziato a riempire l’agenda di governo. «Trovo offensivo che l’attenzione sia su questo, quando la priorità è mettere mille euro nelle tasche dei pensionati e aiutare famiglie e imprese», aveva aperto le danze il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè. Sembrava una nota stonata, è diventato uno spartito quotidiano. Proseguito sul Superbonus e culminato, nelle ultime ore, con le sfumature sull’immigrazione. E quando non sono dichiarazioni in dissenso, dei berlusconiani diventa rumorosissimo il silenzio, come sulle modifiche al reddito di cittadinanza.

Raccontano che negli ultimi giorni, confrontandosi in presenza della premier sui continui smarcamenti di FI, due esponenti del governo si siano divisi su quello che ha in mente Berlusconi.

L’ottimista dei due ha fatto notare che «Silvio, che di pugnalate amiche ne ha subite, non darebbe mai una spallata a un governo di centrodestra».

L’altro, il pessimista, s’è limitato a ricordare un dettaglio: «Vero. Ma da quando è in campo non c’è mai stato un governo di centrodestra non guidato da lui».

Meloni avrebbe ascoltato senza proferire parola.

I passi falsi della premier. Tutti i flop di Giorgia Meloni, rappresentante della destra populista e borgatara. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 16 Novembre 2022

Guardando le immagini del G20 con i vecchi e nuovi grandi della Terra, ma anche con i medi e i giganteschi come Biden e Xi Jinping, il confronto viene immediato. Che cosa avrebbe fatto, come si sarebbe comportato, quali arti da giocoliere dell’attenzione e della seduzione avrebbe giocato Silvio Berlusconi in un consesso del genere? Il confronto con Giorgia Meloni è inevitabile: l’unica donna premier di questo consesso indonesiano in cui i protagonisti scendono dalla scaletta dell’aereo accolti da un gruppo di danzatrici che si contorcono sensualmente in una danza, è la nostra presidente del Consiglio alla sua prima uscita nel gran galà del pianeta devastato dalla guerra attale e quella possibile, dalla carestia, dalle emergenze umanitarie, dall’inflazione, dalle minacce di altre guerre e la necessità di affrontare così grandi problemi comuni.

Berlusconi fu messo sulla graticola all’inizio della sua Presidenza perché sia era creato un asse fra le sinistre italiane e tutti i circoli della gauche al caviale internazionale. In quei consessi Berlusconi usava le sue armi di charmeur e di moderato, di uomo apparentemente nuovo, ma in realtà grande esperto di comunicazione e di competenza industriale. Un personaggio così arcitaliano, così lombardo ma anche così romano – fra le canzoni di Charles Trenet e quelle di Apicella – ma poi anche capace di affrontare bilanci e intese e alleanze e feeling che saltano a piè pari le artigliose spigolosità degli snobismi delle élites, fra i quali invece la sinistra italiana si sente perfettamente a suo agio. Fu un accreditamento lungo e profondo, al termine del quale Berlusconi sarebbe diventato un leader europeo. Sulla Meloni niente da dire invece. Se non che è indaffarata e si comporta con la dignità impacciata della studentessa modello ed è ovviamente molto compresa nel suo ruolo. Ma è anche molto principiante. E però con quell’aria acerba di chi sa di partire con un handicap, nel senso di uno svantaggio di partenza come nelle corse dei cavalli. Tutti sanno che le sue radici vengono da un genere di terriccio che non è quello più fecondo, ma poco importa perché in definitiva quel che conta sono i fatti e vedere se e che cosa dice.

Intanto tutti hanno visto però i primi guai: la rottura con Macron facendo una gaffe da borgatara, seguita dalla correzione di Mattarella che ha dovuto prendere il suo posto, spingersi oltre i suoi stessi confini. Dire a Macron qualcosa come “scusaci tanto, è ancora in rodaggio non ci fare caso, tanto non conta, chi conta sono io”. Sgarro costituzionale, ma necessario, per porre rimedio a imperizia e faciloneria. Con Berlusconi ci provarono, ma dopo una terribile guerra mediatica finì con una sua vittoria perché il presidente del centrodestra liberale seppe lavorarsi personalmente tutti i leader, dall’americano George Bush al russo Vladimir Putin che sembrava, all’inizio del XXI secolo, l’enfant prodige della nuova Russia, un europeo che in ottimo tedesco pronunciava in Germania un discorso sulla cultura russa in quanto europea. E poi le incomprensioni con Angela Merkel superate in souplesse malgrado l’arroganza di Sarkozy che mentre faceva lo sprezzante con Berlusconi si faceva finanziare da Gheddafi. Lo stesso Gheddafi contro il quale mosse guerra e con poca eleganza portò alla morte, arrecando danni immani alla politica estera italiana in fatto di emigrazione e di approvvigionamenti energetici.

Insomma, il Berlusconi che è stato messo sulla graticola, sbertucciato dai comici, bersagliato da una sessantina di missili giudiziari, attaccato da intellettuali poi pentiti e dal generone della borghesia superciliosa, è un leader storico la cui visione è quella super liberale e anche giocosamente libertina di un’Italia della ricostruzione e dell’identità spontanea ma mai, assolutamente mai ingenua. Non vogliamo impegnarci nei confronti e dire “E invece la Meloni”. La Meloni ha voluto la sua bicicletta, e adesso deve pedalare, cadendo e rialzandosi, facendo esperienza e trovando che i suoi elementi di appeal, quelli per cui raccoglie tanto elettorato e tantissima audience, sono quelli di una figura che gli italiani adorano: quella di chi “non gliele manda a dire”, di chi sbatte i pugni sul tavolo (in genere a Bruxelles) e caccia gli emigranti, e fa “booh” ai ragazzacci dei rave, e promette ordine e legge, legge ed ordine, ma poi è statalista e manettara come tutta la storia del fascismo e del post fascismo era ed è: statalista, con populismo sociale incorporato, sa fare la faccia feroce quando parla alle proprie folle o a quelle spagnole con toni più isterici che duceschi e faccia da “Chi? io?”, ma con un background di romanzi per ragazzi di Tolkien con Frodo, il Signore degli anelli e le Terre di Mezzo insidiate dagli orchi che sbarcano sulle nostre coste.

Non mi vergogno a citarmi, ma ho scritto un libretto sfortunato perché uscito mentre scoppiava la guerra in Ucraina (che dirottò l’attenzione sul Covid e da ogni altro argomento) intitolato La Maldestra: quella italiana che non può stare insieme come l’acqua con l’olio e una dose di mercurio perché in parte origina da quella liberale ereditata grazie a Berlusconi dai partiti che ricostruirono l’Italia dopo l’operazione Mani Pulite che strozzò la cosiddetta Prima Repubblica; e in parte è illiberale perché populista e sovranista, con un pizzico di post-fascismo, molta nostalgia degli anni Settanta quando si sparavano Brigate Rosse e Brigate Nere. Una destra che non ha niente a che fare nemmeno con il sogno federalista di Umberto Bossi per quello che riguardava la gloriosa Lega Nord, quella di “Roma ladrona” e delle barzellette sui terroni. Non si tratta soltanto del fattore umano, ma anche umano. In più, ci sono di mezzo i valori fondamentali della spensieratezza contro la grintosità, della vitalità contro la cupezza, dello statalismo contro la libertà d’impresa, della totale, colpevole, deprimente mancanza di senso dell’umorismo contro l’Italia della commedia laboriosa del miracolo economico, un piccolo borghese e un po’ mi saluti la sua signora, con i suoi Alberto Sordi e Gino Bramieri, i piccolo borghesi che però sono, erano, grandi borghesi, dei costruttori e capitani d’azienda, fra cui anche e lui, il Berlusconi di Milano Due, della trovata delle videocassette per rifornire i film nei paesini su per le montagne.

Quelle due Italie non sono neanche di destra. Quella liberale è liberale, ha bisogno di libertà di mercato, viaggi, contaminazioni, esportazioni, invenzioni. Quella illiberale non ride mai, è cupa, pronta a ringhiare, perché ringhiando si alleva l’italiano dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini che oggi potrebbe essere Giuseppe Conte, quello che apprezza chi urla, fa la faccia feroce, mette depressione con l’istinto alla repressione e non vede l’ora di cacciare chi cucina con troppa cipolla, senti che puzza. Finché si tratta di amministrare città e regioni, passi: queste destre che non hanno quasi nulla in comune possono far finta di essere unite dallo spirito pratico che però non ha niente di ideologico e neanche di ideale. Ma quando si tratta di fare sul serio, le due destre, quella liberale e quella illiberale, non si tollerano e lo si è visto subito, col primo Consiglio dei ministri che, pur potendo evitare la faccia feroce ha fatto subito la faccia feroce, salvo ammettere di gran carriera che bisognava rifare subito i decreti-legge in Parlamento. La politica estera, profondamente ferita dal conflitto in l’Europa si è poi, per quanto ci riguarda, fatta subito male in una zuffa insensata con la Francia, che ha colpe enormi quanto a immigrazione, ma che è un Paese con cui era stata costruita con pazienza una alleanza non solo di facciata. Tutto in malora perché la piccola Presidente della scuola Montessori ancora non sa giocare con gli adulti.

Ed è ormai uno spettacolo che vedono tutti i pezzi non stanno insieme perché l’Italia liberale, tenuta in vita da Berlusconi e purtroppo ridotta ai minimi termini per la costanza della pressione giudiziaria e dei vuoti che hanno messo in fuga il voto dei cosiddetti moderati, non si combina né per stile né per contenuto con l’altra, se non vagamente per bacino di elettori che però sono molto volubili. E i risultati sono sotto gli occhi: Berlusconi non vuole essere coinvolto nelle scelte anti-emigranti tenuti a mollo. Così gli passa la voglia. I liberali, o come più vi piace chiamarli, sono incavolati perché l’ordine delle priorità è quello delle bollette e del carovita e non delle scenate internazionali da cui usciamo con le ossa rotte. I due partiti che si rubano la scena sono Fratelli d’Italia e Lega che infatti hanno raggiunto un accordo, tanto sono quasi identici, mentre Forza Italia distingue, si separa, corregge, emenda, sta scomoda, ha la faccia tirata e siamo solo agli inizi.

In panchina si scaldano soddisfatti Renzi e. Calenda, ma sono riscaldamenti senza muscoli perché l’elettorato della protesta illiberale non li prenderebbe mai molto sul serio, ma ci sono come ruota di scorta perché quella sembra che sia la loro missione. La Maldestra sta male e non è destra nello stesso modo e questo manda in bestia Berlusconi che avrebbe voluto che gli fosse riconosciuta la leadership di chi ha il brevetto, ma Giorgia Meloni, giustamente dal suo punto di vista che coincide soltanto col suo punto di vista, vuole imparare tutto da capo anche se ci portasse a sbattere. Dunque, il governo c’è, ha i voti, ma manca sia il propellente che il collante per affrontare il videogame della realtà che è scosceso e richiede piloti esperti per non andare finire oltre il guard-rail, sul ciglio del burrone.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.