Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

IL GOVERNO

TERZA PARTE

 

LA CAMPAGNA ELETTORALE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia d’Italia.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per Nome e Cognome.

L’Unione Europea.

Il Piano Marshall.

Bella Ciao al 25 aprile.

Fondi Europei: il tafazzismo italiano.

Gli Arraffoni.

Educazione civica e disservizi.

Quello che siamo per gli stranieri.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Italioti antifascisti.

Italioti vacanzieri.

Italioti esploratori.

Italioti misteriosi.

Italioti Ignoranti.

Italioti giocatori d’azzardo.

Italioti truffatori.

Italiani Cafoni.

Italioti corrotti e corruttori.

Italioti ladrosi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Potere dà alla testa.

Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

Un popolo di Spie.

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Il Capitalismo.

I Liberali.

Il Realismo.

Il Sovranismo - Nazionalismo.

I Conservatori. Cos’è la Destra?  Cos’è la Sinistra?  

Il Riformismo progressista.

Il Populismo.

Il solito assistenzialismo.

La Globalizzazione.

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.

Le Politiche Economiche.

Il Finanziamento ai partiti.

Ignoranti.

I voltagabbana.

La chimera della semplificazione nel paese statalista.

Il Voto.

Mafiosi: il voto di scambio.

Il Voto dei Giovani.

Il Voto Ignorante.

Il Tecnicismo.

L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…

La Rabbia.

I Brogli.

I Referendum.

Il Draghicidio.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

La Campagna Elettorale.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

Le Votazioni ed il Governo.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Costituzione fascio-catto-comunista.

Quelli che…La Prima Repubblica.

Le Presidenziali.

Storia delle presidenziali.

La Legge.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

I Top Manager.

I Politologi.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Traffico d’influenze.

La malapianta della Spazzacorrotti.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Impuniti.

Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.

Concorso truccato nella sanità.

Concorso scuola truccato.

Concorsi ed esami truccati all’università.

Ignoranti e Magistrati.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti ed avvocati.

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.

I Commissari…

Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.

Spreco a 5 Stelle.

Le ali italiane.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Bancopoli.

La Nascita dell’Euro.

Il Costo del Denaro.

Il Debito. Pagherò.

ConTanti Saluti.

Il Leasing.

I Bitcoin.

I Bonus.

Evasori fiscali!

L'Ingiunzione di Pagamento.

Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.

La Telefonia.

Le furbate delle Assicurazioni.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

 

 

IL GOVERNO

TERZA PARTE

LA CAMPAGNA ELETTORALE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

La democrazia bloccata fra soliti noti della tv e firme raccolte senza Spid. I problemi posti dall’iniziativa Cappato non hanno avuto grandi risposte. Nessuna eco in tv e sui giornali. Nemmeno dai suoi ex compagni di partito. Valentina Petrini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Luglio 2022.

Ora che alle urne dovremmo andarci per forza, sarà forse il caso di mettere l’accento su un paio di distorsioni che non fanno bene a un sistema democratico.

La prima: ancora una volta non eleggeremo noi i membri del Parlamento (per l’ennesima volta, aggiungerei), ma i segretari dei partiti. Non li eleggeremo noi perché per la quota proporzionale le liste saranno bloccate senza possibilità di esprimere preferenza mentre per i seggi con collegio uninominale non è garantito agli elettori il voto disgiunto. Secondo: le elezioni sono per chi è già in Parlamento visto che per chiunque altro voglia provare a farsi eleggere democraticamente è praticamente impossibile in poco tempo raccogliere le firme, certificarle senza poter far ricorso per esempio a raccolte firme con lo «spid».

Sul primo punto non mi dilungo, è una triste storia nota. I partiti hanno dato il peggio di sé nella formulazione delle leggi elettorali. Nessuno si vergogna di questo, ma impedire ai cittadini di scegliere i parlamentari da eleggere è un grande vulnus democratico che credo abbia certamente contribuito ad allontanare molti dalla politica e anche dalla convinzione che votare sia necessario, fondamentale. Un dovere oltre che un diritto.

Sul secondo punto, invece, spero si apra un dibattito in tempi brevissimi, perché questa è forse una piccola rivoluzione che si potrebbe fare. Qualche giorno fa Marco Cappato, già europarlamentare, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e co-presidente del movimento Eumans, ha annunciato di volere presentare una lista per le prossime elezioni del 25 settembre.

«Dopo l’affossamento dei referendum, anche le elezioni sono riservate a chi è già in Parlamento perché è vietato firmare con “spid” le liste. Da oggi, con chi vuole, si lavora alla presentazione di una lista con una sola priorità: la democrazia». Così Cappato sui suoi canali social.

Non mi è chiaro se la sua sia una reale volontà di correre per entrare in Parlamento o solo una provocazione per porre un problema serio e concreto, e cioè la distruzione in atto del sistema della rappresentanza democratica. In entrambi i casi, plaudo a questa iniziativa.

Diciamo la verità, se Cappato volesse entrare in Parlamento non dovrebbe fare fatica a trovare chi lo candida. Il fatto che scelga la strada più complessa deve far riflettere. L’antidoto migliore all’antipolitica è la buona politica. «Con la fine della legislatura cadono le due proposte di legge di iniziativa popolare, quella sull’eutanasia e quella sulla cannabis, senza che siano mai state discusse dal Parlamento in quasi dieci anni. - è sempre Cappato che spiega la sua decisione. - La Corte Costituzionale ha impedito di tenere i referendum e ora in aggiunta la presentazione alle elezioni è di fatto riservata a chi ha già un partito rappresentato in Parlamento». E aggiunge in un’intervista rilasciata a Fanpage: «Chiediamo al presidente della Repubblica Mattarella e al presidente del Consiglio ancora in carica di consentire almeno che la raccolta delle firme per presentare una lista sia possibile anche attraverso “spid”, come riforma permanente. Il gioco truccato della democrazia elettorale sia almeno aperto ad altri giocatori».

Diciamo così: in un momento di forte populismo in cui a vincere ancora una volta non sarà la Meloni ma l’astensionismo, interrogarsi su di chi è la colpa, vorrei fosse la nostra priorità. E cioè di coloro che si sono adoperati per rendere la democrazia zoppicante, interesse funzionale solo all’esercizio del potere, non dei cittadini. Se c’è chi vuole cancellare la memoria per raggirare i cittadini, c’è chi invece deve tenerla viva per difenderlo.

Dunque, visto che sono diversi i personaggi politici che devono la loro esistenza solo ad ospitate tv martellanti e anche eccessive, tanto da aver creato così personaggi riconoscibili agli elettori, mi piacerebbe che anche in questo caso l’informazione si mettesse al servizio della pluralità dando risalto a questa battaglia, dando spazio nei talk e nelle tribune tv ai temi che pone l’iniziativa Cappato. Invece per ora è accaduto il contrario. I problemi posti dall’iniziativa Cappato non hanno avuto grandi risposte. Nessuna eco in tv e sui giornali. Nemmeno dai suoi ex compagni di partito. Si possono condividere o no le sue battaglie, non si può però continuare ad ignorare che leggi di iniziativa popolare e referendum sono osteggiati dal sistema di potere, quando invece sarebbero la vera strada per riaccendere l’amore per la partecipazione.

Jena per “La Stampa” il 21 luglio 2022.

Andiamo alle elezioni, e poi diremo che si stava meglio quando si stava peggio.

Michele Serra per “la Repubblica” il 21 luglio 2022. 

L'«alto profilo repubblicano» (copyright Mattarella), evocato da Draghi come condizione della sua permanenza a Palazzo Chigi, è la più spietata delle condizioni. Altro che i tira e molla con bagnini e tassisti, altro che l'inceneritore di Roma, altro che i punticini di Conte, altro che il bullismo ritrovato del Salvini, con il patetico patrocinio di ciò che resta di Berlusconi

Non siamo un Paese di alto profilo e dunque non abbiamo un Parlamento di alto profilo: chiederlo equivale a pretendere dai parlamentari un salto di qualità che non è alla loro e alla nostra portata. Dico anche "nostra" perché la diffusa ciancia sul Palazzo indegno è consolatoria. 

Il Palazzo è espressione del Paese, così che potremmo rovesciare il celebre slogan dell'Espresso scalfariano: "Nazione infetta, capitale corrotta". Il basso profilo della nostra rappresentanza politica, con poche e consolanti eccezioni, è conclamato. E se c'è una cosa da rimproverare a Draghi, e anche a Mattarella, è avere "fatto finta" che esistesse, in Italia, una classe dirigente in grado di fiancheggiare il loro disegno «repubblicano».

Metà del Parlamento (metà degli italiani) la Repubblica non sa nemmeno che cosa sia, e se lo sa la odia e ne desidera la fine. Il Salvini è il primo portavoce di questa eversione torva e menefreghista, ma certo non l'unico. 

Draghi è planato sulle nostre miserie prescindendo dalla loro esistenza: ma esistono, e la politica, povera lei, è anche un attento rendiconto delle miserie che la innervano. Se Draghi cade si torna alla mediocrità e al caos, ovvero alla realtà.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Complimenti ai fenomeni che mandano a casa l'italiano più rispettato a livello internazionale che ha tentato con ogni sforzo di dare una mano ad un Paese disastrato da una manica di buffoni e scappati di casa. Sono dispiaciuto, ma attendo con ansia l'arrivo dei fenomeni". Così Lapo Elkann commenta su Twitter la crisi di governo. 

"Sarà gustoso - aggiunge - vederli trattare per il gas, fare accordi internazionali, farsi rispettare in Europa, trattare con i grandi leader. Vi illudono che quando arriveranno loro si faranno rispettare che loro sono machi, che urlano, sbandierano il tricolore, cantano l'inno, ma in realtà sono dei Fantozzi di provincia che come escono dal Raccordo contano meno di zero. Povera Italia e tante grazie #SuperMario".

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni. 

E se un Parlamento è composto da coglioni, si sforneranno Leggi del cazzo.

Sondaggio affossa Draghi (e la sua lista). Lo chiedevano gli italiani? Tutta la verità. Il Tempo il 23 luglio 2022

Dall'inizio della guerra in Ucraina analisti geopolitici ed esperti di affari internazionali sono diventati ben presto volti popolari. Come Dario Fabbri, direttore della rivista geopolitica Domino, a lungo ospite fisso di Enrico Mentana nei suoi speciali su la7 dedicati al conflitto aperto dall'invasione russa.  Le apparizioni dell'esperto sono andate via via diminuendo con l'agenda dei media che ha cambiato priorità, a causa della crisi di governo che ha fatto deflagrare l'esecutivo di Mario Draghi. E proprio un intervento di Fabbri sul premier dimissionario sta facendo discutere sui social. 

Che Draghi fosse "bravo" è chiaro, dice Fabbri nella puntata di sabato 23 luglio di Omnibus su La7. Ma il discorso è un altro, spiega l'analista, ossia che "quando uno statista di un Paese è molto apprezzato all'estero non vuol dire che è bravo, ma vuol dire che lo considerano funzionale ai loro interessi. È tutto un altro discorso".

Insomma, i peana dell'Europa e gli scenari catastrofici dei giornali anglosassoni sulla caduta del governo Draghi dovevano farci scattare un campanello d'allarme? Il sospetto sembra questo. "Invece in Italia siamo convinti del contrario... C'è da insospettirsi molto quando un leader di una nazione è molto apprezzato da altri popoli che hanno altri interessi - conclude Fabbri - Questo ci sfugge totalmente. Se ce lo dicono gli altri vuol dire che per loro funziona... Ma per noi non funziona?", è la domanda che cade nel vuoto. 

NON È UN PAESE PER SOVRANISTI E POPULISTI. Molti italiani sentiranno queste elezioni come quelle del '48 e aleggerà l'ombra di Draghi, il nuovo De Gasperi. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 21 Luglio 2022

Il Paese reale questa volta si farà sentire. Il racconto della catastrofe dei capi partiti del populismo italiano che ha spappolato il movimentismo della sinistra e dei Cinque stelle e ha riunito le anime del centrodestra di governo e dell’opposizione in una destra più marcatamente populista si è trasformato da grancassa mediatica che inquina il dibattito della pubblica opinione italiana in un danno grave e certo per le famiglie e le imprese italiane interrompendo la stagione d’oro della nostra economia. Quello che deve essere davvero chiaro a tutti è che il percorso di rinascita del Paese coincide con la sua Ricostruzione Nazionale e si muove dentro un solco ben preciso a livello europeo e nazionale. È il solco tracciato da Mattarella e Draghi

Il Paese reale questa volta si farà sentire. Il racconto della catastrofe dei capi partiti del populismo italiano che ha spappolato il movimentismo della sinistra e dei Cinque stelle e ha riunito le anime del centrodestra di governo e dell’opposizione in una destra più marcatamente populista si è trasformato da grancassa mediatica che inquina il dibattito della pubblica opinione italiana in un danno grave e certo per le famiglie e le imprese italiane interrompendo la stagione d’oro della nostra economia.

Questo è quello che è accaduto privando l’Italia della pienezza di una guida autorevole, Mario Draghi, che ha restituito fiducia e credibilità al Paese nel giudizio degli investitori del mondo, ma ancora prima ha regalato all’Italia un anno e mezzo di crescita di quasi dieci punti di prodotto interno lordo (Pil) che coincide nel primo semestre di quest’anno, nettamente sopra il 3% dopo il 6,6 del 2021, con la prima posizione europea. I capi partito della destra di governo, Lega e Forza Italia, non se ne sono accorti, ma i loro elettori che sono gli imprenditori che fanno faville con le esportazioni, albergatori e ristoratori alle prese con un boom senza precedenti, venditori al dettaglio che non ricordano consumi di questo livello, e molti altri ancora sanno bene che cosa è successo e provano sconcerto per chi non ha votato la fiducia al timoniere della barca dei miracoli.

Provano sconcerto perché prima Conte poi Salvini e, purtroppo, anche Berlusconi non hanno pensato a loro che sono alle prese con il caro energia e combattono economicamente dentro una guerra dove il posizionamento e la credibilità di un Paese, impersonificati dal suo leader, fanno la differenza in termini generali e di portafoglio personale. Per questo siamo convinti che questa volta almeno un 10/15% di quel 40% che resta a casa di fronte a ciò che è successo tornerà ad andare a votare. Perché molti di loro sentiranno queste elezioni come quelle drammatiche del ’48 e su di esse, indipendentemente dalla sua volontà, aleggerà sempre l’ombra del nuovo De Gasperi che è Mario Draghi. Perché nella sua esperienza di governo ha imposto un modello che è quello di una guida e di un esecutivo che sanno fare le cose o che almeno fanno tutto il possibile perché nella situazione data il massimo delle cose possibili venga fatto. Questo i capi dei partiti o non lo hanno capito o non lo hanno voluto capire benché l’obiettivo del governo di unità nazionale fosse chiaro e determinato anche nella sua ristrettezza temporale.

Qualche politologo francese ha fatto riferimento a De Gaulle che subì un trattamento analogo, ma dieci anni dopo gli stessi partiti che lo piantarono in asso andarono in ginocchio da lui.

Oggi, essendo cambiato tutto, dieci anni possono valere anche dieci mesi. Chiariamoci bene. Quello che è accaduto in Parlamento è apparentemente incomprensibile, al netto di ragioni di interesse elettorale sulle quali si pronunceranno i cittadini, ma deve essere evidente a tutti che il primo vero discorso da politico di Draghi non era né duro né divisivo come si vuole fare apparire, ma semplicemente programmatico perché le materie più controverse sul piano politico – come quelle della concorrenza – non facevano altro che riproporre la parte incompiuta di programma che tutti i partiti della coalizione avevano sottoscritto quando si erano impegnati a dare attuazione al Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr).

Quello che deve essere davvero chiaro a tutti è che il percorso di rinascita del Paese coincide con la sua Ricostruzione Nazionale e si muove dentro un solco già tracciato a livello europeo e nazionale. Questa è la verità nuda e cruda. Il richiamo del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, alle forze politiche a non fare venire meno il sostegno a tutto ciò che va nella direzione di attuare il Pnrr e di fare fronte alle emergenze determinate dai molteplici effetti prodotti dalla più ingiusta delle tasse che è l’inflazione si muove dentro quel solco che ha salvato il Paese e che si deve a due persone prima di tutte che sono proprio Mattarella e Draghi. Perché insieme, all’apice della crisi partitica, hanno preso in mano un’Italia al minimo storico di reputazione e non più governabile e la hanno portata a diventare la locomotiva dell’economia europea e una guida rispettata nella costruzione della Nuova Europa.

È evidente che Draghi, solo chi non lo conosce può dubitarne, in casa e fuori farà il suo come sempre e nei limiti della nuova situazione tirati al massimo farà tutto quello che è possibile fare per sostenere il potere di acquisto delle famiglie e la crescita delle imprese, così come non mancherà di dare il suo contributo in tutti i consessi internazionali dove la sua voce vale in sé e la nostra speranza è che pesi il meno possibile negli interlocutori la nuova incomprensibile situazione che si è determinata sul piano interno. Perché nel posizionamento strategico tra la Ucraina di Zelensky e la Russia di Putin la voce di Draghi è stata la voce politica che ha contato di più in Europa. Così come lo è stato a tutto campo per la politica monetaria e lo è stato e lo è oggi nella costruzione della Nuova Europa a partire dalle questioni energetiche fino a quelle delle politiche di bilancio.

Per capire che cosa perdiamo basti pensare a quello che è avvenuto ieri nella riunione storica della Banca centrale europea dove c’è stato un do ut des tra super falchi del Nord Europa che hanno avuto un rialzo dei tassi non di 25 ma di 50 punti base e i Paesi del Sud Europa che hanno avuto il meccanismo battezzato Transmission Protection Instrument (TPI) con cui si dice ai mercati che quando la trasmissione della politica monetaria produce costi ingiustificati su questo o quel titolo sovrano o comunque non avviene correttamente, la Bce interviene. Ecco lo scudo, che in sé è una buona notizia per i mercati così come lo è stata la ripresa delle forniture di gas dalla Russia all’Europa.

Il punto è che questo nuovo strumento è legato come ovvio ad alcune condizionalità, a partire dall’esecuzione degli impegni assunti in sede europea (Pnrr prima di tutto) e dalla sostenibilità del debito pubblico, che oggi il Paese sta pienamente soddisfacendo e da un ulteriore potere di discrezionalità assoluta che il board della Banca si è riservato e dove la voce dei super falchi non potrà non pesare. Morale: non c’è stato lo scatafascio ipotizzato perché lo scudo ha contenuto la spinta speculativa, anche se siamo comunque affiancati allo spread greco, ma con Draghi pienamente in sella oggi saremmo scesi al di sotto dei 200 punti mentre ieri prima siamo saliti sull’otto volante e poi abbiamo chiuso a 237 punti. Questi giochetti non sono finanza che riguarda poche persone, ma tassi che paga in più o in meno il bilancio pubblico italiano. Sono soldi pubblici che servono, tra l’altro, per pagare stipendi, pensioni, scuola, sanità e così via. Queste riflessioni sono la pura verità ed è bene che tutte le forze politiche, di qualunque idea e schieramento, si misurino con queste verità in campagna elettorale.

LA CAMPAGNA ELETTORALE DELL'IRREALTÀ. L'ESTATE DEI SOGNI DELLA POLITICA CONTRO L'AUTUNNO DEI NUMERI DELL'ECONOMIA. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 22 Luglio 2022

Sappiano i capi dei partiti del populismo e del sovranismo che se non adottano metodo, contenuti e linguaggio della stagione felice del governo Draghi e continuano a marciare tutti allegramente con il trofeo della vittoria in mano contro il muro della realtà, che sono i numeri dell’economia di autunno, si faranno molto male. Più alzeranno la voce, più diranno “ce ne freghiamo, facciamo lo scostamento e facciamo tutto quello che vogliamo”, più le pietre di quel muro cadranno sulle loro teste, e purtroppo, anche sulle nostre imprese e sulle nostre famiglie. Non vogliamo nemmeno pensarci

La politica è scelta, toglie i soldi a qualcuno per darli a qualcun altro. Questo avviene nel mondo, ma non in Italia. Qui si procede solo per aggiunte. Nell’anno in cui si supera per la prima volta il tetto dei mille miliardi di euro di spesa pubblica, fanno tutti una campagna elettorale per promettere soldi a tutti, con regali di ogni tipo e pagherò che corrono più veloci delle temperature africane di questi giorni, mentre si è buttato disinvoltamente a mare il governo della crescita da primato europeo e della garanzia internazionale senza scostamenti di bilancio.

Soldi a tutti, pace fiscale e addio tasse, pensioni a tutti, non meno di mille euro al mese a partire dalle nostre mamme, senza mai dire chi pagherà il conto, mentre l’economia non potrà che ripiegare perché si è bruciata la fiducia che faceva correre l’Italia molto più di Germania, Francia e Stati Uniti, l’inflazione è il mostro globale fabbricato da Putin che cambia tutti i piani, i tassi salgono, i nostri titoli pubblici hanno meno reputazione di quelli greci e la Banca centrale europea ha fatto lo scudo anti spread ma con l’occasione ci ha messo sotto vigilanza stretta.

L’accordo Kiev-Mosca sul grano ha un grande valore politico e riduce il rischio di carestia nel mondo. La ripresa delle forniture di gas di Putin all’Europa è un fatto e, con le solite manovrine tra amici e non, si può ipotizzare che Gazprom non lascerà al freddo il Vecchio Continente. Dico questo, perché il contesto internazionale complicatissimo nel pieno di un conflitto mondiale di civiltà tra autocrazie e democrazie, lascia intravedere spiragli che avrebbero consentito alla nuova locomotiva europea, che è l’Italia dell’anno e mezzo di Draghi che chiude con quasi 10 punti di Pil di crescita dopo un ventennio di zero virgola, di consolidare il capitale di fiducia ritrovato con ulteriore sollievo sui costi del finanziamento del debito e piena partecipazione ai programmi europei di sviluppo determinati da nuovo debito comune e politiche di bilancio espansive. Rimaniamo con i piedi per terra e diciamoci invece le cose come stanno nel nuovo scenario.

Ogni punto di spread sopra i 200 è rischio politico e l’andamento dei credit default swap (i cosiddetti cds) che sono una polizza che copre dal rischio di ridenominazione del debito dall’euro in lira, segnalano quanto l’intero Paese paga per il giudizio che i mercati danno delle pulsioni populiste e sovraniste italiane. Da questo rischio politico, non da altro, deriva il differenziale ingiustificato di oltre 100 punti di spread con la Spagna e il fatto che, dopo la crisi del governo Draghi, abbiamo stabilmente affiancato e spesso superato lo spread greco.

Sempre da questo tipo di rischio, non da altro, nasce la condizionalità del nuovo meccanismo (TPI) ideato dalla Bce che vuole garantire la trasmissione della politica monetaria senza costi supplementari per i titoli sovrani italiani, spagnoli, greci, financo francesi, ma non quando quei costi sono determinati da crisi partitiche e da politiche pubbliche dell’irrealtà sganciate dalle regole comuni di disciplina e di sviluppo che si è deciso tutti insieme di adottare.

Ciò nonostante, però, grazie proprio all’inflazione, il nostro rapporto debito/Pil che avrebbe dovuto scendere al 147% si fermerà ancora meglio al 145% così come tutta la grancassa del default da spread italiano a livelli greci è fuori luogo. Questi tassi e questi rendimenti indicano un problema, ma non una tragedia. Perché il Tesoro italiano ha saggiamente allungato le scadenze e collocato a tassi favorevoli importi rilevanti, per cui l’aggravio oscilla da un minimo di 11 a un massimo di 15 miliardi da qui al 2024 con un costo per il primo anno da effetto spread e effetto titoli indicizzati all’inflazione di 4/4,5 miliardi. Basti pensare che dalla Nadef di aprile già ballano 150 punti in più perché il rendimento del decennale era al 2,1% (ora siamo al 3,5/3,6%) e la crescita prevista dei rendimenti veniva legata alle pressioni speculative determinate dalla lotta all’inflazione non certo dalla inimmaginabile fuga dei partiti dalla maggioranza del governo Draghi. Non è poco, ma si è visto di molto peggio.

Il problema vero al momento non è questo, lo potrà diventare e vi spiego dopo perché, ma chi vi dice “arriva la destra e salta tutto” e insiste sullo spread a tassi greci sta facendo un gioco politico. Il problema vero che abbiamo davanti è la nuova legge di bilancio. Perché l’idea del governo Draghi di fare un robusto taglio ulteriore del cuneo fiscale, richiesto da tutto il mondo produttivo e sindacale e in arrivo grazie al circolo virtuoso delittuosamente bloccato, andrà a scontrarsi con un taglio delle previsioni di crescita di un punto di Pil buono -dall’ipotizzato 2,4% allo 0,9% della Commissione europea e all’1% dell’Oxford Economics – che vuol dire 20 miliardi di spazi fiscali disponibili in meno per fare fronte alle promesse della campagna elettorale dove nulla verrà risparmiato. Taglio al cuneo fiscale di 10 miliardi? No 15, anzi 20, perché no 30. Pace fiscale, certo, ma dico di più pace fiscale senza nulla a Lo spread italiano a tassi greci è un problema, non una tragedia.

La fredda realtà invece ci dice che, da un lato, la nuova manovra dovrà fare fronte a una crescita molto più bassa del previsto che genera meno entrate e, dall’altro, nulla di quello che viene promesso potrà essere onorato. A meno che, e qui casca l’asino perché è ciò che preoccupa di più i mercati, prima in campagna elettorale e poi, peggio, al governo effettivo del Paese i nostri partiti ricomincino a giocare con lo scostamento di bilancio, che significa non rispettare gli impegni presi in sede europea, e fare volare alle stelle sui mercati quel rischio politico che nega il futuro ai nostri giovani.

PER LE ELEZIONI DEL 25 SETTEMBRE

Il presidente Mattarella e il presidente Draghi pretendere e, magari, togliamo anche l’Imu. Tutto è possibile sotto l’ombrellone per mezzo voto in più. La fredda realtà invece ci dice che, da un lato, la nuova manovra dovrà fare fronte a una crescita molto più bassa del previsto che genera meno entrate e, dall’altro, nulla di quello che viene promesso potrà essere onorato. A meno che, e qui casca l’asino perché è ciò che preoccupa di più i mercati, prima in campagna elettorale e poi, peggio, al governo effettivo del Paese i nostri partiti ricomincino a giocare con lo scostamento di bilancio, che significa non rispettare gli impegni presi in sede europea, e fare volare alle stelle sui mercati quel rischio politico che nega il futuro ai nostri giovani. I nostri polli, a Bruxelles come a Francoforte, li conoscono molto bene e, per questo, hanno messo nero su bianco che lo scudo scatta solo se il Paese non ha procedure di infrazione, rispetta le direttive di bilancio europeo, attua gli impegni assunti, garantisce la sostenibilità del debito.

Tutto quello che stava facendo benissimo il governo Draghi aggiungendo ogni volta che di scostamento si poteva parlare solo se, come con il Covid, ne parlavano e lo facevano gli altri Paesi europei. Tutto questo, però, abbiamo voluto buttarlo giù perché sentiamo il trofeo elettorale nelle nostre mani. Sappiano i capi dei partiti del populismo e del sovranismo che se non adottano metodo, contenuti e linguaggio della stagione felice del governo Draghi stanno marciando tutti allegramente con il trofeo della vittoria in mano contro il muro della realtà che sono i numeri dell’economia di autunno. Si faranno molto male. Più alzeranno la voce, più diranno “ce ne freghiamo, facciamo lo scostamento e facciamo tutto quello che vogliamo”, più le pietre di quel muro cadranno sulle loro teste, e purtroppo, anche sulle nostre imprese e sulle nostre famiglie. Non vogliamo nemmeno pensarci.

Paolo Baroni per “La Stampa” il 22 luglio 2022.

Alla fine l'hanno spuntata loro, i tassisti. Per mandare avanti la nuova legge sulla concorrenza, con le nuove norme sulle concessioni demaniali, il trasporto pubblico, le tlc e le assicurazioni, da mesi all'esame del Parlamento, ieri il governo ha informato i capigruppo della Camera di voler stralciare dell'articolo 10 relativo ad auto bianche ed Ncc. 

Di fatto è un compromesso quello raggiunto dall'ormai ex maggioranza su uno dei temi in assoluto più divisivi: su proposta dalla capogruppo pd Debora Serracchiani tutti i partiti si sono impegnati a non presentare in aula nuovi emendamenti quando lunedì il ddl andrà in votazione a Montecitorio per poi venire subito rispedito in Senato per l'ok definitivo.

Festeggiano ovviamente i tassisti, che a colpi di scioperi improvvisi e proteste violente hanno continuato per settimane ad insistere sullo stralcio, criticando innanzitutto l'uso della legge delega, l'idea di promuovere la concorrenza «anche in sede di conferimento delle licenze» come recitava l'art. 10, e l'indicazione di dover adeguare l'offerta dei loro servizi «mediante l'uso di applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l'interconnessione dei passeggeri e dei conducenti», ovvero app come Uber e Lyft. 

Ovviamente festeggia tutto il centrodestra (di governo e non) che sui taxi, come in precedenza sui balneari, ha condotto una vera e propria battaglia che alla fine ha fatto indispettire pure Draghi. 

«È una vittoria del buonsenso» affermano i deputati leghisti della Commissione Trasporti Elena Maccanti ed Edoardo Rixi. «Se il governo ci avesse seguito subito avremmo evitato le sabbie mobili in cui si era impantanato il ddl concorrenza». «È grazie a Fratelli d'Italia e a tutto il centrodestra che l'articolo 10 sarà stralciato - rivendica il capogruppo Fdi Francesco Lollobrigida -. Questo è l'unico modo per difendere il comparto dalla sleale competizione delle multinazionali».

Non la pensa allo stesso modo Davide Gariglio del Pd secondo il quale, invece, è «solo grazie al senso di responsabilità» dei dem che il ddl Concorrenza verrà votato dall'aula della Camera nei prossimi giorni. «In questo modo mettiamo in sicurezza la seconda rata dei fondi europei per il Pnrr e portiamo a casa un risultato utile per le imprese e per le città, perché i comuni hanno tante difficoltà e non potrebbero fare a meno dei fondi europei» spiega la presidente della Commissione attività produttive della Camera Monica Nardi (Pd), secondo la quale il governo (per quanto dimissionario) potrà comunque far marciare la riforma visto che non tutte le norme attuative prevedono un parere delle commissioni parlamentari.

I sindacati, revocato in extremis l'ennesimo sciopero previsto in questi giorni, incassano un risultato che inseguivano da mesi. «Bene lo stralcio - commenta Riccardo Cacchione di Usbtaxi -. Tiriamo un sospiro di sollievo per noi e per tutti gli utenti che si rivolgono a quello che dovrebbe essere un servizio pubblico essenziale».

«Ha vinto il servizio pubblico bene comune» commenta il coordinatore nazionale di Unica Cgil Taxi, Nicola Di Giacobbe che però ora si aspetta che venga regolamentato l'uso delle app per frenare lo strapotere delle multinazionali. Nettamente contrari alla svolta, invece, i consumatori. Secondo il presidente di Assoutenti Furio Truzzi «ancora una volta lo Stato italiano cede alle violenze e alle pressioni della lobby corporativa dei tassisti, dimostrando una debolezza che non ha eguali nel mondo».

Paolo Russo per “La Stampa” il 27 luglio 2022.

Stop alla liberalizzazione delle licenze dei taxi. A parte questo, il ddl concorrenza è stato approvato a larga maggioranza dalla Camera con 345 si e i soli 41 no di Fdi e Alternativa. 

Un passaggio chiave per ottenere i 19 miliardi di euro della terza tranche del Pnrr, condizionata all'approvazione della riforma che dovrà ora fare un passaggio solo formale al Senato prima di approdare in Gazzetta Ufficiale.

Anche se quella approvata ieri è solo l'impalcatura di quel che resta del pacchetto liberalizzazioni dopo stralci vari, che per essere attuato deve vedere emanati i decreti applicativi entro l'anno dal governo che verrà. Intanto, la legge quadro è prossima a tagliare il traguardo dopo aver perso la contestata norma sui taxi, contro la quale si erano scagliati non sempre pacificamente i tassisti, spalleggiati non solo da Lega e Fdi, ma anche da Leu e spezzoni del Pd. Un atteggiamento che aveva spinto un indispettito Draghi a reclamare nel suo intervento sulla fiducia al Senato «un sostegno convinto all'Esecutivo anziché a proteste non autorizzate, a volte violente».

Alla fine i partiti si sono accordati per lo stralcio dell'articolo 10 che delegava il governo all'«adeguamento dell'offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l'uso di applicazioni web», leggi Uber e Lyft, facendo riferimento anche alla «promozione della concorrenza in sede di conferimento delle licenze». 

Che avrebbero subito un nuovo deprezzamento dopo essere già crollate da un valore di 200mila euro in era pre-Covid a non più di 150mila. Resta però il fatto che per gli utenti resterà un'impresa trovare un taxi nelle ore di punta o nelle giornate di pioggia. Nonostante il pressing del centrodestra per lo stralcio resta invece la liberalizzazione delle concessioni balneari, ma se ne parlerà nel 2024. 

Quelle attuali scadranno il 31 dicembre di quest' anno, ma è prevista la proroga di altri 12 mesi «in caso di ragioni oggettive» che impediscano lo svolgimento delle gare.

L'accordo ha eliminato dal provvedimento l'indennizzo al gestore uscente in base al fatturato. Punto contestato dagli attuali gestori, che nel caso avessero perso la gara non avrebbero a loro dire ottenuto rimborsi degli investimenti fatti per migliorare gli stabilimenti. Tutto è rinviato a un decreto delegato, da emanare entro sei mesi.

E sempre a un decreto attuativo sarà delegata la garanzia del libero accesso alla costa, con varchi garantiti a chi non intenda sobbarcarsi la spesa di ombrellone e lettini. Buone nuove per i possessori di auto elettriche. L'articolo 13 prevede infatti che le colonnine di ricarica in autostrada debbano essere «competitive, trasparenti e non discriminatorie». Incentivi sono previsti per chi proporrà «tecnologie altamente innovative», che dovrebbero consentire di ricaricare l'auto senza attese snervanti.

Altra misura chiave è la delega al governo sulle energie rinnovabili per la semplificazione e l'accelerazione dell'iter autorizzativo ai concessionari, mentre spetterà alle Regioni fissare i criteri per le gare. Indennizzi sono previsti per i concessionari uscenti. Più poteri invece all'Antitrust, che dovrà valutare se le concentrazioni di attività ostacolino la concorrenza.

Se ad esempio per l'abbonamento a una Tv on demand, Amazon piuttosto che Netflix o Dazn, dovessero imporre condizioni peggiorative all'utente, questi avrebbe diritto a rivolgersi all'Authority, che avrà anche più poteri ispettivi e in materia di abuso di dipendenza economica dalle piattaforme digitali. 

Del capitolo salute restano le norme che limitano la discrezionalità nella nomina dei Primari nell'accreditamento dei privati. La possibilità di vendere i farmaci senza ricetta e di effettuare i tamponi anche nelle parafarmacie era stata cassata da tempo. All'insegna in un ddl che va verso una maggiore concorrenza, ma con il freno tirato.

Agenda Guia. Pnrr, che mi hai portato a fare sopra a un tassì se non mi accendi l’aria? Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 luglio 2022.

L’autista che sbaglia indirizzo perché impegnato a prendersela col collega, il separé di plexiglas, il pos rotto. Fa troppo caldo per chiedere ai tassinari di comportarsi come lavoratori normali? Per fortuna che non ho parlato con loro di Draghi

Alla stazione di Milano ci sono molti taxi, pochi passeggeri, e alcuni striscioni di protesta affissi dai liberi professionisti meno professionisti ma più liberi che ci siano. Uno dice: chi foraggia la multinazionale Uber è un infame.

All’alba bolognese, visto che ormai non si capisce più quando i taxi scioperino e quando no, mi hanno prenotato un ncc, non sono abituata a chiamarle così perché negli anni Ottanta le usavamo ma nessuno usava la dicitura «noleggio con conducente», si diceva «prendo una macchina blu», erano due società, sono rimaste le stesse, Bologna è rimasta per quello come per tutto al 1982. L’ncc mi aspetta al civico sbagliato, quando lo trovo e glielo faccio notare il guidatore s’innervosisce e se ne va. Quanto devi guadagnare per fottertene di fare la corsa per cui ti sei svegliato alle cinque?

Alla stazione di Milano il primo tassista mi dice: ho il bancomat rotto, è un problema? Beh, sì, è un problema legale. Mi guarda come se gli avessi parlato in una lingua a lui ignota. La legge dice che lei deve avere il pos. Eh, ma è rotto. Sì, e io sono miss in gambissima. Non lo dico. Ne vado a prendere un altro.

L’amica su taxi romano mi scrive: ti chiamo dopo, perché ora non posso dirti che questi stronzi di tassisti hanno fatto cadere il governo.

Il taxi che mi viene a prendere a Bologna ha l’aria condizionata spenta. Prima alla centralinista chiedevi: mi manda un taxi da pagare con la carta? Adesso, che il pos sono obbligati ad avercelo e puoi tirare fuori a sorpresa la carta a fine corsa, dovresti chiedere: mi manda un tassista che capisca che non solo deve avere l’aria condizionata ma deve pure averla accesa da prima, ché se arriva qui che è un forno se anche la accende quando salgo comunque mi si disfa la messinpiega prima che la macchina torni a temperatura potabile?

Il tassista bolognese, alla mia richiesta di accendere l’aria condizionata, risponde: io ho fatto il macellaio quindici anni, e le assicuro che non serve a niente. Oddio, sarà uno di quelli che vogliono spiegarmi che il caldo è una percezione e se non ci pensi non hai caldo? (È sicuramente una coincidenza che siano sempre uomini che non hanno mai avuto la sesta di tette e la menopausa). O intende cose più sofisticate, tipo che la carne morta marcisce comunque, con o senza condizionatore? Fa troppo caldo per chiedergli di spiegare, mi sudano i capelli, per non dir delle tette.

Mentre salgo sul secondo taxi alla stazione di Milano, sono al telefono con un’amica alla quale dico: scusa un attimo, devo dire l’indirizzo al secondo tassista perché il primo mi ha respinta. Il secondo tassista sente, tira giù il finestrino del passeggero e si mette a urlare al primo: collega, devi prendere i passeggeri in ordine. Poi fa una pausa negli strilli, durante la quale sente il signor «è un problema?» che prende ben volentieri un passeggero che paga anche lui con la carta ma va a Malpensa. Se non era per il dover portare lo scarto (che sono io), Malpensa toccava a lui. Il pelide Achille in confronto l’aveva presa bene.

L’amica sempre sul taxi romano mi scrive: mi hanno telefonato, ho detto al telefono «il governo», e questo mi sta attaccando una pezza da dieci minuti su come è stato ingiusto Draghi con loro.

A Bologna, dico al parrucchiere cinese che sto già ripartendo, speriamo non ci sia di nuovo lo sciopero dei taxi. Lui mi chiede perché i tassisti scioperino, «non lavorano da soli?», conveniamo che non vogliano pagare le tasse, poi lui mi chiede di pagare la messinpiega in contanti.

A Milano, il secondo tassista mi porta in un posto che non so dove sia. Mentre gli davo l’indirizzo era impegnato con l’ira funesta verso quello che gli aveva fregato la corsa per Malpensa, e non ha capito dove dovessi andare.

A Roma, prenoto un ncc perché devo prendere un’amica e andare in un posto prima che chiuda, mica posso rischiare di non trovare il taxi. La tizia al centralino mi dice che con una fermata intermedia sono quaranta euro. Anche l’ncc romano ha l’aria condizionata spenta quando ci salgo, la macchina inizia a essere fresca quando arriviamo a destinazione, dopo aver preso la mia amica: otto minuti in tutto. «Fanno quaranta». «Ho una carta». «No». L’amica paga lei in contanti, guardandomi come a dire: ma ci sei, che pensi veramente di poter pagare un autista romano con la carta, o ci fai?

All’aeroporto di Bologna, il taxi ha già undici euro sul tassametro. Trasecolo. Mi dice che è la tariffa minima dall’aeroporto, se non ci credo mi fa vedere il tariffario. Dico: sì, grazie. Va a prenderlo nel bagagliaio (ma perché tiene il listino prezzi nel bagagliaio?) borbottando: soccia che due maroni. Diceva il vero: c’è un minimo garantito casomai tu abitassi troppo vicino all’aeroporto e il tassista rischiasse d’incassare meno di undici euro. Rimette il listino nel bagagliaio: certi segreti bisogna sudarseli.

A Milano, il taxi che deve portarmi in aeroporto ha l’aria condizionata accesa, ma è come se non l’avesse: il separé di plexiglas fa sì che si raffreddi solo lui. «Ci hanno obbligati a metterlo col Covid». E tutti gli altri che non ce l’hanno più da due anni, il separé? E la mia messinpiega che si disfa? La prossima volta devo dire «un taxi con l’aria condizionata accesa e senza plexiglas che ne ostruisca il flusso d’aria fredda»? Mi dice che se voglio posso andare a sedermi davanti. Scendo in mezzo a via Vittor Pisani rischiando la vita pur di sedermi davanti a un bocchettone gelido e non far marcire la mia carne morta.

Alla stazione di Bologna, il tassista mi dice: la mascherina è obbligatoria. La metto pensando che nessun tassista negli ultimi mesi l’aveva o m’ha chiesto di metterla. Sarà un obbligo all’italiana, come il plexiglas, come l’aria condizionata nelle macellerie, come il pos rotto. D’altra parte, se nessuno scrive da nessuna parte «è severamente obbligatorio», lo sappiamo che finisce come pronosticato da Corrado Guzzanti, costituzionalista e antropologo: facciamo un po’ come cazzo ci pare.

Voti in cambio di illusioni. La politica del raggiro è l’emblema di un Paese che preferisce l’allucinazione alla verità. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 25 Luglio 2022.

Il programma economico della destra è psichedelico e pirotecnico, ma rischia di essere vincente. Un’ulteriore prova che, come fatto storico, non è la realtà a guidare le preferenze degli elettori, ma l’impostura e il miraggio di un mondo inesistente. A un passo dall’abisso vero 

Pronti, via! e la destra unita già promette di rottamare centinaia di miliardi di cartelle fiscali, dare mille euro di pensione minima a sessant’anni anni, mettere la flat tax al 20% a parità di spesa e fare dello sforamento di bilancio il pozzo di San Patrizio di ogni necessità e desiderio.

Questo programma pirotecnico e psichedelico e il suo potenziale (probabile?) successo nelle urne di settembre è una sorta di prova Invalsi della nostra democrazia che, anziché valutare la qualità del sistema formativo, misura quella del sistema politico e ne registra il miglioramento o il degrado.

Se si teme, come parrebbe dai sondaggi, che quasi un italiano su due sia disposto a concedere credito a questo sovranismo da Gratta e Vinci o da Superenalotto, occorre prendere drammaticamente atto dell’incompatibilità di un demos così conciato con il funzionamento del circuito democratico. Il che non significa – tranquillizziamo i “democratici per Giorgia” – sospendere la democrazia, ma riconoscere la sospensione della sua efficienza politica e della sua funzione di governo.

Se non si può esportare la democrazia semplicemente trapiantandone gli apparati e le procedure in contesti totalmente alieni ai suoi presupposti civili e culturali, non si può importare nella democrazia il ripudio della razionalità logica e morale come movente fondamentale dell’azione collettiva.

Proprio come il metodo scientifico, anche il metodo democratico è aperto, pluralistico e sottratto al principio di autorità, perché tutte le ipotesi possano essere sperimentate e tutte le tesi confutate e perché siano selezionate quelle migliori e più resistenti alla prova dei fatti, non perché le dispute si spostino dal piano della realtà all’universo parallelo delle verità prêt-à-porter e del terrapiattismo politico-scientifico.

Lo sgretolamento di un principio di razionalità pubblica, che non ha tanto a che fare con il sapere, ma con la responsabilità del pensiero e dell’azione, non a caso oggi presenta, in tutto l’Occidente, il carattere della rivolta contro le istituzioni politiche e scientifiche, accomunate dal sospetto di essere dispositivi di potere occulto e di nascondere nelle regole formali un dominio sostanziale incontrastato, perché non riconosciuto.

In Italia questo fenomeno ha caratteri ancora più intensi e diffusi. L’epopea del Movimento 5 Stelle nasce, non per pura coincidenza, all’indomani di quella della “cura Stamina”, un’allucinazione collettiva teleguidata da un delinquente, che ha soggiogato stampa, politica e opinione pubblica.

Grillo e Vannoni sono stati, in larga misura, la stessa cosa: hanno entrambi venduto ai malati il conforto di una cura immaginaria e l’hanno fatto persuadendoli che la gravità e l’inguaribilità della malattia fosse essa stessa ragione e obiettivo della terapia ufficiale.

Il programma economico-sociale (con rispetto parlando) della destra si innesta perfettamente in questo processo che porta dalla corruzione al raggiro e dal cinismo all’allucinazione. Se nell’Italia partitocratica il voto di scambio era prendere voti in cambio di cose, che è come da sempre i sovrani remunerano la fedeltà dei sudditi, nell’Italia antipolitica è prendere voti in cambio di illusioni, che è come i guaritori coltivano la devozione religiosa dei disperati. Non la compravendita del voto in cambio di pani e di pesci, ma dell’attesa del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Però un popolo disposto a votarsi all’illusionismo e a sacrificarsi in una frustrazione perennemente rigenerata da nuove illusioni non è una somma di persone, come un’epidemia non è purtroppo solo una somma di infetti. È un fatto storico, un fenomeno oggettivo, il segno di un’era.

Non è un fenomeno puramente “naturale”, né il prodotto di responsabilità personalmente imputabili, come la piazza Venezia gremita in attesa della dichiarazione di guerra di Mussolini non era semplicemente una responsabilità dei presenti, disposti ad applaudire l’ora delle decisioni irrevocabili.

La politica italiana a due mesi dal voto riparte da qui, da questo scenario chiaro e terribile, da questo circolo vizioso tra chimere e imposture. In fondo anche la vincente Meloni e la destra treccartara sono una tappa di questo processo e una stazione di questa via crucis nel fondo dell’abisso.

Repubblica Barnum. La campagna elettorale è appena cominciata ed è già una pena. Mario Lavia su L'Inkiesta il 23 Luglio 2022.

Draghi è uscito di scena da poche ore e già si vede il peggio di ogni partito: la destra arcigna e mercantile, la sinistra attorcigliata e pasticciona. Il riflesso di una classe politica che è riuscita a mandare a casa senza motivo un grande presidente del Consiglio 

La campagna elettorale nemmeno è cominciata e già fa schifo. L’ottundimento mentale di una classe politica che ha mandato a casa senza alcun motivo esplicito un grande presidente del Consiglio (ed è tutto un rinfacciarsi: «Sei stato tu», «no, sei stato tu», che pena) è evidentemente destinato a protrarsi di qui al fatidico 25 settembre, compleanno di Sandro Pertini, che per sua fortuna non può vedere lo spettacolo di una Repubblica Barnum, come il circo.

In queste prime ore post-Draghi la scena è tra il deprimente e il disgustoso e se il livello non salirà presto nessuno poi dovrà meravigliarsi del calo dell’affluenza, se lo spettacolo è da teatrino di provincia la gente non paga il biglietto.

Senz’altro nella seconda categoria – il disgustoso – rientra l’incredibile performance concessa dal “draghiano” Tg1 a Matteo Salvini, intervistato (si fa per dire) l’altra sera dal giovane conduttore, Alessio Zucchini (forse sarebbe meglio se a intervistare i leader fossero giornalisti più esperti e magari con licenza di interloquire), un numero da Woody Allen quando fa l’illusionista (Scoop, Magic in the moonlight), cioè penoso.

Salvini pareva una fattucchiera – «dimmi, tesoro, vuoi sapere come andrà l’amore?» – seduta a un tavolino con dietro una serie di immagini sacre, icone ortodosse, crocifissi, illustrazioni votive, gli mancava il mazzo di carte ma era proprio lui che, spostando indietro le lancette, ha di nuovo agitato lo spettro dei barconi e di Elsa Fornero, poco è mancato che improvvisasse un sabba per ritrovare la fortuna di un tempo, o rinfrescasse il mojto di tre anni fa, è tornato come il conte di Montecristo, ricco e spietato, sente l’odore del sangue come i tori raccontati da Ernest Hemingway (“Morte nel pomeriggio”), è il ragazzo troppo cresciuto che già come minimo si rivede al Viminale.

Inutile dire che l’esibizione di madonne e immagini religiose, in sé raccapricciante, ha ripreso il “numero” dei comizi con il rosario in mano, una via di mezzo tra Peron, Padre Pio e la “maga” del Pasticciaccio di Gadda: politicamente ed esteticamente, un salutone alla Lega “giorgettiana” e “fedrighista” della modernizzazione del Nord: è tempo di barbari, questo, di citofoni e di famiglie fondate «sulla mamma e sul papà».

E per non essere da meno, contemporaneamente è tornato lui, Silvio, ma su questo ha già scritto parole definitive chi ha colto anche qui l’eterno ritorno del sempreguale: mentre guardavamo l’avvocato senza qualità «tomo tomo e cacchio cacchio Berlusconi si riprendeva il ruolo di sfasciacarrozze» – ha scritto Francesco Merlo – stupendo chi dopo trent’anni si illudeva su una sua crepuscolare resipiscenza morale e nazionale.

Il vecchio, di cui si dice abbia un’autonomia intellettuale per così dire a intermittenza, invece ha colpito ancora come Totò che si diverte a spaccare i vetri di Mezzacapa, stavolta regalando Forza Italia alla Lega – vai a capire se per bilanciare la Meloni o perché proprio non s’è reso conto – e irridendo chi ha detto «non sono d’accordo», i ministri forzisti che a differenza del Cavaliere avevano preferito Mario Draghi a Licia Ronzulli.

Il brutto è che immediatamente Berlusconi ha rimesso i panni del venditore di tappeti – «pensioni a mille euro!», costo stimato 60 miliardi (ndr) – ficcando la manona nel sacco del mercante di sabbia, quello stesso sacco dell’«avete capito bene, aboliremo l’Ici» e delle dentiere gratis.

Dall’altra parte c’è infinitamente più decoro (ma è sul decoro che si voterà, caro Enrio Letta?) e si è finalmente aperta qualche finestra per far uscire il lezzo populista del contismo, ma come dicono a Napoli guardi i dirigenti del Partito democratico e sembra che «hanno appena passato ‘nu guaio», c’è sempre qualcosa che non torna, la solita confusione, hanno appena coperto di terra il campo largo e già è diventato strettissimo («Renzi no, ci fa perdere voti», ha detto qualche stratega a Stefano Cappellini di Repubblica), ma poi forse si allarga ai cocomerari di Fratoianni, uno per il quale Draghi era peggio di Scelba.

Poi vogliono acchiappare Carlo Calenda ma fino all’altra sera non si erano fatti sentire, dicono sì al mite Roberto Speranza ma non al suo mentore Pier Luigi Bersani, poi rompono con il Movimento 5 stelle ma ci fanno insieme le primarie in Sicilia, quindi Franceschini chiede molti posti, e così Orlando, c’è pure una truppa di Orfini, e poi bisogna candidare Zingaretti a Roma (si voterà anticipatamente nel Lazio, un’altra batosta?), fan sfegatato di “Conte the killer”, come cantava in un gran pezzo Neil Young, “Cortez the killer”, Nicola il mai-sindaco-di-Roma, se la sbrigasse il povero Gualtieri inondato di mondezza come e peggio della Raggi.

Parte dunque nel casino strategico la campagna del Partito democratico, che si apre a Luigi Di Maio, indimenticabile accusatore del “partito di Bibbiano”, e si chiude a Teresa Bellanova, così Matteo Renzi già si è offeso per il veto nazarenico su di lui ed è sempre vittima, lui e Italia viva, del solipsismo di Calenda che non vuole nessuno dattorno, salvo aspettare a braccia aperte Gelmini e Brunetta, per non dire Carfagna. Intanto è già arrivato il senatore Andrea Cangini.

A poche ore dall’uscita di scena dell’italiano più autorevole nel mondo insomma torna il peggio di entrambi gli schieramenti come fossimo in un gigantesco blob degli anni Novanta, con la destra arcigna e mercantile e la sinistra attorcigliata e pasticciona ed ecco spiegato perché tanta gente di sinistra e di destra (e di niente) sospira: «Ma perché hanno mandato via Draghi?». Già, signora mia, benvenuta alla campagna elettorale dell’anno di grazia 2022. Grazie presidente Mattarella a mettere fretta, già non se ne può più.

IL CENTRO DESTRA

Fratelli d’Italia.

Autopsia del fu governo tecnico. Così si è fatto fregare Mario Draghi, alle elezioni vincerà la Meloni rimasta fuori dalla mischia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Luglio 2022 

C’ è un elemento umorale e umoristico che rende questa crisi italiana del tutto italiana. Dice Pierferdinando Casini che è stato l’uomo più “inside”: «Salvini ha ripetuto quello che aveva già fatto al Quirinale e si è dimostrato inaffidabile. Stamattina ho parlato con amici che hanno sempre votato per il centrodestra e che hanno detto tanto vale allora votare la Meloni che almeno ha le mani pulite. Tutti hanno fatto scelte spiegabili soltanto con analisi junghiane. Quanto allo zampino, anzi zampone, russo, io non so niente ma ho già sentito dieci persone importanti che mi dicono tutti la stessa cosa: se lavori in quella direzione non sbagli». Per par condicio trovi subito quelli che ti spiegano che è colpa della Cia e degli americani così come trovi per il Covid e la carestia, teorie complottiste di origine aliena.

L’Italia dal 2011 non ha più avuto un capo di governo arrivato a Palazzo Chigi vincendo le elezioni. Ma abbiamo avuto presidenti della Repubblica, prima Napolitano e poi Mattarella, ma anche abbastanza Pertini e poi Cossiga, che ormai hanno concesso a sé stessi la loro forma personale di Repubblica presidenziale che meglio si attaglia alle loro forme mentali. La Costituzione italiana è vaghissima sui poteri reali del presidente e ognuno di loro ne ha scritto un pezzo improvvisato: da Pertini a Cossiga, da Ciampi (che fece sul serio il gran rifiuto) per cui è stata realizzata una nuova Costituzione che porta volentieri a Palazzo Chigi un tecnico gradito al presidente. Che si chiami Dini, Ciampi, Monti o Draghi poco importa perché ciascuno di loro è espressione di una visione personale del mondo. E quella di Mattarella è probabilmente quella più vicina all’Unione europea, e di sicuro Draghi era il suo candidato preferito, ma anche quello dell’Europa che conta e che eroga fondi.

Per questo la situazione italiana è anche comica: perché somiglia all’antica festa di paese che si chiamava Albero della Cuccagna sulla cui punta stava in un sacchetto una piccola fortuna per l’arrampicatore che riusciva a salire e portarsi a casa il gruzzolo. Non sempre il gruzzolo è vile moneta ma anche venale soddisfazione come quella proposta a Draghi: lottare con aplomb britannico per convincere un Parlamento arlecchinato che non corrisponde al popolo che lo ha eletto, ad eseguire fedelmente lo scadenzario per vincere il tesoretto con il quale l’Italia dovrebbe passare dal giurassico al post-moderno. Il povero Draghi pensava di giocare a bridge quando invece era rubamazzo: organizzava strategie che richiedono almeno un partner, contentandosi di giocare col morto. Il morto era la politica, morta da quando non esistono più le cosiddette ideologie ma neanche uno straccio di idea di una società capace di affrontare i problemi, cercare le soluzioni. Ieri si sentivano le urla di gioia dei tassisti che consideravano il governo Draghi un nemico della categoria. Non per caso il Parlamento fascista era la Camera dei fasci e delle corporazioni. E non per caso le corporazioni sono state sempre la banda chiodata del suo passato.

Questa è la ragione per cui la Meloni incassa lauti premi occupando da sola il trono della regina di picche e che detta la linea malgrado le sue carenze in storia: altrimenti perché manterrebbe nel suo simbolo la fiamma tricolore e del fu movimento sociale italiano e che rappresentava il gas della decomposizione del cadavere del Duce acceso in un fuoco fatuo con i colori della bandiera. Chi glielo fa fare? E perché nessuno trova questo dettaglio deprimente? Ma è così: gli italiani possono indifferentemente votare in massa per i democristiani, per i comunisti, meno per i socialisti e moltissimo per il vecchio Pci di Berlinguer e poi per Matteo Renzi. E subito rottamato. Senza dimenticare il fascismo di massa come il cattolicesimo di massa, l’antiamericanismo di massa, il giustizialismo di massa, il vizio di distribuire patenti di eroismo a chiunque purché rappresenti un bene elettorale. È sempre la stessa pappa: il popolo dei fax, la società civile, l’ambientalismo radicale il negazionismo sulla natura e la temperatura dell’adorato pianeta di cui tutto sommato siamo finora il prodotto più riuscito e poi gli apritori di scatolette di tonno che negli Stati Uniti sono tutti sotto processo per alto tradimento. C’entra tutto ciò con quanto è caduto nelle ultime settantadue ore?

La risposta è ovviamente no, eppure è proprio lì che sta l’inconsistenza politica del nostro paese che ha applaudito quando ha visto decapitare la classe dirigente che aveva rimesso in piedi la baracca dopo la catastrofe della guerra. C’entra qualcosa Draghi in tutto questo? Sì e no: non si è reso conto che invitare Letta e solo Letta a discutere formalmente della crisi politica non poteva che far incazzare il centrodestra che per quanto abbia mugugnato, specialmente Salvini, non ha compiuto mai atti di opposizione o di rottura. Certo, la memoria recente di come Salvini sia stato sputtanato da un sindaco di destra di un paese polacco che gli ha sbattuto in faccia le magliette putiniane, è anche comico e fa arrossire, ma l’Italia è fatta così e se vuoi governarla devi conoscerne umori e sapori. Il presidente Charles de Gaulle si chiedeva (con molta civetteria) come si possa governare un paese che ha cinquecento qualità di formaggio. Noi sul formaggio siamo più unificati, ma questo non rende le cose più semplici. Draghi seguitava a giocare a scacchi quando l’universo della politica aveva deciso di giocare a scopetta e lui si è confuso, non ricordava più chi avesse il settebello, e così ha perso non soltanto con dignità, ma senza averci capito un cavolo.

Intanto la guerra in Ucraina andava avanti e si è visto che sopra la panca la capra campa, ma senza armi la capra crepa. I Pentastellati, ma diciamo meglio l’avvocato Conte di motu proprio, aveva deciso di non voler dare più armi agli aggrediti, per sparigliare. Draghi non ha sparigliato ma ha tenuto duro su una linea del tutto ignota ai suoi compaesani come i valori occidentali e la difesa ridicola e perdente della difesa della libertà altrui, i diritti dell’uomo e del cittadino e altre banalità da caffè-concerto. Insomma, da furbissimissimo che sembrava, era diventato il pollo della giocata. Anche Mattarella era sorpreso, poi perplesso, poi entusiasta vedendo Draghi che faceva su e giù le scale del Quirinale, un corazziere a destra e uni a sinistra, pensando che fosse una partita di polo. Insomma, la crisi, così come la guerra di Troia: era cominciata con la ragazza Elena che faceva la capricciosa ed è finita a cavalli di legno. Così, per quanto con effetto minore, questa crisi è cominciata con il Conte che faceva il pazzariello ed è finita con il pazzariello che pur di ottenere il suicidio assistito, ha costretto l’uomo del Colle a convocare le elezioni che, a conti fatti, vincerebbe la Meloni, prudentemente rimasta fuori dalla tombola di quartiere, tenendo sempre le manine sulla malsana fiamma che resiste alla crisi energetica. E che non si è capito chi glielo fa fare. E così che in Italia i conti tornano ma i draghi si estinguono.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Brandelli d’Italia. Anche per gli americani Giorgia Meloni è un pericolo serio per la democrazia. L'Inkiesta il 22 Luglio 2022.

Un commento pubblicato dal New York Times smonta la narrazione di una leader sovranista seria, atlantista e responsabile: «La presa del potere a destra da parte di figure che si considerano esplicitamente eredi della tradizione fascista è uno sviluppo allarmante»

L’Italia torna al voto e il mondo ci guarda in attesa di capire se il nostro Paese sarà l’anticamera di un nuovo fenomeno politico: il neofascismo al potere. L’allarme viene dal New York Times che con un articolo di David Broder smonta con durezza il tentativo di Giorgia Meloni di accreditarsi come una politica seria, atlantista e responsabile. «La presa del potere a destra da parte di figure che si considerano esplicitamente eredi della tradizione fascista è uno sviluppo allarmante» si legge nell’articolo. 

Meloni «si presenta come una politica coi piedi per terra», ma allo stesso tempo «mescola in modo micidiale le paure del declino della civiltà con aneddoti popolari sui suoi rapporti con la sua famiglia, Dio e l’Italia». L’esempio di questa tecnica retorica è il comizio della leader di Fratelli d’Italia in Andalusia, a sostegno della campagna elettorale di Vox, partito di estrema destra che guarda con nostalgia al regime di Franco. Il libro si apre con una chiamata alle armi eccessiva perfino per un memoir politico: “If this is to end in fire, then we should all burn together” (Se tutto questo finirà in fiamme, allora bruceremo insieme).

Ma a colpire l’opinionista non sono solo le parole d’ordine di Meloni, quanto è la discrepanza tra la presunta linea pro Ue-pro Nato professata nei circoli internazionali dalla leader di Fratelli d’Italia, e i fatti: «Il partito persegue un’agenda apertamente reazionaria in patria».

Per esempio quando Forza Nuova ha attaccato con violenza la sede della Cgil lo scorso ottobre, Meloni ha preso formalmente le distanze ma si è astenuta sulla mozione parlamentare per sciogliere il grippo neofascista, limitandosi a condannare genericamente tutti i totalitarismi. 

Sul giornale più autorevole del mondo desta preoccupazione l’ambiguità politica di Meloni che ogni volta ha grande difficoltà nello scrollarsi di dosso simboli, parole d’ordine e relazioni che collegano il suo partito alla galassia neofascista. Broder mette tutto in fila: dalla fiamma del Movimento Sociale Italiano contenuto nel simbolo del partito, ai legami ambigui di alcuni europarlamentari con figure legate alla tradizione del neo fascismo militante milanese, come mostrato nella recente inchiesta di Fanpage su Roberto Jonghi Lavarini. 

Per il New York Times, il successo di Fratelli d’Italia è dovuto a una coincidenza politica straordinaria: da una parte la rottura delle barriere tra il centrodestra tradizionale e l’estrema destra, che si sta diffondendo in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti. Dall’altra parte la situazione economica e sociale dell’Italia: crescita piatta, alta disoccupazione, profonda disuaguaglianza tra Nord e Sud. «In questa atmosfera di declino, dove la prosperità sembra poco plausibile, il messaggio dei Fratelli d’Italia – che la salvezza nazionale si trova solo nell’abiura dei migranti e nella difesa della famiglia tradizionale – ha trovato un pubblico ricettivo».  

Dal 1994 il solito ritornello dei media stranieri "Berlusconi e i moderati inadatti a governare..." Pier Francesco Borgia il 24 Luglio 2022 su Il Giornale.

Dall'Economist alla Faz: a gamba tesa contro il Cav. La volta che Ciampi li zittì 

Sembra un luogo comune per quanto è trito e ritrito: a ogni nuova campagna elettorale dove il leader di Forza Italia è protagonista i giornali stranieri si impegnano a fondo per delegittimare il centrodestra accusandolo di non avere numeri e competenze per guidare il Paese. E questa habitus mentale ha origini lontane. Ha infatti preso piede proprio con la discesa in campo del '94. All'inizio Silvio Berlusconi rappresentava per gli osservatori stranieri semplicemente un'incognita. Un self made man che scendeva in politica soltanto per compiere al meglio il suo lavoro di lobbista. E lo spettro di azione del suo impegno politico andava dall'endorsement in favore dell'allora leader del Movimento sociale, Gianfranco Fini, a candidato sindaco di Roma, fino all'amicizia con Bettino Craxi. Quando la campagna elettorale entrò nel vivo anche i giornali stranieri scesero in campo. Con una scelta netta: ammonire gli italiani al rischio del salto nel buio. Nel corso della campagna elettorale molte testate straniere attaccarono Berlusconi: dal Times a Le Soir, da Le Monde al New York Times (solo per citarne alcuni). Tanto che lo stesso Berlusconi ironizzò: «A sfogliarli sembra di leggere L'Espresso o la Repubblica, se non fosse per la lingua. Stessi pregiudizi».

Nel 2001 a lanciare la campagna contro il Cavaliere fu il giornalista britannico Bill Emmott. Da direttore dell'Economist licenziò una copertina che rappresentava una condanna senza appello: Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy (Perché Silvio Berlusconi non è adatto a guidare l'Italia). Insomma, lo scenario si è ripetuto senza grandi variazioni sul tema dell'impresentabilità del Cavaliere. Questa volta, però, che la misura fosse colma lo stabilì lo stesso presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che replicò seccato agli attacchi della stampa straniera dicendo che l'europeismo di Forza Italia e del suo leader non poteva essere messo in discussione. I giornalisti stranieri cambiano musica. Ma il ritornello è sempre l'impresentabilità del leader azzurro. Per la Frankfurter Allgemeine Zeitung «Berlusconi promette tutto a tutti» mentre il quotidiano berlinese Tagesspiel boccia la campagna del Cavaliere con un impietoso: «Solo parole vuote, solo slogan». Anche a Parigi i giudizi non sono teneri per il presidente azzurro. Le Monde e Liberation si trovano per una volta uniti nell'ostracismo nei confronti del leader politico italiano: «Incoraggia l'illegalità».

Nel 2008 il copione si ripropone praticamente senza variazioni di rilievo. Anzi, i giornali stranieri si sono fatti più audaci anche nelle previsioni. Ora preconizzano un fallimento della campagna elettorale del Cavaliere, vista la defezione di Pier Ferdinando Casini e - a loro giudizio, non provato da riscontri oggettivi - dalla freddezza di Bankitalia (all'epoca diretta proprio da Mario Draghi).

Le parole più pesanti arrivano dal Newsweek che definisce Berlusconi «magnate-showman» anche se ha alle spalle già una lunga esperienza di uomo politico, di rappresentante delle istituzioni e di capo del governo. «I sondaggi - scrive la rivista americana - danno Berlusconi in testa. Ma questo è difficilmente motivo di ottimismo».

Arriva dall'America la prima cannonata contro il centrodestra "Tempi cupi per l'Italia se vincerà la Meloni".

Paolo Bracalini il 24 Luglio 2022 su Il Giornale.

La stampa internazionale inizia la campagna contro la leader Fdi. L’editoriale del "New York Times" di un opinionista di estrema sinistra. Attacchi anche dalla Germania: "Rischio di una nuova marcia su Roma". Offensiva di "Repubblica".

Giorgia Meloni si trova a fare i conti, in una campagna elettorale di soli due mesi, con molte diffidenze internazionali. Diffidenze è poco. Il lavoro portato avanti dalla leader Fdi per togliersi di dosso l'etichetta di post-fascista non è bastato. Si è accreditata a Bruxelles, diventando presidente del gruppo parlamentare dei Conservatori e riformisti Europei. È su posizioni chiaramente atlantiste, e pure dall'opposizione si è schierata con gli aiuti militari all'Ucraina, in modo ancora più netto rispetto alla Lega di Salvini. Lo scorso febbraio è stata ospite della convention dei Repubblicani a Orlando, in Florida. Ma evidentemente non è bastato. Da qualche giorno, dopo la caduta del governo Draghi e la notizia delle elezioni con la possibile (probabile, secondo i sondaggi) vittoria del centrodestra e successo personale della Meloni, si è scatenato un fuoco multipolo sulla stampa internazionale, anche quella in cui si è soliti intravedere il punto di vista dei «poteri forti» (quelli che si auguravano la prosecuzione del governo Draghi, per intendersi). Il Financial Times parla della Meloni come di una leader di «estrema destra» (hard right) con «radici neo-fasciste». Il New York Times la demolisce con un articolo che definisce «cupo» il futuro dell'Italia con al governo la Meloni e i suoi «Brothers of Italy». L'autore, David Broder, non è un giornalista del quotidiano newyorkese ma uno storico e traduttore che vive a Roma, scrive su riviste online di estrema sinistra come Jacobin (cioè giacobino, tutto un programma). Ha già scritto un libro sulla destra populista italiana e, informa il Nyt, sta lavorando ad un libro sul «fascismo nell'Italia contemporanea». Un autore quindi totalmente di parte, ma l'articolo compare nella sezione opinioni del Nyt che ha un peso (infatti viene citato in un altro articolo da Paul Krugman, economista premio Nobel e guru della sinistra libera americana: «Sono d'accordo, l'Italia potrebbe rappresentare il futuro dell'Occidente. Ed è tetro»). «Forse non bruceremo tutti insieme nel fuoco. Ma se l'estrema destra salirà al governo, in Italia o altrove, sicuramente qualcuno di noi lo farà» scrive Broder.

Ma anche altrove la leader di Fdi viene presa di mira. Il quotidiano berlinese Tagesspiegel la definisce «la speranza dei fascisti», «i suoi simpatizzanti includono nostalgici di Mussolini ed ex teppisti neofascisti. Durante le loro apparizioni si può vedere regolarmente il saluto romano, che corrisponde al saluto di Hitler nella Germania nazista» scrive il corrispondente da Roma, Dominik Straub. Il quale ricorda le date: «A cento anni esatti dalla marcia su Roma di Benito Mussolini e dalla presa del potere il 30 ottobre 1922, è probabile che il governo venga assunto da una personalità che ha costruito tutta la sua carriera politica nelle nebbie dei vari partiti e gruppi postfascisti». Una coincidenza temporale evidenziata anche dal Süddeutsche Zeitung, in un articolo titolato «Gli eredi di Mussolini marciano su Roma».

Una campagna che in Italia ha potato avanti soprattutto Repubblica, che infatti ieri apriva la sua versione web con l'ennesima inchiesta sul «passato di Fdi che non passa: l'ombra nera mai fugata», la fiamma nel simbolo, la tomba di Mussolini, il caso Fidanza... Secondo la leader di Fdi «si stanno muovendo una serie di think tank della sinistra italiana che vanno in giro a dire che se vine la Meloni l'Italia viene risucchiata da un buco nero», però corregge il tiro sul comizio in Spagna da Vox, quello sulla lobby gay, «cambierei il tono» dice alla Stampa.

La questione entra anche nei ragionamenti della coalizione. Tra gli alleati, Forza Italia e Lega, c'è il timore che la Meloni sia molto attaccabile su questo fronte del pericolo fascista, alimentato dalla stampa internazionale, quella che leggono a Bruxelles. E che quindi una candidatura della Meloni a premier del centrodestra possa indebolire la coalizione in campagna elettorale. Anche per questo (ma non solo), su chi farà il premier in caso di vittoria non ci saranno indicazioni troppo precise in campagna elettorale.

La Russa: “Ambienti italiani dietro gli attacchi dei quotidiani stranieri. Ma noi non perderemo un voto”. Augusta Cesari domenica 24 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.

“Dietro gli attacchi dei giornali stranieri a Giorgia Meloni, ci sono ambienti italianissimi“. E’ la convinzione del senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa a In mezz’ora in +, su Rai3. Non sono certo sfuggiti al cofondatore di FdI i “fuochi incrociati” contro Giorgia Meloni giunti dagli Stati Uniti- dal New York Times in particolare- seguiti dagli articoli di alcuni quotidiani -Repubblica in primis-  che veicolano il “pericolo” fascista; il pericolo che l’Italia cada in mano agli “estremisti” di FdI. Una narrazione falsa, fatta per schemi preconfezionati e buoni ad ogni elezione in cui si fa strada il successo di un partito di destra. E dell’intero centrodestra.

La Russa: “Ambienti italianissimi dietro agli attacchi stranieri alla Meloni”

La domanda dell’Annunziata verte proprio sugli attacchi giunti da alcune testate statunitensi. Ma La Russa vede oltre. “Gli americani – ha spiegato l’ex ministro della Difesa – hanno registrato la nostra posizione da sempre filo occidentale, filo atlantista, di sostegno all’Ucraina; al contrario della sinistra che è da poco atlantista. Come mai c’è questo tema adesso? Ambienti italianissimi lavorano affinché giornali stranieri li aiutino a non perdere; e dire cioè che c’è un pericolo di destra, un pericolo Meloni”. Ribadisce il concetto il cofondatore di FdI: “Politicamente abbiamo precisi elementi per dire che abbiamo ambienti italiani della cultura del giornalismo, della politica, che stanno lavorando in combutta con ambienti della sinistra internazionale. Noi non perderemo un voto, ma è un modo per danneggiare l’italia”, aggiunge La Russa.

L’Annunziata lo punzecchia sull’elemento chiave sul quale si intende incrinare la coalizione: il tema della leadership in caso di vittoria del centrodestra alle elezioni del 25 settembre. “Chiediamo il rispetto delle regole dell’altra volta e pari dignità” -risponde  il senatore di Fratelli d’Italia. La domanda era in realtà messa in maniera molto ruvida: sul fatto che i veri nemici di Giorgia Meloni siano Salvini e Berlusconi. “Che ci sia una dialettica all’interno di ogni coalizione è evidente. La dialettica nei confronti di Giorgia è salita di tono – risponde La Russa – perché il resto del centrodestra ha ritenuto di stare al governo, con Pd e 5s: e quindi c’è stata tensione. Ma non è Matteo Salvini il nostro nemico, ma anzi è un amico. Perché il popolo di centrodestra è molto coeso. I nostri programmi sono compatibili, la gente che vota per Berlusconi e Salvini si trova d’accordo con Meloni. Così come quelli che votano per il centro di Toti, mi auguro della Carfagna”.

Spiega ancora La Russa: “I nostri alleati hanno ecceduto – ammette – nel dare l’impressione che fosse più importante frenare la Meloni che battere la sinistra. Chiediamo rispetto delle regole dell’altra volta e pari dignità. Vogliamo semplicemente che si parta con una garanzia: che si vince insieme e si perde insieme. E che non deve mai più succedere che qualcuno accetti di stare con Pd e 5s”. Sottolinea in un passaggio che “è una sorpresa enorme per l’Italia che una giovane donna di destra abbia tanti consensi; e che possa traghettare da un governo con dentro tutti a un governo coeso”. “Di sicuro – ha aggiunge La Russa – questa giovane mamma ha dovuto superare più ostacoli di quanti ne debba superare un uomo”. E poi chiarisce una volta per tutto l’accusa che viene mossa sempre e in ogni occasione dalla sinistra e dagli ambienti radical chic: “Noi senza classe dirigente? Fdi – scandisce – ha la migliore giovane classe dirigente del Paese, ed è pronta ad aprirsi ad apporti della società”.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” domenica 24 Luglio 2022. 

«Il futuro è l'Italia, ed è desolante». È duro il titolo dell'editoriale che David Broder ha scritto ieri per il New York Times, analizzando la possibilità che Giorgia Meloni diventi il prossimo inquilino di Palazzo Chigi. Ma proprio nelle stesse ore la newsletter GZero di Ian Bremmer ha pubblicato un commento di Willis Sparks, che si chiede se l'erede della tradizione post-fascista e la campionessa del nazionalismo euroscettico, sia la persona più adatta a fare gli interessi di Roma in questa fase storica così delicata. Infine Foreign Policy si domanda se diventeremo morbidi sulla Russia, con lei premier.

Se tre indizi bastano a fare una prova, Washington qualche dubbio sul collocamento di Meloni ce l'ha, nonostante il suo sforzo di prendere posizioni atlantiste più decise dei filo putiniani Salvini e Berlusconi. Dall'inizio della crisi Casa Bianca e dipartimento di Stato hanno scelto una linea pragmatica e rispettosa dei processi costituzionali italiani.  

Perché in genere questo è l'atteggiamento degli Usa verso le vicende di politica interna degli alleati, nonostante i nostri complessi di persecuzione e l'abitudine a vedere complotti planetari dietro ogni angolo, ma anche perché vogliono tenersi aperta la possibilità di collaborare con chiunque vinca le elezioni. I diplomatici che seguono l'Italia, però, hanno l'obbligo di capire cosa sta accadendo, e cosa possano aspettarsi da un'eventuale premier di Fratelli d'Italia.

Broder scrive da Roma, dove si era già occupato dell'ascesa dei populisti con il libro "They First Took Rome". Racconta le radici politiche di Meloni, dal Msi a Fratelli d'Italia, passando per An, sottolineando che il suo partito «porta il simbolo adottato dai luogotenenti sconfitti del regime di Mussolini». Spiega la sua ascesa dal 4% dei voti presi nel 2018 alla leadership attuale nei sondaggi, con la decisione di restare unico partito all'opposizione di Draghi.  

Assimila il suo nazionalismo, gli allarmi sul declino della civiltà occidentale, e l'opposizione all'immigrazione, alle posizioni di altre formazioni dell'estrema destra europea, come Vox in Spagna e Le Pen in Francia. Riconosce la scelta atlantista, ma sottolinea «l'agenda reazionaria» in politica interna. Quindi, riferendosi alle parole del libro di Meloni, conclude così: «Forse non bruceremo tutti insieme nel fuoco. Ma se l'estrema destra dovesse prendere il governo, in Italia o altrove, alcuni di noi sicuramente bruceranno». 

Sparks sottolinea l'adesione di Giorgia allo slogan della «vecchia scuola fascista "Dio, patria e famiglia" », e la volontà di rimediare alla crisi demografica favorendo le nascite, pur di non aprire all'immigrazione per conservare i livelli attuali della forza lavoro. Poi punta la contraddizione tra il suo atlantismo e l'euroscetticismo, perché non si conciliano bene con gli interessi economici dell'Italia, e quelli strategici degli Usa nella sfida contro le autocrazie.

Quando nel febbraio del 2020 Meloni era venuta a Washington per la riunione dei conservatori al "National Prayer Breakfast", ci spiegò così il senso della missione: «Sono una patriota, e sono venuta qui come italiana. Questo modo di concepire le relazioni internazionali con l'idea di diventare il burattino di qualcuno non l'ho mai condivisa ». Aveva sottolineato che «io non ho rapporti con oligarchi russi», a differenza di Salvini, e aveva aggiunto: «È possibile anche per l'Italia avere un governo che difenda l'interesse nazionale italiano, ma non rinunci ad avere relazioni con il resto del mondo. È esattamente quello su cui lavora Fratelli d'Italia ».

Al dipartimento di Stato ora si chiedono cosa possa significare questo, nel concreto dei rapporti bilaterali, al di là dell'anti americanismo post fascista forse superato. Hanno notato l'atlantismo di Meloni, mentre aspettano ancora di capire dalla magistratura italiana cosa fosse successo all'Hotel Metropol con Salvini e i suoi collaboratori. L'alleanza in Europa con la Polonia dovrebbe garantire la tenuta sull'Ucraina di un governo guidato da Fratelli d'Italia, anche in coabitazione con Lega e Forza Italia, e il suo nazionalismo difficilmente andrebbe d'accordo con cedimenti di sovranità alla Cina.  

L'euroscetticismo però è un problema, tanto per gli aiuti economici che potrebbero mancare all'Italia, quanto perché l'amministrazione Biden ha fatto del consolidamento dei rapporti con Nato e Ue il primo pilastro di partenza della strategia per contrastare la sfida delle autocrazie. Contraddizioni profonde, su cui si aspetta con curiosità la soluzione scelta da Meloni.

Si vota, riparte il fango. Marco Zucchetti il 24 Luglio 2022 su Il Giornale.

Stampa internazionale (e italiana) in soccorso della sinistra: contro il "rischio Meloni" arrivano gli editoriali militanti di "allarme". Come con Berlusconi e Salvini

Siamo due avversari convinti e, spero, leali». Era questo il sogno di una notte di mezza legislatura di Giorgia Meloni, convinta di aver trovato in Enrico Letta un carissimo nemico che invertisse il trend di delegittimazione sistematica riservata a lei, a Fdi e al centrodestra. Purtroppo, è bastato un giorno di campagna elettorale per dimostrare che una competizione civile con i dem è solo pia illusione. Non importano le smancerie alle presentazioni dei libri, né la concordia quando si tratta sul Quirinale, né l'atteggiamento da agnellini in cravatta: quando si vota, a sinistra non si fanno prigionieri. E il richiamo della foresta dell'ex Pci, quell'istinto feroce di demonizzare ogni avversario, è più forte di tutto.

Le danze le ha aperte come spesso succede Repubblica, che ha fatto della demolizione preventiva di qualsiasi sfidante del Pd una missione. Così ieri, insieme ai consueti richiami alle «ombre nere», per dimostrare che «negli Usa cresce l'allarme per una post-fascista a Palazzo Chigi», si citavano «editorialisti e diplomatici» terrorizzati. Già, ma chi? Il primo è David Broder, commentatore del New York Times e collaboratore di Jacobin, rivista socialista e anticapitalista su cui scrivono sinceri liberali come Corbyn e Varoufakis. Broder è uno storico britannico del comunismo convinto che il Pci filo sovietico in Italia sognasse «una democrazia progressista», che Forza Italia sia «di estrema destra» e il governo Draghi sia «il primo esecutivo post-democratico in Occidente».

Insomma, una voce schierata che rappresenta il sentiment americano quanto Damiano dei Måneskin quello del Vaticano.

La seconda fonte di «allarme» è la newsletter GZero, su cui Willis Sparks si chiede - parole di Rep - «se l'erede della tradizione post-fascista e la campionessa del nazionalismo euroscettico sia la persona più adatta a guidare l'Italia». Peccato che l'articolo, piuttosto equilibrato, in realtà sottolinei come «il pragmatismo della Meloni sa battere il suo nazionalismo».

Insomma, pronti, via e parte il solito giochino, con la stampa estera che lancia il puntuale allarme democratico seguendo una formula scientifica: se sale al potere X (dove X è il leader di centrodestra di turno, «inadatto» a prescindere, da Berlusconi a Salvini a Meloni), torna il fascismo, le cancellerie inorridiscono, i mercati crollano e arrivano le cavallette, tanto ormai con queste temperature è plausibile.

«Democratica» nella ragione sociale, post-ideologica in teoria e dogmatica in pratica, la sinistra italiana da trent' anni apre strategicamente agli altri quando servono ai suoi scopi (vedi Bossi, Fini, Alfano...), salvo poi stracciare ogni patente di legittimità politica sotto elezioni. Ed è così che il «proficuo confronto» con chi la pensa diversamente si tramuta in pura caccia al reietto. Sia sui giornali, sia nei tribunali.

Fin qui, tutto da copione come un «no» grillino a una grande opera. Sta al centrodestra usare la presunta «superiorità morale» della sinistra come molla per ritrovare un orgoglio di coalizione oltre errori e conflitti. Perché la sfida non è strappare la premiership, ma dimostrare che un'Italia moderata e conservatrice è una risorsa di serietà, non un pericolo. E che il centrodestra unito può battere le corazzate progressiste, siano esse gioiose macchine da guerra come nel 1994 o stanche macchine del fango (internazionale) come nel 2022.

Può bastare come motivazione per ricominciare a remare tutti nella stessa direzione?

Arrivano le elezioni e torna la macchina del fango. Francesco Borgonovo su Culturaidentita.it il 27 Luglio 2022

Ve l’avevamo annunciato nella copertina di CulturaIdentità di novembre 2021: c’è un momento in cui una manina, o manona, aziona il ventilatore per mascariare con schizzi di fango l’avversario politico, mai di sinistra. Il meccanismo si è rimesso in moto oggi, con la manfrina del fascismo immaginario e del presidio democratico in assenza di fascismo e del pericolo per l’Italia fuori dai salotti buoni atlantisti e UE (ma non era la sinistra a civettare con la Cina e l’Iran e i paesi sudamericani?). Ma ora si sta passando il segno: iniziano a circolare sui social fotomontaggi che vanno ben oltre i confini della satira verso Giorgia Meloni. E ci si mettono pure i giornali, pubblicando a bella posta una foto sessista in prima pagina: è la scelta editoriale di ieri di un noto quotidiano progressista, fatta con una forte dose di malizia ma soprattutto di cattiveria. E le femministe dell’altra parte mute. Non gli bastavano infatti gli insulti quotidiani, bisognava superare i confini della decenza. Perché il pericolo è sempre quello. (Redazione)

Penso che bisognerebbe scrivere un piccolo saggio intitolato “L’antifascismo eterno”, al fine di indagare una patologia che da troppo tempo affligge la nostra nazione. No, lo spauracchio fascista è sempre lì, a portata di mano, buono per essere ripescato alla bisogna. Funziona così da anni: ogni volta che bisogna svilire e demonizzare qualcuno, lo si accusa di rimpiangere il Duce o di volerlo imitare. È accaduto a Bettino Craxi, quindi a Silvio Berlusconi, poi a Matteo Salvini, ora a Giorgia Meloni. La psicosi fascismo è come il covid: dobbiamo imparare a conviverci. C’è un solo modo per uscirne: rendersi conto che non la smetteranno mai, e non cedere di un millimetro. Non bisogna prendere le distanze, scusarsi, giustificarsi. Non bisogna nemmeno perdere tempo a spiegare. L’inquisizione ha già emesso il verdetto, provare a discolparsi non serve. Bisogna, invece, mettere in discussione il tribunale dei sedicenti migliori, degli arroganti che non la finiscono mai di spargere infamia. Si scusino loro, i geni di sinistra, della loro ideologia mortifera. La stessa che ha prodotto casi come Bibbiano, che impone il gender nelle scuole, che alimenta il sistema micidiale dell’immigrazione di massa. Si scusino per le balle raccontate sull’emergenza covid, e per i morti che i loro errori hanno procurato. Si scusino per i ravioli cinesi consumati in tv e per gli aperitivi. Si scusino per come hanno criminalizzato l’amor patrio, il rispetto della tradizione e l’orgoglio identitario. Si scusino per il continuo svilimento della democrazia che operano da decenni. L’attuale antifascismo è una patologia psichiatrica. Chi ne soffre non va assecondato: va, semmai, aiutato a guarire. Qualcuno dice che l’allarme fascismo finirà quando la tornata elettorale sarà dietro le spalle. Non ne sono del tutto convinto.

"Una balla il pericolo fascista. Ma la stampa è conformista". Paolo Bracalini il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'intellettuale: "Appena si vota vengono fuori le stesse inchieste. L'antifascismo così è ridotto a macchietta".

Pierluigi Battista, è tornato il rischio dei fascisti al governo, la nuova marcia su Roma, tra l'altro è anche il centenario.

«Come sempre, ad ogni campagna elettorale si agita questa storia in modo pretestuoso. L'hanno fatta l'inchiesta sui saluti romani? Bene. Per mesi nulla, sono ridiventati tutti fascisti improvvisamente in Italia o forse era un'esagerazione? Adesso aspetto le coraggiose inchieste di Fanpage sul consigliere comunale del paesello che ha il busto di Mussolini sulla scrivania, chissà quante ne faranno nei prossimi due mesi. Ma davvero pensano che la Meloni abbia pronte le squadracce con l'olio di ricino e il manganello? Che abbia quello in testa? Io sono orgogliosamente antifascista, ma non si può usare l'antifascismo in modo strumentale, solo quando serve, sennò lo si riduce ad una parodia. Come l'Anpi che fa la pastasciutta antifascista. Sono cose che a me danno molto fastidio perché finiscono per ridicolizzare una cosa estremamente seria come l'antifascismo».

Anche la stampa estera però scrive le stesse cose. La Russa dice di avere le prove che dietro gli attacchi dei giornali stranieri ci sono ambienti italiani.

«Non facciamo i complottisti per cortesia. Non è che al New York Times fanno la riunione di redazione e decidono: adesso facciamo il mazzo alla Meloni. Ma dai, siamo seri. C'è invece un problema drammatico di conformismo culturale e giornalistico».

Anche nei prestigiosi giornali stranieri?

«Ma li conosci i colleghi della stampa estera? Sono dei cazzoni che vanno a prendersi il mojito con i colleghi italiani, si fanno imbeccare e poi scrivono le stesse cose. Non è un complotto, c'è proprio un idem sentire, un linguaggio unico del giornalismo, è il linguaggio delle elite che non parlano più a nessuno. Si utilizzano suggestioni facili, lo facciamo anche noi. Tutta la stampa, anche italiana, era contro Trump e poi ha vinto le elezioni, ora sembra che tutta l'Italia stia con Draghi ma forse non è proprio così».

Stessa cosa con il pericolo del nuovo regime fascista alle porte se vince il centrodestra.

«Non c'è un italiano che sia minimamente condizionato da questa cosa. Ci sono solo quattro svalvolati di Casa Pound e dei centri sociali che pensano ai fascisti e ai comunisti. Il Novecento è finito e non importa a nessuno. Ma davvero credono che a Pietra Lata o Quarto Oggiaro pensino che siamo alla vigilia della marcia su Roma? La stragrande maggioranza del popolo italiano sa benissimo che oggi non c'è il pericolo del fascismo se vince la Meloni o del comunismo se vince il Pd. É una storia che appartiene al passato. E come se ci dividessimo in cavouriani e garibaldini. A me la Meloni non piace per la politica che fa, non per la storia da cui viene. Ma oltre a lamentarsi per gli attacchi pretestuosi sul fascismo dovrebbe fare qualcosa in più lei per prevenirli».

Tipo?

«Basta poco, dovrebbe fare un discorso molto semplice prima della campagna elettorale. Dire: noi non siamo fascisti, siamo per la democrazia, per il pluralismo, quindi il primo imbecille dentro il partito che fa il saluto romano, o mette la croce celtica o peggio ancora fa battute sugli ebrei lo caccio immediatamente a calci nel sedere. Questo dovrebbe dire, dato che qualche nostalgico ci sarà pure nel suo partito. Tra l'altro poi elettoralmente non contano niente, quanti voti perderebbe?

Pochi, se si guarda ai voti che prendono Forza Nuova e le liste di estrema destra.

«Appunto, allora cosa aspetta? In compenso parlerebbe a tutto l'elettorato che ora invece non la considera. Questo è l'errore della Meloni, che poi è anche quello della Le Pen che infatti al primo turno vince e poi regolarmente al secondo perde. Deve fare uno sforzo, deve avere coraggio, in politica serve. Il tanto bistrattato Fini andò ad Auschwitz, alle Fosse Ardeatine, allo Yad Vashem, è stato un percorso doloroso e a volte anche ingiusto ma lo ha fatto, pagando anche un prezzo».

Fu l'inizio della sua fine.

«Alla Meloni basta molto meno, se vuole vincere eviti di fare quei comizi sguaiati alle convention di Vox, che sono veramente dei franchisti, prenda le distanze dall'autoritarismo di Orbàn. La forza di Berlusconi era che parlava ad un mondo che non era tutto di destra. La Meloni dovrebbe parlare con Confcommercio, con i piccoli imprenditori. Prendendo in modo chiaro le distanze dal fascismo. Se invece vuole coltivare i voti della sezione Msi della Garbatella faccia pure...»

Attacchi ignobili di “Repubblica” alla Meloni. La leader: “Parte il fango contro di noi, aspettatevi di tutto”. Gabriele Alberti domenica 24 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Ci siamo, inizia col botto la campagna di fango per demolire Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia. Oggi è la Repubblica a lanciare accuse ignobili e ridicole al primo partito nel gradimento degli italiani, dunque da combattere con armi “non convenzionali”. C’è tutto in questo nell’edizione domenicale del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Si va oltre ogni immaginazione. Il quotidiano schiera truppe antifà sparse in tutto il giornale. Nelle ultime ore la paura del voto e del pericolo rappresentato dal successo della leader di FdI proveniva da oltre oceano. Oggi è il quotidiano diretto da Molinari a iniziare la “guerra”.  “Con la campagna elettorale è ripartita, puntuale come sempre, la macchina del fango contro me e Fratelli d’Italia. Aspettatevi di tutto in queste settimane, perché sono consapevoli dell’imminente sconfitta e useranno ogni mezzo per tentare di fermarci. Se ci riusciranno o no, quello dipenderà da voi“. Lo scrive Giorgia Meloni sulla sua pagina Facebook puntando il dito su stampa internazionale e italiana che parla del ‘rischio Meloni’.

L’attacco ignobile di Repubblica a “Giorgia la nera”

Si inizia da pagina 10: “Il passato che non passa: Quell’ombra nera mai fugata da Meloni” è un articolo di Paolo Berizzi, scrittore e sentinella antifà in servizio permanente effettivo. La prende da lontano per veicolare l’immagine di una pericolosa fascista che potrebbe impadronirsi delle istituzioni repubblicane. Parte dal 7 gennaio 2008 quando Giorgia era ministra della Gioventù e FdI era di là da venire. Ebbene da quella data ad oggi, l’autore scrive un “romanzo” sull’anima nera della Meloni: “FdI e la sua leader terrebbero “Vivo il legame con la galassia nera (non solo) del nostro Paese”. Repubblica parla di “una cornice di esibizioni e rimandi fascisti o fascistoidi, proclami razzisti e sessisti. Come quelli che la presidente dei Conservatori e Riformisti europei ha sguainato, il 12 giugno, dal palco di Marbella per sostenere il partito di estrema destra Vox. Giorgia la “nera””. Sinceramente non credevamo ai nostri occhi. Quanto segue è ancora peggio:

Si arriva al 29 aprile 2022. “Alla convention di FdI Meloni – si legge – improvvisa una gag per deridere le accuse di fascismo”. E certo, come si poteva replicare, se non con l’ironia, a chi le rinfacciava il completo giacca- pantalone neri? con la serietà? Il bello viene con la crociata di Berizzi contro la lettera M. La Meloni a Milano aveva parlato delle quattro M care alla sua agenda:  «Mamma, merito, mare e marchio». Eh no, signori, per Berizzi, tra queste M c’è viva  e vegeta quella di Mussolini. E c’è la M di Milano, quella Milano, appunto, che è lo sfondo dell’inchiesta di Fanpage sulla “lobby nera”.  L’articolo è tutto un’elububrazione di questo tenore. Indigesto, irricevibile, indegno di una civile contrapposizione. Anche il web se la ride. Su twitter l’articolo rilanciato da Crosetto è sbertucciato non poco. “La crociata contro la M. Se questi sono i contenuti della campagna elettorale della sinistra…”. Hanno paura di perdere, ha ragione la Meloni, aspettiamoci di tutto.

E infatti arriviamo a pagina 28 con  una vignetta che mostra Benito Mussolini disegnato da Biani che esclama: “Ma sì, chiamatemi pure centrodestra”. Non è tutto: Michele Serra sabato demoliva il centrodestra con altrettanti epiteti ridicoli in un ragionamento politico.  “È uno spettacolo al quale siamo abituati, ma non per questo è meno incredibile: una fascista civilizzata e un incivile fascistizzato, con la benedizione di un miliardario in pensione che trent’ anni fa fece finta, votatissimo, credutissimo, di essere un leader politico”. Fino al 25 settembre ci sorbiremo questa roba qui….

Giorgia Meloni, allusione sessuale in prima pagina su Repubblica: "Stomachevole". Libero Quotidiano il 27 luglio 2022

La prima pagina di Repubblica su (o forse sarebbe meglio dire "contro") Giorgia Meloni fa esplodere Fratelli d'Italia. La foto della leader accompagnata dal titolo "Il diktat", relativo alle parole pronunciate all'indirizzo degli alleati Silvio Berlusconi e Matteo Salvini ("Senza un accordo sul premier, niente governo insieme"), avrebbe un retrogusto molto malizioso e decisamente volgare. Con cui la politica c'entra veramente poco o nulla.

"Stomachevole - denuncia la deputata meloniana Carolina Varchi in una nota -. Una chiara e volgare allusione sessista contro Giorgia Meloni. Questo non è giornalismo libero ma solo machismo da taverna". E così si riaccende l'attenzione su alcuni dettagli per così dire sottovalutati, a una prima occhiata. "Chiediamo a tutte le donne, incluse quelle di sinistra, di ribellarsi a questa volgarità e mancanza di rispetto", rincara la deputata di FdI Augusta Montaruli. 

Leggermente più velate, ma non meno dure, le parole di condanna di Guido Crosetto, tra i fondatori di Fratelli d'Italia: "A Repubblica non bastava infarcire quotidianamente il giornale di articoli che insultano, attaccano e diffamano Meloni e FdI. Era troppo poco, hanno raggiunto un nuovo livello, superato altri confini: quelli della decenza, del buon gusto e del rispetto". Roba da rimpiangere pure la "normale" strumentalizzazione.

“Repubblica” contro Giorgia Meloni. Ma perché? Lettera aperta a Maurizio Molinari. Carmelo Briguglio il 22 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Gentile direttore, per anni, ho evitato, pur sollecitato, ribalte mediatiche. Ho ritenuto che un periodo di riserbo e riflessione sarebbe servito a fare giudicare, con maggiore obiettività e distacco, persino a me stesso, una stagione politica lontana, della quale sono stato secondario “protagonista”; ormai é esperienza consegnata, con parecchi errori e qualche merito, alla storia politica del Paese. Lontano, per un po’ di anni, da attive militanze e ricerca di ritorni, desidero però chiedere qualche minuto di attenzione a lei che oggi dirige il giornale che al tempo nutrì – diciamo così ? – l’iniziativa politica di Gianfranco Fini. La prima considerazione riguarda la linea adottata da Repubblica riguardo a Giorgia Meloni. A mio modo di vedere, un grande giornale ha il diritto di schierarsi soprattutto in vista di un appuntamento elettorale importante: é una scelta che personalmente preferisco, al confronto di talune neutralità di facciata; tuttavia, mi sarei aspettato una dichiarazione esplicita in favore del fronte progressista e basta. Invece, man mano che il personaggio Meloni é salito nel gradimento popolare e nei sondaggi d’opinione, Repubblica – fuoriuscendo dall’aplomb di ragionata mitezza della sua direzione che oggi, mi perdonerà, appare commissariata – sembra essersi data come prioritaria missione prendere di mira la leader di Fdi; fino a mobilitare a ciò significative risorse redazionali.

Tanti eccessi e critiche smodate 

Detto, con franchezza: il tutto appare ai più, non a me solo, davvero eccessivo. Le chiedo: può essere il principale scopo di un autorevole quotidiano come il suo, provare a fermare ad ogni costo, l’ascesa di una leader dando voce  a critiche di qualsivoglia tipo ? Lei lo sa: molte, troppe sono smodate, per nulla conducenti al profilo politico; si insinuano fin dentro inclinazioni individuali e relazioni familiari. La cosa non é disdicevole in sé: il politico deve rispondere del suo “privato” se ha refluenze sul “pubblico”; ma é difficile dimostrare che la forma fisica di un tempo o il supposto cambio della squadra del cuore, oppure una marcata “sorellanza” possano avere a che fare con tali influenze. Che dice ? Non spetta a me giudicare se una linea editoriale sia corretta o meno; ma, umile collega di quanti sono impegnati nel “corpo” che lei dirige – dal quale, nei miei trascorsi di attore politico, vennero concessi generosi spazi e temo affettate udienze – sento il dovere di fargliele queste osservazioni.

Alcuni suggerimenti

Alle quali, mi permetterà aggiungere un non richiesto consiglio: non sarebbe più corretto un forum in redazione con la candidata premier, in clima di equilibrio e pacatezza – ma, per cortesia, addomestichi il “dàimon” dell’agguato che agita gli intimi eskimi di alcuni dei suoi – per chiedere conto e ragione di ogni singola parte del suo programma politico e della sua idea di Paese ? Scusi il suggerimento. Secondo. Glielo dico subito, subito: lei sa bene non avere fondamento le riserve nei confronti della Meloni su due temi sensibili, quali sono l’antifascismo e la collocazione internazionale. Per dimostrarlo, non mi soffermerò su fatti noti e solenni dichiarazioni a partire dalla esplicita condanna del fascismo, fatta dalla Meloni con un surplus di candore (“Se fossi fascista, lo direi”); nemmeno tornerò sulla posizione di Fdi – non facile, converrà, dai banchi di unica opposizione – a gratuito appoggio del governo Draghi, in favore delle ragioni di Kiev contro la guerra di aggressione mossa da Putin. Insomma, su fatti che parlano da sé. E neppure più di tanto sulla Pravda, che quasi quanto Repubblica, ha messo nel mirino la candidata con concrete possibilità di diventare capo del governo di un grande Paese occidentale. Solo un appunto: la notizia dell’attacco russo alla Meloni, ripresa con evidenza da tutti i media italiani, per Repubblica non é esistito: nessuna traccia né in prima, né altrove. (Solo il giorno dopo, a tarda ora, l’edizione digitale ci ha messo una pezza, dopo che tutti gli altri…)

Il monogramma “M” greve e grossier

Perché ? Perché il suo quotidiano era distratto dal confezionare il “longform” su una  “Internazionale nera”, di cui la Meloni sarebbe la immaginaria capa: più puntate, tutte puntatissime contro di lei, incarcerata dentro il monogramma “M”; lo confesso: io l’ho trovata disambiguazione alquanto greve. Ci comprendiamo. Dentro il “polpettone” balza agli occhi, anche a quelli miopi come i miei, una serie di copia-incolla (é estate, bisogna riempire) come quello sul legame Meloni-Le Pen; una illeggibile sbobba riscaldata persino con la fiamma tricolorata in blu, al tempo copiata ad Almirante da “pére Le Pen”. Lontanissimo tempo. Nel quale la piccola Giorgia sarà stata impegnatissima a scatenare tutta la sua “fascisteria” sui banchi della scuola materna. Maschia; di sicuro, alla radice della vostra recente scoperta: “la candidata al premier ragiona al maschile”. Posso dire che pure questa fa “grossier” ?

“Eravate proprio voi a lodare la destra in cui si è formata la Meloni”

Vabbè, almeno potevate ricordarvi della divorziata coppia, quell’ “io guido la famiglia dei conservatori europei. In Francia non ci sono al ballottaggio candidati che rappresentano il partito guidato da me”: il muro alto alto che Giorgia ha tirato tra lei e Marine. Purtroppo, il vostro “techetè” lo cancella: troppo vicino, troppo recente; inadeguato allo scopo. Comprendo. Ora, il mio ragionamento, che farà storcere il muso a qualcuno dei miei radi lettori, é un altro. Ma Giorgia Meloni non si si é formata nella classe dirigente guidata dal “vostro” stimatissimo Fini ? Non é cresciuta nella serra calda di quella destra che tanto amavate ? Aperta, dialogante, così benvoluta da cancellerie e ambasciate di mezzo mondo. Non é emersa lì, la signora che adesso, scrivete voi, spaventa l’Europa ? Non é quella la sua matrix ? Non é in quel brodo di cultura politica che la leader di Fdi ha fatto emergere le sue qualità ? Non é Fini in persona che ci ha visto ?

Vocazione “occidentale” solida e non improvvisata

Beh, perché la Meloni non dovrebbe avere raccolto il meglio di quell’heritage, da voi lodato in centinaia di incorniciabili pezzi ? Perché la destra della Meloni non avrebbe ricevuto quel “depositum fidei” di garanzia delle alleanze internazionali dell’Italia, assicurata da An dalle postazioni della Farnesina e della Convenzione per la nuova Costituzione europea presieduta da Giscard ? Mentre, lo dicevate voi, B. – ora dal B. siete passati alla più cattiva M. – coltivava relazioni pericolose con Putin e Gheddafi.  Guardate che Giorgia era lì, eh. Nella classe dirigente che da quella ispirazione politica é segnata: l’ha praticata. Era esponente di spicco della stessa “forma” politica An – poi traslocata nel Pdl – di Ignazio La Russa che dalla Difesa dialogava con gli americani e con la Nato. Che credete? Quella che con Urso faceva squadra con l’Europa e con l’Occidente al Commercio estero. Altro che “via della Seta”. Suvvia. In quel vivaio é sbocciato il fiore Meloni: da dove credete, spunti ?

Perché ora tutti questi pregiudizi?

Lei era lì in mezzo, ragazza-ministro del suo dicasterino della Gioventù, ma ben presente in quel gruppo di mischia, in quel governo. In quel giro. E allora ? Perché questo pregiudizio ? Perché questo dispiegamento di forze “contras” ? Che vi ha fatto ? Che ha fatto di male per farvi liberare tanto feroci istinti ? Fatevene una ragione: questa donna rischia di sfondare il tetto di cristallo della subalternità politica femminile in Italia; può essere la prima presidente del Consiglio nella storia della Nazione. É questo il vero problema ? É questa la fastidiosa nemesi del mondo progressista, che in realtà Repubblica combatte ? Ma le armi scelte, mi creda, sono sbagliate. Perché la vocazione atlantista e occidentale, la Meloni l’ha maturata negli anni. Non é callido espediente dell’ultima ora. É il punto di arrivo di un itinerario lungo della destra italiana che viene da lontano: fin dall’adesione missina alla Nato, alle Comunità europee, agli euromissili. Quando sulla “rive gauche”, invece…Voglio dire: la presidente di Fratelli d’Italia é espressione della sensibilità collettiva di una classe dirigente cresciuta dentro l’Occidente, con la visione di una destra parlamentare, che oggi e sempre ha avuto e ha furenti competitori alla sua destra: Italexit per tutti.

Le forzature anti-Meloni contro l’interesse nazionale

Nessuno, in politica, é figlio o figlia di se stessa. Contano molto le ascendenze politiche e intellettuali; ma, caro Molinari, se volete capire la quarantenne Meloni e la sua capacità di rendersi credibile, non andatevene a ritroso nei luoghi tragici della storia italiana ed europea, fino all’alba del secolo scorso. Lasciate perdere Predappio, il folclore “fascio”,  i sepolcri, gli spettri della guerra civile spagnola. Prendete in rigoroso esame il cammino della (forse) prossima premier nel passato recente: presidente d’aula a Montecitorio, ministro, leader di una storica famiglia politica europea, donna delle istituzioni e di relazioni anche internazionali. Nel qual percorso vede ombre e pagliuzzine, solo chi vuole vederle; chi non vede o sottovaluta le travi nel campo guidato da Letta: a partire da brutti antisemitismi e sovietiche nostalgie, queste sì, preoccupanti.

“Meloni è figlia legittima della nostra Repubblica”

Prenda atto il suo giornale, che l’attuale leader del centrodestra ha compiuto il suo cammino dentro la democrazia italiana: é figlia legittima della nostra Repubblica; non ha avuto e non ha motivi di deviare dalla continuità degli impegni che l’Italia tradizionalmente mantiene con gli altri partner europei ed occidentali. Volerlo mettere in dubbio, con evidenti forzature, a mio modo di vedere, non serve al discorso pubblico, a una competizione elettorale liberata da timori che non hanno ragion d’essere. Non serve soprattutto all’Italia, alla sua reputazione in Europa e nel mondo, al nostro permanente – titolo del suo bel libro di qualche anno fa – “interesse nazionale”. Ecco, se può, caro Molinari, tenga conto, di queste mie “marginalia”. Non ci credo, ma ci spero. Grazie, comunque. Auguri

"Quella foto è la vera Meloni". Mancava Toscani all'appello (sessista). Il fotografo plaude la scelta della foto di Giorgia Meloni da parte de la Repubblica e la considera una "foto giusta" per la leader di FdI. Francesca Galici su Il Giornale il 27 Luglio 2022.

Nella solita politica dei due pesi e delle due misure, la foto di Giorgia Meloni pubblicata in prima pagina su la Repubblica non ha indignato nessuno che non sia del suo partito. Il direttore Maurizio Molinari, anzi, ha rimandato al mittente ogni accusa, perché dal suo punto di vista la malizia sarebbe negli occhi di chi ha visto il sessismo in quello scatto. A sminuire il senso di quello scatto, ma non ci si sarebbe potuto aspettare diversamente, è arrivato anche Oliviero Toscani che, anzi, ha elogiato la scelta del quotidiano: "La fotografia è il documento delle cose e questo scatto è esattamente espressione di quello che è la leader di Fratelli d'Italia. Un applauso a chi ha scelto questa foto pubblicata in prima pagina su Repubblica: è molto espressiva, una foto giusta. E ritengo che non sia affatto una immagine sessista, non si offenda quindi la Meloni".

Bufera sulla prima pagina di Repubblica. E le femministe tacciono

Di diverso avviso molti esponenti di Fratelli d'Italia che, invece, hanno visto una subdola allusione in quello scatto della leader del partito con la bocca aperta e il microfono vicino. Tra tante, secondo i fedelissimi di Giorgia Meloni, il quotidiano ha scelto quella e non per caso. "La foto scelta da Repubblica con ampio spazio non è né la prima né l'unica cosa che il quotidiano sceglie di fare, portando avanti una campagna tutta tesa a denigrare la figura di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia. Va contestualizzata la foto, la scelta della foto, l'evidenza data a questa foto nell'ambito di una campagna sistematica di denigrazione della figura del presidente e del partito, tra l'altro credo con un effetto boomerang, ma questo lo vedremo", ha detto Isabella Rauti, senatrice di Fratelli d'Italia e responsabile del dipartimento Pari opportunità, famiglia e valori non negoziabili.

La senatrice, infatti, sottolinea che "delle migliaia di foto che potevano utilizzare su Giorgia Meloni, ne hanno scelta una che intanto è volgare e ha un evidente messaggio allusivo e doppio senso a sfondo sessista". Una difesa del quotidiano che non ci sarebbe stata se la protagonista non fosse stata Giorgia Meloni, secondo il parere di Isabella Rauti: "Quando le vittime sono donne di sinistra si leva una generale ondata di solidarietà, al contrario se di destra si solleva soltanto la solidarietà delle donne di destra. Siamo in un contesto in cui addirittura si studiano i linguaggi istituzionali, tutto viene declinato. Se poi Repubblica si permette di usare una foto che quantomeno allude, e siamo solo all'inizio campagna elettorale, non va bene".

"Non ho colto...". La giustificazione "no sense" della Boldrini sulla foto sessista della Meloni. La deputata Pd, solitamente agguerrita nel rintracciare le discriminazioni, stavolta non ha battuto ciglio: "Foto sessista? È un'interpretazione alla quale io veramente non ero arrivata". Marco Leardi su Il Giornale il 27 Luglio 2022.

Tutto normale, nessuna stranezza. I radar anti-sessismo di Laura Boldrini, solitamente pronti a cogliere il benché minimo fremito discriminatorio, stavolta non hanno rilevato nulla. Zero. Secondo l'ex presidente della Camera, la discussa foto di Giorgia Meloni comparsa ieri in prima pagina su Repubblica non aveva niente di anomalo. Un punto di vista non condiviso però da altre donne. Le deputate di Fratelli d'Italia, infatti, dopo la pubblicazione di quello scatto avevano diversamente parlato di "volgare allusione sessista" e di "machismo da taverna". A differenza di quanto accaduto in altre circostanze, tuttavia, dal mondo femminista nessuno aveva battuto ciglio.

Interpellata sul tema, la stessa Boldrini ha assicurato di non aver ravvisato alcun intento discriminatorio. All'Adnkronos, l'ex presidente della Camera ha spiegato di aver scansionato come d'abitudine i quotidiani senza però notare nulla di particolare. "Ho visto i giornali la mattina, e come faccio normalmente ho guardato quante firme di donne ci sono in prima pagina, se ci sono titoli che non sono rispettosi o ambigui, e anche le foto. Ho visto anche la prima pagina di Repubblica ma non ho colto questo aspetto 'sessista' nella foto che raffigurava Giorgia Meloni in prima pagina", ha affermato l'esponente Pd.

"Ho saputo di questa lettura da un deputato di Fratelli d'Italia, che ieri si è avvicinato al mio banco a chiedermi se avevo visto la foto, sollecitando una mia reazione e chiedendomi: 'Non dici niente? È una foto sessista'", ha raccontato la Boldrini, spiegando però di non aver condiviso quello sdegno. "È un'interpretazione alla quale io veramente non ero arrivata. Per questo non sono intervenuta, perché in altre occasioni quando è accaduto che donne anche di partiti per me agli antipodi sono state oggetto di sessismo io ho sempre preso le loro parti. L'ho già fatto, sia a sostegno di Giorgia Meloni che di altre colleghe o donne di schieramenti politici lontani da me", ha aggiunto l'ex presidente della Camera.

"Questa volta ho fatto fatica a vedere questo contenuto. Lei sta parlando e c'è un titolo che dice 'diktat'. Bisogna veramente sforzarsi per trovare un contenuto sessista in questa foto", ha concluso l'esponente Pd. E pensare che, su altre questioni legate alle donne, la stessa Boldrini aveva invece esibito una ben diversa solerzia. Di recente, ad esempio, aveva esortato a non dare "pentoline e Barbie" alle bambine per non alimentare stereotipi di genere, oppure si era battuta affinché non si dicesse "buongiorno a tutti", ma "buongiorno a tutte e a tutti". Quelle sì che erano priorità evidenti.

"Anche io sono Giorgia, ma....". La volgarità della cantante fa esaltare gli anti-Meloni. La cantante Giorgia posta sui social un velenoso meme che allude alla Meloni, cedendo all'ormai frequente vezzo di buttarla in politica. Marco Leardi su Il Giornale il 27 Luglio 2022.

Musicalmente parlando, in questo caso, si dovrebbe parlare di remake. O di variazione sul tema con accezione polemica. Al vezzo sempre più diffuso di buttarla in politica, sotto sotto, ha ceduto anche la cantante Giorgia. Sì, quella dalla voce strepitosa e dal macroscopico talento. Quella di "Come saprei", "Gocce di memoria", "È l'amore che conta" e tante altre. Ebbene, nel frizzante clima mediatico da campagna elettorale, la popolare artista romana ha fatto esaltare di colpo gli utenti di sinistra che bazzicano sui social, postando un meme allusivo nei confronti della leader di Fratelli d'Italia.

Sul proprio profilo Instagram, solitamente utilizzato per condividere momenti di vita privata o professionale, la cantante ha lanciato una storia diversa da quelle a cui i suoi follower sono abituati. A sopresa, infatti, l'artista ha dato spazio a quella che in moltissimi hanno interpretato come un'allusione politica velenosa, postando una "vignetta" che già circolava in rete. Il meme in questione faceva il verso a un'ormai nota espressione di Giorgia Meloni ("Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana"). Nell'immagine pubblicata dalla cantante Giorgia, appariva il suo volto e sotto la seguente scritta: "Anche io sono Giorgia, ma non rompo i coglioni a nessuno".

Figurarsi: il solo fatto di aver rilanciato quel contenuto ha trasformato la cantante in una paladina anti-Meloni. Perché ormai, nella diffusa retorica della contrapposizione, basta poco per essere incasellati e polarizzati politicamente. Quando questo accade a un'artista, un po' spiace. Vero è che, in alcuni casi, la volontà di schierarsi è tutt'altro che timida o involontaria. Si pensi alle dichiarazioni della cantante Elodie, la quale di recente aveva espresso aperte critiche a Giorgia Meloni, incappando anche in qualche svista. Nei giorni scorsi, ad esempio, l'artista romana aveva preso le distanze dal programma elettorale di Fratelli d'Italia senza accorgersi che quello da lei commentato era un prospetto del 2018.

Negli ultimi anni la cantante Giorgia si era sempre tenuta lontana dall'esprimere valutazioni politiche, preferendo invece deliziare il pubblico con la sua apprezzabile musica. Che abbia purtroppo cambiato idea?

Ossessione da “star”: non sei nessuno se non odi Meloni. Da Elodie a Giorgia, le cantanti in prima linea contro la leader di Fdi. Max Del Papa il 29 Luglio 2022 su Nicolaporro.it.

Se ti senti triste e sola, c’è qualcosa che puoi fare, dare addosso alla Meloni, in campagna oppure al mare. C’è la campagna elettorale estiva, fatto unico, e il Pd ha già assoldato scartine, meteore, piccoli artisti da tormentone estivo o da Sanremo. Questa Elodie, per esempio. Da – ugh! – cantante non se la filava nessuno, ma come analista non dà i resti, i giornali di regime, che vogliono la presistenza del regime, la interpellano due volte al giorno prima e dopo i pasti e l’oracolo è sempre lo stesso e sempre in punta di scienza politica: ahò. Cioè a me ‘a Meloni me fa paura. Checcazzo, tutto quell’odio, quel livore, a stronza. Un trionfo! Anche se Elodie non sa di che parla e non specifica: lei sostiene di aver letto “il programma” della leader di Fratelli d’Italia, ma dove non si sa visto che non è mai uscito, come quello degli altri partiti del resto. Però col tormentone “ahò io c’hoppaura” Elodie sfonda.

Ecco che, invidiosissima, irrompe così Giorgia, una che da 30 anni vive di repertorio, con un post di adeguata classe, perché con Elodie bisogna resettarsi di livello: “Pure io mi chiamo Giorgia ma non rompo i coglioni”. Di fatto, l’hai appena fatto. L’allusione è al tormentone, ricordate? “Io sono Giorgia, sono una donna, sono cristiana” eccetera. Roba chiaramente pretestuosa, senza un motivo logico, perché la faccenda di “Io sono Giorgia” ha un paio d’anni e ritirarla fuori così è con tutta evidenza raschiare il fondo del barile della provocazione. Ma non si poteva correre il rischio di clonare la concorrente Elodie. E allora, boom, ecco il petardo che gli elettori, gli ascoltatori, i piddini, vogliono sentire. In mancanza di tormentoni freschi, va bene anche un tweet. Sembra una faccenda andante, l’ego mortificato di chi ha conosciuto stagioni migliori, ma no, è invece una mossa attentamente studiata. Sui social, tutto un fiorire di anime belle, o semplici, o naif, che dicono: però, questa Giorgia: la credevo una da Festival, da Pippo Baudo, invece mi tocca rivalutarla. La rivalutano, capito, in quanto antimeloni.

Da parte sua, la Giorgia politica ha replicato in difesa, sa che non le conviene alzare i toni, che i provocatori non aspettano altro. È una strategia rischiosa però: i sondaggi, quelli veri, riservati, premiano la moderazione, ma a forza di incassare, c’è rischio di ritrovarsi suonati a fine corsa. Più che il rope-a-dope di Muhammad Ali, Fantozzi. O Tafazzi. C’è il mischione, il carrozzone degli esagitati, un giorno Repubblica fa la foto allusiva, la Meloni “pompinara” (questo è, dai, su, Molinari, non peggiorare la situazione: siete roba da bettola), il giorno dopo Elodie e l’altra Giorgia, a seguire, vedrete, tutte le altre: figurati se la stagionata Mannoia, se la vetusta Bertè, se quella e quell’altra restano indietro. Tutte a difendere la democrazia, che sarebbe: la Meloni non deve parlare, non deve vincere, non deve esistere. Perché? Perché, aho, io choppaura, che cazzo, a stronza. Di che c’hanno paura? Non lo sanno, vanno di repertorio, da bravi zdanoviani (poi ve lo spieghiamo con calma cosa significa, care Elodie, Giorgia, Fiorella eccetera, non è una parolaccia), si abbeverano ai pozzi del Piddì: il razzismo, il sessismo, l’antiabortismo, l’inquinatismo, il familismo, bla bla bla. Siamo alla stupidità da teatro dei burattini e non certo perché venga criticata una leader di destra.

Ma per i toni, gli argomenti, si fa per dire, il livello elementare dell’approccio. Diceva Giovanni Sartori che nelle questioni di scienza politica, sotto un dato limite, discutere diventa più inutile ancora che con quelli che credono agli Ufo nel salotto di casa. Ma questi “artisti”, questi “cantanti” sono i ribelli con la tessera annonaria, gli intruppati che in 30 mesi di regime mai hanno alzato la voce se non per preoccuparsi dei loro ingaggi. Sempre zitti e buoni, sempre con le diciotto mascherine e il braccio teso, pronto alla nuova inoculazione. Uno spettacolo mortificante, tutto italiano, che ha convolto tutti, dai vecchi grotteschi, Pelù, Vasco Rossi, agli affaristi alla Fedez e J-Ax, alle cicale estive che sculettano su TikTok e la chiamano arte. Tutti governativi, tutti spediti ai concertoni sindacali o ai Sanremo o gli Eurofestival gender. In cambio, la complicità assoluta: delle nefandezze in altera pars, dei lockdown programmati, degli arresti per mancanza di maschera, dei vax che, ormai non lo nasconde più nessuno, ne accoppano più di quanti non ne salvino, della totale scomparsa dei diritti fondamentali, non channopaura. Perché è roba der piddì e, non prendiamoci in giro: guitti e saltimbanchi qui sono tutti, tutti, tutti a libro paga.

In forme svariate, ma questi cantano tutti per il regime. E si dicono autonomi, cani sciolti: sì, come quello del grammofono: la Voce del Padrone. E insomma la campagna elettorale è partita, De Benedetti ha suonato la carica, Letta occhi di tigre ha dato fiato alle trombette, nel senso dantesco, aspettiamoci tutto. Basta non salti fuori Orietta Berti a dire che “Fin che la barca va” era un inno rivoluzionario, puro situazionismo marxista leninista che non fu capito ma i brigatisti lo ascoltavano sempre prima delle azioni di guerriglia, per caricarsi. Perché nel tempo di Jovanattila ecologista, davvero vale tutto. Max Del Papa, 29 luglio 2022

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 27 luglio 2022.

«Corriamo il pericolo più grave nella storia della Repubblica». Addirittura, ingegner De Benedetti? «Mai finora avevamo vissuto il rischio di uscire dalla nostra collocazione internazionale, di rompere le nostre alleanze storiche. Neppure nel 1948». Allora c'erano i comunisti. «Ma dopo l'attentato a Togliatti furono proprio i sovietici, nel loro cinismo, ad avvertire i comunisti di casa nostra di non provare a fare la rivoluzione. La linea era tracciata: c'era stata Yalta; poi ci sono stati i trattati di Roma che hanno creato l'Europa. L'Italia è stata messa sui binari. Ora, per la prima volta, rischia di deragliare». 

Perché dice questo?

«Perché la vittoria della destra alle prossime elezioni sarebbe una catastrofe». 

Centrodestra. C'è pure Berlusconi.

«Destra. Berlusconi non c'è più. Ci sono le sue badanti, che rispondono a Salvini. E c'è la Meloni. Ha visto il suo discorso in Spagna, dai franchisti di Vox?». 

Ha riconosciuto di aver sbagliato i toni.

«I toni erano inequivocabilmente e tecnicamente fascisti. Del resto la sua storia, la sua cultura è quella. Ma i contenuti sono anche peggio». 

Perché? Giorgia Meloni ha espresso posizioni di destra.

«No. Non è una questione ideologica. Qui non abbiamo di fronte i conservatori britannici. La nostra destra è biecamente fascista e nazionalista. La Meloni ha detto in sostanza: abbasso Bruxelles, viva le nazioni. Il suo modello è Orbán. Con lei alla guida, l'Italia diventerebbe come l'Ungheria». 

Ma l'Europa ormai c'è. E ci sono i fondi del Pnrr.

«Con questa destra tutto è a rischio, anche il Pnrr. Bruxelles, Parigi, Berlino ci frapporrebbero ogni sorta di ostacolo, per evitare il contagio. Si ricordi che in Germania hanno Alternative für Deutschland. In Francia Marine Le Pen è al 42% e ha portato novanta deputati all'Assemblea Nazionale. Poi c'è l'America». 

Che c'entra l'America?

«So per certo, dalle mie fonti nel Dipartimento di Stato, che l'amministrazione americana considera orripilante la prospettiva che questa destra vada al governo in Italia». 

Le sue parole accenderanno polemiche. L'Italia è un Paese sovrano. La gente vota.

«Certo. Ma la gente deve essere informata. Deve sapere a cosa va incontro. Questa destra va fermata. E per fermarla si deve costruire un fronte repubblicano, con un programma marcatamente riformista». 

È la formula che ha usato Calenda.

«Lodevole. Ma non sufficiente. Perché va allargata il più possibile». 

Calenda in effetti dice che da trent' anni si chiede di votare contro qualcuno, e poi non si riesce a governare.

«Non è così. È vero, si chiedeva di votare contro Berlusconi. Ma Berlusconi non metteva a rischio la democrazia e la collocazione internazionale dell'Italia». 

Proprio lei lo dice, che di Berlusconi è stato l'avversario storico?

«Berlusconi significava il degrado del civismo, l'evasione fiscale eretta a sistema, le leggi ad personam sulla giustizia. Ma non gli è mai passato per l'anticamera del cervello di rompere con l'Europa e con gli Stati Uniti d'America». 

Proprio lei, in un'intervista al «Corriere», due mesi fa ha criticato la linea atlantista sull'Ucraina.

«Che c'entra? Ho detto che secondo me l'Italia sbaglia a mandare armi che alimentano la guerra. Ma considero Putin il peggior criminale su piazza. Non la penso certo come Salvini». 

Salvini le sembra meno peggio della Meloni?

«Salvini è un personaggio da bar. Ha aperto la campagna elettorale proclamando che con lui non entrerà un solo immigrato. Che fa, gli spara a vista? Siamo seri. Salvini mi ha pure querelato, quando gli diedi dell'antisemita. E ho vinto la causa». 

Perché antisemita?

«Perché ha corteggiato Casapound e Forza Nuova. Se non sono fascisti quelli... Lui si è proclamato amico di Israele; ma una cosa è Israele, un'altra sono gli ebrei». 

Chi dovrebbe entrare nel fronte repubblicano?

«Tutti. Letta, Renzi, Calenda, Speranza, Brunetta, Gelmini...». 

Anche i 5 Stelle?

«I 5 Stelle sono finiti; non possono provocare altri danni. Hanno fatto una sola cosa giusta: il reddito di cittadinanza, perché non possiamo lasciar morire la gente di fame. Solo che non l'hanno capita, e si sono inventati i navigator...». 

Perché quindi imbarcare pure i 5 Stelle?

«Perché dobbiamo entrare in una logica di Cln. Nel Comitato di liberazione nazionale c'erano tutti, comunisti e monarchici, azionisti e cattolici: perché bisognava combattere un nemico comune, Mussolini». 

Ingegnere, oggi in Italia non c'è Mussolini.

«Certo che no. La storia non si ripete mai due volte. La Meloni e Salvini non ci metterebbero in camicia nera. Ma metterebbero a rischio la democrazia, l'Europa, i nostri valori. E isolerebbero l'Italia. Proprio come fece Mussolini». 

Chi dovrebbe essere il candidato premier del Fronte repubblicano? Draghi?

«Se lui se la sentisse, certo. Ma credo che Draghi voglia fare il presidente del Consiglio europeo al posto di Michel, nel 2024. Il candidato premier non è così importante. È importante lo spirito con cui bisogna unirsi. Anche rinunciando ai simboli di partito». 

Perché il Pd dovrebbe rinunciare al suo simbolo?

«Perché da solo non ce la farà mai. Il Pd è un partito borghese, votato da persone di buon senso. Ma ha perso i rapporti con le classi popolari. Le disuguaglianze sono ormai insostenibili, e non mi pare che Letta se ne occupi».

Draghi come ha governato?

«Draghi è il meglio che possiamo mettere in campo. Ha riportato in alto il prestigio del nostro Paese, ha affrontato bene la pandemia, sostituendo Arcuri con Figliuolo. Il bilancio dei suoi 17 mesi è positivo. Resta il fatto che l'Italia oggi è più povera, più indebitata, più ingiusta rispetto all'inizio della legislatura. E una vittoria di questa destra sarebbe il colpo finale, con una recessione severa in arrivo».

Giorgia Meloni, il passato che non passa: l'ombra nera mai fugata. Paolo Berizzi su La Repubblica il 23 luglio 2022.  

I rapporti con Castellino e Fiore, che guidarono l'assalto alla sede della Cgil il 9 ottobre scorso, il simbolo del suo partito con la fiamma che arde sulla tomba di Mussolini, l'inchiesta di Fanpage con Fidanza coinvolto: le cronache raccontano che la leader di FdI non ha mai preso le distanze dalle derive più estreme.

Non ci sarebbe nemmeno bisogno di andare indietro nel tempo. A quando Giorgia Meloni - era il 7 gennaio 2008 - da ministra della Gioventù, quarto governo Berlusconi, si faceva scortare ad Acca Larenzia dal ras neofascista criminale Giuliano Castellino: il leader di Forza Nuova accusato di avere guidato l'assalto squadrista alla sede della Cgil, il 9 ottobre 2021, a Roma. Le faceva l'anticipo, Castellino. Tecnicamente, nel lessico della sicurezza, si dice così. Si può persino trascurare il fatto che fosse lui a portarle l'ombrello perché tanto, volendo indugiare sui dettagli - nitidissimi nei video circolati negli ambienti identitari e cristallizzati dalla rete - Castellino è sempre lì, a un passo. Petto in fuori, la cuffia in testa. Vigila sull'incedere marziale di "Giorgia" che, in veste ufficiale, giunge nella ex sezione del Msi e depone la sua corona di fiori ("il ministro della gioventù"). Dove? Sotto una croce celtica, il marchio di fabbrica.

Il passato che non passa

Cartoline di un passato che non passa. E che porta direttamente a oggi, alla preoccupazione degli Usa e dell'Europa per la corsa di una "postfascista" verso palazzo Chigi. Per raccontare come e quanto Fratelli d'Italia e la sua leader tengano vivo, vivissimo, il legame con la galassia nera (non solo) del nostro Paese, basta stare sul presente. Qui inteso in senso temporale, e dunque non il rito "liturgico" mussoliniano - "presente!"-, con cui i neofascisti, e insieme a loro anche esponenti di FdI, celebrano e onorano i loro morti. "Ho un rapporto sereno con il fascismo", disse Meloni. Già. Una serenità, pare di capire, direttamente proporzionale ai rapporti, alle relazioni pericolose, alle zone di contiguità tra i sedicenti "patrioti" che si dicono pronti a governare l'Italia, e personaggi e sigle dell'ultradestra violenta e anti-statuale. In una cornice fatta di esibizioni e rimandi fascisti o fascistoidi, esternazioni, proclami razzisti e sessisti. Come quelli che la presidente dei Conservatori e Riformisti europei ha sguainato, il 12 giugno, dal palco di Marbella per sostenere il partito di estrema destra Vox caro ai nostalgici di Francisco Franco ("ho sbagliato i toni", ha chiosato lei ieri, fingendo di ignorare che il problema erano i contenuti). Giorgia la "nera"? Sì, se si prendono per buone le parole di Steve Bannon. Una "fascista, neofascista", la benedì l'agit prop dell'assalto al Campidoglio americano condannato per oltraggio al Congresso. Lei accanto, velata di imbarazzo. E FdI? "Uno dei più vecchi partiti fascisti". Guidato dal "prossimo presidente del Consiglio italiano", come l'ha introdotta Macarena Olona - candidata, lei, alla presidenza dell'Andalusia.

Ex terroristi e naziskin

Bannon o non Bannon, una cosa è certa: fin dall'inizio, e cioè da quando è nato, anno 2012 - fondatori Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto - il partito che ha ancora nel suo simbolo la fiamma che arde sulla tomba di Mussolini, ha coltivato e intrattenuto relazioni non casuali, alcune assai manifeste, con formazioni e ambienti neofascisti. Se le prime interlocuzioni sono passate sotto silenzio anche per via dei risultati elettorali irrilevanti, mano a mano che il nuovo contenitore iniziava a lasciare più traccia di sé alle urne, ecco spuntare gli altarini. È un cerchio che si apre a Milano e a Milano, in un certo modo, si chiude. Alla festa del partito nel 2018 (FdI alle politiche incassa un 4,3% alla Camera e un 4,26% al Senato, oggi è dato a cinque volte tanto e anche più) interviene come relatore il segretario nazionale di Forza Nuova, Roberto Fiore (ex terrorista nero con Terza Posizione, anche lui arrestato per l'assalto alla Cgil). In scaletta c'è pure un esponente di Memento, costola dei neonazisti milanesi di Lealtà Azione nata dai violenti Hammerskin, che si ispirano all'ex generale delle Waffen-SS Léon Degrelle e a Corneliu Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro rumena che collaborò coi nazisti e guidò gli spietati pogrom antiebraici. Da Milano a Milano. 29 aprile 2022. Alla convention di FdI Meloni, in una relazione fiume, improvvisa una gag attoriale per smontare e deridere le accuse di fascismo. Poi snocciola le sue priorità: "Mamma, merito, mare e marchio". Tutto inizia con la "m". È il fattore  "M". "M" come Meloni. Ma anche "M" come Mussolini. La declinazione dell'identità "patriottica" 3.0. Ma mentre "Giorgia" parla, parlano anche i fatti. Milano è stata lo sfondo dell'inchiesta di Fanpage sulla "lobby nera" di Carlo Fidanza e Jonghi Lavarini: saluti romani, razzismo su "negri", ebrei e migranti; un presunto giro di soldi in nero al partito.

La lobby nera, sono ancora lì

7 ottobre 2021. La Procura milanese indaga per finanziamento illecito e riciclaggio. "Voglio vedere tutte le 100 ore di girato", tuonò la Meloni, furibonda (coi giornalisti, ovviamente, mica coi suoi). Al centro della vicenda, un suo fidatissimo, Fidanza. Eurodeputato e rappresentante del partito in Europa. Nelle immagini riprese dalla telecamera nascosta di Fanpage Fidanza fa il saluto nazista e scandisce "Heil Hitler". Goliardia, minimizzerà lui. Certo, come no. La cena elettorale di FdI è per la candidata Chiara Valcepina. Che al netto dei saluti romani della "lobby nera" e dei presunti accordi per lavare denaro, viene eletta in consiglio comunale a Palazzo Marino. Fermiamo un attimo il tempo. Di fronte al clamore mediatico e alla bufera politica che investe il partito Giorgia Meloni interviene promettendo che sarebbe andata a fondo, prendendo eventuali provvedimenti ma solo "dopo avere visto tutto il girato". Per tutelare l'onorabilità e l'integrità dei "patrioti", sulle prime pensa addirittura di chiedere a Valcepina di fare un passo indietro e di rinunciare allo scranno di consigliera comunale. Ma quella di Meloni è solo ammuina. Sono passati quasi dieci mesi e non ha fatto nulla. Nessun provvedimento preso. Dopo un'autosospensione farsa, Fidanza (indagato anche per corruzione in un altro procedimento) è ancora saldamente al suo posto a Bruxelles e Strasburgo. Valcepina non ha rinunciato a nulla.

"Combattere e vincere"

Nella storia recente di FdI le cene identitarie sono scivolose e in teoria non portano benissimo: o forse sì, a seconda dei punti di vista (e dei sondaggi). Il 28 ottobre 2019 il partito ne organizza una in grande stile all'hotel-ristorante "Terme" di Acquasanta Terme, provincia di Ascoli Piceno. Tavola apparecchiata per settanta: si celebra la marcia su Roma, l'inizio del fascismo. "28 ottobre 1922... giorno memorabile e indelebile, la storia si rispetta e si commemora", è scritto sul menù. E ancora: "Camminare e costruire e se necessario combattere e vincere" (firmato Benito Mussolini). E poi: il simbolo del partito; un'aquila; il fascio littorio e la scritta "Dio, patria, famiglia". Alla cena - rivelata da "Repubblica" - ci sono il futuro presidente delle Marche, Francesco Acquaroli, uomo vicinissimo a Meloni, il sindaco di Ascoli Piceno, Marco Fioravanti, e quello che diventerà presidente della Provincia di Ascoli, il coordinatore provinciale Luigi Capriotti. In quell'occasione "Giorgia" perde la verve: silenzio. E silenzio anche quando, a marzo 2021 - è sempre questo giornale a raccontarlo - Gioventù Nazionale, ovvero i giovani di FdI, omaggiano pubblicamente sulla pagina Fb Léon Degrelle, "il figlioccio di Hitler". Nove mesi dopo la sezione locale di Civitavecchia presenta un libro che esalta la figura del generale Rodolfo Graziani, già comandante dell'esercito di Salò e autore di massacri in Etiopia nel 1937. Dalla Liguria al Lazio alla Campania consiglieri comunali e candidati di FdI si esibiscono in saluti romani: Valeria Amadei tende il braccio in aula a Cogoleto, Ino Isnardi a Ventimiglia. A Napoli dirigenti e militanti mostrano un saluto romano collettivo dietro il tricolore. Lo stesso fa Sergio Restrelli, coordinatore cittadino del partito. Veri patrioti? Meloni non pervenuta, chi tace acconsente. Per lei il saluto romano è (solo) "antistorico". Non vietato, non inopportuno: semplicemente antistorico.

Da terza posizione al Senato

Eppure le cronache raccontano che, negli ultimi tre anni, FdI e la sua leader non solo non prendono le distanze dalle derive più nere. Ma in alcuni casi, come minimo, non le ostacolano. È un crescendo. Alle elezioni amministrative del 2021 vari candidati si dichiarano fascisti e si presentano col saluto romano. Dov'è il problema?, devono avere pensato. Lo ha fatto anche La Russa: e dove? In parlamento, nel 2017. Si stava discutendo il ddl Fiano. Le vecchie radici. Piantate nella terra di una storia e di una tradizione che è rappresentata plasticamente dalla fiamma tricolore. Proprietaria del logo della fiamma, un tempo simbolo del Msi, è la Fondazione Alleanza Nazionale (nei vertici, La Russa e Gianni Alemanno). Che ogni anno assegna l'onorificenza "Caravella tricolore". Chi è stato il premiato dell'edizione 2020 (lo ha raccontato "Left")? Gabriele Adinolfi, militante di Terza Posizione (fondata da Fiore), otto anni di carcere per associazione sovversiva e banda armata. Non proprio un bel biglietto da visita. Ma le sponde, quelle sono. Fondazione Alleanza Nazionale è proprietaria di una serie di immobili. In uno di questi aveva sede, a Roma, Forza Nuova. Il partito neofascista è stato sfrattato. Per parlare di quell'immobile il 28 marzo 2021 Ignazio La Russa riceve in Senato - di cui è vicepresidente -, i pluripregiudicati Roberto Fiore e Giuliano Castellino. La Russa aveva appena finito di incalzare Mario Draghi in aula. Sette mesi dopo quell'incontro a Palazzo Madama Fiore e Castellino guideranno l'assalto alla sede del primo sindacato italiano. Riportando le lancette indietro di cento anni. Al debutto del fascismo.

I commenti dei lettori:

13 ORE FA. Che sia fascista o meno (facendo un grosso sforzo...) potremmo dire che sia un aspetto secondario. Il problema enorme é che lei, come i 5 Stalle, non ha alcuna delle COMPETENZE necessarie (viaggia solo per slogans e frasi fatte). Inoltre é circondata da gente impresentabile ed ancora meno competente di lei. Chi vuole sconfiggerla alle elezione deve puntare sui contenuti ed i programmi (comunicando in maniera semplice perché tutti capiscano). Facendo cosi il bluff della (non ancora) premiata ditta Meloni-Salvini-Berlusconi sarà scoperto...

15 ORE FA. "C'e solo una cosa peggiore dell'essere sparlati ed e' che non si parli affatto di noi", (Oscar Wilde). Repubblica continua tirare la volata a Meloni e camerati! 

15 ORE FA. Il problema è che a tutti quelli che la votano, piacciono le citazioni e le radici fasciste. Quindi urge batterla sui contenuti e sulle proposte, smascherandone la pochezza politica. 

15 ORE FA. Il problema è sempre quello…almeno un italiano su 5 è fascista fino al midollo. almeno altri 2 su 5, quando il fascista fa le sue sparate razziste xenofobe, invece di indignarsi ridacchiano e poi magari in questi forum scrivono "eh ma i comunisti!?" Devo dire che tra i due tipi (che ovviamente detesto entrambi), rispetto più i primi… almeno hanno il coraggio delle loro idee (seppure spregevoli)

 15 ORE FA. Più questi articoli continuano più fate un assist al centrodestra…perché nessuno dice cosa vuole fare la sinistra per vincere…boh…ci si preoccupa solo di ciò che pensa o fa L avversario.va così da 40 anni eppure non L avete ancora capito.

15 ORE FA. Secondo me le sfugge il punto di questo articolo…qui non si tratta di chi vince le elezioni.si tratta di mandate a palazzo Chigi una neofascista (in un paese dove il fascismo, qualche piccolo danno lo ha fatto… (tipo le leggi razziali e le persecuzioni, la soppressione della democrazia, gli alpini in Russia con le scarpe di cartone…)

15 ORE FA. Aggiungo anche gli oltre 650.000 I.M.I. (Internati Militari Italiani) rinchiusi nei lager nazisti e non riconosciuti come prigionieri di guerra , per cui non godevano del relativo trattamento secondo la Convenzione di Ginevra. Questo significava il non rispetto alla persona, essere schiavi , umiliati, offesi e tormentati dalla fame e dai pidocchi. Mio padre, grazie al tizio che strabuzzava gli occhi come la sig.ra al comizio di Vox, si è fatto due anni di campo di concentramento.

17 ORE FA. Ma se la UE e gli USA sono preoccupati per l'esito del voto, perché spendere i soldi per le elezioni. Facciamoci indicare qualcuno di loro gradimento subito e diamogli il potere a vita o finché non ce ne viene imposto un altro!

15 ORE FA. Curiosa la sua meraviglia: gli USA (come del resto il Vaticano) sono preoccupati (spesso attivamente) dell'esito del voto in Italia da sempre.

L'EU ci sta dando un bel "prestito" ed è giustamente preoccupata che il denaro venga ben utilizzato.

Più che il suggerimento di un nome mi augurerei che la Chiesa prendesse apertamente le distanze da chi rilascia dichiarazioni "politiche" con lo sfondo di una parete tappezzata da Icone varie e Madonne.

18 ORE FA. Perché mai nessun rilievo quando a sinistra compaiono simboli con falce e martello? Lugubre simbolo di dittatura, oppressione e milioni di morti nel '900. Che ancora oggi viene esibito sui alcuni mezzi di invasione in Ucraina.. Quanta ipocrisia!

18 ORE FA. Allo stato attuale in Italia non è previsto il reato di apologia del comunismo come invece "sarebbe" previsto per il fascismo,e parlando di simboli si dovrebbe obbiettare anche dei vari simboli religiosi che nel corso della storia sono stati utilizzati per guerre "civilizzazioni"ecc.

19 ORE FA. Non c'è nulla da fare se uno non vuole farsi beccare dalla moglie come frequentatore di motel in buona compagnia usare sistemi intelligenti e sofisticati, esser un pò psicologo, avere almeno due telefoni, e qualcuno che tiene bordone ecc.

La Signora Meloni, che comunque non sto accusando di alcun tradimento se non alla Camera ed al Senato oltre che di avere complottato col peggio dello schieramento politico nazionale, NON CI VUOLE STARE: sembra che tra la sorellanza con la simpatica Macarena Qualcosa, con i contatti mai rinnegati col peggio del fascismo residuale italiano, con progetti e programmi stile 1948 tutto incluso, ossia ritorno ad una Italia Miserabile sembra non aver capito nulla, se un gaglioffo come Bannon, con una certa simpatia, l'ha definita fascista un motivo c'è.

Questo volersi scrollare di dosso un cappio via via più stretto è inutile e ridicolo, e per di più orami che ha perso il controllo associato ad una spocchia e sicumera tali che nella mente neppure ormai tanto efficiente del Berlusconi '22, le fa preferire un Mister nobody stile Tajani!

20 ORE FA. Il fascismo è un'infezione virale cronica che dall'amnistia di Togliatti in poi si è diffusa in misura preoccupante in settori importanti della società e dello Stato, manifestandosi spesso in modo criminale, ma comunque sempre arginata dai forti anticorpi presenti nella società. Anticorpi che negli ultimi 20 anni hanno perso vigore e che devono essere rigenerati attraverso cultura e informazione, oltre che giustizia sociale. Sono convinto che un'alta percentuale dei nuovi votanti di questo partito, come di quelli suoi alleati, non abbia neppure una pallida idea di che cosa sia stato il fascismo.Alla fine voteranno Fd'I una parte dei soliti voti fluttuanti da Renzi a Salvini ai 5*,senza radici,alla ricerca di una qualunque novità. 

20 ORE FA. Il problema non é che sia fascista. Quello che preoccupa sono: provincialismo, incompetenza, scarsità di cultura, carattere, e sempre e sopra tutto mancanza di qualsiasi esperienza. 

17 ORE FA. A me invece preoccupa proprio che sia fascista. Di governi incapaci ne abbiamo avuti tanti, e sono passati. Di fascisti uno solo, finora, ed è durato vent'anni.

Francesco Bechis per formiche.net il 25 luglio 2022.  

Un mese fa, nella ressa di Villa Taverna, un brusio ha iniziato a farsi sentire, “è arrivata”. Chi ha messo via i flute, chi ha staccato gli occhi da un hamburger e le orecchie dal jazz set sul palco. Alla tradizionale festa del 4 luglio all’ambasciata americana Giorgia Meloni è stata un’osservata speciale. 

Un mese dopo – crollato il governo Draghi sotto i colpi di Forza Italia, Lega e Cinque Stelle – la leader della destra italiana non solo sogna, ma vede più vicino il portone di Palazzo Chigi. E mentre la campagna elettorale d’agosto entra nel vivo, i riflettori della comunità internazionale tornano ad accendersi su Fratelli d’Italia e i piani della sua condottiera. 

Non arriva impreparata, la Meloni. Perché non da mesi, ma da anni ha iniziato a tessere una tela di relazioni che disinneschi la più tipica delle mine sul cammino della destra verso il governo. E cioè i dubbi e le preoccupazioni di quell’establishment internazionale dal cui expedit, piaccia o meno, bisogna passare per governare il Paese: finanza, cancellerie europee, Washington DC. Su quest’ultimo fronte l’ex ministra della Gioventù ha fatto i compiti a casa. Lavorando per sfatare il cliché di una destra italiana intrisa di antiamericanismo.

Missione compiuta? Si scoprirà nelle prossime settimane. Certo la valanga di inchiostro sul “ritorno del fascismo” in Italia che ha di nuovo riempito patinati quotidiani americani – su tutti il New York Times – non è il migliore degli auspici. Ma la Meloni ha qualche asso nella manica. Stampa a parte, la parabola atlantista di FdI è ben presente a chi segue la politica italiana a Washington. 

Un lavoro personale: Meloni vanta ottime entrature a Via Veneto, era in cordiali rapporti con l’ex ambasciatore Lewis Eisenberg e ha avuto una buona intesa con l’incaricato d’affari uscente, Thomas Smitham, pronto a lasciare il posto al successore Shawn Crowley. Un anno fa poi la scelta – svelata da Formiche.net – di iscriversi all’Aspen Institute, tra i più prestigiosi think tank d’oltreoceano.

Un lavoro di squadra. Perché a costruire il “recinto” di sicurezza americano in questi anni non c’è stata solo la presidente del partito. C’è Adolfo Urso, senatore e presidente del Copasir, un veterano. Che nel tempo ha lavorato per accreditare FdI oltreoceano, forte della guida del comitato di Palazzo San Macuto ma soprattutto della presidenza di Farefuturo, la fondazione di finiana memoria che nel direttivo conta atlantisti navigati, come l’ambasciatore Gabriele Checchia. 

Ad Urso, già ministro del Commercio estero nel governo Berlusconi due, si deve fra l’altro la recente connection con il più grande think tank americano di ispirazione repubblicana, l’International Republican Institute. Fondato negli anni ’80 sotto l’egida di Ronald Reagan, è un punto di riferimento per l’“old party” moderato, si ispira alla figura dello scomparso John McCain e nel team conta pezzi da 90 dell’Elefantino, da Mitt Romney a Tom Cotton fino a Marco Rubio. Da più di un anno il pensatoio americano ha iniziato a muoversi a Roma, con la regia del direttore del Programma Europa Thibault Muzuergues, e ha trovato in FdI una sponda solida. 

C’è poi Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Esteri nel governo Monti. Voce ascoltata nel partito, suona uno spartito che piace nel mondo a stelle e strisce: durissimo con Russia e Cina, inflessibile sui diritti umani. Andrea Delmastro, deputato e responsabile Esteri, è un altro tessitore di peso della rete meloniana fra Washington e Bruxelles. C’è anche la sua firma sulla netta presa di posizione della Meloni sulla guerra in Ucraina, con una condanna senza appello di Vladimir Putin, una carta che si può giocare nelle relazioni transatlantiche una volta al governo. 

Conta ancora Carlo Fidanza: europarlamentare di punta, è sparito dai radar negli ultimi mesi dopo la polemica sulla presunta “rete nera” in FdI nata da un’inchiesta di Fanpage, ma dietro le quinte è attivo e segue da vicino la diplomazia meloniana. Sempre a Bruxelles, è attivissimo Raffaele Fitto, ex governatore della Puglia, prima linea di quel Partito conservatore europeo che la Meloni guida da più di due anni e che ripara FdI dallo “stigma” sovranista all’Europarlamento. Negli ultimi mesi la rete si è allargata, anche ad esterni. Lo scorso aprile non è passato inosservato, ad esempio, l’intervento alla convention di Milano di Stefano Pontecorvo, ex inviato della Nato in Afghanistan, corteggiato dal partito e chiamato in causa come consigliere, anche se un ruolo attivo al momento è escluso.

Fratelli d’Italia, dunque, ma anche un po’ d’America. Il cammino americano della Meloni ha imboccato due strade diverse, ma tangenti. La prima con un progressivo avvicinamento al Partito repubblicano. Con Donald Trump la leader di FdI ha condiviso per ben tre volte il palco della Conservative Political Action Conference (Cpac), la più importante kermesse conservatrice negli States, riunita ogni anno ad Orlando, in Florida. Risale a due anni fa, poi, il primo invito alla National Prayer Breakfast, appuntamento imperdibile per i repubblicani che vede Trump ospite fisso. 

Una simpatia, quella verso l’ex presidente, che in Italia in un primo momento ha preso il volto di Steve Bannon, l’ex consigliere del Tycoon finito ora sotto processo al Congresso americano per l’assalto a Capitol Hill del 6 luglio. L’ombra di Trump genera ancora sospetti fra le cancellerie europee, e non a caso negli ultimi tempi la Meloni ha riorientato la bussola americana del partito. Bannon non è stato più invitato ad Atreju, l’annuale convention romana, e nell’Elefantino sono altri i riferimenti cui guarda FdI, forte dell’appartenenza alla famiglia conservatrice europea che a Trump ha sempre guardato storto.

La seconda strada è fatta di rapporti istituzionali, e deve ancora essere battuta. Perché, se sul piano politico gli agganci americani sono ormai solidi, lo stesso non si può dire dell’establishment di Washington DC. “Con l’amministrazione Biden ci sono stati tre, quattro tentativi di avvicinamento, ma non hanno avuto grandi riscontri”, racconta una fonte interna. Un gap da colmare, se l’aspirazione è davvero trasferirsi a Palazzo Chigi. Comunque vadano le elezioni di metà mandato in autunno – una probabile debacle per i democratici Usa – il prossimo premier italiano dovrà fare i conti con Joe Biden per altri due anni. E due anni per la politica italiana sono un’era geologica. 

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 25 luglio 2022.

Con i «neofascisti» Fratelli d'Italia al governo l'Italia rischia un futuro «tetro». Il New York Times e il londinese Guardian mettono sotto la propria lente l'ascesa di Giorgia Meloni e parlano di «sviluppo allarmante» per il nostro Paese, ora che il governo è caduto e le elezioni si avvicinano. Il commento del New York Times, a firma di David Broder, definisce un «evento sismico» l'eventualità che per la prima volta «un partito di estrema destra arrivi alla guida di una grande economia dell'Eurozona». A scatenare il terremoto, per ora, è FdI, che non accetta le accuse.

«Con la campagna elettorale è ripartita, puntuale come sempre, la macchina del fango contro me e Fratelli d'Italia. Aspettatevi di tutto in queste settimane - ribatte Meloni su Facebook - perché sono consapevoli dell'imminente sconfitta e useranno ogni mezzo per tentare di fermarci. Se ci riusciranno o no, quello dipenderà da voi». Enrico Letta la pensa diversamente: «Contro Meloni non c'è nulla né di scorretto né di personale. Non condivido questo vittimismo. Ogni volta c'è qualcuno, c'è sempre un capro espiatorio». 

Il Guardian ricorre alla letteratura per raccontare che Mario Draghi, come «il Giulio Cesare di Shakespeare, è stato pugnalato alla schiena la scorsa settimana, vittima di un complotto della destra». Cui bono? Il latino lo usa il quotidiano britannico, che si domanda: «Chi ci guadagna da tutto questo? E' ovvio, i tre partiti di destra: i ribelli neofascisti Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi».

Secondo il Guardian, tuttavia, «una vittoria populista dell'estrema destra questo autunno non è inevitabile. Se non altro, gli elettori potrebbero e dovrebbero punire Meloni ed i suoi alleati per aver causato questa crisi inutile e dannosa». E pure The Economist tre giorni fa titolava "Game over" la fine dell'esperimento Draghi per sbirciare oltre l'orizzonte gravato da nubi nere: Ready for the right? Pronti per la destra, che "solleverebbe gravi dubbi sulla capacità dell'Italia di affrontare le riforme chieste dalla Commissione europea" in cambio del recovery fund? 

Ignazio La Russa non ci sta e, intervistato a Mezz' ora in più su Rai3, ribatte: «Politicamente abbiamo precisi elementi per dire che ci sono ambienti italianissimi della cultura, del giornalismo, della politica, che stanno lavorando in combutta con ambienti della sinistra internazionale affinché li aiutino a non perdere, dicendo che c'è un pericolo di destra, un pericolo Meloni. Noi non perderemo un voto, ma è un modo per danneggiare l'Italia».

Un complotto ordito dalla sinistra, un fuoco ordinato da Roma. E' la tesi Meloni, illustrata in un'intervista alla Stampa sabato: «Si stanno muovendo una serie di think tank che vanno in giro per dire che se vince la Meloni l'Italia viene risucchiata da un buco nero, io trovo questa strategia molto irresponsabile. Queste persone sanno benissimo che qui, se vince il centrodestra non c'è nessun terremoto, anzi. Come si è dimostrato con l'Ucraina non c'è nulla da temere».

Meloni rivendica le sue credenziali e la sua "presentabilità" all'estero ribadendo l'atlantismo di FdI e le scelte fatte a favore di Kiev in questi mesi di guerra. Per il New York Times, però, è solo una «strategia di marketing: una ferma politica estera atlantista e un'agenda apertamente reazionaria in patria». 

Il quotidiano americano la accosta a Marine Le Pen e agli spagnoli di Vox, ricordando i toni del suo comizio in Andalusia. Che non sono piaciuti nemmeno al Guardian: «La posizione del suo partito "L'Italia prima di tutto", la retorica anti-migranti "tolleranza zero" e le opinioni arcaiche sulle questioni di genere otterranno voti facili, ma sono l'antitesi di una leadership responsabile e sensata». 

Terreno su cui l'attacca anche Matteo Orfini (Pd): «Meloni e Salvini hanno cominciato la campagna elettorale coi soliti post su sicurezza e immigrazione, aggressivi e violenti nella loro migliore tradizione». Contemporaneamente, a ricordare la cerchia di alleanze internazionali di FdI, sui social riappaiono le foto che ritraggono Meloni con Steve Bannon, l'ex consigliere di Donald Trump, o le sue dichiarazioni a favore di Viktor Orban.

«Abbiamo ottimi rapporti», assicurava poco tempo fa. Qualche giorno fa, mentre cadeva il governo, Meloni spiegava ai militanti riuniti in piazza la sua visione dell'Europa, il suo programma una volta a palazzo Chigi: «Vi dicono che se il centrodestra, Fratelli d'Italia e Meloni arrivano al governo l'Europa è preoccupata. Certo che è preoccupata: se FdI, che è un partito di patrioti, arriva al governo, i pezzi d'Italia che ha svenduto il Pd ai francesi e ai tedeschi mica glieli svende». 

Un tipo di europeismo che non piace a Stefano Ceccanti, deputato del Pd, che ha ripescato un'iniziativa di FdI del 2018: «Fratelli d'Italia contiene nel suo simbolo quello del Msi che non votò per la Nato nel 1949, Meloni ha presentato un progetto costituzionale per affermare il primato del diritto interno su quello europeo. Problemi del passato e anche del presente».

Dagonews il 25 luglio 2022.

Dite ai redattori del "New York Times" che possono anche magnà tranquilli. Gli Stati Uniti non hanno alcun timore di Giorgia Meloni. La notizia filtra da fonti vicine al dipartimento della difesa Usa. 

Non c’è solo l’atlantismo di Fratelli d’Italia e le scelte fatte a favore di Kiev a tranquillizzare Washington che apprezza i progressi della "Ducetta" e dello stato maggiore del suo partito nel dotarsi di una caratura internazionale a cominciare da una migliore conoscenza della lingua.

Da circa un anno e mezzo la Meloni e il suo inner circle vanno a “scuola” di inglese da una professoressa, molto vicina ad ambienti conservatori della difesa americana, che ha accompagnato la "Ducetta" anche nel suo recente viaggio negli Usa...

Rula Jebreal insulta Giorgia Meloni: "Fomenta odio e violenza. I veri fascisti..." Libero Quotidiano il 26 luglio 2022.

L'odio contro Giorgia Meloni sgorga ovunque. La sinistra apre il fuoco contro l'avversario più temibile, i più feroci sono i quotidiani, a partire da Repubblica e fino ad arrivare al Domani di Carlo De Benedetti. "Pericolo nero", accostamenti a Benito Mussolini, presunti allarmi nelle cancellerie internazionali, prime pagine che lasciano interdetti.

E al coro non poteva che unirsi una specialista in materia, ovvero Rula Jebreal, che attacca la leader dei Fratelli d'Italia proprio in merito al fascismo. Il tutto su Twitter, laddove la Jebreal si scaglia nel dettaglio contro chi sostiene che la Meloni non sia fascista. Clamoroso, ma vero: in barba al fatto che la leader FdI sia nata nel 1977, ossia decenni dopo il tramonto del fascismo stesso.

Ma tant'è, scrive la Jebreal: "I negazionisti che difendono la Meloni sostenendo che 'non è fascista', ignorano il suo programma politico persecutorio & oscurantista, che fomenta odio e violenza". Testuali, e brutali, parole. Dunque, Rula Jebreal ha allegato una serie di cinguettii in cui vengono esposte alcune idee del programma di FdI. Cosa ci sarebbe che fomenta odio e violenza? Ve lo elenchiamo: "Difesa dell'identità nazionale, contrarietà alla teoria gender, controllo delle frontiere, no al reddito di cittadinanza". 

Al di là del fatto che non si capisce come si possa vedere in simili istanze odio, violenza e peggio ancora fascismo, Rula Jebreal è anche incappata in uno sfondone: quell'elenco, infatti, risaliva al 2018. Altri tempi, rispetto alla campagna elettorale appena iniziata. Ma alla Jebreal non interessa, tanto che aggiunge: "I veri fascisti la considerano una di loro, l'erede di Almirante, il leader che poterà al governo i loro ideali". Un attacco scomposto, l'ultimo che ha colpito la Meloni in questa prima ondata di violenza verbale e fango.

L'aria che tira, Peter Gomez: "Fascisti in FdI? Obiettivamente...", lezione alla sinistra. Libero Quotidiano il 26 luglio 2022

Sulla questione del "pericolo fascista" paventato dalla solita sinistra per la possibilità che Giorgia Meloni possa andare al governo, Peter Gomez, ospite di Francesco Magnani a L'aria che tira - Estate, su La7, nella puntata del 26 luglio, dà ragione a Daniela Santanchè: "Questa storia della polemica sul fascismo la vediamo prima di ogni campagna elettorale e finirà il giorno dopo". Ma, sottolinea il direttore de ilfattoquotidiano.it, "con altrettanta obiettività bisogna dire che personaggi neofascisti fanno parte dell'album di famiglia di Fratelli d'Italia. Perché FdI non arriva dal niente". Però, precisa Gomez, "ci sono, ma non sono preponderanti e non credo che siano in grado di influenzare la politica di Fratelli d'Italia".

E ancora, sottolinea Gomez rispetto alla questione posta dalla stampa internazionale sulla posizione dell'Italia sulla guerra in Ucraina, "Fratelli d'Italia dopo un innamoramento passeggero per Putin ha preso una posizione filo-atlantica ma i suoi due alleati sono sospettati senza prove di aver preso dei soldi o tentato di prendere dei soldi e di fare affari con Putin". Infine, conclude il giornalista, "il programma di FdI è dichiaratamente di destra e mi chiedo come si concilierà rispetto a una serie di diritti civili che anche chi vota centrodestra vuole ma magari cambierà anche l'idea di Fratelli d'Italia". 

Da ilfattoquotidiano.it il 26 luglio 2022.

“Fratelli di Italia non è un movimento fascista, come la carismatica leader dell’estrema destra italiana Giorgia Meloni insiste a ripetere. Ma non sono neanche non fascisti“. Così esordisce il giornalista esperto di politica estera Ishaan Tharoor in un editoriale pubblicato oggi sul Washington Post. 

Il titolo del pezzo è tutto un programma: ”L’Italia è sulla via di essere governata da post fascisti“. A pochi giorni di distanza da un articolo pubblicato dal New York Times che parlava dell’ipotesi che l’Italia diventasse il primo Paese dell’Eurozona con un governo di estrema destra, anche il prestigioso Washington Post analizza la crisi politica italiana, concentrandosi sulla figura della leader di Fratelli d’Italia.

 “Come altri neofascisti europei – si legge nell’editoriale- i Fratelli d’Italia attaccano immigrazione e perorano una chiusa, stretta visione dell’identità nazionale e, come altri neofascisti, il partito attinge le sue origini da un preciso passato fascista“. Il giornale americano, -famoso per aver messo in luce lo scandalo “Watergate” che ha portato alle dimissioni del presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon- ricorda l’evoluzione storica dell’ Msi ed il fatto che “Meloni conta su alcuni discendenti di Mussolini come suoi diretti alleati“. 

Nell’editoriale Tharoor spiega ai lettori americani come “alcuni anni fa, queste connessioni sarebbero state semplicemente parte dell’atmosfera degli estremi politici, dove si trovava Fratelli d’Italia”. Ora le cose sono cambiate: secondo i sondaggi, Meloni ed il suo partito sono in testa in vista delle elezioni del 25 settembre, “conseguenza della drammatica caduta della coalizione guidata dal tecnocrate Mario Draghi– prosegue Tharoor- , che potrebbe confermare Meloni come prima premier donna d’Italia“. 

In una prospettiva del genere, si chiede l’editorialista del Post, ci sono “interrogativi su che tipo di presenza dirompente avrebbe un governo di estrema destra per l’establishment liberal dell’Europa”. “La destra nazionalista, illiberale ed euroscettica, finora al potere solo nell’area orientale, avrebbe un nuovo leader regionale – prosegue – un governo Meloni sarebbe molto meno entusiasta nel sostenere lo sforzo della guerra in Ucraina contro la Russia di quanto lo sia stato Draghi, anche se nelle ultime settimane lei abbia cercato di ribadire le sue credenziali atlantiste“. 

Infine, un governo di estrema destra in Italia sarebbe “retrogrado per quanto riguarda le questioni di genere ed i diritti delle minoranze“, e su questo punto il giornalista americano conclude l’editoriale ricordando che “Meloni è un’accesa critica delle ‘lobby Lgbt’ in Occidente”.

Michele Serra per “la Repubblica” il 26 luglio 2022.  

Meloni non si deve offendere, l'antifascismo - almeno fuori dall'Italia - è tutt' altro che un dettaglio, e la sua formazione politica è stata tutta interna al neofascismo, così come la fiamma inclusa nel simbolo di Fratelli d'Italia testimonia e rivendica. Ovvio, dunque, che in Europa e in America ci si facciano delle domande che non basta liquidare come tendenziose. La diffidenza contro il nazionalismo di destra è un prezzo da pagare alla domanda di ammissione al famoso Occidente e ai suoi valori.

A meno di prendere esempio dal Salvini, che di queste cose se ne frega, Meloni capisca il problema e tenti magari di risolverlo, perché risolto non è. Per contro, è verissimo che non conviene, a sinistra, insistere sull'antimelonismo (che suona anche ridicolo) come perno della campagna elettorale. Dire che cosa non si vuole (lo spiegava bene Giacomo Papi su questo giornale) non è uguale a dire che cosa si vuole, e anzi, lascia sospettare che si parli tanto del nemico pur di non dire che cosa si vuole combinare tra amici, ammesso che nel centrosinistra, su dieci leader, almeno due possano dirsi amici.

Da molti anni la sinistra è, per dirla banalmente, la non-destra, e questa vaghezza non le giova. Individuare quattro o cinque punti programmatici forti non basterebbe a mettere d'accordo tutti i galli nel pollaio; ma almeno i galli litigherebbero su cose che si capiscono e non sulle beghe personali, o su vaghi presupposti ideologici. Ci vorrebbero quattro o cinque cose facili da capire. La prima, a me pare, è far pagare le tasse a tutti, i classici due piccioni con una fava: niente è più democratico, e niente aiuta a capire la differenza con la destra, specie quella del Salvini e del Berlusca, idoli degli evasori.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 26 luglio 2022.

Giorgia Meloni, ha detto ieri Emma Bonino, porta avanti una politica con cui non ho niente a che vedere, ma non la chiamerei fascista, non mi piacciono gli insulti, non mi piacciono le campagne contro. Sarebbe stato difficile esprimere meglio un concetto così saggio. Se per l'ottantaseiesima volta a sinistra si conta di fermare la destra gridando alla restaurazione delle camicie nere, per scampare all'incomodo di formulare una proposta più articolata e più interessante, non ne scaturirà una gran campagna elettorale né una gran legislatura.

Meloni è molto di destra, ha nel suo partito ancora qualche nostalgico, ma non è fascista, non più di tanti altri: di fascismo, inteso come rigetto delle regole della liberaldemocrazia, se ne trova in tutti i partiti e, per esempio, col suo dittatore-comico (ormai malridotto), i suoi piccoli gerarchi, la legittimazione via plebiscito, e mille altre idee svalvolate, di fascismo se ne trova parecchio nei Cinque stelle. 

 Mi sembra notevole, per dire, che mentre sprezzano New York Times e Guardian, allarmati da «questa destra», i vertici di F.lli d'Italia - Meloni ma anche Ignazio La Russa e Fabio Rampelli - concedano interviste che sembrano ispirate dal generale Custer: sempre con la Nato, mai e poi mai con Putin. E non una sillaba contro Ue, Bce, mercati, qualche convinto elogio a Mario Draghi, come per gettare l'oblio su un decennio di opposizione da taverna. Di colpo, si cerca di piacere ai poteri forti. Se sia una conversione sincera o opportunistica, si vedrà. Per ora, che F.lli d'Italia si ponga il problema di non somigliare a F.lli d'Italia, mi sembra già una buona notizia.

Bufera sulla prima pagina di Repubblica. E le femministe tacciono. Attacco contro Giorgia Meloni dalle pagine de la Repubblica, che in prima pagina ha pubblicato una foto equivoca: sollevazione di FdI. Francesca Galici il 26 Luglio 2022 su Il Giornale.

Che quella appena cominciata fosse una campagna elettorale aggressiva era facile immaginarlo. Il poco tempo a disposizione e le polemiche montate negli ultimi anni non lasciavano molto spazio all'immaginazione. In più, come elemento fondamentale, c'è il fatto che il centrodestra sia in vantaggio in tutti i sondaggi e che il partito che sta macinando maggiori preferenze tra gli italiani è quello di Giorgia Meloni. Un affronto troppo grande da sopportare per la sinistra, democratica solo quando vince. 

Tuttavia, anche in queste condizioni, era difficile pensare che si riuscisse ad arrivare a tanto ad appena pochi giorni dall'apertura ufficiale della campagna elettorale. A dare man forte dalla sinistra, in affanno nei sondaggi e preoccupata dall'assenza di una coalizione forte dopo la rottura con i 5s, ci pensano alcuni quotidiani, che fungono da stampella per tentare di delegittimare la leader di Fratelli d'Italia. Proprio loro che fanno delle battaglie contro il sessismo una bandiera, si sono lasciati prendere la mano dall'evocazione di un'immagine che, in realtà, di sottinteso ha ben poco. Per altro pubblicata in dimensioni macro sulla prima pagina del quotidiano, nonostante il direttore respinga al mittente ogni addebito.

La strategia del partito di Repubblica dietro l'attacco alla Meloni

"Volgarità ne abbiamo lette tante ma la foto di Giorgia Meloni pubblicata oggi in prima pagina da Repubblica è una caduta di stile e un attacco oltre ogni decenza. Una foto che è una chiara e grave allusione che se riservata a chiunque altra desterebbe il giusto scandalo", tuona Augusta Montaruli.La deputata di Fratelli d'Italia, poi, aggiunge: "Nel tentativo di demonizzare Fratelli d'Italia viene estrapolato e mostrato uno scatto inaccettabile. Chiediamo a tutte le donne, incluse quelle di sinistra, di ribellarsi a questa volgarità e mancanza di rispetto. Giorgia Meloni è la nostra apripista per un'Italia in cui essere donna non significhi accettare questi trattamenti disgustosi".

Il cambio di regime dei media sulla Meloni: ecco cosa è successo

Anche l'ex parlamentare, nonché fondatore di Fratelli d'Italia, Guido Crosetto, da Twitter si è scagliato contro la Repubblica: "Non bastava infarcire quotidianamente il giornale di articoli che insultano, attaccano e diffamano, Giorgia Meloni e FdI. Era troppo poco. Quindi oggi hanno raggiunto un nuovo livello, superato altri confini: quelli della decenza, del buon gusto e del rispetto". Tiziana Drago, senatrice FdI, rimarca che "campagna elettorale può anche essere dura e accesa ma non può e non deve scendere a simili, bassi livelli. Mi appello a quanti siano ugualmente indignati per i toni che Repubblica ha usato affinché facciano sentire la propria voce in merito: mi chiedo dove siano le femministe, le associazioni contro la violenza sulle donne e movimenti".

Anche la senatrice Daniela Santanché ha puntato il dito contro la Repubblica, che "supera ogni limite della decenza. Non ci aspettavamo di certo una campagna elettorale facile ma da qui ad abbassarsi a simili livelli ce ne corre. Pretendere una netta solidarietà a sinistra forse è chiedere troppo ma almeno una presa di posizione che tenda a smorzare l'aggressività di Repubblica pare essere il minimo".

Dello stesso avviso anche Carolina Varchi, deputata di Fratelli d'Italia: "Ho trovato stomachevole la prima pagina di Repubblica di oggi. La foto scelta, infatti, contiene una chiara e volgare allusione sessista contro Giorgia Meloni, nel vano tentativo di minarne autorevolezza e credibilità". La Varchi sottolinea che "non è giornalismo libero ma solo machismo da taverna nei confronti dell'unica donna leader in Italia e in Europa, alla quale va tutta la mia vicinanza per l'hai attacchi indegni che sta subendo. Mi aspetto di sentire forti le voci di dissenso di tutte le donne impegnate in politica e nell'associazionismo femminista, diversamente dovremo prendere atto che il rispetto per le donne è - a loro modo di vedere - sempre dovuto a meno che le donne offese non siano di Fratelli d'Italia". A colpire, ogni volta, è il silenzio assordante da parte della sinistra, pronta a montare polemiche sulle vocali femminili e a cavalcare la schwa, ma mai capace di difendere una donna destra o, per lo meno, di esprimerle solidarietà.

Alle accuse di Fratelli d'Italia ha replicato il direttore del quotidiano, Maurizio Molinari: "La sgangherata accusa di 'sessismo' e 'machismo' mossa a Repubblica da esponenti di FdI per la foto pubblicata oggi in prima pagina di Giorgia Meloni, scattata dall'agenzia di stampa Reuters e pubblicata in originale, senza alcun taglio tipografico, non meriterebbe di essere raccolta, perché qualifica chi la muove e i suoi percorsi cognitivi". Il direttore ha poi aggiunto: "Tuttavia, l'accusa è indicativa della cultura politica di un partito che si candida a governare il Paese e che anziché rispondere all'opinione pubblica su temi dirimenti come quello dei diritti, delle libertà costituzionali, del genere, preferisce eccitarla e confonderla con la manipolazione grossolana del lavoro di chi facendo giornalismo di questi tempi non smetterà di chiedere conto".

Il patto scellerato nella destra sovran-populista e il fuoco amico su Meloni. Carmelo Lopapa su La Repubblica il 26 Luglio 2022. 

Il retroscena. Alla fine l'ha scoperto anche la leader di FdI: a non volerla premier non sono solo la detestata stampa statunitense filodemocratica e almeno una buona metà degli italiani, ma anche i suoi alleati.

Alla fine l'ha scoperto anche Giorgia Meloni. Ed è stato un risveglio amarissimo. A non volerla premier non sono solo la detestata stampa statunitense filodemocratica e almeno una buona metà degli italiani, ma anche i suoi alleati. Soprattutto i suoi alleati, verrebbe da dire. E senza di loro - per usare la metafora del forzista Antonio Tajani - potranno pure vincere la partita (elettorale), ma alla fine potrebbe non essere lei ad alzare la coppa.

Da ilfattoquotidiano.it il 25 luglio 2022.

La campagna elettorale, in vista delle elezioni politiche del 25 settembre, è entrata nel vivo. Nel mondo dello spettacolo, della musica in particolare, gli argomenti politici e la crisi di Governo non sembrano aver appassionato più di tanto gli artisti. Eccezion fatta per alcune personalità come, ad esempio, Ornella Vanoni e Marco Mengoni che hanno commentato a caldo l’uscita di scena dell’ex premier Draghi. Se la cantante de “L’appuntamento” ha scritto su Twitter: “Che peccato, che solitudine”, Mengoni ha citato una scena cult dal film “Bianco Rosso e Verdone”, quando Pasquale Ametrano esce dal seggio arrabbiato.

Poi c’è Elodie, da sempre schierata a favore dei diritti non solo della comunità LGBTQ+, ma anche dei migranti e della giusta politica. Diverse volte la cantante di “Bagno a mezzanotte” si è espressa contro le proposte delle Destre, in particolare sulla visione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. A proposito del nuovo programma di Governo di Fratelli d’Italia, Elodie ha commentato su Twitter: “A me sinceramente fa paura”. 

Tra i punti cardine del programma elettorale ci sono “l’abolizione dell’anomalia solo italiana della concessione indiscriminata della sedicente protezione umanitaria e asilo solo per donne, bambini e nuclei familiari che fuggono veramente dalla guerra”, la “difesa della nostra sovranità nazionale” e “la difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita”.

Già altre volte Elodie aveva espresso il suo dissenso su queste politiche e nell’ultima intervista a La Confessione di Peter Gomez, sul Nove, aveva dichiarato: “Sono felice di essere nata in Italia, poteva andarmi peggio. Buona parte del Paese ha la visione giusta delle cose, ma onestamente fatico a comprendere Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Si possono avere idee diverse, non c’è bisogno di livore, incazzatura… Stia calma la Meloni. Posso capire che lei pensi di essere lontana da chi vive in maniera diversa, ma non capisco, non gliene deve fregare un ca**o. Ognuno ha la sua vita, ma ci sono modi e modi di parlare e fare politica. Non credo sia questo il modo giusto, bisogna capire come vivere la nostra diversità. La gente ha tanta pura perché non ha il coraggio di fare un passo verso gli altri. È molto più semplice additare e incavolarsi col prossimo. Mi dispiace perché è una perdita di tempo enorme”.

C’è da scommettere che da qui al 25 settembre la voce di Elodie si farà sentire di nuovo. C’è da auspicare che anche altri colleghi possano intervenire nel dibattito per sensibilizzare fan ed elettorato sui temi cardine per il futuro del nostro Paese.

È partito il carrozzone dei soliti vip "antifa": a sinistra si azzuffano per prendere un posto. Francesco Maria Del Vigo il 26 Luglio 2022 su Il Giornale.

Da Elodie ad Asia Argento, passando per Toscani e la stampa internazionale: non passa la moda di evocare regimi e di insultare il popolo moderato.

Nell'era dell'ossessione del gender, del rispetto delle differenze e delle specificità, dell'utilizzo levigato e ultra prudenziale delle parole, che vengono piegate e violentate affinché siano assolutamente inclusive, c'è solo un genere che può essere insultato e disprezzato liberamente: quello di centro destra. Chi gravita nell'area che va da Berlusconi fino a Giorgia Meloni non solo può essere denigrato, ma deve esserlo. Intellettualucoli, cantanti poco ispirate, stelle in lenta evaporazione trovano legittimità civica e sociale nel vilipendio del popolo di centrodestra che, per inciso, non è composto esattamente da quattro gatti ma, stando agli ultimi sondaggi, da più del 45 per cento degli italiani. Non avendo idee in testa, si mettono a sbertucciare quelle altrui, dall'alto di una presunta superiorità morale che malcela una palese inferiorità dialettica: perché, quelli di destra, si possono anche insultare ovviamente.

La gara di sciatteria intellettuale la vince a mani basse l'accusa di fascismo. D'altronde gli antifascisti in servizio permanente, tecnicamente, vivono a scrocco da 77 anni, in assenza di fascismo dunque se lo devono inventare.

Un lavoraccio per gli Indiana Jones di labari e fez. Hanno iniziato letteralmente a dare i numeri, questo è uno degli argomenti più razionali letto più volte in rete: «Dunque se si vota il 25 settembre e vince la Meloni formerà un governo un mese dopo, probabilmente il 28 ottobre, che è la data della marcia su Roma e quest'anno è pure il centenario. Tornano i fascisti!». Paolo Flores d'Arcais ha fatto addirittura un editoriale su questa bizzarra tesi, per poi chiosare: «Un cittadino democratico, se capisce la posta in gioco, che è di civiltà, come un secolo fa voterà anche chi gli fa disgusto, nausea, ribrezzo, pur di mantenere aperte le possibilità di continuare a lottare nel quadro della nostra Costituzione».

L'idea è semplice: tutto quello che non è di sinistra non può andare al governo. La ha teorizzata un paio di mesi Giuseppe Provenzano, vice segretario del Pd: «La Meloni rappresenta una destra estrema, inadatta a governare, attraversata da sentimenti xenofobi e reazionari». Punto. Stop. Bollata a vita.

Anche i giornali fanno la loro parte. Repubblica e La Stampa sono in prima linea per fronteggiare l'onda nera e ogni giorno ricordano «la civiltà indecente» evocata dalle destre (Michele Marzano), l'ombra nera mai fugata da Meloni (Paolo Berizzi) e poi è tutto un accostamento, anche iconografico, a Orban, alla Le Pen (che però è più moderata di lei, sic) e a tutti gli estremisti sparpagliati per l'orbe terracqueo. Ovviamente moltissimo spazio è dedicato alla rassegna stampa internazionale, con tutti i giornaloni anglosassoni, quelli specializzati nel capire un tubo a casa loro figuriamo nella nostra, che pontificano sulla deriva autoritaria dell'Italia. Ma il tiro al centro destra riguarda un po' tutti. Persino Elodie, cantante, attrice ed evidentemente anche politologa, si è espressa con un giudizio lapidario: il programma politico della Meloni mi fa paura. Ma le intemerate di cantanti e scrittori, con insulti anche fisici, nei confronti di Berlusconi e Salvini negli anni sono state tantissime e di una ferocia inaudita. Basti pensare alla valanga di improperi irripetibile ricevuti dal leader della Lega per aver mostrato, in un collegamento qualche giorno fa, una parete con crocifissi e icone di santi. Beh, d'altronde, con la scusa di attaccare la Meloni la sinistra ha anche perso il suo proverbiale rispetto per le donne. Due esempi su tutti: «La schiena lardosa di una fascista», commentò anni or sono una delicatissima Asia Argento; «Una ritardata, brutta e volgare» così la definì il sempre pacato Oliviero Toscani. Questi sono insulti d'archivio, siamo certi che da quelli alle elezioni ne conteremo a bizzeffe. Perché i difensori della tolleranza a tutti i costi, finiscono sempre per essere i più intolleranti. Specialmente con il «genere» di centro destra.

L’“altra” Fondazione Einaudi a difesa di Meloni: “Non è fascista, chi lo afferma è uno stolto”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Luglio 2022. 

Da quando è caduto il governo Draghi, da quando il Presidente del Consiglio ha rassegnato le sue dimissioni e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha indetto le prossime elezioin politiche per domenica 25 settembre, è scattato l’inseguimento a Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia è la candidata da battere: prima nei sondaggi, si dice pronta a governare, “chi prenderà un voto in più avrà l’onore e l’onere di indicare il nome” ha ribadito agli alleati del centrodestra. Meloni in questa campagna elettorale balneare dovrà tornare ad affrontare sempre la stessa accusa: fascismo, neofascismo.

Perché da quando sono state indette le elezioni sono partiti almeno una manciata di hashtag sul tema, dall’estero sono stati scritti articoli sul punto, il New York Times ha pubblicato un editoriale che ha definito un “evento sismico” l’eventualità se per la prima volta “un partito di estrema destra arrivi alla guida di una grande economia dell’Eurozona”, El Mundo ha titolato con “admiradora de Mussolini”. Niente di nuovo: soltanto che adesso da destra, media e politica, si parla di assedio, della proverbiale campagna elettorale senza esclusione di colpi. A chiarire definitivamente che il punto sarà uno dei leitmotiv della corsa alle urne è stata una polemica nata da un equivoco.

“L’on. Giorgia Meloni non è fascista. Chi lo afferma è uno stolto. Si può dissentire in tutto o in parte dalle sue idee, ma non si possono dire gratuitamente fesserie. Meglio chiarirlo all’inizio di una campagna elettorale, che rischia di essere eccessivamente avvelenata”, il tweet a firma Fondazione Luigi Einaudi che è diventato quasi virale e che ha scatenato un dibattito con utenti sorpresi, follower polemici, alcuni indignati. Il punto è che l’account non è quello del noto centro torinese che dalla metà degli anni Sessanta raccoglie documenti e riflessioni intorno alle scienze sociali e all’eredità di Luigi Einaudi, ma della meno nota fondazione omonima ma con sede a Roma.

Il Presidente della fondazione più nota, l’ex ministro Domenico Siniscalco, ha preso le distanze e chiarito che la Fondazione romana è altra cosa da quella torinese. Quella della bufera, “centro di ricerca che promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico Liberale”, costituita nel 1962, è presieduta da Giuseppe Benedetto, tra i consiglieri annovera Sabino Cassese e Carlo Nordio (candidato di Fdi alla Presidenza della Repubblica). La polemica è comunque partita: alcuni hanno definito il post un’uscita “improbabile che mina la vostra credibilità”, altri si chiedono se “alla Fondazione Einaudi votano Fdi?”. Un equivoco comunque piuttosto indicativo così come quello sul programma elettorale di Fdi, criticato e stroncato in queste ore, anche se a circolare finora è solo il programma delle elezioni del 2018.

A La Stampa Meloni aveva così commentato l’articolo del Nyt: “Non ha alcun senso. È la classica cosa imbeccata. Si stanno muovendo una serie di think tank della sinistra italiana che vanno in giro per dire che se vince la Meloni l’Italia viene risucchiata da un buco nero. Una strategia irresponsabile. Come si è dimostrato con la posizione di FdI sull’Ucraina non c’è nulla da temere”. Lo scorso autunno, dopo alcune inchieste giornalistiche su legami con gruppi di estrema destra, Meloni aveva dichiarato al Corriere della Sera che “nel dna di Fratelli d’Italia non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c’è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c’è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro”.

L’impressione è dovrà ripeterlo ancora altre volte questo punto, trovare qualche idea, una nuova maniera per convincere tutti ma proprio tutti. E comunque sarà improbabile riuscirci. “Insomma fate e dite quello che vi pare. Continuate ad insultarvi reciprocamente, se vi fa star bene. FASCISTIIIIIIIIIIII !!! COMUNISTIIIIIII !!! Buona campagna elettorale a voi tutti. Così l’Italia sarà salva”, il tweet con il quale la Fondazione romana ha provato a chiudere la questione. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell'articolo di Giacomo Salvini per “il Fatto quotidiano”

[...] adesso devono decidere le regole. [...] chi farà il presidente del Consiglio in caso di vittoria elettorale. Fino al 2018 la regola è stata semplice: chi prende un voto in più esprime il premier. 

[...] Adesso però in vantaggio nei sondaggi c'è Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni e gli alleati fanno resistenza. 

Matteo Salvini punta ancora a superare Meloni nei voti di lista [...]

[...] Per questo, per il momento, fa buon viso a cattivo gioco: "Chi prende un voto in più indica il nome per fare il premier" ha assicurato ieri ad Affaritaliani.it.

Le maggiori resistenze arrivano, però, da Forza Italia. [...]

Dubbi dietro cui si nasconde un'idea, che in queste ore circola tra i vertici di Lega e FI. Chiedere che a esprimere il premier non sia il partito che avrà preso più voti a livello di lista, ma che avrà più parlamentari tra Camera e Senato. Se FI e Lega dovessero formare un unico gruppo parlamentare dopo le elezioni, potrebbero avere (ma non è detto) più eletti di FdI e a quel punto rivendicare la premiership. 

Berlusconi vorrebbe che a deciderlo sia l'assemblea dei parlamentari. Uno stratagemma che servirebbe per sbarrare la strada di Meloni a Palazzo Chigi. [...]

Però Ignazio La Russa, senatore meloniano, mette le cose in chiaro: "Chiediamo che non cambino le regole né sui collegi né su come si sceglie un candidato - ha detto a Mezz' Ora in Più - sarebbe un aiuto alla sinistra". [...] 

La questione sarà affrontata mercoledì, ma intanto i leader hanno iniziato la campagna elettorale. [...] 

Estratto dell’articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 25 luglio 2022.

[…] Berlusconi e Salvini temono, pur nella semi-pace ritrovata ma tutta da ricostruire, che a vincere sia Giorgia Meloni […] il piano è questo. Si va al voto con tre punte d'attacco e senza stabilire chi dei tre governerà. […] L'idea è quella di unire le forze tra Forza Italia e Lega subito dopo le elezioni e la somma dei due partiti supererebbe in Parlamento in numero di seggi quelli ottenuti da FdI. Si sta pensando a un'assemblea degli eletti, appena insediate le nuove Camere, nella quale nominare il premier di centrodestra.

[…] Quindi in Parlamento saranno più i forzaleghisti uniti che i meloniani. Ed ecco fatta la sorpresina all'amica Giorgia. Perciò comincia a circolare, sia in Italia sia in Europa presso il Ppe, l'ipotesi Tajani premier […] C'è chi dice, tra chi è vicino al Cavaliere, che al posto di Giorgia - se riesce il piano - Silvio vede se stesso come premier. Considerando che, parole sue, «serve gente d'esperienza e di larghe conoscenze alla guida di questo Paese, e io modestamente queste caratteristiche le ho...». Ma più che king, Berlusconi si vede kingmaker. O queenmaker nel senso che magari andrebbe bene investire pure la Meloni, ma l'importante è avere la forza numerica per dire: ti ho fatto presidentessa del consiglio io.

O magari, se il piano funziona ma la Meloni farà di tutto per cautelarsi in questi due mesi di campagna elettorale, Silvio e Matteo tireranno fuori altri nomi a sorpresa per succedere a Draghi? Frattini forse? O un super-tecnico d'area, se esiste? […] 

Quei giornali rimasti fermi al Ventennio. Test: provate ad aprire le finestre di casa, nella strada sottostante non vedete squadracce di aitanti camerati in camicia nera? Francesco Maria Del Vigo il 29 Luglio 2022 su Il Giornale.

Test: provate ad aprire le finestre di casa, nella strada sottostante non vedete squadracce di aitanti camerati in camicia nera, vessilli con fasci littori e giovani che saltano infoiati in cerchi infuocati? Bene, anzi benissimo. Non avete ancora le allucinazioni, il sole rovente della campagna elettorale estiva non vi ha ancora rimbambito. Perché, ormai è abbastanza ovvio, per la sinistra quello del fascismo incombente è un miraggio, come l'oasi nel deserto per il viandante. L'unico salvagente che può salvarla dal naufragio nelle urne. Un pericolo - quello del ritorno dei mussoliniani - assolutamente inesistente. Tuttavia, leggendo i giornali, si rimane vagamente storditi e si mette subito mano al calendario: che anno è? Che giorno è? E non c'entra Lucio Battisti, che tra l'altro pensano che sia fascista pure lui, quindi per sicurezza è meglio lasciarlo stare e non intorbidire ulteriormente le acque, che poi ci vuole un attimo a passare dal mare nero all'onda nera di Casapound.

Il problema è che oggi - luglio 2022 - i quotidiani parlano di fascisti e camicie nere, con una frequenza superiore a quella del Popolo d'Italia durante la direzione dei due fratelli Mussolini, Benito e Arnaldo, che però avevano qualche ragione per discettarne.

Ma erano gli anni Venti, del Novecento.

Bene, vediamo qualche numero, giusto per capire la portata di questa opera di disinformazione: dall'inizio di questa settimana a ieri sui giornali nazionali la parola fascismo è stata pubblicata ben 91 volte, i termini fascista o fascisti 99. Per un totale di 190 volte. Per fare un esempio: il termine siccità - problema decisamente più attuale - è stato citato solo 106 volte, immigrazione 125. Per tornare alle categorie del Novecento, la parola «comunismo», pur esistendo in Italia ancora qualche microscopico partito che aderisce all'ideologia, nello stesso arco di tempo compare 21 volte. Come è giusto che sia. Invece, a giudicare da questo piccolo sondaggio, sui giornali e tra i politici sembra che l'inverosimile ritorno dei nipotini del Duce sia la priorità assoluta della agenda del Paese: una fotografia perfetta della divaricazione tra campagna elettorale e realtà.

Ps. In questo articolo - comprese quelle che state per leggere - le parole fascismo, fascista e fascisti sono state usate dieci volte. Ma, d'altronde, se ne parlano ossessivamente i politici di sinistra, possiamo tacerne noi? No, ci accuserebbero di censura fascista e saremmo in un cul de sac. (E con questa siamo a quota 200).

La caccia ai fantasmi sulla "donna nera". Fausto Biloslavo il 29 Luglio 2022 su Il Giornale.

«Sono stufa delle analisi del sangue» è la (neanche tanto) battuta di Giorgia Meloni per i continui esami, talvolta anche al contrario dentro il mondo della destra, ma ancor più per stabilire il suo pedigree democratico da parte dei soloni del politicamente corretto. L'unica certezza, oltre al sangue rosso, è la campagna di demonizzazione ben orchestrata che la bolla come inadatta a guidare il paese per le inoppugnabili ombre fasciste sul suo passato, presente e futuro. Campagna scattata su alcuni giornaloni e non solo, fin dal primo giorno della caduta del governo Draghi. Oltre alla puntuale scoperta di fantasmi, ovviamente neri, negli armadi di Fdi, siamo addirittura alla cabala che furoreggia sui social. Il governo è caduto per andare a votare il 25 settembre e nel giro di un mese verrà formato quello nuovo dall'anima nera del centro destra il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, nel centenario del fascismo. Se non fosse da piangere verrebbe da ridere.

In realtà la campagna di demonizzazione è seria e non rappresenta una novità. Quando Berlusconi conquistò con i voti la presidenza del Consiglio iniziò la lunga «guerra» contro il Cavaliere nero. La caccia ai fantasmi del fascismo sono il sistema prediletto di che pensa che la democrazia è cosa loro e non scelta, giusta o sbagliata, degli elettori. Giorgia Meloni ieri è tornata a ribadire che «se qualcuno pensa di poter, sotto le nostre insegne, avere comportamenti che consentono alla sinistra di dipingerci come nostalgici da operetta sappia che ha sbagliato casa». Dentro alcune sacche di destra, ma soprattutto fuori, si stenta a capire che la possibile, ma non certa, prima donna a palazzo Chigi piuttosto che al passato sia rivolta al futuro con ideali conservatori ancora in parte da costruire e adattare ai tempi che cambiano fra guerre, pandemie e disastri climatici. Più facile, ma anacronistico, sventolare lo spauracchio del Duce in gonnella.

Per non parlare delle contorsioni giornalistiche sugli amici esteri impresentabili di Meloni, come i capi di governo polacco e ceco, che poi sullo stesso giornale vengono portati in palmo di mano per essersi schierati senza se e senza ma al fianco della lotta per la libertà degli ucraini. Oppure stigmatizzare l'ombra «nera» di Steve Bannon, che è un angioletto rispetto ai combattenti del reggimento Azov esaltati lo stesso giorno sulla stessa testata. Gente tosta che combatte strenuamente contro l'invasore, ma non rendersi conto delle nostalgie naziste di Azov e al contempo puntare il dito contro Meloni per memorabilia nostalgici è come cercare la pagliuzza e non vedere la trave.

Non c'è alcuna emergenza democratica che aleggia sul voto e sinceramente pure la sfida all'Ok Corral, Letta e Meloni, lei o lui, da tutte le due parti della barricata, suona un po' stucchevole. Mia figlia come in tante altre famiglie italiane ha appena compiuto 18 anni e andrà a votare per la prima volta. Da genitore e cittadino preferirei che la sua e mia scelta nelle urne dipendesse dal confronto dei programmi, dalla visione per l'Italia oggi e nel futuro dei diversi schieramenti. E non dalla solita caccia ai fantasmi neri o rossi.

Ossessione "Giorgia la nera". I vipponi, i giornaloni e gli antifascisti di professione: ecco la (solita) campagna sull'allarme fascismo. E, a questo giro, i fucili sono spianati contro la Meloni. Andrea Indini il 28 Luglio 2022 su Il Giornale.

Ci sono i vipponi. Elodie in testa. Ma anche Oliviero Toscani e Giorgia (la cantante). E poi c'è l'Ingegnere con il sogno di un nuovo Comitato di liberazione nazionale contro le destre. E poi i giornaloni della stampa internazionale, manganello dei poteri forti, che fanno da megafono oltre Manica e oltre Oceano al livore dei media nostrani. E c'è ovviamente Enrico Letta che nei talk show e nelle piazze è tutto un "O noi o la Meloni". Tutti ossessionati dall'ombra nera, tutti ossessionati da "Giorgia la nera".

L'allarme fascismo, di nuovo. Ci risiamo. Stessa spiaggia, stesso mare (nero). Dall'estate del lido fascista (era il 2017) alle "pastasciutte antifasciste" di Nicola Fratoianni (pochi giorni fa). Nel mezzo le sirene del coprifuoco sono risuonate innumerevoli volte. E i fucili sono stati spianati, in più di un'occasione, su formazioni, sconosciute ai più, che alla prova delle urne sono finite per capitalizzare lo zero virgola. L'indomani del voto, poi, le spillette dell'Anpi, le musicassette con incisa una vecchia versione di Bella ciao e i libretti della Costituzione sono stati puntualmente riposti in soffitta e la vita ha ripreso a scorrere come sempre. E gli antifascisti di professione hanno dovuto fare i conti con la realtà: non c'è stata una nuova marcia su Roma, in Italia non è stata instaurata la dittatura, la democrazia si trova sempre al solito posto. Persino a Verona, a lungo raccontata come covo di skinhead e neonazisti della peggior specie, è finita per andare in mano a un democratico, l'ex calciatore Damiano Tommasi, sconfessando così ogni inutile allarmismo. Eppure...

Eppure, passate poche settimane dalle elezioni amministative, sono stati presi in contropiede da una crisi di governo del tutto inaspettata e, trovandosi a corto di argomenti, hanno puntato sull'usato sicuro: l'allarme fascismo. Il 24 luglio il primo articolo (a pagina 10) su Repubblica contro il pericolo "ombra nera", contro "il partito che ha ancora nel suo simbolo la fiamma che arde sulla tomba di Mussolini": Fratelli d'Italia. L'accusa: da sempre intrattiene "relazioni non casuali con formazioni e ambienti neofascisti". Vengono tirati in ballo i saluti romani, una croce celtica in una ex sezione del MSI, "razzismi su negri e ebrei". "È il fattore 'M' - spiegano - 'M' come Meloni. 'M' come Mussolini". Due giorni dopo, il salto di qualità: la foto di prima pagina della Meloni fa infuriare tutti quanti. "Non bastava infarcire quotidianamente il giornale di articoli che insultano, attaccano e diffamano", il commento di Guido Crosetto. "Era troppo poco. Così hanno superato altri confini: quelli della decenza, del buon gusto e del rispetto". All'interno del quotidiano, poi, un ampio approfondimento sule "ambiguità del partito della fiamma" segnate dalle "interlocuzioni con partiti e movimenti di estrema destra. Una storia che, al netto delle smentite della leader, continua". La narrazione di Repubblica è che FdI e CasaPound siano la stessa cosa. Ieri stessa operazione con formazioni neonaziste formate da ultras e pregiudicati.

Oggi Repubblica è in edicola con un'altra prima pagina sulla Meloni. La falange è il titolo. Molto probabilmente andranno avanti per questa strada ancora per due mesi. Almeno fino al 25 settembre, quando cioè si voterà. Fino ad allora saranno in preda all'ossessione nera, all'ossessione per "Giorgia la nera". Poi, a spoglio ultimato, si ritireranno. Pronti comunque a rialzare la testa con l'avvicinarsi delle prossime elezioni.

L'arrivo annunciato della magistratura. La campagna elettorale al fulmicotone non è un guaio solo per i candidati. Lo è anche per i media, soprattutto per il blocco mobilitatosi immantinente per la sinistra. Marco Gervasoni il 29 Luglio 2022 su Il Giornale.

La campagna elettorale al fulmicotone non è un guaio solo per i candidati. Lo è anche per i media, soprattutto per il blocco mobilitatosi immantinente per la sinistra, o meglio contro il destra-centro. In passato centellinavano gli argomenti, ora sono costretti a mitragliarli. Soprattutto per il panico: dalle elezioni del 2008 non è mai stata così concreta la vittoria dello schieramento avverso alla sinistra. Il fascismo, come sempre, è alle porte. E gli argomenti sono gli stessi, dal 1994: appunto il pericolo fascista (allora c'era Fini, ma anche il Cav. era in odore, era infatti chiamato Nero) e poi la questione morale che, nel linguaggio tardo-berlingueriano, vuol dire: le inchieste della magistratura contro gli avversari politici. Di nuovo c'è la Russia: tema su cui, come abbiamo scritto qui, sarebbe bene Salvini facesse chiarezza. Ma come si fa a dimenticare che sono stati gli (ex?) amici di Letta, i grillini, amici a loro volta di Putin, ad aprire la crisi che ha portato alla caduta di Draghi? E' legittimo non piacciano le politiche del destra-centro, è altrettanto legittimo non votarle, e contrapporvisi: meno trasformare giornali e reti televisive in organi di propaganda da cui martellare ossessivamente. Come se poi questa strategia, dal 1994 a oggi, sia servita a qualcosa; più i media demonizzavano il centro-destra, più vinceva. Più si usavano le due punte, antifascismo e questione morale, più una maggioranza relativa di italiani, faceva spallucce. La questione morale, cioè le inchieste, sarà il vero piatto forte delle prossime settimane. E non solo a nostro avviso: lo scriveva giorni fa il Times di Londra, che riportava anche il giudizio di Guido Crosetto, secondo il quale cercheranno di fermare in ogni modo Giorgia Meloni, anche con le inchieste. E infatti è da giorni che il blocco mediatico di sinistra batte sul Circeo nero, sulla indagine che ha decapitato la giunta di Terracina. Dove non si capisce se il peccato degli amministratori fosse quello di essere neri o di essere indagati dalla magistratura. Il piatto forte è ovviamente l'ex sindaco, Nicola Procaccini, ora europarlamentare. Per quel poco che può valere, l'ho incontrato in diverse occasioni pubbliche in cui abbiamo discusso di libri: tutto mi è sembrato fuorché il classico tangentaro. E ancor meno nero, cioè fascista. Non è di sinistra, ed è molto vicino a Meloni: la sua colpa sarà quella. Non vogliamo entrare nel merito dell'indagine, le tesi difensive di Procaccini mi paiono plausibili, la magistratura farà il suo corso. E' tuttavia inaccettabile l'esposizione mediatica dell'indagato, come un trofeo di caccia. Una vecchia storia. Agitare la presupposta questione morale non fa vincere le elezioni: non lo fece nel 1994, a ridosso della epidemia di Mani pulite, figuriamoci ora. Ma sfruttarla è fondamentale alla sinistra per lanciare un segnale, e dire: anche se vincerete, non sarete legittimati a governare, perché siete fascisti, e siete anche ladri.

L'allarme di Berlusconi: “Meloni spaventa con lei leader, potremmo perdere”. Tommaso Ciriaco su La Repubblica il 27 luglio 2022.

Il Cavaliere insieme a Salvini proporrà che la scelta del candidato a Palazzo Chigi la faccia l’assemblea degli eletti. Intanto la leader di FdI si prepara a chiedere il 55 per cento dei collegi

Tirerà fuori un sondaggio riservato. E lo farà al momento giusto, con un po' di perfidia. Recita: Giorgia Meloni candidata premier in pectore potrebbe farci perdere le elezioni. O meglio: ci impedirebbe di vincerle. Troppo di destra, tanto da spaventare gli elettori moderati. 

Meloni: «Noi generosi, avremmo potuto chiedere di più», così il centrodestra ha trovato l’accordo. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.

La leader di Fratelli d’Italia ai suoi spiega: «Va bene farci carico dei candidati centristi». 

Non è stato facile ottenere quella che appare come una piena vittoria , e non era nemmeno scontato. Perché da mesi Giorgia Meloni temeva che avrebbero «fatto qualsiasi cosa per fermarmi» e sapeva di avere solo due armi per difendersi da una possibile ghettizzazione. Una erano i voti veri, non solo i sondaggi (altissimi e sempre in crescita) che possono però oscillare. E le elezioni amministrative di maggio, che hanno fatto del suo partito il più votato fra quelli della coalizione anche in luoghi un tempo tabù, come il Nord a trazione leghista, sono state un’enorme spinta per creare un prima e un dopo.

L’altra arma era chiedere una cosa facile facile: «Il rispetto delle regole. Che non si cambiano se chi può vincere, stavolta, siamo noi. Perché noi le abbiamo sempre rispettate». Regole su premiership e divisione collegi. Tutte alla fine accolte secondo le sue richieste.

Così ieri, dopo una settimana in cui ha martellato la sua richiesta — «Come sempre è stato, chi prende un voto in più deve esprimere il premier, altrimenti è inutile stare assieme al governo» —, quando è arrivata al vertice aveva solo ancora una preoccupazione, quasi più scaramantica che reale: che FI insistesse su soluzioni alternative (appena abbozzate al vertice da Berlusconi, che è tornato a parlare timidamente di «eletti» che decidano la leadership, ma subito da lei stoppato: «Bene, allora cominciamo a parlare di collegi, ecco qui i nostri numeri...»), che le si preparasse una trappola appunto sui collegi (e infatti quando le hanno proposto soluzioni non gradite, ha subito interrotto il summit), che si uscisse insomma ancora una volta con un nulla di fatto che significasse un no alla sua legittimazione che «non chiediamo, abbiamo, perché ce la danno gli elettori». In quel caso, sarebbe stata rottura: «Leggo di ipotesi di governo, di ministri, di pesi... Qui non si sa nemmeno se c’è una coalizione...», erano le sue parole due ore prima del vertice. E in fondo quello di correre da sola era il suo piano B, che fino all’ultimo la leader di Fratelli d’Italia non ha abbandonato.

Ma non è stata rottura. Che avrebbe devastato più gli alleati che il suo partito, avviato comunque probabilmente a diventare il primo in Italia, quindi essenziale o per fare un governo o per costringere gli altri a «un’altra ammucchiata». Lo sapevano sia Berlusconi che Salvini, non c’è stato nemmeno bisogno che lei lo ricordasse. Sul punto è stata intesa, come era logico accadesse. E anche sui collegi, almeno sulla carta, visto che il difficile sarà ora quali dare a chi. Perché «noi — ha detto Meloni ai suoi — ci siamo dimostrati generosi: potevamo chiedere di più, ma abbiamo accettato di venir loro incontro, ovviamente dopo aver scartato proposte o algoritmi inaccettabili. Tenere conto dei sondaggi di prima della caduta del governo Draghi ci sta, anche se allora avevamo numeri più bassi. E anche farci carico noi della maggior parte dei candidati centristi va bene, sia perché siamo il partito maggiore oggi, sia perché a differenza di quanto dicono siamo inclusivi e vogliamo accogliere anche i moderati nelle nostre liste. Esattamente come fa un partito conservatore, quale siamo».

Adesso si parte. Con una strategia, che va avanti da mesi e si accelera sempre più: il rapporto di reciproca legittimazione per la corsa alla premiership fra lei ed Enrico Letta. L’uno considera e definisce l’altro l’avversario da battere, in un bipolarismo nuovo che si sta costruendo anche senza formule scritte. Un modo quasi per escludere gli altri, e ci si aspetta che saranno loro due a ritrovarsi nelle prossime settimane in duelli e faccia a faccia. Non con altri leader, ma una partita a due. Non è un caso che ieri sera Letta abbia subito commentato: «Oggi è un giorno importante per la storia e la politica italiana perché Berlusconi e Salvini hanno deciso di consegnarsi definitivamente nelle mani della Meloni. È una scelta che conferma quello che abbiamo detto dall’inizio di questa campagna elettorale e cioè che sarà un confronto e una scelta che gli italiani dovranno fare tra noi e la Meloni».

Ma Giorgia Meloni dovrà lavorare anche sulle candidature interne per la competizione elettorale, ed esterne. Perché la leader di FdI sa che il punto su cui verrà attaccata, come già sta accadendo, è non solo quello tradizionale di una provenienza di destra post-fascista, che lei rifiuta e respinge con tutte le forze, ma anche di una classe dirigente non all’altezza.

Lei contesta una ricostruzione che trova «falsa e bugiarda», darà spazio ai fedelissimi, ai big, ad amministratori, giovani ma anche a nomi fuori dal recinto del partito. Già alla Convention di Milano dell’aprile scorso sono stati ospitati esponenti dell’industria, delle professioni, della diplomazia, dell’università, dei sindacati d’area. Guardando anche al governo e sapendo che non c’è una mossa che possa permettersi di sbagliare, per non sprecare un vantaggio che ad oggi sembra incolmabile.

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 29 luglio 2022.  

«Sì, la sfida è tra noi e il Pd. Quindi in campagna elettorale invito tutti a evitare polemiche con i nostri alleati di centrodestra. Le polemiche aiutano gli avversari, e noi non vogliamo concedere neanche un millimetro». 

Giorgia Meloni spiega alla direzione di FdI qual è la strada che vuole percorrere da qui al 25 settembre e i dirigenti del partito, che insieme a lei sono cresciuti dal 3% di nove anni fa al quasi 23% di oggi, applaudono e si alzano in piedi per ringraziarla. Incoronata mercoledì da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, ai quali ha strappato una promessa sulla leadership e un accordo sui collegi uninominali, Meloni ieri ha acceso i motori di FdI in vista di una campagna elettorale estiva, inedita.

A parlamentari e coordinatori regionali del partito ha dettato la linea da qui alle urne. Partendo dalla politica estera. Mentre infuriavano le polemiche sui contatti tra leghisti e diplomatici russi, lei ha ribadito: «Saremo garanti, senza ambiguità, della collocazione italiana e dell'assoluto sostegno all'eroica battaglia del popolo ucraino. L'Italia guidata da FdI e dal centrodestra sarà un'Italia affidabile sui tavoli internazionali».

L'accordo raggiunto con Forza Italia e Lega permette a Meloni di parlare da leader in pectore: «Agli alleati abbiamo ribadito che, per avere un governo forte e duraturo, è necessaria un'alleanza solida. Si vince e si perde insieme». Qualche crepa, però, c'è. La quota di collegi uninominali assegnati ai "centristi" ha provocato malumori in casa Udc. In sostanza se il partito di Lorenzo Cesa deciderà di correre col proprio simbolo sarà conteggiato tra gli 11 posti da dividere con Coraggio Italia, Noi con l'Italia e Vittorio Sgarbi.

Se invece rinuncerà allo scudo crociato i candidati saranno assorbiti dentro Forza Italia o suddivisi tra gli azzurri e la Lega. In entrambi i casi l'Udc lamenta di essere stato sottostimato. Cesa chiede quindi di ricalibrare i collegi per «rispecchiare i reali pesi politici». Se ne riparlerà la prossima settimana, probabilmente martedì, quando i leader torneranno a incontrarsi. Se il vertice di mercoledì ha segnato un successo per Meloni, in FdI resta qualche perplessità, nel comunicato finale si dice che il premier verrà indicato «da chi avrà preso più voti» e non dal «partito» che ha preso più voti come chiesto da Meloni, una formula che lascia margine a interpretazioni arbitrarie. 

La composizione delle liste è un classico della letteratura politica. Liti, offerte, promesse, anticamere. Sondaggi alla mano, Fratelli d'Italia è l'unico partito che nonostante il taglio dei parlamentari aumenterà il numero dei propri eletti. Quindi, oltre alla conferma degli uscenti, in via della Scrofa si ragiona su nomi e cognomi da coinvolgere. E la corte di Meloni si affolla ogni giorno di più. Si parla di Marcello Pera e Giulio Tremonti, già scongelati da FdI per la corsa al Quirinale.

Dell'imprenditore veneto Matteo Zoppas, che per ora smentisce. E poi la giovane direttrice d'orchestra Beatrice Venezi, che però vuol essere chiamata «direttore d'orchestra»: lei potrebbe finire candidata in Toscana. Per la Campania, invece, è dato praticamente per certo Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, già ospite della kermesse milanese di FdI. Ieri è di nuovo finito al centro delle polemiche, dopo che La Russa (che poi si è smentito) aveva rivelato una sua partecipazione alla stesura del programma elettorale del partito.

Un posto al sole, in quota centrista, potrebbe spuntarlo Gianfranco Rotondi, oggi leader di Verde è popolare.

Candidato in Abruzzo, dove da cinquant' anni ha una casa al mare, a Pineto. Qualche sera fa ha festeggiato i 62 anni e alla sua festa c'era anche Meloni. Sono stati ministri insieme per tre anni e mezzo nel Berlusconi IV. «I miei maestri Dc mi hanno insegnato che prima si fanno le scelte politiche e poi si discute di seggi - risponde mentre guida verso l'Adriatico - Meloni ha il diritto e il dovere di guidare il centrodestra da palazzo Chigi.

Mi sono messo a disposizione, spetta al centrodestra decidere il mio ruolo». 

Ieri la supermedia dei sondaggi di YouTrend registrava quasi un testa a testa tra FdI (al 22,8%) e Pd (22,1%), entrambi in aumento dello 0,3%. Dietro la Lega al 14,4%, M5S al 10,8% e Fi all'8,4%. «Letta ha detto che l'Italia dovrà scegliere tra lui e noi. È vero - dice la leader di FdI ai suoi - noi vogliamo un ritorno del bipolarismo e questo confronto non ci spaventa».

Meloni sa che saranno due mesi di battaglie. Le accuse di neofascismo, le foto della sezione di partito a Civitavecchia con croci celtiche e manifesti della X Mas. Lei allora alza la voce: «Se qualcuno pensa, sotto le nostre insegne, di poter avere comportamenti che consentono alla sinistra di dipingerci come nostalgici da operetta quando stiamo costruendo un grande partito conservatore, sappia che ha sbagliato casa e che lo tratteremo come merita: uno che fa gli interessi della sinistra, e dunque un traditore della nostra causa». Neofascista avvisato, mezzo salvato?

Da “Posta e Risposta” – “la Repubblica” il 29 luglio 2022.

Francesco, ti prego: dimmi che cosa c'è di sbagliato in questo ragionamento. 

1) Voterò per la cosiddetta Area Draghi se sarà formata da una coalizione abbastanza ampia per vincere e se si proporrà di riportare Draghi a Palazzo Chigi e di realizzare il programma del suo discorso al Senato. 

2) Ma se il centrosinistra (da Calenda fino a chi vuoi tu e comprendendo per favore Renzi) si presenterà in ordine sparso, allora meglio votare Meloni, tolto Draghi la migliore intelligenza in circolazione, donna, giovane e - se guardo alla storia del dopoguerra e degli ultimi anni - davvero "nuova". 

Certo, non voglio che, in caso di vittoria del centrodestra, la leadership sfiori gli orrendi Berlusconi e Salvini.

Ti prego, Francesco: demolisci.

Giorgio Dell'Arti

Risposta di Francesco Merlo

Caro Giorgio, mi preoccupa questo innamoramento contagioso, estrema degenerazione del cinismo italiano. Come puoi equiparare l'Europa di Draghi all'Europa di Orbán? È vero che, di fronte ai mostri guatemaltechi Berlusconi e Salvini, Meloni è sireniforme, ma solo perché fisicamente non somiglia alle cattiverie che dice: contro i gay, gli immigrati, i Rom Non c'è peggio di una donna contro le donne.

A partire dall'aborto confinerà in Svizzera tutti i nostri ammaccati diritti. E si capisce che, dopo il razzismo scomposto dell'incredibile Hulk, si faccia strada nell'Italia di destra il "razzismo gentile". Ma tu che c'entri? Come sai, Meloni stupisce - ricordi la Spagna? - quando comizia. Già nelle periferie romane, dove la destra ha le sue fortezze, il suo linguaggio d'odio sparava violenze che il suo corpo pareva non sopportare, robe amazzoniche e militari in bocca a una signorinetta piccola, bionda, pallida, dagli occhi ceruli.

E svegliati, carissimo Giorgio: non è per niente "nuova". Non è fascista, ma con la fascisteria ha il doppio problema che aveva il Msi: se li condanna li perde, se non li condanna si perde. Ecco il punto: Meloni è missina e ha come mito gli anni settanta, quelli del terrorismo e dei picchiatori. Ne custodisce la fiamma e "il patrimonio valoriale che è stata la nostra giovinezza". 

Ha riaperto la sede di via della Scrofa e occupa la stanza di Almirante, "il grande uomo" che celebra ogni 22 maggio. Lo spaccia per campione della democrazia con incendi emotivi che presto vorrebbe trasformare in cerimonie di riabilitazione nazionale e europea, eleggendolo a Padre della destra sovranista e razzista, dall'Ungheria alla Polonia all'Italia. Sei un grande giornalista e di Almirante maturo sai tutto e conosci il programma: presidenzialismo e pena di morte. Anche la sua formula tattica, "manganello e doppiopetto", vale, aggiornata, per Meloni. Sei un segnale di pericolo, caro Giorgio, ma sono certo che non la voterai.

Nicola Mirenzi per huffingtonpost.it il 30 luglio 2022.

“Io sono in crisi. E non credo di essere il solo. Non c’entro niente con Giorgia Meloni e la sua storia, ma in termini di qualità personale – coerenza, intelligenza, abilità politica – è innegabile che, Draghi escluso, li batta tutti. Contro di lei vedo il rischio che preparino la pastetta democratica che ci propinano da trent’anni: il cacciavite, l’eroica difesa dello status quo, il fronte della demonizzazione personale. Vorrei tanto che non mi costringessero a votarla. Ma, se sarà inevitabile, forse, lo farò”.

Venerdì, nella rubrica delle lettere di Repubblica, sono apparse poche righe scritte da Giorgio Dell’Arti, giornalista e scrittore, fondatore del Venerdì, curatore della deliziosa rassegna stampa Anteprima, uomo insospettabile di nostalgie nere: “Ho fatto il 68”, dice. “Contro i fascisti mi sono battuto. Quando occupammo lettere alla Sapienza di Roma e Almirante venne lì con i suoi picchiatori a cacciarci. Ma sono passati più di cinquant’anni da allora. È tutta un’altra Italia, questa”. 

Nella lettera, rivolta a Francesco Merlo, Dell’Arti scrive: “1) Voterò per la cosiddetta Area Draghi se sarà formata da una coalizione abbastanza ampia per vincere e se si proporrà di riportare Draghi a Palazzo Chigi e di realizzare il programma del suo discorso al Senato. 2) Ma se il centrosinistra (da Calenda fino a chi vuoi tu) si presenterà in ordine sparso, allora meglio votare Meloni, tolto Draghi la migliore intelligenza in circolazione”.

Merlo le ha risposto che lo preoccupa questo “innamoramento contagioso”. Io, invece, sono più interessato a comprendere perché l’Italia abbia ciclicamente questi innamoramenti improvvisi. Prima Renzi, poi i 5 stelle, poi Salvini, ora Meloni.

Come li spiega?

Sono onde che assumono ogni volta forme diverse, ma che nascono tutte – mi sembra – da uno stesso moto: il desiderio di demolire le incrostazioni del Paese, i blocchi che lo tengono fermo, e lo soffocano.

La proposta di Meloni è quella giusta?

Giudico le qualità personali, prima che i programmi. Mi dica un programma che oltre a essere enunciato è stato anche realizzato. La realtà cambia continuamente. Qualcuno, per caso, aveva pensato all’invasione dell'Ucraina? Le cose accadono. E sono le persone quelle che affrontano i problemi, non i programmi. 

E Meloni le sembra la più adeguata?

Dopo Draghi, mi sembra la persona dotata di maggiori qualità personali, oltretutto è donna, giovane e – se guardo alla storia del dopoguerra e degli ultimi anni – davvero ‘nuova’.

Carlo De Benedetti, invece, pensa sia fascista.

Non mi convince la chiamata alle armi antifascista, il Comitato di liberazione nazionale preventivo. Non vedo il rischio del razzismo, nemmeno nella sua forma gentile, come lo chiama Francesco Merlo. De Benedetti, però, ha ragione su un altro punto. 

Quale?

Sul fatto che queste saranno elezioni in cui bisognerà scegliere, non rifugiarsi nella testimonianza, nascondersi dietro la scelta del partito del 5 per cento. 

Cosa prova quando sente dire a Meloni “sì, alla famiglia naturale, no alla lobby LGBT”?

Non mi vengono i brividi, se è questo quello che vuole sapere. 

No, volevo sapere cosa le fa pensare.

Che esistono i diritti delle minoranze, e sono sacrosanti. Ma esistono anche i diritti della maggioranze, e sono altrettanto sacrosanti. 

Per esempio?

Credo che la maggioranza abbia tutto il diritto di voler chiamare “madre” la madre e “padre” il padre. Genitore 1, genitore 2: sono, oltretutto, parole orrende. Io mi sento il padre dei miei figli, non il genitore numerato. Impormi di esprimermi in maniera diversa sarebbe un sopruso. 

Nell’Ungheria di Orbàn, però, alcune minoranze, tra cui quelle sessuali, non si sentono garantite.

E questo è un problema. 

Meloni però è sua alleata.

E questo è un altro problema. 

Altri problemi?

La classe dirigente di Fratelli d’Italia, un partito che a Roma ha candidato Michetti… 

Non sono questioni insormontabili per il suo voto?

Non ho ancora dichiarato il mio voto per Meloni: ho posto un problema, anzi sarei grato a

chiunque demolisca con i fatti le mie obiezioni. Ma se, anziché la prospettiva di Draghi di nuovo a Palazzo Chigi, il centrosinistra offre la sua ordinaria amministrazione, allora no, preferisco il rovesciamento.

La rivoluzione è Meloni?

È vero che il suo partito appartiene al gruppo dei conservatori europei, ma, in Italia, il vero partito conservatore è il Pd. 

Dell’influenza di Putin ha paura?

Meloni sarebbe una garanzia contro le influenze russe anche per i suoi orrendi alleati, Salvini e Berlusconi. Non credo si convertirà al putinismo appena vinte le elezioni. 

Un’alternativa però c’è, nel suo ragionamento.

L’alternativa è Draghi. 

Anche se lui non vuole?

Credo si possa convincere. 

Perché lui?

Perché è l’uomo che può modernizzare questo Paese. Non coalizzando un fronte “anti”, ma un fronte “per”. 

Ma i 5 stelle dovrebbero esserci nell’Area Draghi?

Penso che Letta dovrebbe fare un discorso sincero: noi vogliamo riportare a Palazzo Chigi Mario Draghi. Non per fermare la destra, ma per realizzare il programma enunciato nel suo discorso d’addio. Chi ci sta? Se i 5 stelle rispondono sì, bene. Altrimenti, vadano per la propria strada.

E se non fanno questo discorso?

Significa che la Meloni se la saranno meritata. Non ho ancora deciso se con, o senza il mio voto.

Lettera di CORRADO FORMIGLI a Giorgia Meloni pubblicata da La Stampa l'1 agosto 2022.

Cara Giorgia Meloni, le scrivo questa lettera per provare a fissare alcuni paletti che permettano a lei, leader di un importante partito e aspirante presidente del consiglio, e a noi giornalisti, di convivere fino al 25 settembre e anche dopo. Nel rispetto reciproco dei diversi ruoli. 

Due giorni fa, mentre guardavo al telegiornale le immagini atroci dell'assassinio di Alika a Civitanova Marche, sono stato preso da un gesto istintivo. Ho afferrato il cellulare e ho fatto un tweet, rivolto a lei e a Matteo Salvini. 

Chiedevo se sarebbe arrivato su questa vicenda orribile un vostro messaggio di indignazione attraverso i canali social. Una domanda a mio parere del tutto legittima, visto che da anni assistiamo da parte sua e della destra sovranista a un autentico bombardamento contro gli immigrati, indicati esclusivamente come un problema di sicurezza pubblica e un ostacolo alla crescita e al benessere degli italiani. "Invasione". "Sostituzione etnica". Concetti ripetuti da lei, martellanti.

L'omicidio di Alika, compiuto nella più completa indifferenza dei cittadini presenti, ci ha mostrato a che livello di ignavia, per non dire risentimento sordo e rabbioso, sono arrivati tanti italiani che da anni assistono al più completo degrado del linguaggio e della cosa pubblica. Un uomo inerme massacrato mentre c'era chi faceva i filmini. Nella stessa regione dove Luca Traini aveva tentato una strage, anche questa volta contro quegli africani che in tanti, troppi disinvolti post lei ha ritratto con toni allarmistici e degradanti.

Nel suo racconto, sono sempre i poveri italiani le vittime.

D'altronde, è dei loro voti che ha bisogno. Ma mi ha sempre colpito l'assenza di pietà umana che le macchine social di Lega e Fratelli d'Italia hanno mostrato verso volti e persone di cui sappiamo poco o niente. E che spesso sono storie di violenza, miseria estrema, guerra. Ma non voglio dilungarmi su argomenti che lei definirebbe "buonisti". Andiamo al sodo della questione. Dopo una lunga storia politica mirata ad allontanare dai nostri confini i migranti, a demonizzarli, a condannarli senza attendere tre gradi di giudizio, a immaginare bellicosi blocchi navali (senza peraltro spiegare nel dettaglio come farli) era legittimo oppure no domandarle se e cosa avrebbe scritto sull'assassinio a mani nude di un ambulante nigeriano da parte di un italiano criminale e razzista? 

Anche perché, nei telegiornali della sera, non vi era traccia di un suo commento. In compenso, un suo collega deputato della Lega, Riccardo Augusto Marchetti, invocava a proposito di quell'omicidio l'azzeramento degli sbarchi. Come dire che Alika, arrivando in Italia, quella morte se l'era un po' andata a cercare. Dunque, il tweet. Alle 20.22, mentre Fratelli d'Italia tace. Un'ora e dieci dopo, la sua risposta, nella quale mi dà del propagandista e dello sciacallo. Ecco, questo è un altro punto nevralgico della questione. La propaganda la fanno i politici, legittimamente, per farsi votare. Nei comizi e sui balconcini digitali, evitando accuratamente intermediazioni giornalistiche. Noi facciamo domande, esprimiamo opinioni, critichiamo. 

Col solo limite della legge. Nel fare quel tweet a lei rivolto sono stato di parte? Certo, e lo rivendico. Rivendico il giornalismo che prende parte, se prender parte significa fare battaglie sulle idee e sui valori. Esprimo un forte dissenso sulla sua visione della società e intendo farlo senza essere insultato per questo da chi rappresenta le istituzioni democratiche. Politica e informazione devono restare ben separate, oserei dire in uno stato di diffidenza permanente. 

Poteri autonomi e, ovviamente, reciprocamente rispettosi. Fra poco, forse, governerà l'Italia. Ecco, nel caso, si occupi di amministrare e lasci stare chi la critica, anche aspramente. Non cada nella tentazione di misurare il nuovo potere. E, se può, metta in agenda una riforma della Rai anziché ridursi anche lei a piazzare qualche direttore e conduttore adorante qua e là. Di più, si batta per lo scioglimento della commissione di vigilanza Rai, un unicum europeo, un Minculpop minore. Per quanto mi riguarda, sul fronte della destra, mi impegno a fare accuratamente il mio lavoro. 

Continuando a occuparmi delle lobby nere che avvelenano il sovranismo italiano - a proposito, i suoi colleghi di partito che facevano i saluti romani e le battute naziste sono ancora al loro posto, lo sa? - e indagando sulle future alleanze europee, a cominciare dal suo amico Viktor Orban che inneggia alla "razza" vagheggiando un'Ungheria bionda e pura. Lei che ne pensa? E se sarà premier, andrà ancora ad abbracciarlo? Cordialmente.

Giorgia Meloni furiosa contro Corrado Formigli sul nigeriano ucciso a Civitanova Marche. Il Tempo il 30 luglio 2022.

"Sciacallo, la tua propaganda è penosa". Meloni furiosa contro Formigli. L'ambulante nigeriano ucciso in strada a Civitanova Marche fa esplodere la polemica social tra Giorgia Meloni e il conduttore di "Piazza Pulita". Subito dopo la notizia dell'omicidio in strada, infatti, la leader di Fratelli d'Italia ha pubblicato un tweet in cui condannava l'aggressione e l'omicidio dell'ambulante. "Non ci sono giustificazioni per tale brutalità - aveva scritto la Meloni - Mi auguro che l’assassino la paghi cara per questo orrendo omicidio. Una preghiera per la vittima". Formigli, però non ha perso l'occasione di attaccare in modo pretestuoso il centrodestra. E in un tweet ha chiesto la condanna dell'omicidio proprio da parte di Meloni e Salvini. "Nigeriano invalido massacrato a bastonate da un italiano a Civitanova Marche.  

Ma lo scontro era appena iniziato. Meloni non gliel'ha fatta passare liscia e ha pubblicato un tweet infuocato in cui disintegra senza mezze misure la "penosa" propaganda del conduttore di La7. "Prima di usare la morte del povero Alika per la tua penosa propaganda, non potevi almeno esprimere solidarietà alla famiglia? - ribatte la leader dei Fratelli d'Italia a Formigli - Come puoi verificare, io la mia condanna verso questo brutale omicidio l’ho espressa e subito. Sciacallo". Formigli colpito e affondato.

Formigli guida gli sciacalli rossi. Sfrutta la tragedia contro i sovranisti. Salvini e Meloni condannano l'episodio, ma l'assassinio di Ogorchukwu viene strumentalizzato lo stesso, senza neanche una parola di cordoglio. Solo Renzi ragiona: "Questo clima mi fa orrore". Fausto Biloslavo il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

Per sgombrare subito il campo da qualsiasi dubbio l'assassino dell'ambulante nigeriano, Alika Ogorchukwu, deve venire condannato non solo in maniera esemplare, ma poi sarebbe meglio buttare via la chiave. I precedenti di rabbia brutale che stanno emergendo sull'omicida, Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, fanno sospettare che se il povero mendicante fosse stato bianco, giallo o verde la violenza sarebbe risultata la stessa.

Non solo per questo è indecente cavalcare una storia così triste e tragica a fini elettorali utilizzandola come l'ennesimo «proiettile» politico in chiave razzista, mangia migranti e così via. Ovviamente i bersagli sono sempre gli stessi: Salvini, Meloni ed il centro destra in genere accusati di fomentare azioni del genere. Si spera che uguale sdegno e attenzione da parte della sinistra venga riservato a un altro episodio folle. Ieri in provincia di Avellino un migrante nigeriano, Robert Omo, ha ammazzato a martellate un negoziante cinese, mandato in coma un cliente e tentato di aggredire una donna e una bimba.

Forse ci spiegherà questo assurdo episodio l'assessore della regione Toscana, Stefano Ciuoffo, che sul delitto di Civitanova Marche ha sentenziato: «Il tragico e tremendo fatto è figlio di una cultura intollerante e xenofoba nei confronti del diverso, sia esso per motivi di etnia, di credo religioso o di orientamento sessuale, che in questi anni ha agito in modo latente e costante». Oppure monsignor Vinicio Albanesi convinto che Alika sia stato ucciso «perché era disabile, nero, mendicante». Sarà così, ma inzupparci il pane come ha fatto Corrado Formigli, conduttore de LA 7, è almeno discutibile. «Attendiamo post indignati di @matteosalvinimi e @GiorgiaMeloni» ha scritto su twitter. La leader di Fratelli d'Italia ha risposto dandogli dello «sciacallo» perché aveva già parlato chiaro sui social: «Non ci sono giustificazioni per tale brutalità. Mi auguro che l'assassino la paghi cara per questo orrendo omicidio. Una preghiera per la vittima». L'altro bersaglio classico è Matteo Salvini, che ha espresso lo stesso sdegno, ma viene considerato per la sua politica sui migranti il responsabile di tutti i mali e sotto sotto, almeno indirettamente, della tragica fine del nigeriano. Nicola Fratoianni di Sinistra italiana tuona che «inondare la nostra società di propaganda tossica fatta di istigazione a farsi giustizia da soli, di pregiudizi sul colore della pelle e su ogni differenza, di indifferenza ed egoismo e portata alle estreme conseguenze prima o poi scatena la violenza fino all'omicidio su un marciapiede». Matteo Renzi è in controtendenza: «Anziché riflettere tutti insieme su cosa stiamo diventando la politica litiga e strumentalizza. Mi fa orrore questo clima da campagna elettorale. Un pensiero ad Alika e alla sua famiglia». Una volta tanto le prime parole dell'immancabile comunicato dell'Associazione nazionale partigiani centrano l'obiettivo: «Una violenza che non ha fermato nessuno». Invece che intervenire per salvare un essere umano i passanti hanno filmato tutto con i telefonini e qualcuno è riuscito a dire «se fai così l'ammazzi» senza muovere un dito, ma continuando a girare il video. Non servirà ad arginare l'ondata propagandistica neppure la dichiarazione della Polizia che smentisce la matrice razziale e parla di «una lite per futili motivi, con una reazione abnorme da parte dell'aggressore».

Razzismo o meno il tragico episodio di Civitanova, come il nigeriano impazzito che uccide gente a martellate, devono farci capire che l'immigrazione non può essere incontrollata con sbarchi continui. Alika non doveva mendicare per vivere e arrivare in Italia per problemi economici. E ancora meno il suo connazionale assassino di Avellino doveva essere ospitato da noi dove ha aggredito pure gli operatori di un dormitorio della Caritas. L'Italia, non senza difficoltà, deve ospitare i veri profughi, quelli di guerra, che dimentichiamo facilmente come gli afghani, garantendo a tutti una vita dignitosa.

Corrado Formigli, Alessandro Sallusti: vilipendio di cadavere, uno squallido tentativo. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 31 luglio 2022

Povero Alika, prima è stato ucciso a botte da un italiano poi il suo cadavere ancora caldo è stato oltraggiato dalla sinistra, che lo ha sequestrato ed esibito come un trofeo di guerra al mondo intero. Ecco, vedete cosa succede - è il senso del coro progressista diretto per l’occasione da un maestro di eccezione, Corrado Formigli - se Giorgia Meloni andrà al potere. E già, ovvio, se il Centrodestra vincerà le elezioni per i nigeriani non ci sarà scampo, sarà caccia all’uomo ovunque e le città intitoleranno una piazza a Filippo Ferlazzo, gigante buono ingiustamente arrestato dagli sbirri di Mario Draghi per aver fatto il suo dovere di buon cittadino: ammazzare a pugni e calci il primo nero che ti viene a tiro.

Corrado Formigli si chiede: cosa hanno da dire adesso la Meloni e Salvini? Raramente ho ascoltato domanda più stupida e traboccante di odio. Cosa vuoi che pensino Salvini e Meloni quando un uomo, bianco o nero che sia, viene ucciso da un altro uomo, bianco o nero che sia? Perché accade spesso anche l’inverso, cioè che immigrati di colore si uccidano tra di loro o uccidano e stuprino bianchi e bianche indigeni con la stessa feroce violenza messa in campo da quel delinquente del Ferlazzo. Pensano, conoscendoli mi arrogo il diritto di svelarvelo, che un uomo non deve uccidere e che se lo fa deve passare il resto dei suoi giorni in galera, indipendentemente da quale sia il suo orientamento politico, il colore della sua pelle e il suo status civile.

E pensano anche, offro gratis a Formigli un altro scoop, che non è bello che dei cittadini, come è successo in questo caso, assistano immobili a un omicidio come se fossero al cinema, ma che nessuno, neppure il Pd, può dare il coraggio a chi non c’è l’ha, ammesso e non concesso che mettersi in mezzo a mani nude tra due bestioni, di cui uno impazzito, che si menano a bastonate fosse la cosa più intelligente da fare in quel momento.

Questo vilipendio di cadavere è un sacrificio pagano della sinistra sull’altare della campagna elettorale, uno squallido tentativo di ingraziarsi gli dèi in vista del 25 settembre, giorno del giudizio, se non universale certamente, almeno per Enrico Letta, tombale.

Giampiero Mughini per Dagospia il 30 luglio 2022.

Caro Dago, la campagna elettorale è cominciata da poco - e anche se qualcuno potrebbe obiettare che non si è mai interrotta un istante - e già mi vengono i brividi. Corrado Formigli è un ragazzo intelligente e perbene, ma il modo in cui è andato addosso alla “ducetta” era dei più maldestri. Sbagliano alla grande quelli che vorrebbero dipingerla a tutti i costi come un Roberto Farinacci in gonnella e come se nell’Italia del terzo millennio sia pensabile un qualche Farinacci uomo o donna che sia. Giorgia Meloni l’ho avuta di fronte non so quante volte da vent’anni a questa parte, mai le ho sentito sbagliare una sillaba.

Mai. Certo, i suoi larghi consensi provengono dal fatto che standosene all’opposizione del governo Draghi lei sì che agli occhi dei babbei appariva come quella che avrebbe potuto moltiplicare i pani e i pesci, ossia l’aspettativa della grandissima parte dell’elettorato in una democrazia di massa. Purtroppo, e come se fosse un particolare da niente il fatto che il nostro debito pubblico rasenta i tremila miliardi di euro.

Detto questo approvo totalmente lo spirito della lettera che il mio vecchio compare Giorgio Dell’Arti ha mandato a Francesco Merlo. E cioè che lui non esclude affatto di votare la Meloni, ovvero metterla alla prova, ovvero costringerla a mostrare se sì o no esiste una “destra” moderna in grado di governare una democrazia complessa, Mi pare di capire, e sarei totalmente d’accordo con lui, che Giorgio vuole intendere che le giaculatorie preconcette a favore della “sinistra” sempre e comunque valgono un fico secco. Dipingere la Meloni come il diavolo su questa terra non serve a niente e non racconta nessuna verità. E d’altra parte dove sta la verità, in quale accozzaglia possibile di una “sinistra” nel cui “campo largo” fanno a cazzotti quelli che vogliono a Roma un termovalorizzatore il più presto possibile e quelli che non lo vogliono affatto?

Quanto siamo sprovveduti nell’affrontare un comparto della storia repubblicana che non somiglia a nessun altro. E’ verissimo quello che sostengono i paladini dell’alleanza elettorale tra il PD/e affini e i 5Stelle, e cioè che il crudo linguaggio dei numeri dice che altrimenti non ci sarebbe alternativa possibile al trionfo maggioritario del centro-destra, e per quanto scombiccherate siano due gambe del loro tavolo elettorale, i salviniani e i residuati di quel che fu il berlusconismo degli anni migliori. Solo che quell’alleanza è assolutamente impossibile, assolutamente improponibile, sa di calcoli cialtroneschi a chilometri di distanza.

Ovvio che per me personalmente non esiste alternativa possibile al votare per Calenda/Renzi, ovvero per quella che si presenta _ a dirla con Giuliano Ferrara _ come la seleçao della sconfittao. E allora? Accade che in politica si subiscano delle sconfitte, che quelle sconfitte siano necessarie. In attesa che ci salvi il partito imminente venturo fondato dal prode Michele Santoro, il partito che più di sinistra di così proprio non si può, il partito che illumina i sogni dei tanti babbei che alloggiano sulla sponda del fiume opposta a quella della Meloni.

La misoginia "corretta". La cosa stupefacente, ma poi non troppo essendo donna e di destra, è che a Giorgia Meloni non venga concesso il principio della responsabilità personale di opere e parole. Giannino della Frattina il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

La cosa stupefacente, ma poi non troppo essendo donna e di destra, è che a Giorgia Meloni non venga concesso il principio della responsabilità personale di opere e parole. E così le tocchi rispondere di qualunque affermazione, opera od omissione attribuibile a chiunque graviti nell'orbita di Fratelli d'Italia. Ma ancor più stupefacente è che con un doppio salto mortale, venga oggi messa in croce dai soliti giornali di sinistra e politici sedicenti progressisti per le affermazioni del governatore d'Abruzzo Marco Marsilio che si è limitato a un'affermazione di una banalità sconcertante. E cioè che fino a ieri le ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini venivano schernite con il marchio dell'infamia berlusconiana, considerandole nel migliore dei casi delle appestate, nel peggiore e purtroppo più diffuso «delle poco di buono, frequentatrici dei salotti e dei festini di Arcore». Roba talmente nota da essere perfino venuta a noia, mentre oggi, dopo il gran rifiuto opposto al Cavaliere e la discesa nel campo calendiano (quello con vista sul Pd) sono diventate «delle nobildonne e due grandi statiste». Nulla di eccezionale, perché denunciare l'ipocrisia e soprattutto le mistificazioni della sinistra, è meno rivoluzionario che scoprire l'acqua calda. Soprattutto in tempo di elezioni, quando ogni pretesto diventa buono per dire o meglio sottintendere che in fondo la democrazia è il miglior sistema per governare un Paese, ma a patto che i cittadini facciano i bravi e non si sognino di votare a destra. Perché allora non vale, quei voti sono dato da gente che non si rende conto e non è in grado di comprendere. E allora all'armi compagni, parte la guerra alla deriva populista, sovranista e ovviamente fascista che tutti coinvolge e tutti vorrebbe travolgere. In quell'ubris ricorrente della sinistra che si specchia nella sua solo pretesa superiorità intellettuale che diventa immediatamente anche morale. E fa niente che dopo lustri di una politica che nutrendosi solo di antifascismo militante ha reso talmente anoressici i partiti di sinistra, da renderli irriconoscibili ai loro stessi dirigenti. Figuriamoci non diciamo a un Togliatti o a un Gramsci, ma anche solo a un redivivo Berlinguer o a un Pertini che sarebbe bello vedere al cospetto di quello sbiadito di un Enrico Letta. E così ora, dopo la caccia agli stregoni Berlusconi e Salvini, è partita quella alla strega Meloni, la cui unica colpa è di rischiare di guidare il partito che pur essendo di destra prenderà più voti e probabilmente porterà la coalizione al governo. Un reato di lesa maestà progressista che a sinistra non sono disposti a perdonare. E che nel panico mette la sinistra nella grottesca situazione di accusare di maschilismo l'unico partito guidato da una donna. Che rischia di diventare la prima premier del nostro Paese. Talmente inconcepibile da farli andare fuori di testa e invocare contro di lei un nuovo 25 aprile. Se un po' di testa avessero.

Estratto dell’articolo di Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano” l'1 agosto 2022.

Franco Cardini: "Spero che a Giorgia non venga in mente di andare a palazzo Chigi. Se devo dirla tutta, confiderei che Fratelli d'Italia non si aggiudichi il primato di partito più votato. Sarebbe una sciagura, vedo ombre all'orizzonte". […] 

Se la stima perchè si augura che perda?

Perchè le voglio bene. […] Ma ha un partito pessimo, con una classe dirigente di infimo livello, inguardabile. […]

Pensa che l'Italia non accetterebbe la fiamma tricolore nella stanza dei bottoni? Avrebbe una crisi di rigetto?

Basta una svastica sul portone di una sinagoga, una cappellata qualunque e le fiamme alte dell'antifascismo di maniera si dispiegherebbero al punto da costringerla a cento altre abiure affidando il governo ai soliti noti. 

[…] Sono certo che finirà in un tritacarne. E sono certo che la sua classe dirigente e quella del centrodestra siano notevolmente al di sotto delle aspettative. Quindi al governo sarebbe un bagno di sangue.

Cosa le augura allora?

Di fare la leader dell'opposizione conservatrice. […] Tra vent' anni sarà una donna matura, quasi anziana e verrà il suo turno. […] 

Odia gli americani.

La Meloni si è detta, a proposito dell'Ucraina, apertamente, indiscutibilmente, totalmente atlantista. Mi vengono i brividi. È così contenta di affidare la propria sicurezza agli americani? Per fare un esempio, solo uno: gli ordigni nucleari sono ospitati in Italia ma tolti al controllo dell'Italia. È giusto così? […]

Intervista a Ernesto Galli della Loggia. Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” l'1 agosto 2022.

«Questa campagna elettorale è un temporale estivo, si è abbattuta come un fulmine su una situazione politica confusa tra i partiti, sia al loro interno sia nei rispettivi schieramenti, e si consumerà tutto in pochissimo tempo. Quindi la regola è pensare poco, o nulla, e menare fendenti come se non ci fosse un domani. Il che poi non è molto diverso da quanto accaduto anche le volte scorse». Forse questa volta c'è un pizzico di violenza propagandistica in più e anche i colpi che si sferrano sono sotto la cintola...

«Sì, i toni sono accesi. E la spiegazione è una sola: è la prima volta che in Italia può vincere una forza di destra come quella guidata dalla Meloni. C'è quindi una mobilitazione per evitare che questo accada da parte della sinistra». 

Il tema dell'antifascismo può essere ancora vincente oggi nelle urne?

«Difficile dire quanto. Potrebbe anche produrre una reazione inversa, aumentando i voti di Fratelli d'Italia come risposta dei moderati all'allarmismo antifascista militante ostentato dalla sinistra». 

Ma secondo lei la Meloni è fascista?

«No, questo non si può dire. Però certamente ha la colpa di non essere stata abbastanza dura verso alcuni ambienti di destra che in qualche modo possono ricordare il suo passato e di non aver eliminato personaggi che io ritengo impresentabili presenti tra i quadri del suo partito.

Avrebbe inoltre potuto tutelare interessi diversi da quelli ultra-corporativi che ha difeso, tipo i concessionari delle spiagge, che sono tra i massimi evasori fiscali del Paese. Immagino che comunque da qui alle elezioni cercherà di farlo. Anzi, forse ha già iniziato, definendo "traditori della causa" coloro che hanno comportamenti che "consentono alla sinistra di descriverci come nostalgici da operetta". Ma non credo che questo basti». 

Sull'antifascismo la sinistra ci sta marciando?

«Il richiamo antifascista in Italia ha sempre una certa forza, perché il nostro elettorato è caratterizzato da una grande vischiosità ideologica. Non cambia abitudini e opinioni, basti pensare all'anti-americanismo rivitalizzato dal conflitto ucraino, figlio di decenni di propaganda, che in un modo o nell'altro è rimasto nell'inconscio collettivo dei cittadini, anche di quelli non di estrema sinistra odi estrema destra». 

Quindi alla fine l'ossessione antifascista, per quanto d'antan, porta più di quanto toglie?

«È una carta della sinistra che conserva un certo valore di interdizione. Forse non procura nuovi voti, ma impedisce che una parte dei tuoi vadano all'avversario. E poi ha un grande vantaggio: focalizza un nemico e cancella i conflitti interni al centrosinistra, che è un'eterna polveriera».

L'anti-melonismo è più forte dell'anti-berlusconismo o dell'anti-salvinismo che lo hanno preceduto?

«Sì lo è, per la storia di Giorgia Meloni, che è più marcata politicamente». 

E se dovesse vincere proprio lei, la faranno governare?

«Bisognerà vedere come vince. Certo, se il centrodestra otterrà il 47% dei consensi, che gli garantirebbe il 55% degli eletti... a quel punto toccherebbe a Mattarella. Il presidente avrà un ruolo decisivo, vedremo se si schiererà contro i vincitori delle elezioni, come in sostanza fece Scalfaro nel 1994 con Berlusconi, o se rispetterà la volontà degli italiani e farà scudo al risultato delle urne».

Con i grillini, cinque anni fa, difese il voto...

«Sì, i grillini furono accettati. Accettare Fratelli d'Italia comporterebbe un forte contraccolpo a sinistra, ma sono convinto che non accadrà nulla che uscirà da una normale dialettica politica». 

Pensa che se vince la Meloni sia a rischio la tenuta del Paese e che il consesso internazionale si scatenerà contro di noi?

«No. La scomunica internazionale se in Italia governasse la destra mi sembra solo uno spauracchio elettorale, che rischia peraltro di giovare alla Meloni e agli altri, stimolando un legittimo senso di sovranità nazionale». 

Non è in vena di sconti, il professor Ernesto Galli della Loggia, con il centrodestra.

Ma per la verità lo storico non risparmia critiche a nessuno. Ne ha per i grillini, «privi di capacità e qualità di governo», per Letta, che «ha una leadership di debole consistenza», per il Centro, «tranne Calenda incapace di darsi un'identità politica e quindi inutile», e naturalmente per Berlusconi e Salvini, il primo «per il vizio di promettere un Bengodi che non potrà mai esserci», il secondo «perché certi comportamenti da goliarda, che gira con le magliette di Putin che poi gli rimbalzano in faccia, danno un'immagine inaccettabile della Lega, la quale invece è un partito che, almeno a quanto si vede sul territorio dove vanta ottimi amministratori, non manca certo di capacità di governo».

Il professore tradisce un entusiasmo di recarsi al seggio pari a quello che avrebbe se gli offrissero da bere un bicchiere di cicuta ed è persuaso che «la grande crisi economica non giochi a favore né della destra né della sinistra, bensì dell'astensionismo, perché la situazione è grave e seria, ma se qui nessuno propone nulla di serio, come sembra accadrà, la gente se ne starà a casa». Come il Paese, Galli della Loggia è "in ascolto", ma non sente nulla di quello che vorrebbe. Anche perché non esclude che poi finisca come al solito, «con i giochi che si fanno dopo il voto, scomponendo le alleanze».

Professore, qual è la differenza principale oggi tra centrodestra e centrosinistra?

«È una differenza di storie, di passati, di punti di riferimento, di idoli e quindi di obiettivi.

Prenda la Costituzione...».

Bellissima, però qualche ritocchino a 75 anni non le guasterebbe...

«Per la sinistra la Costituzione è un feticcio intoccabile, per il centrodestra no. La Meloni parla di riforma presidenzialista, ma se si ricorda è un vecchio tema di Berlusconi che la leader di Fdi ha ripreso». 

Il centrodestra se vince proverà a cambiare la Costituzione?

«Lo ha sempre paventato, ma poi non ha mai osato farlo. Adesso mi pare che non lo dica neppure più. I politici fanno un decimo delle cose che promettono in campagna elettorale, e non è detto che sia un male».

Servirebbe una bicamerale ricostituente?

«E forse tutti sarebbero anche d'accordo su cosa fare, ma per il momento mi pare impensabile». 

Allora siamo destinati ad avere molti altri governi tecnici...

«Il governo tecnico è sempre un tappare un buco, non è mai la soluzione». 

Draghi ha voluto o ha dovuto andarsene?

«Non aveva più la fiducia della maggioranza, non in termini aritmetici, ma politici».

L'Agenda Draghi è un buon tema da cavalcare in campagna elettorale?

«Lo sarebbe, ma se lo cavalcano in dieci, come è ora, vale poco». 

Chi pagherà il prezzo più alto per la caduta di Draghi?

«Lo sta già pagando Conte, che è uscito completamente stritolato dal braccio di ferro con il premier». 

La cosa gli è sfuggita di mano, forse non voleva arrivare fino alla crisi?

«E le pare una piccola cosa per un leader di partito? In ogni caso, Conte ha ereditato un movimento già defunto, sfibrato dall'incapacità di dare concretezza politica alla piattaforma protestataria sulla quale aveva edificato le proprie fortune».

A me pare che anche Letta sia in grandi difficoltà: non ha ancora deciso neppure con chi presentarsi alle elezioni...

«Non è facile per lui. Deve rendere compatibili i suoi presunti alleati con tre-quattro correnti del Pd che hanno idee opposte in proposito. E quand'anche ci riuscisse, poi dovrebbe rendere compatibili tra loro tutti gli alleati. Una fatica da Sisifo». 

Ha voluto lui la bicicletta e ha sbagliato lui a puntare su M5S. Alla fine cosa farà?

«Andrà con il Centro, ma ancora non saprei dire quale. Anzi, non saprei dire neppure cosa è il Centro, schieramento senza proposte precise di alcun genere, e senza ideologia che non sia quella di uno scialbo moderatismo, e pertanto privo di identità. L'unico che mi pare faccia eccezione è Calenda».

Calenda ha un'identità...

«Sì, infatti è quello con cui sarà più difficile scendere a patti». 

Anche Renzi ha un'identità...

«Nì. Il guaio è che l'identità personale e caratteriale di Renzi è talmente forte da mettere assolutamente nell'ombra l'identità politica di Italia Viva». 

Almeno metà degli elettori dem vorrebbe che il Pd si presentasse da solo...

«Ma Letta non può farlo. Non ha la qualità di leadership della Meloni, personalmente non attrae consensi oltre il raggio di identità del proprio partito». 

Mi sta dicendo che la Meloni secondo lei avrebbe dovuto scegliere di correre da sola?

«Dal punto di vista del consenso credo che le sarebbe convenuto. Ha le potenzialità per arrivare in alto. Oggi il voto è molto volatile. Nessuno aveva previsto cinque anni fa che M5S avrebbe superato il 32%». 

 Non si sarebbe lepenizzata andando da sola?

«Ha uno standing superiore alla Le Pen, anche a livello internazionale. Certo, avrebbe corso un rischio maggiore di sconfitta». 

Consigli al centrodestra per vincere le elezioni?

«Non sono il leader del centrodestra, né potrei esserlo».

Impressioni?

«La sinistra farà una campagna elettorale impostata sul pericolo del nemico alle porte, tutta giocata in difesa, della Costituzione, dei principi democratici, dei diritti. Il centrodestra dunque dovrà avere un ruolo proattivo, si dovrà inventare qualcosa di più del milione di alberi, della promessa di ridurre le tasse e di alzare le pensioni. Queste cose irrealizzabili in realtà servono solo a sputtanare l'offerta elettorale della coalizione. Al centrodestra serve un restyling vero, deve costruire una proposta politica che abbia un forte ancoraggio alla realtà. Alla Meloni però un consiglio vorrei darlo...». 

Visto che ormai è troppo tardi per andare da sola...

«Deve cercare di agganciare personalità diverse dalla sua storia e deve mollare categorie che sono un peso per il Paese e costituiscono un bacino di voti marginale. Via la robaccia. Un leader conservatore deve conservare i valori, non le abitudini, che in Italia sono quasi sempre cattive abitudini».

Vatti a fidare dei professori...

Meloni si rivolge alla stampa estera in tre lingue: «No a svolta autoritaria, noi siamo democratici...Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022.

Il videomessaggio rivolto ai giornalisti internazionali in cui ha parlato in inglese, francese e spagnolo. CorriereTv

Un videomessaggio in tre lingue, inglese, francese e spagnolo, per smentire che con la vittoria di Fratelli d’Italia ci sarebbe il rischio di una svolta autoritaria: lo ha realizzato la presidente del partito, Giorgia Meloni, inviandolo ai giornalisti internazionali nel nostro Paese: «Salve a tutti, sono Giorgia Meloni, ho 45 anni e sono la Presidente di Fratelli d’Italia, il partito politico dei conservatori italiani. Da giorni leggo articoli della stampa internazionale sulle prossime elezioni che daranno un nuovo governo all’Italia, nei quali vengo descritta come un pericolo per la democrazia, per la stabilità italiana, europea e internazionale. Ho letto che la vittoria di Fratelli d’Italia alle elezioni di settembre comporterebbe un disastro, che porterebbe a una svolta autoritaria, all’uscita dell’Italia dall’Euro e altre sciocchezze di questo genere. Niente di tutto ciò è vero ma so benissimo che questi articoli vengono ispirati dal potente circuito mediatico della sinistra, che qui in Italia è molto forte nelle redazioni dei giornali e in quelle dei programmi televisivi, ma è in netta minoranza tra il popolo italiano. È stato detto anche che un governo di centro-destra metterebbe a rischio i fondi del Next Generation EU e l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma smentisco categoricamente questa assurda narrazione. Su questo terreno il governo Draghi avrebbe potuto fare di più ma non gli è stato possibile non a causa di Fratelli d’Italia - unico partito all’opposizione - ma per via di una maggioranza troppo eterogenea e litigiosa. La stessa che di quel governo ha determinato la fine. Ecco perché all’Italia serve un governo coeso e con le idee chiare, che non solo non farà perdere un euro di quelle risorse ma favorirà gli investimenti e la crescita del nostro Paese. Dovete inoltre sapere che in Italia da più di dieci anni i governi non sono il risultato di ciò che i cittadini scelgono con il voto, ma il risultato di accordi, spesso sottobanco o eterodiretti, tra quei partiti che in campagna elettorale si combattevano. In questi 10 anni, la sinistra che in Italia non vince più le elezioni dal lontano 2006, è riuscita a stare quasi sempre al governo. Questa è una grandissima anomalia nel panorama politico occidentale, perché in una democrazia di norma chi perde le elezioni va all’opposizione. Da troppi anni invece in Italia chi perde le elezioni si ritrova al governo e consegue risultati pessimi. In questo decennio la nostra nazione ha conosciuto un declino sociale ed economico senza precedenti, con un progressivo peggioramento dei conti pubblici, della qualità della vita dei cittadini, della capacità competitiva delle nostre imprese. Con la sinistra al potere, lo Stato si è trasformato in un nemico del cittadino e dell’impresa, violando sempre più le libertà individuali. Si, la libertà. La libertà è per noi il bene più prezioso. A questa bussola orientiamo il nostro giudizio storico. La Destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche. E senza ambiguità è ovviamente anche la nostra condanna del nazismo e del comunismo, l’unica delle ideologie totalitarie del XX secolo che è ancora al potere in alcune nazioni, sopravvivendo ai suoi tragici fallimenti, che la sinistra fatica a condannare, forse anche perché dall’Unione Sovietica ha ricevuto per decenni generosi finanziamenti. Alla stessa bussola di libertà orientiamo il nostro posizionamento sui fatti del mondo di oggi, nel quale contrastiamo con forza ogni deriva antidemocratica con parole di fermezza che non sempre ritroviamo nella sinistra italiana ed europea. Oggi questa sinistra è terrorizzata perché alle prossime elezioni gli italiani potrebbero scegliere il cambiamento rappresentato da Fratelli d’Italia. Ma non possiamo più permettere che l’immagine dei Conservatori italiani, baluardo di libertà e di difesa dei valori occidentali, possa continuare ad essere infangata da mistificatori che cercano ogni espediente per mantenere il potere. Da anni ho l’onore di presiedere anche il partito dei conservatori europei, che condivide valori ed esperienze con i Tories britannici, con i Repubblicani statunitensi e il Likud israeliano. La nostra collocazione nel campo occidentale è chiara e cristallina, come abbiamo dimostrato ancora una volta condannando senza se e senza ma la brutale aggressione russa all’Ucraina e contribuendo, dall’opposizione, a rafforzare la posizione italiana in sede europea e internazionale. La nostra idea di Europa è quella di un soggetto politico capace di rappresentare un vero valore aggiunto per i suoi cittadini, con meno burocrazia e più capacità di incidere sulle grandi materie. Cosa vogliamo per il futuro dell’Italia? Vogliamo che torni ad essere quella grande nazione, dinamica e innovativa, apprezzata in tutto il mondo, che ha contribuito a fare grande l’Europa. Siamo persone leali, oneste e determinate. E siamo pronti ad inaugurare una nuova stagione di stabilità, libertà e prosperità per l’Italia. Piaccia o meno alla sinistra».

Servizi segreti del mondo in missione in Italia. Vogliono capire il fenomeno Giorgia Meloni. Luigi Bisignani su Il Tempo il 14 agosto 2022Caro direttore, missione «ritorno al futuro». All’estero, Giorgia premier non lascia indifferenti: entusiasma, inquieta, incuriosisce. Per questo le più influenti intelligence - dalla Cia americana all’inglese MI6 fino alla SIAZ, la struttura dei servizi russi che risponde direttamente al presidente Putin e perfino i cinesi del Guojia - sono in Italia in «visita turistica», in attesa delle elezioni politiche che in prospettiva potrebbero anche terremotare il placido Quirinale di Sergio Mattarella. L’obiettivo è monitorare innanzitutto Fratelli d’Italia e quei partiti e quei candidati che gravitano nelle zone sensibili dove sono presenti le basi Nato, da Aviano a Sigonella, o nelle piattaforme di trasmissione dati di Tim Sparkle di Catania e di Crotone.

Ma ad analizzare gli orientamenti per capire lo scenario in Italia dopo il 25 settembre ci sono anche i cosiddetti «Centri per le strategie preliminari», la cui esistenza è nota solo a pochi, e che Cossiga non esisterebbe a definirli la versione «millennial» della nostra Gladio, l’organizzazione paramilitare clandestina aderente a «Stay behind», messa su negli anni ’50 per prevenire eventuali attacchi sovietici. Si tratta di strutture ascose, sovranazionali e presenti in città strategiche del mondo, tra cui Washington, Mosca, Pechino, Gerusalemme, Teheran, Edimburgo, Berlino. I nostri Servizi, dal Dis all’Aise, da anni cercano di saperne di più.

All’interno di queste unità, personale altamente qualificato (militari, scienziati, economisti, politologi, religiosi, imprenditori, informatici, ecc.) raccoglie informazioni, le analizza e stila strategie per i governi, in stretto coordinamento con vari deep state, grazie anche all’utilizzo di tecnologia avanzata, con potenti server forse già in parte beneficiati dai traguardi della ricerca quantistica. Le loro analisi certificano un sistema di gestione globale (finanziario, politico, sociale, tecnologico) al collasso, non più capace di produrre risultati, quindi da sostituire con un vero e proprio cambio totale di paradigma. Ma come e a quale prezzo? Gli ingredienti sembrano quelli delle teorie definite complottiste: nelle visioni finora trapelate, ancora molto teoriche, si dice infatti che bisogna rompere le regole del «contratto», creando degli «stati di emergenza». Ed ecco che, in uno scenario distopico, pandemie, carestie e guerre possono diventare le cause migliori per orchestrare manovre «speciali». Già Karl Schwab, patron del forum economico di Davos, come anche il principe Carlo d’Inghilterra, tra gli altri, hanno parlato del «Great reset» e di come realizzarlo attraverso una nuova infrastruttura globale politica, economica, sociale, tecnologica, persino religiosa. Le analisi descrivono la creazione di una piattaforma unica di Stati democratici occidentali (Usa, Europa, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e di tutti quelli che vi vorranno aderire) con una sola governance compatta a dettare la linea.

Senza farneticare, già Papa Bergoglio, nell’enciclica «Laudato sí», evidenzia che «è arrivato il momento di costituire un organismo globale che abbia potere economico e politico sui singoli Stati». Sempre Francesco ha parlato della proprietà privata come di un bene non più indispensabile e ha auspicato un reddito universale per tutti gli abitanti della terra. E ancora: togliere il cash per combattere l’evasione fiscale, il terrorismo e la criminalità e rendere tutto digitale; sì a una valuta digitale unica con cui controllare tutto e tutti e contribuire al progetto di globalizzazione e interconnessione. Le criptovalute private saranno bandite come già stanno facendo alcuni Stati, Cina in testa, dove si ritiene più funzionale controllare e contribuire al processo di globalizzazione, rendendo tutto e tutti interconnessi, manipolabili e orientati dagli algoritmi.

Del resto, come si è visto su Raiuno, nel servizio dalla Cina di Marco Clementi per l’innovativa trasmissione «Codice», le prove generali sono già in corso nella città di Chongqing. D’altro canto, Microsoft ha già preparato la sua valuta digitale così come Amazon, che tra l’altro, con il recente acquisto del robot per le pulizie domestiche Rumba, acquisirà anche le mappe delle nostre case e accelererà i pagamenti biometrici con la semplice scansione del palmo della mano. Con buona pace della nostra privacy. 

Mario Draghi è ancora considerato il diligente esecutore di questa agenda e il Pd il partito prescelto per eseguire il programma in Italia ma, a parte il Governatore Bonaccini in Emilia-Romagna con il suo Tecnopolo che ospita il Supercomputer europeo, il Nazareno di Enrico Letta naviga nell’inconsapevolezza più totale. Ormai i singoli Paesi contano sempre di meno, non hanno futuro, così come la politica parlamentare: si segue solo un’agenda sovranazionale, cioè globale, come quella Onu 2030.

Ma se in Italia dovesse vincere la destra, come riuscirà questo nuovo sistema orwelliano a rimanere a galla? Una cosa è certa: questa volta, per dirla con Sorrentino, ci vorrà davvero la «mano di Dio» per sistemare le cose. E il piccolo mondo antico italiano, con le sue camarille, appare sempre più anacronistico e, nonostante Super Mario Draghi, ancora non si riesce neppure a fare una rete unica. Se il possibile non lo stiamo facendo, almeno per i miracoli di solito sappiamo attrezzarci

Forza Italia.

Berlusconi, dai servizi sociali al Senato, l'eterno ritorno di Re Silvione. Filippo Ceccarelli su La Repubblica l'11 Agosto 2022. 

Il leader di Forza Italia si ricandida a Palazzo Madama 9 anni dopo la decadenza decisa per le condanne subite. Allora disse: "Non metterò mai più piede in Parlamento"

“Un'immensa vergogna e io non metterò mai più piede in Parlamento. Mai!”. Niente più del passato illumina l'annuncio che Berlusconi si presenta alle elezioni e quasi certamente sarà eletto al Senato, al posto d'onore, nelle liste della coalizione data vincente.

Ieri, per la verità, lui l'ha messa a suo modo, per cui si sarebbe limitato ad “accettare” la candidatura, “così faremo tutti contenti” ha aggiunto, là dove sia la formula del benestare che la pubblica felicità confermano, al plurale majestatis, che non si tratta tanto di una riabilitazione, dopo la...

Silvio Berlusconi, il padre del populismo. Claudio Tito su La Repubblica il 10 Agosto 2022. 

Come si potrà giustificare a Bruxelles o a Washington l'ennesimo ritorno di un esponente politico che ha ricoperto la massima carica governativa, che poi è stato condannato e quindi espulso da quello stesso Senato?

Il Cancelliere tedesco Helmut Kohl negli anni '90 salutava spesso i presidenti del Consiglio italiani con una battuta: "Chi incontrerò tra sei mesi al posto tuo?". Dietro questa frase spuntava un po' di pregiudizio nordico verso l'Italia. Ma anche il sospetto su un Paese considerato irredimibile in alcune sue caratteristiche fondamentali. Il triste spettacolo di questi giorni, in effetti, lo conferma.

Pensioni, le false promesse di Silvio Berlusconi. Tito Boeri, Roberto Perotti su La Repubblica l'11 Agosto 2022.  

Le proposte del leader di Forza Italia sono irrealizzabili, semplicemente perché costano troppo. Molto più delle coperture trovate

Giorgia Meloni ha chiesto ai suo alleati di "non fare una campagna elettorale facendo promesse che non si possono mantenere, serve serietà". Eppure le promesse fatte sin qui da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini sono del tutto irrealizzabili. E non perché incostituzionali come qualcuno ha detto: non c'è niente di incostituzionale nelle loro proposte. Semplicemente costano troppo, molto di più delle "coperture" trovate dai due leader.

Fabio Martini per “la Stampa” il 18 agosto 2022.

La sua vita è questa: un'eterna replica. Oramai Silvio Berlusconi è un replay tenace - quasi compulsivo - delle stesse immagini e degli stessi refrain, da decenni sempre uguali a se stessi. E infatti rieccolo apparire in video il 17 agosto 2022: alle sue spalle riappaiono la stessa libreria, gli stessi libri, le stesse foto-ricordo che facevano da fondale alla video-cassetta di ventotto anni fa, quando il Cavaliere annunciò la sua discesa in campo. Stavolta Berlusconi parla di giustizia, un tema col quale ha una grande confidenza. 

Da quando lui è entrato in politica nel 1994, i magistrati hanno setacciato incessantemente ogni sua attività. Non che mancasse mai la "materia", ma a nessun altro imprenditore o politico italiano sono state dedicate le stesse cure. E le contromisure di Berlusconi hanno segnato la sua carriera politica: da capo del governo ha prodotto una serie di legge "ad personam" che lo hanno protetto dai processi, ma ne hanno affievolito il prestigio. 

Con un paradosso: Berlusconi denuncia da sempre la magistratura politicizzata ma nel suo quasi decennio a palazzo Chigi non è riuscito a produrre neppure mezza riforma del sistema-Giustizia. Certo, per il suo avvocato Niccolò Ghedini (scomparso ieri sera) le leggine personalizzate servirono «a dare maggiori garanzie ai cittadini, perché a nessun altro succedesse quello che è accaduto a Silvio Berlusconi».

Ma il paradosso resta ed è grande: Berlusconi è stato garantista con sé stesso, ma non con gli italiani.

Nel suo video agostano di queste ore c'è una piccola novità: Berlusconi non parla di sé ma di quelle «migliaia di italiani ogni anno processati e arrestati pur essendo innocenti», vessati davanti alle loro «famiglie, agli amici, sul lavoro». È a quegli elettori che si rivolge: ai milioni di persone lambite o colpite da un processo civile, amministrativo, penale.

Ma non è la prima volta. La sua "carriera" di sedicente vittima, di pluri-processato è una storia infinita e originalissima, anzi si può dire che tutta la carriera politica di Berlusconi sia iniziata e sembrava finita con la questione giustizia.

Quando la Prima Repubblica sprofonda, tra l'estate 1992 e la primavera del 1993, Silvio Berlusconi intuisce che la magistratura potrebbe presto occuparsi di lui. Prima di buttarsi in politica, appoggia con le sue tv le indagini di Mani pulite: in tal senso le telecronache "tifose" di Paolo Brosio per Rete 4 restano memorabili. Nella primavera del 1994, alla guida di Forza Italia, vince le elezioni e appena sei mesi più tardi viene raggiunto da un invito a comparire presso la Procura di Milano: Umberto Bossi ritira la fiducia della Lega e il governo entra in crisi. Passano sette anni prima che Berlusconi rivinca le elezioni.

Riecco le inchieste: tra il 2001 e il 2006 il governo di centrodestra approva una sfilza di norme che aiutano il presidente del Consiglio a proteggersi dai processi. Una striscia mozzafiato. La legge sulle rogatorie internazionali, sul diritto societario, sul legittimo sospetto, sulla protezione dai processi delle alte cariche dello Stato in carica, sulla riduzione della prescrizione, sul legittimo impedimento. Silvio si salva ma perde prestigio e l'eterogenea Unione di Prodi riesce a vincere le elezioni del 2006. 

Ma la giustizia non "lascia" Berlusconi. Nel 2013 il Cavaliere viene condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione e all'interdizione ai pubblici uffici per due anni per frode fiscale decadendo quindi da senatore. Dopo ben 20 procedimenti - schivati nei modi più diversi o anche archiviati - quella per frode fiscale è stata la prima condanna in via definitiva. All'origine di tanta, decennale attenzione da parte dei Pm c'è forse il suo ingresso in politica? Mamma Rossella, che conosceva bene il suo Silvio, nel 1997 disse: «La politica? Che cosa terribile. Io non volevo. Ma lui mi rispose che sentiva una forte spinta dentro di sé. Comunque, se non fosse andato in politica sarebbe stato meglio».  

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 7 agosto 2022.

I  capelli. Bisogna cominciare dai capelli. Il Cavaliere è ancora pieno di capelli. Neri, fitti, perfettamente incollati. Tutti noi, invece, ormai ingrigiti, canuti, spesso costretti a bocce lucide.

Dettagli. Ma poi forse mica tanto. 

Perché ventotto anni dopo la sua prima campagna elettorale, Silvio Berlusconi ne comincia un'altra cercando di fare sempre Silvio Berlusconi. 

Slogan appena riverniciati, la voce appena meno vellutata, un filo meno magnetica la luce nello sguardo. Il confronto tra le immagini d'epoca e quelle attuali è però piuttosto clamoroso. Uno del suo staff: dottore, non che sia una gran botta di novità, si potrebbe almeno eliminare la cara vecchia cravatta di Marinella a pois? Lui accetta poco convinto. Ma poi pretende che tutto il resto della scenografia resti intatto. Il colpo d'occhio non deve cambiare (spiega Giorgio Mulè, potente esponente di Forza Italia: «Davanti alla campagna demonizzatrice scatenata da Enrico Letta, non vedo quale migliore campagna mediatica di risposta possa esserci, se non quella già risultata vincente nel 1994»). 

Eccolo, allora, il Cavaliere, nel primo video di una lunga serie, pillole di programma che fa rimbalzare sul suo canale Instagram, sperando che diventino virali: con una camicia blu sotto la solita giacca blu rinforzata dalle solite spalline anni Novanta, seduto alla solita scrivania, le solite foto rassicuranti dentro le solite cornici d'argento (in una s' intravede il figlio Pier Silvio con un bambino), la solita enciclopedia nella solita libreria bianca, la solita bandiera italiana accanto a quella europea, il solito sorriso rassicurante sotto un velo di cerone. 

E che dice, il Cavaliere? 

Inizia con un pezzo del suo repertorio più classico: l'attacco alla sinistra (anche se poi, certo: è insieme al Pd che Berlusconi ha sostenuto il governo guidato da Mario Draghi e memorabile resta la sua visita al Nazareno del 18 gennaio 2014, invitato dal segretario dem dell'epoca, Matteo Renzi; simpatia reciproca, e stima, e tanti grandiosi propositi condivisi; scrissero: sta nascendo il Renzusconi. Parlarono a lungo: il Cavaliere seduto sotto una foto di Bob Kennedy, Renzi sotto uno scatto di Alberto Korda, con dentro Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara - quando ci ripetiamo che in questi anni di politica italiana abbiamo visto tutto e il contrario di tutto, purtroppo, è vero). 

Comunque Berlusconi torna all'antico. E dice: «Una pillola al giorno del nostro governo... Dovrebbe togliere di torno i signori della sinistra».

La prima pillola: «Quando saremo al governo applicheremo una flat tax al 23% per tutti» - incurante del monito di Giorgia Meloni, che l'altro giorno aveva pregato i suoi alleati: «Per favore: adesso non cominciate a promettere cose che sappiamo di non poter poi mantenere». 

Ma Berlusconi è Berlusconi. Anche a 85 anni e dopo le stagioni rocambolesche, pazzesche che sappiamo, tra divorzi e fidanzamenti, processi e condanne, ricoveri e rivincite e infatti è ancora lì nel ruolo del grande capo assoluto del centrodestra, incurante dei sondaggi e abilissimo nel convocare a casa sua i summit con i suoi due alleati (la Meloni, un po' scocciata, alla fine è sbottata: «Forse sarebbe il caso di cominciare a riunirci da un'altra parte, eh?»). 

Curiosità per le prossime pillole social. Sebbene poi molti temi il Cavaliere li abbia già annunciati nei giorni scorsi, e spesso - così torniamo alle parole dell'onorevole Mulè - sembrano ricalcare slogan del passato. Tipo: «Nessuna patrimoniale, nessuna imposta di successione, nessuna tassa sulle donazioni». Oppure, più esplicito: «Torneremo ad istituire, come già esisteva nei governi che ho guidato io, il ministero degli Italiani nel mondo» (lo affidò all'ex repubblichino Mirko Tremaglia). Poi, l'argomento soldi: «Penso a una pensione minima di mille euro» (che un po' ricorda l'assegno da un milione di lire promesso alla vigilia delle Politiche 2001). Le dentiere: «Gratis per gli anziani bisognosi» (frase identica a quella del 2014). La svolta green: «Prometto di far piantare un milione di alberi all'anno» (che comunque sembra più fattibile di un altro storico annuncio: «Prometto un milione di posti di lavoro»).

Frase cult, di adesso e di 28 anni fa: «L'Italia è il Paese che amo». Stavolta, però, il piano è diverso: non vuole diventare presidente del Consiglio (la pazienza di Meloni ha un limite). Vuole invece tornare a Palazzo Madama: in quell'emiciclo da dove fu mandato via il 27 novembre del 2013, dopo la condanna per frode fiscale. Sensazione precisa: siamo appena all'inizio. Se Berlusconi ha deciso di fare davvero ancora Berlusconi, e di ispirarsi alle campagne elettorali del passato, possiamo aspettarci pillole quotidiane notevoli. Per capirci: nel 2006, annunciò che chiunque lo avesse votato, «sarebbe campato cent' anni». Lo guardammo increduli. E lui: «Avete capito bene. Ho infatti l'orgoglio di dire che il mio governo ha incrementato l'aspettativa di vita degli italiani da 78 a 80 anni, e per le donne da 81 a 83». Cronaca: alle 20:42, la prima pillola su Instagram ha ottenuto 2.678 cuori (pochini) e 235 commenti (la maggior parte di puro entusiasmo, alcuni graffianti, e irriferibili).

Michele Serra per la Repubblica il 7 agosto 2022.

Che un multimiliardario proponga, sorridendo, un'aliquota fiscale uguale per tutti, dal piccolo commerciante al grande manager, dalla ragazza con la partita Iva al professionista strapagato, è una oscenità non solamente politica, anche morale, che rischia di sfuggirci, e sicuramente sfuggirà - come da anni accade - ai suoi elettori. Perché la progressività delle tasse è un elementare principio di equità, e il ricco che propone al povero di pagare la sua stessa aliquota è, politicamente parlando, un ladro che elogia il suo furto.

Siamo così compresi a parlare della Giorgia e del Salvini che rischiamo di dimenticare chi è, a destra, largamente il peggiore, primo artefice del deterioramento della politica italiana. Colui senza il quale nulla è spiegabile, non la deriva populista della destra italiana (fu il primo dei populisti), non la sua solida componente neofascista (fu il primo degli sdoganatori), non il complessivo deterioramento culturale dell'intero quadro politico, sinistra compresa (fu il primo dei semplificatori, dei demagoghi, dei soppressori del linguaggio critico a vantaggio della ciancia pubblicitaria). La sua immagine recente, vuoi del vecchietto accattivante, vuoi dell'anziano e saggio moderato, è tipicamente consolatoria. Serve a dimenticare che Berlusconi è stato il nostro Trump, ha svuotato la destra conservatrice e borghese per farne una fabbrica di demagogia (fa testo il disgusto di Montanelli) e soprattutto ha tenuto bene da conto - come Trump, come tutti gli straricchi - i suoi interessi personali. Il più di destra, a destra, è sempre lui: da trent' anni.

Trent'anni di populismo. Il paradosso di Berlusconi: sdoganò il Msi ma ora è in campo per fermare l’onda nera della Meloni. Michele Prospero su Il Riformista il 27 Luglio 2022.  

Trent’anni dopo, il cavaliere scende di nuovo in campo e, in risposta, il foglio di De Benedetti recupera le polveri bagnate del giustizialismo: Berlusconi “vuole usare le elezioni per cancellare la sua frode fiscale”. L’infinito duello tra i resti dei due imperi editoriali impedisce ancora di cogliere la portata politica del fenomeno Berlusconi.

Nel 1994 il cavaliere vinse sdoganando i missini, alleati subalterni. Oggi si ripresenta agli elettori più per contenere la sfumatura di nero che domina nella destra che per acciuffare la vittoria. I vertici a villa Grande gli hanno restituito l’immagine di una nuova rilevanza coalizionale, che però non è paragonabile alla leadership piena che da Arcore esercitava negli anni di dominio. Ora si accoda agli eventi, non li determina con un vero effetto di padronanza. Lo accusano di essere il killer di Draghi per prendere il posto della Casellati. Ma al cavaliere non restava che seguire l’onda dinanzi a Salvini che dichiarava la crisi. Stanco degli attestati di agente ormai responsabile, il capitano leghista rinunciava alla parziale condizione di vantaggio rispetto ad una Meloni che continua a seguire istinti antichi. La postazione di governo, in condizioni di guerra e di lavoro povero con inflazione record, logora e, respingere l’egemonia della signora in nero, diventa ancora più proibitivo.

Giorgia Meloni, per ideologia, storia, linguaggio e immagine di leader, è troppo distante dalle preferenze simboliche di Berlusconi. Il cavaliere ha imposto il comico come forma della politica, cioè ha inventato uno stile di comunicazione del potere che poi si affermerà ovunque, prima con Sarkozy e poi con Trump, Johnson. Narrazioni, induzione al divertimento, giochi verbali ed elevata informalità lo caratterizzano. Poco a che vedere, però, con le esagerazioni demagogiche e le esuberanze teatrali al ribasso di una statista che recita come la “pesciarola”. Il comico in politica nella versione berlusconiana non sopporta la discesa nel popolaresco più greve, rinvia a costruzioni ardite nel campo delle fiabe a lieto fine, stuzzica il desiderio galoppante nel tempo del narcisismo consumista. Meloni non evoca immaginari, sogni, leggerezza, ma cadenze che paiono sin troppo terrestri per piacere al cavaliere dell’immaginario. Troppo ancorata al canovaccio di “madre e cristiana” con gli anfibi pesanti per affascinare il campione della seduzione e del consumo come ideologia.

Il comico di Berlusconi non è quello inventato dalle reti di Guglielmi, che ha espresso un comico di opposizione. Questo tipo di satira partigiana ha contribuito, nel gioco tra finzione e smascheramento, alla ascesa di Grillo che, dalla recitazione con il cosiddetto linguaggio maleducato, passava alle funzioni di capo politico interprete della rabbia con parole per altri indicibili. E’ il comico come struttura semantica della personalizzazione del potere e non quello del “linguaggio della realtà” quello che invece il cavaliere incarna. Berlusconi è l’espressione della decostruzione dello Stato weberiano impersonale ed astratto. Il capo che recita, intrattiene, diverte è un passaggio della personalizzazione del potere che perde forma. Anche la centralità della metafora e del comportamento sessuale rientra in questa rappresentazione del potere come prerogativa della persona e non solo dell’ufficio. Già Marx, nello studio sulla teatralizzazione carismatica del bonapartismo, ricordava “le orge che Bonaparte celebrava ogni notte con la canaglia elegante di sesso maschile e femminile, quando si avvicinava la mezzanotte e le abbondanti libagioni snodavano le lingue ed eccitavano la fantasia”.

Il discorso sulle orge del potere non era però la chiave dell’interpretazione del bonapartismo, ma una divagazione sul terreno delle pratiche ludiche dei capi carismatici. Non le preferenze sessuali, ma la costruzione di una post-moderna oligarchia elettiva, con una privatizzazione del politico che spezza il quadro weberiano del superamento del patrimonialismo politico come conquista definitiva della razionalità occidentale, è la chiave esplicativa dell’epoca di Berlusconi. Egli anticipa la post-democrazia e non è una mera anomalia mediterranea. Le cene eleganti di Arcore sono state invece assunte come la sostanza del berlusconismo, con le 10 domande di “Repubblica” e gli infiniti riti processuali. Il fatto è che chi lo chiamava “il ragazzo Coccodé” ha contribuito all’ascesa del cavaliere. Ad innescare la miccia che indusse Mediaset ad organizzare in fretta il partito personale-aziendale, come autotutela degli interessi minacciati, fu senza dubbio una copertina estiva dell’Espresso (“simul stabunt vel simul cadent”). Il settimanale connetteva la disgrazia di Craxi con l’inevitabile decadenza del Biscione ed esaltava il proposito del governo tecnico a guida Ciampi di entrare nello spinoso mondo della regolamentazione della televisione privata.

A favorire l’ascesa del “cavaliere nero” fu, senza dubbio, la cultura antipolitica alimentata dal gruppo editoriale l’Espresso. L’auspicio di Eugenio Scalfari nei primi anni Novanta era che avvenisse la “distruzione della nomenclatura o classe politica inamovibile e priva di effettiva rappresentanza”. Una delle grandi penne del secondo dopoguerra sognava la grande discontinuità e raffigurava “la nomenclatura come regime, la partitocrazia come regime” e come liberazione dal male invocava fortemente “la liquidazione dei capi della nomenclatura”.

L’eterogenesi dei fini colpisce spesso in politica. Il fondatore di “Repubblica” pensava che il suo inno alla “protesta confusa, qualunquistica”, la sua comprensione per “le schiere che cingono d’assedio il palazzo”, portassero ad una democrazia post-partito guidata dalle élite più illuminate (“È venuto il tempo che la società civile rivendichi il suo ruolo di protagonista e prenda in mano direttamente la gestione della nazione”).

Scettico sul Pds, descritto come “un passerotto”, le sue carte le affidava ai signori della tecnica, che sulla scia di Carli recidevano l’economia mista, e al movimento referendario, celebrato come “la chiave per aprire il portone ferrato del Palazzo, scacciarne gli inquilini, aprire le finestre e farvi entrare aria fresca e limpida”. Non fu però Segni, come auspicato, ad “abbattere le porte del kafkiano castello e farvi entrare il popolo sovrano”, ma Berlusconi, che raccolse i frutti, per la sua “società civile” assai meno riflessiva, dell’onda distruttiva dell’antipolitica amplificata dai grandi giornali. L’altra suggestione del partito mancato di Repubblica, l’alleanza tra la gente e Samarcanda per infliggere un bel “colpo d’ascia ai poteri corporati”, “dare alla società civile i mezzi per ripulire le stalle” e definire “il partito che non c’è”, favorì invece la Lega. Alla “Lega nazionale degli onesti” sognata da Scalfari, per “riformare nel senso auspicato dalla gente” le decrepite istituzioni, il popolo reale preferì la Lega secessionista del Nord che invase Montecitorio con un personale politico del tutto improvvisato.

In coerenza con le asserzioni di Scalfari, favorevole a “maggioranze trasversali” che si estendono oltre i contrasti ideologici e ostile verso “la statuaria indifferenza della classe governante”, Giorgio Bocca, il dissacratore del “piccolo Cesare”, decise (come poi fece, del resto, anche Travaglio) di schierarsi nella “gabina” elettorale con Bossi, stigmatizzando ogni “fobia della Lega”. Su “Repubblica” Bocca, nemico della partitocrazia, confessò di aver “votato Lega senza turarmi il naso perché sono convinto che il nostro Paese abbia ancora bisogno della forza d’urto che la Lega è”. Il suo “grazie barbari” comportava un vero inchino referente alla Lega che “nuotava nelle acque vorticose del mutamento” e con la sua carica di “ostilità-estraneità al regime” prometteva non una semplice “sovversione vociferante”, ma una nuova Costituzione da imporre contro il sistema dei partiti.

Il partito imperfetto di Repubblica è stato, per certi versi, un berlusconismo incompleto. Al culmine della parabola del cavaliere, Scalfari, pur denunciando i guasti del “governo del pifferaio magico”, auspicava che una variante di populismo attecchisse a sinistra grazie a porzioni magiche di “incultura e semplicismo”. Egli sollecitava la sinistra a coniugare sogni (affabulazione, narrazione) e realismo (dimestichezza con il governo) attraverso il “semplicissimo criterio del nuovismo” come ingrediente per la fabbricazione artificiale di “leader carismatici”, capaci di andare oltre “le nomenclature spremute e non più utilizzabili di partiti”. Essenziale per il virtuale partito di Repubblica, che non riesce a diventare mai partito effettuale, è sempre stata la necessità di estirpare un partito con una ideologia e una autonoma capacità di pensare le politica.

Nelle parole di Scalfari “l’aggettivo ‘socialista’ evoca in realtà la decrepitezza culturale e i compromessi trasformistici della Seconda lnternazionale”. Incapace di fare un proprio partito, il gruppo editoriale contribuisce alla decostruzione identitaria del partito “amico”. Solo l’autodissoluzione dei post-comunisti per archiviazione di identità e pensiero critico avrebbe conservato un potere di influenza al partito che non c’è. Si è così spalancato un deserto, un vuoto culturale che è stato riempito a sinistra con candidature pseudocarismatiche, presto decadute e oggi occupate ad emulare sui giornali le virtù di Demostene nella stesura delle funebri orazioni. Nel deserto delle idee sono infine penetrate la voce, il gesto, la provocazione, la ritualità blasfema del comico: lo “tsunami tour” è stata la messa in scena del corpo di un divo che, con l’impegno di mandare a casa tutto il ceto politico, cercava nello spazio reale un contatto sensibile con i corpi presenti nel luogo fisico e politico per antonomasia, la piazza stracolma.

Il nuovismo e il giustizialismo hanno stracciato le culture politiche e l’antiberlusconismo è apparso come un effimero surrogato identitario. Oggi, comunque, il cavaliere non vuole lo scettro per sé, si accontenta di disturbare la marcia d’ottobre dell’alleata “donna, madre, cristiana” che in cuor suo forse disprezza. Egli cerca di ostacolarla come può, sottraendole qualche voto per favorire Salvini nella disputa per la conquista di una leadership che non sarà più sua. Riuscisse, grazie ai suoi voti, a far sì che il capitano e la signora in nero insieme non raggiungano la maggioranza assoluta, fornirebbe un servizio in fondo utile anche alla repubblica raggelata dinanzi alla crescita di una fiamma tricolore che ovunque turba. Michele Prospero

Estratto dell’articolo di Emilio Pucci per “il Messaggero” domenica 24 Luglio 2022. 

Si va verso un attacco a tre punte. Ovvero i tre grandi partiti del centrodestra indicheranno un candidato premier ciascuno per poi, dopo il risultato delle urne, emettere un verdetto riguardo a chi andrà a sostituire Mario Draghi a palazzo Chigi. La proposta è stata esplicitata dal coordinatore azzurro Antonio Tajani, «non ci sarà un candidato comune» ha affermato.

E, salvo sorprese, la soluzione dovrebbe essere ratificata mercoledì al vertice della coalizione che si terrà alla Camera proprio mentre i primi sondaggi dopo la caduta del governo delineano la forza dei tre partiti e sanciscono un (ulteriore) calo per Lega ed FI, ritenuti responsabili dell'addio a Draghi. Secondo le rilevazioni realizzate da Termometro Politico tra il 19 e il 21 luglio infatti, solo FdI e Pd ingrossano i propri consensi salendo rispettivamente al 23,7% e al 22,7%. La Lega invece cala al 15,4% e Forza Italia al 7,6% (idem per il M5S, sceso all'11,9%).

[…] Il ragionamento sottinteso è che difficilmente il Capo dello Stato potrà appoggiare un candidato sovranista. In realtà lo stesso Salvini ha argomentato che la forza politica che prenderà più voti, sempre se il centrodestra dovesse vincere le elezioni, indicherà il premier. 

E poi ci sono le perplessità dell'Europa, le pressioni a livello internazionale, i dubbi che arrivano sponda Washington, i timori della finanza e dei giornali stranieri. […] Non ci sono veti su Giorgia Meloni a palazzo Chigi, ma non si esclude che qualora Fdi dovesse ottenere più consensi la presidente di Fratelli d'Italia venga invitata a fare un nome terzo. Anche sulle liste ci sarà una battaglia campale. La valutazione secondo cui Fdi vale il 50% della coalizione non è affatto condivisa. […]

Estratto dall'articolo di Simone Canettieri per “Il Foglio” il 23 luglio 2022.

“Ragazzi, Conte si è suicidato, politicamente parlando. E poi quando ha detto ‘la mia gente mi chiede di non votare la fiducia’ mi è sembrato di ascoltare di nuovo le parole che usò Fausto Bertinotti con me”. Segue la grassa e pacificata risata di Romano Prodi. […]  

D’altronde, sono passati più di venti anni. “Ma motivare una scelta politica con la scusa della tua gente che lo chiede è populismo. Ragazzi, non scherziamo”. 

[…] 

[…] “Prima ci trovavamo in una situazione complicata, se non drammatica, ma avevamo dalla nostra l’autorevolezza di Mario Draghi. Un argine. Un nome da mettere sul tavolo, riconosciuto in tutto il mondo, quando c’erano da prendere o da orientare delle decisioni. Adesso, invece, abbiamo una situazione complicata, se non drammatica, ma non c’è più Draghi. Ecco la differenza è tutta qui”.  

[…] caro Professore, è giusto mollare per sempre l’alleanza con il M5s oppure l’arte della politica riuscirà a riparare tutto con una grande piroetta? 

[…] “Non c’è il tempo di una ricucitura fra Pd e M5s. Ormai l’Italia è in campagna elettorale, manca dunque una valvola di decompressione. […] La politica si dividerà sull’agenda Draghi, credo. E non ci sarà lo spazio di particolari ripensamenti. Poi certo tutto può accadere, ma insomma”. […]

A chi gli nomina il capo del M5s risponde con un lapidario “mi spiace per lui perché si è suicidato”. La scelta di mercoledì scorsa in Senato, la scusa della gente che me lo chiede, è una pulsione “populista”. E cioè di pancia, incontrollabile, non calcolata. Senza pensare cioè alla minima conseguenza di questo gesto così dirompente. Ecco, ma nella testa di Prodi cos’è il populismo? “Semplice: è come il sesso fra adolescenti. Irrefrenabile”. 

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 23 luglio 2022.

Dichiarazione di voto, visto che si vota. No Meloni. No Salvini. No Berlusconi. Voto Pd, perché il grigiore dell'ultimo partito costituzionale, in attesa di una leadership e di un vero programma politico e di interessi sociali, è civilmente da preferire a ogni altra scelta. Lo voto anche se mi trovo l'ex gilet giallo Giggino Di Maio nel collegio uninominale, non sono schifiltoso, non me lo posso permettere. 

L'agenda Draghi, in bocca al medesimo e nelle sue mani di governo, […] è una figata pazzesca […]; l'agenda Draghi, esibita come un blasone di liberalismo in mano a professori di politica minoritaria, a puristi della concorrenza, centristi e riformisti immoderati e megalomani, è una boiata pazzesca.

L'insediamento di Meloni […] diverrebbe una incoronazione per la fine di tutte le Repubbliche sin qui conosciute […] Non è che perché uno è draghista efferato e vota Letta con gli "occhi di tigre" che si deve bere come una limonata le scemenze da ztl e da Sciences Po. Italia tradita, Vergogna, grazie Mario, scusa Mario, sordomuti per Mario, cataclisma dopo Mario, Pnrr ripetuto a tiritera come una pernacchia, e i mercati che non perdonano, e la Nato vaffanculata dall'Italia, perché un governo è stato sfiduciato dal Parlamento.

Un governo di unità nazionale che dall'elezione mancata di Draghi al Quirinale non aveva ragione politica di esistere […] La mobilitazione della società civile ben pettinata […] mi ha sempre fatto sorridere. […] 

L'agenda Draghi dovrebbe essere una coalizione di forze reali o di partiti che punta a governare e spiega per fare cosa con attenzione agli interessi sociali rappresentati, […] Il Metropolitan Gala della sinistra fighetta ha cercato in Draghi una bandierina mondana, sbagliando indirizzo, e ora è il momento del ballo delle debuttanti con Gelmini Brunetta Carfagna. […]

Conchita Sannino per repubblica.it domenica 24 Luglio 2022.

Sabbia, libertà, un pickup molto Old States sul litorale di Santa Monica. E il pacchetto mini di sigarette di cannabis in primo piano. Col messaggio secco: "Via dall'Italia se dovessero vincere". Per pochi secondi, pubblicamente, Francesca Pascale torna alle sue battaglie e all'impegno politico che già da molti anni la oppone alla Lega e a Fdi.  

Così, si presume dalla sua luna di miele americana con Paola Turci, lancia quella battuta che sintetizza anni di lotta (anche interna, quand'era la lady ufficiale di Berlusconi, e il 'dettaglio' creava non pochi problemi ) contro i sovranisti e la destra radicale. "Se dovessero vincere: sogni, speranze e bagagli pronti", scrive Pascale sul suo profilo Instagram. Seguono gli hashtag : #maiconisovranisti, #viadallitaliasubito, #elezioni2022.

Lo scontro Pascale-Salvini

Risalgono ormai quasi dieci anni fa gli scontri tra lei e Salvini. Lui la chiamava  con sprezzo "la ragazza". E lei, come d'abitudine verace, lo apostrofava: "Troglodita". La allora fidanzata dell'ex premier diceva che "da semplice cittadina" non poteva tacere: "L'irritazione di Salvini per qualche commento? Io non accetto maschilismi e volgarità". 

 Era il 2016 quando Francesca postó su Instagram un collage di vecchi slogan e post del segretario della Lega che irridevano o insultano ai giovani "sfaticati" del Sud, corredandolo della significativa esortazione: "Inginocchiati ai meridionali, troglodita". Lui, per tutta risposta, intervistato da Libero, reagì allargando le braccia: "Caliamo un velo umanamente pietoso. Alla ragazza non starò simpatico. Ma se questa roba ha un'influenza sulle scelte politiche, beh allora siamo messi male...". 

Mai con i sovranisti

Sono trascorsi sei anni: siamo in altra era politica e sociale, il Paese, dopo lo choc dell'attacco al governo Draghi, è in una condizione di allarme, ed è già cominciata la prima campagna d'agosto per le Politiche, della storia repubblicana. Pascale è in America, sposa di una signora: l'unico punto fermo resta quello. Mai con i sovranisti. Al punto da abbandonare il suo (amato) Paese "se dovessero vincere loro".

Alessandro Sallusti: chi è davvero Giuliano Ferrara e perché sputa su Berlusconi. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 24 luglio 2022

È presto per parlare di intenzioni di voto, e ogni voto è ovviamente legittimo. Ma se il buongiorno si vede dal mattino da qui al giorno delle elezioni ne assisteremo a delle belle. Ieri, con il cadavere del governo uscente ancora caldo, due fenomeni dello star system hanno aperto le danze dichiarando pubblicamente le loro preferenze. Giuliano Ferrara ha fatto outing: «No Meloni, no Salvini, no Berlusconi, io voterò Pd». Contemporaneamente Francesca Pascale, ex compagna di Silvio Berlusconi e neo sposa della cantante Paola Turci, ha dichiarato: «Se vincono le destre subito via dall'Italia».

Mi ha colpito che i due, Ferrara e Pascale, hanno per certi versi una storia simile: pur non avendo mai lavorato un giorno in vita loro sono diventati milionari grazie alla generosità di Silvio Berlusconi e ora, dopo essere stati foraggiati e mantenuti tanto da essere a posto per qualche generazione, sputano con gusto nel piatto dove hanno banchettato. Può essere gente così un modello per gli italiani che sgobbano per tirare sera? Possibile, come si dice a Milano, che ancora oggi si possa pensare di fare sempre e impunemente i froci con il culo degli altri? Dicono: ma dai, Giuliano Ferrara è un maestro.

Maestro sì, di trasformismo, uno che ha attraversato la vita giocando: ha giocato con la sinistra extraparlamentare, poi con Berlusconi, poi con Gianfranco Fini, quindi Mario Monti e ultimo Mario Draghi. Un abbraccio, occhio Enrico Letta visto che oggi tocca a lei, che peraltro non ha mai portato buono. Destra, sinistra, centro, tutto va bene purché se magni, dicono a Roma. È un classico dei cortigiani, veline o veloni ingrati che siano, sempre in cerca di un re vincente da servire. Si giochi pure con le parole e con i voti, seduti su una montagna di fama e di soldi made in Berlusconi deve essere anche divertente. Io non penso che uno debba votare per forza uno dei partiti del Centrodestra, ma credo che tra un'Italia senza Centrodestra e un'Italia senza Francesca Pascale, beh la scelta diventa obbligata anche per uno di sinistra. Ci rifletta Giuliano Ferrara su che razza di compagnia ha deciso di sostenere, anche perché da quelle parti non sono così generosi come ad Arcore e dintorni. 

Carfagna lascia Forza Italia: "No a salti nel buio, il Paese prima di tutto". Francesco Bei su La Repubblica il 26 Luglio 2022. 

Intervista alla ministra del Sud: "Neppure consultati sulla crisi del governo di salvezza nazionale. Scelta irresponsabile di cui bisogna prendere atto".

Mara Carfagna lascia Forza Italia. Dopo quasi 20 anni di militanza politica accanto al Cavaliere, la decisione è presa. Nonostante l'amarezza che traspare dal tono della sua voce, non si torna indietro. Ministra, siamo rimasti a giovedì scorso, quando disse di non condividere la decisione di FI di strappare con Draghi perché andava "contro l'interesse del Paese".

Francesco Bei per “la Repubblica” il 26 luglio 2022.

Mara Carfagna lascia Forza Italia. Dopo quasi 20 anni di militanza politica accanto al Cavaliere, la decisione è presa. Nonostante l'amarezza che traspare dal tono della sua voce, non si torna indietro. 

Ministra, siamo rimasti a giovedì scorso, quando disse di non condividere la decisione di FI di strappare con Draghi perché andava «contro l'interesse del Paese». E annunciava una «seria riflessione politica» su questa frattura. Ha maturato una decisione?

«Tirerò le somme a breve. La riflessione che sto facendo parte da due dati di fatto: gli applausi di Putin alla crisi e le centinaia di messaggi di sindaci e imprenditori che da giorni mi dicono "ma siete impazziti?". Per quattro anni, mi sono battuta all'interno del partito per difendere la sua collocazione europeista, occidentale e liberale, dall'abbraccio del sovranismo. 

Una parte considerevole di Forza Italia la pensava allo stesso modo. Siamo stati sconfitti, più volte, l'ultima in modo bruciante: neppure consultati sulla crisi del governo di salvezza nazionale che noi stessi avevamo voluto. Ora mi chiedo: ha un senso proseguire una battaglia interna? O bisogna prendere atto di una scelta di irresponsabilità e instabilità, fatta isolando chi era contrario, e decidere cosa fare di conseguenza?».

Mi sembra che si sia già risposta. Berlusconi ha avuto parole sprezzanti nei confronti dei suoi colleghi ministri che hanno deciso di mollare ("riposino in pace"), mentre su "Repubblica" Licia Ronzulli si dice sicura che lei resterà in Forza Italia. Andando via teme un pestaggio mediatico?

«Non ho timori di questo tipo, perché dovrei averne? Oltretutto, in passato ho subito molti pestaggi mediatici e ho sempre risposto con la forza del mio lavoro. Qualsiasi saranno le scelte, poi, la mia lealtà personale a Berlusconi resta, e tutti lo sanno».

Qualcuno ha letto la sua nota come un'accusa a FI ma un estremo tentativo di scindere le responsabilità di Berlusconi da quelle dei primo cerchio di dirigenti che lo circonda. Ma l'esperienza e le stesse parole di Berlusconi, nel suo colloquio con il direttore di "Repubblica", smentiscono questa diversità di vedute. Dovete prendere atto che è stato Berlusconi a scegliere Salvini e Meloni contro Draghi. Perché lo ha fatto?

«Gli interrogativi sul passato li lascio agli analisti. Mi interessa il futuro: i soldi del Pnrr e le opere pubbliche collegate, le intese per gli approvvigionamenti invernali di gas, una manovra economica espansiva e protettiva al tempo stesso. Cose pratiche, concrete, che bisognava mettere in sicurezza prima del voto del marzo prossimo e rivendicare come successi un minuto dopo.

Era questo l'esame di maturità che FI avrebbe dovuto chiedere a Lega e FdI: dimostriamo agli italiani, all'Europa e all'Occidente che siamo un fronte responsabile, serio, capace di rispettare i patti fino in fondo. Si è fatto il contrario. Ciò che conta ora è ripristinare l'affidabilità italiana, messa gravemente a repentaglio dalla crisi e da chi l'ha provocata». 

Tutti danno per scontata una vittoria del destra-centro. È inevitabile oppure cosa si può fare per scongiurarla?

«Io penso a cosa si può fare perché la voce delle imprese, di chi produce occupazione, reddito, lavoro, la voce dell'Italia che si sveglia ogni mattina per andare al cantiere o per aprire un negozio, la voce dei sindaci e dei cittadini del Sud che hanno diritto a una speranza, non resti stritolata. Questa voce la sento ogni giorno: è preoccupata, sconcertata, chiede serietà e non ulteriori avventure. Deve avere rappresentanza in Parlamento e la possibilità di farsi ascoltare da chi governerà in futuro». 

Lei scrisse un libro di ritratti su donne di destra che ce l'avevano fatta. E se ce la facesse Meloni? Per l'Italia sarebbe un rischio?

«Meloni ha tutto il diritto di proporre la sua premiership: se l'è guadagnata, guida un partito che ha ampiamente sorpassato la Lega e ha il triplo di voti di FI. A Draghi si è sempre opposta, per molti versi è la più coerente. Ma la sua idea dell'Italia non è la mia. Io penso che l'Italia non debba somigliare all'Ungheria di Orbán, ma alla Germania di Merkel. Penso che Steve Bannon sia un cattivo maestro. Penso che l'integrazione politica ed economica europea siano un'ancora di salvezza, non un pericolo per il nostro Paese».

A noi di "Repubblica" è sempre stata chiara la natura politica del berlusconismo, non è stato un abbaglio considerare Berlusconi in questi anni come un faro di liberalismo? Non le viene il sospetto di esservi sempre raccontati una storia non vera?

«No, la storia era vera, e proprio per questo lo strappo del 20 luglio scorso è così determinante, segna con forza un "prima" e un "dopo", uno spartiacque. La mancata fiducia a Draghi indica la rinuncia a ogni autonomia della componente liberale dalla destra sovranista. 

Fino al 19 luglio FI non avrebbe avuto alcun dubbio sulla linea in caso di problemi del governo: favorire la conclusione ordinata della legislatura, mettere in sicurezza famiglie e imprese, sostenere il premier più rispettato d'Europa per poi poterne rivendicare i successi in campagna elettorale. Dal 20 luglio il Rubicone è stato varcato. È stata fatta una scelta di totale discontinuità con la nostra storia e con le nostre relazioni europee e occidentali».

Anche lei quindi ha varcato il suo Rubicone. Sull'altra sponda cosa c'è?

«Sono rimasta sulla sponda dove sono sempre stata. Di fronte a un bivio tra sottomettermi a una visione che non è la mia e rispettare quella in cui ho sempre creduto, non ho avuto alcun dubbio. In questo momento la priorità è mettere in sicurezza il Paese, non esporlo a salti nel buio». 

Calenda si è augurato che lei, con Gelmini e Brunetta, possiate partecipare al progetto di creazione di un fronte repubblicano che si richiama a Draghi. Come risponde all'invito?

«Credo che l'esperienza del governo di salvezza nazionale, una esperienza davvero patriottica fondata su una visione concreta dei problemi e degli impegni internazionali dell'Italia, meriti un secondo tempo. Ci serve più europeismo e più credibilità verso ogni nostro alleato. È necessario affrontare le grandi questioni dello sviluppo, delle tasse, del lavoro, per risolverle e non per fare propaganda.

E penso anche all'azione per il Sud: per la prima volta dopo vent' anni il governo Draghi non lo ha trattato come zavorra ma come area su cui investire per creare più lavoro e più servizi. Il mio "fronte" è questo, questa sarà la mia battaglia del futuro».

Mara Carfagna: «Lascio Forza Italia e scelgo Calenda per salvare il Paese dagli estremismi. E spero in Draghi». Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 29 luglio 2022.

La ministra dopo l’addio a Forza Italia: non potevo restare. Avrei barattato la mia coscienza e le mie idee con una poltrona

È stata una lunga e sofferta riflessione. Ma Mara Carfagna ha deciso: «La scelta più difficile, anche umanamente per la riconoscenza che devo a Silvio Berlusconi, è stata quella di lasciare FI. Il passo successivo è stato più semplice. Oggi formalizzerò la mia candidatura con Azione di Carlo Calenda, che rappresenta a mio giudizio l’unica proposta politica capace di salvare il Paese da una nuova stagione di estremismi».

Perché Azione?

«Perché ha una proposta europeista, liberale, garantista, fedele al patto europeo e occidentale, capace di dire la verità agli elettori, di prendere impegni seri e poi di rispettarli fino in fondo, e quindi in sintonia con tutto ciò in cui credo da sempre».

Nel centrosinistra si discute ancora su come presentarsi: crede in un’alleanza di Azione con i progressisti di Letta o sarebbe più utile una corsa solitaria?

«Sono una persona pragmatica, e per me la domanda è un’altra: qual è la soluzione più utile per costruire, nel prossimo Parlamento, un’area moderata capace di incidere sulle scelte di governo e di far pesare le ragioni dell’impresa, delle famiglie, dell’Italia stanca di salti nel buio? La risposta arriverà presto. La corsa “in purezza” sarebbe bellissima e anche più facile, ma so bene che le regole del sistema elettorale non la aiutano».

Le ultime notizie sulle elezioni 2022, in diretta

Ma quali sarebbero in caso i rischi di corsa solitaria del centro e quali quelli di una sorta di «fronte anti-Meloni» che potrebbe far perdere consensi sia a destra che a sinistra?

«Non vedo rischi nella corsa solitaria, se non quello di un meccanismo elettorale che penalizza moltissimo chi non si associa ad altri. Non ho scelto Azione per partecipare a un fronte “contro” ma per dare una speranza a chi crede in questo Paese, nella sua possibilità di crescita, ed è stufo di irresponsabilità politica».

Quale è il suo giudizio sul Pd, per come si è mosso nel governo e per come si sta ponendo?

«Non mi piace fare l’opinionista sulle scelte degli altri, ma è ovvio che il Pd è stato preso in contropiede dalle scelte di Giuseppe Conte e capisco il momento di confusione. Pensavano di “normalizzare” il M5S, i fatti dimostrano che era una missione impossibile».

Si parla di «agenda Draghi», e anche di Draghi come premier nel caso in cui nessuno schieramento dovesse prevalere: se accadesse, lei ci spera?

«Da cittadina vorrei avere Mario Draghi premier anche nella prossima legislatura, e i sondaggi ci dicono che oltre metà degli italiani, compresi tanti elettori del centrodestra, la pensa allo stesso modo. Mi candido con Azione anche perché è il solo partito a dire apertamente che Draghi sarebbe ancora il premier ideale. Se questo non dovesse accadere, il nostro compito è continuare ad applicare il metodo di lavoro sperimentato fino al 20 luglio: pragmatismo, serietà, capacità di decidere».

Berlusconi si dice «amareggiato»: ha provato a trattenerla? E come?

«Ho avuto una lunga conversazione con Berlusconi, che ha speso bellissime parole di apprezzamento per il mio lavoro. La stima reciproca rimane intatta. Ma non potevo restare in un partito che, davanti a una scelta di crisi, tra salvare il Paese ed esporlo a un’ennesima avventura, prende la seconda strada senza neanche chiedere: quali sono i rischi per le categorie, per le imprese? Che succede al Piano di Ripresa se revochiamo la fiducia?».

Perché una persona come lei, che è apprezzata nel centrodestra come nel centrosinistra, non poteva rimanere nel suo schieramento, con un ruolo magari di front runner di FI, per bilanciare la forza dei due partiti di destra che hanno grandi chances di governare?

«È quello che ho fatto negli ultimi quattro anni ma le mie parole, le parole di chi ha militato nella prima Forza Italia moderata, europeista, liberale, volavano nel vento e spesso mi sono sentita isolata. Se fossi rimasta dopo la messa alla porta di Draghi avrei barattato la mia coscienza, le mie idee, con una poltrona. Non potevo».

Cosa pensa di Meloni? C’è davvero un pericolo fascismo in Italia?

«Come ho spesso ripetuto, prendere voti e governare sono due mestieri diversi. Gli estremismi fanno bene il primo lavoro e fanno malissimo il secondo. Le storie parallele del M5S e della Lega, votatissimi nel 2018 e poi naufragati dal Papeete in poi, ce lo confermano. L’Italia alle prese con la crisi del gas, l’Italia dove cala il potere di acquisto, della disoccupazione record, degli investitori che fuggono, ha bisogno di gente che sappia governare. Meloni sotto questo profilo è quantomeno un’incognita».

E sulle ipotesi di influenze russe nella crisi italiana di cui si sta molto parlando in queste ore: lei ha percepito qualcosa, o teme ambiguità future?

«Nel 2018, il Contratto di governo stipulato dalla Lega con i Cinque Stelle definiva la Russia “interlocutore strategico”. Le relazioni di Salvini e Meloni con Viktor Orbán, che in questo momento è una sorta di quinta colonna russa in Europa, non sono mai state interrotte. L’ambiguità è nei fatti, non è un’opinione, e ogni timore è fondato».

Chi l’ha delusa nel suo partito, Berlusconi o i suoi consiglieri, ai quali viene spesso data la massima responsabilità per la svolta che ha fatto cadere il governo Draghi?

«Non voglio entrare nel merito delle vicende del partito, anche per una questione di stile».

In Azione ritroverà alcuni colleghi e colleghe che hanno la sua stessa militanza, come Gelmini: si aspetta altri arrivi dal fronte di cui faceva parte, come Toti?

«Lo spero. Potremmo fare una bellissima battaglia di coerenza e responsabilità insieme ai tanti amministratori sul territorio che hanno fatto questa scelta».

C’è un «caso» Renzi? Pensa sia giusto coinvolgere Iv in un polo di centro?

«Tutte le persone che hanno la stessa idea dell’Italia e della politica, in questo momento, dovrebbero stare dalla stessa parte».

Cosa le mancherà di più di Forza Italia, e anche della sua esperienza di governo?

«Per carattere tendo a guardare avanti, non vivo di rimpianti ma di entusiasmo: comincia una nuova impresa che posso affrontare a testa alta, fedele alle mie idee e ai miei valori, tutto il mio impegno è verso il futuro».

Contro la destra sovranista. La lettera di addio di Mara Carfagna a Forza Italia. Linkiesta il 27 Luglio 2022.

«Le prime proposte elettorali su pensioni ed extra-deficit, nonché la grancassa dell’immigrazione che ricomincia a suonare, confermano una cifra demagogica che contraddice qualunque seria responsabilità di governo», dice la ministra. «Bisognerà cominciare a cucire un nuovo abito per l’Italia moderata, europeista, liberale, garantista, fedele al patto occidentale e alla parola data agli elettori» 

«Oggi lascerò il gruppo parlamentare di Forza Italia e mi iscriverò al Gruppo Misto». Dopo giorni di riflessioni e attesa su un addio ormai certo, la ministra per il Sud Mara Carfagna annuncia sulla Stampa l’addio al suo partito. «Lo lascerò con riconoscenza verso Silvio Berlusconi, che mi ha dato l’opportunità di entrare in politica e mi ha a lungo sostenuto nel mio impegno. Lo lascerò con stima per tanti colleghi che condividono il disagio di questo momento. Lo lascerò per senso di responsabilità verso i cittadini e le imprese che dal 20 luglio si fanno, ci fanno, una domanda semplice: perché, insieme con M5S e Lega, Forza Italia ha staccato la spina al governo Draghi, chiudendo prematuramente l’esperienza di un esecutivo non solo utile ma necessario, mentre emergenze nazionali e internazionali mettono a dura prova le sicurezze dei cittadini e la resistenza delle democrazie occidentali?».

In questa legislatura, spiega la ministra, «Forza Italia era stata ben attenta a distinguersi da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. La revoca della fiducia al governo Draghi ha segnato una radicale inversione di marcia e una evidente sottomissione all’agenda della destra sovranista, che chiedeva di anticipare il voto per incassare subito una probabile vittoria. Le prime proposte elettorali su pensioni ed extra-deficit, nonché la grancassa dell’immigrazione che ricomincia a suonare, confermano una cifra demagogica che contraddice qualunque seria responsabilità di governo».

Insomma, il voto del 20 luglio fa ha cancellato, «l’imprinting moderato che il centrodestra aveva conservato per quasi un trentennio, malgrado il progressivo ridimensionamento di Forza Italia. Le conseguenze sono oggi chiare a tutti: la destituzione del premier più ascoltato e prestigioso d’Europa, l’interruzione della “messa in sicurezza” del Paese, la fuga degli investitori (ne abbiamo ogni giorno notizia), l’immagine dell’Italia che torna instabile e inaffidabile».

Tutto questo «non risponde alle aspettative di un elettorato moderato stanco di avventure, di fuochi d’artificio dialettici e di una visione delle grandi emergenze italiane – l’invecchiamento della popolazione, l’immigrazione clandestina, il debito pubblico, le mancate riforme, il lavoro povero e il calo del potere d’acquisto delle famiglie – fondata sulla propaganda anziché sul coraggio di affrontare i problemi e risolverli. Sono convinta che le imprese e le famiglie, dopo i 17 mesi di Mario Draghi e del governo della responsabilità e della serietà, chiedano protezione e tranquillità, non nuove e false rivoluzioni: il Paese ha già dato più di quello che poteva permettersi con i due governi a guida grillina, e sappiamo tutti come è finita».

Mara Carfagna cita le cifre illustrate ieri in consiglio dei ministri dal ministro dell’Economia Daniele Franco nella relazione sull’assestamento, il documento che certifica lo stato del bilancio pubblico: nei primi sei mesi dell’anno, l’indebitamento per il 2022 al momento risulta inferiore di 0,8 punti di Pil rispetto alle stime.

«Sono 14,3 miliardi di maggiori entrate “guadagnati” dal Paese, che consentiranno di estendere a un numero maggiore di cittadini e aziende il nuovo decreto aiuti», spiega. «Questa è la politica efficiente e pragmatica che personalmente voglio continuare a difendere: una politica che produce risultati e non illusioni, vantaggi per le persone e non polemiche quotidiane. Non sono la sola, siamo in tanti a vederla nello stesso modo. Sappiamo tutti che c’è una larga parte dell’elettorato che non si rassegna alla prevalenza degli estremismi, ma non mi nascondo la difficoltà di trasformare questa visione in scelta politica, in un sistema che praticamente obbliga alle coalizioni e condanna all’irrilevanza chi non si associa. E tuttavia questo sforzo andrà fatto. Questo percorso dovrà essere avviato. Bisogna cominciare a guardare le cose con gli occhi di oggi e di domani, non con quelli di ieri. Tutto è cambiato, le “casacche” che indossavamo – per usare una orribile espressione – non raccontano più la verità, non definiscono più i campi, anzi confondono le idee. Bisognerà cominciare a cucire un nuovo abito per l’Italia moderata, europeista, liberale, garantista, fedele al patto occidentale e alla parola data agli elettori».

Ciao populisti. Anche Mara Carfagna lascia Forza Italia. Linkiesta il 22 Luglio 2022.

Le dimissioni della ministra per il Sud seguono quelle di Mariastella Gelmini, Renato Brunetta e Andrea Cangini, certificando la fine del moderatismo del partito fondato da Silvio Berlusconi e amplificando la necessità di nuove iniziative politiche

Anche Mara Carfagna, ministro per il Sud e per la Coesione territoriale, lascia Forza Italia. Lo comunica con una nota, all’indomani del voto che ha sancito la fine del governo guidato da Mario Draghi. «Per questioni di stile non esprimo giudizi su come Forza Italia ha gestito questa crisi», prendendo una decisione finale «che non ho condiviso e che va contro l’interesse del Paese e di cui non ho avuto l’opportunità di discutere in una sede di partito».

Resta però viva la gratitudine nei confronti del leader e fondatore Silvio Berlusconi, «per le opportunità che mi ha offerto e la fiducia che mi ha testimoniato in questi anni». Tuttavia, quanto accaduto è «una frattura con il mondo di valori nei quali ho sempre creduto» e impone di «prendere le distanze», avviando una seria riflessione politica.

Con l’addio di Mara Carfagna, che segue quelli di Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini, tutti i ministri scelti da Forza Italia per il governo di Mario Draghi hanno lasciato il partito.

(ANSA il 21 luglio 2022) -  Anche Andrea Cangini lascia Forza Italia. Lo conferma il senatore azzurro, che ieri ha votato la fiducia al governo Draghi in dissenso dal partito restando in aula a differenza dagli altri forzisti. "Sono consapevole del fatto che, rinnovando la fiducia al presidente del Consiglio in coerenza con quanto detto e fatto da Forza Italia fino a due giorni fa, mi sarei messo automaticamente fuori dal partito", ha aggiunto.

"Non sono io che lascio Forza Italia, è Forza Italia che ha lasciato me" ha detto il sen. Andrea Cangini all'ANSA. "Questa crisi - ha aggiunto - ci ha fatto ripiombare nell'immagine dell'Italietta ingovernabile e inaffidabile, ed è una crisi dai costi altissimi che ricadranno sui ceti più deboli. Anche per questo i sindaci volevano che Draghi rimanesse, perché temono il blocco dei fondi per il Pnrr". "Nessuno dubitava che il centrodestra avrebbe vinto le prossime elezioni, ma un conto è vincere le elezioni in primavera con un Paese risanato, un altro è vincere in un contesto di macerie". ha rilevato.

E poi "non puoi fino alla sera prima dire una cosa e poi fare il contrario solo per una logica di parte in un momento di emergenza come questo". Il senatore non intende creare situazioni o cordate, "non ho problemi di collocamento o di carriera. Ho sempre cercato di fare la cosa giusta". Nella scena politica attuale "c'è molta demagogia, anche a sinistra".

Quanto a Forza Italia, "da anni sembra sempre più assecondare le idee di Matteo Salvini che per me non è un uomo credibile e non è mai stato e temo mai sarà un leader politico serio". No comment su altri possìbili transfughi azzurri, dopo le uscite di Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta: "che il malessere ci sia non c'è dubbio, ma che poi esca allo scoperto è un'altra cosa".

Estratto dell’articolo di Renato Brunetta per “la Stampa” il 22 luglio 2022.

Non sono io che lascio, ma è Forza Italia, o meglio quel che ne è rimasto, che ha lasciato se stessa e ha rinnegato la sua storia. Non votando la fiducia a Mario Draghi, il mio partito ha deviato dai valori fondanti della sua cultura. […] Io continuo ad essere coerente con tutti questi principi e valori, integralmente recepiti nell'agenda Draghi, cardini della storia gloriosa del Partito popolare europeo, a cui mi onoro di essere iscritto. Sono rammaricato per l'equivoco in cui è incorso l'amico Manfred Weber.

Caro Manfred, ti hanno riferito i fatti italiani in maniera distorta e strumentale: non è stato solo il M5S, ma anche Forza Italia, assieme alla Lega di Salvini, a sabotare un liberale come Draghi, attraverso giochi di potere egoistici e pericolosi sulla pelle della gente, degli italiani, degli europei. Inspiegabile, davvero inspiegabile, aver contribuito a fermare nel nostro Paese il progetto europeista ispirato al binomio inscindibile libertà-responsabilità, il collante della grande famiglia del Ppe.

[…] I vertici sempre più ristretti di Forza Italia si sono appiattiti sul peggior populismo sovranista, sacrificando un campione come Draghi, orgoglio italiano nel mondo, sull'altare del più miope opportunismo elettorale. Miope perché ignora o finge di ignorare che, per il centrodestra e per l'Italia, non c'è alcun futuro nelle tentazioni tardoprovinciali del sovranismo, che vagheggia un'infantile egemonia nazionale, del conservatorismo corporativo, che consegna la democrazia al ricatto dei microinteressi, del tatticismo populista, che piega al consenso le decisioni e gonfia la spesa pubblica, del settarismo culturale, che esibisce un'implausibile e inattuale identità politica.

La decisione di ieri, assunta, come da troppo tempo a questa parte, senza alcuna dialettica interna, in spregio alle regole statutarie, consegna a questa deriva quel che rimane del partito. […] Io non cambio, è Forza Italia che è cambiata. […] 

P.S. Ore 19.45 Ho appena finito il Consiglio dei ministri, e vengo a conoscenza di un'intervista al presidente Berlusconi rilasciata a La Stampa. Nella conversazione telefonica con il direttore Giannini, mi accusa di irriconoscenza, assieme alla collega Gelmini, e profetizza per noi la mancanza di futuro politico. 

Mi viene facile rispondere che a Berlusconi voglio bene, e sempre gliene ho voluto anche nei momenti più bui (e non sono stati pochi), che per Forza Italia nei miei quasi trent' anni di militanza ho dato tutto: tutto me stesso, tutta la mia intelligenza, tutto il mio impegno, politico e personale.

Mi addolora solo una cosa del commento di Berlusconi: che attacca esclusivamente in maniera scomposta sul piano personale e non tiene in alcun conto le serissime ragioni politiche del nostro addio. Ecco, questo mi fa dire, purtroppo, che Berlusconi ha perso lucidità e umanità, insieme alla qualità straordinaria che gli abbiamo sempre riconosciuto: quella di saper leggere nell'animo delle persone. Caro presidente Berlusconi, lo ripeto: io continuo a volerti bene, ma tu hai sprecato una grande occasione, quella di lasciare una nobile eredità all'Italia. Per tutte le cose buone che hai fatto, peccato che concludi col rancore e con battute che fanno male soprattutto a te. Ciao presidente, lunga vita.

In Forza Italia vince sempre Berlusconi: chi volta le spalle a Silvio poi finisce nell'ombra. Domenico Alcamo su Il Tempo il 27 luglio 2022

C'è quell'espressione lì, «comiche finali», entrata nell'immaginario collettivo in uno dei tanti, tormentatissimi, passaggi della vita del centrodestra. Eravamo nel 2007. A pronunciarla fu Gianfranco Fini, allora leader di An. Destinatario era Silvio Berlusconi. A quel tempo erano entrambi all'opposizione, e il Presidente di Forza Italia, dopo una riuscita campagna di gazebo in tutte le piazze del Paese lanciò l'idea di un partito unico che riunisse tutte le sigle dell'area. Fini rispose con quell'espressione sferzante, a sottolineare, e forse invocare, un epilogo un po' miserevole della parabola politica del suo alleato mai stato troppo amico. Si sa com' è andata a finire. Si sa quel che accadde dopo (un'altra, trionfante, cavalcata di Berlusconi verso Palazzo Chigi) e chi tra i due terminò la propria carriera politica. Perché vige una legge non scritta dal '94. Berlusconi essendo un'anomalia vivente, per la capacità di attrarre quote di consenso, di intercettare anche solo un angolo di aspettative scritte nell'anima profonda di questo Paese, è un fenomeno non interpretabile secondo i crismi della politica. E per questo ad essa sopravvive, spesso anche plasmandola alla bisogna. Dovrebbero saperlo bene gli ultimi fuoriusciti che hanno deciso di dire addio a Berlusconi.

L'ultima, ieri, è stata Mara Carfagna, perché «la mancata fiducia a Draghi indica la rinuncia a ogni autonomia della componente liberale dalla destra sovranista». Ha seguito l'esempio di altri due ministri, Mariastella Gelmini e Renato Brunetta, che hanno lasciato il partito per lo stesso motivo. Se si corre indietro di trent' anni, con le parole di quanti, lasciando Forza Italia, ne decretavano lo snaturamento e la fine prossima, si potrebbe comporre una ricca antologia. Eppure, quel calabrone con una struttura alare insufficiente per poter volare, volteggia ancora, influisce, condiziona, facendo pesare, oggi, quell'8% di consensi fino all'ultimo voto. E risuonano così nella storia le parole, per dire dell'allora deputato di Forza Italia Michele Caccavale, siamo nel marzo 1996, uno dei primi ad andarsene. «Povero Berlusconi -si rammaricava-costretto a predicare bene e a praticare male. Speriamo che gli italiani non ci caschino più». A guardarla ventisei anni dopo, tante e tante altre volte ancora ci sarebbero cascati. Al contrario, nel vuoto cadde la previsione di Vittorio Dotti, primissimo capogruppo degli azzurri alla Camera. Avvocato del gruppo Fininvest, signore autentico, faceva parte di quella squadra pionieristica che seguì Berlusconi nella discesa in campo. Poi il rapporto tra i due si ruppe pervia delle rivelazioni della di lui (Dotti) allora fidanzata, Stefania Ariosto, che inguaiarono sia Berlusconi che Previti. E non fu più ricandidato. Forza Italia, vaticinava Dotti, è destinata «a essere fagocitata da An». Non è accaduto. Balzo di qualche anno, siamo al 1998. Cominciano ad avere i mal di pancia interni tra i professori, quel gruppo di intellettuali di primissimo piano candidati da Forza Italia per conferire ad un partito neonato un inquadramento culturale. Uno di essi, Saverio Vertone, oggi non più tra noi, lamentava l'abbandono progressivo dello spirito liberale di Forza Italia, che, a suo dire, aveva abbracciato una politica "suicida", perché troppo conservatrice. Ventisei anni dopo, parliamo ancora di Forza Italia. Non si è suicidata né si è estinta. E andando su su negli anni troviamo ancora l'intervista di addio di Beppe Pisanu, dicembre 2012. Fu parlamentare, ministro dell'Interno, affiancò Berlusconi in tante e tante battaglie. «Berlusconi è in concorrenza diretta con Grillo», sosteneva. E ancora vedeva in Mario Monti «una specie di opportunità storica per i moderati». Tempo qualche mese e Scelta Civica ottenne un risultato assai parco alle elezioni.

E che dire quell'essere «diversamente berlusconiani» invocato da Angelino Alfano come anticamera del suo addio al Pdl? Anche lui criticava «posizioni estremistiche estranee alla nostra storia» che parevano avere la meglio nel partito. Alfano, che era stato indicato da Berlusconi, ma senza eccessiva enfasi, come suo delfino, si staccò da FI, sostenne i governi di centrosinistra della scorsa legislatura alla guida del Nuovo Centrodestra. E oggi è fuori dalla politica. Come dimenticare, poi, il fedelissimo Sandro Bondi che lasciò amaramente nel 2014, o l'addio di Gaetano Quagliariello, che seguì Alfano in Ncd, e Giovanni Toti che abbandonò il Cav per fondare Cambiamo. Ma in questa carrellata di dichiarazioni, che si riallaccia a quelle degli ultimi addii, c'è un comun denominatore: la denuncia di uno smarrimento dell'identità liberale e una mutazione della leadership di Berlusconi. Una Spoon River della malinconia, a fronte di uno solo che, in quel terreno impervio del post Seconda Repubblica, riesce ancora ad essere decisivo.

Da “Libero quotidiano” il 23 Luglio 2022

Tanti addii, pochi successi politici e una moltitudine di "dispersi". Forse il più famoso è l'ex leader di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini (resterà negli annali la frase: «Che fai mi cacci?»). Ecco qui accando alcuni dei divorzi più celebri da Forza Italia e dal Pdl.

Vi ricordate Angelino Alfano? 

Era il segretario politico del Popolo della Libertà, ma nel novembre 2013 decise di rompere con il Cavaliere e di fondare gruppi parlamentari autonomi creando il «Nuovo Centrodestra» e alleandosi con il Pd a sostegno del governo Letta, dove aveva la carica di ministro dell'Interno. Carica che mantenne anche nel successivo governo di Matteo Renzi. Poi, nel 2017, l'addio alla politica e la carriera professionale nel privato.

«Riposino in pace». Così Silvio Berlusconi aveva liquidato due giorni fa l'addio a Forza Italia di Renato Brunetta e Mariastella Gelmini. «Non hanno né seguito né futuro», il commento gelido del presidente. E ieri sul tema è intervenuta anche la compagna di Berlusconi Marta Fascina, donna e deputata silenziosissima di cui non si ricordano recenti interviste e interventi pubblici. 

Ieri la Fascina ha pubblicato una storia su Instagram con la scritta: «Roma non premiai traditori». Il tutto accompagnato dalla colonna sonora di una celebre canzone di Fabrizio De André, Un giudice: il brano narra la vicenda di un nano che scala i gradini di una funzione pubblica, la magistratura.

Già nel luglio 2021, dopo un voto contrario di Coraggio Italia in Commissione rispetto alla linea di Forza Italia, la fascina si era scagliata contro i traditori: «I partiti non sono taxi per raggiungere lauti stipendi e posizioni di potere, salvo poi (una volta raggiunto l'obbiettivo) cambiare idea, ideali, valori, partito» aveva detto la compagna di Berlusconi. Secondo la Fascina, occorreva ridare subito «dignità alla politica», modificando la Costituzione sul vincolo di mandato, impedendo ai parlamentari di lasciare il partito con cui sono stati eletti, pena la decadenza dell'incarico parlamentare: «Chi, tradendo il mandato elettorale dei cittadini ha contestato i nostri emendamenti deve riflettere».

Forza Italia, Ronzulli: "Gelmini trattava da tre mesi con Calenda. Carfagna resterà". Emanuele Lauria su La Repubblica il 25 Luglio 2022.

La delegata di FI ai rapporti con gli alleati: "L'attacco di Fascina a Brunetta? Conosco Marta, è una persona buona e non credo che avesse l'intento di offenderlo"

Subito in campagna elettorale sulle macerie del governo Draghi. Forza Italia ha ceduto alle pressioni populiste?

"Questa è la narrazione di chi deve trovare capri espiatori - dice la senatrice Licia Ronzulli, delegata di FI ai rapporti con gli alleati - invece di assumersi responsabilità di un fallimento che ha i contorni di un tradimento nei confronti del Parlamento e degli italiani.

Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 25 luglio 2022. 

Subito in campagna elettorale sulle macerie del governo Draghi. Forza Italia ha ceduto alle pressioni populiste?

«Questa è la narrazione di chi deve trovare capri espiatori - dice la senatrice Licia Ronzulli, delegata di FI ai rapporti con gli alleati - invece di assumersi responsabilità di un fallimento che ha i contorni di un tradimento nei confronti del Parlamento e degli italiani. Siamo l'unico partito ad aver votato la fiducia a un solo premier, Mario Draghi, abbiamo scritto il piano vaccinale, il Recovery Fund, sostenuto una politica estera atlantista ed europeista. Le bugie le rispediamo al mittente».

Triste vicenda, ammetterà.

«E' l'immagine di una sinistra disposta a tutto - anche a sacrificare la natura virtuosa di un esecutivo nato grazie a Fi e alla generosità del presidente Berlusconi - pur di dividere il centrodestra e salvare quel che resta del "campo largo". A chi era in Senato non sono sfuggiti i movimenti sottobanco di Franceschini, Speranza, Letta e Conte per far cadere il governo e dare vita a un nuovo esecutivo giallo-rosso. Renzi, di certo non un nostro estimatore, ha smascherato il tentato complotto ai danni del Paese».

Pensate di aver fatto tutto il possibile per salvare il governo?

«Abbiamo posto una sola condizione al prosieguo del governo Draghi: andiamo avanti ma senza i 5S, stanchi di ricatti e veti. Forza Italia ha lavorato con responsabilità, nel centrodestra di governo, per non far cadere l'esecutivo. Ma il Pd ha deciso diversamente, accecato dal potere che continua a gestire senza mai aver vinto un'elezione».

Berlusconi si è prestato a dire sì alle elezioni anticipare in cambio della promessa della presidenza del Senato?

«Ridicolo e offensivo. Nessuno ha mai offerto nulla al presidente. E la sua scelta non è stata orientata dalla disponibilità o meno di un qualunque posto. L'elezione al Senato sanerà il voto della scandalosa decadenza del 2014, per effetto di una legge applicata in modo retroattivo».

Uno scenario elettorale possibile è quello del centrodestra contro la cosiddetta "area Draghi".

«Stanno provando, senza rispetto, a tirare per la giacchetta al premier. Ma l'area Draghi ha ragion d'essere se c'è Draghi in persona. Diversamente non esiste, sono "sei personaggi in cerca d'autore" (Conte, Letta, Di Maio, Renzi, Calenda, Toti) disposti ad un'ammucchiata che si tiene in piedi con il vinavil». 

Il candidato premier sarà annunciato già prima della campagna elettorale? O sarà deciso dopo? E in questo caso si applicherà, come chiede Meloni, la regola che il partito con più voti esprime il presidente?

«Non è il momento di parlare di nomi e leadership. È il momento di presentare agli italiani la nostra idea di Paese, quale domani immaginiamo per i nostri figli».

Quanto crede che peserà l'addio di Gelmini, Brunetta e, forse, Carfagna?

«Quando i cittadini sanno che sei pronto a cambiar casacca, a rinnegare la tua storia per interessi personali o per paura di non essere rieletti, non si fidano più. La storia insegna l'infausto esito di ogni abbandono. Gelmini ha usato strumentalmente la decisione di FI per dare un senso alla sua uscita. Sapevamo che stava lavorando già da 3 mesi ad un progetto alternativo al nostro con Calenda e Bonino e i toni e la velocità della sua uscita lo confermano. Ora vuol descrivere FI sottomessa al sovranismo. Ma nel novembre 2019, con la Lega in vetta, mi chiese di organizzare un incontro con Salvini per staccare dal gruppo di FI, che guidava, 30 o 40 deputati. Cosa che mi rifiutai di fare».

Calenda vi toglierà voti?

«Chi voterà Calenda darà il voto ai radicali e sarà a favore dell'utero in affitto, dirà di sì alla legalizzazione delle droghe. Posizioni inconciliabili per noi che ci ispiriamo ai valori cattolici e cristiani». 

Brunetta si è mostrato pubblicamente molto colpito dagli attacchi ricevuto da Marta Fascina, che ha messo nel mirino la sua altezza. Lei che ne pensa?

«Renato sa che Berlusconi e FI sono sempre stati dalla sua parte quando i suoi nuovi alleati lo etichettavano come un energumeno tascabile o più di recente dopo un "vaffa" lanciato dal ministro a un lavoratore che l'aveva definito una "macchietta scurrile della politica italiana". Conosco Marta ed è una persona buona e non credo avesse l'intento di offenderlo».

Carfagna lo seguirà a breve?

«Sono sicura che Mara, un ministro molto apprezzato, prenderà la decisione giusta, quella di continuare a contribuire al nostro grande progetto». 

Lei è sempre nel mirino di chi lamenta qualcosa che non va nel partito.

«Non accuse, ma calunnie, frutto del pregiudizio come quello secondo cui sarei la quinta colonna del leghismo. Se la prende con me chi non ha il coraggio di attaccare il presidente. Le battaglie che ho condotto su vaccini e Green Pass, chiaramente in antitesi alla Lega, parlano da sole».

Giovanni Orsina per “la Stampa” il 25 luglio 2022.

Siamo arrivati al voto come peggio non avremmo potuto. Innanzitutto sarebbe stato meglio affrontare un autunno che si prevede assai difficile e la sessione di bilancio con un gabinetto guidato da Mario Draghi, e chiudere la legislatura in maniera ordinata. La crisi di governo, poi, ha avuto dei passaggi grotteschi che certo non hanno contribuito ad accrescere la credibilità già bassissima del ceto politico. Infine, l'uscita di scena di Draghi e la prospettiva delle urne hanno ulteriormente innalzato i già elevati livelli di isteria e catastrofismo della sfera pubblica italiana. 

Come se si trattasse della fine del mondo. Ma isteria e catastrofismo fanno male all'Italia, non soltanto perché radicalizzano l'opinione pubblica, ma soprattutto perché trasmettono al di fuori dei nostri confini il messaggio che il Paese è ormai sull'orlo dell'abisso. La nostra immagine internazionale così s' indebolisce, e la debolezza a sua volta fa sì che l'orlo dell'abisso si avvicini, come nelle più classiche profezie che si auto-avverano. 

Tenere sotto controllo l'isteria e il catastrofismo, tuttavia, non vuol dire rifiutarsi di vedere quanto complesso e pericoloso sia diventato da ultimo il mondo nel quale viviamo. E non può impedirci di sperare allora, con un ottimismo alquanto irragionevole, che questa campagna elettorale si dimostri infine più seria del modo in cui è cominciata.

La destra italiana è poco seria dal 1994, e si dura gran fatica a sperare che rinsavisca dopo quasi trent' anni.

La poca serietà di Silvio Berlusconi, in realtà, rappresenta da sempre una parte integrante del suo messaggio, un modo per negare alla politica importanza e solennità, per segnalare agli elettori che la vita è altrove, nella famiglia, nella società civile, nel mercato. Matteo Salvini sembra aver ereditato il dadaismo del Cavaliere, ma con un'aggiunta di radicalismo che lo ha reso meno lieve e, in fin dei conti, meno simpatico. Giorgia Meloni - che l'altroieri, intervistata dalla Stampa, ha invocato più volte la serietà - non condivide invece la leggerezza dei suoi compagni d'avventura. Le sue radici affondano nel cuore del ventesimo secolo, del resto, il secolo dell'iper-politica, mentre gli altri due sono figli della fase terminale del Novecento, segnata dall'antipolitica e dal populismo.

Il problema della serietà nel caso di Meloni si pone allora in una forma diversa, ma che vale del resto pure per Salvini e Berlusconi. A farla molto breve: la politica italiana ha qualche (modesto) spazio di movimento, ma non può avventurarsi al di fuori di un perimetro ben preciso. Non solo: non può nemmeno permettersi che sorgano dubbi rispetto alla sua volontà di restare all'interno di quei confini, non può dire che vorrebbe uscirne o far finta di uscirne, nemmeno per scherzo. 

Il perimetro ha una forma triangolare, ed è fatto di lealtà atlantica, volontà di partecipare costruttivamente alla vita dell'Unione europea, determinazione a non destabilizzare l'euro - con tutte le conseguenze di finanza pubblica che ne derivano. Potremmo chiamarlo, appunto, «perimetro della serietà», perché non è serio raccontare agli elettori che se ne possa prescindere sapendo che non si può, o senza dire loro quale prezzo si pagherebbe se non se ne tenesse conto.

L'Italia del dopo 25 settembre non può permettersi - non lo può: è un dato di fatto semplice e duro come la pietra - di avere un governo che non dia la massima garanzia di voler restare nel perimetro della serietà. Berlusconi, Salvini e Meloni, in forme, su fronti e a livelli d'intensità differenti, hanno tutti e tre gettato un occhio, e talvolta ben più di un occhio, al di fuori di quel perimetro. La prova di serietà che si chiede loro è che da qui al 25 settembre dissolvano ogni dubbio, facciano piazza pulita di qualsiasi ambiguità su tutti e tre i lati del triangolo. Il Partito democratico e le forze politiche centriste sono certamente, interamente all'interno del perimetro della serietà.

Il loro problema, del Pd in particolare, è che danno l'impressione di voler fare ben poco oltre a stare immobili al centro del poligono, e paiono pensare che garantire di restarci sia condizione non soltanto necessaria ma anche sufficiente del loro fare politica. La serietà, così, è diventata fine a se stessa, si è trasformata in un vessillo, un alibi, un mezzo di conservazione del potere.

E, infine, in uno strumento di delegittimazione della destra. Perché la serietà potesse svolgere quest' ultima funzione, però, le forze politiche e culturali «serie» hanno dovuto dilatarne il perimetro, tirarlo dalla propria parte, esasperare i toni e denunciare sconfinamenti e violazioni anche là dove non ce n'erano. E tutto questo, in definitiva, è stato terribilmente poco serio. Perfino meno serio, per certi versi, che promettere un milione di alberi.

Soprattutto, tutto questo ha contribuito all'isterismo e al catastrofismo dei quali si diceva sopra, e al rischio che l'Italia si trovi intrappolata in una profezia di sventura che si auto-avvera. Che il destra-centro si collochi all'interno del perimetro della serietà, e che questa sua collocazione sia chiaramente percepita anche all'estero, è interesse di tutti. Se così non fosse e il destra-centro dovesse vincere le elezioni e arrivare al governo, l'Italia ne sarebbe enormemente indebolita in un momento storico molto difficile e le istituzioni democratiche ne sarebbero messe ulteriormente sotto pressione. Qualcuno sulla sinistra e al centro potrebbe approfittarne, nel breve periodo. Ma avrebbe ben poco di cui gloriarsi.

Vent'anni di critiche, offese e prese in giro. Ma ora gli ex ministri azzurri diventano eroi. Francesco Boezi il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

Gelmini e Brunetta hanno già dimenticato gli insulti degli ex avversari

I ministri Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta, per usare un eufemismo, non sono mai stati troppo simpatici al centrosinistra. L'adesione dei due ex forzisti al «Rassemblement repubblicano» non cancella un ventennio di critiche feroci: i progressisti hanno sempre attaccato le politiche liberali di entrambi e non solo quelle. Qualcuno si ricorderà delle rumorose manifestazioni di piazza attraverso cui la sinistra tentò di bloccare la riforma della scuola targata Gelmini. Facciamo un piccolo salto all'indietro. Erano i tempi del quarto governo presieduto da Silvio Berlusconi e nel maggio 2010, in un clima di contestazione, Pier Luigi Bersani, che oggi dovrebbe gravitare attorno allo stesso «Rassemblement» dell'ex ministro dell'Istruzione, se ne usciva così: «Una figura eroica, quella degli insegnanti che sono a inseguire i disagi sociali mentre la Gelmini gli rompe i c...». L'ex esponente di Fi era diventata il simbolo di un modo di concepire una scuola diversa da quella tutelata dal monopolio ideologico della sinistra gramsciana. Il centrodestra portava avanti battaglie per il voto in condotta, per il maestro unico, per evitare che gli insegnanti di Storia saltassero a piè pari la tragedia delle foibe e così via: la Gelmini potrebbe aver archiviato tutto in nome di una non precisata «agenda repubblicana». Poi c'è stato il caso della gaffe sul tunnel tra il Cern di Ginevra ed il Gran Sasso. «Siccome non c'è naturalmente nessun tunnel fra l'Infn ad Assergi, sotto quattro chilometri di dura roccia del Gran Sasso e l'Lhc di Ginevra, che fine avrebbero fatto quei soldi? O forse questa è una delle grandi opere che questo governo di pressappochisti e venditori di illusioni vuole lanciare?», disse ai tempi Manuela Ghizzoni, dem che sedeva nella commissione Cultura, reagendo appunto a quella che, per molti, è stato un imperdonabile scivolone della politica lombarda. L'elenco sarebbe lungo ma questi pochi episodi bastano a rammentare qual è stato il rapporto tra l'emisfero «democratico» e «progressista», per usare gli aggettivi scelti da Enrico Letta per definire la compagine che guiderà alle prossime elezioni politiche, e l'attuale ministro per gli Affari regionali e per le Autonomie.

E poi c'è Renato Brunetta, per cui può valere il medesimo discorso. Anzi, fino a qualche giorno fa il centrosinistra criticava in maniera aperta il capo di dicastero per la Pubblica amministrazione: «Brunetta imbarazzo per sé e per il governo. Forse dovrebbe mettersi in proprio», ha fatto sapere di recente Tommaso Nannicini, senatore Pd, in relazione allo scambio di vedute tra il ministro ed un lavoratore che lo stava contestando. Brunetta è spesso stato bersagliato per non essere uno statalista ma nel cartellone elettorale che il Nazareno sta stilando per le Politiche del 25 settembre sembra non esserci spazio per i risentimenti (e neppure per le identità chiare). Come dimenticarsi, infine, dell'«energumeno tascabile», ossia dell'appellativo che Massimo D'Alema utilizzò per apostrofare l'ex ministro della Funzione pubblica? Anche in quel caso si trattò di critiche mosse da uno statalista. Il centrosinistra del resto statalista lo è sempre stato. Qualcuno farebbe meglio a tenerlo a mente.

(ANSA domenica 24 Luglio 2022) - "Mi dicono tappo o nano e ho sofferto e continuo a soffrire per questo". "Ma per fortuna ho le spalle larghe perché ho fatto molte cose, il prof universitario il parlamentare anche europeo, sono stato ministro due volte", ho fatto molte esperienze. "Di questo sono responsabile, ma non della mia statura". 

Così il ministro della P.a. Renato Brunetta, intervenendo a Mezz'Ora in Più di Lucia Annunziata e rivolgendosi direttamente a Marta Fascina. La deputata azzurra era intervenuta nei giorni scorsi dopo l'addio di Brunetta a Forza Italia postando, tra l'altro la canzone di De Andrè, " Il giudice" che fa riferimenti espliciti "ai nani". 

"Marta - dice Brunetta, visibilmente emozionato - ma essere violentato su questo... non per me ma per tutti quei bambine e bambini che non hanno avuto la fortuna di essere alti e belli e che possono avere in me un esempio e dire, ma vedete Brunetta, però tappo come è... sdogano su di me questo termine che mi ha sempre fatto male". "Però lei ha gli occhi azzurri - dice Annunziata"; "Grazie", risponde Brunetta. "Io sono responsabile delle mie idee di quello che faccio ma non di essere tappo o nano". 

Governo: Brunetta, da FI decisione presa alle nostre spalle

(ANSA domenica 24 Luglio 2022) - "Nulla abbiamo saputo, una decisione presa alle nostre spalle". Così il ministro della P.a Renato Brunetta a Mezz'Ora in più di Lucia Annunziata su Rai 3 a proposito della scelta di Forza Italia sul governo. "E' stato un atto di irresponsabilità motivato da un opportunismo temporalistico", ha detto, "Una valutazione di tipo opportunistico. Salvini vedeva deteriorare il suo consenso mese dopo mese, Forza Italia non si espandeva, Meloni cresceva. Hanno preferito non pagare il costo del governo ma farlo pagare agli italiani".

Brunetta, Unione Repubblicana per salvare il Paese

(ANSA domenica 24 Luglio 2022) - "Un'Unione e un rassemblement repubblicano per tutti quelli che hanno sostenuto l'agenda Draghi", con un programma comune che guardi all'Europa e al Pnrr, "un'Unione Repubblicana che salvi il Paese". Così il ministro della P.a Renato Brunetta a Mezz'Ora in Più di Lucia Annunziata su Rai tre. "C'e' un progetto? Chiede Annunziata, "Ovviamente e ci stiamo lavorando". Tra i nomi di questo rassemblement Annunziata cita Toti, Renzi, Calenda e Brunetta assente. "Tremonti?" chiede Annunziata: "sta dall'altra parte" dice Brunetta, ribadendo di sognare un'unione di Liberi e Forti che salvi il Paese.

Brunetta: «Io, “nano” contro la violenza di Fascina. “Riposi in pace” da Berlusconi? Si è rotto qualcosa». Paolo Conti su Il Corriere della Sera domenica 24 Luglio 2022. 

Il primissimo piano della telecamera di «Mezz’ora in più» di Lucia Annunziata su Rai 3 non lascia spazio all’immaginazione. Renato Brunetta non è solo emozionato, è chiaramente scosso: «Da una vita vengo violentato per la mia altezza, anzi per la mia bassezza. Mi dicono tappo, nano... ho sofferto e continuo a soffrire per questo». Quelle parole lancinanti e così esplicite (violentato, tappo, nano) aiutano Lucia Annunziata nelle domande successive, lui non si sottrae. La puntata parte dall’attualità politica, dal suo addio a Forza Italia, dalla clamorosa frattura anche personale con Berlusconi. Annunziata prova a chiedergli se potrebbe prendere in considerazione, per sanare la rottura, una candidatura forte in un collegio sicuro da Berlusconi: «No. Ventotto anni sono tanti ma con lui si è rotto qualcosa. Come gli amori: quando si rompe qualcosa, è finita. Voglio bene a Berlusconi, continuerò a volergliene. Però quando c’è una rottura si parla delle ragioni della rottura. Ma subire invettive personali, anche feroci, da lui e dal suo ambiente... Una quando ha detto di noi che siamo andati via “che riposino in pace” . Io gli ho augurato lunga vita, perché sinceramente gli voglio bene». E qui la politica, il confronto interno a FI, l’addio di Brunetta dopo lunghi anni alla squadra politica berlusconiana, lascia spazio televisivo alla improvvisa e imprevedibile, esplicita, incondizionata ammissione di una ferita esistenziale mai veramente guarita che segue un’altra ammissione umana, quel voler bene a Berlusconi: «Mi dicono tappo, nano, ho sofferto e continuo a soffrire. Ma per fortuna ho le spalle larghe. Per fortuna ho fatto mille cose nella vita». Qui Brunetta guarda negli occhi Lucia Annunziata (che prova a fargli un complimento, «però lei ha gli occhi azzurri», lui ringrazia con un sorriso ma va avanti) e la regia di David Marcotulli segue i suoi gesti: «Sono stato ministro, professore universitario, presidente di commissione parlamentare, ho scritto molto. Di questo sono responsabile, ma non della mia statura». Subito dopo, con un autentico colpo di teatro, si rivolge direttamente a Marta Fascina, la deputata azzurra compagna di Berlusconi che, dopo l’addio di Brunetta, ha postato su Instagram la scritta «Roma non premia i traditori» con la canzone «Il giudice» di Fabrizio de André che contiene un feroce, notissimo passaggio su un giudice molto basso di statura («È una carogna di sicuro/ Perché ha il cuore troppo/Troppo vicino al buco del …»). Brunetta continua a guardare Lucia Annunziata però in realtà parla a Marta Fascina: «Marta... Marta... Ma essere violentato su questo. Non per me, ma per tutte quelle bambine e quei bambini che non hanno la fortuna di essere alti e belli e che possono avere in me un esempio e dire... vedete, Brunetta, però tappo com’è... nano com’è, fa il ministro. Sto usando qui questo termine che mi ha sempre fatto male, lo sdogano qui». Una breve pausa e una conclusione che resterà nelle cronache televisive italiane perché si trasforma in una sorta di seduta psicoanalitica sotto le telecamere: «Marta, Marta Fascina grazie, vai avanti così, perché consentirai di sdoganare anche queste violenze. Perché parlarne vuol dire elaborare... Non mi era mai riuscito di parlare in pubblico così. Mai, mai. Adesso, oggi, ne parlo». Una confessione clamorosa, fortemente emotiva, e insieme (parole di Brunetta) l’elaborazione in diretta televisiva di una pesante sofferenza esistenziale. Il ministro della Pubblica amministrazione sembra essersi tolto un intollerabile peso dalle spalle. E sono in tanti a manifestargli piena solidarietà politicamente trasversale (Giovanni Toti, presidente della Liguria e di Italia Centro, lo definisce «un gigante», e poi Michele Anzaldi di Italia Viva, Osvaldo Napoli di Azione). Ma di questa puntata di «Mezz’ora in più» resterà proprio l’ammissione di una condizione, il suo sdoganamento, la sua rielaborazione. E non è poco. Anzi, è oggettivamente moltissimo.

Filippo Sensi, deputato Pd, per leggo.it il 25 luglio 2022.

Lo so che significa. Ognuno di noi lo sa. Quello che ha fatto Renato Brunetta ieri, intervistato da Lucia Annunziata, che ha fatto i conti per la prima volta con quella cosa dell'altezza. Con la fatica di affrontarla ogni giorno che Dio manda in terra. Con l'ironia di saperci sorridere, di passarci sopra, ma sapendo che sempre su quello verrai misurato, sempre su quello ti guarderanno, e giudicheranno. 

Non tutti, certo. Ma lo faranno. Questo non ha impedito a Brunetta di essere un professore universitario, di scrivere libri, di essere stato ministro, parlamentare e tanto altro ancora. Ma sotto quella carriera, sotto ai traguardi raggiunti, quello sguardo, magari quella risata restava sempre, resta. Uno sguardo che non gli ha impedito di fare la sua vita, ho le spalle larghe ha detto il ministro.

E anzi, chissà, ha magari giocato un ruolo in una affermazione, in un percorso, in una esistenza coronata di successi. Brunetta è un combattente, lo è sempre stato. Così come lo siamo noi, ognuno di noi. Corpi sbagliati, troppo grassi, troppo corti, troppo calvi, troppo secchi, troppo naso, troppo quello, poco quello. Da qualche tempo si parla di body shaming, della derisione dei corpi degli altri, delle caratteristiche fisiche elevate a pregiudizio, giù risate a crepapelle, di una puzza che sembra non abbandonarti mai.

IL POST DI MARTA FASCINA CONTRO BRUNETTA

Perché il primo sguardo implacabile - e non dimentichiamo mai che lo sguardo è un gesto che afferra e fissa - è proprio il nostro. Come si esce da questo incantesimo, da questa letterale maledizione? Intanto dicendolo. Non occultandolo. Facendoci i conti, pubblicamente. Perché la paura di dirci diversi o non conformi, come oggi usa dire, è il tabù più forte. Ieri Brunetta ha fatto esattamente questo: lo ha detto. Lo ha evocato. Io, il tappo, il nano. Io, il ciccione. Mi capitò di parlarne in aula qualche tempo fa, di questa cosa. E di dirla. E di catturare l'attenzione di quella aula, a Montecitorio. E quando mi sono seduto, dopo avere parlato, quando mi sono lasciato andare sullo scranno, come dopo una liberazione, Brunetta arrivò dall'altra parte dell'emiciclo e si venne a congratulare con me. Perché lo avevo detto. Perché lo aveva provato. Ogni giorno, ogni singolo giorno. E se oggi, dopo l'intervista con Annunziata, qualcuno - un ragazzo, una ragazza - troverà in quelle parole, in quella confessione un po' amara, vissuta, ma a ciglio asciutto, la forza per fare la sua strada, per farcela e non chiudersi, non restare infilzato a quello sguardo o a quel nomignolo o a quel giudizio vorrà dire che le parole di Brunetta - quella fragilità presa di petto, ammessa, evocata, gridata - saranno arrivate dove i nostri corpi sbagliati pensavamo non ci avrebbero mai portato. Con gli altri, con noi. Finalmente.

Gianluca Nicoletti per “la Stampa” il 25 luglio 2022.

«Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura, ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente...». Renato Brunetta evidentemente lo sa da quando è nato, infatti lo ha ammesso senza reticenza nel talk di Lucia Annunziata. Ha raccontato la sua amarezza per il post pubblicato su Instagram da Marta Fascina che, oltre a dargli del traditore che può starci, sonorizzava l'invettiva con la nota ballata di Fabrizio de André sul nano, che è invece una vera vigliaccata, perché il testo parla di un giudice di bassa statura, la cui carriera di spietato esecutore di condanne a morte è la risposta al dileggio subito negli anni per il suo deficit di altezza. 

Il mio condannare un gesto così poco da signora non è un endorsement al Brunetta politico, è piuttosto una riflessione doverosa che ognuno, di ogni orientamento ideologico, dovrebbe fare sull'infelice esordio di una campagna elettorale, in cui sembra che le divergenze in famiglia (in questo caso Forza Italia) si regolano con l'antico e odioso costume di mortificare il reprobo, discriminandolo su una sua presunta inadeguatezza fisica. Il controllo sulla nostra parte civilizzata si allenta quando si ci si gioca la serenità di giudizio imbevuti di astio, succede sempre nel territorio velenoso di un patto di fedeltà non rispettato.

È corretto che capiti in politica, il luogo eccelso di ogni compromesso? No di certo ma c'è caduto anche Giorgio Mulè, che all'apice di una diatriba con Giovanni Toti scrive: «Il guaio è che sembra un Di Battista un po' sovrappeso. Si prova solo molta pena e nulla più». Toti replica che si aspetta «il Ciccio bomba cannoniere», è evidente però che pure lui è stato attaccato su un problema di tipo fisico.

È pure possibile che questo avrà riaperto il ricordo di quando nel gennaio 2014 fu infagottato in una tuta bianca e messo a dieta forzata da Berlusconi, quando lo prelevò dai tg Mediaset per farne il suo delfino, portandolo prima di tutto in una clinica a perdere peso. Epico scatto di un tentativo di palingenesi (fisica e politica) quello che immortala i due che salutano dal balcone della spa «La maison de relax» di Gardone Riviera, dove il miracolo del dimagrimento di Toti era stato affidato al medico di fiducia del leader di Forza Italia, Alberto Zangrillo. 

Toti avrebbe allora dovuto prendere il posto del precedente aspirante delfino Angelino Alfano, su cui pure avrà pesato lo stigma dell'inadeguatezza fisica. Al giovane coordinatore di Forza Italia a Palermo, scelto dal Cavaliere come possibile suo successore, però mancava già in partenza qualcosa per ambire a quell'importante posizione: «Angelino, senza capelli non ha futuro - gli fu detto senza remora da Berlusconi -. Lei ha una pelata che la fa apparire più in là con l'età. Sua moglie se ne lamenta?».

Lo confessa lo stesso Alfano ad Antonello Caporale nel luglio 2005, aggiungendo che seguì un quasi diktat a sottoporsi (anche lui) all'impianto tricologico da un chirurgo di cui gli venne fornito il nome. 

L'impianto era molto costoso, Alfano se ne astenne e forse partì già con il piede sbagliato.

È evidente che Marta Fascina abbia soltanto esternato in una burinata da stadio un retro pensiero sostanziosamente metabolizzato nell'ambiente in cui vive, dove il miraggio della perfezione fisica sia perseguito, senza alcuna discriminazione di genere, attraverso un costante ristrutturare con bisturi, innesti, polimero e tinture, laddove il naturale scorrere del tempo lascia inesorabile le sue tracce.

Lei stessa dovrebbe sapere però quanto possa essere mortificante subire il vigliacco attacco sulle proprie inadeguatezza fisiche o sulla conseguente, quanto sicuramente lecita, volontà di attenuarle quanto possibile con espedienti di ogni tipo. 

Il suo «non marito» è stato bersaglio per anni di tutto quel sarcasmo più bieco che oggi chiamiamo «body shaming» e se è una regola deve valere per tutti, quindi sarebbe ora di smettere anche di ricorrere alle consunte battute di Beppe Grillo come «psiconano» o «testa di catrame», come pure le allusioni, che a qualcuno faranno tanto ridere, tipo «Cavalier pompetta» che infieriscono egualmente su un problema fisico. Basta anche con le foto cerchiate delle scarpe col rialzo di Berlusconi, degli sgabelli dietro al podio. 

Nascondono la stessa matrice codarda di chi, senza dirlo apertamente ma alludendo, dà del nano a Brunetta. Lui almeno, a differenza di Berlusconi porta con orgoglio la sua bassa statura, non nascondendola nelle foto ufficiali e non facendone un tema indicibile. Eppure sullo svantaggio fisico di Brunetta ha ironizzato buona parte della comicità «progressista» da Fiorello a Crozza; quest' ultimo spesso lo raffigura con un paracadute per scendere dalla sedia. Brunetta può essere antipatico, può non piacere quello che dice e fa...

Perché però deve essere considerato lecito dargli con disprezzo del nano? È evidente che una persona molto bassa è presa in giro sin da bambino e da adulto non trova difensori. Non c'è remissione alla sua «colpa» tanto tra i buonisti di sinistra che vestono equo e solidale, quanto tra i cultori del salvifico posticcio che pensano a destra.

Ogni volta che si ironizza sul basso Brunetta si provoca sofferenza in chiunque sia molto al di sotto della statura minima della media; nel caso che qualcuno, pur ritenendo sé stesso civilizzato, obiettasse che tutto questo gli sembra esagerato, annoverandolo nella legittima goliardia, nella lecita invettiva, nel sacrosanto diritto d'opinione, è mio personale e confutabile convincimento che abbia sicuramente molto cammino da fare, per potersi considerare una persona evoluta.

Brunetta: «Non mi candido. Meloni coerente, pronto a consigliarla». Monica Guerzoni per corriere.it il 13 agosto 2022.

Il ministro per la Pubblica amministrazione: nessun rammarico, semmai un po’ di dolore. Mi occuperò di più di Venezia e della mia famiglia, i miei amori 

Renato Brunetta, davvero lascia la politica?

«Semplicemente non mi candido. Ho dato tanto alla politica e tanto ho ricevuto — è il commiato del ministro per la Pubblica amministrazione —. Nessun rammarico e nessun rimpianto. Semmai un po’ di dolore».

Dolore perché non tornerà in Parlamento?

«È stato un mese di emozioni forti e decisioni difficili. Ho visto Forza Italia, che è stata la mia casa per quasi trent’anni, contribuire alla caduta di Draghi. Il governo più credibile, autorevole e serio, che poteva farci uscire da una situazione tragica che ha visto sommarsi pandemia, guerra, inflazione e uno spread minaccioso. Un atto incredibile e incomprensibile».

Come lo spiega?

«Aprire una crisi che fa rischiare l’osso del collo all’Italia, come ha deciso Conte seguito da Salvini e Berlusconi, è un masochismo che mi angoscia. Il mio sogno era votare a fine legislatura, dopo una legge di Bilancio draghiana forte e strutturata. Ora abbiamo uno scenario distopico, il peggiore possibile».

Crede alla versione di un Berlusconi sedotto dalla promessa di essere eletto presidente del Senato?

«Non lo so. Mi chiedo come abbiano potuto togliere al nostro Paese la guida più autorevole che abbia mai avuto, in un momento drammatico e senza consultare nessuno di noi tre ministri. Una scelta che ha reso Forza Italia irriconoscibile ai miei occhi, e impossibile la mia permanenza. Con qualche altro mese di lavoro avremmo avuto risultati eccezionali, acquisito i 23 miliardi del Pnrr di dicembre e messo in sicurezza la tranche di giugno 2023».

I fondi Ue sono a rischio?

«Spero di no, ma è chiaro che tutto è rallentato. E di mezzo c’è la legge di Bilancio, che ovviamente partirà in gravissimo ritardo. Poi bisogna vedere che atteggiamento avrà l’Ue in ragione della credibilità del prossimo governo, qualunque esso sia».

Se Draghi fosse stato eletto al Quirinale, lei avrebbe potuto sostituirlo pro-tempore a Palazzo Chigi come ministro più anziano. Sicuro di non avere rimpianti?

« Sliding doors , è il destino. Mi dispiace che Draghi non abbia fatto il presidente della Repubblica, non certo per me, ma averlo avuto ancora premier in un momento tragico, allo scoppio della guerra, è stata una garanzia per tutti. È riuscito a contenere la paura collettiva gestendo al meglio le sanzioni alla Russia, il caro energia e i provvedimenti a favore di famiglie e imprese».

Ritiene possibile che Draghi resti, se non ci sarà una maggioranza certa?

«Se fosse così generoso io sarei felice. Quando ha accettato lo è stato e dopo i primi, fondamentali mesi di lavoro, è partito un camel trophy per difficoltà artificiali poste dai partiti».

Cosa pensa del video di Meloni per tranquillizzare l’Europa e la Casa Bianca?

«È l’unica che ha una posizione coerente. Ha fatto un’opposizione dura, ma anche seria e si candida a governare. Non ho pregiudizi verso di lei, ma passare dalla credibilità di Draghi a un altro governo, che dovrà dimostrare di essere affidabile, è in sé un problema per il Paese».

E se Meloni vincesse e la chiamasse al governo?

«Mica siamo in un film! Ma quando eravamo vicini di banco, durante il governo Berlusconi del 2008, parlavamo spesso. Ho un bel ricordo dei nostri colloqui, mi chiedeva consigli che io da professore davo ben volentieri. Glieli darei anche oggi, nello spirito repubblicano».

La convince il programma del centrodestra?

«È la prima volta che non scrivo il programma “azzurro”, logico che si sommino sofferenza e ricordi. Anche perché i 15 punti sono in continuità con il passato. Ma io ho creduto nel progetto di unità nazionale rappresentato da questo esecutivo. Fino alla fine continuerò a impegnarmi per attuare il Pnrr e mettere il Paese in sicurezza dal punto di vista sanitario, sociale ed economico».

E se all’Economia andasse Tremonti?

«Temo che passare dal pragmatismo di Draghi a un altro governo sia uno choc, un costo per il Paese. Soprattutto se la nuova maggioranza si allontanerà dai valori dell’europeismo e dell’atlantismo».

Berlusconi vuole «sfrattare» Mattarella?

«Come non ho mai amato le strumentalizzazioni contro di me, non le amo sugli altri. Forse Berlusconi è stato male interpretato, anche se ha usato un’espressione troppo forte e io non sono cambiato, la riforma costituzionale per l’elezione diretta del capo dello Stato la voterei».

Perché non è entrato nel partito di Calenda?

«Vale per tutti. Per fare un percorso insieme doveva scattare una convergenza di interesse e stili. Con un sorriso mi dico che forse sono ingombrante. Sono un vecchio socialista liberale di 72 anni con molta storia alle spalle. Io non mi muovo, resto dove sono. È il partito che si è spostato».

La compagna di Berlusconi l’ha molto offesa con una allusione alla sua statura. In questi anni si è sentito più odiato che amato?

«Sono stato odiato dai no vax, ma sono orgoglioso per tutte le decisioni prese per la salute degli italiani in pandemia. Per il resto, solo oggi ho ricevuto centinaia di messaggi veri, non semplici like, tutti straordinariamente positivi».

Gli impiegati non le perdonano di averli bollati come fannulloni.

«Accadeva 15 anni fa. Interpretando il pensiero degli italiani mi riferivo a quella esigua minoranza che penalizza il lavoro della stragrande maggioranza di dipendenti pubblici che fanno il loro dovere. Oggi io sono quello che ha rinnovato tutti i contratti senza un’ora di sciopero e che, appena tornato a Palazzo Vidoni, ha voluto siglare un patto con i sindacati per le riforme e la coesione sociale».

Che farà, adesso?

«Rimango a disposizione per servire ancora il mio Paese, con le idee e le energie di sempre. Mi occuperò di più di Venezia e della mia famiglia, i grandi amori della mia vita».

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 5 settembre 2022.

Renato Brunetta quando lo guardi sembra sempre ce l'abbia con te, anche quando sorride. E di fatto Brunetta non sorride mai. Gli altezzosi, ghignano. 

Un ghigno capace di aprire conflitti, iroso, del tutto privo di autoironia, permaloso come un Recalcati, pignolo come una Gruber, sempre disponibilissimo a farsi un selfie coi «Brunetta lovers» ma incapace di innamorarsi di qualcuno che non sia se stesso e campione assoluto di rissa verbale (c'è soltanto una cosa che gli piace più di litigare: avere ragione), Brunetta bagolo, pagiòla e papusse - ama tre cose. 

La prima è Venezia. Ricambiato: due volte candidato sindaco, due volte bocciato. È nei Registri della Serenissima, anno 2010, seconda corsa alla poltrona di sindaco mentre è già ministro per la Pubblica amministrazione, quella volta che percorrendo la roadshow dalla Stazione di Santa Lucia a piazza San Marco distribuendo strette di mano e santini, viene fermato da un vecchio veneziano che lo saluta: «Onorevole, mi ghe dago il voto, e con mi ghe se tuta la me famegia: semo in sie. Ma me scusa tanto: come xe che pol far insieme el sindaco e ministro?».

Risposta di Brunetta: «Ma non rompermi i coglioni!». Come perdere sei voti in un colpo. Diceva di lui Gianni De Michelis, del quale Renatino era ai tempi il portaborse: «Brunetta è intelligente, ma deve stare in seconda fila. Se lo mandi avanti, antipatico com' è, fa danni». 

La seconda cosa che ama di più - la vera passione - è la politica, cui è fedelissimo da quarant' anni, quando era consigliere economico nei governi Craxi I, Craxi II, Amato I, Adorato II, Idolatrato III, Venerato IV: il socialismo non si professa, si divinizza. Come il potere. 

E la terza sono i dipendenti pubblici, che ama così tanto, ma così tanto, che vorrebbe passare tutto il giorno con loro. Per sorvegliarli meglio. «Fannulloni! » «Tornate a lavorare!». «Imboscati di m*rda!». «Vi riformo dalla testa ai piedi!».

Testa brillante e piedi per terra, Renato Brunetta è sì intelligentissimo. Ma non gli basta.

Lui vuole essere un genio. È noto a tutti, tranne agli accademici di Stoccolma, la volta in cui, ospite da Enrico Mentana, con un coraggio che in una scala da uno a La7 vale dieci, e con il suo proverbiale senso della misura, confessò che da giovane puntava al Nobel per l'Economia. «Ma Lei sta scherzando, vero?». 

 «No, affatto: perché?». Ma poi, si sa, Brunetta optò per una più rassicurante carriera precaria. Quale è, appunto, la politica. 

Precario come deputato per tre legislature, due da europarlamentare, tre anni da Ministro per l'Innovazione, per due volte Ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta è un fautore assoluto dell'efficienza. Il suo sogno è aumentare la produttività del 50 per cento. «Bisogna raddoppiare tutto!».

 Tipo: fare il ministro in due governi diversi. Brunetta è talmente produttivo che nessuno come lui ha fatto fruttare così tanto la propria carriera politica. Svariate poltrone, innumerevoli incarichi, infinite deleghe e 72 anni d'età, è il ministro in carica più anziano, tanto che se Mario Draghi fosse diventato Presidente della Repubblica è andata male, peccato... - Brunetta in quanto decano del Governo sarebbe diventato premier ad interim.

Che non è veneziano, e in italiano significa: «Il più a lungo possibile». Abondansa e arogansa xè tuta na pietansa. 

Ora Brunetta, finita l'abbuffata politica, dopo l'addio a Forza Italia ha deciso di non candidarsi più (ma poi: con chi?). E ieri, a Cernobbio, la sua ultima volta sul palco del Forum Ambrosetti, si è anche commosso. Tornerà a insegnare. Da precario della politica al posto fisso di Professore. Una rivoluzione dalla sera alla mattina.

Serioso più che serale, mattinale più che mattiniero, Brunetta, da figlio di un venditore ambulante di gondoete e suvenir, bancarella in lista di Spagna sognando l'America, ultimo di tre fratelli, fiòlo della Venezia popolare, dai marciapiedi di Cannaregio a Piazza di Montecitorio, fin da piccolo ha imparato il valore del sacrificio, l'ansia di riscatto, la sacralità del lavoro e soprattutto l'ingiustizia di un mondo diviso fra i ricchi e la brunetta dei Ricchi e poveri. A pensarci bene, il ministro perfetto per la Pubblica amministrazione. I lavoratori in smart working? «Imboscati!». 

I precari? «L'Italia peggiore!». Le élite? «Di merda». I poliziotti?

«Panzoni!». I registi? «Parassiti!».

I sindacalisti? «&*?#ù!».

«Ma a questo che dorme sul posto di lavoro gliela mandiamo o no una bella lettera di licenziamento?».

Parole che Renato Brunetta detesta: «Smart working». «Concertazione». «Giulio Tremonti».

«Salario minimo». «Spread».

«Reddito di cittadinanza». «Aumenti di stipendio». Ma soprattutto «Matteo Renzi», body shaming e granseola. 

Goloso di granchietti e anguelle, judoca (gli piace molto giocare) - primo dan, secondo vengono gli sgei - un amore per i classici e la storia romana sognandosi novello Cincinnato, tanto che per prepararsi all'abbandono dell'agone politico si è comprato una tenuta nell'Agro romano, borgo Capizucchi, Renato Brunetta (Lib-lab, tip tap e keynesiano dalla testa alla punta della cravatta) ha sempre creduto nell'economia, ambito purtroppo meno affidabile dell'aruspicina. Brunetta e quelli che la moneta unica ci renderà tutti più ricchi, la Brexit distruggerà la Gran Bretagna, il green pass preserverà l'economia, le sanzioni piegheranno la Russia... L'economia non è solo la scienza triste, è anche la più inesatta... E non si capisce, viste le troppe previsioni sbagliate degli economisti, se la cosa è più drammatica o più comica.

Comico nei momenti più drammatici e drammatico nei momenti quasi comici, di lui narra la leggenda che temporibus illis, era il 2008, dovendo Silvio Berlusconi nominare i ministri del suo nuovo governo, e avendo scelto per l'Economia l'acerrimo collega Giulio Tremonti - si era a Palazzo Grazioli - il delusissimo Renato si gettò istericamente a terra, scalciando e gridando: «Silvioooooo, se non mi fai ministro, non mi alzo da qui!». E non si alzò. 

Se non una volta avuta la nomina al dicastero dell'Innovazione. Un'appendice recita che, il giorno dopo, gli stessi che presenziarono all'atto di superbia assistettero a quello di umiltà, quando Brunetta si gettò ai piedi del Capo, piangendo: «Silvio perdonami! Ti pregoooo!!». 

Ateo, dichiarazioni spesso sopra le righe e un attivismo plateale, Renato Brunetta resta con tutti i tanti pregi e qualche difetto un italiano archetipico. Furbo, astuto, ossessionato dal potere - ora fedele al Cavaliere ora mansueto coi Draghi - e con un debole atavico e italico per il mattone. Villone con 14 vani catastali, giardino e piscina sulla via Ardeatina a Roma. Casale a Todi.

Villetta a picco sul mare di Ravello. Una casina nel parco delle Cinque Terre, residenza a Venezia a Dorsoduro. Da cui la celebre orazione: «L'Imu non si paga perché lo dico io che sono la maggioranza».

Ubi Di Maio minor cessat, l'aspetto più umano di Brunetta un cursus honorum accademico e politico da annichilire metà Parlamento, l'altra metà invece non sa il latino è l'invidiabile capacità di mantenere la testa fredda quando la situazione si fa calda e scegliere la frase esatta nel momento migliore. Solo uno statista come lui poteva dichiarare: «A Salvini e Meloni dico: smettetela con i giochetti da Prima Repubblica, il Paese ha bisogno di serietà». Che poi è il motivo per cui la politica fa così ridere.

Da “Il Giornale” il 6 settembre 2022.  

In riferimento all'articolo pubblicato ieri sul Giornale dal titolo «Renato Brunetta. Spread, gondoete e poltrone» a firma di Luigi Mascheroni, riceviamo e pubblichiamo da Renato Brunetta: Mio caro bravissimo, si fa per dire, professore a contratto di giornalismo & cultura alla facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Milano, anticipo che, da collega anziano a giovin docente, ti darò del tu. L'articolo che hai scritto su di me, deformando la mia persona, non sta né in cielo né in terra. È una carrellata di falsi, di banalità, di luoghi comuni. Di offese alla mia persona: il tutto degno di querela. 

Leggo dal tuo curriculum che sei caposervizio al Giornale e che insegni Teoria e tecniche dell'informazione culturale. Caspita! Ma la teoria e le tecniche di cui addottori i tuoi studenti nei vasti campi del tuo sapere prevedono l'uso del falso sistematico appiccicato alla reputazione altrui, credendo che il tono dell'ironia da oratorio autorizzi l'uso della menzogna e del chiacchiericcio calunnioso?

Dal servizietto che mi hai dedicato, in qualità di scotennatore dilettante del sottoscritto e delle basi linguistiche, direi proprio di sì. Comincio dall'offesa alla sintassi italica. Scrivi: «Gli altezzosi, ghignano». Virgola tra soggetto e verbo? Matita blu, mi avrebbe detto la maestra di terza elementare. Ma il capolavoro è il fuoco di artificio finale: mi attribuisci «un cursus honorem accademico e politici da annichilire metà del Parlamento». 

In prima media mi avevano insegnato che il genitivo plurale della terza declinazione prevederebbe di scrivere honorum, ma dev' esserci stata un'evoluzione tecnica del cursus honorem accademico. La questione grammaticale - come sosteneva Leonardo Sciascia - non è solo grammaticale: dice chi siamo, documenta di che etica siamo praticanti. La tua zoppica alquanto, lo dico da ateo (l'unica, o quasi, cosa vera che scrivi di me), non credente sì, sì rispettoso degli insegnamenti morali che l'Università Cattolica credo promuova anche nei corsi di giornalismo.

Hai peccato, figliolo. Mi sembra fosse San Filippo Neri che spiegava come fosse grave e irreparabile spargere notizie false sul prossimo. A una donna che si confessò da lui accusandosi di maldicenza, diede per penitenza di spiumare una gallina per strada. Quella tornò per ricevere l'assoluzione, e il Santo - così ha raccontato papa Bergoglio - le disse qualcosa tipo: prima raccogli tutte le penne e le piume. 

È cambiato qualcosa nella dottrina? Non credo, visto che l'aneddoto l'ho appreso da Papa Francesco. Più laicamente mi appoggio al principio popperiano di falsificabilità. Come sai si allarga dalla scienza alla vita comune degli uomini. Consiste nel dovere di fornire elementi che consentano di verificare se il pozzo da cui hai attinto l'informazione sia avvelenato oppure una raccolta di ciarpame. Il fatto è che hai rovesciato sulla mia testa notizie-immondizia. 

Esempio? Scrivi di quando fui candidato a sindaco di Venezia essendo già ministro: «... viene fermato da un vecchio veneziano che lo saluta: Onorevole, mi ghe dago il voto... Ma me scusa tanto: come xe che pol far insieme el sindaco e ministro?. Risposta di Brunetta: Ma non rompermi i coglioni!». Falso! Magari c'è una registrazione, un nome e cognome, una telecamera di sicurezza... Ancora: «Diceva di lui Gianni De Michelis...: Brunetta è intelligente, ma deve stare in seconda fila. Se lo mandi avanti, antipatico com' è, fa danni». Falso! Testimoni per favore...

Di nuovo e peggio. «A Palazzo Grazioli ... Renato si gettò istericamente a terra, scalciando e gridando: Silvioooooo, se non mi fai ministro, non mi alzo da qui!. E non si alzò. Se non una volta avuta la nomina al dicastero dell'Innovazione... il giorno dopo, gli stessi che presenziarono all'atto, si gettò ai piedi del Capo, piangendo: Silvio perdonami! Ti pregoooo!!». Falso! Chi erano i presenti all'atto? È vero che tu ti pari le terga, dicendo che è una «leggenda». 

Trucco puerile e piuttosto vile per dirottare la propria responsabilità sui soliti ignoti. Ma è utilissima per colorire con il ridicolo la mia damnatio. Perché? Altre bugie sono sparse qua e là. Mi dilungherei troppo a ramazzarle tutte per farne un falò della tua vanità. Una cosa però devo dirla, mi disturba più di tutto, e dimostra che «guarda che non sono io» (Francesco De Gregori) quello di cui tu parli. Scrivi a mio riguardo: «Incapace di innamorarsi di qualcuno che non sia se stesso». Ma come ti permetti di entrare nei miei sentimenti?

Offendi la verità, e trascuri un fatto: ho una moglie meravigliosa, innamorato sempre. Ma «tu che ne sai» (Gigi D'Alessio)? 

PS. Caro direttore, caro Minzo, perché? Perché tanta ferocia, tanto livore, tanta stupidità contro di me, già editorialista del tuo/nostro Giornale? A chi giova tutto questo, proprio nel momento in cui lascio, con onore e dignità, la politica? 

Risposta di Luigi Mascheroni: Gentile Renato Brunetta, al netto del refuso honorem corretto in honorum già alle 10 del mattino nella versione online dell'articolo, il mio intento non era scrivere una voce biografica di Wikipedia, ma un ritratto inedito e ironico che alla fine - come dimostra la Sua risposta - risulta molto somigliante, a partire dalla permalosità. Tutto qui. E le regole grammaticali sono fatte per essere infrante, quando il risultato finale è più efficace del rispetto della norma.

Risposta di Augusto Minzolini: Caro Renato, non c'è nessun livore, né tanto meno ferocia. Si è trattato solo di un esercizio di ironia verso una persona come te che fa di tutto per apparire antipatica ma che suscita anche tanta simpatia. Specie in un momento in cui hai avuto il coraggio - ti va riconosciuto - di prendere una decisione importante come quella di lasciare, dopo tanti anni, la politica. Ci mancheranno anche queste tue lettere puntute, certi che non riporrai nel cassetto la tua matita blu.

Dal “Corriere della Sera” il 7 Settembre 2022.

Il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, risponde all'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti sulla lettera inviata al governo italiano nel 2011 dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet e dal presidente designato Mario Draghi affermando di non essere l'estensore della missiva ma di avere responsabilmente informato l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

«Oggi, in un'intervista al Corriere della Sera , il professor Giulio Tremonti si ostina a riproporre una ricostruzione falsa e arbitraria dell'origine della lettera che il 5 agosto 2011 l'allora presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, e l'allora presidente designato, Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, inviarono al governo italiano guidato da Silvio Berlusconi». Così il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta in una nota diffusa per correggere la versione del suo ex collega. 

«Un puntuale, mai smentito, resoconto della vicenda è contenuto nel mio libro "Berlusconi deve cadere" (maggio 2014). Non sono stato l'estensore della lettera, come sostiene Tremonti, allora ministro dell'Economia e delle Finanze. Sono stato, invece, a differenza sua, il ministro che il 4 agosto 2011 venne a conoscenza dell'esistenza della missiva, nata a Francoforte, e che informò prontamente e responsabilmente il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, alla presenza del sottosegretario Gianni Letta. Ogni altra versione dei fatti è priva di fondamento», conclude il ministro da poco uscito da Forza Italia.

Lagnosi di tutto il mondo, sdoganatevi! La suscettibilità di Brunetta, il corpo di Calenda e il vittimismo social militante. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Luglio 2022.

Va ancora di moda sentirsi discriminati per qualsiasi cosa, ma arriverà il momento in cui cresceremo e smetteremo di pensare che i peli delle nostre ascelle, la nostra altezza o la forma fisica siano il centro del mondo

«Calenda assomiglia troppo ai pinguini del Madagascar. Sarà bodyshaming? Io non voglio fare bodyshaming a Calenda, però cazzo, è veramente uguale». Federica Cacciola è un’autrice comica, ieri su Instagram ha pubblicato un video sui dilemmi dell’elettrice di sinistra che non sa chi votare. Chissà se l’ha registrato prima o dopo la visione di Mezz’ora in più.

Domenica, al programma di Lucia Annunziata su Rai3 (le crisi di governo sono ottime per aggiungere puntate ai contratti dei talk-show), era ospite Renato Brunetta. Che, come tutti gli ambiziosi di questo tempo sbandato, mica vuol essere Giulio Andreotti: vuol essere Giorgia Soleri.

Giorgia Soleri è una ragazza senza particolari qualità che si è ritrovata protagonista delle homepage dei giornali italiani grazie a un combinato disposto che andrebbe studiato nelle facoltà di comunicazione.

Approfittando della visibilità che aveva come apparente fidanzata d’un cantante per adolescenti (Damiano dei Måneskin), Soleri: ha pubblicato un libro di poesie (vuoi negare il ruolo di nuova Patrizia Cavalli a una che non sa come sia strutturato un sonetto ma ha 660mila follower? Gli editori devono pur campare, e Soleri le poesie te le fa andare in classifica); è diventata testimonial su Instagram di capi d’acrilico di varie marche; si è posizionata come vittima multidisciplinare, che viene discriminata (non si sa da chi) perché non si depila le ascelle, e con cui un reparto ospedaliero fu cafone quando abortì (per le altre patologie si sa che negli ospedali son tutti amabilissimi), e che infine ha inventato l’endometriosi.

Prima di lei non era mai stata diagnosticata a nessuno, prima di lei il mondo ignorava che fosse una patologia da bestemmie plurime, prima di lei il Parlamento non se ne occupava. È tutto un complesso di occhi di bue, intesi come riflettori da cui ognuna vuol essere illuminata. La starlette che si posiziona come testimonial dell’endometriosi, la deputata che la riceve in Parlamento come se davvero fino a quel momento lo Stato avesse ignorato quella patologia (che era persino nella lista di fragilità con le quali vaccinarsi in anticipo), i giornali che sanno che i titoli che sanno di lagna saranno i più cliccati e che quel che le ventenni d’oggi vogliono sentirsi dire non è «siete fortunate, ai miei tempi se avevi l’endometriosi la diagnosi era “quante storie”», bensì «siete le più sfortunate le più vittime le più vessate della storia dell’umanità».

Ho un’amica che ogni mattina mi manda una foto di qualche sito di giornale italiano per il quale ancora una volta Soleri è una notizia. L’altroieri era «ho tentato il suicidio», e abbiamo convenuto fosse insuperabile: d’ora in poi come avrebbe fatto a diventare titolo? Siamo state ottimiste, ieri era già di nuovo titolo con un più innocuo «perché non mi depilo». Un’ascella, un suicidio: tutto fa brodo di clic.

E quindi, in un mondo in cui solo il vittimismo genera facile consenso, Brunetta domenica va dalla Annunziata – la quale, come tutti quelli che non vogliono essere Giorgia Soleri, vuol essere Barbara D’Urso – e spiega a lei e a noi tutti quanto lo faccia soffrire che Marta Fascina gli abbia dato del tappo. Non: ammazza che ficcante dialettica ha la Fascina, si vede che Hegel l’ha studiato al Bagaglino. Non: rompete tanto i coglioni con la Zan e poi quando uno è avversario politico vale tutto. No.

Renato Brunetta, 72 anni, decide di metter su l’occhio lucido e, mentre Lucia D’Urso Annunziata lo esorta a togliersi questo peso dal cuore, confessa quanto lo feriscano i commenti sulla sua altezza, ma ora ha deciso di appropriarsene (lui dice «sdoganare», perché ormai non ce n’è uno che non parli in frasifattese) e di darsi del tappo da solo, e quindi grazie Marta, che mi hai fatto venir voglia di darmi del tappo prima che me lo diano gli altri, che magnifica storia di empowerment (Brunetta non dice «empowerment», perché c’è un limite anche al frasifattese).

L’altro giorno il portiere isterico d’un condominio nel cui cortile m’ero fermata a rispondere al telefono, mentre gli dicevo che me ne stavo già andando senza che me lo dicesse e di non farsi venire crisi isteriche che fanno male alla salute, ha fatto un gesto che percorreva le mie frolle carni e ha detto una cosa tipo: muore prima lei, visto com’è ridotta. Se avessi avuto ventisei anni, l’età della Soleri, questo commento mi avrebbe ferita, invece di farmi pensare «eh, lo dice sempre anche il cardiologo»?

Forse sì, ma ci dev’essere pure un’età in cui diventi adulto e pensi che se qualcuno è dialetticamente così scarso da doverti dire «brutta cicciona» il problema è suo e non tuo, e invece di offenderti ti vien voglia di dargli un buffetto. Ci dev’essere un’età in cui ti fa ridere l’idea di somigliare più a un pinguino del Madagascar che ad Alain Delon periodo Gattopardo. Ci dev’essere un momento in cui cresciamo e smettiamo di pensare che i peli delle nostre ascelle siano il centro del mondo.

Se il video la Cacciola l’avesse fatto l’altroieri, avrei pensato: ah, vedi, venire presi per il culo per il proprio aspetto è diventato privilegio dei maschi, di una donna non direbbe mai che ha il culone, altrimenti la seppellirebbero di «solo alle donne, puntesclamativo». Poi è arrivato Brunetta, e ora è solo questione di tempo. Entro la fine della campagna elettorale, Renzi frignerà perché qualche vignettista l’ha ritratto coi nei, Calenda farà un comizio al bioparco e con l’occhio lucido confermerà la sua stima ai pinguini usati per irriderlo, e Gasparri chiederà una bandierina del pride che rappresenti l’identitarismo strabico. Invece di far passare la suscettibilità alle femmine, l’abbiamo contagiata ai maschi. Brunetta direbbe: l’abbiamo sdoganata.

Da lastampa.it del 28 maggio 2009 il 26 luglio 2022.

La sicurezza non si garantisce mandando in strada quei poliziotti che sono negli uffici, perchè tra loro si annidano decine di «panzoni e burocrati», dice il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta. Una frase che provoca reazioni indignate degli agenti, con i quali poi il ministro si scusa. 

Ma quello di Brunetta è un affondo a tutto campo: attacca gli impiegati pubblici, che dovrebbero «lavorare tutta la giornata» e «presentarsi in ufficio rigorosamente in giacca e cravatta, anche il venerdì», perchè «quando si ha a che fare con il pubblico si hanno doveri maggiori rispetto al privato»; annuncia che secondo lui il ministero delle Finanze andrebbe spostato a Milano; propone di sciogliere l’Antimafia: «La mafia è una forma di criminalità che deve essere perseguita come tutte le altre» altrimenti si rischia di farne «un’ideologia che, come tale, produce professionisti dell’antimafia». 

È però l’affondo sui poliziotti-panzoni quello che scatena le polemiche più dure. «Come non posso concordare sul fatto che bisogna mandare i poliziotti per le strade a garantire la sicurezza?» premette il ministro, che poi aggiunge: «Certamente non è così facile dire ’dalla scrivania alla strada; non si può mandare in strada il poliziotto panzone che non ha fatto altro che il passacarte, perchè lì se li mangiano».

Qualche ora dopo arrivano le scuse. «Non volevo offendere nessuno, la mia era solo una constatazione scherzosa» dice. E però poi ribadisce il concetto: «Chi per tanti anni ha fatto il burocrate dietro una scrivania, è difficile faccia il poliziotto alla Starsky e Hutch per la strada». Insomma, «non dovevo dire panzoni, ma dicendo panzoni tutti mi hanno capito, tranne gli ipocriti». 

Immediata la reazione dei sindacati di polizia. «La misura è colma - afferma il Siulp - qualcuno arresti Brunetta prima che sia troppo tardi». Per il Silp-Cgil quelle del ministro «o sono parole in libertà, oppure si vuole aprire una questione istituzionale con la polizia». Di parole «infondate e gravi» parlano i funzionari di polizia dell’Anfp e il Siap che sottolineano come gli «editti populistici mal si adattano ad un ministro della Repubblica».

Critiche anche dai sindacati vicini al centrodestra: il Sap accetta le scuse del ministro, ma aggiunge: «poliziotti e carabinieri italiani non sono nè panzoni nè passacarte ma svolgono indagini», mentre l’Ugl sottolinea che «va evitata ogni forma di denigrazione delle forze di polizia». Contro il titolare della Funzione Pubblica si schiera anche l’opposizione, con il Pd che parla di battute «offensive». 

«I poliziotti, dopo aver sopportato i tagli che il governo ha operato nei confronti delle forze di polizia - dice Marco Minniti - devono sopportare anche il ministro Brunetta, che invece di ringraziarli li sbeffeggia». «Brunetta ha perso l’occasione per tacere», sottolinea il presidente dei deputati dell’Udc Gianpiero D’Alia riferendosi anche alla proposta di scioglimento dell’Antimafia. A sdrammatizzare ci pensa Fiorello: «Messi? - ironizza lo showman parlando del fuoriclasse del Barcellona campione d’Europa - Messi è Brunetta, è come se ieri avesse segnato Brunetta», anche se in questo caso i «fannulloni sono quelli della difesa del Manchester».

Insulti a Brunetta: la sinistra si indigna ma il copyright è suo. Sono quasi vent’anni che Renato Brunetta è il bersaglio di ironia puerile, e in pochissimi tra i suoi vecchi “nemici” che ora si indignano hanno alzato il dito per difenderlo. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 26 luglio 2022.

Ma davvero a sinistra sono indignati per gli insulti rivolti a Renato Brunetta dalla sconosciuta deputata forzista Marta Fascina, attuale compagna di Silvio Berlusconi che lo ha paragonato a un nano? Con quale coraggio scendono in campo a difendere il ministro dal bodyshaming, arricciando il naso da marchesine e con sdegno neofita? Viene da chiedersi dov’erano quando lo stesso Brunetta veniva offeso quotidianamente dagli avversari politici, dai media progressisti, dai soliti satiri frustrati. Semplice: molti di loro stavano dall’altra parte della barricata, a coniare epiteti e lepidezze, a battersi il cinque a ogni battuta sulla statura del politico ormai ex Forza Italia.

«Energumeno tascabile» (copyright Massimo D’alema), «mini-ministro» (Furio Colombo), «una seggiola» (Dario Fo), «sua altezza» (Marco Travaglio) e via discorrendo. Sono quasi vent’anni che Renato Brunetta è il bersaglio di una ironia puerile e vigliacca e in pochissimi tra i suoi vecchi “nemici” hanno alzato il dito per difenderlo. Il leale sostegno a Mario Draghi e la sua uscita da Fi per entrare nell’orbita del centrosinistra ha però cambiato tutto. L’oggetto degli antichi sberleffi diventa magicamente una povera vittima, un alleato a cui offrire solidarietà, addirittura un «gigante» (sic). Quasi una rimozione freudiana se non fosse che l’improvvisa redenzione brunettiana è solo il frutto di un opportunismo fazioso. Sullo sfondo rimane il gusto staliniano della denigrazione (durante le grandi purghe degli anni 30 Kamenev e Zinov’ev erano raffigurati come maiali dalla stampa di regime). Che per decenni e sempre a causa della sua piccola statura, ha colpito proprio Silvio Berlusconi, con tutti i nomignoli del caso, lo «psiconano» (Beppe Grillo), «Al Tappone» (sempre Marco Travaglio, campione del mondo di insulto libero), e poi le freddure sulle scarpe rialzate, sule pedane, insomma tutto il campionario da Bagaglino della politica.

Sembra superfluo aggiungerlo ma anche Giorgia Meloni è stata ed è oggetto costante di bodyshaming, specie sui social dove imperversano meme che la paragonano a balene, squali, gorilla. Più fortunata Mara Carfagna che dopo alcune stagioni di terrificanti attacchi sessisti è stata riabilitata (come Brunetta) e oggi gode di grande stima tra gli avversari. L’elenco in realtà sarebbe lunghissimo, da Amintore Fanfani “nano maledetto”, al “gobbo” Giulio Andreotti, al «ciccione», al Giuliano Ferrara (la corpulenza come bassezza espansa e viziosamente rovesciata), agli “occhi storti” di Maurizio Gasparri. Stranamente, a destra non avviene lo stesso fenomeno. A parte qualche cafonata berlusconiana nei confronti di Rosi Bindi e qualche battuta di dubbio gusto buttata a caso non c’è traccia del sistematico bodyshaming con cui la sinistra alimenta la sua propaganda. Dalla superiorità antropologica a quella della razza il passo è breve. 

Marta Fascina? Ecco tutti gli insulti della sinistra a Renato Brunetta: ma solo ora...Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 27 luglio 2022

Ci sono persone che quando parlano pestano i piedi alla nostra anima, diceva Jules Renard. E, probabilmente, proprio alle anime illividite e acciaccate di Renard pensava l'altro giorno Renato Brunetta. Mentre - visibilmente commosso, davanti alle telecamere a Mezz' ora in più dell'Annunziata - raccontava delle ataviche accuse subite di "nanismo" culminate negli attacchi terribili alla sua statura da parte dell'assai inelegante fidanzatina di Silvio Berlusconi. La quale fidanzatina ha, tra l'altro, scomodato, distorcendola, una frase de Il giudice di De André (e questo è imperdonabile). «Da una vita violentato per la mia bassezza», il ministro ha subìto, indubitabilmente, la più volgare delle vigliaccate. Dal sorriso spezzato dell'uomo che ride di Victor Hugo alla gobba di Andreotti, dalla calvizie di Alfano alla vitiligine di Cossiga: il difetto fisico, il body shaming, è la forma più ignobile d'aggressione. E Brunetta - com' è giusto- è stato sommerso dagli attestati di solidarietà che sono fioccati nelle ultime 48 ore soprattutto da sinistra. L'offesa sul presunto difetto fisico, dal lato della tempistica, è scattata - guarda caso- nel momento in cui Brunetta, fedele alla linea Draghi, ha abbandonato la famiglia storica di Forza Italia.

PASSATO SPIAZZANTE

Tutto ok, tutto sacrosanto. Se non fosse che la memoria dei cronisti a volte incoccia in un passato spiazzante. Per ben ventotto anni Brunetta è stato offeso, vilipeso, verbalmente violentato appunto. A causa della statura, e proprio da quella sinistra che ora vibra di sdegno. Lo avevano chiamato "nano", "spanna montata", "energumeno tascabile" (copyright D'Alema). Fiorello lo sfotteva amabilmente, Crozza lo raffigurava piccino piccino dotato di paracadute per scendere dalla sedia. Ma Brunetta, che allora era antipatico (un po' lo era davvero) ed era di destra, be', poteva tranquillamente subire gli strali di una legittima goliardia. Beninteso. Gli insulti che all'improvviso escono dal radar dello sdegno, sono il frutto di un moralismo a gettone che non riguarda solo Brunetta. È accaduto a Giuliano Ferrara, e a Giovanni Toti, offesi per la loro corpulenza. Lo stesso Berlusconi, che ora tace sullo scivolone della sua Marta Fascina, subì attacchi sul proprio fisico da rabbrividire.

Grillo lo chiamava "psiconano" o "testa di catrame", Marco Travaglio "Al Tappone" (fantasiosa, quantomeno), i colleghi del Fatto Quotidiano "Cavalier Pompetta", in onore della protesi alla prostata manovrata, nei rapporti sessuali (dicevano) con maestria meccanica. E non c'era, ai tempi, quotidiano progressista che, almeno una volta, non avesse messo in rilievo le scarpe di Silvio rinforzate sul tacco. Anche allora l'indignazione progressista per il body shaming rimase nell'aere. In quel caso l'offesa al fisico si ridimensionò, al massimo, in battutella sgraziata. So' ragazzi. Eppure anche molte donne politiche di destra si sono risentite del linciaggio dal doppio binario. 

Prendete l'altra splendida dissidente berlusconiana, Mara Carfagna. La ministra, anche in virtù di un riconosciuto attivismo politico, oggi per il Pd possiede quasi l'allure di una Nilde Iotti dall'altra parte della barricata. Eppure. Eppure proprio di lei Sabina Guzzanti disse, in pubblica piazza: «Tu non puoi mettere alle Pari Opportunità una che sta là perché ti ha succhiato l'uccelllo!». La comica fu condannata a un risarcimento di 40mila euro, ma sul piano dell'immagine la cosa a sinistra finì nell'oblio. Sempre la Carfagna si beccò un «la signora ha usato il suo corpo per arrivare dove è arrivata» da Carla Corso, rappresentante delle lucciole, quando firmò un ddl che inaspriva le pene contro la prostituzione; e lì il Napolitano presidente si girò, ovviamente, dall'altra parte. Addirittura Luisella Costamagna in una memorabile puntata del suo talk show Robinson, insinuò che la carriera dell'attuale ministra potesse essere frutto di una liaison col Cavaliere; e lì la pronta Mara rigirò l'accusa evocando il gossip feroce che s' era avvitato su Luisella stessa e Michele Santoro. 

NESSUNO SDEGNO

Però, allora, nessuno parlamentare o intellettuale, a sinistra s' indignò pubblicamente. Nessuna femminista evocò la condanna al sessismo più sfrenato. Per non dire di Giorgia Meloni. Maria Luisa Angese scrisse su Sette della presidente di Fratelli d'Italia che «con quella faccia da ET sarebbe indicata per scrivere una fenomenologia dei buchi neri». E quando Lidia Ravera nel 2004 sull'Unità fece le seguenti notazioni fisiognomiche su Condoleeza Rice, segretaria di Stato Usa: «Con quelle sue guancette da impunita è la lìder maxima delle donne-scimmia». Asia Argento offese altrettanto. Idem Michela Murgia. Alla faccia della solidarietà femminile. Resta uno strano fenomeno quest' indignazione ad intermittenza... 

Brunetta a Raitre rivela le violenze verbali subite a causa dell'altezza. Ma, represso il suo fastidioso caratteraccio, sotto Draghi, il prof s'è dimostrato un ministro sorprendente...Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 26 luglio 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Quando il solitamente irrequieto Renato Brunetta venne rinominato, con un sussurro, del suo amico e autorevole collega Mario Draghi, ministro della Pubblica Amministrazione, qualcuno parlò di “provocazione”.  Nel ritorno fiero e vendicativo dell'economista –nato a Venezia, classe ’50, già capogruppo alla Camera-  nei gangli stessi dello Stato ci credevano solo pochi fedelissimi. Sembra passata una vita, da allora. Oggi Brunetta ha lasciato con grande coerenza Forza Italia; e pure si è beccato la fidanzatina del Berlusca, la Fascina, che con inelegante ferocia lo ha chiamato traditore citando Il giudice di DeAndrè ("Un nano è una carogna di sicuro /perché ha il cuore troppo vicio al buco a del culo") ; e davanti a Lucia annunziata a Mezz'ora in più su Raitre Brunetta ha rivelato il suo tormento da perenne body shaming. Renato, con lo sguardo affogato nelle lacrime ha ricordato tutte le volte che veniva bistrattato, offeso, violentato verbalmente per la sua statura. E, lì, mentre la telecamera indugiava sul suo volto carico di tristezza, be', ho capito lo scatto evolutivo dell'uomo e del politico.

I giudizi di merito su di Brunetta,prima, erano equamente distribuiti. C’è chi lo individuava come uno degli artefici di una rivoluzione liberale di stampo berlusconiano mai davvero accesasi; e chi, ritenendone la protervia una caratteristica invincibile, pensava che l’uomo dovesse ritirarsi a scrivere libri e a vendere modellini di gondola a piazza San Marco come da tradizione di famiglia. D’altronde, allora, osservando Brunetta che roteava l’indice al cielo, strizzava gli occhi, parlava, inveiva, polemizzava in col tono nevrotico delle commedie di Louis De Funes anni 60; be’, uno realizzava che indubbiamente  i politici simpatici fossero diversi. Brunetta si era autocandidato al Nobel per l’economia; faceva a pezzi i precari; ringhiava come un orsetto ghiottone verso chi non la pensava come lui; dava dei killer e mitragliava querele verso i giornalisti che ne rimarcavano le contraddizioni politiche e io ne so qualcosa. A Venezia, dopo si era candidato, con scarso successo, a sindaco lo chiamavano “Spanna Montata”. E ho detto tutto. Poi, però, è accaduto un evento innaturale, quasi magico. Brunetta, richiamato dal premier in quota Forza Italia (era, al di là del caratteraccio, uno dei migliori in circolazione), appena insediatosi nel ministero più vischioso d’Italia ha smesso di usare toni da Braveheart; ha cercato il dialogo articolato con i dipendenti; ha fiaccato i sindacati con la gentilezza; ha esaltato i sindaci (per esempio il Pd Nardella) “sul ridimensionamento della riforma della mobilità tra enti pubblici”.

E sul lavoro ha prodotto le dichiarazioni più di buonsenso che io abbia ascoltato negli ultimi anni: “Occorre intelligenza. Il blocco dei licenziamenti è stata cosa buona e giusta durante la pandemia ma non in un’economia di mercato. Ora siamo nella fase della transizione dobbiamo tutelare i lavoratori ma anche dare spazio alla crescita. Questo si fa con un grande patto come quello che fece Ciampi nel ’93 che possa mettere insieme prospettive, garanzie e crescita. Le risorse ci sono, sarebbe una follia in una prospettiva di questo genere avere conflitto. Per quel che riguarda il lavoro pubblico questo accordo per l’innovazione e la coesione l’ho già fatto. Questo è il momento di un grande accordo, il ministro Orlando e Draghi lo sanno benissimo. Siamo al boom economico e occupazionale, al netto di alcuni settori che erano in crisi già prima della pandemia”. E i dati gli hanno dato ragione.

In più, tomo tomo cacchio cacchio –nell’ambito di una strategia che trova terminale la sua nuova portavoce Manuela Perrone- il ministro ha bloccato i concorsoni campani in cui i partecipanti avrebbe voluto essere bizzarramente assunti senza prove e solo per titoli con palese violazione della Costituzione; e ha confezionato una riforma della PA basata sui titoli e sulla competenza, cosa rarissima per un comparto che vantava un personale in genere sottostaffato, anzianotto e poco competente. Tra l’altro, nell’assumere 24mila nuovi dipendenti pubblici per ottenere i fondi del Recovery europeo (“Avviso ai naviganti: no reform, no money”, afferma il ministro) Brunetta ha applicato criteri da azienda privata, com’è giusto: assunzioni a termine per ipertecnici anche attraverso Linkedin e colloqui; e stabilizzazione soltanto per i più meritevoli ossia coloro i quali riescano ad ottenere gli obbiettivi di risultato prestabiliti. Una modalità assai americana che ha lasciato di stucco i fancazzisti e i raccomandati. Certo, il metodo si deve ancora rodare.

Ma che la rivoluzione la stesse facendo Brunetta, trovando la forza, in un inedito silenzio zen; be’, spiazza e spazza via molti pregiudizi. La caduta di Draghi ha fatto franare tutto. Ma, insomma (lo dico da querelato dal Brunetta) , signor ministro. Chapeau per la coerenza e -come si dice- per il lavoro svolto...

Maurizio Giannattasio e Stefania Chiale Per Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.

«Sono concentrata sulla mia Regione. Aspetto un chiarimento dopodiché mi riterrò libera e indipendente di fare le mie scelte, come sempre». È un vero aut aut quello che Letizia Moratti lancia al centrodestra. Se non riceverà in tempi brevi una risposta chiara alla sua disponibilità a candidarsi come presidente della Lombardia, è pronta a salpare per altri lidi. 

Quale sia il porto dove attraccare, Moratti non lo dice e lascia aperte tutte le strade, sia quelle che portano a confermare la sua candidatura al di fuori del perimetro del centrodestra, sia quelle che portano in direzione della Capitale. A conferma della sua determinazione sottolinea che non crede agli «steccati ideologici» e a chi, su La7, le chiede se sente il centrodestra come la sua casa, risponde: «Mi sono sempre considerata al servizio dei cittadini, l'ho fatto sempre in maniera civica. Quindi il mio è un impegno civico». 

Impegno che da mesi è diventato un vero tour de force. Moratti sta lavorando alla sua lista civica senza pause. Incontri, cene, sondaggi. Quello commissionato a fine marzo e tenuto sottotraccia mette a confronto la sua candidatura con quella del suo «capo», il governatore leghista Attilio Fontana che a oggi ha ricevuto la benedizione di Salvini ma è in attesa di essere confermato da tutto il centrodestra come successore di se stesso. 

 Il risultato, ma va considerato che Fontana non era ancora stato prosciolto dall'inchiesta sui camici «perché il fatto non sussiste» e che ancora non c'è il candidato del centrosinistra, vedeva Moratti con la sua lista civica e il centrodestra al 59,2 per cento, mentre Fontana si sarebbe dovuto «accontentare» del 51,2. 

Tutti indicatori che hanno portato Moratti a spingere sull'acceleratore e a intensificare la sua marcia di avvicinamento. Lunedì sera ha incontrato a cena l'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, e gli ha chiesto di far parte della sua lista civica. «Mi sono riservato del tempo per riflettere - ha detto Albertini - sono convinto che la Moratti in prima istanza punta a essere il candidato del centrodestra, non l'antagonista. Serve che chi deve decidere lo faccia in fretta». 

Il clima da elezioni anticipate contagia anche la Lombardia. Pochi minuti prima, al Pirellone, era toccato al governatore Attilio Fontana dare fuoco alle polveri. «Sulla candidatura di Moratti bisogna cercare di capire un po' di cose. Intanto dove eventualmente intende candidarsi: ho letto nel centrodestra, nel centrosinistra, è intervenuto anche Letta per smentire una candidatura nel centro». In coda il veleno: «Se si sente a disagio, ci sono tante opportunità». Ogni riferimento all'endorsement di Carlo Calenda è puramente voluto. «Letizia Moratti sarebbe un'ottima candidata a fare il presidente della Regione», aveva detto il leader di Azione poche settimane fa.

Fatto sta che le parole dell'ex sindaco di Milano hanno creato non poche fibrillazioni all'interno del mondo leghista che ieri, in una riunione fiume in presenza del governatore e del coordinatore regionale del partito Fabrizio Cecchetti, ha riconfermato con forza che il loro candidato è Fontana e, qualora arrivasse il via libera di tutto il centrodestra e Moratti dovesse confermare la sua candidatura, «qualche riflessione andrà fatta». 

Traduzione: dimissioni da vicepresidente della Regione. Sempre ieri ha ripreso a circolare la voce delle dimissioni anticipate di Fontana per accorpare le elezioni regionali con le politiche. Un'ipotesi già smentita giorni fa sia da Fontana sia dai vertici del Carroccio perché, se è vero che metterebbe in difficoltà il centrosinistra ancora alla ricerca del candidato, dall'altra risulterebbe un'operazione quanto mai complessa e pericolosa, in primis perché tra le dimissioni e la ricandidatura di Fontana si aprirebbe un varco dove potrebbero infilarsi altre candidature, a partire da quella di Letizia Moratti. 

Alberto Giannoni per “il Giornale” il 27 luglio 2022.  

Un'imbarazzante contesa sulla candidatura. E strane fibrillazioni fra i partiti. Il bollettino politico regionale segnala acque molto agitate a Palazzo Lombardia. E qualcuno già immagina l'arrivo di un «paciere» di rango. 

Intanto, fra i postumi della crisi e le scaramucce della vigilia elettorale, sulla Regione più grande d'Italia continuano a scaricarsi forti tensioni. E se ogni giorno ha la sua pena, lunedì il governatore Attilio Fontana ha dovuto mettere mano alla giunta per sostituire il dimissionario assessore alla Casa Alessandro Mattinzoli - gelminiano fino in fondo - e ieri è stato costretto a far fronte all'offensiva della sua vice, Letizia Moratti, sempre più convinta di candidarsi a presidente, nelle Regionali che saranno celebrate fra 8 mesi circa.

Pare ormai tramontata l'ipotesi di un «election day», idea di un accorpamento fra voto regionale e politico che qualcuno accarezzava anche per evitare l'ingombrante ritorno in Regione di deputati e senatori che a settembre rischiano di essere bocciati. 

Ma durante l'incontro fra il gruppo leghista e il presidente, si è parlato anche del caso Moratti. La ex sindaco di Milano (ed ex ministro) è stata chiamata un anno e mezzo fa in Regione per raddrizzare una campagna vaccinale che sembrava partita male, ed è proseguita molto bene. Assessore alla Sanità, vicepresidente e - secondo i suoi - candidata alla presidenza nel 2023. Promessa o meno che fosse, questa candidatura per la Moratti esiste già. E ieri lo ha ribadito. 

«Ho dato la mia disponibilità al centrodestra e la riconfermo». Il problema è che lo stesso Fontana è candidato, per ora della Lega, ma se dovesse ricevere l'imprimatur dell'intera coalizione - hanno fatto sapere dal partito - «qualche riflessione andrà fatta». Moratti chiede «un chiarimento».

«Credo sia doveroso e urgente» ha avvertito ieri, e Fontana ha sbottato: «Se si sente a disagio - ha commentato alludendo alle dimissioni - ci sono tante opportunità...». Ma per qualcuno, fra le opzioni contemplate dalla vicepresidente, ci sarebbe anche una candidatura «con chi la sostiene». A meno che, per sbloccare lo stallo, non arrivi a sorpresa la discesa in campo di un «big» in grado di mettere d'accordo tutti. E qualcuno pensa al ministro leghista Giancarlo Giorgetti.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 27 luglio 2022.

In Regione Lombardia sta succedendo una cosa assai bizzarra, mai accaduta prima da quelle parti. C'è la vicepresidente Letizia Moratti, già presidente della Rai, ministro berlusconiano e sindaco di Milano, che ha dichiarato pubblicamente di voler fare le scarpe al suo attuale presidente Attilio Fontana, curriculum e blasone meno solenni ma strutturato e ben voluto dai lombardi.

A marzo si andrà a votare e donna Letizia - così viene chiamata a Milano - non ne vuole sapere di non partecipare alla competizione da candidata governatrice a costo di mettere su un suo partito - oggi fa molto chic - se il centrodestra non la sosterrà (cosa che spezzando il fronte consegnerebbe la Lombardia alla sinistra). 

Tra il serio e il faceto la questione è al centro dei pettegolezzi estivi milanesi e già qualcuno si immagina la sua campagna elettorale nelle valli bergamasche o nei paesini della bassa bresciana. Dove non arriva l'immaginazione arriva l'ironia e si scomoda persino Jules Verne: «Quanto a visitare la città, non ci pensava nemmeno, appartenendo a quella razza di persone che fanno visitare dal loro domestico i paesi che attraversano».

Attenzione, io detesto la teoria grillina "uno vale uno" - è fuori dubbio che Letizia Moratti valga più di uno - e sostengo che non chiunque ma l'élite debba governare i cittadini, non per censo bensì per capacità e preparazione. Ma questo non vuol dire che chiunque al mattino può svegliarsi e annunciare ai partiti che li hanno beneficiati: «Occhio raga, o me o fondo un partito e vi rovino». 

Abbiamo il partito di Renzi che ha rovinato il Pd, quello di Calenda che ha rovinato quello di Renzi, poi quello di Di Maio che ha ucciso i grillini, forse quello di Beppe Sala e un altro di Letizia Moratti che vuole uccidere Forza Italia magari alleato con quello della Gelmini a sua volta socia di quello di Toti e forse di quelli di Brunetta e della Carfagna.

Messi tutti insieme questi personal party ztl non ne fanno uno serio ma hanno spazi sui giornali e in tv manco fossero i vecchi Dc e Pci. Esistere sui giornali, soprattutto se porti certi nomi, è tutto sommato facile, nelle urne è altra cosa: nessuno di questi signori e signore, pur bravi che siano, sarebbero mai diventati quello che sono senza il sostegno dei grandi partiti. Oggi si sentono tutti dei novelli Draghi: «Me lo chiedono gli italiani». Saranno italiani molto riservati, dai sondaggi proprio non risulta.

Silvio Berlusconi addio, chi lascia Forza Italia alla Camera: altro colpo al cuore. Libero Quotidiano il 27 luglio 2022

Un altro addio doloroso per Silvio Berlusconi. A lasciare Forza Italia è la deputata Rossella Sessa, poche ore dopo il suo punto di riferimento politico Mara Carfagna. "Lascio con rammarico politico e sofferenza personale il Gruppo di Forza Italia: da oggi sarò nel Gruppo Misto - recita una nota ufficiale dell'onorevole -. E' una decisione meditata, che ritengo necessaria dopo la decisione di interrompere il sostegno al governo di salvezza nazionale guidato da Mario Draghi. Sarò sempre riconoscente a Silvio Berlusconi per le opportunità che mi ha dato, ma resto convinta che la crisi determinata dalle scelte del partito, e soprattutto dei suoi alleati, vada contro gli interessi del mondo moderato, delle imprese, dei cittadini del Mezzogiorno dove rischiano di interrompersi investimenti mai visti negli ultimi vent'anni, che avevano restituito una speranza a milioni di famiglie". 

Contemporaneamente, anche la Carfagna ha annunciato l'addio al gruppo parlamentare di Fi e il suo ingresso nel Misto "per senso di responsabilità verso i cittadini e le imprese che dal 20 luglio si fanno, ci fanno, una domanda semplice: perché, insieme con M5S e Lega, Fi ha staccato la spina al governo Draghi, mentre emergenze nazionali e internazionali mettono a dura prova le sicurezze dei cittadini e la resistenza delle democrazie occidentali". La ministra per il Sud, intervistata dalla Stampa (mentre per l'annuncio dell'addio al partito aveva scelto le pagine di Repubblica) sottolinea come "la revoca della fiducia al governo Draghi ha segnato una radicale inversione di marcia e una evidente sottomissione all'agenda della destra sovranista".

Lasciano il partito ma non le poltrone. Tajani: "I transfughi? Che si dimettano". Dopo Brunetta e Gelmini ecco Carfagna: e i tre restano ministri. Addio anche della campana Rossella Sessa che si trasferisce al Misto. Pier Francesco Borgia su Il Giornale il 27 Luglio 2022.

È un fenomeno ricorrente. A ogni fine legislatura c'è sempre un improvviso aumento dei parlamentari al gruppo Misto. Tra questi anche un nutrito drappello di azzurri. Dopo l'annuncio dello scioglimento della Camera per l'indisponibilità di Mario Draghi a guidare una maggioranza diversa da quella che aveva iniziato a sostenerlo nel marzo del 2021, questi parlamentari dichiarano di non aver gradito quella che a loro dire è una «deriva sovranista» di Forza Italia e un «appiattimento sulla politica del Carroccio».

Nel giorno in cui anche la ministra Mara Carfagna ufficializza il suo divorzio da Forza Italia, il coordinatore nazionale, Antonio Tajani, punta l'indice contro i transfughi. «Chi ha lasciato Forza Italia deve dimettersi dal Parlamento». Così Antonio Tajani intervenuto a The Breakfast club su Radio Capital. «E per prima cosa dovrebbero dimettersi dagli incarichi governativi - aggiunge il coordinatore azzurro -, perché non si è ministri in quota personale, lo si è perché si è stati eletti all'interno di un partito».

Il riferimento è per il gruppo di ministri che rappresentavano, nell'esecutivo, proprio il partito fondato da Silvio Berlusconi. Prima Renato Brunetta e Mariastella Gelmini. E per ultima la Carfagna. Tutti e tre hanno annunciato il loro dissenso con la linea del partito senza peraltro fare alcun gesto di discontinuità nella loro attività governativa.

Se quello della Gelmini è stato un addio covato e meditato a lungo, altri colleghi di partito hanno deciso di cambiare casacca negli ultimi giorni. L'ultima in ordine di tempo è stata la deputata Rossella Sessa. «Lascio con rammarico politico e sofferenza personale il gruppo di Forza Italia - spiega la parlamentare -. Decisione necessaria dopo il mancato sostegno al governo di salvezza nazionale. Sarò sempre riconoscente a Silvio Berlusconi per le opportunità che mi ha dato, ma resto convinta che la crisi determinata dalle scelte del partito, e soprattutto dei suoi alleati, vada contro gli interessi del mondo moderato».

Prima di lei avevano sbattuto la porta l'ex direttore del Resto del Carlino. Il senatore azzurro non aveva gradito la mancata fiducia sulla mozione presentata da Pierferdinando Casini (eletto nelle file del Pd) per chiedere all'aula di Palazzo Madama la fiducia per il governo guidato dall'ex presidente della Bce. A seguire anche Annalisa Baroni e l'ex campionessa paralimpica Giusy Versace.

I giornali, poi, hanno dato ampio rilievo al fatto che molti di loro fanno parte della cosiddetta «corrente» che fa capo alla ministra per gli Affari regionali, come appunto la Baroni e il consigliere regionale Alessandro Mattinzoli, che ricopre anche l'incarico di assessore alla Casa nella giunta lombarda guidata da Attilio Fontana. Anche lui entrerà nel gruppo Misto del Pirellone. Per le dimissioni dall'incarico in giunta, invece, ancora non si sa nulla.

L'unico a essersi dimessi è stato Elio Vito. Il parlamentare azzurro si è dimesso lo scorso 19 giugno alla vigilia del secondo turno delle amministrative in polemica con la scelta del partito di accettare alcuni apparentamenti per il ballottaggi. «Ho voluto dimostrare che si può continuare a fare politica essendo coerenti con le proprie idee e i propri valori - disse all'indomani della decisione -, evitando di cambiare casacca. Ho deciso di optare per le dimissioni e per l'accettazione immediata per dimostrare che non ci fosse alcun dietrismo. Naturalmente non perdo i miei diritti civili e politici, si può fare politica anche fuori dal Parlamento». Lo stesso Vito ieri ha avuto però parole di stima nei confronti dei colleghi. «Ministri e parlamentari che lasciano Forza Italia meritano rispetto non insulti - dice -, escono da una coalizione data vincente mentre sul carro del vincitore in genere si sale».

Carlotta De Leo su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.

Non solo in pedana, «anche in politica contano momento e modo in cui decidi di fare l’azione». Parola di Valentina Vezzali (l’atleta italiana più medagliata, con 6 ori olimpici e 16 ori mondiali) che tira un’altra stoccata e approda in Forza Italia. 

Dopo le voci di questi ultimi giorni su un suo imminente passaggio a FI, la sottosegretaria allo Sport (ex montiana) ha rotto gli indugi e ha annunciato la sua adesione partito di Silvio Berlusconi che «meglio interpreta i valori propri dello sport: lealtà, linearità, determinazione e passione» .

«Lo sport unisce e non divide. Forza Italia - afferma la Vezzali - si è sempre impegnata, con generosità, per affrontare questo difficile momento, segnato prima dalla pandemia e dopo dalla guerra in Ucraina. Infatti, con responsabilità, ha partecipato alla costruzione di un esecutivo di emergenza nazionale e adesso lavora per essere il pilastro moderato di un governo politico forte, in grado di rispondere ai bisogni di famiglie e imprese, messe a dura prova».

«Sono a disposizione - continua la Vezzali - di un partito che sa dare spazio alle donne e ai giovani, investendo risorse ed energie nelle pari opportunità, nella istruzione e nella formazione. Forza Italia sa declinare i principi del liberismo, dell’europeismo e dell’atlantismo e sono orgogliosa e pronta a contribuire con la mia esperienza sportiva, di esponente politico, di rappresentante delle istituzioni, ma soprattutto di madre e di donna».

Carlotta De Leo per il “Corriere della Sera” il 28 luglio 2022. 

«Dalla scherma ho imparato che devi agire nel momento giusto. E questo lo era». La sottosegretaria allo Sport, Valentina Vezzali, tira un'altra stoccata e approda in Forza Italia. L'atleta italiana più medagliata - 6 ori olimpici e ben 16 ori mondiali - si dice «contenta di entrare a far parte della famiglia moderata ed europeista di Forza Italia che interpreta al meglio i valori dello sport e offre spazio alle donne e ai giovani». 

L'ha convinta Berlusconi?

«Non ho ancora parlato con il presidente, ci vedremo a breve. Forza Italia non ha mai fatto mancare impegno e responsabilità. Ha partecipato alla costruzione di un esecutivo di emergenza nazionale che ha guidato il Paese nei momenti più delicati, prima il Covid e poi la guerra in Ucraina».

Però poi ha contribuito al terremoto politico che ha fatto cadere il governo Draghi...

«Non è stata Forza Italia a mettere fine all'esecutivo. Per gestire un governo di larghe intese è necessario che tutti restino uniti. Se qualcuno si sfila, in questo caso il Movimento 5 Stelle, vengono meno le condizioni per proseguire». 

Ha parlato con il premier?

«Non c'è stata l'occasione. Devo ringraziare Draghi per avermi dato l'opportunità di lavorare a sostegno del mondo dello sport. E per la battaglia sulla scuola che abbiamo condiviso: a settembre entreranno in servizio alle elementari i primi insegnanti di Scienze motorie. Per me questo vale come un oro».

La sua adesione arriva in un momento di addii pesanti a Forza Italia: Gelmini, Brunetta, Carfagna...

«Io faccio quello che penso sia giusto. E lo faccio pensando di poter mettere a disposizione la mia esperienza di sportiva, donna e mamma». 

Dove sarà candidata?

«Lo decideremo insieme, non è il momento di parlare di collegi o di ruoli. Quello che è importante è essere entrata nella squadra giusta. Giocando insieme possiamo migliorare l'Italia». Ormai sono dieci anni che ha lasciato la scherma per la politica. «Combatto sempre con la stessa determinazione. Mi sto impegnando per l'introduzione dello sport in Costituzione: a settembre dovrebbe arrivare l'ok definitivo della Camera. Niente male come traguardo».

Estratto dell’articolo di Charlotte Matteini per ilfattoquotidiano.it il 28 luglio 2022. 

La One Group Srl si sta occupando di questa ricerca di personale in seguito alla partecipazione a una manifestazione di interesse relativa alla sola fornitura di servizi per la controlleria: "Il Contratto applicato è Ugl Servizi, il servizio è in fase di ratifica da parte del Comitato Organizzatore". La Federnuoto invece va a caccia di volontari: "Esperienza appagante e opportunità di crescita, gli orari sono a norma di legge"

Da qualche giorno sui social e via WhatsApp sta girando incessantemente un’offerta di lavoro per la ricerca “urgente” di personale per la controlleria degli Europei di Nuoto 2022, che si svolgeranno a Roma dall’11 al 21 agosto, e i successivi Master dal 24 agosto al 4 settembre.

“Europei di nuoto urgente staff da agosto al 4 settembre”, si legge nel titolo dell’offerta per la ricerca di addetti al controllo delle entrate e che snocciola le disponibilità richieste e la paga oraria. 

La location di lavoro è il Foro Italico, le date da coprire vanno dall’8 di agosto fino al 4 di settembre e la paga ammonta a 5,70 euro netti all’ora. “Si richiede ampia disponibilità”, recita l’annuncio che mette in evidenza anche le possibilità di fasce orarie tra cui scegliere: “Dalle 6.00 alle 14.00, dalle 6:00 alle 16:00, dalle 14.00 alle 22.00, dalle 6.00 alle 22.00 e dalle 6.00 alle 19.00”.

“Chi è interessato mandarmi disponibilità con scritto nome e cognome, disponibilità per i giorni o totale e quale turno. Per la conferma del servizio vi contatteremo nei prossimi giorni fino al 31 luglio”, si legge nel testo dell’offerta pubblicata da un’utente a nome dell’azienda One Group.

[…] Per lo svolgimento degli Europei di Roma, la Federazione Italiana Nuoto ha ricevuto 5 milioni di euro di fondi stanziati con l’ultima legge di bilancio. Oltre a questi fondi, si aggiungono i soldi dei grandi sponsor, come Frecciarossa ed Enel, e il ricavato dei biglietti che verranno venduti.

“Pensiamo di raggiungere 100mila presenze di pubblico tra i vari impianti”, ha dichiarato Paolo Barelli, presidente di Federnuoto e capogruppo di Forza Italia alla Camera. Un giro d’affari non esattamente residuale che apre a una domanda: davvero non è possibile retribuire i volontari che sono così importanti per la buona riuscita dell’evento, considerando le cifre in ballo? Nulla di illegale, per carità, in tutti i grandi eventi vengono impiegati volontari, ma in un periodo storico in cui si parla così tanto di salario minimo l’interrogativo rimane aperto.

Carfagna e Brunetta, Mulè picchia durissimo: "La verità? Perché se ne sono andati". Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 28 luglio 2022

«È il momento dell'orgoglio dei moderati: noi sappiamo chi siamo e dove vogliamo andare mentre chi lascia cerca, meno prosaicamente, un seggio... Però, chi va via non può pensare di fare un furto di identità». Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia e sottosegretario alla Difesa, nel giorno del vertice del centrodestra affronta tutte le questioni sul tappeto a cominciare dalle fughe dal partito di Silvio Berlusconi.

Onorevole Mulè, non vorrà relegare a normale dialettica la decisione di sbattere la porta a Forza Italia dei tre ministri e di altri parlamentari...

«Non ci penso affatto. Ma in questi addii vedo spesso molta miseria e pochissima nobiltà. I giornali, soprattutto se con una linea ben marcata, fanno il loro: enfatizzano, esaltano. Poi però arriva la telefonata di un suo collega non di primo pelo e mi chiede "ma questo che se n'è andato si chiama Barone o Baroni?" e tocca dirgli che prima di tutto è una donna... oppure "ma 'sto Caon mica l'ho mai visto al Senato" e devi spiegargli che sta alla Camera. Cose così...».

Sa bene che il peso di Brunetta, Gelmini non è quello dei peones.

«Durante l'esperienza del governo Draghi, i ministri io li ho sempre visti in video collegamento per discutere dei vari provvedimenti: non hanno mai sollevato un problema di linea politica o denunciato uno sbandamento. Mai e in nessuna occasione. Ora salgono su una scialuppa guidata da Caronte/Calenda che li traghetta verso la ex tanto odiata sinistra. Complimenti alla coerenza».

Mara Carfagna si è unita ufficialmente ai fuoriusciti. Vi ha accusato di sottomissione ai sovranisti. E ha detto: «Conosco l'Italia moderata, merita rispetto e non nuovi inganni». Ce l'ha con voi...

«Io che conosco le battaglie di Mara Carfagna sono curioso di vedere come concilierà, fra le altre cose, la sua guerra sull'utero in affitto con le proposte totalmente opposte della sinistra...».

Ammetterà che sul governatore Toti ha esagerato dandogli del "Di Battista un po' sovrappeso".

«Guardi, ho trovato veramente ridicola l'accusa di boby shaming, lanciata da chi si faceva orgogliosamente fotografare in accappatoio accanto a Silvio Berlusconi sul balcone della celebre struttura per dimagrire dove non era andato mica a fare esercizi spirituali... Detto ciò, restiamo in attesa ora, politicamente parlando, di sapere se intende buttarsi fra le braccia di chi lo ha sempre contestato».

Come se ne esce con la questione della leadership nel centrodestra?

«Con maturità, smettendo di prestare il fianco a chi prova a dividerci. Sono certo che dal vertice degli alleati arriverà una linea chiara e condivisa».

Da FdI ribadiscono: la regola del chi primo arriva indica il premier l'abbiamo accettata quando eravamo i più piccoli. Deve valere lo stesso anche adesso...

«Capisco l'argomentazione, ma sono certo che già domani non se ne parlerà più».

Ma lei accetterebbe Giorgia Meloni come premier?

«Sta scherzando? Ovviamente sì. Chi non dovesse accettarla, a fronte di un'indicazione chiara degli elettori, assumerebbe un atteggiamento fascista contro di lei».

Crede a questo proposito che la candidatura del Cavaliere possa aiutarvi a risalire nei consensi?

«Il Presidente Berlusconi ha già iniziato la campagna elettorale. Nessuno meglio di lui sa parlare ai cittadini, ne conosce i bisogni e sa indicare le soluzioni. La pensione per le mamme a 1.000 euro è un esempio».

Facile a dirsi, mai soldi dove li trovate?

«I soldi ci sono: va riformato il reddito di cittadinanza in profondità facendolo diventare uno strumento solo per lenire la povertà. E poi va avviata una seria politica di risparmi sulla spesa pubblica che nessun governo è stato in grado di fare. Solo da questi interventi si recuperano almeno 30 miliardi di euro senza intaccare minimamente i servizi essenziali».

Il Pd intanto si è appropriato dell'agenda Draghi.

«Non stiamo giocando a rubamazzetto: Forza Italia ha le sue impronte digitali dal piano vaccinale fino alla ridefinizione del Pnrr. La differenza è che noi guardiamo avanti, a un'agenda di centrodestra ambiziosa, concreta e reale per rilanciare l'Italia dei prossimi vent' anni».

Da Letta a Calenda passando per gli ex azzurri. Dovrete vedervela con un centrosinistra extralarge...

«Già...in questo minestrone si mettono insieme - tra gli altri - il partito delle tasse per eccellenza, il Pd, con quello del falso liberalismo, Azione di Calenda e dintorni, che si batte per liberalizzare la droga. A questo proposito vedremo come Mariastella Gelmini, che sentenziò «nessuno sogni di liberalizzare gli spinelli», chiederà i voti accanto alla Bonino che ha appena battezzato la cannabis come una "battaglia degli eletti" del loro schieramento. Loro sono la coalizione delle tasse. Vogliono la patrimoniale. Quando respingemmo al mittente l'idea di Letta di introdurre una tassa sulla successione lui replicò che sarebbe diventato uno dei temi "principali" del Pd. Ecco, la differenza tra e noi e loro, è tutta qui».

Concetto Vecchio per repubblica.it il 29 luglio 2022.  

"Mi vuol fare parlare del centrodestra? E io le dico che provo rancore, perché non mi convince", risponde Giuliano Urbani, 85 anni, politologo liberale, ex ministro nei governi

Berlusconi, "un'esperienza a cui ormai guardo con malinconia".

"Mi asterrò. E non è bello, perché in questa fase del Paese bisognerebbe costruire, e ogni contributo, anche il voto di ognuno di noi, è utile". 

Cosa pensa di Meloni premier?

"Sarebbe debole, debolissima. Ma tra tutti gli attori in campo mi sembra quella con il programma più chiaro: ne apprezzo la franchezza". 

Non è sorprendente questo suo giudizio?

"Sì, è ai miei antipodi, ma è riconoscibile, si sa cos'è".

Su cosa?

"Sui migranti. È vero che l'Italia ha bisogno di immigrati, ma non di tutti. Servono figure qualificate. Siamo in condizione di operare questa selezione?" 

Però ha appena detto che sarebbe un premier debole.

"Sì, perché alla fine nemmeno lei sa spiegare in cosa consisterebbe la sua rivoluzione conservatrice".

Giuliano Ferrara dice che Meloni e Letta dovrebbero correre da soli.

"È una battuta. La campagna elettorale s'incattiverebbe ancora di più". 

Rino Formica vede rischi per la democrazia parlamentare.

"Io no. Per cambiare la Costituzione servono alleanze ampie, non le avranno, grazie al cielo".

Non teme che trasformeranno l'Italia nell'Ungheria?

"Nemmeno questo. Penso che Salvini e Berlusconi non glielo consentiranno".

Veramente Salvini è il più orbaniano di tutti.

"Sì, ma staranno dentro una coalizione con dei partiti di centro che non lo permetteranno". 

Lei si sarebbe tenuto Draghi?

"Assolutamente! Farlo cadere è stato un errore storico. Ora lo stesso Pnrr è a rischio".

Perché?

"Per portarlo avanti servono chiare competenze. Draghi le aveva, chi andrà al governo non credo". 

Il centrosinistra non la convince?

"Sta insieme solo in funzione anti-Meloni. È un poco per pensare di vincere le elezioni".

I moderati per chi voteranno?

"Si sparpaglieranno. Staranno un po' di qua un po' di là". 

Berlusconi spera di fare il presidente del Senato?

"Berlusconi è ancora convinto di essere forte, di arrivare prima della Meloni".

Dice sul serio?

"Lui ci proverà, è nella sua natura. Ma è una speranza fondata sul nulla. Forza Italia rappresenta il passato".

Brunetta, Gelmini e Carfagna, se ne sono andati.

"Hanno fatto bene. Hanno difeso fino all'ultimo con coraggio le ragioni originarie di Forza Italia". 

Come giudica Salvini?

"È un altro che coltiva velleità invece che disegni strategici. Andremo incontro ad altre delusioni".

Paolo Colonnello per “la Stampa” il 3 agosto 2022.

Milanese al punto di rimanere in città proprio nei giorni in cui tutti se ne vanno («è il momento migliore per godere Milano») l'ex sindaco Gabriele Albertini è forse l'interprete migliore degli umori del centrodestra milanese, di cui a buon diritto può considerarsi il Padre Nobile, anche se lui declina: «Mi considero al massimo una buona esperienza di governo che ancora dà i suoi frutti». 

E quindi dottore, come voteranno i milanesi di centrodestra?

«Non so se voteranno: come me si sentono in grave crisi, un po' traditi».

Capire Milano.

«Milano, facendo le debite proporzioni, è un po' come New York: molto curiosa, aperta, internazionale, europea, quindi tutti gli aspetti demagogici della propaganda, il populismo, il sensazionalismo, qui non sempre funzionano. Per dire: i 5Stelle avevano fatto il 10 per cento alle ultime elezioni e la Lega il 16 nel suo massimo splendore.

Adesso credo molto meno». 

Quindi?

«Si poteva votare Calenda ma dopo l'accordo col Pd…»

Cosa c'è che non va?

«Ma perché l'ha fatto? Secondo me è stata una stupidaggine, poteva far nascere un serio terzo polo aggregando anche Renzi e Toti, avrebbe avuto più appeal sottraendo davvero tanti voti al centrodestra. Invece così non si può più fare. Alleandosi col Pd non ha più un vero e proprio programma ma solo richieste che si sommano». 

Quindi, niente voti a Calenda?

«Non so. Ognuno agirà secondo coscienza ma io credo che a Milano ci sarà una grande astensione». 

Lei cosa voterà?

«Mi recherò alle urne ma poi nella cabina elettorale non so dove metterò la croce. Prima avevo Calenda come riferimento ma se si mette con un Fratoianni nella coalizione come faccio a votarlo?». 

Ma non basta che ci sia un buon programma?

«Con certe coalizioni finisce che i programmi diventano incoerenti. Vale per la destra come per la sinistra, intendiamoci. Io stesso avevo avuto indicazioni da persone autorevoli, di cui non posso fare nomi, di fare il capolista nel proporzionale in questo terzo polo nascente e non ero contrario a questo progetto politico. È accaduto subito dopo la caduta di Draghi. Avevo messo le mani avanti dicendo: prima mettetevi d'accordo e poi tornate a farmi l'offerta, solo che adesso quel riferimento politico, che doveva comprendere Renzi e Toti per la nascita di un vero centro, non c'è più». 

Cosa aveva votato l'ultima volta?

«Forza Italia, ma ora è così appiattita su posizioni in cui non mi riconosco, in questa vicinanza a Putin, in questo accordo con una coalizione che ha connotati demagogici e populisti tali da essere invotabile». 

Ma zio Silvio non piace più?

«Berlusconi era il collante moderato centrista del centrodestra, ma con la caduta di Draghi molti si sono sentiti traditi. È il terzo governo che Berlusconi fa cadere. Questa volta gli hanno fatto balenare la possibilità di diventare presidente di quel Senato da cui era stato fatto decadere. Certo, per lui una bella soddisfazione». 

Senta Albertini, alla borghesia piace anche Sala però.

«A me Beppe Sala piaceva molto durante il primo mandato, quando faceva il sindaco manager, invece in questo secondo mandato si è molto allontanato dalla sua linea civica». 

Sala-Di Maio le piace meno?

«Mah Sala si è trovato un'aggregazione cui riferirsi. Vede, non è che un primo cittadino non debba avere un'aggregazione di riferimento, ma quando sei un sindaco devi esserlo di tutti, devi governare la città. Certe venature verde talebano, certi ammiccamenti...Insomma, sembra quasi che Sala si stia cercando un posto per il "dopo", gliel'ho anche detto». 

E lui?

«Non gli è piaciuto, ha un ego piuttosto spiccato ed è un po' permaloso». 

Allora non rimane che la Moratti. Sebbene pure lei abbia le sue grane...

«Lei è stata chiamata in un momento in cui la Giunta regionale era scesa al 30 per centro del consenso. L'hanno chiamata dicendole, e nessuno lo ha masi smentito, che avrebbe fatto la presidente della Regione. Anche Fontana era d'accordo. Poi le cose si sono raddrizzate, Fontana è stato prosciolto, lei ha presentato la cambiale e gli altri le hanno risposto che non c'erano più le stesse condizioni. Si capisce che lei non sia contenta».

Ma la Meloni e Salvini non le piacciono?

«Il populismo è stato superato e archiviato. Perché abbiamo avuto due cosette mica da ridere: il Covid e la guerra in Ucraina. Le cose serie allontanano quelle irrazionali, quando ci sono di mezzo i morti, le chiacchiere da bar rimangono tali. Grillo, Salvini sono stati l'ammiccamento all'onnipotenza dei desideri, piuttosto che alla razionalità. Hanno connotati da demagoghi». 

E la Meloni?

«Ha lucrato tutto il dissenso possibile essendo l'unica all'opposizione. Ma certe prese di posizione su vaccini e mascherine non mi sono piaciute. È stata demagogica anche lei, triplicando i voti. Ma non basta avere tanto consenso: bisogna poi sapere cosa farsene».

In definitiva, che consiglio darebbe ai milanesi?

«Di andare comunque alle urne, di riflettere come faccio io e poi di scegliere secondo coscienza. La democrazia è troppo importante e non ci si può astenere, sennò poi si subiscono le scelte degli altri».

Quando Elio Vito era il bersaglio dei cronisti. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 20 luglio 2022.

Caro Aldo, ho appreso che di recente Elio Vito si è dimesso da deputato. Non conosco bene il suddetto deputato e non mi interessa a che schieramento politico appartenga. Si è dimesso non per motivi di salute o famigliari ma ideologici. Pietro Comastri

Caro Pietro, Quando nel 2001 Silvio Berlusconi vinse le elezioni, proposi all’allora direttore della Stampa, Marcello Sorgi, di fare una sorta di viaggio tra i nuovi potenti, i capi di Forza Italia, che si preparavano a governare per cinque anni. Un po’ tutti facevano a gara a spararle grosse, per compiacere il capo. Enrico La Loggia disse che si sarebbero contati gli anni a partire dall’avvento di Berlusconi, tipo Gesù. Pietro Lunardi, che aveva un’azienda di infrastrutture e fu messo alle Infrastrutture, sostenne che bisognava ritrovare «lo spirito degli antichi costruttori, tipo Cheope». Umberto Scapagnini sentenziò che Berlusconi era «tecnicamente quasi immortale». Il più scettico sul futuro mi parve Antonio Martino, liberale pessimista. Elio Vito era già allora una delle vittime preferite di noi giovani cronisti. Qualcuno lo chiamava «Elio Vitreo», per via dello sguardo. L’avevo seguito in campagna elettorale: l’avevano candidato nel Prenestino 23, il collegio di Francesco Rutelli, che era il candidato premier di centrosinistra e il sindaco di Roma uscente. «Li deve cacciare tutti!» gli gridava la gente, e lui: «Certo, cacceremo Rutelli e i comunisti». «Ma quale Rutelli, dovete cacciare gli zingari, i centri sociali, i negri!» gli urlavano. Lui, Vito, era radicale proprio come Rutelli, e a certi discorsi proprio non stava dietro. Tanto sapeva che sarebbe stato recuperato nella quota proporzionale. Fu un capogruppo di Forza Italia molto attento ai regolamenti, ai cavilli, alle presenze, ai meccanismi parlamentari, che sono molto complessi e molto importanti. Adesso, tanto tempo dopo, si è ripreso la sua libertà, che esercita volentieri sui social. È rimasto il radicale che era, affezionato ai diritti. Forse siamo stati troppo severi con lui, e l’abbiamo sottovalutato. Dopo Elio Vito, in Parlamento, è arrivato di molto peggio.

L'ex colonnello di Arcore che ora guida gli arcobaleno. Luigi Mascheroni il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

Già fedelissimo di Silvio, su Twitter attacca le mosse di Fi, partito con cui è stato in Parlamento per 8 legislature

Veni, vidi, Vito... Vito Elio Vito... Quis est iste? Gli amici di Forza Italia, che ha tradito per secondi, si erano persino dimenticati della sua esistenza, o al limite se lo ricordavano come uno fastidioso che continuava a parlare. Per niente. I vecchi amici radicali, che ha tradito per primi, invece se lo ricordano, eccome. Purtroppo.

Elio Vito è un lopez della politica, se non fosse per un momento di celebrità che gli regalò Silvio Berlusconi, il quale ha sempre manifestato una enorme generosità, spesso non ricambiata, verso i propri pasdaran. Fu quando, nel 2001, campagna elettorale contro il candidato premier dell'Ulivo Francesco Rutelli, Elio Vito veniva usato come sabotatore televisivo, da cui il soprannome «la Murena» per la ringhiosa combattività e la capacità di avvinghiarsi verbalmente agli avversari di Silvio senza lasciarli parlare. La sua tecnica propagandistica di rara antipatia mandava in bestia Michele Santoro, ma entusiasmava il Cavaliere. Il quale per un momento lo elesse a propria controfigura nei dibattiti in tv che preferiva evitare. «Vito, vai tu!». In napoletano si risponde: «'Un c'è prubblema».

Napoletano (sinonimo: «levantino», ossia «persona scaltra, astuta e spregiudicata»), famiglia di Fuorigrotta e dentro un'incontenibile brama di potere - 61 anni, di cui metà esatti passati a Montecitorio, una laurea in Sociologia con una tesi che poi gli è stata molto utile su «Come i media posso trattare in modo diverso lo stesso risultato elettorale», Elio Vito debutta in politica negli anni '80, quando è corrispondete da Napoli di Radio radicale e i compagni di partito devono dargli lezione di dizione per dirozzarlo da un dialetto eccessivamente stretto. È lo stesso Marco Pannella, eletto in consiglio comunale a Napoli nel 1987, che lo spinge a specializzarsi in codici, codicilli, procedure e ostruzionismi (da cui il suo motto: «Se non vuoi avere regole, le devi conoscere tutte»). Cosa che, quando sarà caposquadra del «genio guastatori» del Polo delle Libertà, gli guadagna l'affetto di Pinuccio Tatarella il quale, se voleva trarsi d'impaccio in una questione, chiudeva la questione con un: «Chiediamo a Elio!». La vita a volte sta in un cavillo... Poi, alle elezioni politiche del 1992 viene candidato alla Camera dei deputati con i Radicali ed eletto, circoscrizione Napoli-Caserta, con 576 preferenze. Un vero record. Le persone simpatiche si vedono dai piccoli numeri.

E anche quelle fedeli. Un anno, e Elio Vito è già in Forza Italia. Ce ne ha messi trenta per andarsene. E soltanto a quel punto - miracoli della politica italiana, che notoriamente è sangue e merda, ma per alcuni onorevoli di lungo corso vale solo la seconda - è diventato famoso. E come poteva essere altrimenti?

Dopo ben otto legislature, barricato dentro la Camera ininterrottamente per 340 mesi, ossia dal 26 gennaio 1994, c'era ancora la lira, al 19 giugno 2022, e immaginatevi la pensione in euro, facendo a tempo a ricoprire il ruolo di Capogruppo di Forza Italia dal 2001 al 2008 e quello di Ministro per i rapporti col Parlamento dal 2008 al 2011, Elio Vito, d'emblée, con quella prontezza di riflessi tipica dei bradipi e dei partenopei, decide di lasciare il partito perché ormai è diventato detto da lui «illiberale». Per la sua acutezza politica e lo sguardo sfuocato che gli viene dalle lenti a contatto, le carogne lo chiamano «Elio Vitreo». I suoi conoscenti napoletani, più elegantemente, «cap 'e cazz*» (Elio oggi peraltro si batte per i diritti del mondo LGBTQ+ e per l'asterisco contro l'uso del maschile sovraesteso...).

Comunque, una cosa bisogna concederla a Elio Vito. Sa fare ridere. È talmente simpatico, soprattutto ai suoi colleghi parlamentari, che non solo la Camera dei deputati ha approvato le sue dimissioni, cosa assai rara visto che nella storia della Repubblica, in nome del principio «cane non magia cane», e spesso neanche «'e zòccule», grazie all'opposizione della camera di appartenenza, alcuni parlamentari non sono riusciti a dimettersi. Ma le ha accolte al primo scrutinio. Alla fine a Elio Vito bisogna dire un grazie per le sue dimissioni da parlamentare. E due a tutti quelli che le hanno accettate.

Opportunista, senza remore, per trent'anni pretoriano di Arcore, uno al cui confronto Emilio Fede era inaffidabile, ultras azzurro, innamorato anche fisicamente di Berlusconi da cui la celebre canzone partenopea «Oje Vito, oje Vito mio/ Oje core 'e chistu core/ Silvio si stato 'o primmo ammore» oggi Elio Vito, cambiato cavallo e Cavaliere, è diventato la bandiera della Sinistra più bella e arcobaleno. È già capitato a tanti altri, che poi hanno fatto una brutta Fini. Da macchietta a eroe in men che non si Vito. Ghostwriter dell'immortale verso «Presidente siamo con te/ Menomale che Silvio c'è», oggi Elio - detto Volta&Gabbana Vito per i suoi gessati e la sua coerenza - si batte per il ddl Zan, il fine vita, lo Ius Scholae e la coltivazione domestica della cannabis, come una sardina qualsiasi. Del resto, «'O pesce fèta da 'a capa». A settembre scorso, per solidarietà col rettore Tomaso Montanari, si è persino iscritto al corso di Letteratura italiana all'Università per Stranieri di Siena. Essendo napoletano, in Toscana in effetti è un migrante.

Ormai Vito sta andando talmente a sinistra che fra poco, dopo il coming out e un giro di sirtaki con «Liberi e Uguali», farà la giravolta e si ritroverà con Giorgia Meloni, in fondo a destra. Sua moglie si è già portata avanti da tempo: lo ha lasciato e si è messa con Gianni Alemanno.

Molesto, puntuto e contestatario, famiglia di sinceri cattolici ma pronto a rifarsi una verginità politica, avvinghiato alla poltrona come una cozza agli scogli del litorale Flegreo, Elio Vito per trent'anni ci ha fracassato i rosari con la storia delle radici giudaico-cristiane dell'Europa. E l'altro giorno ha proposto di abolire il Concordato: «Occorre una discussione sui temi etici e di libertà degna di uno Stato laico, senza interferenze». Come disse Nell Kimball, autrice dell'immortale Memorie di una maîtresse: «Non c'è peggiore puttana di un ex catechista».

E poi c'è la storia di Twitter. Elio Vito, che ha scoperto i social da over 60, che è un po' come perdere la testa per una ventenne a cinquanta, è diventato una star dei social (con conseguente effetto-priapismo) grazie alle surreali posizioni contrarie al suo ex partito. Il suo ultimo tweet, ieri - «L'Italia democratica della Costituzione antifascista non può essere governata da Meloni, Berlusconi e Salvini» è puro dadaismo, se si pensa al curriculum di chi l'ha scritto. Da berlusconiano più berlusconiano di Berlusconi a clown dell'ultrasinistra antiberlusconiana in meno di 280 caratteri. La risposta migliore è nel nome scelto dal suo account-parodia. «Elio Vito ha smesso di rompere i coglioni?». Hashtag: #ElioInCercaDiPoltrona.

Intanto, per preparare il ritorno in Aula sarebbe la nona legislatura, meglio di lui solo Casini e Andreotti si è avvicinato alla corrente forzista del Pd, i cui esponenti più illustri sono Carfagna, Brunetta e Gelmini; con lui sono già in quattro. Possono giocare a scopa. Che non è molto, ma è qualcosa. «Ntiempo'e tempesta, ogne pertuso è puorte», come dicono a Napoli. «In tempi difficili anche il più piccolo appiglio è una salvezza».

Ti aspettiamo al Gay Pride, Elio.

(ANSA il 23 Luglio 2022) - E' polemica in Liguria tra il governatore Giovanni Toti e il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè di Forza Italia per il posizionamento in vista delle elezioni. Per Mulè, si legge in una intervista al Secolo XIX, c'è la possibilità che Toti possa fare un accordo con il centrosinistra: "Abbiamo perso il conto dei partiti che fonda Toti. Se fa un accordo con la sinistra viene meno l'appoggio del centrodestra". 

Il governatore ha replicato con un post: "4-4-2-1… non è la formazione di Oronzo Canà, sono gli ultimi risultati di Forza Italia alle elezioni regionali in Liguria, alle comunali di Genova, La Spezia e Savona. Con questi numeri capisco che l'onorevole Mulè abbia fretta di andare a votare! Giorgio, cercati un collegio vah… che per il contributo che hai dato ti abbiamo mantenuto abbastanza. E lascia tranquilli i liguri, che di guai gliene avete già combinati a sufficienza!".

(ANSA il 23 Luglio 2022) - "Per Giovanni Toti solo molta pena e nulla più". Lo scrive in una nota il senatore di Forza Italia Giorgio Mulè replicando alle critiche del governatore. "Il guaio di Giovanni Toti è che, poverino, vive da tempo di livore. Non avendo argomenti dispensa rancore a piene mani nei confronti di chiunque… sembra un Di Battista un po' sovrappeso. Si prova solo molta pena e nulla più".

(ANSA il 23 Luglio 2022) - "Ormai siamo arrivati al body shaming… Aspetto con ansia le prossime opinioni politiche dell'onorevole Mulè. Visto il livello, sono indeciso tra "Ciccio bomba cannoniere" e "Non mi hai fatto niente faccia di serpente". Ecco il suo programma segreto per vincere le elezioni…". Lo scrive su Twitter il presidente della Liguria e di Italia al Centro, Giovanni Toti in risposta a un tweet del sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè, in cui definisce Toti un "Di Battista un po' sovrappeso..".

(ANSA il 23 Luglio 2022) - "Non essendo in grado di elevarci alle altezze dialettiche dell'onorevole Mulè, ci limitiamo a osservare che anche le sciagure hanno il loro risvolto positivo: la caduta del governo, alla quale il partito di Mulè ha contribuito, farà in modo che in piena guerra il nostro ministero della Difesa non sia più presidiato da un sottosegretario che in politica 'combatte' utilizzando come arma l'amore altrui per la buona tavola. Che pena, che inconsistenza politica, che vita triste!".

E' quanto si legge in una nota di 'Italia al Centro' in cui si commenta la nota di Giorgio Mulè (Fi). "Avesse impiegato più tempo a dedicarsi al suo territorio piuttosto che a mantenersi in forma - si legge ancora -, forse l'onorevole Mulè non avrebbe bisogno di trasformare in insulto nei confronti del presidente Toti la sua comprensibile sindrome da panico elettorale. Ma ci sentiamo di rassicurarlo: con la bilancia non avrà problemi per parecchi anni a venire - conclude la nota di 'Italia al Centro' -, visto che se il metro di giudizio dei cittadini saranno il suo operato e i risultati del suo partito, dal 26 settembre avrà parecchio tempo per il jogging…".

(ANSA il 23 Luglio 2022) - "Giova'… il body shaming è cosa seria: non ti allargare (non è body shaming!). E vista la linea di Dibba, la tua (non fisica!) e quella di alcuni tuoi compagni confermo: parlate la stessa lingua. Biforcuta. Ooops: sarà body shaming anche questo? W la Liguria!". Con questo tweet il sottosegretario alla Difesa e deputato di Forza Italia risponde al governatore della Liguria Toti.

(ANSA il 23 Luglio 2022) "Questi soggetti litigano sempre per ragioni legate alla politica politicante. Si scaldano per questioni di potere, candidature, collegi. Sarebbe bello vederli arrabbiati per ingiustizie, disuguaglianze, problemi dei cittadini. Ma sono fatti così i professionisti della politica. Il bello è che per insultarsi usano il mio nome. Quanto mi piace stare sui coglioni a certa gente!". Così in un post Alessandro Di Battista interviene sulla polemica tra Mulè e Toti che lo chiama in causa.

Claudio Tito per repubblica.it il 23 luglio 2022

"Il nostro uomo in Italia è Antonio Tajani". È questa la scommessa dei Popolari europei. È sul coordinatore di Forza Italia che il Ppe, al momento il primo partito dell'Europarlamento, vuole puntare per le prossime elezioni italiane. E non solo come punto di riferimento. Ma come presidente del Consiglio. 

Il suo nome è iniziato a circolare dallo scorso primo giugno. Ossia dal Congresso del Partito Popolare europeo che si è svolto a Rotterdam. In quell'occasione è stato eletto alla presidenza il tedesco Manfred Weber. E Tajani è stato confermato vicepresidente. L'intesa tra i due è forte. Weber è ancora capogruppo nell'aula di Strasburgo. I due si fidano vicendevolmente. E soprattutto hanno interessi comuni.

Nel caso specifico, il Ppe sa che la coalizione di centrodestra può diventare un problema se guidata, anche da Palazzo Chigi, dalla leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, o dal leghista, Matteo Salvini. I popolari considerano il "lumbard" una sorta di "nemico". In particolare per i suoi rapporti con Mosca e con il partito di Putin. La linea antieuropeista del Carroccio è fumo negli occhi. Non è un caso che intorno ai leghisti persiste una sorta di cordone sanitario che a Bruxelles li esclude da qualsiasi circuito decisionale. 

Dell'esponente della destra, invece, non si fidano. Le sue radici post-fasciste non tranquillizzano i popolari che hanno già espulso di fatto l'ungherese Orban proprio per le sue visioni reazionarie. Hanno apprezzato la conversione atlantista e europeista. Ma guardano con diffidenza al gruppo dirigente di Fdi, ai legami con l'ultradestra in Italia e in Europa.

Manca poi ancora quel fattore fondamentale nei rapporti politici e diplomatici: la fiducia e la confidenza. Il ragionamento che viene fatto dai vertici popolari è allora questo: "Dopo aver perso la Germania, dobbiamo riconquistare il governo in almeno uno dei grandi paesi europei. Al voto andranno presto Italia e Spagna. Va bene l'alleanza con la destra e anche con i sovranisti. Purché poi la guida del governo sia moderata". E in Italia vuol dire che la soluzione migliore sarebbe appunto Tajani.

Tra il rappresentante italiano e Weber esiste un rapporto di reale confidenza. Il 3 maggio scorso, ad esempio, durante il dibattitto a Strasburgo con il presidente del consiglio italiano, Mario Draghi, il capogruppo tedesco ha citato sostanzialmente una sola persona: proprio Tajani. Sottolineando il lavoro svolto dall'"Amico italiano" come presidente del Parlamento europeo dal 2017 al 2019.

Ma c'è di più. L'intesa riguarda anche gli assetti di potere a Bruxelles. Sono stati loro due a condurre le trattative per eleggere Roberta Metsola nella battaglia per la successione a David Sassoli. "E' una nostra amica e un'amica dell'Italia", ripeteva Tajani in quei giorni. E anche in queste settimane sta emergendo un accordo tra loro due per nominare in autunno l'italiano Chiocchetti alla segreteria generale sempre del Parlamento europeo. Non si tratta di una casella secondaria. Il tedesco Klaus Welle, il segretario generale uscente, è stato potentissimo nell'ultimo decennio determinando vittorie e sconfitte nell'assemblea europea. Non si pensi che nell'Unione non si faccia attenzione a poltrone e incarichi. Anzi, sono l'indicatore più sincero dei rapporti di forza.

E l'intesa tra Tajani e Weber ha anche questo motivo. Al di là delle dichiarazioni formali, c'è un altro aspetto da considerare: il primo nemico di Weber a Bruxelles è un'alta esponente del Ppe, la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen. E' in corso da mesi un regolamento di conti tra i due "tedeschi". E per Weber avere eventualmente Tajani premier sarebbe l'arma migliore per candidarsi - se i popolari avranno un buon risultato alle elezioni europee del 2024 - al posto di Von Der Leyen o comunque rimuovere la sua "nemica" per promuovere Roberta Metsola.

In ogni caso il rappresentante italiano ha anche delle carte personali da giocare. E' stato presidente del Parlamento europeo, e per sei anni Commissario. Insomma a Bruxelles è accolto e soprattutto è considerato un europeista. E non un pericolo come lo sarebbe Salvini o Meloni. Come ripete Weber (che in Germania chiamano  "born Mep", ossia nato membro del Parlamento europeo), "Antonio è uno dei nostri".

Certo, la scelta ha già fatto scattare la discussione dentro il Ppe. Non sulla persona che, appunto, nei Palazzi di Bruxelles è comunque rassicurante. Quanto sull'alleanza con la destra sovranista. Alcuni, ad esempio i membri della componente austriaca, non sono per niente convinti che sia giusto "autorizzare" un patto con Lega e Fratelli d'Italia. 

Nemmeno con l'obiettivo di riconquistare spazi nell'Unione. Ma per il Ppe, ormai, è quasi una questione di vita o di morte. Nei prossimi due anni, prima delle urne, deve riguadagnare posizioni tra gli Stati membri. Per non correre il rischio di perdere la primazia dentro il Parlamento europeo e nelle principali istituzioni dell'Unione. Nella corsa alla premiership del centrodestra italiano, dunque, le puntate europee avranno un peso. E non da poco. 

E.LA. per “la Repubblica” il 23 luglio 2022 

«Non avremo subito un candidato premier comune», dice Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia. Che mette le mani avanti: «Sulle regole d'ingaggio nel centrodestra decideremo la prossima settimana. Ma a parer mio meglio prima vincere la partita e poi decidere chi deve alzare la coppa».

Hanno fatto molto discutere, suscitando anche la perplessità di Draghi e del Quirinale, le dichiarazioni di Berlusconi secondo cui è stato il premier alla fine a scegliere la crisi, forse perché stanco. Avete fatto tutto per salvare il governo?

«Il killer del governo non è il centrodestra ma il Pd, che ha inseguito fino all'ultimo il campo largo e l'ossessione di continuare la spartizione del potere con il M5S.

Noi avevamo chiesto che, essendo venuto meno il patto di governo, si andasse avanti con una nuova maggioranza senza i 5S e con un esecutivo rinnovato. Draghi, purtroppo, non ha voluto far votare la nostra risoluzione».

Non teme che l'esito della vicenda Draghi possa consegnare l'immagine di una Fi schiacciata su posizioni sovraniste o populiste?

«Forza Italia, che si colloca dentro il partito popolare europeo, ha una forte tradizione europeista e atlantista che nessuno può mettere in discussione» Oggi l'incontro fra Berlusconi e Meloni. Diamo per scontato l'accordo per un centrodestra unito?

«Credo proprio di sì». 

Come si risolve la questione della leadership? Il candidato premier sarà annunciato già prima della campagna elettorale? O sarà deciso dopo? E in questo caso si applicherà la regola che il partito con più voti esprime il presidente?

«Ogni partito, dentro la coalizione, correrà per sé, non avremo bisogno di annunciare subito un candidato premier comune. Esattamente come accadde nel 2018. Per quanto riguarda la scelta finale sul nome per Palazzo Chigi, se ne parlerà in un momento futuro. A cominciare dal vertice della prossima settimana. Io, personalmente, credo che prima occorra rafforzare la coalizione, dobbiamo giocare ancora la partita e vincerla. Poi si vedrà chi alzerà la coppa».

Meloni ritiene che in base ai sondaggi la scelta spetti a lei.

«Ripeto, ne parleremo. Certo, uno scenario è quello che vede un partito nettamente davanti agli alleati, come accaduto in passato. Un altro quello che presenta tre partiti non distanti. Bisognerà ragionare». 

Quanto crede che peserà, in termini di immagine e di voti, l'addio di figure storiche di Fi come Gelmini, Brunetta e, forse, Carfagna? Vede la possibilità che la ministra del Sud, ad esempio, possa essere la leader di un polo centrista?

«Il Centro è Forza Italia, non ne vedo altri possibili, non ne esistono al momento. E mi pare che i sondaggi ci stiano premiando. Mi faccia dire una cosa su chi va via: dovrebbe rinunciare alle cariche avute grazie a Fi».

Intanto Berlusconi è alla nona discesa in campo, stavolta con una svolta green. Dal milione di posti di lavoro al milione di alberi da piantare.

«Ma noi siamo sempre stati ambientalisti: non dimenticate che Berlusconi ha realizzato città a misura d'uomo. Ma essere ambientalisti non significa essere seguaci di Greta Thunberg. Forza Italia è fortemente impegnata su questo fronte, con la convinzione che bisogna conciliare la crescita, e quindi una politica industriale e agricola e il sostegno alle piccole e medie imprese, con la lotta al cambiamento climatico e la tutela dell'ambiente». 

Francesco Olivo per “la Stampa” il 23 luglio 2022

La vittoria, lo dicono i sondaggi, potrebbe essere vicina, e allora Giorgia Meloni diventa prudente: niente polemiche con gli alleati, messaggi rassicuranti all'estero e una condizione chiara: «Chi prende più voti andrà a Palazzo Chigi». 

Presidente Meloni, siete pronti?

«Io sono pronta, Fdi lo è. Non immaginavamo una campagna elettorale in agosto. Ma da tempo lavoriamo alla costruzione di un programma. A differenza della sinistra non ci dobbiamo inventare un'identità. Le nostre proposte si conoscono, si tratta di ribadirle».

Lei chiedeva da tempo di andare a votare. È soddisfatta?

«In una fase così delicata sarebbe stata meglio un'uscita ordinata dalla legislatura. La fine rocambolesca dà una brutta immagine. Le cose sono andate così e sono comunque contenta che gli italinani possano andare a votare». 

Lei, dall'opposizione, ha sempre avuto un buon rapporto con Draghi. Vi siete parlati?

«Non ancora. Ma ci sentiremo presto, il rapporto è sempre stato leale».

Come pensa sia uscito da questa vicenda?

«Non ho capito tutte le sue mosse. Era evidente che fosse stufo delle liti Prima si è dimesso, poi ha deciso di tornare indietro. Fin qui c'è una logica. Da quel punto in poi non mi è chiara la strategia: lui ha preso in considerazione l'ipotesi di andare avanti senza il M5S, ma allora perché nel discorso se l'è presa con un'altra parte della sua maggioranza? Non puoi pensare che arrivi in Aula, meni tutti e gli altri ti dicano "bravo"».

Come se lo spiega?

«Una parte di me è convinta che Draghi volesse andarsene». 

Perché andarsene?

«Forse perché, sapendo che l'autunno sarà duro, non voleva vedere l'arrivo della tempesta da Palazzo Chigi».

Quell'autunno caldo, in caso di vostra vittoria, toccherà gestirlo a voi. Ieri Berlusconi ha aperto la campagna elettorale dicendo di alzare le pensioni minime a mille euro. Salvini parla di condono fiscale. Sono promesse opportune?

«Il centrodestra può vincere le elezioni, ma governerà in una fase complessa. Ogni partito ha un programma di partenza, ma essendo la condizione difficile, e avendo buone chance di vittoria, nel programma comune dovremmo concentrarci sulle cose che si possono fare. Meglio mettere una cosa in meno, che una in più che non si può realizzare». 

Lei ieri ha visto Berlusconi, avete parlato di nomi? È vero che volete coinvolgere il presidente della Confindustria Carlo Bonomi?

«È presto per parlarne. Ho dei nomi in testa. Ma sono cose che si discutono con gli alleati, non mi piace fare totonomi, perché è un lavoro molto serio». 

Al di là dei nomi, che profili state seguendo?

«Non sono disponibile a fare una brutta figura. Se andassimo al governo dovremmo prendere tutto il meglio che c'è. Senza pregiudizi».

Andare al voto comporta dei rischi?

«No. Abbiamo una verifica a metà settembre per la rata del Pnrr, se non otteniamo dei soldi è perché il governo non ha lavorato bene». 

Per prendere i soldi ci sono delle riforme da fare.

«E noi garantiremo la nostra disponibilità affinché si arrivi alle scadenze in tempo utile. Il fatto che non avremo i soldi per colpa delle elezioni è una bugia». 

Un articolo del New York Times la dipinge come un pericolo per l'Italia.

«Non ha nessun senso. È la classica cosa imbeccata».

Da chi?

«Si stanno muovendo una serie di think tank della sinistra italiana che vanno in giro per dire che se vince la Meloni l'Italia viene risucchiata da un buco nero. Una strategia irresponsabile. . Come si è dimostrato con la posizione di FdI sull'Ucraina non c'è nulla da temere. Questo gioco di terrorizzare i mercati ha uno scopo». 

Quale?

«Che il centrodestra perda e la sinistra possa governare sulle macerie». 

Lei dice sempre di non dover esibire patenti, ma non trova normale che all'estero si cerchino rassicurazioni su un partito che si propone di governare?

«Chi ha la pazienza di approfondire chi siamo non ha bisogno di essere rassicurato. Certo, quando ti candidi a governare la nazione devi far sapere cosa vuoi fare. Anche per fare controinformazione contro un racconto interessato. Non ho problemi a confrontarmi nel merito con nessuno». 

Crede di essere riuscita a rassicurare gli ambienti di cui parla?

«Ultimamente mi è capitato di incontrare manager e industriali, sono consessi dove si presume che la gente sia terrorizzata da me. Io ho parlato loro di cose concrete, per esempio delle catene di approvvigionamento dell'Italia, ovvero le grandi questioni dei nostri tempi. Alla fine mi guardavano come per dire, "non sei quella che ci aspettavamo"». 

Perché avete votato contro il Pnrr?

«Non abbiamo votato contro, ci siamo astenuti perché siamo persone serie. Un documento che impegna 250 miliardi non lo voti a scatola chiusa. E il governo lo ha presentato in aula un'ora prima dell'inizio della discussione. Oggi che l'ho letto, aggiungo che l'Italia non sta usando quelle risorse per i campi dove siamo più competitivi degli altri». 

Come si fa a garantire che quella coalizione litigiosa che abbiamo visto fino a pochi giorni fa ora possa governare cinque anni il Paese?

«Come abbiamo garantito che governasse bene nelle amministrazioni locali. Il cortocircuito era generato dal fatto di essere in parte all'opposizione e in parte in maggioranza». 

Su cosa vi dovete chiarire?

«Con i problemi che incontreremo, non potremmo preoccuparci l'uno dell'altro. O si vince o si perde insieme. Non avrebbe senso fare una campagna elettorale pensando più a fare la polemicuccia tra di noi». 

Se Fratelli d'Italia sarà il primo partito toccherà a lei andare a Palazzo Chigi?

«Questa regola ha sempre funzionato: chi vince governa. Non abbiamo nemmeno il tempo di cambiarla». 

I suoi alleati non sono così chiari su questo punto.

«Spero che non sia così. Confido che si mettano da parte i tatticismi. Noi dobbiamo fare quello che la sinistra sa fare: compattarsi per battere l'avversario. L'avversario è il Pd e spero che gli altri mi diano una mano a batterlo».

Rifarebbe il discorso al comizio di Vox?

«Cambierei il tono, non il contenuto, perché quelle sono cose che ho detto molte volte. Quando dici cose decise vanno dette con un altro tono». 

Se n'è accorta subito?

«Quando mi sono rivista non mi sono piaciuta. Quando io sono molto stanca, mi capita di non riuscire a modulare un tono appassionato che non sia aggressivo». 

E le accuse alla lobby Lgbt?

«La lobby, non è la comunità omosessuale, sono cose diverse».

È stato difficile prendere una posizione così netta a sostegno dell'Ucraina?

«È stata una delle decisioni più facile della mia vita». 

Il suo elettorato ha dei dubbi a leggere i sondaggi.

«Vale per tutti i partiti. La gente può vedere l'Ucraina come una lontana e dice "perché dobbiamo caricarci altri problemi?". Ma la politica deve essere seria. Quello che oggi ti sembra di poter utilizzare come cassa elettorale, domani lo paghi dieci volte. Agli elettori va spiegato». 

Come si concilierà questa posizione con quella della Lega, assai critica con la politica estera del governo Draghi? Dovrete governare insieme.

«La politica estera di un governo a guida Fratelli d'Italia resterà quella di oggi. Per me è una condizione. E non credo che gli altri vogliano metterla in discussione». 

La Lega non vuole mandare le armi. Berlusconi ammicca alla Russia..

«Noi non decidiamo il destino dell'Ucraina. Se noi non mandiamo le armi, l'Occidente le continuerà a mandare, e ci considereranno un Paese poco serio. Il problema sarà nostro. Bisogna essere lucidi: non possiamo pensare di essere neutrali senza conseguenze».

La questione fascismo tornerà nella campagna elettorale?

«Facciano pure. Io sono stata sempre chiara. Gli italiani che pensano che Giorgia Meloni porterebbe un regime al governo possono votare il Pd. Quelli che pensano che FdI possa difendere la nazione e i suoi cittadini, votino Fratelli d'Italia». 

All'estero però il tema esiste, lei pensa di affrontarlo con nettezza?

«Perché noi dobbiamo passare sempre dal via? Per la sinistra non basta mai. Quando Fini fece tutti i passaggi che fece, io stavo in Alleanza Nazionale e non me ne sono andata. Io sono una persona che dice quello che pensa. Nella vita ho sempre detto quello che pensavo, e l'ho pagato spesso. Se pensassi che in Italia dovesse tornare un regime lo direi. Invece ho fatto solo battaglie per la democrazia e la libertà».

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 26 luglio 2022.

L'uscita di altre due deputate - l'ex-atleta paralimpica Giusy Versace e Annalisa Baroni - oltre all'assessore regionale alla Casa della giunta lombarda Alessandro Mattinzoli, dopo l'addio dei tre ministri di Forza Italia, aggrava la crisi di identità del partito, un problema che, come s' è visto, né Berlusconi né le persone a lui vicine intendono riconoscere e affrontare. 

Le due deputate e l'assessore pongono infatti la questione della svolta che ha portato il Cavaliere, nel giro di mezza giornata, a schierarsi con Salvini nel dare il benservito a Draghi, rinunciando al tradizionale ruolo di moderazione avuto da Forza Italia nel centrodestra.

Dei tre, soprattutto Versace ha reagito anche al modo in cui sono stati trattati i ministri, dal «riposino in pace» di Berlusconi all'accenno alla statura di Brunetta della sua compagna, Marta Fascina. In un partito normale e non "personale", come ormai sono quasi tutte le forze politiche, tolto forse il Pd, i punti sollevati da Versace, Baroni e Mattinzoli sarebbero degni di discussione. 

Tra l'altro i tre sono esponenti, non certo di secondo piano (un assessore regionale oggi vale anche più di due deputate) del partito lombardo pazientemente costruito da Gelmini, quando ne era coordinatrice, prima di essere sostituita da Ronzulli, nella convinzione, appunto che i consensi, specialmente al Nord, dove Forza Italia da tempo ha seri problemi, vadano cercati con un'organizzazione ramificata nel territorio, e non solo con il carisma del leader.

Peraltro, nel caso del Cavaliere, piuttosto ammaccato di salute. Ma questo genere di ragionamenti, si sa, non sono mai piaciuti a Berlusconi. Contrario da sempre alla «democrazia interna», refrattario a qualsiasi contestazione che venga dal basso e sicuro che solo un'emanazione diretta dall'alto della sua volontà possa mantenere l'indispensabile rapporto diretto tra il leader e la sua gente.

Berlusconi in altre parole pensa che anche il calo di consensi subito da Forza Italia, ridotta anche nei sondaggi abbondantemente al di sotto del dieci per cento, sia dipeso dal suo forzato allontanamento dalla scena politica quotidiana. Che un suo ritorno possa cambiare le cose. E che in sostanza la gente non aspetti altro che rivedere «Berlusconi presidente». Convinto lui.  

Il centrodestra scompare, ora è un miscuglio di populismo e sovranismo. PASQUALE CASCELLA su Il Quotidiano del Sud il 22 Luglio 2022

SCOMPARE il centrodestra di governo per far spazio a un ridondante miscuglio di populismo e sovranismo. Il centrosinistra cerca di ridefinirsi attorno al buco nero delle stelle cadenti. Sembra esserci, ora, solo il campo di battaglia elettorale tra schieramenti spuri.

Ma davvero, senza Draghi, l’area della responsabilità è diventata impraticabile? La motivazione data dal presidente della Repubblica alla scelta di dar seguito dalle dimissioni di Mario Draghi anticipando il ritorno alle urne, mette al riparo la vita democratica dall’esito più nefasto della negazione della fiducia al governo. Che non è mai stata a un governo qualsiasi, ma al governo immaginato non a caso 18 mesi fa da Sergio Mattarella al di fuori delle formule politiche consunte dalla transizione senza riforme tra la Prima e la Seconda Repubblica.

Se pure ce ne fosse stato bisogno, il voto parlamentare – non a caso pervicacemente voluto nella “bomboniera” di palazzo Madama piuttosto che nell’aula più politica di Montecitorio – che ha visto da una parte il Movimento 5 Stelle, con l’astensione, e dall’altra la Lega e  Forza Italia, con l’abbandono degli scranni, rifuggire – l’uno e gli altri – dalla responsabilità di votare l’unica risoluzione che di fatto avrebbe consentito di portare a compimento i residui compiti programmatici del governo, riconsegna la crisi politica alla ragione di fondo dell’originario appello all’unità nazionale.

Draghi avrà anche sbagliato a dire ai senatori di dover rispondere “agli italiani” (per primo rispondeva alla richiesta istituzionale della figura costituzionalmente rappresentativa dell’unità del paese), ma seppure sbagliando potrebbe aver  reso un ultimo servigio al Paese, costringendo le forze politiche a rendere esplicita la rincorsa di particolarismi e le convenienze elettorali che avevano cominciato a logorare l’unità nazionale e funestare gli ultimi mesi di questa legislatura.

Come spiegare altrimenti le speculari stoccate di Draghi alla Lega che insegue i taxisti e ai cinquestelle arroccati sui superbonus? L’autentico paradosso è sembrato emergere successivamente, nella convergenza nel non voto di destini che a parole avrebbero dovuto separarsi (la risoluzione della Lega, poi sottoscritta anche da Forza Italia, chiedeva un nuovo governo senza più i Cinque stelle, i quali si cincillavano ancora con il ritiro della propria delegazione ministeriale), quasi a segnalare il reciproco interesse a liberarsi, se non dell’intruso, dei vincoli politici del richiesto rinnovo dell’originario patto politico.

L’applauso che a Montecitorio ha salutato il dimissionario Draghi è sembrato suonare la cattiva coscienza dell’azzardo. Per dire, cosa sarà dei decreti, comunque espressione della maggioranza, che ancora attendono la conversione in legge? E dei provvedimenti che – come ha avvertito il Capo dello Stato – le vecchie e nuove emergenze dovessero imporre? Vero è che formalmente il governo non è stato sfiduciato ma in parlamento non potrà più richiedere la fiducia di una maggioranza che deliberatamente ha scelto di scomporsi per inseguire qualche taxista o certi costruttori.

Qualche meccanismo di scomposizione delle vecchie convenienze si è comunque messo in moto, più marcatamente nel M5S, con la scissione di Luigi Di Maio, che nello schieramento opposto con le iniziali defezioni ministeriali di Mariastella Gelmini e Renato Brunetta (in attesa di Mara Carfagna?) da Forza Italia, per non dire del disagio dei governatori leghisti.

Ma quel che stenta a farsi strada è la ricomposizione degli equilibri politici che era nel potere solo di un Parlamento nella pienezza delle proprie funzioni e con la legittimazione offerta dall’interesse generale. Invece, ci si affida a quel Rosatellum (a onta della riforma elettorale promessa a seguito del taglio secco di un terzo del Parlamento) che ha già costretto a inseguire le più disparate formule di governo. E, poiché prevede il voto su un’unica scheda, non consente nemmeno quella desistenza che in altre fasi politiche era servita per distinguere identità e responsabilità.

C’è un ultimo appello di Mattarella, questa volta a sostegno dell’interesse nazionale, perché il passaggio elettorale avvenga senza forzature e ambiguità. Nell’esporlo il presidente non ha nascosto l’amarezza, se non la delusione, per aver dovuto, dopo la costrizione al secondo mandato, nuovamente arrendersi alla impotenza della politica. La riacquisita prerogativa dello scioglimento delle Camere gli consente, però, di rimettere quel dovere,  che tanto è sembrato spaventare la politica, alla responsabilità di una battaglia su una risolutiva espressione della sovranità popolare. 

Salvini ha promesso a Berlusconi la presidenza del Senato: ecco la moneta di scambio usata per mollare Draghi. Tommaso Ciriaco su La Repubblica il 24 Luglio 2022.  

Silvio "isolato" durante il blitz, lo cercano Chigi e Colle ma il cellulare forse era in mano a Fascina

Glielo hanno promesso, forse anche per giustificare il fatto di averlo lasciato ai margini durante le ore cruciali che hanno portato alla cacciata di Draghi. Ma adesso Silvio Berlusconi ci crede. "A ottobre sarai Presidente del Senato", gli ha assicurato Matteo Salvini subito dopo il blitz. È la moneta di scambio per l'estromissione dell'ex banchiere.

L’ETERNO RITORNO. Berlusconi è tornato e si candida al Senato dopo l’espulsione per la frode fiscale. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 22 luglio 2022

Lo avevano definito ‘moderato’, ‘garante’, ‘padre nobile’, attribuendogli una generosa resipiscenza, ma Silvio Berlusconi è tornato quello che è sempre stato: un caimano. E in una notte ha ribaltato il governo di Mario Draghi, approvando la spallata del fido Matteo Salvini e salutando con una battuta funerea i fuoriusciti da Forza Italia, «riposino in pace».

Il primo effetto della fine anticipata dell’esecutivo delle larghe intese è servito: il ritorno del leader di Forza Italia. 

Gli ultimi giorni prima delle dimissioni di Mario Draghi sono intensi e Berlusconi si prende la scena. Torna e oscura l’alleata Giorgia Meloni, in crescita nei sondaggi e oppositrice del governo Draghi, ma mal digerita dall’ex primo ministro. Se c’è lui, gli altri sono un corredo. NELLO TROCCHIA

La rivincita sull'ingiustizia. Paolo Guzzanti il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.

Lo cacciarono usando una legge con valore retroattivo non riuscendo ad estrometterlo dalla politica con le armi della democrazia e il risultato fu che Silvio Berlusconi fu messo in un angolo.

Lo cacciarono usando una legge con valore retroattivo non riuscendo ad estrometterlo dalla politica con le armi della democrazia e il risultato fu che Silvio Berlusconi fu messo in un angolo. Trattato come il capitano Dreyfus il quale, benché fosse innocente, fu portato nel mezzo del quadrato militare e spogliato delle mostrine, le decorazioni e gli spezzarono anche la sciabola. Dovettero passare anni prima che la scatenata campagna di Emile Zola con il suo famoso libro J'accuse (io accuso) facesse ripetere il processo che riconosceva il capitano, la cui unica colpa era di essere ebreo, totalmente innocente dall'accusa di essere una spia tedesca.

Ma il capitano, nel frattempo, si era stancato di combattere e aveva perso ogni fiducia nella giustizia francese. Non così ha reagito Silvio Berlusconi che ha seguitato, restando fuori dalle Camere italiane, a farsi eleggere al Parlamento Europeo dove ha raccolto una serie importantissima di riconoscimenti da tutte le parti politiche europee. E adesso - questa è la notizia - intende tornare in Parlamento scegliendo il Senato: lo stesso da cui fu estromesso nel 2013 in barba ad ogni cultura sia giuridica che parlamentare, cacciato affinché non raccogliesse più l'antico consenso e dunque abbattuto come un animale da sacrificare. Ai bei tempi in cui Berlusconi raccontava molte barzellette divertenti, rielaborò quella del tizio che era sopravvissuto a una quantità eccezionale di incidenti, E quando qualcuno chiede, nella storiella, che cosa ne fosse poi stato di un tipo del genere, il narratore risponde allargando le braccia: «Alla fine, l'abbiamo dovuto abbattere».

E fu proprio ciò che accadde al fondatore di Forza Italia: sottoposto a una mitragliata di oltre sessanta processi, fu condannato per evasione fiscale per fatti accaduti mentre era Primo ministro e per una somma assolutamente ridicola rispetto alla misura della sua contribuzione fiscale. Sulla base di quella sentenza gli fu applicata la legge Severino che stabiliva, per la prima volta nella storia del Parlamento e di tutti i Parlamenti liberali, che si poteva applicare questa legge anche con valore retroattivo, e il Senato, approvò e l'ex leader di un grande partito che aveva bloccato la corsa al governo degli ex comunisti del PDS dopo l'operazione giudiziaria detta «Mani Pulite» che aveva falciato tutti i partititi democratici tranne i comunisti, pagò il fio della sua colpa originaria. Buttato fuori dal Parlamento dove era stato mandato da milioni di italiani. E già allora si cominciò a parlare ossessivamente del «dopo Berlusconi» come di una nuova.

Come giornalista credo di aver dovuto scrivere una ventina di volta, spiegando la povertà dell'idea, un articolo sul «dopo Berlusconi». Non c'è mai stato un dopo-Berlusconi e la prova è sotto gli occhi di tutti: l'uomo che era stato - unico caso - estromesso dalla Camera alta del nostro Parlamento, torna per prendersi anche la soddisfazione di parlare di nuovo in quella stessa aula da cui fu espulso con un atto antipolitico e anticostituzionale.

Viene in mente il grande oratore romano Cicerone che, costretto all'esilio per una sentenza ingiusta, quando fu finalmente assolto tornò al Senato e con aria distratta cominciò il suo discorso con un sarcastico «Heri dicebamus», come dire: dove eravamo rimasti ieri? Facendo finta che nulla fosse accaduto. Vedremo quali saranno le parole con cui il rientrato senatore Berlusconi parlerà a Palazzo Madama per riprendere il discorso brutalmente interrotto.

(ANSA il 22 luglio 2022) "Nel nostro programma c'è l'aumento delle pensioni, tutte le nostre pensioni, ad almeno 1000 euro al mese per 13 mensilità, c'è la pensione alle nostre mamme che sono le persone che hanno lavorato di più alla sera, al sabato, alla domenica, nei periodi delle ferie e che hanno diritto di avere una vecchiaia serena e dignitosa e poi c'è l'impegno a mettere a dimora, a piantare ogni anno almeno un milione di alberi su tutto il territorio Nazionale". Così il leader di Fi, Silvio Berlusconi, al Tg5.

Berlusconi riparte con le solite millanterie da campagna elettorale. Piccolo campionario degli impegni strombazzati dal Cav, ricordando lo strabiliante "più dentiere per tutti" del 2014. Da huffingtonpost.it il 22 Luglio 2022

I nostri parlamentari andranno a casa dopo due legislature. Dimezzeranno i loro emolumenti. Sarà ridotto della metà anche il loro numero. Non cambieranno partito. Totale trasparenza sui loro redditi e attività. Abolizione finanziamento pubblico ai partiti". Chi lo promise, alle elezioni 2013? Grillo? Anche. Ma in realtà questo era il Patto del parlamentare che Berlusconi fece firmare a ogni suo candidato.

Berlusconi rilancia, la lunga storia delle pensioni a mille euro. Da adnkronos.com il 22 luglio 2022

Nel 2001 alzate a un milione di lire per una platea limitata, la promessa è tornata più volte

Portare le pensioni minime a mille euro. Un'idea che ricorre nella proposta di Forza Italia e del leader Silvio Berlusconi, a ogni elezione utile . E che affonda le sue radici nell'ormai lontano 2001, quando la promessa, parzialmente mantenuta per una platea limitata da alcuni criteri, fu quella di portare l'assegno a un milione di lire. Le parole con cui l'annuncio è stato reiterato nel tempo sono molto simili tra loro.

E' il 22 luglio 2022, è iniziata la campagna elettorale. "Nel nostro programma c'è l'aumento delle pensioni, tutte le nostre pensioni, ad almeno 1.000 euro al mese per 13 mensilità, c'è la pensione alle nostre mamme che sono le persone che hanno lavorato di più la sera, il sabato, la domenica, nei periodi delle ferie e che hanno diritto di avere una vecchiaia serena e dignitosa", dice il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, in una intervista al Tg5.

E' il 26 maggio 2019. "Una delle cose che faremo noi col prossimo governo è aumentare a 1000 euro, per tredici mensilità, le pensioni minime", annuncia Silvio Berlusconi ospite in diretta a Corriere tv.

E' il 19 novembre 2017, a Palazzo Chigi c'è Paolo Gentiloni. Ma a parlare è sempre Silvio Berlusconi. "Oggi nessuno anziano può vivere con una pensione minima di 500 euro: oggi è doveroso e indispensabile aumentare almeno a mille euro i minimi pensionistici. Nessun anziano deve essere escluso da questa misura, comprese le nostre mamme che hanno lavorato tutti i giorni a casa e che devono poter avere vecchiaia dignitoso".

E' il 13 maggio 2017. "Tutti hanno diritto di vivere la propria vecchiaia in maniera decorosa, senza preoccupazioni e senza privazioni materiali o morali. Per questo garantiremo a tutti una pensione minima di 1000 euro non tassabili per 13 mensilità, restituendo a tutti gli anziani la dignità del loro passato di protagonisti nella società, per il valore umano e l'esperienza di cui sono portatori": è la promessa elettorale per le amministrative 2017 lanciato dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi.

Michele Serra per “la Repubblica” domenica 24 Luglio 2022. 

Berlusconi, esaurito il tour delle sue ville, forse indirà il prossimo vertice della destra italiana (chiamarlo centrodestra è un oltraggio all'aritmetica) su un dirigibile o su un piroscafo, tanto per sentirsi sempre e comunque il magnanimo anfitrione. 

Ma il suo viale del tramonto - uno dei più lunghi mai visti nella storia, nemmeno Wanda Osiris e Joséphine Baker riuscirono a esibirsi così oltre la scadenza naturale - lo ha già ridotto, anche ben prima di questa tornata elettorale, al ruolo di amico ricco che pensa all'ospitalità e al ristoro, con zero voce in capitolo su tutto il resto.

Non si sa se per educazione o per maleducazione, il Salvini e la Meloni continuano ad approfittare di questo imbarazzante protettorato, che di per sé fa slittare di un paio di epoche all'indietro la loro avventura politica: e però fornisce a quei due un'imprevista foglia di fico "moderata" con la quale agghindare la coazione più a destra mai vista al mondo. 

È uno spettacolo al quale siamo abituati, ma non per questo è meno incredibile: una fascista civilizzata e un incivile fascistizzato, con la benedizione di un miliardario in pensione che trent' anni fa fece finta, votatissimo, credutissimo, di essere un leader politico, si candidano al governo della Repubblica, nella quale, accidentalmente, abitiamo anche noi altri.

Dentro la coalizione la postura è totalmente trumpista, tacitamente putinista, ma c'è l'amico Silvio e tanto basta per figurare abusivamente, in tutti i telegiornali, come "centrodestra" o addirittura come "moderati". Qualche liberale tardivamente in fuga (Gelmini, Brunetta, forse Carfagna) non basta a salvare l'onore. Mi chiedevo da tempo che vantaggio porta essere di sinistra. Beh, almeno uno: non votare per la destra.

Silvio Berlusconi e la vecchia storia delle pensioni a 1.000 euro. Il Cav entra in campagna elettorale promettendo un milione di nuovi alberi l’anno (meno impegnativi del milione di posti di lavoro promesso nel 1994) e pensioni a 1.000 euro. Una costante di ogni elezione. Da Redazione tag43.it il 22 Luglio 2022

La campagna elettorale è cominciata. E Silvio Berlusconi non sta nella pelle, dicono i suoi. Intervistato dal Tg5 il Cav non ha perso tempo e ha snocciolato i punti chiave del suo programma: «Meno tasse, meno burocrazia, meno processi, più sicurezza, per i giovani, per gli anziani, per l’ambiente e poi la nostra politica estera». Un programma che si basa sulla  «tradizionale lotta alle tre oppressioni: l’oppressione fiscale, l’oppressione burocratica l’oppressione giudiziaria».

Pensioni a 1.000 euro, non proprio una idea nuova

Il Cav è partito in quarta con le prime promesse: portare le pensioni minime a 1.000 euro. Non esattamente una idea nuova che viene riproposta a ogni occasione utile, a partire dal lontano 2001 quando promise di portare l’assegno a un milione di vecchie lire. Questo giro ha aggiunto sul piatto pure un milione di alberi l’anno, sicuramente meno impegnativi del famoso milione di posti di lavoro promesso quando discese in campo nel 1994. Che diventarono un milione e mezzo sette anni dopo nel Contratto con gli italiani siglato da Bruno Vespa.

Pensioni dignitose a tutti, anche alle mamme

Che il Cav abbia da sempre un occhio di riguardo per pensionati e anziani è risaputo. Anche perché ormai tra aumento dell’età media, calo delle nascite e fughe di cervelli e braccia, l’Italia è diventata, parafrasando il film di Ethan Coen, un Paese di e per vecchi. Riavvolgendo il nastro, nel maggio 2019 a Corriere.tv Berlusconi annunciava fiero: «Una delle cose che faremo noi col prossimo governo è aumentare a 1.000 euro, per 13 mensilità, le pensioni minime». Una riedizione della promessa elettorale fatta nella campagna dell’anno precedente: «Porteremo a 1.000 euro le pensioni di tutti i dipendenti e anche di coloro che sono afflitti da disabilità e daremo la pensione a 67 anni a coloro che lavorano di notte, d’estate…». Un anno prima, nel novembre 2017 – a Palazzo Chigi c’era Paolo Gentiloni – il Cav dichiarava: «Oggi nessuno anziano può vivere con una pensione minima di 500 euro: oggi è doveroso e indispensabile aumentare almeno a 1.000 euro i minimi pensionistici. Nessun anziano deve essere escluso da questa misura, comprese le nostre mamme che hanno lavorato tutti i giorni a casa e che devono poter avere vecchiaia dignitoso». Mentre a maggio, in vista delle Amministrative di quell’anno, dichiarava: «Tutti hanno diritto di vivere la propria vecchiaia in maniera decorosa, senza preoccupazioni e senza privazioni materiali o morali. Per questo garantiremo a tutti una pensione minima di 1.000 euro non tassabili per 13 mensilità, restituendo a tutti gli anziani la dignità del loro passato di protagonisti nella società, per il valore umano e l’esperienza di cui sono portatori».

La parentesi delle dentiere e delle cure veterinarie gratis

Ancora indietro nel tempo, nel 2014, per le Europee del 25 maggio Silvio strizzava gli occhi agli over 70 promettendo dentiere gratis per tutti. In quell’occasione, per onore di cronaca, promise anche cure veterinarie gratis per chi non poteva permettersi le spese. L’effetto Dudù. Tornando ai pensionati, nel 2013 aveva ricavalcato il tema: «Bisognerà pensare ai pensionati facendo come abbiamo fatto e cioè quando portammo più di un milione pensionati a un aumento delle pensioni che consente di sopravvivere». E nel 2008? «La nostra proposta è condivisa dal Partito dei pensionati che ora sta con noi e prevede l’innalzamento delle pensioni minime, l’adeguamento al costo della vita di tutte le pensioni fino al livello di mille euro al mese».

Dal “Corriere della Sera” domenica 24 Luglio 2022.

Caro Aldo, il voltafaccia e l'attacco di Berlusconi a quel grande servitore dello Stato che è Mario Draghi, è stato un atto veramente proditorio. Che cosa ne pensa? Luigi Solari 

Perché dobbiamo rassegnarci a perdere uno dei migliori rappresentanti dell'Italia nel mondo? Chiedo di trovare una formula, qualsiasi formula consentita, per offrire a molti italiani, penso tanti, la possibilità di poter continuare l'esperienza con Draghi premier. Vinicio Pozza 

Ringrazio Draghi per il suo lavoro. Dignità, amor proprio, onestà morale non potevano più convivere con gli indicibili giochi di potere di un Parlamento in cui non mi riconosco. Anna Sturlese 

La risposta di Aldo Cazzullo

Cari lettori, in questi giorni abbiamo ricevuto migliaia di messaggi sulla caduta di Draghi.

Comincerei dal suo, gentile signor Solari. In realtà, tutte le volte che Berlusconi ha stretto un patto l'ha fatto saltare quando ha pensato che gli convenisse. È accaduto con la Bicamerale, con il governo Monti, con il governo Letta, ora con Draghi. Semmai, il Cavaliere dovrebbe chiedersi perché ogni volta perde un pezzo di partito, e i suoi ministri se ne vanno.

È vero che Giorgetti, Zaia, Fedriga non hanno mosso un dito per Draghi; ma all'evidenza aspettano che Salvini vada a sbattere nelle urne, per liberarsene, se ne avranno la forza. La Meloni cercherà di destare meno allarmi possibili. I 5 Stelle spariranno al Nord e prenderanno qualche voto assistenzialista al Sud. Al centro l'unico messo bene è Calenda; per il resto, troppi leader per pochi voti. Il Pd dovrebbe decidere se è il partito di Draghi senza Draghi, o se l'alleato resta Conte. 

Più in generale, il Pd è oggi un partito di centro con una certa sensibilità sociale, votato da pensionati e ceto medio dipendente; ma una parte dei suoi dirigenti lo pensano ancora come un partito postcomunista e proletario, e propugnano una curiosa politica fiscale punitiva verso i propri stessi elettori. Un'ultima considerazione, proprio su Draghi. Da trent' anni parliamo di Seconda Repubblica, ma la Costituzione non è cambiata: è sempre la stessa in cui il segretario della Dc contava molto più del presidente del Consiglio. 

La nostra resta la Repubblica dei partiti. Prodi e Monti avranno commesso molti errori; ma se entrambi hanno sentito l'esigenza di farsi un partito, è perché si sono resi conto che in Italia - a prescindere dalle tue capacità e dai tuoi successi; e quelli di Draghi non sono in dubbio - senza un partito alle spalle alla lunga non puoi fare politica. A meno di farsi eleggere presidente della Repubblica, come dopo Bankitalia e Palazzo Chigi (e dopo il ministero dell'Economia) accadde a Ciampi.

Il nuovo gioco di società dei radical chic: allarme Costituzione se vince la destra. Appello di "Libertà e giustizia" sul "Domani": cambieranno la Carta. Effetto panico, nessun sondaggio dà al centrodestra i due terzi dei seggi. Marco Gervasoni il 27 Luglio 2022 su Il Giornale.

Ci eravamo dimenticati di «Libertà e giustizia», nata nel 2002 nei salotti progressisti, per combattere l'autoritarismo di... Berlusconi, accusato di voler cambiare la Costituzione e, sotto sotto (ma neanche tanto) di voler introdurre un regime para fascista. Poi, finiti i governi del Cavaliere, i Liberi e Giusti, di nuovo, contro Matteo Renzi, pericoloso sovversivo per il suo referendum sul Senato. Una breve fugace apparizione ai tempi del governo Conte I, ovviamente contro il para fascismo di Salvini, eccoli alla grande, con un altro manifesto. Il tema? Di nuovo il pericolo che la nuova maggioranza, di «destra», cambi la Costituzione. Amabilmente chiamata «club dei milionari», forse soprattutto per la presenza di Carlo De Benedetti, «Libertà e giustizia» e i suoi appelli venivano regolarmente rilanciati da Repubblica, mentre ora li troviamo su Domani, il quotidiano fondato e finanziato appunto dall'Ingegnere. Non abbiamo nulla contro i salotti, non essendo populisti. Ancor meno contro i milionari, non essendo comunisti. Ma gli appelli di «Libertà e giustizia» ci appaiono un gioco stanco e prevedibile, con le stesse persone, tutte rispettabili per carità, ma soprattutto con gli argomenti, sempre i medesimi. La destra, accusata di voler aggredire i «poveri» e aumentare le diseguaglianze, come in un qualsiasi volantino del Pci degli anni Cinquanta, e come se il programma del centro destra fosse stato scritto da Maggie Thatcher (magari!, in realtà è fin troppo «solidarista», altro che attaccare i poveri). Il «club dei milionari», poi, non si capacita come mai le classi popolari, di cui essi si ergono a difensori, si ostinino sempre più a votare una destra che li vuole impoverire. Ma la chiave di tutto sta nel conservatorismo costituzionale. Chiunque voglia modificare la Costituzione, si trasforma, agli occhi dei Liberi e giusti, in qualcuno di «destra», anche se era un presidente del Consiglio capo del principale partito della sinistra italiana, Renzi appunto. La rivendicazione dell'intangibilità della Costituzione è un vecchio dogma del vero partito della conservazione italiana, figlio del partito comunista e della sinistra cattolica. Chiunque provi a modificare la Carta, tocca dei fili che fanno morire, politicamente e non solo, pensiamo a Bettino Craxi, il primo a proporre negli anni Ottanta una riforma presidenziale. Allora Libertà e Giustizia non c'era ancora, ma i suoi esponenti sì, e disegnavano già gli stessi scenari foschi, che poi avrebbero dipinto contro Berlusconi, contro Renzi e ora contro il progetto presidenzialistico del centro destra. Ora come allora, poi, chiunque voglia introdurre il presidenzialismo è considerato autoritario, se non fascista. Ma questa argomentazione è sbagliata su un piano storico e su quello fattuale. Sul piano storico, i fascismi hanno sempre agguantato il potere grazie alle disfunzioni del parlamentarismo: e quando sono saliti al governo non hanno mai modificato le Costituzioni vigenti, lo Statuto Albertino restò fino al 1948. Al contrario, sono stati gli antifascisti democratici, come De Gaulle in Francia, ad introdurre il sistema presidenziale. E infine: anche i sondaggi più lusinghieri non accreditano al centro-destra i due terzi dei seggi: quindi l'ipotesi paventata dai Liberi e Giusti, che la Costituzione possa essere modificata senza referendum, è decisamente lunare. In realtà il tema è solo un pretesto: il vero scopo di questi appelli è spargere panico tra gli elettori. Un comportamento non certo improntato a libertà e a giustizia.

Il manganello dei poteri forti. Rodolfo Parietti il 27 Luglio 2022 su Il Giornale.

Fin dai tempi dell'Economist con la copertina dedicata al Berlusconi "unfit", cioè inadatto a governare, siamo abituati al manganello mediatico che arriva da fuori porta.

Fin dai tempi dell'Economist con la copertina dedicata al Berlusconi «unfit», cioè inadatto a governare, siamo abituati al manganello mediatico che arriva da fuori porta. Col passare degli anni, e ne sono trascorsi più di venti da allora, la tecnica è stata affinata: ora la stampa estera usa il randello preventivo con finalità di avvertimento. C'è un'Italia che piace oltralpe, e non è necessariamente quella pizza, «o sole mio, mandolino e spaghetti», alla bisogna conditi con una bella P38 (Der Spiegel, nel giurassico '77): meglio il Belpaese infilato nell'austero loden della sobrietà montiana, con lo sdoganamento del «ce lo chiede l'Europa». Imperativo, seppur declinato diversamente dal sorriso algido di Mario Draghi, da cui non siamo più usciti: trattasi sempre di «fare i compiti a casa», come da prescrizione dei maestrini con la penna rossa di Bruxelles.

Così, ora che dalla finestra di Palazzo Chigi rischia di stagliarsi la sagoma della Donna Nera in compagnia del populista Matteo e dell'inappropriato Silvio, ecco il Financial Times prefigurare disgrazie e sciagure, quasi non bastassero quelle che viviamo da oltre un biennio. A dieci anni esatti di distanza dal «Whatever it takes», Supermario ha infilato la porta d'uscita e perciò il foglio salmonato, megafono della City e dei poteri forti, è in gramaglie. «Après lui, le déluge», traducibile nel più prosaico «piove, governo ladro». Perché il timore del FT è che senza più l'ex Bce venga messo «a repentaglio lo slancio delle riforme e la disciplina fiscale», cioè gli impegni presi dall'Italia in cambio dei fondi del Next Generation Ue. Ovvero, «la riduzione della burocrazia, il rafforzamento della concorrenza in settori che vanno dall'energia ai trasporti e il rafforzamento della pubblica amministrazione». Un pacchetto necessario, ricorda il quotidiano inglese in sintonia con l'Fmi («Speriamo che le riforme siano fatte»), «per aumentare le prospettive di crescita a lungo termine e garantire la sostenibilità del debito pubblico italiano, ora circa il 150% del Pil». Insomma, anche se risulta difficile capire quali incagli potrebbero incontrare queste riforme con un governo di centro-destra (tenuto conto dei nodi legati a tassisti e balneari), il Financial Times la mette giù dura: se l'Italia sgarra, addio fondi. Con un effetto valanga: «La fragile economia italiana non sarebbe l'unica vittima», poiché a venire travolti sarebbero anche i sostenitori del progetto europeo del debito comune. «Se il piano fallisse in Italia, aumenterebbe lo scetticismo nelle capitali del Nord Europa che sono profondamente sospettose dell'emissione di debito congiunto». Talmente scettiche da aver affossato sul nascere l'ipotesi di un Recovery Fund di guerra.

Non ci resta, dunque, che l'obbedienza fiscale. Del resto è ciò che ci chiede la Bce col suo scudo anti-spread. Anche se è inutile: quando hai i conti a posto non ti serve, perché lo spread non ha motivo di surriscaldarsi; se li hai in disordine, sei sotto tiro e non puoi beneficiare dello scudo, la cui attivazione richiede una fedina contabile quasi immacolata.

La Lega Nord.

Gabriele Guccione per il “Corriere della Sera” domenica 24 Luglio 2022.

Il Capitano è tornato. E questa volta senza barba: «Non la tagliavo da dieci anni, domani parleranno solo di questo». Bermuda blu, camiciotto di lino beige, scarpe di tela bianca. E poi gli immancabili selfie con i simpatizzanti. Matteo Salvini inaugura così la sua campagna elettorale. Lo fa alla festa della Lega di Domodossola, in questa propaggine estrema di Piemonte che da sempre guarda più alla Svizzera che all'Italia, dove quaranta anni fa nacque uno dei primi movimenti autonomisti poi confluito nel partito di Umberto Bossi: «Se siamo qui è grazie a lui». 

Era accaduto anche nel settembre del 2019, dopo lo strappo del Papetee e la fine del governo gialloverde: Salvini inaugurò qui, alla «Prateria», il ritorno all'opposizione. «Sembri un ragazzino», scherza una militante, quando vede il leader sbarbato che stringe le mani agli addetti alla griglia, a quelli che stanno alla cassa e al bar. «È una scommessa che avevo fatto con il mio amico Silvio - chiarisce -, e ora ne faccio un'altra: tra due mesi andrà al governo uno senza barba e con i pantaloni corti».

È il primo comizio di Salvini dopo la caduta dell'esecutivo Draghi che lui stesso aveva contribuito a far nascere e al quale alla fine ha voluto staccare la spina. «Stare 18 mesi al governo con Lamorgese e Speranza è stata - dice - una fatica inenarrabile». Il bagno tra il popolo delle feste estive, come ai vecchi tempi, non era previsto fino all'altroieri, quando dallo staff di via Bellerio è arrivata la notizia: ci sarà Matteo. L'attesa per il comizio è tanta, anche se questa volta arriva in una fase di arretramento nei consensi. 

«Vai Teo! Forza Capitano!», è il coro che lo accoglie sotto il tendone bianco della kermesse. «Siamo un partito del popolo, in mezzo al popolo e con il popolo sempre e comunque», assicura il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari.

Dal palco - su cui sale dopo aver cenato a base di alette di pollo, salamelle e costine con i parlamentari e i consiglieri regionali piemontesi - Salvini scalda gli animi in vista dei prossimi 60 giorni di campagna elettorale: «Il sondaggio vero per il 25 settembre è questo, e ci scommetto un caffè: vince il centrodestra con la Lega primo partito».

Una sfida lanciata prima di tutto alla alleata-rivale Giorgia Meloni. Il Capitano vuole tornare quello di un tempo e si aggrappa, ricordando Bossi e dando appuntamento a Pontida, ai temi che da sempre stanno a cuore ai leghisti: il no alla cannabis libera («La droga è morte e la combatterò sempre»), il no alla «cittadinanza facile» («Va meritata»), il no all'utero in affitto («Vergogna»), il no all'immigrazione clandestina. 

«La prima proposta che la Lega porterà in Consiglio dei ministri sarà un nuovo decreto sicurezza con l'impegno - assicura - a zero clandestini in giro per il nostro Paese. Stop barconi e subito tornare a casa». 

Poi però Salvini traccia le linee dei primi cento giorni di un eventuale suo governo: promette «una grande pace fiscale tra gli italiani e Equitalia», rilancia i temi delle pensioni e della Flat tax, avverte che il reddito di cittadinanza «va dato solo a chi non può lavorare», si dice a favore del «nucleare pulito e sicuro». Il leader della Lega dà anche la sua versione sulla caduta dell'esecutivo di unità nazionale: «Abbiamo detto a Draghi: rimani senza i 5 Stelle. Ha risposto no. E la regia è stata del Pd, specialista nel perdere le elezioni e andare lo stesso al governo».

In due giorni Salvini è tornato a vestire i panni di leader popolare e popolano. «Tra poco finisco - scherza dopo aver parlato per quasi un'ora e mezza - perché ho già perso due chili, io sudo... sì, io sudo, non sono mica come quelli del Pd che non sudano mai. Pensandoci, non ho mai visto Letta sudato...». La macchina della campagna elettorale si è messa in moto. Anche i meme sui social si sono moltiplicati nelle ultime ore. La voglia di acchiappare click (e voti) è tanta. E gli avversari hanno nomi e cognomi. Ora però Salvini dovrà anche recuperare il consenso di un tempo. Facendosi bastare due mesi. «Vi aspetto a Pontida il 18 settembre» chiude.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2022.

L'Agenda Salvini è già uno spasso. Al primo comizio elettorale, tenuto nell'incolpevole Domodossola, l'animatore della Lega ha preso di petto i veri problemi del Paese, denunciando l'infame abitudine di alcune scuole italiane di chiamare gli studenti per cognome. «Non ci sono Elena, Giorgio, Riccardo, Antonella, Matteo, Maria Grazia... (La lista completa dei nomi è disponibile solo per gli abbonati al servizio «I grandi elenchi di Salvini», ndr ). Eh no!

Si fa l'appello per cognome, per non discriminare, perché magari a sette anni c'è qualche bambino che si sente fluido. Questo non è futuro, è follia assoluta!». In effetti questo non è futuro, ma il passato di tutti noi, che degli anni della scuola ricordiamo almeno quello: gli appelli venivano fatti per cognome, sui quaderni il cognome andava scritto davanti al nome e alle elementari ci si chiamava per cognome anche tra compagni.

Io ero «Grame» e ricordo con affetto Annese, sempre il primo a essere interpellato dalla maestra, così come l'invidia che per il motivo opposto ci provocava un certo Voglino. Eravamo dei fluidi inconsapevoli, e prima di noi lo era stata l'intera classe del libro «Cuore», tranne l'io narrante Enrico. Qualcuno si ricorda il nome di Franti? E quelli di Garrone e Coretti? (per l'elenco completo, vedi nota precedente). 

La verità è che «Cuore» era un manifesto transgender e De Amicis un dannato radical chic, ma nessuno prima di Salvini aveva ancora avuto il coraggio di dirlo.

Nic. Car. per “la Stampa” il 26 luglio 2022.

Altro che dibattito sulla premiership del centrodestra. Questioni più urgenti assorbono i pensieri di Matteo Salvini. Come il colore dei grembiulini dei bambini delle scuole elementari e l'appello che fanno ogni mattina i loro insegnanti, segretamente ispirati dalla "teoria gender". 

Una preoccupazione espressa alla festa della Lega di Domodossola, un ragionamento diventato virale dopo che il video ha iniziato a circolare online. Il leader della Lega ha preso spunto dal caso del preside di una scuola materna di Pistoia, che ha proposto di eliminare il rosa e l'azzurro dai grembiulini contro gli stereotipi.

Poi ha raccontato di un'altra scuola elementare in cui «non si parla agli alunni con i nomi di battesimo, quindi quando fanno l'appello non ci sono Giorgia, Antonello, Elena - ha spiegato - Si fa l'appello per cognome, per non discriminare, perché a 7 anni c'è qualche bambino che si sente fluido. Una follia assoluta». 

In molti, sui vari social, hanno sottolineato come l'appello per cognome sia una prassi diffusa da molto tempo, anche per evitare confusione a causa di eventuali omonimie presenti in classe.

Anche il deputato del Pd Alessandro Zan, autore del disegno di legge contro l'omotransfobia, ha commentato su Twitter: «Siamo oltre il ridicolo: il modo in cui i sovranisti speculano sui bambini e la loro educazione per il consenso è semplicemente pericoloso. Fermiamoli». 

Ma non è questo il tema su cui Salvini è più scatenato. Più dei grembiuli e dei cognomi dei bambini, lo scaldano i barconi carichi di migranti e i centri di accoglienza al collasso. In una parola, Lampedusa. Il leader della Lega arriverà sull'isola la prossima settimana, il 4 e 5 agosto, un viaggio organizzato in tutta fretta, per esserci nel pieno dell'emergenza sbarchi.

«Cambio l'agenda e arrivo da voi, per portare soluzioni e idee che avevo già messo in pratica con successo», ha detto l'ex ministro dell'Interno al vicesindaco leghista di Lampedusa, Attilio Lucia, che si è rivolto a lui invece che all'attuale ministra Luciana Lamorgese. Il cui sottosegretario (anche lui leghista), Nicola Molteni, ricorda che «la priorità per la Lega è ripristinare i decreti sicurezza, contrastare gli scafisti e i trafficanti, difendere i confini, proteggere la sicurezza degli italiani». 

Del resto, non passa giorno senza che Salvini rilanci questo obiettivo. Ieri ha preso spunto da una tentata rapina avvenuta a Bologna per ribadire che «non vediamo l'ora di tornare al governo con il centrodestra per riportare buonsenso e regole con i nuovi decreti sicurezza.

Le nostre città, a partire dalla splendida Bologna, non possono essere ostaggio di clandestini e delinquenti». Un programma quasi monotematico, anche se dallo staff di Salvini si sono premurati di far sapere che sul tavolo ci sono molte altre questioni, dalla flat tax alla pace fiscale, e che ieri il segretario si è messo a lavoro addirittura «dalle 9», per definire le proposte da portare al vertice di centrodestra.

Ombre russe sulla crisi. Augusto Minzolini il 16 Luglio 2022 su Il Giornale.

Dopo la mossa dei 5 Stelle Mosca esulta: il nuovo premier non sia filo Usa. Pressing di Washington per Draghi. Ue: Putin cerca di destabilizzare i governi.

Magari saranno solo congetture ma è più facile spiegare la folle crisi di governo italiana inquadrandola con il grandangolo della politica internazionale che non attraverso le lenti del cortile di casa nostra. Alla notizia delle dimissioni del nostro Premier al Cremlino hanno brindato, il «falco» Medvedev ha sfoderato il solito sarcasmo («dopo Johnson e Draghi chi sarà il prossimo?»), mentre l'ineffabile Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri Lavrov, ha auspicato «un nuovo governo non asservito agli interessi americani». Inutile dire che, invece, la Casa Bianca ha indossato il lutto. In fondo in Europa tra la debolezza di Macron e i calcoli di Scholz, Draghi è diventato un interlocutore privilegiato di Washington specie per la guerra in Ucraina. Per non parlare della Ue. Il portavoce di Ursula von der Leyen ha addirittura ammesso che «la Russia tenta di destabilizzare l'Unione e gli Stati membri».

Per cui la follia di Giuseppe Conte se per la politica interna può essere paragonata ad un mezzo suicidio, a livello internazionale ha una chiave di lettura. Nessuno può dimenticare i rapporti con Mosca dell'ex premier nel suo primo governo. Le ombre. E, alla prova dei fatti, il capo grillino ha commesso quel «draghicidio» tanto auspicato da Mosca che Matteo Salvini (da anni sospettato di aver ricevuto finanziamenti da Putin) non ha commesso. Per dire che «i fatti» alla fine rendono giustizia rispetto alle inchieste di qualche settimanale.

Vista in quest'ottica la pazza crisi è foriera di una serie di conseguenze di non poco conto. Può un partito, in questo caso i grillini, mettere in crisi un governo impegnato in prima fila, insieme agli alleati, in un drammatico confronto con la Russia senza pagarne dazio? Può essere considerato ancora affidabile? A queste domande dovrebbe rispondere innanzitutto Enrico Letta che lo ha scelto come alleato. È come se il Psi avesse messo in crisi all'epoca il governo guidato da Francesco Cossiga sugli euromissili. Per cui dopo una crisi provocata con tanta leggerezza (e incoscienza) si pone per Conte e i suoi una sorta di fattore «P» (Putin) che li rende poco raccomandabili per una maggioranza di governo. Una riedizione, riveduta e corretta, del fattore «K» (cioè il rapporto con il comunismo internazionale): la motivazione che tenne il Pci per decenni fuori dall'area di governo.

La verità è che Conte e i suoi non si sono resi conto del cambio di fase a livello internazionale, del ritorno di una nuova Cortina di ferro. E hanno giocato con il fuoco.

Di contro c'è un problema anche per un Mario Draghi che è molto restio a tornare sui suoi passi (a Palazzo Chigi l'ipotesi che va per la maggiore è una conferma delle dimissioni nel dibattito di mercoledì): se la crisi ha una sua valenza sullo scacchiere geopolitico, può il premier che ha caratterizzato la sua azione a Palazzo Chigi nel rapporto stretto con gli Stati Uniti abbandonare il campo, se da Washington gli fosse chiesto di restare? Sarebbe davvero complicato per un personaggio con la storia di Draghi, che è sempre stato attento ai segnali che arrivavano dal mondo anglosassone, dire di «no». Ecco perché più delle promesse dei partiti di governo, delle giravolte grilline, degli appelli alla responsabilità del Quirinale, nella mente di un Premier stufo non poco delle miserie della politica italiana, possono aprire un varco le valutazioni di carattere internazionale e i richiami dello zio Sam.

Feluche, toghe e barbe finte. Augusto Minzolini il 29 Luglio 2022 su Il Giornale.

Siamo tra i Paesi occidentali che si sono mostrati più solidali con l'Ucraina e ci vuole poco per rendersi conto che la nuova cortina di ferro non passa poi così distante da noi.

Premessa: il 16 luglio, per primi, aprimmo Il Giornale con il titolo fortunato «Ombre russe sulla crisi». Non bisogna essere dei Pico della Mirandola per intuire che con una crisi internazionale di queste proporzioni gli occhi del mondo sono puntati da mesi anche su di noi: siamo tra i Paesi occidentali che si sono mostrati più solidali con l'Ucraina e, visto che siamo tornati indietro di sessant'anni, ci vuole poco per rendersi conto che la nuova cortina di ferro non passa poi così distante da noi. Quindi ci attenzionano da Mosca, ma non solo. Motivo per cui bisogna muoversi con i piedi di piombo nelle congetture e nelle suggestioni. Altrimenti si rischia che questa campagna elettorale, già avvelenata di suo, sia condizionata da feluche straniere, barbe finte e immancabili toghe italiane.

Ora, tirare in ballo Matteo Salvini su Putin e sulla Russia purtroppo è diventato uno sport nazionale. La Stampa ieri ha scritto di un documento di intelligence che racconta l'aneddoto di un funzionario dell'ambasciata russa che durante i giorni della crisi avrebbe chiesto ad un personaggio che passa per essere un collaboratore del leader del Carroccio se la Lega fosse intenzionata a ritirare i suoi ministri dal governo. Il capo dei nostri servizi ha smentito l'esistenza di questa documentazione nei file degli 007 italiani. La Stampa ha confermato. Ora bisogna capire se quel dossier esiste, è attendibile e, nel caso, di quale intelligence si tratta. Se straniera o nostrana.

Il punto, però, non riguarda tanto la veridicità dei documenti, visto che in un momento del genere di «spy story» pullula il globo. Semmai, l'importante è non scambiare lucciole per lanterne per non rischiare di creare delle interferenze sul voto che in un secondo momento, conclusa la campagna elettorale, risultino del tutto false. In questo la sinistra è maestra, tant'è che ieri Enrico Letta si è presentato davanti alle telecamere per pronunciare il suo j'accuse contro Salvini, indossando i pantaloni di Le Carrè e la giacca di Ian Fleming.

La verità è che in questo caso c'è un dato che smentisce la ricostruzione degli anonimi 007: la miccia sotto il governo Draghi è stata accesa da Giuseppe Conte, cioè il personaggio che fino a tre settimane fa Letta aveva scelto come interlocutore privilegiato. Se lui non avesse messo in moto il meccanismo della crisi, avremmo ancora Draghi a Palazzo Chigi e le urne chiuse. Salvini, anche volendo, non avrebbe potuto far nulla. È un dato incontestabile per chiunque sia onesto sul piano intellettuale. Come pure non si può dimenticare che le riserve sulle armi a Kiev di Salvini si sono fermate alle parole, mentre è stato Conte a fare passi in Parlamento per chiedere al governo un cambio di rotta. E ancora: mentre la tournée a Mosca del leader della Lega si è fermata ai depliant dell'agenzia di viaggio, il Dibba che divide con Giuseppi la leadership dei pasdaran grillini ha trascorso settimane a zonzo fra Siberia e Cremlino. Quindi, se si vuol parlare di «fattore P», cioè di Putin, quello investe soprattutto Conte e non Salvini. Il primo a saperlo dovrebbe essere Luigi Di Maio se non è stato alla Farnesina solo di passaggio.

P.S. Questo non toglie che Salvini per evitare una campagna elettorale in cui si parli solo di «fascismo» o di «fattore P», non debba dire parole chiare sull'atlantismo e sull'Ucraina. Siamo di nuovo alla guerra fredda ed è complicato, se non impossibile, andare al governo senza aver dato garanzie ai nostri alleati internazionali.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 28 luglio 2022.

In una campagna elettorale già tesa emergono elementi nuovi sul rapporto tra Matteo Salvini e la Russia, che illuminano di una luce inquietante anche la caduta di Mario Draghi, e gli eventi accaduti negli ultimi due mesi di vita del governo. 

Secondo documenti d'intelligence che La Stampa ha potuto visionare, alla fine di maggio Oleg Kostyukov, importante funzionario dell'ambasciata russa, domanda a un emissario del leader leghista se i loro ministri sono «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Lasciando quindi agli atti un interesse fattuale di Mosca alla «destabilizzazione» dell'Italia.

In quei giorni Salvini e il M5S stanno scatenando l'offensiva contro l'allora premier, rispettivamente, con la campagna d'opinione e la risoluzione parlamentare che punta a chiedere il no all'invio delle armi in Ucraina, e i russi ritengono giunto il momento di poter esplicitare il passo più grave: Kostuykov domanda al consigliere per i rapporti internazionali del leader della Lega Salvini, Antonio Capuano - un ex deputato napoletano di Forza Italia, oggi non più parlamentare, che in passato sostenne di aver aiutato l'allora ministro Frattini in alcuni dossier internazionali - se i leghisti si vogliono ritirare dal governo, in sostanza facendolo cadere. 

«Il diplomatico, facendo trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del Governo italiano con questa operazione, avrebbe chiesto se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni dal Governo

Kostuykov, «vicario dell'ufficio politico dell'ambasciata russa a Roma», è l'uomo che, come forse ricorderete, compra materialmente in quei giorni i biglietti aerei per la tentata, e poi abortita, "missione di pace" di Salvini a Mosca. Biglietti che il capo leghista ha spiegato poi di aver rimborsato. 

Ma ovviamente il problema non è solo quello: mentre aiutavano ad acquistare i biglietti, i russi si interessavano alle sorti del governo italiano. 

Tutto questo avviene in una serie di conversazioni tra il 27 e il 28 maggio 2022. Il 26, il giorno prima, Draghi ha parlato al telefono con Putin per provare a sbloccare la crisi del grano, uscirà dalla telefonata con un amaro «non ho visto spiragli di pace». Con una mano Putin parla con Draghi. Con l'altra mano, i funzionari russi si adoperano con la Lega, contro Draghi.

In tutta la primavera del 2022 l'attivismo russo in Italia è stato attentamente monitorato. A inizio di maggio del 2022 Capuano sarebbe contattato «da una esponente (non si fa il nome di questa donna, ndr) del partito di Vladimir Putin, Russia Unita, che, informata della missione programmata per il leader del Carroccio, si sarebbe offerta di supportare il Consulente di Salvini nell'organizzazione della trasferta, suggerendogli in prima battuta di prelevare il denaro necessario per effettuare tutti i pagamenti previsti nel corso della trasferta, da convertire in rubli in loco, essendo inutilizzabili carte di credito e bonifici bancari. In tale contesto, il Consulente avrebbe riferito di incontri già fissati con il Ministro Sergej Lavrov - con il quale sarebbe stato programmato un pranzo per il 6 maggio 2022 - e con il Presidente della Camera Alta dell'Assemblea Federale russa, Valentina Matvienko».

Matvienko, piccola parentesi, è una oligarca non da poco: possiede una straordinaria proprietà in Italia, sulla costa di Pesaro, 26 ettari di territorio, 650 metri di costa disponibile e totalmente privatizzata, casa di 774 metri quadrati. È una delle funzionarie più potenti del regime del Cremlino, quella che il 23 febbraio 2022 ha firmato la richiesta di truppe russe all'estero, ossia l'entrata in guerra della Russia con l'invasione dell'Ucraina.

Una donna che è naturalmente sotto sanzioni dell'Ue - addirittura fin dalla prima ondata, il 21 marzo 2014, assieme a uomini come Vladislav Surkov, allora consigliere di Putin, il "mago del Cremlino", e Sergey Narishkin, oggi capo del Svr, i servizi esteri russi. Non è chiaro perché questa magione non sia stata sequestrata, nel momento in cui scriviamo.

Matvienko viene da una lunga storia sovietica, prima nel Komsomol, il Comitato della Gioventù Sovietica, poi nel Partito e nel Servizio diplomatico. Sostiene Kamil Galeev, fellow del Wilson Center e esperto di storia sovietica, che, parlando in linea generale, le giovani donne del Komsomol svolgevano per lo più compiti di accompagnatrici in quella Unione sovietica brutalmente sessista: «Le ragazze stereotipate del Komsomol che aspiravano alla carriera partecipavano spesso a saune con i capi, in Urss era chiamato "l'escort service"».

Lavrov, Matvienko, forse anche Putin: questa è la triade che i russi promettono di far incontrare al capo della Lega a Mosca. Il 19 maggio 2022 Salvini aveva già incontrato «riservatamente l'Ambasciatore russo, con il quale avrebbe discusso anche dell'eventuale viaggio di Papa Francesco in Russia, ravvisando uno spiraglio circa la possibilità che esso si concretizzi alla luce della disponibilità del diplomatico, che avrebbe unicamente posto una non meglio identificata condizione, ritenuta tuttavia superabile». 

Il 27 maggio, in Vaticano, il cardinale di Stato Pietro Parolin vede Salvini e, appunto, il consulente Capuano, che evidentemente non è un mitomane. E qui entra in gioco la disponibilità di un terzo Paese, non del tutto amichevole con Mario Draghi: la Turchia di Recep Tayyip Erdogan - che Draghi definì senza tanti giri di parole «un dittatore». Apprendiamo che «la logistica del viaggio dovrebbe prevedere uno scalo intermedio in Turchia, prima di arrivare a Mosca».

In questo contesto si inserisce la vicenda specifica - già diventata pubblica, e confermata anche dall'ambasciata russa - dei voli che il capo leghista non riesce ad acquistare. Gli viene in aiuto Oleg Kostyukov. 

Finora però non si era mai saputo il tenore dei colloqui tra il russo e il consulente del leader leghista. Kostyukov, dettaglio notevole, sarebbe il figlio di Igor Kostyukov, il capo del Gru, i servizi militari di Mosca, pezzo grossissimo dell'apparato putiniano. Abbiamo chiesto all'ambasciata russa a Roma una conferma o smentita sui legami tra i due, non abbiamo ricevuto alcuna risposta.

La sera del 27 maggio l'ambasciata russa manda per sms a Capuano i biglietti aerei di Salvini. Il quale riceve conferma che oltre al pranzo con Lavrov, ci sarà un incontro «fissato per martedì 31 maggio 2022», con Dmitry Medvedev, l'uomo che in questi mesi si è dimostrato il più falco dei falchi del Cremlino, e che 50 giorni dopo, alla caduta di Draghi, esulterà postando su Telegram una foto del premier italiano e di Boris Johnson, e la didascalia «chi sarà il prossimo?». 

«Salvini - veniamo a sapere - avrebbe precisato che il suo obiettivo sarebbe di riuscire ad ottenere qualcosa a livello mediatico, fosse anche soltanto "una pacca sulla spalla"». Già era campagna elettorale?

Nella scena di questa spericolata operazione - che i russi dunque legano non solo a questioni internazionali, ma anche ad affari interni italiani che non dovrebbero riguardarli - gli americani si accorgono dei movimenti e cercano di marcarli, e depotenziarli. 

«Capuano sarebbe stato contattato da un soggetto dell'ambasciata americana a Roma, che si sarebbe detto molto interessato al viaggio del senatore Salvini a Mosca, pur non avendone ancora compreso la reale finalità.

Capuano avrebbe risposto di non poter fornire dettagli (agli americani)», e avrebbe rilanciato la palla chiedendo di vedere eventualmente dopo il viaggio in Russia l'allora incaricato d'affari dell'ambasciata Usa, sollecitandolo a organizzare un incontro del leader leghista «con esponenti di altissimo livello a Washington». 

Gli americani, sappiamo da fonti qualificate, ovviamente non daranno mai seguito a questa cosa. Ma continueranno a tenere discretamente d'occhio questa vicenda.

Dopo l'ultimo contatto coi russi, che annuncia la decisione di Salvini di rinunciare all'impresa, Kostyukov compie l'opera. 

Di fronte a un Capuano in agitazione per la possibile irritazione del Cremlino, lo rassicura «di non preoccuparsi per gli impatti su Mosca»: «Parallele evidenze attesterebbero che il diplomatico russo, dopo il colloquio con Capuano, avrebbe lasciato la propria residenza per recarsi all'Ambasciata russa a Roma dove si sarebbe trattenuto per circa un'ora, verosimilmente allo scopo di tenere comunicazioni riservate con Mosca».

Il viaggio leghista a Mosca è fallito, ma c'è ampio e soddisfacente materiale per l'operazione-caduta di Draghi. Tutto questo avviene due mesi prima dell'impallinamento di Draghi, quando tutti gli attori si muovono ancora nel regno delle possibilità, e commettono dunque qualche spericolatezza. Non sappiamo cosa succede nell'ultimo mese e mezzo, se gli interessi russi per le scelte dei ministri italiani si siano riappalesati. 

Certo fanno impressione, a rileggerle in questa luce, le parole pronunciate dal premier italiano in quello che resta il suo ultimo discorso in Senato: «In politica estera, abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostegno del governo verso l'Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin».

(ANSA il 29 luglio 2022) - Il Copasir due settimane fa aveva già lanciato l'allarme sulle possibili ingerenze esterne sulle elezioni, oggi al centro del dibattito politico dopo le rivelazioni fatte da 'La Stampa' sulle interlocuzioni tra la Lega e Mosca. 

Lo rivela oggi “Il Foglio”, pubblicando lo stralcio di una lettera inviata 14 giorni fa da Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ai presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Roberto Fico.

"Vi chiedo di sensibilizzare il Parlamento a occuparsi delle possibili ingerenze esterne sugli eletti in vista dei prossimi mesi", scriveva Urso, quando ancora il governo Draghi non era caduto e non era iniziata la campagna elettorale. 

Nella lettera del presidente del Copasir, secondo quanto riportato da “Il Foglio”, si faceva riferimento anche a una risoluzione del 9 marzo votata dal Parlamento europeo "sulle ingerenze straniere nella politica dei paesi Ue e sulla disinformazione frutto del lavoro svolto dalla speciale commissione istituita dal Pe".

 'Il Foglio' ricorda che nella relazione approvata da Strasburgo sul giro di vite alle ingerenze straniere nella vita politica degli altri Paesi "si menzionava anche il rapporto tra alcuni partiti europei e la Russia. In particolare Russia unita, partito di Vladimir Putin. 

E cioè i famosi "accordi di cooperazione" tra il partito di Mosca e la Lega nord. Senza dimenticare l'austriaco Freiheitliche Partei Österreichs, il francese Rassemblement National, il tedesco Afd, gli ungheresi Fidesz e Jobbik e il Brexit Party nel Regno Unito".

Marco Galluzzo per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2022. 

La verifica è partita. E Adolfo Urso, esponente dei Fratelli d'Italia, presidente del Copasir dal 9 giugno dello scorso anno, ne discute con gli altri componenti del Comitato quando sottolinea che è già stato chiesto ai vertici della nostra intelligence se ci sono evidenze di ingerenze straniere sugli interessi strategici nazionali. Ma non solo.

Perché la stessa domanda in forma scritta è stata posta al sottosegretario Gabrielli che ha risposto con un documento che è secretato ma che è sostanzialmente negativo. E almeno altre 3 volte nel corso delle audizioni con i vertici dei nostri servizi di sicurezza, la risposta è stata sempre la stessa: secondo le attività svolte da parte dei nostri apparati non ci sono evidenze di un ruolo invasivo della Russia nelle dinamiche politiche interne al nostro Paese. 

Sull'autenticità o la provenienza delle rivelazioni emerse sui contatti fra esponenti dell'ambasciata russa in Italia e persone vicine alla Lega, Urso non vuole esprimersi, ma si sente di mettere la mano sul fuoco sull'attività dei nostri 007: sono mesi che il Comitato ha un'interlocuzione con i servizi sulle possibili ingerenze di Mosca nelle dinamiche politiche interne, le risposte ricevute sono state sempre le stesse e rassicuranti.

Perché - questa è la linea - non esistono elementi che dicano che i nostri interessi nazionali sono stati intaccati, compromessi, eterodiretti. 

Urso lo ha detto anche a chiare lettere prima di partecipare ad una riunione del suo partito: «Ha già chiarito il sottosegretario Gabrielli con una dichiarazione che non lascia adito a dubbi. Il Comitato si è occupato di questa vicenda in tempi non sospetti ottenendo informazioni e rassicurazioni dall'autorità di governo e dall'intelligence. Credo che la dichiarazione di Gabrielli sia sufficiente a evitare che il Copasir sia usato per campagne elettorali. Noi siamo un'istituzione e dobbiamo garantire anche questo».

L'atteggiamento e la postura di Urso sono dunque allineati ad un profilo istituzionale che cerca di sottrarsi a qualsiasi tipo di strumentalizzazione di eventuali notizie di stampa. 

Viene da chiedersi, di fronte a quanto scritto dal quotidiano La Stampa, di quali fonti di intelligence si tratti se non sono italiane: nelle conversazioni ufficiose delle ultime ore, in cui fanno capolino anche esponenti del Copasir, non si tralascia alcuna ipotesi, compresa quella che alcune intercettazioni siano di marca straniera. 

Ovviamente tutto è fonte di valutazione, anche eventuali millanterie, o dinamiche che tanto assomigliano ad un'ingerenza sui nostri interessi ma che evidentemente i nostri servizi "pesano" in modo diverso. 

Sembra di capire che eventuali contatti, relazioni, tentativi di accreditare un'influenza sulla nostra politica, vengano seguiti e osservati sino al punto del riscontro di efficacia, che al momento, almeno nella versione ufficiale, non è mai arrivato.

Altra cosa è dire che i russi non ci provino, ma questo non riguarda il perimetro di controllo del Copasir, che per mandato segue l'attività dei nostri Servizi e cerca di capire se sono mai emerse prove di un'ingerenza straniera che abbia colpito gli interessi nazionali in modo efficace. 

C'è poi il dato di una campagna elettorale che è già entrata nel vivo e da questo punto di vista Urso non ha alcuna intenzione di cedere alle richieste del Pd, o di Italia Viva, o di altri partiti, di aprire un programma nuovo di audizioni con al centro Salvini e le relazioni di esponenti vicini alla Lega con la Russia: la prossima settimana il capo del Dis, Elisabetta Belloni, verrà ascoltata dal Comitato sulla guerra in Ucraina, la situazione in Libia, ma ufficialmente l'agenda non cambia.

Ciò non toglie che «tutti possono chiedere quello che vogliono», continua Urso, ma guai a strumentalizzare l'attività del Comitato per finalità di campagna elettorale. Sarebbe inammissibile. Certo, ricorda Urso, la Russia negli ultimi sette anni nei confronti dei Paesi europei ha prodotto 14 mila fake news che sono state documentate, poco meno di 200 al mese, e tante riguardano anche l'Italia: notizie false, filmati costruiti artificialmente, una macchina di disinformazione monitorata in modo chirurgico sia Washington che a Bruxelles. Ma questa è un'altra storia. 

IL MANAGER VICINO A URSO CHE LAVORA PER PUTIN IN UE

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 5 agosto 2022.

Lungo il percorso di "atlantizzazione" di Giorgia Meloni e del suo partito, Fratelli d'Italia - «siamo quelli che più di tutti garantiscono la collocazione atlantica dell'Italia" ha detto la segretaria appena qualche giorno fa - c'è un signore che rischia di creare a tutti qualche imbarazzo. 

È un importante manager francese che ha passato metà della sua vita in Italia, dove ancora ha amici e affari, e che da qualche anno si è trasferito a Mosca. Dove lavora come consigliore degli uomini di Putin con un compito preciso: creare relazioni in Europa.

In Italia questo signore, Emmanuel Gout, è un grande amico di Fratelli d'Italia. Sostenitore di uno dei suoi uomini più importanti e credibili, soprattutto sui temi della difesa e della sicurezza nazionale: Adolfo Urso, il presidente del Copasir, uno dei curriculum più spendibili per il partito della Meloni. Gout è infatti nel comitato scientifico della fondazione di Urso, Farefuturo, oltre a essere stato uno dei suoi finanziatori nel corso della scorsa campagna elettorale.

Il punto, si diceva, è che Gout non è un pensatore qualsiasi. Ma è considerato, dalle intelligence europee, uno dei principali agenti di influenza russa in Europa. Una convinzione che deriva non soltanto dalle posizioni pubbliche che il manager ha ripetutamente preso, ancora di più negli ultimi mesi con l'inizio del conflitto ucraino, ma da una serie di elementi fattuali. 

Gout nasce come manager dell'informazione, nella sua Francia con France +. Quando in Italia parte l'avventura di Tele + viene chiamato per la sua esperienza specifica a guidare l'esperienza della pay tv in Italia. Diventa poi presidente del parco giochi di Cinecittà a Roma per poi tornare nel 2017 in Francia. Non in un momento qualsiasi ma nel corso della campagna elettorale per le presidenziali: Macron da un lato, Marine Le Pen dall'altro. Gout si schiera a favore di Le Pen in maniera decisa.

E soprattutto lo fa accanto a un canale di informazione, Rt France, interamente pagato dalla Russia. Un canale che diventò il principale antagonista di Macron nel corso della campagna elettorale. Il sostegno a Le Pen di RT non bastò: En Marche vinse, ma Rt rilanciò con l'apertura di un canale tv di informazione dal budget di 100 milioni (chiaramente russi), scegliendo proprio Gout come responsabile dei rapporti politici. 

Da Rt sono nati Sputnik e tutti gli altri sistemi di disinformazione che la Russia ha utilizzato per inquinare le democrazie europee, messe al bando ora dall'Ue. L'amico di FdI ha continuato a lavorare in questi anni: ha un sito, un canale Telegram e YouTube (Terrabellum.fr) dove campeggia a tutta pagina una foto di Vladimir Putin.

Ha fortemente contestato le politiche europee sul Covid («anche una malattia psichiatrica che colpisce principalmente le vittime del lockdown»), e dall'inizio del conflitto ha sempre fatto sentire la vicinanza alla Russia. Secondo informazioni di intelligence, in Francia è stato l'uomo di collegamento tra Eric Zemmour, il candidato di estrema destra alle ultime presidenziali, e Putin. Ed è stato inoltre uno dei grandi mediatori, negli ultimi mesi, tra la Russia e il Vaticano.

Bene: che ci fa uno così con FdI? Come può essere nella Fondazione del presidente del Copasir? «Le posizioni della nostra Fondazione - dice Urso - sono sempre state a tutela dell'Occidente e contro i sistemi autoritari, Cina e Russia. Conosco le posizioni di Gout, che ovviamente non condivido, e lui conosce benissimo le mie che mi sembra siano chiarissime. Siamo però in una democrazia e ciascuno può esprimere le sue opinioni».

LA REPLICA DI EMMANUEL GOUT A “REPUBBLICA”

Buongiorno,

Vi prego di pubblicare il diritto di risposta a seguito della vostra pubblicazione del venerdì 5 agosto 2022 «il manager vicino a Urso… » 

Egregio Dott. Foschini, senza entrare in tutti particolari, a contraddire tutto ciò che scrive a mio proposito sono le mie stesse pubblicazioni e prese di posizione che si possono facilmente ritrovare - ma che evidentemente Lei non ha preso il tempo di consultare - in farefuturofondazione.it (Link per quanta riguarda Terrabellum dove potrà  notare le mie dichiarazioni sull’Italia) o in fine sul mio blog personale emmanuelgout.com

Senza contare l’attribuzione di dichiarazioni false sul Covid o la responsabilità presso TV che non esistono: France +.

Triste giornalismo.

Distinti saluti, Emmanuel Gout”

Da Ansa il 30 luglio 2022.  

"Posso dire, per quello che è a conoscenza dei Servizi segreti italiani, che attività volte a favorire la caduta del governo Draghi da parte di questa interlocuzione non ci sono state. E' questa forse la cosa che può interessare di più". Lo ha detto Franco Gabrielli, Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, dal palco de 'Il libro possibile' a Vieste. Gabrielli ha risposto alle domande su presunti contatti tra il consigliere di Salvini, Antonio Capuano, e il funzionario dell'ambasciata russa a Roma, Oleg Kostyukov. Una notizia, secondo Gabrielli, arrivata "in un momento nel quale il Paese ha bisogno di grande serenità".

"La mia presa di posizione di ieri, che non ha voluto minimamente entrare nel merito della cosa - ha sottolineato il sottosegretario -, è un intervento volto soprattutto a tutelare il sistema dell'intelligence del nostro paese". Secondo Gabrielli, "se il tema è far chiarire al senatore Salvini quali sono le sue posizioni nei confronti della Federazione Russa, non serve evocare cose di questo genere. E' una complicazione e rischia anche di spostare il problema".

"Stiamo entrando in campagna elettorale - ha aggiunto il sottosegretario - quella è la sede nella quale, in qualche modo, qualcuno esporrà le sue posizioni". "Ma - ha rilevato - tirare per la giacca una serie di situazioni, attribuirle in maniera apodittica, tra l'altro anche lì decontestualizzando, credo non si renda un servizio soprattutto all'opinione pubblica che si deve fare una idea. Posso dire, per quello che è a conoscenza dei servizi segreti italiani, attività volte a favorire la caduta del governo Draghi da parte di questa interlocuzione non ci sono state. E' questa forse la cosa che può interessare di più".

Rita Cavallaro per “L’Identità” il 4 agosto 2022.

Ci sono i servizi segreti deviati dietro le intercettazioni sulle ombre russe. L’intelligence italiana è scossa dalla caccia agli agenti infedeli. Sì è scatenato l’inferno nell’intelligence italiana, scossa dalla caccia agli infedeli e minata nell’affidabilità degli 007. Il timore che dietro un qualsiasi agente si nasconda una spia che si muove per soldi, interesse politico o amicizia ha generato un cortocircuito nei rapporti con le altre agenzie di sicurezza dei paesi “alleati”.

Il risultato è che l’immagine dei servizi segreti nostrani è stata così tanto macchiata dalla macchina del fango da essere arrivati alle porte sbattute in faccia, alla frattura diplomatica con le agenzie straniere e all’immediata interruzione dello scambio di informazioni tra le spie internazionali e i nostri agenti. Una situazione di isolamento resa critica dal momento storico italiano, con una guerra alle porte e lo spettro di un autunno caldo sul fronte sociale ma freddo per la crisi del gas.

Una mancanza di controllo che le alte sfere cercano di tenere celata, ma che è venuta fuori in tutta la sua drammaticità, svelata, senza volerlo, dallo stesso sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli, così concentrato sulla propaganda del suo libro da non essersi reso conto di quanto le sue parole per smentire le ombre russe siano diventate una conferma di aspetti più gravi. 

Per minimizzare un problema inesistente, ovvero la mano di Putin sulla caduta dell’Esecutivo Draghi, Gabrielli ha sganciato una bomba: l’esistenza di servizi deviati che si muovono al soldo di 007 stranieri. A confermare la circostanza le dichiarazioni del direttore de La Stampa, Massimo Giannini, il quale, a seguito della smentita, si è visto costretto a pubblicare le intercettazioni, che seguono la divulgazione delle liste dei putiniani. 

Già con la pubblicazione di quei nomi sul Corriere, lo stesso capo degli 007 aveva annunciato la missione di scovare la manina che aveva consegnato quella lista e, dietro questo pretesto, ha dato vita a epurazioni “scientifiche” che hanno portato alla cacciata da Aisi, Aise e Dis di agenti sgraditi.

Poco importa se Gabrielli, l’uomo che nella realtà non controlla i Servizi, in questi mesi non sia riuscito a portare a termine la sua mission. In mancanza del responsabile le epurazioni erano partite all’insegna di una guerra senza quartiere, come vi avevamo annunciato un mese fa proprio su L’Identità, e oggi la ricerca degli infedeli si è acutizzata all’insegna dell’individuazione di quei pezzi deviati a cui Gabrielli, in modo criptico, fa riferimento durante la presentazione del suo libro a Vieste. 

 “Per quello che è a conoscenza dei servizi italiani, attività volte a favorire la caduta del governo Draghi da parte di queste interlocuzioni non ci sono state”, ha sottolineato. “La mia presa di posizione è un intervento volto soprattutto a tutelare il sistema dell’intelligence del nostro Paese. Se il tema è far chiarire al senatore Salvini quali sono le sue posizioni nei confronti della Federazione Russa, non serve evocare cose di questo genere. È una complicazione e rischia anche di spostare il problema”, ha detto. “Tutelare il sistema dell’intelligence”, “evocare cose di questo genere” e “complicazione” sono le parole chiave che, abbinate ai concetti successivi, rendono evidente la faccenda.

Gabrielli ha aggiunto che nella vicenda c’è una certezza: la presenza di “infedeli” nei servizi segreti, qualcuno che ha in mente obiettivi che con la sicurezza nazionale hanno poco a che fare e che si è divertito a far circolare carte false “per i motivi più disparati: amicizia, simpatia, soldi, convincimento politico, o perché magari vuol fare dispetto a qualcun altro”. 

Ma l’azione “punitiva” non è servita a dissuadere gli agenti deviati dall’azione di dossieraggio, alimentando la fuoriuscita di documenti e rendendo palese l’esistenza di infedeli. Anche perché le intercettazioni preventive passano al vaglio autorizzativo del procuratore generale della Repubblica, per cui è difficile che un giornalista come Giannini non sia in grado di verificare la veridicità dei documenti.

Il sottosegretario, riferendosi alle epurazioni, ha specificato: “Qualcuno è già andato, e non ci fermiamo lì”. E ha motivato la rimozione con lo spettro degli agenti infedeli. Le fattispecie indicate, se corrispondenti al vero, costituiscono reato. Se il sottosegretario ha mandato via spie deviate dovrà quantomeno avere le prove dell’infedeltà. E queste prove, che ipotizzano reati penali, devono essere trasmesse all’autorità giudiziaria, che ha l’obbligo dell’azione penale. 

Esiste un fascicolo sulla scrivania di qualche magistrato? Improbabile, perché è palese quanto queste condotte non portino a nulla, visto che continuano a uscire le intercettazioni e le persone mandate via sono state rimosse prima delle “ombre russe”. Quindi Gabrielli ha cacciato gli agenti sbagliati. Se la fuga di veline non si ferma vuol dire che c’è un gruppo, non identificato, che sta lavorando contro lo Stato: servizi deviati, alti dirigenti infedeli che stanno facendo di tutto prima del voto, per facilitare la cacciata di innocenti.

E Draghi cosa fa per fermare una situazione così allarmante? Da Palazzo Chigi non si muove foglia che Draghi non voglia e allora c’è solo una spiegazione: queste spie italiane non stanno agendo agli ordini della nostra intelligence, ma al soldo di qualche servizio segreto straniero. Ormai lo hanno capito anche le spie degli altri Paesi “alleati”, tanto che siamo arrivati al punto che gli altri 007 non si fidano più degli italiani. Potranno mai condividere operazioni in Libia, Medio Oriente, Ucraina, quando due quotidiani così importanti confermano in tv la provenienza dall’intelligence delle notizie pubblicate?

È opportuno che il sottosegretario con delega ai Servizi giri per l’Italia propagandando il suo libro e annunci la cacciata di agenti infedeli? Omettendo invece di avere inserito, qualche giorno fa, il suo segretario personale quando era in polizia, Luca Scognamillo, come capo di gabinetto del Dis, uno che non ha mai fatto l’agente segreto al vertice del coordinamento dell’intelligence. Vuol dire che nei servizi vanno solo i fidelizzati all’orientamento politico di Gabrielli, in uno spoils system così abbondantemente consolidato. Resta un mistero l’obiettivo alla base di questa occupazione. Tanto che, chi viene mandato via ripete: allora la fedeltà è a Gabrielli e non allo Stato? Ai posteri l’ardua sentenza.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 29 luglio 2022.

Le rivelazioni, pubblicate da La Stampa ieri, sulla sequenza e alcuni dei contenuti riservati dei contatti avvenuti a maggio scorso tra un emissario di Matteo Salvini e i russi dell'ambasciata a Roma, hanno innescato una polemica politica assai aspra, specialmente su uno degli elementi di fatto che abbiamo raccontato, e non sono stati smentiti nel merito da nessuno dei diretti interessati: la domanda, rivolta dai russi al consulente di Salvini, se i ministri leghisti fossero orientati a dimettersi. Siamo a fine maggio, la caduta di Draghi non è minimamente all'ordine del giorno di nessuna agenda e nessun osservatore, eppure i russi s' informano e domandano sul punto. Oggi La Stampa è in grado di rivelare diversi altri dettagli interessanti.

Antonio Capuano, colui che viene indicato come «consulente per i rapporti internazionali del leader della Lega», nei contatti avuti la sera del 27 maggio con l'ambasciata russa non viene solo informato del piano d'incontri fissato dai russi per Salvini a Mosca (un pranzo con Serghey Lavrov e un incontro con Dmitry Medvedev), entrambi per il 31 maggio, ma chiede qualcosa di più. Stando a quanto risulta a La Stampa, il consulente tenta il colpo grosso, e ci va vicino, o almeno gli viene fatto balenare: «In aggiunta, Capuano auspicherebbe anche un possibile incontro di Salvini con il presidente Putin, sempre nella giornata del 31 maggio».

Il leader della Lega ha minimizzato l'entità del suo rapporto con l'ex deputato campano di Forza Italia, oggi cittadino comune sprovvisto delle tutele parlamentari, sostenendo che non si tratta neanche di un leghista. Ma che non agisse di testa sua è testimoniato da diverse circostanze convergenti, compresa la sua presenza all'incontro in Vaticano con Pietro Parolin, il 27 maggio. E fu anche abbastanza candidamente dichiarato da Capuano stesso quando - emersa la vicenda dei biglietti aerei (nello scorso giugno) - spiegò alcune cose in alcune interviste.

Uno, disse che «i russi hanno capito che Salvini voleva spendersi davvero. E lo hanno invitato a fare altri passi». Due, che l'interlocutore era «l'ambasciatore. Il segretario ha spiegato il suo progetto in quattro punti. Dall'altra parte è arrivata un'apertura di credito» (il piano comprendeva quattro tappe: trovare un luogo per intavolare le trattative di pace; dare compiti di garanzia a tre Paesi, Italia, Francia e Germania; il cessate il fuoco; il viaggio di una altissima personalità nelle zone interessate). Non è chiaro se l'altissima personalità nella quale speravano potesse essere addirittura il Papa, come sembra dal contenuto dei colloqui nell'incontro con Parolin.

Di fronte a chi lo ha sospettato di possibili millanterie, Capuano rispose «la verità è che io sono apprezzato dalle ambasciate di mezzo mondo e questo a qualcuno dà fastidio». Un'affermazione che, per quanto spettacolare, sembra trovare qualche indizio fattuale. Perché usava il plurale? A La Stampa risulta per esempio che l'emissario di Salvini non si sarebbe limitato ai contatti con i russi, avrebbe cercato di fare da sponda in qualche modo, almeno in una occasione, anche con i cinesi.

Un mese prima degli eventi di maggio raccontati ieri, cioè nell'aprile 2022, Capuano si sarebbe confrontato con il capo della sezione politica dell'ambasciata cinese in Italia, Zhang Yanyu, proprio «per riferirgli di una missione programmata dal leader della Lega a Mosca dal 3 al 7 maggio, finalizzata a incontrare Istituzioni, Ministro degli esteri e Presidente russi». I cinesi insomma vengono a sapere della possibile missione russa (inizialmente prevista a inizio, non a fine maggio) di un membro decisivo della maggioranza Draghi, quando ancora lo stesso premier italiano non ne è informato.

Russia e Cina, separatamente, sanno, Italia no. Capuano si muove «chiedendo al diplomatico cinese la possibilità di organizzare, prima di rientrare dalla Russia, un incontro a Pechino con il Ministro degli esteri cinese, Wang Yi». Il consulente spiega ai cinesi che l'intento di Salvini è promuovere la pace, e si mostra anche a conoscenza di presunte dinamiche interne del governo italiano, quando dice che «anche il governo italiano avrebbe poi sostenuto» questa «posizione».

Una serie singolare di movimenti, insomma, spendono anche il nome del governo italiano con Stati che non appartengono al nostro sistema tradizionale di alleanze europee e atlantiche. E che probabilmente sono lieti di aprire porte e orecchie a questi abboccamenti. Capuano è così interessato anche a una sorta di coinvolgimento dei cinesi, da proporre di superare eventuali restrizioni dovute alla pandemia organizzando l'incontro da remoto, nella sede dell'ambasciata cinese.

Non siamo a conoscenza se la cosa abbia avuto un seguito, non è citata alcuna reazione cinese, ma un movimentismo del consulente a tutto campo è attestato. Quando il viaggio a Mosca infine tramonta, il leader leghista avrebbe riferito a Capuano stesso delle critiche ricevute da molti dei leghisti, e degli «attacchi ricevuti da parte dei leader politici bipartisan, compresa Giorgia Meloni». Negli angoli della vicenda ricompare una spaccatura Salvini-Meloni, e coincide con una campagna elettorale in cui non sarà facile far combaciare tutti i tasselli del puzzle.

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 30 luglio 2022.

Proprio nei giorni in cui l'emissario di Matteo Salvini entra nel vivo dei contatti con i russi per organizzare la missione del leader leghista a Mosca - con una serie di colloqui il cui contenuto è stato in parte rivelato da La Stampa - caso vuole che anche Silvio Berlusconi torni su posizioni pubbliche assai più gradite all'amico Putin, dopo che per un periodo era sembrato sia pure vagamente distanziarsene. 

Il 20 maggio - il giorno dopo uno degli incontri tra Matteo Salvini e l'ambasciatore Razov - il Cavaliere, tenuto per mano a Napoli dalla fidanzata Marta Fascina, dichiara: «Credo che l'Europa debba fare una proposta comune di pace cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin». Pochi giorni prima, da Treviglio, ha criticato Joe Biden, e l'invio di armi all'Ucraina nella forma decisa dal governo Draghi: «Putin non tratta con chi gli dà del "criminale". Mandiamo armi, anche noi siamo in guerra». Carlo Calenda chiosa: «Qui siamo oltre Salvini». Il consulente di Salvini, Antonio Capuano, usa proprio in quei giorni parole molto simili con i russi, e prima ancora con il capo della sezione politica dell'ambasciata cinese: l'intento del viaggio di Salvini sarebbe «preparare la pace», dice.

Berlusconi comincia anche a tenere la posizione sulle sanzioni che più piace a Mosca: «Hanno fatto molto male all'economia sovietica», ma: «hanno fatto male anche a noi».

Sembra rifiorire un amore mai spento. Nel mercoledì della crisi, proprio Marta Fascina, e Licia Ronzulli, lo isoleranno dalle telefonate che cercano di convincerlo a non sfiduciare Draghi.

La storia del rapporto tra Berlusconi e Putin risale ovviamente molto indietro, in parte nota in parte tuttora in progress, e fece preoccupare tantissimo gli americani. «Quali investimenti personali hanno (Berlusconi e Putin), che possono guidare le loro scelte in politica estera?». La domanda fu girata nel novembre del 2010 dal Dipartimento di Stato, allora guidato da Hillary Clinton, all'ambasciata americana a Roma. 

Nel 2008 l'ambasciatore americano in Italia, Ronald Spogli, in un cablo spedito al Dipartimento di Stato e alla Cia, e pubblicato dalla Wikileaks di allora, riferiva a Washington che la natura del rapporto tra Berlusconi e Putin era «difficile da determinare»: «Berlusconi ammira lo stile di governo macho, deciso e autoritario di Putin, che il premier italiano crede corrisponda al suo. () L'ambasciatore georgiano a Roma ci ha detto che il governo della Georgia ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti da eventuali condotte sviluppate da Gazprom in coordinamento con Eni». Il Cavaliere, l'unica volta che rispose, per iscritto, negò tutto.

L'ambasciatore georgiano non smentì mai.

Di sicuro nell'era Berlusconi l'Eni nel maggio del 2005 firma un accordo che avrebbe consentito a Gazprom Export di rivendere gas russo direttamente ai consumatori italiani. La storia finisce nel 2008 anche all'attenzione della Commissione europea, gravi opacità ricostruite così nel 2008 in un saggio di Roman Kupchinsky per Eurasia Daily Monitor: una società viennese, Central Energy Italian Gas Holding (Ceigh) - parte di un gruppo più grande, Centrex Group - avrebbe dovuto avere un ruolo importante in quel lucrativo accordo Russia-Italia. 

Questa Central Energy Italian Gas Holding era controllata al 41,6 per cento da Centrex e da Gas AG, al 25 per cento da Zmb (la sussidiaria tedesca di Gazprom Export, ossia in pratica da Mosca), e al 33 per cento da due società milanesi, Hexagon Prima e Hexagon Seconda, registrate allo stesso indirizzo di Milano, e intestate a Bruno Mentasti Granelli, l'ex patron di San Pellegrino. Il saggio di Kupchinsky trasformò la cosa in uno scandalo internazionale. L'accordo con Centrex fu cancellato. Ve ne furono altri? Ci furono rumors di un giacimento di gas kazako direttamente controllato dal Cavaliere. «Assolute sciocchezze», replicò Berlusconi. 

Forse il vero uomo del Cavaliere in Russia non è stato tanto Valentino Valentini, che certo andava e veniva da Mosca, quanto Angelo Codignoni, uomo di Silvio nei media russi, quello che istruisce Yuri Kovalchuk, oligarca putiniano e azionista principale di Bank Rossiya, su come creare l'impero tv del Cremlino. Il nome di Codignoni, scomparso nell'estate del 2021, è da pochi mesi riemerso anche nei Pandora papers, come beneficiario di una serie di trasferimenti milionari di soldi dalla Russia a tre società offshore di Codignoni a Montecarlo, Panama, British Virgin Islands. Le transazioni russe verso Codignoni sono tuttora al vaglio di diversi giornalisti investigativi internazionali. 

Documenti che naturalmente i russi per primi potrebbero avere. Quanto resta delle tracce del passato del Cavaliere e la Russia? Fu il Cavaliere a sostituire alla guida dell'Eni Vittorio Mincato, che obiettava sulla vicenda Centrex, con Paolo Scaroni. I contratti tra Gazprom e Italia diventano trentennali. L'energia era tutto, per la relazione Berlusconi-Putin. Ma anche il divertimento, il real estate, le vacanze. Le figlie di Putin, Katya e Masha, furono in vacanza a Porto Rotondo assieme a Barbara, la figlia più giovane di Berlusconi, nel 2002: lo stesso anno in cui Berlusconi vanta gli accordi, cui voleva legare la sua eredità geopolitica, di Pratica di mare. L'anno dopo, nel 2003, arrivò a Villa Certosa Putin stesso, con foto ormai celebri (indimenticabili anche quelle di Berlusconi col colbacco a Sochi).

Sono gli anni in cui la Costa Smeralda diventa un paradiso per oligarchi russi: Alisher Usmanov, che a un certo punto voleva anche comprare il Milan, di certo compra sette ville fantastiche (poi sequestrate dal premier Draghi); Roman Abramovich, che ancora nell'agosto 2021 vara il suo nuovo megayacht Solaris a Olbia, e andava alle feste da Berlusconi in cui Mariano Apicella stornellava Oci Ciornie; Oleg Deripaska. Quella Sardegna degli oligarchi che, per tanti anni, hanno visto in Berlusconi l'amico numero uno, e certi amori non possono finire mai. 

Estratto dell’articolo di Marco Galluzzo per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2022. 

[…] Viene da chiedersi, di fronte a quanto scritto dal quotidiano La Stampa , di quali fonti di intelligence si tratti se non sono italiane: nelle conversazioni ufficiose delle ultime ore, in cui fanno capolino anche esponenti del Copasir, non si tralascia alcuna ipotesi, compresa quella che alcune intercettazioni siano di marca straniera.

Ovviamente tutto è fonte di valutazione, anche eventuali millanterie, o dinamiche che tanto assomigliano ad un'ingerenza sui nostri interessi ma che evidentemente i nostri servizi "pesano" in modo diverso. […]

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 31 luglio 2022.

Oleg Kostyukov - il funzionario dell'ambasciata russa al centro di un caso per il contenuto di alcuni suoi colloqui di fine maggio con l'emissario di Salvini, in uno dei quali si mostra troppo interessato alle sorti del governo di Mario Draghi - non è, nonostante la giovane età, un novizio del nostro Paese. Né lui né la sua famiglia. Sui social in russo le sue pagine sono state cancellate, ma internet non cancella mai tutto del tutto. Scopriamo per esempio che è un giovane che ama tantissimo, da anni, Milano, che ha fotografie in Brera, che nel concerto di Marylin Manson a Milano era nel backstage abbracciato al cantante. Che adora le sorelle. 

Curiosità e vita di un ragazzo normale, ma forse con un qualche accesso speciale alle cose.

Poi, all'improvviso, dal 2014 spariscono le sue tracce. Puf, come se fossero tutte buttate giù all'improvviso. Come se fosse entrato in una seconda vita. La sua, vita. Secondo una delle fonti de La Stampa, Kostyukov è «senza alcun dubbio il figlio del capo del Gru», i servizi segreti militari di Mosca. Il giornalista russo che lo scrisse per primo, Serghey Ezhov, ci ha confermato di essersi occupato tanto di lui e della sorella. Arrivando a queste conclusioni, sulla base di una serie di documenti catastali. 

«Il capo dell'intelligence militare (ammiraglio Igor Kostyukov) è stato nominato capo della direzione principale di Stato maggiore generale alla fine del 2018, e l'anno successivo i suoi figli adulti sono diventati proprietari di immobili costosi». Un terreno a Lipka e un altro di 12 ettari nella comunità residenziale esclusiva di Beliye Rosy 1. Un appartamento di Oleg in 2a Chernogryazskaya Street, Mosca, la sua Mercedes-Benz Gle 350 d 4Matic e la Mercedes-Benz C200 della sorella Alena. Una delle proprietà è stimata 200 milioni di rubli: del tutto incompatibili con lo stipendio ministeriale di un milione e mezzo di rubli annui (circa 24mila euro).

In definitiva: siamo del tutto sicuri che il giovane Oleg sia solo il vicario dell'ufficio politico dell'ambasciata russa?

La Stampa ha chiesto ripetutamente per iscritto all'ambasciata russa a Roma una conferma o smentita della notizia che Oleg sia il figlio del capo del Gru. Non abbiamo mai ricevuto nessuna risposta. Neanche in questi giorni. 

Igor Kostyukov è sotto sanzioni occidentali, e per accuse gravissime, non solo per l'interferenza elettorale russa nelle elezioni Usa del 2016 (quando era vice di Igor Korobov), ma per aver coordinato l'operazione di avvelenamento in Gran Bretagna di Sergey Skripal. Korobov muore all'improvviso nel 2018, dopo una serie di "epic fail" dello spionaggio russo che potrebbero aver irritato non poco Putin. Il quale a quel punto, per la prima volta, mette un ammiraglio a capo del Gru.

Un fedelissimo è dire poco. Igor Kostyukov è un ufficiale dello spionaggio russo notissimo. In ambienti di intelligence occidentali vi sono pochi dubbi sul fatto che sia stato in per alcuni anni il capo del Gru in Italia. Il figlio è un figlio d'arte? Di sicuro Oleg, in documenti visionati da La Stampa, sembra commettere qualche spericolatezza. Parla troppo. E probabilmente si fa pedinare senza pratiche sufficienti di contropedinamento. Se così fosse, l'intelligence italiana avrebbe - al di là delle smentite che non smentiscono - fatto molto bene il suo lavoro: marcando strettamente affinché i tentativi russi di "destabilizzazione" non andassero a buon fine. 

Certo è che Oleg non sembra limitarsi a un protocollare lavoro diplomatico. Il quotidiano Il Domani ha rivelato che il 1 ottobre 2014 - due settimane prima di una stretta di mano a Milano che Matteo Salvini riesce a ottenere con Vladimir Putin - una transazione del russo fu segnalata come sospetta dall'antiriciclaggio: «Oleg Kostyukov, addetto consolare del consolato generale della Federazione Russa, ha convertito in contanti in data 1 ottobre 2014, 25 mila dollari, e il 14 ottobre, 100 mila dollari, senza farli transitare dal proprio conto corrente e senza esibire alcuna dichiarazione doganale.

Il sospetto è nato dal fatto che il cliente ha motivato l'operazione come cambio per utilizzo delegazione russa presente in Italia per vertice Eurasia, ma senza operare sul conto corrente consolare». Tutto quel cash pare strano per pagare le cene della delegazione. Le carte di credito dei russi in Italia sono un filone aureo, dentro questa guerra ibrida.

Massimo Giannini per “La Stampa” il 29 luglio 2022. 

Siamo consapevoli di quanto siano delicati i nuovi dettagli sul Russia-gate della Lega, emersi dal retroscena di Jacopo Iacoboni pubblicato ieri sul nostro giornale. 

I colloqui riservati tra Antonio Capuano, emissario di Via Bellerio, e Oleg Kostyukov, numero due dell'Ambasciata russa a Roma, deflagrano in piena campagna elettorale.

Confermano l'esistenza di un legame particolare tra il Cremlino e il Carroccio. Gettano una luce nuova e diversa anche sulla caduta di Draghi. 

Evidenziano per la prima volta un possibile nesso causale tra il supporto dei diplomatici di Putin al "viaggio di pace" di Salvini a Mosca e il ritiro dei ministri leghisti dal governo. 

Ci rendiamo conto dell'enorme rilevanza politica di questi fatti. Per questo, di fronte alle reazioni sdegnate e alle smentite scontate, ci teniamo a confermare tutto quello che abbiamo scritto.

A ribadire che i dettagli sugli incontri e sulle conversazioni tra Kostyukov e Capuano sono contenuti in documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali. 

Dunque, è la Lega che deve spiegare una volta per tutte al Parlamento e al Paese le sue "relazioni pericolose" in politica estera. 

Noi non dobbiamo chiarire alcunché: il nostro lavoro, come sempre, è ispirato solo alla ricerca della verità e al senso di responsabilità. 

Abbiamo una certezza e coltiviamo una speranza. La certezza è che alla Stampa non ci sono "servi sciocchi" della sinistra. La speranza è che nella Lega non ci siano "utili idioti" della Russia.

Le cattive influenze. La nuova ossessione della sinistra è quella delle "ingerenze straniere". Francesco Maria Del Vigo il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

La nuova ossessione della sinistra è quella delle «ingerenze straniere». Non è neppure una strategia politica ma, piuttosto, una condizione psicologica: la rimozione della realtà. Quindi la stampa engagé e gli intellettuali in trincea - terminate le munizioni - s'inventano manine, piani nascosti, messaggi occulti. L'ultimo trend è la Russia, che starebbe brigando per far vincere il centrodestra. Ma, a prescindere dal fatto che fa sorridere che a muovere questa critica siano i discendenti diretti di quel Partito comunista che per decenni è stato ampiamente foraggiato dall'Unione Sovietica, in questa accusa qualcosa non torna. La scommessa di Mosca, infatti, sarebbe piuttosto autolesionista, visto che Silvio Berlusconi è sempre stato - da tempi non sospetti - un campione di filo atlantismo e ha preso nettamente le distanze dal Putin invasore; Giorgia Meloni ha dimostrato con chiarezza di essere posizionata fermamente nella parte occidentale dello scacchiere mondiale e Matteo Salvini li segue a ruota. Certo, il leader della Lega in passato ha prestato il fianco a qualche strumentalizzazione, ma la strada imboccata negli ultimi mesi - e che deve seguire con maggiore tenacia - non lascia margine a dubbi.

Altro che russi, americani, agenti segreti e ambasciatori trafficoni. I segugi della sinistra più avvelenata possono smettere di frugare, siamo in grado di anticipare loro in esclusiva chi si nasconde dietro le pesantissime ingerenze sulle prossime elezioni: gli italiani. Quel popolo che la gauche elitaria guarda dall'alto verso il basso. È loro l'unica vera influenza che pesa veramente sulle urne e sono loro, fino a prova contraria, gli unici detentori della volontà popolare. Anche se dovesse vincere il centrodestra perché - pensate un po' -, la democrazia prevede anche l'alternanza. Comprendiamo quanto sia difficile da accettare, ma è così. Piuttosto, una certa sinistra, invece di giocare a Risiko con gli avversari politici, dovrebbe fare i conti in casa propria e sdraiarsi sul lettino per fare un po' di autoanalisi su quelle pulsioni filo-palestinesi che la attraversano da anni, senza aver mai trovato una soluzione. Come abbiamo dimostrato dalle colonne di questo quotidiano, pubblicando i post e i tweet contro lo Stato d'Israele del candidato del Pd Raffaele La Regina. Perché il tarlo dell'antisemitismo non ha mai smesso di abitare quella parte, in tutte le sue forme. E flirtare con la sinistra radicale, vezzeggiare i centri sociali e coccolare tutti gli estremisti in grado di portare anche solo una manciata di voti è il modo migliore per dare ossigeno a questo sottobosco. Il Pd e Letta, nel corso degli anni, avrebbero dovuto impararlo, invece di accusare sempre la destra di un razzismo che nel frattempo stava germogliando nel loro orticello.

La Regina è l'ultimo, ma non l'unico, esponente di quel virus anti occidentale e anti americano che ammorba la sinistra italiana, da Nicola Fratoianni a Laura Boldrini, passando per gli ex (e forse anche futuri) alleati del Pd, quei Cinque stelle che non hanno mai perso l'occasione per inginocchiarsi e baciare la pantofola dell'autocrate di turno, possibilmente di fede marxista. Ecco, queste sono cattive influenze. Ma noi confidiamo nell'antivirus delle urne e, specialmente, nelle benedette e democraticissime ingerenze degli elettori italiani.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 19 agosto 2022.

In uno scenario elettorale già scosso dalle rivelazioni su azioni russe in Italia contro il governo di Mario Draghi, avvenute usando l'ambasciata russa come centro di interferenza in Italia, e politici amici di Mosca come possibili destinatari di pressioni e "suggerimenti" , ieri un nuovo caso ha riacutizzato i timori che il lavoro di Mosca sull'Italia sia in pieno corso. È indicativo - nell'economia delle operazioni russe in Italia - che sia toccato a Dmitry Medvedev innescarlo, un uomo che in questi anni è passato dal farsi le foto portato in braccio da Berlusconi o nella Sylicon Valley con Steve Jobs, alle invettive più radicali contro l'Occidente corrotto.

Mostrando una Russia ormai senza più infingimenti nelle operazioni di interferenza estera in Italia, Medvedev ha esortato in sostanza a punire i politici che hanno colpito Mosca con le sanzioni (Draghi in primis, ma tutti quelli che ne hanno sostenuto attivamente le politiche), e a premiare gli amici di Putin, a meno di voler passare un inverno al freddo.

«Vorremmo vedere i cittadini europei non solo esprimere il malcontento per le azioni dei loro governi», ha scritto su Telegram, «ma anche dire qualcosa di più coerente.

Ad esempio, che li chiamino a rendere conto, punendoli per la loro evidente stupidità. I voti degli elettori sono una potente leva di influenza. Chiamate i vostri idioti a rendere conto. E vi ascolteremo. Il vantaggio è evidente: l'inverno è molto più caldo e confortevole in compagnia della Russia che in uno splendido isolamento con la stufa a gas spenta». 

Chi è Medvedev lo spiega meglio di tantii altri Maria Pevchik - capo del team investigativo della Fondazione Navalny - che ha indagato sulle sue presunte proprietà in Italia: «Quando ti senti una persona inutile e patetica, come Dmitry Medvedev, provi a reinventarti», dice Pevchik. «Avrebbe potuto radersi la testa o cominciare ad andare in palestra. Invece si è reinventato come un falco». 

Medvedev negò di essere il beneficiario reale di una grande tenuta in Chianti, che la Fondazione Navalny ritiene invece sua, dietro un prestanome. Senza altri dubbi.

Secondo Ekaterina Schulmann, Medvedev «sta cercando di salvarsi dall'oblio politico sconfiggendo Erode e di conseguenza presentandosi come candidato nell'Apprentice show per il Cremlino». 

Anche per questo si è posto come referente per le ops russe in Italia. E in questo sta usando il suo ruolo di vicepresidente del Consiglio di sicurezza nazionale russo, in grado dunque di parlare con i capi dei servizi - uno dei quali, Igor Kostyukov, capo del Gru, è a lungo stato di stanza a Roma, dove oggi c'è il figlio Oleg, il funzionario dei contatti con l'emissario di Salvini, e dell'operazione per indebolire Draghi.

Quando è caduto Draghi, è Medvedev che ha postato esultante la foto di Draghi e Boris Johnson caduti. È lui che viene mandato avanti per rivendicare le operazioni, senza neanche più nasconderle, uno degli yesmen più infaticabili della cerchia di Vladimir Putin fin dai tempi della cooperativa Ozero, gli amici di giovinezza di Putin con i quali lanciò l'assalto al potere e alle risorse della Russia post sovietica.

Naturalmente la cosa non può più passare inosservata. I servizi sono molto allertati. Il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, lavora da tempo per istituire una commissione d'inchiesta «su rapporti tra leader e partiti italiani e il mondo economico-finanziario russo».

La cosa è assai interessante perché Di Maio non solo conosce i dossier della Farnesina, ma conosce anche il M5S, una delle forze politiche che in questi anni sono state più vicine alla Russia, oltre ovviamente alla Lega e a Silvio Berlusconi, amico personale di Putin. 

Non è sfuggito a chi monitora queste operazioni l'attivismo in questi mesi di Maria Zakharova, e anche dell'ambasciata russa, per proporre ospiti russi alle tv italiane. All'epoca dell'operazione "Dalla Russia con amore" , gli "aiuti" russi sul Covid, gestita direttamente dall'allora premier Conte con Putin, e collegati a una operazione di propaganda con presenza anche di intelligence militare russa su suolo di un Paese Nato, tutto fu gestito a Palazzo Chigi, bypassando la Farnesina e la Difesa.

E ieri il ministro Lorenzo Guerini ha risposto a Medvedev che «i' consigli' di chi tenta di interferire con i processi democratici saranno rispediti al mittente». Una Commissione potrebbe far emergere cose improprie avvenute? In un'intervista registrata a Mosca non molti giorni fa con Giorgio Bianchi, free lance italiano simpatetico con Mosca, Zakharova esordì ridendo compiaciuta per negare che Mosca avesse contribuito alla caduta di Draghi: «Che cosa abbiamo combinato adesso?».

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Tra i silenzi degli indagati e il muro di gomma di Mosca di fronte alle rogatorie dei pm di Milano, l'inchiesta sulla trattativa al Metropol rischia di concludersi, a dicembre, senza fare luce sulla compravendita di gas che avrebbe dovuto portare circa 65 milioni di dollari nelle casse della Lega. 

Il 18 ottobre 2018 nella hall dell'hotel moscovita Gianluca Savoini, l'ex portavoce di Matteo Salvini e presidente dell'associazione Lombardia-Russia, l'avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci incontrano tre emissari del Cremlino: Ilya Yakunin, vicino al parlamentare Vladimir Pligin e all'allora ministro dell'Energia Dmitry Kozak; Yury Burundukov, legato all'oligarca nazionalista russo Konstantin Malofeev; Andrey Kharchenko, ex agente dei servizi segreti.

Tutti e sei sono indagati ora a Milano per corruzione internazionale. Almeno due di loro, Yakunin e Kharchenko, sono considerati vicinissimi proprio ad Aleksandr Dugin, di cui parla Savoini nell'audio di Buzzfeed. «Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo - dice in maniera criptica a Miranda - . Solo noi tre. Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi. Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro "lato politico". Solo noi. Nessun altro».

In effetti, il 17 ottobre Savoini incontra Dugin davanti al Metropol. E lo stesso giorno l'allora vicepremier Matteo Salvini, a Mosca per un evento di Confindustria Russia, avrebbe incontrato il suo omologo russo Dmitry Kozak. Coi pm i tre italiani si avvalgono della facoltà di non rispondere. E anche le rogatorie in Russia restano lettera morta. Dopo mesi di silenzio, Mosca risponde chiedendo quesiti più dettagliati. Poi la guerra in Ucraina chiude ogni comunicazione. E ora, dopo l'ultima proroga di due mesi fa, l'inchiesta rischia di essere archiviata a dicembre.  

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 agosto 2022.

Nell'affaire Metropol, la trattativa in un hotel di Mosca per un presunto finanziamento russo di 65 milioni alla Lega - su cui è ancora in corso un'indagine a Milano per corruzione internazionale - assieme a un emissario della Lega, Gianluca Savoini, due dei russi identificati come parte della conversazione erano Andrey Kharchenko e Ilya Yakunin.

Kharchenko è uno dei collaboratori stretti di Alexandr Dugin, il filosofo del rossobrunismo eurasiano che probabilmente era il vero bersaglio dell'autobomba esplosa nella notte di sabato a Mosca. Dugin è stato in realtà dietro tutta quella partita, e dietro molte altre, in Europa e in Italia.

Non è solo un intellettuale, quell'uomo che vediamo nei fermo immagine davanti alla macchina esplosa della figlia, con le mani nei capelli, e Kharchenko non è solo il suo migliore allievo laureato. Il filosofo è figlio di un dirigente del Kgb, e Karchenko - rivelò Bellingcat - viaggiava con un passaporto speciale che di solito viene rilasciato solo dagli Esteri russi, per lo più agli uomini dei servizi. Insomma, filosofo molto particolare, Dugin.

Non perché sia particolarmente vicino a Putin - non lo è affatto - ma perché è stato coscientemente usato dal Cremlino per una serie di operazioni di propaganda e penetrazione nei partiti e nei media occidentali, proprio quell'Occidente che la sua "Quarta teoria politica" disprezza, cercando di congiungere separatismo etnico di estrema destra e anticapitalismo e anti Nato di estrema sinistra. 

Fu così che Dugin è entrato in Italia. A metà tra agitatore culturale e servizi segreti. Savoini lo porta a Milano già nel 2015, plenipotenziario di Tsaargrad, il network dall'oligarca Malofeev. I libri come ottimo pretesto geopolitico.

Quel giorno Dugin ha accanto Maurizio Murelli, militante neofascista già condannato negli Anni 70. Anni dopo, nell'estate 2018 della nascita del governo Lega-M5S, un tour duginiano lanciato da Savoini vedrà Dugin approdare sulla terrazza di Casa Pound, con il segretaro Simone Di Stefano, ancora Murelli e, moderatore, Giulietto Chiesa. Estrema destra e estrema sinistra.

Nel marzo scorso fu fatta trapelare dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky una mail che riferiva di un altro incontro, che i russi stavano organizzando nel novembre 2017, tra Salvini e il team di Malofeev e Dugin: «Per novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'Hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro», scriveva Mikhail Yakushev, numero due di Malofeev, oligarca plurisanzionato fin dall'annessione illegale della Crimea nel 2014, che finanziò ampiamente.

In un'altra mail il team russo di Tsaargrad scrive che bisogna creare in Europa una rete di partiti, di estrema destra (Lega, Le Pen, Wilders) «ma anche euroscettici», chiamata "Altintern" (citazione del vecchio Comintern): «Senza il nostro impegno attivo e il sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire». 

Dugin pensava anche al M5S. E lo disse a chiare lettere al sito web di Defend Democracy Press. Se a italiani, tedeschi e francesi fosse stata data la possibilità di ritirarsi, affermò, «sarebbe successo il giorno dopo»: «Se lo chiedessimo oggi agli italiani, ovviamente se ne andrebbero anche loro.

E sappiamo che lo chiedono Lega Nord e Cinque Stelle. Dobbiamo affrontare la verità: l'Unione europea sta cadendo a pezzi; è la fine della Torre di Babele, basata sulla geopolitica atlantica e sul sistema di valori liberale». «L'Italia è oggi l'avanguardia geopolitica della Quarta Teoria Politica» spiegò Dugin lodando Giuseppe Conte e il suo primo governo: «L'unione tra Lega e Cinque Stelle è il primo passo storico verso l'affermazione irreversibile del populismo e il passaggio a un mondo multipolare».

Per questo, disse, quel governo italiano era un partner naturale del Cremlino. Di certo foto e amici imbarazzanti tornano a galla: ieri per esempio l'estremista di ultradestra americano James Porrazzo ha twittato una foto di Darya Dugina, chiamandola «una guerriera che sapeva che sarebbe potuto succedere», e in questa foto "Dari" è proprio accanto a Salvini.

Filo Putin e pro Orsini, la capolista di Azione che imbarazza Calenda. Stefano Baldolini su La Repubblica il 23 Agosto 2022 

Stefania Modestino D'Angelo, docente di italiano, contro Biden e Zelensky. Plausi per Lukashenko. Von der Leyen "una cameriera", Macron "fattorino". La replica: "Sono atlantista, post strumentalizzati". Il leader di Azione: "Nostro errore non avere verificato i post"

Una filoputiniana e 'orsiniana' nelle liste di Carlo Calenda. La guerra in Ucraina? "Provocata dall'avidità degli Usa, dagli oltranzisti anti Putin". Zelensky? "Nemico del suo popolo". E ancora: "Da nazista a eroe del Pd". Ursula von Der Leyen e Macron? "Una cameriera" e "un fattorino". Parole e pensieri postati in gran quantità su facebook da Stefania Modestino D'Angelo, capolista al Senato nel listino plurinominale di Caserta per il Terzo polo.

Problemi di 'classe dirigente'? La candidata ‘filo-Putin’ capolista a Caserta con Calenda: per Modestino “Macron fattorino” e von der Leyen “sguattera”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

Il problema del ‘passato social’ dei cosiddetti “giovani candidati” del Partito Democratico, dal caso La Regina a Sarracino, si sta allargando anche agli altri partiti. Non solo a destra, dove Giorgia Meloni è finita nella bufera nei giorni scorsi per un video del 1996 in cui una poco più che maggiorenne militante di destra ad una tv francese descriveva Mussolini “un buon politico, il migliore degli ultimi 50 anni”, ma anche nel ‘Terzo Polo’ riformista.

‘Colpa’ di Stefania Modestino, candidata come capolista del tandem Azione-Italia Viva nel collegio proporzionale al Senato della Campania 2, quello che comprende le province di Caserta, Salerno, Avellino e Benevento.

Docente e giornalista, un passato nel Partito Democratico, la Modestino è stata scelta dal partito di Carlo Calenda come capolista al Senato, avendo dall’altra parte alla Camera un compagno di avventura dal curriculum pesante come il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare e della difesa.

Ma basta dare una rapida occhiata al profilo della professoressa, docente di latino e italiano, per scoprire che le sue idee politiche contrastano in maniera piuttosto netta con quelle del ‘Terzo Polo’ in cui è candidata, in particolare nella politica estera che per il duo Calenda-Renzi da programma deve seguire la scia di quanto tracciato dal premier Mario Draghi.

Così sull’Ucraina si trovano sul profilo social della Modestino condivisioni a raffica degli interventi di Alessandro Orsini e Donatella Di Cesare, il primo sociologo della Luiss, la seconda filosofa, entrambi tacciato di ‘filo-putinismo’ per le loro opinioni sul conflitto scatenato dalla Russia. Italia che, per la Modestino, per la decisione di inviare aiuti a Kiev “adesso è la femme de chambre di Biden”, la donna delle pulizie del presidente Usa. 

Non va meglio nel giudizio su Ursula von der Leyen, la presidente tedesca della Commissione europea, modello di Calenda nella sua elezione all’importante carica (grazie all’accordo tra popolari e socialisti a Bruxelles) per un governo in Italia sul ‘modello Ursula’ per tenere fuori sovranisti e populisti. Per la Modestino la von der Leyen è una “femme de chambre”, giudizio costante per la docente, rispetto ai padri fondatori dell’Europa, mentre Emmanuel Macron “un fattorino”. 

Nel mare magnum di post al veleno della candidata del ‘Terzo Polo’, c’è spazio anche per il complottismo. Protagonista ancora una volta Ursula von der Leyen: nel pubblicare un articolo online (del 28 gennaio scorso) sulle critiche alla presidente della Commissione Ue per degli sms scambiati col Ceo di Pfizer, Modestino scrive infatti che “questi rapporti tra la lady Europa e il ceo di Pfizer potrebbero cambiare molte valutazioni sui vaccini e sui loro costi” e che “con sti vaccini avete giocato sporco”. 

E di complottismo è ‘vittima’ anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che per la candidata di Azione in un post del 26 febbraio, a due giorni dallo scoppiare del conflitto, “si è messo in salvo a Leolopoli(o forse all’estero) diffondendo filmati registrati giorni fa…ma come si fa a non considerarlo un nemico del suo popolo”, chiede ai suo followers.

Il 22 febbraio, alla vigilia della guerra, Modestino si lanciava invece in una previsione sulle tensioni tra Russia e Ucraina in cui evidenziava come “la storia darà ragione a Putin mentre per Francia e Germania possiamo già parlare di pasticcio diplomatico su ogni fronte”. 

La pubblicazione dei primi articoli online (tra cui quello del Riformista) sulle sue posizioni hanno spinto già questa mattina la Modestino a cancellare i post ‘incriminati’. Quindi il tentativo di ‘mettere una pezza’ alla questione, col tentativo della docente candidata con Azione di giustificare le sue posizioni: Modestino si dice “convintamente atlantista e europeista”, condannando “l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin non solo come pacifista, ma perché sono convinta che sia essenziale il valore della indipendenza dei popoli e degli Stati”.

Modestino scrivere quindi di ritenere “utile alla democrazia la pluralità di pensiero ed è questo che mi consente di rispettare anche posizioni non condivise. Il pensiero unico è la morte del pensiero e di una intera società, e questo è innegabile: nella storia il pensiero unico fu di coloro che condannarono Galileo ed è la condizione per abolire non solo ogni forma di conoscenza, ma è la condizione più pericolosa per la democrazia. Questo è quello che da sempre provo ad insegnare ai mei alunni”.

Un putiferio che ha costretto lo stesso Calenda ad intervenire pubblicamente sulla candidatura scomoda della Modestino, precisando via social che “la signora in questione è stata segnalata dal territorio, è un’insegnante e giornalista impegnata nel sociale a Caserta. Errore nostro non aver verificato i post su politica estera. Me ne assumo la responsabilità. Stiamo gestendo la cosa”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da repubblica.it il 28 agosto 2022.

Un necrologio con la foto di Darya Dugina e la scritta "assassinata dall'odio anti russo". E' apparso in giro a Rimini nelle ultime ore. 

La figlia del filosofo e politologo russo Aleksandr Dugin, ideologo di Vladimir Putin, Dugina, morta lo scorso 21 agosto, è stata vittima di un attentato, per mano dell'intelligence ucraina secondo la versione delle autorità russe: la donna è saltata in aria mentre era alla guida dell'auto del padre.

In ricordo della defunta una ventina di persone hanno partecipato a Rimini a una Santa Messa di suffragio oggi, domenica 28 agosto, celebrata nel Santuario della Madonna della Misericordia. 

Il necrologio è firmato: "Le amiche e amici della Russia". Il parroco, don Sebastiano Benedettini, ha affermato di non essere a conoscenza e ha chiesto ai promotori dell'iniziativa di togliere dai manifesti quella frase sull'odio anti russo, ma è rimasto inascoltato. 

Davide Gasparini, uno degli autori, ha rassicurato che non c'è "alcuna intenzione di schierarsi sul piano politico", ma si tratterebbe solo di "un'esposizione pacifica del proprio pensiero".

Da iltempo.it il 28 agosto 2022.

Il botta e risposta sui social tra Matteo Salvini e Roberto Saviano rischia di finire in tribunale. Il leader della Lega, rispondendo al solito attacco pretestuoso di Roberto Saviano, annuncia la querela. A innescare la miccia è proprio lo scrittore di Gomorra che su Facebook accusa Salvini e Berlusconi di essere "i più fedeli sostenitori di Putin" e definendo i rapporti tra i leader "indecorosi e ambigui". 

E nella foto allegata al post, l'accusa più pesante che scatena la reazione di Salvini. "La notizia della spia russa infiltrata per 10 anni in Italia non deve stupire. I reali agenti che hanno agito per Putin senza nascondersi e senza documenti dell'Fsb sono Matteo Salvini e Silvio Berlusconi" scrive Saviano.

Sono accuse molto forti e inaccettabili quelle nei confronti dei due leader politici del centrodestra. Forse lo scrittore napoletano ha travisato la storia della spia russa infiltrata nella base Nato di Napoli, rilanciata qualche giorno fa dalle colonne del quotidiano La Repubblica. La donna, si legge sul quotidiano, sarebbe riuscita ad avvicinare personalità in vista del potere militare, ma non è chiaro quali informazioni sia riuscita a ottenere. 

In ogni caso Salvini risponde a tono alla provocazione dello scrittore: "Io ho sempre difeso l'interesse nazionale italiano, nel mio Paese e nel mondo, a testa alta" scrive Salvini spiegando come "a prendere i soldi dei russi per anni sono stati i comunisti tanto cari a Saviano, non certo i leghisti". 

Poi il leader della Lega rivendica i risultati del suo operato: "Da ministro ho combattuto le mafie coi fatti, con leggi e sequestri, abbattendone ville e confiscandone patrimoni. C'è chi chiacchiera e copia, c'è chi fa e ottiene risultati" prosegue Salvini. Ma è nel post scriptum che è riservata la mossa di Salvini: "Caro Roberto, hai vinto una querela che spero servirà a portare soldi a qualche associazione di volontariato che combatte la mafia coi fatti, non con le parole".

Loro di Mosca. Le relazioni ambigue tra Putin e i partiti bipopulisti italiani. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 20 Agosto 2022

La galleria degli orrori e connivenze dei nostri politici con il Cremlino è lunga: da Manlio Di Stefano che da grillino accusò l’Occidente di aver fatto in Ucraina un golpe ai danni di Mosca al patto di cooperazione tra Lega e Russia Unita rinnovato automaticamente fino al 2027. Ma anche la delegazione di Forza Italia che definì regolari le elezioni della farlocca repubblica separatista di Donetsk

LaPresse

Quando ci fu il caso Savoini, molti analisti si dissero certi che ci fossero dietro i Servizi russi, per il fatto che l’Hotel Metropol è notoriamente sotto stretto controllo del Fsb. Il dubbio era semmai un altro. Un regolamento di conti nei Servizi russi stessi? O non un piuttosto «avvertimento» a Salvini, che in quel momento si stava avvicinando a Donald Trump, e aveva anche proposto al Cremlino di fare una «prima mossa» in Ucraina? 

Quando Luigi Di Maio, da ministro degli Esteri ancora nei Cinquestelle, si schierò con l’Ucraina dopo l’aggressione russa, su chat e Telegram apparvero minacce del tipo «Putin manda qualcuno ad ammazzarlo»: «Di Maio con una spranga nel cervello»; «ti faranno fuori». E si sa che a San Pietroburgo il Cremlino mantiene una fabbrica dei troll che spesso monta campagne anche in Italia. Ad esempio, quando chiese l’impeachment di Sergio Mattarella.

Precedenti da tener presente, quando su Telegram l’ex presidente della Federazione russa e attuale vicepresidente del consiglio di sicurezza nazionale Dmitrij Medvedev scrive che alle urne «vorremmo vedere i cittadini europei non solo esprimere il malcontento per le azioni dei loro governi, ma anche dire qualcosa di più coerente. Ad esempio, che li chiamino a rendere conto, punendoli per la loro evidente stupidità». 

Una battuta di un personaggio che conta sempre di meno, e che per di più da un po’ di tempo quando esterna sembra farlo in condizioni di ebrezza etilica? Oppure, un altro avvertimento? Di Maio, che ormai dai Cinquestelle è uscito proprio per la rottura di Conte sulla questione ucraina, è stato netto sulla «ingerenza preoccupante del governo russo nelle elezioni italiane». Il Partito Democratico, pur lontano erede di un partito che in ere politiche remote era finanziato dall’Urss, ha chiesto ai partiti del centrodestra di prendere le distanze da Medvedev. Salvini, in effetti, non lo ha fatto: «Non mi interessano gli insulti del Pd. Voteranno gli italiani e non russi, cinesi ed eschimesi. All’estero possono dire quello che vogliono ma non mi interessa fare polemica col resto del mondo».

Va detto che in questo momento l’approccio di Salvini è isolato. Per Forza Italia la presidente della Commissione Esteri del Senato Stefania Craxi, dopo aver ricordato che Medvedev è «un signore che ci sta poco con la testa» il cui problema è piuttosto «di ordine politico o sanitario», ha riconosciuto che «sicuramente da anni la Russia ha messo in pratica in Italia e in tutta Europa un forte sistema di disinformazione e di ingerenze». Pur aggiungendo che «in questi 30 anni tutti hanno provato a instaurare un dialogo euro-russo con Vladimir Putin. Ricordo Romano Prodi quando era presidente della Commissione. Silvio Berlusconi a Pratica di Mare. Ci ha provato anche Angela Merkel. Abbiamo tutti sbagliato. Vuole che glielo dica? È stata un’illusione, ci siamo cascati». 

Per Fratelli d’Italia, è il presidente del Copasir Adolfo Urso a parlare di «punta dell’iceberg» di un sistema «di ingerenze straniere nelle democrazie occidentali». Mentre Conte parla di intromissione «inopportuna e pericolosa». Lo stesso Conte, però, ha provocato una crisi di governo che ha oggettivamente fatto comodo al Cremlino. Fratelli d’Italia ha in questo momento una linea atlantica senza tentennamenti, ma secondo un suo stile tipico Giorgia Meloni ha cancellato i post su Facebook in cui ancora il 18 marzo 2018 faceva i «complimenti a Vladimir Putin per la sua quarta elezione a presidente della Federazione russa. La volontà del popolo in queste elezioni russe appare inequivocabile». 

Quanto a Forza Italia, è stata l’invasione dell’Ucraina a far saltare una lectio magistralis di Putin che era stata organizzata dall’Universitas Libertatis di Berlusconi. «Putin non l’ho sentito di recente. Eravamo molto amici, ho fatto due telefonate all’inizio di questa operazione e non ho avuto risposte» ha spiegato lo stesso Berlusconi. «Dopo questo mi sono astenuto da ulteriori tentativi». Ha però aspettato aprile per condannare espressamente la guerra. Ha pure spiegato che se lo avessero eletto presidente sarebbe potuto «andare a ripetere con Putin» quanto fatto nel 2008. «Lo tenni al telefono cinque ore e gli dissi “sappi che se domani mattina invadi la Georgia divorzi dall’Unione Europea, dalla Nato e dagli Usa”». 

C’è in teoria una differenza tra l’approccio di Berlusconi e quello di Salvini. La Lega ha infatti con Putin un rapporto tra partito e partito, da quando il 6 marzo del 2017 Salvini ha firmato a Mosca un patto di cooperazione con Russia Unita, il partito del dittatore. Quell’accordo scadeva il 6 marzo 2022, ma in mancanza di comunicazione è stato rinnovato automaticamente fino al 6 marzo 2027. Forza Italia sta invece nel Ppe e i pur chiassosi rapporti di amicizia intrattenuti tra Berlusconi e Putin sono nati in incontri tra di loro come uomini di Stato, e non come rapporti tra forze politica. Un atlantista indubbio come Antonio Martino spiegava nelle interviste che il loro obiettivo era stato quello di tirare la Russia dalla parte dell’Occidente, piuttosto che fare la fronda alla Nato.

Però Forza Italia assieme alla Lega ha promosso il voto con cui Veneto, Lombardia e Liguria riconobbero l’annessione della Crimea alla Russia, anche se poi dopo lo scoppio di questa guerra la decisione è stata annullata. E nel 2014 quattro esponenti di Forza Italia si recarono nel Donbass come osservatori alle elezioni della repubblica separatista di Donetsk, attestando che era stato «tutto regolare». Tra di loro anche Lucio Malan, ora passato con Fratelli d’Italia. 

La cosa singolare è che, in modo assolutamente speculare al Pd oggi ultra-atlantista pur essendo erede del filo-sovietico Pci, in realtà forze politiche più di recente filo-Putin in passato avevano un atteggiamento opposto. I due ex Nicola Biondo e Marco Canestrari nel loro libro “Supernova I segreti, le bugie e i tradimenti del MoVimento 5 Stelle: storia vera di una nuova casta che si pretendeva anticasta”, testimoniano ad esempio che «fino al 2014, in coincidenza con la guerra in Ucraina, la Russia e Putin erano fuori dagli interessi del Movimento grillino. «Noi chiediamo che il governo venga a riferire in aula al più presto sugli oscuri affari con lo zar russo», chiede il gruppo Cinquestelle alla Camera quando Putin arriva in Italia. «Cosa significa Unione Europea se Putin annuncia l’intervento armato in Ucraina e noi non facciamo niente?», chiede angosciato nel marzo 2014 Roberto Fico. 

Eppure, come spiegano sempre Biondo e Canestrari, «nel giro di un anno dalle parole di Fico, Putin passerà da essere l’uomo nero della politica mondiale allo statista di riferimento per il Movimento 5 stelle». Secondo loro, per un colpo di fulmine tra Alessandro Di Battista e Sergei Zheleznyak: un imprenditore proveniente dal mondo della comunicazione e della pubblicità già deputato putiniano del 2007, che nel 2012 diventa vice-presidente della Duma. Secondo un’analisi dell’Atlantic Council, sarebbe stato invece Davide Casaleggio in persona a decidere la svolta filo-russa nella primavera del 2015. Però anche secondo Biondo e Canestrari, «Putin è uno che tira, il suo nome produce traffico sulla rete». 

Già nel giugno del 2014 la deputata Marta Grande fa alla Camera una denuncia demenziale, denunciando gli ucraini per cannibalismo ai danni dei russi sulle immagini di un film di fantascienza. Un anno dopo i Cinquestelle lanciano una campagna contro le sanzioni alla Russia, mentre sul blog di Grillo Di Stefano accusa l’Occidente di aver fatto in Ucraina un golpe. Una delegazione dei Cinquestelle va poi in Crimea, mentre i siti di area Cinquestelle si riempiono di contenuti RT e Sputnik. Di Battista come vice-presidente della Commissione Esteri della Camera è uno dei tre personaggi chiave di questa linea, assieme al capogruppo Cinquestelle alla Commissione Esteri della Camera Manlio Di Stefano e al capogruppo al Senato Petrocelli. Ma sarebbe stato Casaleggio a monitorare da vicino il processo. 

Anche la Lega delle origini era anti-russa. Simpatizzando infatti per principio con ogni separatismo, tendeva a identificare la lotta per l’indipendenza della Padania dall’Italia con la rivolta delle nazioni oppresse contro l’Unione Sovietica. È con la Guerra del Kosovo che la Lega diventata filo-serba, per evidente antipatia verso un’Albania bollata come esportatrice di clandestini. Il 24 marzo 1999, quando la Nato inizia a bombardare la Serbia, i tre deputati della Lega nord, Enrico Cavalliere, Oreste Rossi e Luca Bagliani salgono su un’automobile e partono alla volta di Belgrado, per cercare di «evitare la guerra», mentre Bossi tuona contro gli americani «dominati dai framassoni e dai banchieri», «bambinoni a stelle e strisce». Il 23 aprile, al culmine della campagna di bombardamenti, Bossi stesso va a Belgrado bombardata per incontrare Milosevic per un’ora e mezzo. 

La Lega ridiventa filo-Usa dopo l’11 settembre 2001, per riflesso anti-islamico che però considera il Putin della guerra ai ceceni un alleato strategico. Nel frattempo, l’ideologo del neo-nazionalismo russo Aleksandr Dugin inizia a essere popolare in certi ambienti di estrema destra, ancora molto minoritari, ma già in contatto con la Lega. Tra 2013 e 2014 la Lega inizia dunque a stabilire stretti legami con personaggi dell’entourage di Konstantin Malofeev: oligarca ultranazionalista e ultraortodosso. Nel febbraio 2014 è creata la Associazione Culturale Lombardia Russia, per facilitare lo sviluppo di rapporti non solo di affari ma anche politici.

Presidente della Acrl è Gianluca Savoini: giornalista e russologo storico della Lega. Iscritto al partito dal 1991 dopo essere passato per il gruppo di estrema destra Orion, che secondo il suo fondatore Maurizio Murelli aveva deciso apposta di infiltrare la Lega «perché debole culturalmente». Nominato portavoce da Salvini dopo il suo arrivo alla segreteria, il 18 dicembre 2013 Savoini è già riuscito a far intervenire Komov al congresso della Lega. Nel marzo del 2014 la Lega manda osservatori al referendum organizzato da Mosca in Crimea per legittimare l’annessione. E dal 2014 Salvini inizia a viaggiare a Mosca, esaltando Putin. Rapporti appunto sfociati nell’accordo tra partiti del 2017. 

Ma bisogna ricordare che un fondo russofobo da residuo anticomunista c’è ancora nel centro-destra che vince le elezioni del 2001, e che istituisce Commissioni d’Inchiesta sul Dossier Mitrokhin e sui Telekom Serbia: appunto per cercare complicità della sinistra vecchia e nuova con despoti comunisti vecchi e nuovi. Presidente della Commissione Mitrokhin era il senatore Paolo Guzzanti, che nell’ottobre del 2008 ruppe clamorosamente con Berlusconi accusandolo di «far vomitare» per la sua posizione sulla guerra della Georgia. «Berlusconi ha superato se stesso paragonando il presidente georgiano Saakashvili a Saddam», disse. Può essere considerata la data che certifica la sterzata filo-Putin anche di Forza Italia. 

Estratto dell’articolo di Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 20 agosto 2022.  

Nel giorno in cui il Copasir, di cui è il presidente, approva all'unanimità la relazione sui dossier trattati nella legislatura dando indicazioni al Parlamento su come agire per rafforzare la tutela della sicurezza nazionale, Adolfo Urso lancia un appello a tutti i partiti. […] 

Ma il problema dell'ingerenza di potenze straniere ostili sul voto è reale o no?

«Al di là della carnevalata di Medvedev, certo che è reale. E non solo ora che si vota, ma da almeno 10 anni. La Russia e la Cina sono regimi autoritari che in maniera pervasiva agiscono da tempo attraverso propaganda, fake news, sistemi di spionaggio: Mosca si muove soprattutto attraverso le ambasciate e la guerra ibrida cibernetica, Pechino più con la potenza imprenditoriale, con gli istituti di cultura. Entrambe poi ricorrono al cosiddetto elite capture, ovvero il reclutamento in grandi imprese di ex premier spesso o leader di Paesi occidentali, con incarichi di prestigio molto remunerati». 

Anche italiani?

«No, nei dossier europei dove si fanno anche nomi non c'è nessun italiano. […]».

[…] «Regimi come Russia e Cina non aspettano altro che poter dire che le democrazie non funzionano più, che i voti non servono a niente […] Per loro è un regalo poter dire che i loro sistemi illiberali sono funzionali alla modernità e le nostre democrazie no. Non offriamo loro il fianco delegittimandoci a vicenda, demonizzandoci: non aspettano altro».

A questo proposito: il caso della premier finlandese Marin la insospettisce?

«Non ho elementi per dirlo, ma non mi stupirebbe se dietro quei video ci fosse un'operazione di disinformazione. Spesso la Russia mira a colpire la credibilità degli avversari, mentre la Cina agisce più esaltando la propria capacità economica. Ma sono comunque entrambi regimi che mirano all'accerchiamento dell'Europa[…]».

Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 20 agosto 2022.

Ombre russe sulla campagna elettorale italiana. A lanciare l'allarme è la relazione annuale del Copasir. «Preoccupati dalla pervasività della ingerenza russa, le nostre agenzie di informazione e sicurezza e il comitato da diversi mesi stanno monitorando la situazione», si legge nel rapporto licenziato ieri dal comitato di controllo dell'intelligence. «Risulta indispensabile valutare i rischi per la sicurezza nazionale, legati alla possibile percezione che l'Italia sia maggiormente vulnerabile e permeabile all'influenza russa».

La politica italiana è entrata nel mirino della macchina di propaganda del Cremlino. E l'ingerenza va aumentando man mano che le elezioni si avvicinano. […]  «L'opera di diffusione di false notizie riconducibili alla Federazione Russa risponde a una strategia già operativa da tempo e che in questi mesi ha trovato ulteriore consolidamento si legge nel documento. 

Una campagna di disinformazione, riprende, che trova spazio «nell'ambito dei canali di informazione pubblica e privata attraverso soggetti che vengono ospitati e partecipano ad alcune trasmissioni con l'intento di veicolare la disinformazione e il tentativo di condizionare o comunque inquinare il processo di formazione delle libere opinioni che è un caposaldo delle società democratiche».

La frecciatina è rivolta agli ospiti filorussi nei talk show italiani […] Ma la tv non è l'unico canale per traghettare le fake russe nel dibattito politico italiano. «È stato altresì osservato che la propaganda azionata dal Cremlino si avvale di agenzie di stampa online controllate che pubblicano i propri contenuti in diverse lingue - compreso l'italiano - con decine di milioni di visualizzazioni, nella maggior parte dei casi del pubblico più giovane». 

[…] «siti di propaganda e disinformazione di cui sono ignoti i sostenitori, le fonti di finanziamento e che non forniscono evidenze sui fatti narrati», avvisano i parlamentari del comitato bipartisan. Web, tv, social network. In campo ci sono attori diversi […] nel mirino degli 007, riferisce il Copasir, ci sono anche facilitatori italiani che «si adoperano come agenti di influenza e di disinformazione e che vantano rapporti con canali anche culturali della Federazione russa». […]

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 20 agosto 2022.

Luigi Di Maio ha avuto un'ottima idea. Ha detto alla Stampa che nella prossima legislatura occorrerà creare una commissione d'inchiesta per «indagare i rapporti tra i leader dei partiti italiani e alcuni mondi politici e finanziari russi. Perché sono successe delle cose assurde». Ad esempio che l'ambasciatore a Roma, Sergey Razov, abbia «fatto un endorsement alla risoluzione di Conte sull'Ucraina». 

Anche se lanciata come strumento di polemica elettorale contro Giuseppe Conte e Matteo Salvini, la proposta del ministro degli Esteri è da apprezzare. E' necessario fare luce sui rapporti che altri Stati possono aver avuto con i leader e gli uomini di governo italiani, e sulle manovre per dirottare la nostra politica estera. Una simile inchiesta, però, non può limitarsi alla Russia.

C'è un'altra grande potenza che ha provato a ledere il nostro rapporto storico con gli Stati Uniti, e Di Maio lo sa bene, perché è la Cina. 

Ecco, la commissione da lui proposta, che a norma di Costituzione procederà «alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria», oltre a lavorare sulle intromissioni di Mosca dovrebbe investigare su quelle di Pechino, e senza ignorare le ingerenze di Razov dovrebbe preoccuparsi di ciò che ha fatto Li Junhua, che dal luglio del 2019 è ambasciatore del regime cinese a Roma. 

Per cominciare, la commissione potrebbe usare quei poteri per scoprire cosa ha fatto il fondatore, capo politico e infine garante dei Cinque Stelle nei suoi tanti colloqui con Li, svoltisi sia nella sede diplomatica cinese, sia nella residenza privata dell'ambasciatore. Un rapporto che pare iniziato nel 2013 col predecessore di Li, quando Beppe Grillo sarebbe entrato per la prima volta nell'ambasciata assieme a Gianroberto Casaleggio. 

«Se qualcuno volesse sponsorizzare, in maniera pubblica ma riservata, un partito come il M5S, potrebbe usare una società privata come la Casaleggio associati», è l'ipotesi sulle intenzioni cinesi fatta da Marco Canestrari, ex dipendente della Casaleggio Associati, in un'intervista a Il Dubbio.

Di sicuro il rapporto ha dato buoni frutti. Il più evidente è stato la conversione di Grillo, sul cui blog, ancora nel 2017, si denunciavano «le conseguenze catastrofiche dell'apertura commerciale alla Cina». Due anni dopo il comico pubblicava sul web la foto che lo ritraeva assieme a Li, a testimonianza di «un piacevole incontro». E ora quello stesso blog è tutto zucchero e miele per il leader cinese Xi Jinping, il quale ci indica persino «un approccio unico ed efficace per costruire la pace» in Ucraina. 

La commissione d'inchiesta non potrebbe chiamare a testimoniare l'ambasciatore né indagare sudi lui, ma nulla impedirebbe di farlo con Grillo. Anche per capire quali interessi avesse il rappresentante di Pechino, e quali argomenti abbia usato per far cambiare idea al comico, e con lui a tutti i Cinque Stelle.

Perché l'altro al quale quella commissione avrebbe tante domande da fare è proprio Di Maio. Nel marzo del 2019 l'allora vicepremier, ministro dello Sviluppo e capo del M5S, firmò, alla presenza di Xi e Conte, il memorandum che segnava l'ingresso dell'Italia nella «Belt and Road Initiative», la nuova «Via della Seta», lo strumento di collaborazione economica che la Cina usa per legare a sé, anche politicamente, i Paesi asiatici, africani ed europei, con una predilezione per quelli gravati da un alto debito pubblico.

Un evento destabilizzante per la politica estera italiana.

Come nota la relazione del Copasir approvata ieri, «l'ingerenza e le ambizioni globali di Pechino sono apparse evidenti in occasione del memorandum sulla Nuova Via della Seta e di 29 accordi commerciali e istituzionali tra Roma e Pechino». Senza fare «alcun passaggio parlamentare, l'Italia è diventata il primo Paese del G7 a sottoscrivere un accordo sul discusso maxipiano infrastrutturale della Repubblica Popolare». 

Da Washington chiesero in tutti i modi a Di Maio e Conte di non farlo. Il portavoce del consiglio nazionale per la sicurezza Usa disse che l'Italia era «una preoccupazione speciale. Premendo perché firmi, la Cina pare credere che l'Italia sia economicamente vulnerabile o politicamente manipolabile». E l'ambasciatore a Roma, Lewis M. Eisenberg, avvisò che «gli Usa non possono condividere informazioni con Paesi che adottano tecnologie cinesi, siamo seriamente preoccupati sull'interoperabilità Nato».

E' dovuto arrivare Mario Draghi per raddrizzare le cose, e Di Maio è stato lestissimo a sposare l'atlantismo del premier. Gli interrogativi però restano e sono tanti. Si sommano a quelli sollevati a suo tempo da Matteo Renzi, che ha chiesto una commissione d'inchiesta «sulle mascherine, sui ventilatori e sugli acquisti dalla Cina» decisi dal governo Conte durante la pandemia. Perché Di Maio ha ragione, «cose assurde» in questi anni ne sono successe, ma non riguardano solo i suoi avversari, né solo la Russia.

La Pravda smentisce le accuse della sinistra: "Meloni troppo filo Nato". Mosca critica l'atlantismo della leader di Fdi Ma l'ingerenza non fa gioco al Pd. Che tace. Fausto Biloslavo il 21 Agosto 2022 su Il Giornale.

Tutti zitti se da Mosca attaccano Giorgia Meloni per le posizioni atlantiste e pro Ucraina. Silenzio assordante rispetto ad un paio di giorni fa quando le provocazioni russe sulle elezioni in Italia, interpretate in maniera strumentale come filo centro destra, hanno scatenato un assalto verbale da guerra alle porte.

Adesso la Pravda scrive che «la potenziale nuova premier italiana, Giorgia Meloni, ha scelto la strada del caos» colpevole di avere affermato «che sarà una ferma atlantista e sostenitrice dell'Ucraina» e per questo motivo «porterà l'Italia in una crisi ancora più profonda».

Titolo ad effetto sul sito del quotidiano erede dell'organo ufficiale del regime comunista sovietico ai tempi della guerra fredda. L'articolo è un affondo a Meloni e alla sue aspirazioni a guidare l'Italia, ma nessuno si scandalizza. Se Meloni viene attaccata dalla Pravda per la scelta di schierarsi con il mondo libero la sinistra fa finta di niente.

La testata accusa in rete la leader di Fratelli d'Italia, sostenendo che «Meloni pone un chiaro accento sull'immagine, più che sull'interesse nazionale». Tutto l'articolo, fedele alla linea del Cremlino, punta a dimostrare che la posizione atlantista è sbagliata e controproducente per gli interessi nazionali e le aziende italiane nel pieno della crisi del gas. E bolla Meloni come «ex euroscettica» che «ora non osa esserlo e si comprende perché: nella situazione attuale dell'Unione europea, non sarebbe in grado di definire un programma di coalizione né di qualificarsi per le elezioni». Poi si scaglia contro il supposto «silenzio sulla sua opposizione all'immigrazione e su quella che ha definito la lobby Lgbt». In realtà proprio in questi giorni si è consumato un duro botta e risposta sul contrasto agli sbarchi con il segretario del Pd, Enrico Letta.

Il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza, Adolfo Urso, senatore di Fratelli d'Italia, ha subito evidenziato: «Non mi sembra di aver notato dichiarazioni di esponenti del governo o di leader politici a difesa di Giorgia Meloni così duramente attaccata dalla Pravda per le sue posizioni europee e atlantiche. È proprio in questi momenti che occorre dimostrare il massimo di unità nel difendere la sovranità nazionale da ogni tentativo di ingerenza straniera».

La Pravda, evocando il caos, dipinge un inesistente pericolo per il paese se Giorgia Meloni diventasse premier, che parte dal filo atlantismo fumo negli occhi per Mosca. Per assurdo le conclusioni sono simili ai rivali politici italiani che denunciano, al contrario, una linea morbida con Mosca e lo spettro infondato del fascismo.

Andrea Delmastro, deputato e capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Esteri, sottolinea che «il violento attacco della Pravda avvicina incredibilmente la grammatica del Cremlino a quella del centrosinistra».

Primo Di Nicola, capogruppo al Senato di Impegno Civico, prova a ribaltare la frittata tirando fuori la solita storia «dell'alleanza» di Meloni «con autocrati alla Orban o alla polacca». Forse il suo capo partito e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, dovrebbe spiegargli che il premier ungherese fa ancora parte dall'Unione europea e il governo polacco è il più fermo sostenitore di Kiev contro i russi.

Timidamente, Lia Quartapelle, responsabile esteri nella segreteria Pd, prendendola molto alla lontana, ricorda che «il Copasir denuncia le ingerenze russe e cinesi. Non possono esserci posizioni elettoralistiche o silenzi e ambiguità di comodo». Sulla Pravda neanche una parola.

Giampaolo Rossi e Gennaro Sangiuliano: due filoputiniani alla corte di Giorgia Meloni. Susanna Turco su L'Espresso il 19 Agosto 2022.  

Tweet, blog e dichiarazioni che un po’ imbarazzano un po’ fanno comodo al mondo di Fratelli d’Italia. Tracce lasciate da due fra gli intellettuali più ascoltati dalla leader di Fdi (l’ex del Cda Rai è l’uomo che sta scrivendo il programma). Da Putin salvatore della Russia a Putin vittima del complotto delle lite. Ma ce ne è anche per Mattarella. Gran finale: la «pelata del Duce»

Ma chi l’ha detto che in Fratelli d’Italia non c’è classe dirigente. Ispirata forse dalla stessa ambivalenza da vedo/non vedo che evidentemente scoraggia in Fratelli d’Italia pubblicazione social di messaggi su Ucraina e la Russia, Giorgia Meloni ha stretti a corte- ne valuta anche la candidatura in Parlamento, in questi caotici giorni di trattative sulle liste – due sopraffini intellettuali, fra gli altri.

Gennaro Sangiuliano, attuale direttore del Tg2, nel cuore sempre il sogno di salire di testata oltre ogni ridotta di destra, ma anche perennemente in predicato di una candidatura, sì come instancabilmente egli si offre (in questi mesi soprattutto) di presentare eventi con tutti i protagonisti della destra, a una settimana di distanza (l’ha fatto con la Versiliana, l’aveva fatto in primavera con le varie convention). 

Giampaolo Rossi, archeologo di formazione, assai ascoltato dalla leader di Fdi, ex consigliere di una Rai dove non disdegnerebbe di tornare ma puntando ancora più in alto, ora impegnato nella stesura del programma di Fratelli d’Italia come fece un anno fa per l’indimenticabile aspirante sindaco di Roma Enrico Michetti. «Penso che Putin sia il punto più avanzato che un Paese come la Russia, con il suo bagaglio storico, possa consentirsi in questo momento», ha detto l’uno alla presentazione del suo libro al festival Come il vento nel mare, nell’estate 2019. «Ecco perché bisogna punire la Russia di Putin: per educare il resto del mondo. Guai a chi si oppone ai disegni del nuovo ordine mondiale imposti dall’elite e dai fedeli scudieri che governano le democrazie occidentali», ha scritto l’altro nella primavera 2018.

Due soffici filoputiniani che oggi benissimo s’adatterebbero interpretare gli umori di quella fetta di elettorato che la destra meloniana porta in pancia senza troppi strepiti (tutto fa brodo, del resto).

Sarà per questo che tutt’ora la rete pullula dei loro pensieri. Svolti anni fa. Attualissimi, per certi versi. «Putin ha dato identità, orgoglio, visione e progetto ad un paese che era umiliato e disastrato», spiegava Sangiuliano nel 2018, ai tempi dell’uscita della sua biografia su Putin, “vita di uno zar”. «Ha dato stabilità politica, condizioni di vita migliori, per la prima volta si è creata una classe media e le condizioni di vita sono oggettivamente migliorate», diceva al Tempo il 17 marzo di quell’anno, mentre sui media dominava il caso dell’avvelenamento da Novichok della ex spia russa, naturalizzata britannica, Sergej Skripal. «Putin avrebbe potuto ordinarlo? Ma che interesse poteva avere a far uccidere un signore in pensione (…) il sospetto è che forse Theresa May abbia un interesse politico a cavalcare questa vicenda», diceva Sangiuliano nell’intervista.

Stessa linea esternava, sul suo blog, Giampaolo Rossi, aggiungendo sempre il 17 marzo 2018 che «l’immagine dei soldati di sua maestà che si aggirano con le tute anti-batteriologiche (…) è la perfetta icona di cui il mainstream ha bisogno per spaventare l’opinione pubblica e additare Mosca come un pericolo per l’occidente». Perché, continuava, «Putin paga l’aver combattuto e sconfitto Daesh, l’aver impedito l’abbattimento del regime di Assad (…) Ecco perché bisogna punire la Russia di Putin: per educare il resto del mondo».

Un po’ tranchant? Rossi, «marinettiano» per autodefinizione, non si nasconde dietro le parole. Con Putin e non solo.

Sempre in quella feconda primavera del 2018, non si risparmiò col capo dello Stato Sergio Mattarella, all’epoca impegnato nell’operazione ostetrica di far nascere un governo dalle elezioni del 4 marzo. 

Dandogli su twitter del Dracula, come abbiamo raccontato, e praticamente del golpista («con Mattarella siamo ad uno stadio successivo della fine della nostra sovranità: #Napolitano aveva abbattuto un governo legittimo; #Mattarella ha impedito che nascesse. Lo step successivo sarà cancellare definitivamente il parlamento. #euro #golpe). 

Bisogna invece risalire ancora indietro per ritrovare Mussolini. Non solo per il «video eccezionale del 1927 di un Mussolini inedito e americano» (29 luglio 2016). Ma soprattutto per la questione del paragone tra Grillo e Mussolini. «Questa storia è insopportabile, il problema è estetico», spiegava Rossi, con il rimando a un post che si può dire definitivo, risalente all’aprile 2013. Il cuore del ragionamento: «Grillo non sarà mai Mussolini per ragioni estetiche. Per esempio: c’è qualcuno che ha il coraggio di paragonare il ditino moralista, gli occhietti socchiusi, la vocina gracchiante di Grillo, ai pugni sui fianchi, lo sguardo allucinato e la voce roboante dell’uomo della Provvidenza? E c’è qualche stilista che potrebbe preferire la polo sgualcita che malcela l’indole borghese, con la virilità della camicia nera che anticipava di settant’anni lo stile Armani? E poi, si possono paragonare le piazze riempite dai volti livorosi e arcigni degli sbandieratori del Che con le adunate gloriose e piene di tricolori e moschetti? (…) e dietro la pelata del Duce c’era una generazione ardita e legionaria plasmata nelle trincee della grande guerra; invece spostando la chioma di Grillo, si incontra una generazione stanca e annoiata, cresciuta su Facebook e che sa a malapena che la bandiera italiana ha tre colori».

Insomma «non c’è paragone: Grillo sta a Mussolini come la foto di Obama che mangia un panino da Mc Donald sta al Napoleone sul cavallo rampante dipinto da Jacques Louis David». Nel frattempo, Grillo è sbiadito tra questioni giudiziarie. Tutti gli altri stanno ancora lì, le «adunate gloriose» non sappiamo.

Le buone relazioni. Quello che spaventa di Salvini è che non gliene frega niente dei crimini russi in Ucraina.

Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 2 Agosto 2022.

Il segretario della Lega, rispondendo alle accuse per le sue frequentazioni dell’ambasciata russa, ha sottolineato che bisogna tenersi pronti perché «prima o poi questa guerra finirà», segno del suo totale disinteresse della strategia di invasione e distruzione da parte di Mosca 

Nei giorni scorsi le cronache si sono gettate, a mio parere, su di una “non notizia”: lo scoop della Stampa. Che Matteo Salvini abbia intrattenuto rapporti con l’ambasciata russa e con faccendieri come Antonio Capuano è un segreto di Pulcinella, perché fu proprio il leader della Lega ad ammetterlo e a vantarsene. Salvini (o chi per lui) ha frequentato l’ambasciata quando si era messo in testo di andare a Mosca per farsi ricevere da Putin (almeno da Lavrov) e promuovere il cessate il fuoco in Ucraina.

È plausibile che in questi colloqui si sia parlato della situazione italiana e che qualche interlocutore di rango (a conoscenza degli antichi amori, mai smentiti, di Salvini per Putin e informato dalla semplice lettura dei quotidiani, della sofferenza con la quale il capo del partito federato (non pentito) con Russia unita faceva parte di un governo considerato tra i più occidentali dal Cremlino) abbia chiesto all’ex Capitano quali fossero le sue reali intenzioni.

Anche la smentita di Franco Gabrielli non riguardava l’incontro, ma teneva a precisare che il verbale non proveniva dai nostri servizi, come a dire che gli uffici non perdono il loro tempo a carpire quello che è arcinoto da anni.

Non mi pare che invece sia data importanza a una dichiarazione del leader della Lega, rilasciata nello stesso momento in cui definiva «fesserie» le indiscrezioni della Stampa, senza smentirle (come invece ha fatto Forza Italia nel caso delle presunte telefonate di Berlusconi). «Noi alleati dei Paesi occidentali, ma non significa non volere anche buoni rapporti con Putin», perché – ha aggiunto Salvini – prima o poi questa guerra finirà.

Questa dichiarazione, rilasciata in campagna elettorale nelle stesse ore in cui Giorgia Meloni sentiva l’esigenza di schierarsi – davanti alla Direzione di FdI – con gli eroi di Kyjiv è la prova di quale sia l’effettiva posizione di Salvini se fosse un autorevole componente di un nuovo governo e di una diversa maggioranza. Putin è un amico che ha sbagliato ed è incorso in questa fastidiosa circostanza che lo costringe a massacrare un popolo. Ma, tutto sommato, si tratta di un episodio che non mette in crisi un rapporto di amicizia. Quando la guerra finirà (ovvero in Ucraina o in buona parte di essa resteranno solo macerie e fosse comuni) tutto potrà tornare come prima, perché, a parere di Salvini, non esiste un imperialismo russo alla ricerca di radicale trasformazione dell’equilibrio geopolitico, non è nelle intenzioni del Cremlino sconfiggere l’Occidente, ricattando l’Europa per la sua dipendenza energetica.

Per prendere conoscenza delle intenzioni dello Zar del Cremlino è consigliata la lettura di un saggio dello storico slavista francese Nicolas Werth (“Putin historien en chef”) che raccoglie i testi di scritti e discorsi di Vladimir Putin. Giustamente quell’antologia è stata paragonata (da un noto editorialista) al “Mein Kampf” di Adolf Hitler per tanti motivi, in particolare, perché a Putin (come a suo tempo a Hitler) non può essere imputata nessuna dissimulazione: ambedue hanno fatto quanto avevano annunciato. Anche se non erano stati creduti.

Ecco i progetti di Putin per quanto riguarda l’Ucraina: da Zelensky all’ultimo cittadino ucraino sono tutti colpevoli, perché «la denazificazione è necessaria quando una parte significativa del popolo – molto probabilmente la maggioranza – viene dominata e trascinata dal regime nazista nella sua politica. Cioè quando l’ipotesi “il popolo è buono – il governo è cattivo” non funziona». Poi Putin passa a spiegare in che cosa consiste la denazificazione: «È un insieme di misure nei confronti della massa nazificata della popolazione, che tecnicamente non può essere punita direttamente come criminale di guerra. I nazisti che hanno preso le armi devono essere distrutti il più possibile sul campo di battaglia (…….) I criminali di guerra e i nazisti attivi devono essere puniti in modo sommario ed esemplare. È necessario procedere a una liquidazione totale. Tutte le organizzazioni che si sono legate alla pratica del nazismo devono essere eliminate e messe al bando».

L’ulteriore denazificazione di questa massa di popolazione consiste nella rieducazione, che si ottiene attraverso la repressione ideologica (soppressione) degli atteggiamenti nazisti e una dura censura: non solo nella sfera politica, ma necessariamente anche in quella della cultura e dell’istruzione. Tutto ciò perché il nazismo «ucraino rappresenta per la pace e la Russia una minaccia non minore, ma maggiore del nazismo tedesco di Hitler». Quale sarà il destino di questa nazione tanto pericolosa? «Evidentemente, il nome “Ucraina” non può essere mantenuto come titolo di una formazione statale completamente denazificata sul territorio liberato dal regime nazista (…) Il riscatto dal senso di colpa nei confronti della Russia per averla trattata come un nemico può realizzarsi solo affidandosi alla Russia nei processi di ricostruzione, rigenerazione e sviluppo».

Quanto al quadro geopolitico post-bellico, secondo Putin, potrebbe sopravvivere un’Ucraina ostile alla Russia, ma forzatamente neutrale e smilitarizzata, con un nazismo formalmente bandito. Gli «odiatori della Russia» andranno lì. Che questa Ucraina residua rimanga neutrale sarebbe garantita «probabilmente» da una presenza militare russa permanente sul suo territorio. «Dalla linea di alienazione e fino al confine russo sarebbe il territorio di potenziale integrazione nella civiltà russa, antifascista nel suo intimo».

Ecco, dunque, come potrebbe finire quella maledetta guerra che ha creato dei problemi ai buoni rapporti con la Russia, costringendoci a diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, a praticare le sanzioni, a mandare mezzi militari a Kiev, a consolidare l’appartenenza alle alleanze occidentali e alle loro istituzioni.

Credo che a questo punto non si possa evitare una domanda. Che cosa si sarebbe pensato se un importante politico inglese, durante la seconda guerra mondiale, avesse detto: «Prima o poi questo Hitler finirà di invadere altre nazioni e di sterminare gli ebrei. Così potremo riprendere buone relazioni con la Germania»?

Lucia Annunziata per “La Stampa” l'1 agosto 2022.  

Questa che segue è la ricostruzione del primo scontro fra Europa e Salvini, per altro perso dal leghista, che, come si ricorderà, proprio su questo perderà il Governo, nel 2019, per mano del suo alleato di allora, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La ricostruzione è tratta dal libro «L’inquilino», storia dei governi degli ultimi dieci anni, che sta per uscire per Feltrinelli.

Il caso dei fondi russi

Il 10 luglio del 2019, il sito americano BuzzFeed annuncia di essere in possesso di una registrazione del colloquio a Mosca in cui si discute delle modalità per erogare fondi al partito di Salvini. È lo stesso colloquio di cui aveva parlato l’Espresso 6 mesi prima. Ma stavolta c’è un’incontrovertibile prova: un audio. 

«Sei uomini si incontrano per una riunione di lavoro la mattina del 18 ottobre dell’anno scorso tra il rumore di tazzine e l’opulenza delle colonne di marmo dell’iconico Hotel Metropol di Mosca, per parlare di progetti mirati a una “grande alleanza”. I sei uomini - tre russi e tre italiani - si riuniscono sotto la spettacolare volta dipinta della lobby, avendo anche loro in mente un’operazione storica. Formalmente stanno trattando un accordo per una partita di petrolio; il vero scopo è quello di indebolire le democrazie liberali e formare una nuova Europa nazionalista allineata con Mosca».

L’audio racconta come i sei uomini discutano con cura i vari modi per poter “inviare segretamente” decine di milioni di dollari della Russia per colui che è definito «il più forte leader europeo di estrema destra». 

La conversazione registrata dal sito americano riprende e conferma in maniera definitiva l’inchiesta dell’Espresso nel racconto degli inviati Giovanni Tizian e Stefano Vergine, pubblicato il 24 febbraio 2018. Il piano è quello di una falsa vendita di 3 milioni di tonnellate di gasolio da vendere tramite un’azienda italiana (nell’audio si parla di Eni, che smentisce subito) per sostenere con un finto scambio commerciale i sovranisti alle vicine europee. «Non sappiamo se l’affare sia stato concluso», scrive l’Espresso. Salvini si attaccherà proprio a questo «non ho visto un rublo» per la sua difesa.

Ma l’audio del sito americano rivela una vicinanza politica imbarazzante a un certo sottobosco politico russo, personaggi vicini a Putin che lavorano non solo con Salvini ma con le maggiori figure del sovranismo europeo. 

Per dirla con Marco Minniti, predecessore di Salvini al Viminale, la questione non è il finanziamento ma quello di «una possibile soggezione del Ministro degli Interni, Matteo Salvini, nei confronti della Russia». Minniti inquadra la posta in gioco di quel che succede a Mosca. 

«In Russia si sta certamente giocando una importante e delicata partita con l’Europa, Matteo Salvini ricopre la massima carica dello Stato in materia di sicurezza nazionale per questo il ministro deve venire a chiarire in Parlamento non in diretta su Facebook».  

Salvini, insomma, è parte di un nuovo “grande gioco” politico fra Russia ed Europa. Il problema infatti non è la sua collocazione, ma il suo ruolo nella costruzione di quello che, anche nel colloquio riportato da BuzzFeed, i russi con cui parlano i salviniani definiscono come il progetto di «indebolire le democrazie liberali e formare una nuova Europa nazionalista allineata con Mosca».

Le elezioni europee del 2019 tuttavia non danno la vittoria al fronte “antieuropa” come sperato dai sovranisti. Il risultato elettorale complessivo del voto di maggio consente alle forze europeiste di isolare i nazionalisti.  

La rottura della maggioranza del governo italiano si consuma infatti in Europa prima ancora che in Italia. I 5 Stelle votano a favore della Von der Leyen, incassando loro la vicepresidenza che sarebbe dovuta andare alla Lega. Von Der Leyen si rivelerà una pedina fondamentale contro i sovranisti.

Un altro deludente evento segna il destino di Salvini in quel periodo: il viaggio a Washington del 17 giugno programmato per capitalizzare sul fronte delle relazioni atlantiche la grande vittoria alle europee di maggio, si rivela un altro schiaffo. Ci si aspetta molto da questa visita. E in Europa la si osserva con attenzione. I grandi giornali americani (fra cui Time Magazine, che mette Salvini fra i cento uomini più influenti del mondo) lo considerano un leader «alla Trump». 

Ma il viaggio non va esattamente così. Salvini vede Mike Pompeo, segretario di Stato, e il vicepresidente Mike Pence. Probabilmente avrà dato spiegazioni sulle mille e contraddittorie alleanze dell’Italia gialloverde a trazione leghista - Putin, innanzitutto, ma anche tutte le altre “stranezze geopolitiche”, agli occhi di Washington, del governo populista, come la forte relazione con la Cina e il Venezuela; ed è probabile che qualcuno a Washington ricordi ancora il vecchio amore per Saddam e per Milosevic, esaltati dai ruspantissimi leghisti all’epoca della guerra con la Jugoslavia negli Anni 90.

È ancora a Washington, lì dove le cose che avvengono in Occidente si sanno tutte, che si trova una spiegazione di come abbia funzionato quel primo scontro che, ripetiamo, ha fatto cadere Salvini e il suo governo con i 5S. Nel luglio di quel 2019 vado dunque a Washington. Il lavoro fatto viene poi pubblicato su Huffington Post, per cui allora lavoravo, il 23 luglio del 2019 - e non viene mai smentito.  

Dietro il Russiagate, secondo le opinioni che raccolsi, si vedevano i segnali di un nuovo attivismo dei Servizi tedeschi contro i sovranisti, di un diverso modo di interpretare la propria leadership sul vecchio continente e di un’America decisa a non lasciare campo a Putin. 

La manina che più efficacemente potrebbe aver lavorato contro i sovranisti italiani sarebbe tedesca. Nel quadro di una “riattivizzazione” a tutto campo della strategia della Germania per difendere l’Europa dal risorgente nazionalismo, e dalla Russia di Vladimir Putin - un’uscita dal tradizionale schema della leadership “riluttante” che ha caratterizzato la Germania nel Dopoguerra. 

Passo intrapreso con il consenso/conoscenza della Francia e della Gran Bretagna, nonché degli Stati Uniti, a dispetto delle affermazioni di rutilante simpatia che il presidente americano Donald Trump ha sempre espresso nei confronti del leader russo Putin. 

Questa è la storia che circola tra le due sponde dell’Atlantico in risposta alla sola domanda che interessa fuori dall’Italia sul caso Salvini/Mosca: chi ha incastrato il leader della Lega, vice premier e ministro dell’Interno italiano? Domanda non da spy story - anche se, come vedremo, di spy story è tutto il tono della vicenda - ma di pura politica.

La vicenda dei rapporti Lega/Mosca, comunque la si voglia interpretare, fuori dall’Italia ha colpito perché segnala alle élite della politica estera occidentale la necessità di fare, dopo le recenti elezioni per il governo di Bruxelles, i conti con il nuovo assetto interno dell’Europa e dei rapporti inter-atlantici.  

Nei sensibilissimi think tank americani, o nelle sfere dei professionisti della politica globale, alcune novità sono state immediatamente registrate. Va detto anche che, al momento, alla domanda su chi abbia incastrato Salvini nessuno ha risposta certa, ma solo serie ipotesi. 

Il campanello d’allarme che avverte di un nuovo clima in Europa suona proprio nella capitale di uno stato simbolo, un luogo che è stato un passaggio cruciale del conflitto europeo del secolo scorso: l’Austria. Il 17 maggio di quest’anno, a poche ore dal nuovo voto europeo, per il quale le urne si aprono dal 23 al 26, viene reso pubblico un video che riguarda il politico più discusso e più in ascesa dell’Austria, Heinz-Christian Strache, leader del partito di estrema destra, il Freedom Party. 

Nel video, girato nel 2017 in una villa di Ibiza, Strache e un suo collega, parlano per sei ore di donazioni illegittime al partito, con una donna che si presenta come la nipote di un oligarca russo, che vuole influenzare la politica austriaca con il suo denaro. La donna vuole comprare il 50 per cento di un grande giornale austriaco, per aiutare il Freedom Party.  

Strache, che si impegna a darle in cambio ricchi contratti di Stato, tira in mezzo anche il sovranista Viktor Orban, dicendo di voler «costruire un panorama mediatico» come quello in Ungheria - in ammirazione della politica di chiusura dei media in quel Paese.

L’incontro era una trappola. Il video viene passato ai media tedeschi e in poche ore porta alle dimissioni di Strache, cancella l’Austria dalle elezioni europee, e distrugge il Governo austriaco, che si avvia a nuove elezioni questo settembre. 

Per molti versi la vicenda sembra una storia molto locale, di un Paese da sempre attraversato da una forte corrente di estremismo di destra. Ma la lezione nel cuore dell’Europa centrale viene ben capita. Il Freedom Party di Strache è stato fondato da un neo nazista e si dichiara amico della Russia.  

Il giovane cancelliere Sebastian Kurz forma una coalizione con questo partito, nel 2017, ricevendo molte critiche, incluso dalla Germania, nell’idea che i conservatori moderati possano a loro volta servire a moderare, con l’inclusione nel governo, i neonazi.

Strategia che fallisce miseramente. Ma il potenziale impatto dello scandalo accende l’attenzione internazionale su quel che può accadere nel resto dell’Europa. Alina Polyakova, esperta di questioni di estrema destra per il Brookings Institute di Washington, scrive sul New York Times che la vicenda prova che gli estremisti non possono essere moderati, anche quando entrano al Governo. 

«Altri politici europei che si trovano a confrontare con una destra estrema dovrebbero capirlo. A fronte di tutta la retorica di sovranità nazionale regolarmente celebrata da Marine Le Pen, Matteo Salvini e altri leader populisti, la caduta di Strache prova che tutte queste idee sono solo copertura di opportunismo e ipocrisia». 

Che i populisti siano un pericolo da fermare è un’idea che assume una forte valenza proprio intorno a quello scandalo, nelle ore immediatamente a ridosso dell’apertura delle urne per le europee.

Chi c’è dietro quella trappola? Molti parlano degli stessi russi, ma molti vi vedono un ruolo tedesco - magari non di organizzazione, ma certamente di facilitazione. Sono i giornali tedeschi che riverberano lo scandalo, il tema del pericolo populista; ma è soprattutto Vienna a far scattare l’associazione con la Germania. Dire Austria ha avuto a lungo il significato, ed è vero ancora oggi, di dire Germania.  

Dalla tragica avanguardia antisemita della “Notte dei cristalli” nel 1938, alla guerra pericolosa e sottile degli anni della Guerra Fredda, appunto. L’influenza della Germania è ancora oggi molto estesa, nei Paesi dell’Est. I rapporti fra Russia e Germania sono nella storia europea fra i più stretti: persino nella divisione creata dal Muro, quando la Germania era il cuore e il confine di un conflitto per la sopravvivenza di due modi di vedere l’Europa, questi rapporti sono rimasti intrecciatissimi. 

Proprio per questo, nella Guerra Fredda gli inglesi e gli americani in prima fila contro la Russia si sono sempre basati sulla struttura operativa, inteso come uomini, conoscenze, contatti, costituita dalla rete tedesca - spesso delle due parti della Germania.  

L’ 8 luglio, meno di due mesi dopo la tempesta austriaca, arriva un’altra pubblicazione, quella degli audio di un gruppo di leghisti che, suppostamente a nome della Lega di Matteo Salvini, tratta un finanziamento illegale con dei russi a tutt’oggi non identificati. La trattativa non va in porto nemmeno questa volta, come non era andata in porto quella di Ibiza. Le somiglianze con il caso austriaco sono però sorprendenti: i due avvenimenti sono la fotocopia l’uno dell’altro. E il parallelismo non va perso.

La Lega si difende dallo scandalo, sottolineando l’aspetto geopolitico della trappola, cita i Servizi, parla dei francesi, della Massoneria. Gli avversari della Lega evocano la possibilità che gli stessi russi avrebbero tradito il proprio alleato - per fare un favore all’America, per scaricare un alleato che ha tradito le aspettative. Ma la storia che siano gli stessi russi è in parte troppo contraddittoria. Seguendo invece la pista della “operatività” e del “cui prodest”, si arriva molto più vicini a una pista più politicamente fondata.

La trappola stavolta viene resa nota per vie americane, Buzzfeed e New York Times. E non è audace sostenere che è questo il passaggio che serve: laddove la questione austriaca era molto europea, il rapporto con Mosca di Matteo Salvini, vincitore delle elezioni europee e astro nascente del nazionalismo europeo, ci porta dritti diritti agli americani, che pure, nel 2019, dovrebbero essere alleati del leader leghista tanto quanto Putin.  

E la domanda che si pone è: Washington sapeva o meno? Gli Usa sono stati protagonisti o solo spettatori? E sono stati contenti o meno? Ma non è forse l’amministrazione Trump amica di Salvini e dialogante con Putin? 

Questa definizione, che dal nostro lato dell’Atlantico, è una opinione indiscussa, a Washington non è invece tale. L’America non sta con Putin e non intende lasciare via libera alla Russia in Europa. Il rapporto fra Putin e i nazionalisti europei ha finito con il diventare una sfida frontale alla sovranità europea, i nazionalisti visti come la quinta colonna, la “porta di servizio” attraverso cui la Russia rientra in Europa.  

Intanto, la scena politica sembra ampiamente appoggiare l’ipotesi di una Germania che allarga il proprio campo di azione. Che il primo atto della presidente Von der Leyen sia stato quello di non incontrare Salvini e di allontanare i voti leghisti è un altro segno di una lotta che si sposta dal controllo delle spese delle nazioni alla sfida diretta. 

Così come inequivocabili sono state le parole di Angela Merkel, nei primi giorni del nuovo governo europeo, sul tema oggi più sensibile - il nazismo e il pericolo di una destra che ritorna in Europa. Nel discorso di commemorazione del fallito attentato ad Adolf Hitler, Merkel ha collegato l’evento al presente della Germania: «Questo giorno ci ricorda non solo chi agì nel 20 luglio del 1944, ma tutti coloro che si sono opposti al regime nazista. Oggi siamo ugualmente obbligati a opporci a tutte le tendenze che cercano di distruggere la democrazia. Compreso l’estremismo di destra».

È stato questo l’inizio di un nuovo ruolo, più “interventista” dell’Europa nella difesa della propria stabilità? La guerra che la Russia ha portato nel nostro continente, attaccando l’Ucraina, e contro cui l’Europa ha reagito, prova che non stiamo parlando di sciocchezze. 

Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 29 luglio 2022.

"Ho parlato con l'ambasciatore Razov, mi ha spiegato che la Russia...". Mercoledì scorso. Sono le ore folli che precedono la crisi di governo. Silvio Berlusconi alza il telefono, prima di eclissarsi a metà giornata e non rispondere al cellulare per almeno un'ora. Chiama un paio dei suoi ministri. Contatta alcuni parlamentari azzurri. Si confida con diversi big accorsi a Villa Grande, dove si sta consumando la cacciata di Mario Draghi.

A tutti, il Cavaliere consegna alcune critiche sui presunti errori in politica estera del premier che sta per silurare. E a un certo punto si lascia sfuggire una vera e propria rivelazione: "Ho parlato con l'ambasciatore russo in Italia Razov. Mi ha spiegato le loro ragioni, cosa ha fatto Zelensky". Di più: "Mi ha raccontato che è stata l'Ucraina a provocare ventimila vittime nelle zone contese. E che l'invasione era necessaria perché il rischio era che l'Ucraina attaccasse la Russia".

Al di là dell'enormità della tesi, che stravolge tutti i recenti eventi della crisi ucraina, il Cavaliere rende noto qualcosa che noto non era: il leader di uno dei partiti di maggioranza che non voterà la fiducia al presidente del Consiglio - lui, sì, attestato su una linea atlantica - è entrato in contatto con il terminale diplomatico di Mosca in Italia. Con chi cioè, ai massimi livelli, brinderà all'affossamento dell'ex banchiere. 

E d'altra parte, non è un mistero che Silvio Berlusconi sia sensibile alle ragioni di Mosca. Il suo rapporto con Putin è antico, consolidato, cementato in passato dalla sintonia su numerosi dossier. Nulla o quasi è cambiato dopo l'attacco di Mosca all'Ucraina. Al 24 febbraio sono seguiti giorni di silenzio. 

Poi è arrivata una prima, moderata presa di posizione contro l'aggressione. Infine il Cavaliere è tornato a sposare le tesi dello Zar. Secondo diverse fonti, la virata è nata dopo un primo contatto con i russi. E si è concretizzata il 20 maggio scorso. 

 A Napoli per un evento di Forza Italia, l'ex premier critica la Nato e rilancia: "L'Europa deve fare una proposta di pace cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin. Inviare armi significa essere cobelligeranti". In quelle settimane pressioni della diplomazia americana giungono fino a Gianni Letta, per comprendere la linea del Cavaliere. Ma dura poco. Berlusconi non si spende per Kiev. Fino alla telefonata con Razov, rivelata dallo stesso leader. 

L'ambasciata russa in Italia è anche il canale con cui Salvini tiene i contatti con Mosca. Il teatro di incontri con Razov subito dopo l'avvio della guerra. Secondo alcune indiscrezioni, il leghista avrebbe ripreso a frequentare la sede diplomatica nelle ultime settimane. Tre o quattro volte tra fine giugno e fine luglio, ospite di Razov o del suo vice. 

Lo staff di Salvini, pur rivendicando i colloqui del passato, sostiene però che "gli ultimi contatti del segretario con l'ambasciata risalgono a maggio". Repubblica ha chiesto un commento anche all'ambasciata russa, senza ottenere risposta. Fonti di intelligence escludono, invece, che ci possa essere stato un controllo del lavoro di parlamentari o leader politici, oggi come nei mesi scorsi.

Diverso è il discorso dal punto di vista russo: come dimostra il caso Biot, l'ambasciata lavora da tempo come centrale del controspionaggio. Per influire, in qualche modo, sulle vicende politiche interne. 

Di certo, il dialogo tra Berlusconi, Salvini e la diplomazia russa imbarazza Giorgia Meloni. Già nel mirino della stampa internazionale, deve provare a distinguersi dagli alleati. E rassicurare l'attuale amministrazione Usa, che ha memoria dei suoi passati rapporti con Donald Trump. "Saremo garanti senza ambiguità della collocazione italiana - promette - e dell'assoluto sostegno all'eroica battaglia del popolo ucraino".

Sono tutte novità che si aggiungono a quanto pubblicato ieri dalla Stampa sui contatti avuti il 27 e 28 maggio dal consigliere di Salvini per i rapporti internazionali, Antonio Capuano, con Oleg Kostyukov, un funzionario dell'ambasciata russa, nel periodo in cui Carroccio e 5S si opponevano all'invio di armi a Kiev.

Il funzionario avrebbe chiesto se i ministri leghisti fossero intenzionati a dimettersi. Il leader del Carroccio ha replicato parlando di "fake news". Il sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli ha negato un ruolo dell'intelligence italiana nella vicenda. Enrico Letta e Luigi Di Maio denunciano però queste "rivelazioni inquietanti". E anche Fratelli d'Italia attacca: "Le questioni di carattere internazionale vanno chiarite e approfondite".

Il quotidiano di Belpietro: abbiamo pubblicato la notizia nel giugno scorso. Che ci sia della malafede è evidente. Redazione di Open.online.it il 29 luglio 2022.

Nel giallo dell’incontro tra Oleg Kostyukov e Antonio Capuano, che voleva organizzare un viaggio a Mosca per Matteo Salvini, oggi La Verità attacca La Stampa. Il giornale fondato da Maurizio Belpietro segnala che aveva pubblicato già un mese fa la storia su Salvini a Mosca citando presunti documenti degli 007. E in più, scrive Giacomo Amadori, associa i fatti alla caduta del governo Draghi. Mentre nella loro interpretazione il Capitano ha rinunciato al viaggio proprio per evitare danni all’esecutivo. «Nella serata del 28 maggio Capuano avrebbe spiegato ai suoi interlocutori dell’ambasciata (Kostyukov, ndr) che il leader della Lega sarebbe tornato sui suoi passi anche per evitare di danneggiare con la sua decisione l’esecutivo. I russi, da parte loro, avrebbero negato possibili ripercussioni su Mosca per la fuga di notizie e si sarebbero mostrati interessati a sapere se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo», è la frase presente nell’articolo pubblicato nel giugno scorso. 

Amadori scrive anche che l’autore dell’articolo su La Stampa, ovvero Jacopo Iacoboni, ha citato il quotidiano di Belpietro in un pezzo comparso sul giornale torinese il 17 giugno che parlava dell’acquisto dei biglietti da parte di Kostyukov. E proprio in quell’articolo si raccontava la questione delle dimissioni dei ministri della Lega. Il direttore Belpietro va all’attacco: «Perché trasporre la notizia fino a farla coincidere con i giorni della crisi, quasi che la domanda su una possibile uscita dal governo da parte della Lega fosse riconducibile alla caduta del governo Draghi? La risposta credo che ognuno la possa fornire da sé. Con il polverone si cerca di far credere che esista un legame tra la crisi di governo e il contatto fra il consigliere di Salvini e i russi, quasi che la prima sia stata ispirata da Mosca. Che ci sia della malafede pare evidente. Evidentemente, la disperazione – di perdere le elezioni – fa brutti scherzi».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 30 luglio 2022.

In Italia è nato un nuovo modello di giornalismo investigativo basato su inchieste di riporto. Ecco le semplici regole: leggere le esclusive della Verità, cercare qualche pezza o qualche fonte che li confermi, ripubblicarli praticamente tali e quali qualche settimana dopo, ma con titoli a caratteri cubitali così da suscitare un'«eco assai maggiore», come ha evidenziato qualcuno. 

Avvalorando la tesi che, in un mondo di lettori distratti, non è importante se la notizia sia nuova, ma quanto sia strillata. Una lezione confermata dai pigri redattori di siti e tv che in questi giorni hanno rilanciato a più riprese i presunti «scoop» della Stampa sugli abboccamenti di Matteo Salvini e del suo ex consigliere per i rapporti internazionali, Antonio Capuano, con l'ambasciata russa.  

E poco importa che qualcuno possa accorgersi delle scopiazzature, tanto, come recita il vecchio adagio, non esiste niente di più inedito di quanto già edito. Il Pulitzer di questo nuovo tipo di giornalismo è Jacopo Iacoboni, arcigna firma atlantista in servizio permanente effettivo contro l'invasore fu bolscevico. 

Se ci fosse una guerra in Corea lui sarebbe embedded a Seul, se ci fosse un nuovo Vietnam, lui invierebbe febbrili reportage da Hanoi, se qualcuno rialzasse la cortina di ferro lui scriverebbe accovacciato ai bordi del ponte di Glienicke, meglio conosciuto come Ponte delle spie, in stile Montanelli con una Lettera 22 sulle ginocchia. 

Non è un mestiere trascurabile quello del defensor libertatis a mani nude. E lui si applica moltissimo. Usando per i suoi pezzi qualunque cartuccella gli si passi sottobanco. È stato foraggiato dalla Bestia renziana quando Renzi era un baluardo anti Putin e filo Obama con posto nel cda di una società moscovita. Ma quando si è interrotto il flusso informativo che partiva da Rignano sull'Arno, il nostro paladino dei valori occidentali ha iniziato a cercare veline altrove. Rischiando qualche inciampo.

Come gli è accaduto l'altro ieri, quando ha riferito baldanzoso di aver «visionato documenti di intelligence» sui legami tra Salvini, Capuano e i russi. Subito il sottosegretario con delega ai servizi segreti Franco Gabrielli ha bollato come «prive di ogni fondamento le indiscrezioni apparse sul quotidiano La Stampa, in merito all'attribuzione all'Intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l'avvocato Capuano e rappresentanti dell'ambasciata della Federazione Russa in Italia, per far cadere il governo Draghi». 

Ma la smentita di Gabrielli («scontata» per il direttore del quotidiano torinese Massimo Giannini) si presta a varie interpretazioni. Ha negato l'esistenza di intercettazioni o il significato che ne ha dato La Stampa?

A noi pare che escluda che la crisi di governo sia mai stata tema di discussione con i diplomatici russi.

Di fronte alla rettifica di Gabrielli, il quotidiano torinese ha dovuto innestare la retromarcia, che ha aggiustato il tiro più sul contenitore che sul contenuto: «I dettagli sugli incontri e sulle conversazioni tra Kostyukov (Oleg, importante funzionario dell'ambasciata russa a Roma, ndr) e Capuano sono contenuti in documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali» ha vergato Giannini.

«Documenti informali di sintesi», in pratica veline compilate con l'inchiostro simpatico, riassunti di ipotetici colloqui probabilmente mai trascritti in modo ufficiale. In sostanza annotazioni fantasma inutilizzabili. 

Ma Iacoboni, ieri, ha proseguito nella sua opera di «scoopista del mese dopo» e ha offerto ai suoi lettori un'altra notizia pubblicata l'11 giugno sulla Verità.

Se possibile con un titolo («Lega, da Mosca a Pechino») sparato a caratteri ancor più grandi di quelli usati due giorni fa. A cui seguiva questo sottotitolo: «Nuove rivelazioni segrete nelle sintesi dei documenti degli 007. I contatti dell'emissario di Salvini con l'ambasciata a Roma. Progettava una missione in Cina di ritorno da viaggio in Russia». 

Nel corpo dell'articolo era riportato quanto segue: «Nell'aprile 2022 Capuano si sarebbe confrontato con il capo della sezione politica dell'ambasciata cinese in Italia, Zhang Yanyu, proprio "per riferirgli di una missione programmata dal leader della Lega a Mosca dal 3 al 7 maggio, finalizzata a incontrare Istituzioni, Ministro degli esteri e Presidente russi". I cinesi insomma vengono a sapere della possibile missione russa (inizialmente prevista a inizio, non a fine maggio) di un membro decisivo della maggioranza Draghi, quando ancora lo stesso premier italiano non ne è informato. Russia e Cina, separatamente, sanno, Italia no». 

Una considerazione quasi certamente errata visto che Capuano, mentre quei fatti accadevano, era monitorato dalla nostra intelligence, a causa dei suoi rapporti con spie di Mosca.

Comunque noi, l'11 giugno, avevamo offerto ai nostri lettori informazioni più dettagliate sui rapporti tra la Lega e l'ambasciata cinese mediati da Capuano. Avevamo ricordato che pochi giorni dopo l'intervento a favore di Taipei del parlamentare del Carroccio Paolo Formentini, che era riuscito a far approvare una mozione a favore dell'isola secessionista, «il capo della sezione pubblica dell'ambasciata cinese in Italia Zhang Yanyu si sarebbe lamentato con Capuano per l'associazione fatta da Formentini tra Taiwan e l'Ucraina, un parallelismo che non sarebbe per nulla piaciuto nemmeno al ministero degli Esteri di Pechino».  

Quindi avevamo aggiunto un capitoletto, anticipando di quaranta giorni lo «scoop» della Stampa, sul possibile ruolo dei diplomatici cinesi nella delicata trasferta russa di Salvini. Leggiamo: «A inizio marzo Capuano avrebbe fatto incontrare Salvini, che per mesi aveva attaccato la Cina su temi come il 5G, con Zhang e con l'ambasciatore Li Junhua per iniziare un avvicinamento tra la Lega e il Paese del Dragone. E quando Salvini ha deciso di andare in visita a Mosca Capuano ha subito coinvolto i diplomatici cinesi di stanza a Roma». 

A onor del vero Iacoboni ha riferito anche questo: «Capuano si muove "chiedendo al diplomatico cinese la possibilità di organizzare, prima di rientrare dalla Russia, un incontro a Pechino con il Ministro degli esteri cinese, Wang Yi" [] Capuano è così interessato anche a una sorta di coinvolgimento dei cinesi, da proporre di superare eventuali restrizioni dovute alla pandemia organizzando l'incontro da remoto, nella sede dell'ambasciata cinese».  

Peccato che pure questa parte fosse già stata anticipata dalla Verità: «Capuano a fine aprile ha anche sondato la possibilità di organizzare dopo la visita a Mosca e prima di rientrare in Italia, un incontro a Pechino per Salvini con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi per portare avanti l'ambizioso piano di pace del leader leghista. Un meeting che, vista l'emergenza Covid, si sarebbe potuto anche tenere da remoto da Roma». 

E avevamo arricchito la notizia con questo particolare: «Addirittura è stata accarezzata l'ipotesi di tenere un tavolo di pace tra russi e ucraini in Italia, presso l'ambasciata cinese della Capitale». Qualcuno obietterà che Iacoboni, a proposito delle trattative con l'ambasciata russa, ieri abbia riportato un ulteriore passaggio del presunto brogliaccio in suo possesso. 

Questo: «In aggiunta Capuano auspicherebbe anche un possibile incontro di Salvini con il presidente Putin, sempre nella giornata del 31 maggio». Mentre leggevamo, abbiamo avuto un déjà vu. Forse perché sulla Verità del 10 giugno avevamo scritto: «Capuano, in aggiunta, avrebbe auspicato anche un possibile incontro di Salvini con il presidente Putin sempre nella giornata del 31 maggio».

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 28 Luglio 2022.  

I rapporti tra Matteo Salvini e uomini dell'ambasciata russa in Italia continuano ad agitare la politica. A giugno la notizia degli incontri segreti del leghista e del suo consigliere diplomatico Antonio Capuano con l'ambasciatore Sergey Razov (raccontate da Domani) e quella sull'acquisto dei biglietti aerei per l'asserito “viaggio di pace” a Mosca del Capitano (un’esclusiva della Verità) avevano creato imbarazzo al partito e polemiche.

Ieri un nuovo retroscena della Stampa ha aggiunto dettagli interessanti alla liaison tra il Carroccio e gli emissari di Vladimir Putin. Che riguardano alcuni colloqui avvenuti lo scorso fine maggio tra Capuano e Oleg Kostyukov, il capo dell'ufficio politico dell'ambasciata già finito sulle cronache per aver anticipato i soldi dei voli, poi restituiti dalla Lega.

Secondo il quotidiano torinese – che cita e virgoletta le parole di un presunto documento informale dell'intelligence - durante uno di questi colloqui il funzionario russo domanderebbe a Capuano se i ministri della Lega sarebbero «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Un quesito che farebbe «trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del governo italiano con questa operazione».

Draghi, atlantista e convinto assertore dall'aiuto militare all'Ucraina sempre contrastato dalla Lega (e dai Cinque Stelle), è caduto poco più di un mese dopo il colloquio riportato dal giornale. Per tutta la giornata il centrosinistra ha chiesto a Salvini di spiegare se la scelta di non dare la fiducia a Draghi sia stata o meno condizionata dalle pressioni dei russi. Salvini e i suoi uomini hanno reagito parlando di una «panzana». 

Salvini ha pure anticipato una smentita istituzionale all'articolo, arrivata in effetti da Franco Gabrielli pochi minuti dopo. Il sottosegretario con delega ai servizi segreti ha detto che «l'attribuzione all'intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra Capuano e rappresentanti dell'ambasciata russa per far cadere il governo Draghi sono prive di ogni fondamento». La Stampa ha confermato lo scoop e l'esistenza di documenti, seppur definendoli «una sintesi informale dell'intelligence sulla vicenda, comunicata ai competenti livelli istituzionali». Ossia, allo stesso Gabrielli, che però dice che le informazioni non sono attribuibili al comparto che sovrintende.

Dunque, chi mente? Esistono o meno carte delle nostre agenzie di sicurezza che riportano frasi in cui Kostyukov (figlio del comandante del Gru, i servizi militari russi) in cui si fanno domande o pressioni sul consigliere di Salvini per fare cadere un esecutivo non gradito? 

Domani ha sentito fonti interne al comparto, funzionari russi e autorevoli esponenti governativi vicino al dossier, e può aggiungere qualche tassello. Testimonianze che evidenziano soprattutto come all'origine dell'episodio ci sia stata un'operazione di spionaggio dei nostri servizi, che hanno effettuato – scopre adesso Domani - intercettazioni preventive sul telefono di Capuano.

Il contenuto di alcune conversazione captate tra il russo e l'avvocato di Frattaminore sono poi finite – forse a causa di qualche fonte interna ai servizi o alla catena di funzionari al Dis e a palazzo Chigi che conoscevano i fatti – prima alla Verità (che aveva già dato l’identica notizia di ieri il 10 giugno) e poi alla Stampa (che ieri l'ha rilanciata con eco assai maggiore). 

Una fuga di notizie che in queste ore sta preoccupando le nostre agenzie di sicurezza, in primis l'Aisi di Mario Parente e poi il Dis di Elisabetta Belloni: quasi mai intercettazioni preventive effettuate dai servizi a cittadini italiani o stranieri sono arrivate in tempo reale – seppur secondo Gabrielli in maniera imprecisa e non mediata dall'intelligence – sui media.

Partiamo dalla sera primo marzo 2022. L'invasione di Mosca dell'Ucraina è iniziata da pochi giorni, e Salvini e Capuano varcano il portone dell'ambasciata russa a Roma. Forse non sanno che villa Abamelek sul Gianicolo è uno dei palazzi più sorvegliati d'Italia. Non solo dalla polizia per normali questioni di sicurezza, ma anche dal nostro controspionaggio dell'Aisi e dai servizi segreti americani. 

Capuano è pure segnalato dall'antiriciclaggio, ed è noto da tempo per avere eccellenti rapporti con l'ambasciatori mediorientali. Dopo la sua seconda visita in ambasciata, seguendo la prassi (che prevederebbe una richiesta alla procura generale in caso di captazione) la nostra intelligence decide di intercettare il telefono del legale campano. I nostri 007 vogliono capire chi sono i suoi interlocutori, e se dietro l'attivismo del neo consigliere diplomatico di Salvini ci siano rischi per la sicurezza nazionale.

A fine maggio il telefono di Capuano diventa caldissimo. Lui e Salvini hanno infatti deciso, d'accordo con Razov, di partire per la Russia e incontrare pezzi grossi del Cremlino, compreso il ministro degli esteri Lavrov. I nostri agenti ascoltano tutto, compreso il pasticcio dell'acquisto dei biglietti: la Lega non riesce a comprarli per via delle sanzioni, così il capo dell’ufficio politico Kostyukov si offre di comprali di tasca sua, anticipando la somma in rubli. Il viaggio, poi, salta quando l'ipotesi di una visita a Mosca di Salvini finisce sui giornali.

A giugno il caso riesplode prima su Domani, che svela cene e incontri tra Razov e Salvini, e poi sulla Verità che pubblica la vicenda dei biglietti aerei, conosciuta a pochissimi uomini della cerchia del leader leghista. Salvini si domanda chi possa averla spifferata al giornale amico, e comincia a sospettare di qualche talpa all'interno dei nostri apparati di sicurezza. «È in quel momento che abbiamo capito che Capuano probabilmente era stato intercettato», spiegano alcuni fedelissimi del leghista. 

Il 10 giugno la Verità pubblica un articolo sugli affari di Capuano. Anche stavolta, le informazioni sembrano provenire da fonti che hanno ascoltato direttamente i colloqui. Nelle righe finali, viene riporta esattamente la notizia pubblicata ieri dalla Stampa. Senza citare fonti né documenti di intelligence, La Verità scrive: «Nella serata del 28 maggio...i russi (parlando con Capuano, ndr) da parte loro si sarebbero mostrati interessati a sapere se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni del governo». Un testo identico a quello del documento ufficioso citato dal foglio torinese.

Fonti diplomatiche russe negano a Domani che ci sia mai stata da parte di Mosca alcuna operazione di sabotaggio dell'odiato Draghi, e che in quei giorni «sui giornali italiani era un susseguirsi di dichiarazioni della Lega contro il governo sulla questione del ddl Concorrenza e dei balneari». Insomma, pure se Kostyukov avesse fatto la domanda a Capuano sui ministri, non si trattava per i russi di una pressione sulla Lega per far cadere il governo, ma di una semplice curiosità politica, suppur certamente interessata. Abbiamo provato a chiamare il funzionario per sapere se avesse fatto quella domanda e a qual fine, ma senza successo. 

La vecchia notizia dalla Verità torna in prima pagina sulla Stampa, e assume un sapore assai più rilevante: non solo perché intanto il governo è davvero caduto anche per mano della Lega, ma perché viene citato un documento dell'intelligence che conterrebbe virgolettati precisi di quei colloqui.

Nel pezzo non parla mai di intercettazioni da parte del controspionaggio, ma diversi testimoni spiegano a Domani che il contenuto delle telefonate tra Capuano e Kostyukov verrebbe proprio dalle “preventive” ordinate mesi prima dall’Aisi. Ma perché Gabrielli scrive dunque una nota così netta? Perché vuole proteggere l'intelligence tenendola fuori dalla tenzone elettorale. E perché, conoscendo bene il contenuto delle telefonate (come ovvio che sia, essendo autorità delegata), in assenza di trascrizioni e documenti ufficiali delle stesse vuole buttare acqua sul fuoco delle polemiche politiche. Perché nelle interlocuzioni registrate della coppia non ci sarebbero indicazioni di operazioni, come scrive Gabrielli, «per far cadere il governo Draghi».

Qualcuno nell'Aisi dice che non esisterebbe nemmeno una corrispondenza letterale tra le registrazioni dei colloqui e le frasi virgolettate uscite sui giornali, ma il tema è secondario. Le interlocuzioni tra russi, Salvini e Capuano ci sono state eccome, e la nuova vicenda pone senza dubbio ulteriori interrogativi sulla natura dei reali rapporti tra Salvini e la Russia, e sul perché il leghista si sia affidato a uno come Capuano. 

Quante intercettazioni inedite di Capuano hanno ancora in mano i nostri servizi e/o altri soggetti di apparati stranieri? E chi e perché – anche se a spizzichi e bocconi – ha fatto uscire materiale segreto così dirompente? 

È quello che si chiede oggi Salvini, che sa bene che lui stesso potrebbe essere stato registrato nel caso avesse chiamato il telefono del consulente.

Il problema politico è triplice. Perché il segretario di un partito che si appresta a governare, invece di fare mea culpa per le sue frequentazioni pericolose, denuncia complotti. Ma la verità che da Gianluca Savoini, protagonista dello scandalo Metropol, all'avvocato Capuano è lui e la sua corte la causa primaria delle sue sventure.

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per "Domani" il 30 luglio 2022.

Il 17 ottobre 2014, a Milano, Matteo Salvini ha incontrato Vladimir Putin. Un caffè al volo dopo una convention sull’Eurasia. Forse il primo incontro tra il capo della Lega e il presidente della federazione russa. In quei giorni però l’antiriciclaggio italiana fa una scoperta, uno strano giro di denaro in contatti subito segnalato come sospetto: 125mila dollari movimentati da un alto funzionario dell’ambasciata russa in Italia, Oleg Kostyukov, lo stesso che in questi mesi ha curato le relazioni con Matteo Salvini e il suo consulente improvvisato, Antonio Capuano, l’avvocato di Frattaminore (Napoli) con un passato in Forza Italia e relazioni con il mondo della diplomazia soprattutto mediorientale.

«Oleg Kostyukov, addetto consolare del consolato generale della Federazione russa, ha convertito in contanti in data 1 ottobre 2014, 25mila dollari, e il 14 ottobre, 100mila dollari, senza farli transitare dal proprio conto corrente e senza esibire alcuna dichiarazione doganale. 

Inoltre il sospetto è nato dal fatto che il cliente ha motivato l’operazione come cambio per utilizzo delegazione russa presente in Italia per vertice Eurasia, ma senza operare sul conto corrente consolare».

Perché non utilizzare le carte di credito collegate ai conti diplomatici?, è la domanda che i detective finanziari si sono posti. La segnalazione è stata poi girata ai reparti speciali della finanza, senza grandi risultati. Possibile che la truppa diplomatica al seguito di Putin avesse necessità di così tanta liquidità per spese di routine?

O quelle somme servivano ad altro? I documenti ottenuti da Domani non aggiungono nulla sulla meta di quel malloppo, certamente però collocano la movimentazione pochissimi giorni prima dell’arrivo del presidente russo a Milano e del suo incontro con il capo della Lega. E rivelano la giustificazione data da Kustykov all’istituto di credito: servivano alla delegazione in arrivo in Italia per il vertice Eurasia. 

«Con Putin venti minuti di incontro, cordiale e costruttivo. Abbiamo parlato di immigrazione, di pace, di imprese italiane, di valori comuni, di un’altra Europa possibile», aveva annunciato trionfante il Capitano sui social.

Lo stesso giorno era accaduto un evento storico: Putin aveva incontrato l’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, riaprendo così uno spiraglio che poi porterà agli accordi di Minsk 2. 

Le cronache dell’epoca ricordano che Putin ha fatto di tutto per dedicare qualche minuto a Salvini, mentre non ha trovato il tempo per salutare il vecchio amico Silvio Berlusconi. Al fianco del leader leghista era presente Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo e protagonista, quattro anni più tardi, della trattativa dell’hotel Metropol durante la quale si è discusso di un maxi piano di finanziamento russo al partito. 

Nella stessa sala con Putin c’era Sergey Razov, l’ambasciatore in Italia incontrato da Salvini in gran segreto nei mesi scorsi per discutere di pace in Ucraina.

Torniamo però ai soldi in contanti messi a disposizione da Oleg Kostyukov, oggi al centro delle cronache per i suoi rapporti con la Lega: c’era lui all’ambasciata durante gli incontri tra Salvini, il consulente Capuano e l’ambasciatore Razov; è lui che ha parlato con Capuano dopo gli incontri; e ancora lui che ha anticipato i soldi per i biglietti dei voli per Mosca sui quali avrebbero dovuto viaggiare Salvini e il suo consigliere. Viaggio in cui il leader della Lega e il consulente avevano programmato, coordinandosi con l’ambasciata russa a Roma, incontri di alto livello con l’obiettivo di promuovere un piano di pace elaborato da Capuano e Salvini. La gita a Mosca è stata poi annullata per le polemiche.

Kostykov è un alto funzionario dell’ambasciata russa a Roma, con ogni probabilità il figlio del capo dei servizi segreti militari (Gru) di Mosca alle dirette dipendenze del ministero della Difesa, impegnato in prima linea nell’invasione dell’Ucraina.

Parentela mai confermata ma neppure smentita dall’ambasciata in Italia. Secondo i giornalisti investigativi di Insider, la famiglia Kostyukov ha accumulato ricchezze enormi e l’ha reinvestita nel settore immobiliare. L’inchiesta giornalistica cita Oleg come uno dei protagonisti di questi affari, e manovre finanziarie, il quale, contattato, non ha risposto a Insider e neanche a Domani.

Kostyukov junior è il vicario dell’ufficio politico dell’ambasciata. Alcuni anni fa è stato anche addetto del consolato generale di Russia a Milano e ha lavorato a stretto con Alexei Paramonov, pezzo grosso del ministero degli Esteri di Putin e a marzo scorso dato per certo come sostituto dell’attuale ambasciatore russo presso la Santa sede.

(ANSA il 28 luglio 2022) - L'ambasciata russa in Italia non commenta quanto pubblicato oggi da La Stampa su un presunto colloquio tra un funzionario della sede diplomatica e un emissario di Matteo Salvini. 

"L'ambasciata non ha nulla da aggiungere a quello che è già stato detto in giugno", riferisce una fonte. 

In giugno l'ambasciata aveva reso noto di avere "assistito Salvini e le persone che lo accompagnavano nell'acquisto dei biglietti aerei" per il suo viaggio a Mosca previsto per il 29 maggio, poi cancellato. 

L'ambasciata aveva aggiunto che la cifra era stata restituita da Salvini e che il rimborso sarebbe avvenuto anche se il viaggio ci fosse stato.

Da tag43.it il 28 luglio 2022.

«Fesserie». Matteo Salvini ha commentato così il retroscena della Stampa sull’incontro tra il suo consigliere Antonio Capuano, e il diplomatico russo Oleg Kostyukov, avvenuto due mesi prima della caduta di Draghi, proprio nel periodo in cui Lega e M5s si proclamavano contrari a un nuovo invio di armi all’Ucraina. 

Come riporta La Stampa, che cita un documento dell’intelligence, Kostyukov avrebbe contattato il consigliere per i rapporti internazionali del leader della Lega Capuano chiedendogli se i ministri del Carroccio fossero intenzionati a dimettersi dal governo, in modo da farlo cadere. Non è la prima volta che Kostyukov viene accostato a Salvini: vicario dell’ufficio politico dell’ambasciata russa a Roma, aveva comprato a Salvini i biglietti aerei per Mosca in vista della missione poi saltata. 

Oleg Kostyukov, suo padre è dal 2018 il capo di uno dei servizi di intelligence di Mosca

Ma chi è veramente Oleg Kostyukov? Secondo quanto scoperto da The Insider, il 35enne sarebbe figlio dell’ammiraglio Igor Kostyukov, che dal 2018 è a capo del Gru, ovvero uno dei servizi di intelligence di Mosca, direttamente dipendente dal ministero della Difesa. Il padre è sotto sanzioni occidentali per la sua presunta interferenza nelle elezioni americane; per l’avvelenamento dell’ex spia russa Sergei Skripal, avvenuta a marzo a Salisbury, in Inghilterra; per gli attacchi informatici al Bundestag avvenuti nel 2015 e nel 2018. L’ambasciata non ha mai confermato la parentela, ma i documenti pubblicati da The Insider non lascerebbero dubbi. 

 Insieme alla sorella Alena Solomonova (che ha cambiato cognome dopo il matrimonio) avrebbero un patrimonio quantificabile in 200 milioni di rubli (3,2 milioni di euro), incompatibile con i rispettivi salari e, tra l’altro con numerose proprietà terriere e immobiliari non acquistate a loro nome. Solomonova, sposata con un uomo la cui azienda ha dichiarato bancarotta, gestisce il gruppo di società Regions, di proprietà del deputato della Duma Zelimkhan Mutsoyev e di suo fratello, il cittadino britannico Amirkhan Mori. Il sospetto, evidenzia The Insider, è che dietro ci sia la munifica mano del padre, il quale a sua volta avrebbe ottenuto ingenti somme di denaro una volta arrivato al vertice del Gru.

Il diplomatico Oleg Kostyukov in passato ha lavorato anche con Alexei Paramonov, direttore del Primo dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, che a marzo aveva puntato il dito contro il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, accusandolo di essere tra i principali ispiratori di una campagna antirussa nel governo, a seguito dell’attacco all’Ucraina: intervistato da Ria Novosti, Paramonov aveva ricordato l’aiuto fornito dalla Russia al nostro Paese a inizio 2020, in piena emergenza pandemica. Aiuto che però, come hanno dimostrato varie inchieste, fu tutt’altro che disinteressato e gratuito. Secondo un articolo pubblicato il mese scorso su La Stampa, Kostyukov potrebbe presto diventare ambasciatore della Federazione Russa presso la Santa Sede.

Giovanni Tizian E Nello Trocchia per “Domani” il 30 luglio 2022.

«Mi massacrano per screditarlo», « la stampa con me ha fatto uno schifo », «gli incontri all’ambasciata? Non lo so quanti sono». Antonio Capuano nel suo racconto omette molte cose e indossa mille abiti. Curioso che non ricordi neppure il numero dei summit dai russi.

Il misterioso consulente di Matteo Salvini per gli affari esteri, più che per le sue doti diplomatiche colpisce per le mezze frasi, le smentite e i rocamboleschi giri di parole. Dice, ma soprattutto non dice nell’ora e più di incontro nel suo studio nei giorni caldi in cui Domani aveva raccontato degli incontri segreti in ambasciata tra Capuano, Razov e Salvini. Cosa nasconde?

Capuano ha un passato in Forza Italia prima dell’avventura leghista. «Sono stato deputato dal 2001 al 2006. Io ho pagato un prezzo notevole, ero contro il sistema politico di Cosentino (l’ex sottosegretario all’economia e coordinatore campano di Forza Italia, ndr) e così non sono stato ricandidato», dice in versione martire. Ma c’è sempre una seconda possibilità e l’avvocato trova sponda in un altro partito di centrodestra. Negli ultimi tempi si è avvicinato alla Lega e si è trovato così all’improvviso consigliere del leader leghista Salvini su un fantomatico piano di pace da proporre alla Russia. 

Dopo la notizia degli incontri in ambasciata, era scomparso dai radar, quando è tornato nuovamente protagonista della politica italiana perché un funzionario dell’ambasciata russa gli avrebbe chiesto notizie in merito alle possibili dimissioni dei ministri leghisti dal governo di Mario Draghi.

Domani, a fine maggio, ha rivelato l’incontro tra l’ambasciatore russo Razov e Salvini. Una cena che risale al marzo scorso, presente anche Capuano. In quei giorni avevamo chiesto un incontro all’ex deputato forzista, che ci ha dato appuntamento nel suo studio romano. «Sono tra i primi contribuenti italiani, io pago tasse e sono tra il 4 per cento che paga di più. Seguo da consulente legale diversi connazionali impegnati in investimenti all’estero e lavoro con diverse ambasciate», dice Capuano. Quali ambasciate? «Ma ve le devo dire tutte? Bahrain, Afghanistan, Kuwait», replica. All’appello ne manca certamente qualcuna, ma persino su questa domanda è in affanno.

Ogni risposta prevede una rettifica, un passo indietro e una smentita. Capuano è così, prima esplicita poi ritratta. «Facciamo un esempio, se c’è un’azienda che vuole investire in Ucraina mi chiama e la assisto», dice. Quindi lavora anche con l’Ucraina? Capuano si ritrae: «Solo un esempio». 

Ma lei chi è, come dobbiamo presentarla? «No, no per favore. Poi devo andare in tribunale a difendermi, non voglio», risponde. Ma le abbiamo chiesto solo come si definisce? Capuano borbotta, arranca, si inalbera. Si inerpica in tortuosi giri di parole e, anche per dire cosa fa nella vita, impiega minuti. «Faccio l’avvocato, punto».

A Capuano chiediamo anche dei soldi in arrivo dal Kuwait segnalati dall’antiriciclaggio come sospetti. E su questo ha preparato carte e documenti. «Quelli sono i soldi per l’acquisto di una casa, un prestito di un imprenditore, un uomo d’affari, si chiama Ibrahim e si muove nell’area del Golfo». Persino su Ibrahim cambia versione più volte in dieci minuti. Perché presta soldi a Capuano e consorte? «Perché è un familiare della mia compagna, li restituiamo nel giro di due anni, in pratica è una persona cara. Lui aveva investito in obbligazioni nel nostro paese» e ora ci dà un prestito «per il nostro progetto di vita». 

È l’unico momento del nostro incontro durante il quale si mostra meno indisposto e più propenso a parlare seppure su molte cose glissi. Appena cambiamo argomento tornano le giravolte dialettiche. Il consulente non vuole rispondere alle domande sul suo ruolo nella Lega. Chi l’ha chiamato nel partito? L’idea di incontrare l’ambasciatore russo in Italia è stata una sua idea o di Salvini? Silenzio, agita le mani, difende il capo. «Hanno detto che ero nell’elenco dei consulenti dell’ambasciata russa. Uno schifo, uno schifo. Una roba che ha detto anche un segretario di un partito, Letta (segretario del Pd, ndr), che ha detto che io sono consulente dell’ambasciata russa. Assurdo», dice in versione indignato.

«Massacrarmi per screditarlo non è giusto», dice Capuano riferendosi a Salvini. Ma non chiarisce né l’origine degli incontri né il numero (sappiamo per certo che sono tre oltre la cena). Niente: cambia versione in continuazione, fa scena muta dicendo di essere pronto ad andare al Copasir e di aver avvisato la procura. Per una denuncia? Ma Capuano è sibillino, non chiarisce, lascia tutto in sospeso, nell’opacità. Ma conosce l’ambasciatore Razov? «Non conosco nessuno», dice e rimanda tutto a un appuntamento successivo nel quale rivelerà ogni dettaglio, ma poi scompare. Il consigliere del leader leghista, sparisce, si dilegua. Ora emergono nuovi dettagli sul suo lavoro di pontiere tra la Lega e gli amici russi. Capuano ricontattato risponde alla chiamata ma ricomincia la sceneggiata del silenzio. Per proteggere chi? 

Il caso del piano "di pace" infiamma la campagna elettorale. Ombre russe sul governo Draghi, nuovi retroscena sulla missione Salvini-Capuano: “Progettavano un viaggio anche in Cina”. Redazione su Il Riformista il 29 Luglio 2022. 

La “smentita istituzionale” annunciata da Matteo Salvini non è bastata: il segretario della Lega resta al centro del presunto caso delle “Ombre Russe” dietro la crisi politica che ha portato alla fine del governo Draghi. Una vicenda esplosa sulle colonne del quotidiano La Stampa che ieri ha pubblicato un retroscena, scritto a partire da documenti di una non meglio specificata intelligence, sui contatti tra il funzionario dell’ambasciata russa in Italia Oleg Kostyukov e l’emissario del leader del Carroccio Antonio Capuano. È il seguito della vicenda del viaggio emersa nei mesi scorsi.

Kostyukov, secondo il retroscena, avrebbe chiesto a fine maggio all’emissario se “i ministri leghisti sono intenzionati a dimettersi?”. Le nuove indiscrezioni di stampa pubblicate oggi riguardano il seguito della vicenda: un presunto incontro tra Salvini e Putin, un altro con l’ex premier Dmitry Medvedev e un contatto anche con l’ambasciata cinese in Italia organizzate sempre nell’ambito della “missione di pace” dell’ex ministro dell’Interno. “Fesserie”, aveva già replicato ieri Salvini annunciando una “smentita istituzionale”. Dichiarazione che era arrivata in giornata, quella dell’Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, il sottosegretario Enrico Gabrielli.

“Le notizie apparse sul quotidiano La Stampa, circa l’attribuzione all’intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l’Avvocato Capuano e rappresentanti dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia, per far cadere il Governo Draghi, sono prive di ogni fondamento come già riferito al Copasir, in occasione di analoghi articoli, apparsi nei mesi scorsi”. Il direttore del quotidiano Massimo Gianni aveva tuttavia risposto parlando di “documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali”.

I nuovi retroscena pubblicati oggi parlano dell’ambasciata russa che informava Capuano della possibilità di un incontro a Mosca tra Salvini e Medvedev, che negli ultimi mesi si è reso protagonista di dichiarazioni molto dure nei confronti di Nato, Occidente ed Europa inclusa l’Italia. Capuano avrebbe puntato anche a un incontro con Putin con l’intenzione di proporre l’Italia in un ruolo di garanzia per trattare il cessate il fuoco in Ucraina. La Stampa riporta inoltre di un contatto nell’aprile del 2022 tra Capuano e il capo della sezione politica dell’ambasciata cinese in Italia Zhang Yanyu: l’obiettivo sarebbe stato incontrare a Pechino, di ritorno da Mosca, il ministro degli Esteri Wang Yi.

Il governo Draghi sarebbe stato all’oscuro di tutto: una missione di pace organizzata in autonomia. Capuano, sempre secondo quanto riportato da La Stampa, avrebbe sostenuto invece che “anche il governo italiano avrebbe poi sostenuto” questa “posizione”, ovvero il proposito di promuovere la pace. L’ambasciata russa in Italia già ieri non aveva aggiunto niente alle smentite dei mesi scorsi: “L’ambasciata non ha nulla da aggiungere a quello che è già stato detto in giugno”, riferisce una fonte citata dall’Ansa. In giugno l’ambasciata aveva reso noto di avere “assistito Salvini e le persone che lo accompagnavano nell’acquisto dei biglietti aerei” per il suo viaggio a Mosca previsto per il 29 maggio, poi cancellato. L’ambasciata aveva aggiunto che la cifra era stata restituita da Salvini e che il rimborso sarebbe avvenuto anche se il viaggio ci fosse stato.

L’assistenza russa sarebbe stata infatti necessaria per organizzare il viaggio a causa delle sanzioni imposte dall’Occidente e dall’Italia a Mosca, che di fatto hanno sospeso i collegamenti tra Roma e Mosca e non avrebbero permesso l’acquisto dei biglietti di Aeroflot dall’Europa. La missione sarebbe stata programmata dal 3 al 7 maggio. Le conversazioni tra Capuano e Kostyukov sulla situazione del governo italiano avrebbero avuto luogo tra il 27 e il 28 maggio, mentre il giorno prima, il 26 maggio, il presidente del Consiglio Mario Draghi tenta di sbloccare la crisi del grano parlando al telefono con Putin.

Dure le prese di posizione del centrosinistra sul caso: il segretario del Partito Democratico Enrico Letta ha dichiarato di voler sapere “se è stato Putin a far cadere il governo Draghi”, anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi si aspetta “un’immediata indagine del Copasir”, quello di Azione Carlo Calenda parla di “tre forze filoputiniane” che avrebbero fatto cadere il governo, il ministro degli Esteri ex Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio mette in allerta dalle “influenze russe su questa campagna elettorale”. Il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani ha sostenuto l’alleato parlando di “campagna denigratoria”, il capogruppo di Fratelli d’Italia Francesco Lollobrigida ha invece parlato di richiesta di verifica “legittima. Confido che nessuna insinuazione trovi riscontro, che nessuno abbia remato contro l’Italia e l’Occidente”.

Manina di destra o di sinistra? Inchiesta della Stampa su rapporti con Putin e terremoto giudiziario a Terracina: chi c’è dietro gli scandali di Lega e FdI. Claudia Fusani su Il Riformista il 29 Luglio 2022. 

Diciamo che un “colpo” per uno non fa male a nessuno. Di certo, tra i due, è assai meglio assestato quello diretto a Matteo Salvini perché ipotizzare “ombre russe dietro la crisi di governo italiana” e che il Capitano possa essere una di quelle, è un fango assai più difficile da levare. Serio, è anche doc nel senso che ha il timbro di una procura, quello diretto a Fratelli d’Italia: “Indagato a Terracina l’ex portavoce di Giorgia Meloni”, l’ipotesi è turbativa d’asta, l’inchiesta mare è quella che vede arrestata (domiciliari) per corruzione la ormai ex sindaca di Terracina Roberta Tintari, qui eletta nel 2020 con il centrodestra. “Solo” indagini, per carità, garantisti fino al terzo grado di giudizio. E però è un venticello che si alza e soffia.

“Adesso comincerà il fango contro di me” ha messo le mani avanti Giorgia Meloni due giorni dopo la caduta del governo Draghi, l’avvio della campagna elettorale e l’inizio dell’ultimo miglio che dovrebbe portarla alla guida di palazzo Chigi. La leader di Fratelli d’Italia ce l’aveva in quelle ore con i titoli della stampa estera e italiana che evocavano il rischio fascismo. Ma il pensiero vero era ed è già ad eventuali inchieste e dossieraggi che possono essere armati nelle prossime sette settimana. La voglia di vincere è tanta. Quella di perdere pure. Non stiamo dicendo che ci sia una regia tra le due cose. E però si sa come si dice, “accidenti alle coincidenze”. E le coincidenze portano a dire che nel centrodestra sarà battaglia fino all’ultimo giorno.

Alla faccia dell’alleanza. Non c’è dubbio che “Le ombre russe dietro la crisi” (titolo de la Stampa di ieri mattina) siano il colpo meglio assestato. Target: Salvini e la Lega. Il quotidiano pubblica ampli stralci di report d’intelligence (italiana?) che raccontano come “a fine maggio il funzionario dell’ambasciata russa a Roma Oleg Kostyukov si sia informato con l’ex deputato Antonio Capuano e ora consulente per l’estero di Matteo Salvini, circa le intenzioni dei ministri leghisti a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi”. Siamo nel pieno dello scontro di Lega e M5s contro l’invio di armi in Ucraina. Salvini gira l’Italia al grido “pace” – come se il governo volesse la guerra – e Conte punta il dito contro l’escalation di armi e il fallimento della diplomazia (quindi Di Maio). Sono i partiti del Conte 1 che tra il 2018 e il 2019 non ebbero dubbi su stringere patti con Russia unita, il partito di Putin.

È l’asse populista giallo-verde che torna, in piena guerra e in pieno regime sanzionatorio contro Mosca, a sollevare distinguo, mostrarsi incerti e comprensivi col governo russo, contro la Ue e la Nato. Contro Draghi. “Il diplomatico – cioè Kostyukov – fece trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del governo italiano” si legge nell’articolo. Tanto basta per scatenare i partiti di centrosinistra, chiedere l’intervento del Copasir, informative ed approfondimenti. Azione parla di “tradimento”. Gennaro Migliore di Italia Viva chiede “l’informativa del governo”. Letta parla di rivelazioni “inquietanti” e denuncia come “questa campagna elettorale sia iniziata malissimo”. Tanto basta per dare corpo al convitato di pietra di questa crisi di governo: il partito di Putin che ha manovrato per far cadere Draghi e indebolire il fronte occidentale.

Gongola, in silenzio Fratelli d’Italia. Zitta e muta Forza Italia. La Lega derubrica al “solito fango contro di noi”. Palazzo Chigi decide di intervenire. “Per tutelare le istituzioni” dice il sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega ai Servizi segreti Franco Gabrielli. In una nota ufficiale, fa sapere che “le indiscrezioni in merito all’attribuzione all’intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l’avvocato Capuano e rappresentanti dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia, per far cadere il governo Draghi, sono prive di ogni fondamento come già riferito al Copasir, in occasione di analoghi articoli apparsi nei mesi scorsi”. Gabrielli fa molto probabilmente riferimento ad un’inchiesta pubblicata ai primi di giugno su il quotidiano La Verità diretto da Maurizio Belpietro dove si raccontava dell’acquisto del biglietto aereo per Mosca in favore del segretario Salvini da parte del solerte Kostyukov. Oltre ai biglietti, anche allora furono pubblicate frasi in cui i funzionari dell’ambasciata chiedevano a Capuano se i ministri leghisti fossero prossimi alle dimissioni.

Solo che la crisi allora non era all’ordine del giorno. Ma la figuraccia di e con Capuano aveva già prodotto tutta la sua potenzialità e discredito. Insomma, di quel primo articolo su La Verità si sono perse le tracce. La crisi di governo e la campagna elettorale hanno dato nuova luce a quelle frasi tratte da documenti e ricostruite in modo tale da dare corpo alla tesi del partito di Putin che avrebbe mosso i fili della crisi di governo italiana. La manina che ha messo in giro questa roba può essere a sinistra, senza dubbio. Ma anche a destra: la Verità, che aveva già scovato quelle carte, non può essere certo annoverata tra le testate con simpatie di centrosinistra.

Palazzo Chigi resta fermo in quella che ritiene essere la sua mission principale finché resta al governo: “Tutelare le istituzioni da un gioco al massacro”. Chi conosce bene la storia spiega che “in tutto questo non c’è una regia, piuttosto un modo per buttarla in caciara”. Ed è vero che “non ci sono evidenze circa il coinvolgimento di Salvini o di qualche suo scagnozzo per far cadere il governo su input russo”. Questo risulta già agli atti del Copasir. Ma questo è il clima. E la campagna elettorale si connota di pessimi presagi. 

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

In Onda, ombre russe dietro la crisi? La risposta di Floris lascia senza parole Giannini e De Gregorio. Giada Oricchio su Il Tempo il 30 luglio 2022.

"Le ingerenze russe non faranno cambiare idea di voto agli italiani". È questa l'opinione di Giovanni Floris, conduttore del programma Di Martedì. Ospite dei colleghi David Parenzo e Concita De Gregorio a In Onda, il talk politico di LA7, Floris si dice convinto che al momento del voto, il prossimo 25 settembre, sarà ininfluente lo scoop del quotidiano La Stampa su un forte interessamento dell'ambasciata russa con Antonio Capuano, uomo di fiducia di Matteo Salvini per la politica estera, sulla possibilità di ritirare i ministri leghisti e far cadere il governo Draghi.

Il giornalista ha osservato: "Faccio i miei complimenti a Giannini per le rivelazioni però dal punto di vista del consenso non credo che queste notizie cambino l'orientamento dell'elettorato. Anzi, di solito radicalizzano l'atteggiamento: chi non amava Salvini continuerà a non amarlo e chi lo apprezzava avrà altri motivi per apprezzarlo". Floris ha fatto notare, infatti, che le simpatie putiniste del leader della Lega è cosa risaputa, basti ricordare la maglietta con il volto di Vladimir Putin e il pollice all'insu' e le frasi "sono più tranquillo a Mosca che a Bruxelles" o "scambierei due Mattarella per mezzo Putin". Lo stesso vale per Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia: "Non dipende da una telefonata sapere che Berlusconi e Putin passavano le vacanze nella dacia. Sono problemi loro", ha detto Floris prima di andare al vero nocciolo della questione: "Ogni elezione è costellata di scandali che ci ricordano chi andiamo a votare, ma gli italiani lo sanno bene. Dal punto di vista del consenso è tutto sul piatto, è un fatto inquietante, ma chi si doveva inquietare si è già inquietato". Gli altri semplicemente non ritengono l'argomento rilevante.

Otto e mezzo, Cacciari perde la pazienza sul caso Cremlino: sbotta con Sallusti e zittisce Floris. Giada Oricchio su Il Tempo il 10 giugno 2022.

“Cremlino palazzo di me***a?”. Massimo Cacciari perde le staffe con Alessandro Sallusti e Giovanni Floris, temporaneo padrone di casa a "Otto e Mezzo". Durante la puntata di giovedì 9 giugno, il direttore del quotidiano Libero ha ribadito di aver usato l’espressione forte “Cremlino palazzo di m***a”, durante l’ultima puntata del programma Non è l’Arena, in quanto luogo dove si sono decise le più grandi tragedie dell’umanità. Interrogato sul punto dal conduttore, il filosofo Cacciari, spazientito e irritato, ha sospirato: “Non posso fare la storia del Cremlino, abbia pazienza…”.

Floris ha osato chiedergli cosa intendesse dire e il professore è sbottato e ha zittito il conduttore: “Cosa vuole che intenda?! Quello che dico! Immaginate voi! Una persona poco più che analfabeta dovrebbe sapere cos’è il Cremlino, lì c’è stata Caterina la Grande. C’è stato Stalin? Sì come a Berlino c’è stato Hitler e a Roma Mussolini, non per questo Palazzo Chigi diventa di me**a!”.

Sallusti lo ha interrotto insistendo sul fatto che davanti a una guerra non si può pensare a esaltare l’architettura del palazzo di Vladimir Putin e Cacciari è andato su tutte le furie: “E allora parli lei! Per l’amor di Dio, cosa volete che discuta con Sallusti di cosa rappresenta la Russia!”, “Non siamo a un convegno di storia” ha replicato il direttore.

In precedenza, Cacciari aveva definito “gravissimo” l’intervento dei servizi segreti sulla lista di presunti filoputiniani, pubblicata dal Corriere della Sera: “Non è grave la pubblicazione, ma che qualcuno abbia promosso l’indagine dell’intelligence al di là dei risultati farseschi”. 

In Onda, Massimo Giannini attacca Giorgia Meloni sul caso Lega-Russia: “Non ha mosso un dito”. Giada Oricchio su Il Tempo il 30 luglio 2022.

"Ombre russe sulla Lega per far cadere il governo Draghi? Meloni si è smarcata". In questi giorni, La Stampa ha fatto lo scoop su una presunta richiesta di Oleg Kostyukov, “importante funzionario dell'ambasciata russa” in Italia ad Antonio Capuano, consigliere di Matteo Salvini, sull’intenzione dei ministri leghisti di rassegnare le dimissioni dal governo Draghi. Notizia bollata come fake news dalla Lega.

Il direttore del quotidiano Massimo Giannini, ospite del talk politico In Onda su LA7, ha confermato l’esistenza di intercettazioni con dettagli specifici: “Per la prima volta sembra esserci un nesso causale tra la Lega e l’ambasciata russa e il risultato della caduta del governo Draghi di lì a poco. Il secondo aspetto è la reazione della Meloni ieri, ha colpito ieri”. Giannini ha scandito queste parole: “Non ha mosso un solo dito per difendere l’alleato. Viceversa ha parlato ai suoi e al Paese dicendo che Fratelli d’Italia è al fianco dell’eroico popolo ucraino e che un eventuale governo di centrodestra rispetterà tutti gli impegni internazionali dell’Italia. Non ha detto è una campagna contro di noi, sono notizie false. Zero! Sta cercando di guadagnare un altro quarto di nobiltà, sta cercando di rosicchiare un altro po’ di credibilità sul fronte internazionale”.

Il conduttore David Parenzo gli ha fatto eco: “Meloni ha preferito smarcarsi” e lo stesso la collega Concita De Gregorio: “Vuole accreditarsi come leader”. Parenzo ha concluso notando che la presidente di Fratelli d’Italia, partito in testa ai sondaggi insieme al Pd, aveva mandato un messaggio in bottiglia anche a Silvio Berlusconi: “Un’agenzia ha appena battuto le dichiarazioni di Meloni: "Invito gli alleati a non fare promesse che non si possono mantenere’”.

In Onda, Guido Crosetto inchioda Lega e Forza Italia: “Cosa devono dire su Russia e Cina”. Giada Oricchio su Il Tempo il 28 luglio 2022

“Giorgia Meloni cristallina. Gli altri da che parte stanno?”. Guido Crosetto, imprenditore e tra i fondatori di Fratelli d’Italia, in collegamento con In Onda, il talk politico di LA7, giovedì 28 luglio, sgombera il campo da ogni ambiguità dopo l’articolo di Jacopo Iacoboni su colloqui segreti a fine maggio tra la Lega e il funzionario dell’ambasciata russa Kostyukov sulla possibile caduta del governo Draghi. Ombre che si allungano sulla campagna elettorale. L’ex deputato parte da un presupposto: “Non è pensabile che quando c’è una guerra qualcuno tratta con il nemico all’insaputa di una parte del Paese.

Oltre la politica, ci deve essere il rispetto dello Stato, delle istituzioni e dei ruoli. Quando c’è una guerra tratta solo il ministero degli Esteri, il governo con atti ufficiali e attraverso il Parlamento”. L’imprenditore - parte della stampa lo vede ministro nel futuro esecutivo di centrodestra nonostante le ripetute smentite del diretto interessato - ha premuto sull’acceleratore: “Ogni partito deve dichiarare esplicitamente agli elettori da che parte sta in un momento come questo. Forza Italia e Lega, una volta al governo, dovranno prendere posizione come ha fatto oggi Meloni. Devono farlo necessariamente sulla politica estera”. E ha rivelato che la dichiarazione inequivocabile della leader di FdI (“Totale sostegno all’Ucraina, siamo garanti della collocazione atlantista dell’Italia”) l’ha messa in difficoltà davanti a terzi e sui social: “Hanno accusato Meloni di essere dalla parte di Draghi, non è vero, ma su questo tema è sempre stata coerente. Per questo dico che tutti gli elettori devono sapere con chiarezza cosa pensano tutti i partiti, dalla Lega a PD, sulla Russia e anche sul rapporto con la Cina”. I co-conduttori gli hanno fatto ascoltare le parole di Giuseppe Conte, presidente del M5s, sulla guerra: “Non ho mai avuto contatti con i russi, noi tuteliamo l’interesse nazionale, noi siamo patrioti” e Crosetto ha sorriso compiaciuto: “Sono tutti patrioti, ha vinto la Meloni!”.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 agosto 2022

Nell'affaire Metropol, la trattativa in un hotel di Mosca per un presunto finanziamento russo di 65 milioni alla Lega - su cui è ancora in corso un'indagine a Milano per corruzione internazionale - assieme a un emissario della Lega, Gianluca Savoini, due dei russi identificati come parte della conversazione erano Andrey Kharchenko e Ilya Yakunin.

Kharchenko è uno dei collaboratori stretti di Alexandr Dugin, il filosofo del rossobrunismo eurasiano che probabilmente era il vero bersaglio dell'autobomba esplosa nella notte di sabato a Mosca. Dugin è stato in realtà dietro tutta quella partita, e dietro molte altre, in Europa e in Italia.

Non è solo un intellettuale, quell'uomo che vediamo nei fermo immagine davanti alla macchina esplosa della figlia, con le mani nei capelli, e Kharchenko non è solo il suo migliore allievo laureato. Il filosofo è figlio di un dirigente del Kgb, e Karchenko - rivelò Bellingcat - viaggiava con un passaporto speciale che di solito viene rilasciato solo dagli Esteri russi, per lo più agli uomini dei servizi. Insomma, filosofo molto particolare, Dugin. 

Non perché sia particolarmente vicino a Putin - non lo è affatto - ma perché è stato coscientemente usato dal Cremlino per una serie di operazioni di propaganda e penetrazione nei partiti e nei media occidentali, proprio quell'Occidente che la sua "Quarta teoria politica" disprezza, cercando di congiungere separatismo etnico di estrema destra e anticapitalismo e anti Nato di estrema sinistra. 

Fu così che Dugin è entrato in Italia. A metà tra agitatore culturale e servizi segreti. Savoini lo porta a Milano già nel 2015, plenipotenziario di Tsaargrad, il network dall'oligarca Malofeev. I libri come ottimo pretesto geopolitico.

Quel giorno Dugin ha accanto Maurizio Murelli, militante neofascista già condannato negli Anni 70. Anni dopo, nell'estate 2018 della nascita del governo Lega-M5S, un tour duginiano lanciato da Savoini vedrà Dugin approdare sulla terrazza di Casa Pound, con il segretario Simone Di Stefano, ancora Murelli e, moderatore, Giulietto Chiesa. Estrema destra e estrema sinistra.

Nel marzo scorso fu fatta trapelare dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky una mail che riferiva di un altro incontro, che i russi stavano organizzando nel novembre 2017, tra Salvini e il team di Malofeev e Dugin: «Per novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'Hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro», scriveva Mikhail Yakushev, numero due di Malofeev, oligarca plurisanzionato fin dall'annessione illegale della Crimea nel 2014, che finanziò ampiamente.

In un'altra mail il team russo di Tsaargrad scrive che bisogna creare in Europa una rete di partiti, di estrema destra (Lega, Le Pen, Wilders) «ma anche euroscettici», chiamata "Altintern" (citazione del vecchio Comintern): «Senza il nostro impegno attivo e il sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire». 

Dugin pensava anche al M5S. E lo disse a chiare lettere al sito web di Defend Democracy Press. Se a italiani, tedeschi e francesi fosse stata data la possibilità di ritirarsi, affermò, «sarebbe successo il giorno dopo»: «Se lo chiedessimo oggi agli italiani, ovviamente se ne andrebbero anche loro. 

E sappiamo che lo chiedono Lega Nord e Cinque Stelle. Dobbiamo affrontare la verità: l'Unione europea sta cadendo a pezzi; è la fine della Torre di Babele, basata sulla geopolitica atlantica e sul sistema di valori liberale». «L'Italia è oggi l'avanguardia geopolitica della Quarta Teoria Politica» spiegò Dugin lodando Giuseppe Conte e il suo primo governo: «L'unione tra Lega e Cinque Stelle è il primo passo storico verso l'affermazione irreversibile del populismo e il passaggio a un mondo multipolare».

Per questo, disse, quel governo italiano era un partner naturale del Cremlino. Di certo foto e amici imbarazzanti tornano a galla: ieri per esempio l'estremista di ultradestra americano James Porrazzo ha twittato una foto di Darya Dugina, chiamandola «una guerriera che sapeva che sarebbe potuto succedere», e in questa foto "Dari" è proprio accanto a Salvini.

Dugin's list. Report Rai PUNTATA DEL 16/05/2022 di Emanuele Bellano

Collaborazione di Chiara D’Ambros, Edoardo Garibaldi

Una lettera riservata inviata da Dugin a un suo collaboratore svela il progetto del Cremlino.

L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia era stata teorizzata e prevista dal filosofo e ideologo russo Aleksandr Dugin le cui teorie, secondo molti analisti, sarebbero di ispirazione per la politica di Vladimir Putin. Una lettera riservata inviata da Dugin a un suo collaboratore svela il progetto del Cremlino, messo in atto nell'ultimo decennio: generare un sentimento filo-russo nei Paesi europei, minare dall'interno i valori fondanti dell'Europa, contrastare la gestione unipolare del mondo guidata dagli Stati Uniti. La diffusione di questi valori e la loro penetrazione in Occidente viene spinta da Mosca attraverso un sofisticato quanto poderoso meccanismo di "soft power". Investendo oltre 240 milioni di euro, filtrati attraverso società off-shore e compagnie fantasma, la Russia ha stretto rapporti di collaborazione con forze politiche europee di estrema destra e con esponenti del mondo politico e culturale, indirizzando in alcuni casi perfino le scelte politiche e di governo dei Paesi Europei. 

DUGIN’S LIST di Emanuele Bellano collaborazione Chiara D’Ambros – Edoardo Garibaldi Ricerca immagini Paola Gottardi

ALEKSANDR DUGIN – FILOSOFO Questo tour, questo viaggio attraverso l’Italia questa volta era per me soggettivamente evento perché ho incontrato tanta gente, in tanti luoghi, grande interesse, grande odio, di certi centri dell’influenza globalisti, liberali, che hanno fatto la guerra informatica, la guerra culturale contro me.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo video amatoriale è stato registrato nel tragitto tra Udine e l’aeroporto di Malpensa, nel 2019 al termine del tour di 14 giorni in Italia del filoso e politologo Aleksandr Dugin. Il viaggio ha portato Dugin in 10 città italiane in cui ha partecipato a convegni, incontri e interviste.

GIORNALISTA RETE55 Professor Dugin perché lei fa paura?

ALEKSANDR DUGIN Sono chiamato anche da alcuni giornali americani il filosofo più pericoloso del mondo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dugin è considerato l’ideologo a cui si ispira il presidente russo Vladimir Putin. Secondo gli analisti occidentali le sue teorie sull’Eurasianesimo avrebbero ispirato anche il progetto da parte della Russia di invasione dell’Ucraina.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Io definisco l’Eurasianesimo come una forma di fascismo. Nella logica dell’Eurasianesimo c’è la concezione dello scontro con l’occidente finalizzato non solo a garantire la sopravvivenza della Russia ma a farla tornare grande.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma Dugin ha agito non solo come filosofo e ideologo. Oggi è possibile ricostruire la rete di relazioni che per anni ha tessuto tra il Cremlino e personaggi influenti in Occidente. In questa lettera riservata, spedita a un suo collaboratore elabora un elenco diviso per singoli paesi. Il titolo è di per sé emblematico: “Paesi e persone in cui vi sono motivi per creare un club d’élite o un gruppo di influenza informativa”. Lo scopo è diffondere posizioni filo-russe, coltivare l’ideologia eurasiatica e minare i principi che fondano l’Europa e l’Occidente. Tra i paesi citati da Dugin c’è anche l’Italia. Nella lista, tra i primi, compare Orazio Gnerre. Vicino alla causa dei separatisti filorussi del Donbass, la regione dell’Ucraina orientale in cui in questi giorni si sta concentrando il fuoco dell’esercito russo, Gnerre nel 2014 vola a Donetsk dove incontra Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk.

EMANUELE BELLANO C’è un documento come la Dugin’s List, la lista di Dugin. Tra le persone che vengono citate in questa mail di Dugin c’è il suo nome.

ORAZIO MARIA GNERRE – STUDIOSO Mi scusi ma mi sta dicendo una cosa veramente nuova. I miei rapporti culturali con il professor Dugin sono stati di breve durata e neanche significativi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I rapporti tra Gnerre e Dugin risalgono almeno al 2013. Quell’anno Orazio Gnerre partecipa a una conferenza in Russia presieduta proprio da Alexandr Dugin. Due anni dopo Gnerre è di nuovo in Russia per partecipare a un forum a San Pietroburgo organizzato dal partito nazionalista russo Rodina.

EMANUELE BELLANO L’obiettivo dichiarato di questo forum qual è?

ANDREA FERRARIO - BLOGGER Era quello principalmente di ottenere degli agganci che promuovessero gli interessi di Mosca in Europa e in particolare l’annullamento delle sanzioni che erano state introdotte dopo l’annessione della Crimea.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 22 giugno 2015 Gnerre riceve un sms da parte di Dugin: Orazio, sono a Milano per la conferenza di oggi. Puoi entrare in contatto con Gianluca Savoini? Poche ore dopo Gnerre riceve una telefonata proprio da Savoini

GIANLUCA SAVOINI - SMS Buongiorno Orazio, ci vediamo stasera?

ORAZIO MARIA GNERRE – SMS Assolutamente! Assolutamente, sarò anch’io alla conferenza.

GIANLUCA SAVOINI - SMS Benissimo perché sono qui col professore e volevo confermare. Lei si può fermare con noi a cena? ORAZIO MARIA GNERRE – SMS Molto volentieri

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Applicando in Italia il “soft power” russo Alexandr Dugin contatta le persone della sua lista. Oltre a Orazio Gnerre anche Claudio Mutti, direttore della Rivista Eurasia, con sede a Parma, e anche lui citato nella lista.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In sostanza è l’attuazione del “soft power” russo alle nazioni Occidentali. EMANUELE BELLANO Di cosa si tratta?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Consiste nell’influenzare un paese al fine di renderlo più favorevole alle proprie posizioni. I russi hanno cercato negli anni di fare appiglio sull’agenda noglobal dell’estrema sinistra, sull’agenda antiamericana della sinistra ma anche dell’estrema destra, sull’antimulticulturalismo, ma anche su tutti quei movimenti cristiani ultraconservatori che difendono la visione tradizionale della famiglia.

EMANUELE BELLANO Tutto questo al fine di minare dall’interno i valori fondanti dell’Occidente e dell’Europa?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sì, la “political warfare” è una zona grigia, una via di mezzo tra la pace e la guerra che la Russia ha messo in atto finanziando per anni nei paesi europei le forze politiche contrarie all’establishment.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Orazio Gnerre finito sotto indagine del Ros, perché era sospettato di far parte di una rete internazionale, una rete nera che aveva tra i punti di riferimento Maurizio Murelli, il neo fascista condannato di concorso in omicidio del poliziotto Antonio Marino, durante una manifestazione nel ‘73. Dopo il carcere Murelli aveva rapportI con Dugin, fonda l’associazione culturale Orion, un’associazione che mescolava idee neofasciste con quelle filorusse. Di questa associazione faceva parte anche Gianluca Savoini l’ex portavoce di Salvini coinvolto nello scandalo del Metropol, era una associazione che aspirava al Progetto euroasiatico. L’Europa e l’Asia sotto l’egemonia russa. Orazio Gnerre è stato indagato dal Ros e dalla Procura di Genova perchè sospettato di reclutare miliziani da portare in Donbass per farli combattere al fianco dei filorussi. Ma la vicenda è stata archiviati, è stata la stessa Procura, lo diciamo chiaramente a chiedere l’archiviazione per Gnerre Nella lista di Dugin, facevano parte anche il giornalista e saggista Massimo Fini, il giornalista e politico Giulietto Chiesa, che è deceduto nel frattempo, c’è il movimento politico Fiamma Tricolore, poi una serie di attivisti, associazioni, editori e direttori come Claudio Mutti responsabile di Rivista Eurasia. Si costituisce così, si costituirebbe anzi, quella che l'analista Anton Shekhovstov ha definito “l’internazionale nera”. I rapporti tra Putin, il Cremlino attraverso il soft power e vari stati sono stati intensi. Tra questi c’è Germania, Grecia, Romania, Polonia, Turchia. Uno degli ultimi casi è quello del rapporto con il Front National di Marine Le Pen, diventato nel 2018 diventato Rassemblement National. I rapporti con la Le Pen cominciano nel 2010 diventano più intensi nel 2014 dopo l’invasione russa della Crimea, quando viene indetto un referendum per decretarne l’annessione alla Federazione Russa e a Putin ha bisogno di osservatori internazionali neutrali, insomma neutrali si fa per dire.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il referendum in Crimea è programmato per il 16 marzo 2014. Il Cremlino ha bisogno di politici e osservatori occidentali che diano riconoscimento internazionale al risultato delle urne. Nei giorni immediatamente precedenti due alti esponenti della politica russa si scambiano sms a riguardo.

TIMOR PROKOPENKO – SMS Puoi portare Marine Le Pen in Crimea come osservatore, è estremamente necessario, ho detto al capo che sei con lei.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A scrivere è Timur Prokopenko, vice capo del dipartimento Interno della presidenza russa, vicino a Vladimir Putin. L’sms è indirizzato a Konstantin Rykov, politico e produttore televisivo russo, assiduo frequentatore della Francia e della Costa Azzurra. Il giorno dopo Rykov scrive a Prokopenko

 KONSTANTIN RYKOV – SMS Riguardo a Marine Le Pen: ora ha una campagna elettorale municipale, è in tournée. È improbabile che possa venire lei, ma forse potrebbe qualcuno dei suoi vice.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Infatti Konstantin Rykov, riesce a portare in Crimea per il referendum l’allora consigliere internazionale di Marine Le Pen, membro del Front National, Aymeric Chauprade.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Dal 2014 al 2019 Chauprade è stato parlamentare europeo. In quel frangente la figlia del portavoce di Putin, Dimitri Peskov, è stata stagista presso il suo ufficio al Parlamento Europeo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Aymeric Chauprade è nella lista di Aleksandr Dugin in quanto persona di influenza filorussa, in Francia. Affianco al suo nome Dugin scrive: “Sostiene un'alleanza strategica tra Europa e Russia per contrastare efficacemente la politica mondiale unipolare degli Stati Uniti”. Intervistato ripetutamente dal canale di propaganda russa in Europa RT, Chauprade interviene nel 2014 sulla situazione in Ucraina.

AYMERIC CHAUPRADE – FRONT NATIONAL Gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno interferendo nelle questioni politiche ucraine. La posizione dei paesi occidentali è dannosa e può portare a un peggioramento della situazione in Ucraina.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Su RT, la TV di propaganda russa in Europa, interviene più volte anche Marine Le Pen, sostenendo di voler liberare la Francia dai vincoli imposti dall’Unione Europea anche a costo di uscire dall’UE. Ma cosa c’è dietro il legame sempre più stretto che Aymeric Chauprade e Marine Le Pen intrecciano con la Russia di Putin? Nel 2014 Chauprade entra in contatto con l’Oligarca russo, sostenitore di Putin Konstantin Malofeev. Tra aprile e settembre attraverso un complesso giro di società il Front National ottiene un finanziamento da due banche russe per un totale di 11 milioni di euro. 400 mila euro di questo finanziamento sarebbero finiti a Chauprade per finanziare la sua campagna elettorale. Il resto rimane nelle disponibilità del Front National, oggi diventato Rassemblement National.

LAURENT JACOBELLI - PORTAVOCE RASSEMBLEMENT NATIONAL Quando il Front Nationale all’epoca ha deciso di finanziare la sua campagna elettorale ha chiesto un prestito alle banche francesi che hanno rifiutato sistematicamente. Subito dopo abbiamo provato con le banche dell’Unione Europea che si sono comportate nello stesso modo. A quel punto abbiamo trovato una banca russa che ha accettato di prestarci il denaro necessario per fare la nostra campagna elettorale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Una tranche del prestito il Front National lo riceve nel settembre 2014 per un importo di 9 milioni di euro dalla First Czech- Russian Bank. EMANUELE BELLANO È possibile sapere chi ha autorizzato il finanziamento al Front National?

MAXIME VAUDANO – LE MONDE La First Czech-Russian Bank è formalmente una banca privata, ma sappiamo bene che ha stretti legami con il Cremlino. Per questo è impossibile che il prestito fosse concesso senza l’autorizzazione del potere politico di Mosca. Poi c’è un secondo prestito, quello da 2 milioni di euro che è più misterioso perché arriva attraverso una società con sede a Cipro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell’aprile 2014 il Front National riceve il denaro dalla Vernonsia Holding Ltd. la società è propaggine a Cipro della compagnia russa VEB Capital. In altre parole, un braccio finanziario del Cremlino. All’epoca a capo di VEB Capital c’era Yuriy Kudimov. Espulso nel 1985 dalla Gran Bretagna con l’accusa di essere una spia russa del KGB, Kudimov è dal 2010 in stretti rapporti con l’oligarca russo amico di Putin, Konstantin Malofeev.

LAURENT JACOBELLI - PORTAVOCE RASSEMBLEMENT NATIONAL Vi assicuro che non c’è nessun legame, nessun legame, tra Vladimir Putin e noi, né politico, né nei contenuti, né in materia di finanziamenti.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando il 24 febbraio la Russia invade l’Ucraina, la Francia è in piena campagna elettorale per l’elezione del presidente. Il giornale Liberation pubblica un articolo in cui rivela che Marine Le Pen ha gettato al macero migliaia di volantini elettorali che la ritraevano insieme a Vladimir Putin. La leader del Ressamblement National supera gli altri candidati e arriva comunque al ballottaggio con Emmanuel Macron.

AYMERIC DUROX - RASSEMBLEMENT NATIONAL NANGIS (ILE DE FRANCE) Questi sono i voti che Marine Le Pen ha preso qui al secondo turno. Sono numeri importanti. Grazie a questi voti ho delle chance di diventare deputato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nella 44esima circoscrizione a sud-est di Parigi il Ressemblement National ha preso oltre il 56 per cento dei voti vincendo in 130 comuni su 150.

EMANUELE BELLANO Nei programmi elettorali di Marine Le Pen c’era l’idea di uscire dalla Nato e comunque di svincolarsi in qualche modo dall’Europa. Non avete paura oggi con la situazione internazionale che c’è adesso che la Francia possa prendere con Marine Le Pen una direzione in questo senso?

AYMERIC DUROX - RESSAMBLEMENT NATIONAL NANGIS (ILE DE FRANCE) Non credo che i francesi si facciano condizionare da queste questioni internazionali sull’uscire dalla Nato o no. I francesi in Francia non hanno più potere d’acquisto, sono preoccupati per la loro sicurezza e per questo bisogna criticare l’Europa che ha arricchito la Germania, ha impoverito l’Italia e ha impoverito la Francia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora abbiamo capito intanto che la Guerra fredda non è mai cessata. Caso mai si è trasformata in "political warfare" cioè una sorta di guerra però non combattuta con armi tradizionali bensì con la politica e la propaganda Putin ha bisogno di osservatori internazionali per sancire referendum indetto per l’annessione della Crimena, bene il suo vice capo del dipartimento Interno Timur Prokopenko scrive ad un politico, produttore televisivo Rykov, che vive in Costa Azzurra, dice perchè non coinvolgi Marine Le Pen come osservatore internazionale. Lei non può e in Crimea va il suo consigliere internazionale Aymeric Chauprade. Chauprade risulta poi nella lista di Dughin, come “sostenitore di un'alleanza strategica tra Europa e Russia per contrastare la politica mondiale unipolare degli Stati Uniti”. Nello stesso anno il Front National viene finanziato per oltre 11 milioni di euro. 400 mila sarebbero finite invece nelle case di Chauprade per finanziare la sua campagna elettorale. A elargire il finanziamento, sono istututi finanziari, bracci finanziari del Cremlino. Due milioni in particolare proverrebbero da una società di Kudimov. Kudimov che è stato espulso dalla Gran Bretagna sospettato di essere una spia russa. Insomma la lista di Dugin è molto ricca arriva anche in Polonia. Una Polonia che condivide con l’Ucraina un lungo confine e quindi risente particolarmente di questo con questa conflitto. In Polonia dalla lista di Dugin, spicca Mateusz Piskorski, che è a capo di un misterioso Centro Europeo di Analisi Geopolitica. Anche questo finanziato anche questo dalla Russia. Ma la Russia sarebbe anche intervenuta anche pesantemente sull’esito delle elezioni Polonia protando alla vittoria il partito anti-europeo, il PIS guida di Kaczynski. Galeotta sarebbe stato in particolare un pranzo tra l’allora ministro degli interni j Sienkiewicz, e il presidente della banca centrale Belka, discorsi che sarebbero stati ascoltati da orecchie indiscrete.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questo ristorante di Varsavia stanno pranzando Bartolomiej Sienkiewicz, all’epoca ministro degli Interni polacco e Marek Belka, allora presidente della Banca centrale della Polonia. Il ministro dell’interno polacco manifesta le sue preoccupazioni per la situazione economica.

BARTŁOMIEJ SIENKIEWICZ - MINISTRO DEGLI INTERNI Abbiamo una situazione pessima del bilancio dello Stato che non fa che peggiorare. La spirale avviata dalla crisi economica rischia di far collassare tutto il sistema. Mancano i soldi e attualmente i tagli sono insufficienti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Registrato da una cimice nascosta sotto il tavolo il presidente della Banca centrale promette al ministro dell’Interno un aiuto per far uscire il Paese dalla crisi economica, ma in cambio chiede un sacrificio.

 MAREK BELKA - PRESIDENTE DELLA BANCA NAZIONALE POLACCA Potrebbe essere messa in campo un’azione straordinaria da parte della Banca centrale. però per questa eventualità il governo dovrebbe dire addio al ministro delle Finanze Rostowski e licenziarlo e nominarne un altro che sia gradito alla Banca centrale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La conversazione tra il ministro e il governatore della banca centrale ha generato uno scandalo che ha coinvolto il partito “Piattaforma Civica” di Donald Tusk, allora al governo.

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, nella campagna elettorale del 2015 per le elezioni parlamentari le intercettazioni sono state il tema principale discusso dai partiti e alla fine “Piattaforma Civica”, un partito pro-Europa, ha perso potere e le elezioni sono state vinte dal Pis, un partito antieuropeista.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie alla pubblicazione di queste conversazioni il Pis guidato da Jaroslaw Kaczynski è alla guida della Polonia, e gli europeisti di Piattaforma Civica finiscono all’opposizione.

GRZEGORZ RZECKOWSKI - GIORNALISTA Il primo ministro dell’epoca Donald Tusk, ha detto pubblicamente che quello era stato un piano scritto in un alfabeto estero.

EMANUELE BELLANO Facendo riferimento a cosa?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Alla Russia, suggerendo che tutto lo scenario delle intercettazioni nei ristoranti fosse stato organizzato dalla Russia.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il primo ristorante in cui sono avvenute le intercettazioni era in questo edificio. Secondo le ricostruzioni dei servizi segreti polacchi le spie russe avevano scelto questo posto perché di fronte all’ambasciata americana a Varsavia.

EMANUELE BELLANO I russi originariamente volevano intercettare i funzionari e i diplomatici americani?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, è stato il controspionaggio americano che l’ha scoperto. Hanno avvertito l’ambasciata.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Scoperto dai servizi segreti il locale chiude ma le intercettazioni proseguono in altri due ristoranti

TOMASZ PIATEK - EDITORE ARBITROR Poi siamo venuti a sapere che i ristoranti dove i politici venivano intercettati, quei ristoranti erano fondati da persone legate alla Russia, abbiamo in quegli anni Kaczynski ha dovuto sapere che sta accettando un regalo di Putin che voleva distruggere il partito pro occidentale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma in viceministro Adam Andruszkiewicz, membro del PIS, con un passato nell’estrema destra, di Gioventù Polacca, Andruskiewicz nel 2018 ha lasciato il movimento per essere nominato Vice ministro polacco per la Digitalizzazione e nega interferenze russe sulla vittoria del partito.

ADAM ANDRUSZKIEWICZ – VICEMINISTRO DELLA DIGITALIZZAZIONE Noi non siamo a conoscenza di prove che testimonino che quelle intercettazioni siano state davvero messe in atto dalla Russia. È una cosa questa che compete la procura e il ministero della Giustizia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le indagini non sono riuscite a provare che dietro le cimici ci fosse la mano dei servizi russi. Oggi il governo del PIS si è espresso nettamente contro la Russia sostenendo l’Ucraina. Tuttavia nella lista stilata da Aleksandr Dugin la Polonia è tra i Paesi con maggior numero di contatti. Tra loro Mateusz Piskorski.

TOMASZ PIATEK - EDITORE ARBITROR Mateusz Piskorski ha rapporti amichevoli con funzionari degli ex servizi segreti comunisti. Già negli anni ’90 viaggiava in Russia, a Mosca, dove si svolgevano delle conferenze anti Nato, anti occidentali e ci viaggiava con un suo collaboratore Sylwester Chruszcz che poi era diventato deputato di Kaczynski, di Pis.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Piskorski è stato il principale alleato di Dugin in Polonia. Aveva lo scopo di creare missioni finalizzate a legittimare le finte elezioni organizzate dalla Russia attraverso il Centro europeo di analisi geopolitica.

EMANUELE BELLANO Perché ha fondato questa associazione?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In molti paesi non puoi andare a testimoniare la legittimità delle elezioni individualmente, senza cioè rappresentare alcuna organizzazione. Quindi per far parte di una missione ufficiale, Piskorski ha creato la sua organizzazione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel febbraio 2014 le milizie locali favorevoli a un’annessione alla Russia occupano i palazzi governativi nella regione meridionale dell’Ucraina, la Crimea. Putin ottiene dal parlamento russo il via libera per usare la forza militare in Ucraina. Il 16 marzo 2014, sotto il controllo delle truppe russe, la Crimea vota un referendum per decidere l’annessione alla Federazione Russa. I sì vincono con il 95 per cento dei voti. In quei giorni l’associazione di Mateusz Piskorski è in Crimea per certificare la regolarità dell’elezione.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Matueusz Piskorski ha guidato lì una missione composta da una ventina di falsi osservatori.

EMANUELE BELLANO Quante elezioni come questa ha supervisionato?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In totale più di una ventina.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il Centro europeo di analisi geopolitica di Piskorki è una delle poche organizzazioni per cui è stato possibile ricostruire un flusso di denaro proveniente dalla Russia allo scopo di finanziarne l’attività. Un’indagine del consorzio giornalistico investigativo Occrp chiamata Russian Laundramat, la lavatrice russa, ha individuato 21 mila euro arrivati all’organizzazione di Piskorski da Mosca, transitati attraverso una società di comodo con sede a Cipro.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sono a conoscenza del fatto che il principale supporto finanziario all’associazione di Piskorki è arrivato in contanti.

EMANUELE BELLANO Che prove abbiamo di questi pagamenti?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Ho parlato con uomini che hanno preso parte a queste missioni e mi hanno detto che hanno ricevuto sempre contanti. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Piskorski un personaggio misterioso, a capo di qusto Centro Europeo di Analisi Geopolitica, finanziato dai russi. Lo abbiamo visto accompagnarsi con venti falsi osservatori per certificare la regolarità delle elezioni in Crimea. Un po’ come aveva fatto il consigliere internazionale di Le Pen Chauprade. Nel 2016 Piskorski è stato arrestato dalla magistratura polacca con l’accusa di essere una spia al servizio della Russia e della Cina. Il processo è ancora in corso. Comunque questo non ha evitato a Piskorski di costituire un suo partito, Change. Al suo fianco spunta un altro personaggio: Bartosz Bekier è il fondatore del sito internet polacco XPortal, Anche il suo nome rientra nella famigerata lista di Dugin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il sito XPortal di Bekier è citato nel documento di Dugin come portale filo-russo e radicale. Il suo simbolo è costituito da due fucili incrociati su sfondo nero. BARTOSZ BEKIER, XPORTAL In questa foto stavamo proiettando il logo di Xportal col laser su un edificio qui a Varsavia, finché è arrivata la polizia e ce lo ha fatto togliere.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Che cosa rappresenta?

BARTOSZ BEKIER, XPORTAL I fucili incrociati simbolizzano l'alleanza globale degli estremi, ossia tutto ciò che si oppone al liberalismo occidentale: nazionalisti con stalinisti, maoisti e con ultraconservatori.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui un adesivo di XPortal è affisso nel quartiere Esquilino a Roma di fronte alla sede del movimento di destra Casa Pound. In questa foto Bekier posa con i militanti di Hezbollah. Questa fotografia documenta invece miliziani filo-russi del Donbass con il simbolo di XPortal. Bartosz Bekier è anche il fondatore del movimento polacco di estrema destra Falanga, il cui simbolo è usato dai combattenti filo-russi a Donetsk.

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Siamo andati perché volevamo mostrare le azioni terroristiche compiute dall’esercito ucraino contro i separatisti filo-russi del Dombass. Siamo stati testimoni dei bombardamenti dei mig ucraini, per esempio alla stazione e delle morti di civili innocenti. Tutte cose su cui le televisioni polacche dal 2014 mantengono un silenzio assoluto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Donetsk Bekier incontra Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, sostenuta da Putin e nata con la guerra separatista del 2014 con l’Ucraina. Le missioni di Falanga hanno riguardato anche altre aree rilevanti per l’influenza geopolitica della Russia. Da sette anni la Russia è impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco dell’esercito del presidente Bashar Al Assad. Nel 2013 Bartosz Bekier vola in Siria dove incontra il primo ministro siriano Al Halqi.

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Era una missione internazionale e c’era anche una delegazione dall’Italia guidata da Roberto Fiore di Forza nuova e anche il politico nazionalista inglese Nick Griffin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La missione a Damasco è organizzata dal Centro europeo di analisi geopolitica di Mateusz Piskorski.

MICHAL KACEWICZ – GIORNALISTA POLSKA NEWSWEEK Ho ricevuto una chiamata da questa organizzazione in cui mi chiedevano di partecipare alla missione in Siria.

EMANUELE BELLANO E qual era il piano del viaggio?

MICHAL KACEWICZ - GIORNALISTA Ho parlato con dei diplomatici dell’ambasciata siriana e ho capito che il vero scopo era portare giornalisti occidentali al fine di legittimare il regime di Assad. E così ho rifiutato.

EMANUELE BELLANO C’erano legami con la Russia?

MICHAL KACEWICZ - GIORNALISTA Ho iniziato a indagare e ho trovato relazioni con organizzazioni russe che pagavano l’associazione di Piskorski per missioni come questa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma i soldi servono per promuovere anche azioni violente come quella messa in atto nel 2018 a Uzhgorod, città dell’Ucraina occidentale.

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Tre estremisti polacchi connessi all’estrema destra filorussa sono andati in questa città e hanno dato fuoco al centro culturale della minoranza ungherese.

EMANUELE BELLANO Chi era a capo della spedizione?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Michal Prokopowicz, un membro dell’organizzazione di estrema destra Falanga che era anche in contatto con il partito “Change” di Bekier e Piskorski.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ripresi dalle telecamere di sorveglianza i membri del commando incappucciati lanciano alcune molotov e appiccano il fuoco all’edificio. Lo scopo del gesto è aumentare le tensioni etniche in Ucraina e destabilizzare il governo di Kiev.

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Si tratta di ex membri di Falanga perché non fanno più parte del movimento.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questa foto ritrae a sinistra Bartosz Bekier. Al suo fianco Mateusz Piskorski. Seduto all’estremità destra del tavolo Michal Prokopowicz, considerato autore materiale del rogo in Ucraina. In mezzo il giornalista e attivista tedesco di estrema destra Manuel Ochsenreiter.

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Nel processo Prokopowicz, l’uomo accusato di essere autore del rogo, ha dichiarato di aver ricevuto soldi da Ochsenreiter che avrebbe finanziato la missione incendiaria in Ucraina.

EMANUELE BELLANO Ci sono legami tra Manuel Ochsenreiter e la Russia?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, Ochsenreiter innanzi tutto ha collaborato con il filosofo e ideologo russo Alexandr Dugin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con la lista di Dugin il cerchio si chiude. il nome di Manuel Ochsenreiter è citato come uno dei suoi contatti in Germania. Ma Ochsenreiter ha contatti anche con Kateon il think tank di Kostantin Malofeev l’oligarca di Dio.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione russa in Ucraina i servizi polacchi chiudono il sito di Bartosz Bekier, XPortal.

EMANUELE BELLANO Come commenta il fatto che il comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale ha chiesto alla Polonia di mettere fuori legge Falanga?

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Sono dichiarazioni che vengono da istituzioni che hanno come base il liberalismo che secondo noi è un’ideologia totalitaria che vuole togliere a organizzazioni come la nostra la libertà di espressione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che un ruolo l’ha avuto anche Bartosz Bekier il fondatore del sito XPortal, che ha appoggiato i filo russi combattenti in Donbass, e ha fondato anche il movimento Falanga, un movimento da cui provengono quei membri che hanno realizzato attentati in Ucraina, per destabilizzare il paese che sarebbero stati finanziati da un attivista e giornalista tedesco Ochsenreiter che anche lui appartiene alla lista di Dugin, una lista corposa una rete che si dipana fino in Austria. Proprio seguendo le tracce del partito di estrema destra Austriaco l’FPO che emerge anche il ruolo di un altro Centro Russo di Scienza e Cultura, Rossotrudnichestvo, che sostanzialmente è un’agenzia che serve per aggirare la norma per aggirare il numero fisso di diplomatici presenti nei paesi perchè è un numero fisso posto dalle leggi internazionali. Si sospetta che i diplomatici possano essere delle spie quindi viene messo un limite per non avere in un paese trope spie che lavorano per altri stati. Questo centro servirebbe per avere numero illimitato di spie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, parliamo del sofisticato soft power russo. Il cremlino ha investito 240 milioni di euro, anche provenienti da società off-shore, per condizionare le politiche di paesi europei e anche per creare una rete, una sorta internazionale nera. In tutto questo ha avuto un ruolo importante l’ideologo Dugin il quale ha creato una vera e propria lista della quale vi abbiamo dato conto questa sera. Questa azione, questo soft power è stato esercitato anche mettendo in campo delle spie per condizionare l’esito delle elezioni di paesi stranieri e anche siglando dei contratti con i leader di partiti occidentali. Seguendo il filo di questa rete si è arrivati anche in Austria. Uno dei leader che si è lasciato coinvolgere e sedurre dal potere russo è l’ex leader del partito di estrema destra Fpo, Heinz-Christian Strache, il quale credendo, in un resort. di parlare con un’avvenente nipote di un oligarca si è lasciato un po’ andare e ha parlato di appalti in cambio di appoggio elettorale. Si è accorto tardi che era una trappola.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ibiza, isola delle Baleari, in Spagna. In un resort di lusso i due principali esponenti del partito di estrema destra austriaco Fpo incontrano una giovane donna russa. La ragazza dice di essere nipote di un potente oligarca. L'uomo che parla, seduto sul divano, è Christian-Heinz Strache, all'epoca capo del partito di estrema destra austriaco Fpo.

HEINZ-CHRISTIAN STRACHE - POLITICO La prima cosa che posso promettere nel caso di una nostra partecipazione al governo è che la società Strabag che costruisce infrastrutture non riceva più commesse. In questo modo si libera un gran numero di appalti pubblici. Ecco, dille di creare una società come Strabag, così tutti i contratti pubblici che Strabag riceve ora, li riceverà lei.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In t-shirt azzurra c’è Johann Gudenus, numero due in quel momento del partito. Nel video i due politici sembrano promettere alla donna russa gli appalti pubblici fino ad allora affidati al colosso austriaco delle infrastrutture Strabag, in cambio del supporto alla loro imminente campagna elettorale. Durante l’incontro l’avvenente giovane donna russa sostiene di essere interessata a comprare per conto di suo zio il più importante tabloid austriaco per condizionare in vista delle elezioni l’opinione pubblica austriaca. Cosa apprezzata dal capo del partito Strache.

HEINZ-CHRISTIAN STRACHE - POLITICO Se lei davvero riesce a comprare il giornale in tempo e il giornale spinge il nostro partito per due, tre settimane prima delle elezioni, allora sì, non prenderemo il 27 per cento, ma il 34 per cento.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Non è chiaro chi fosse la giovane donna russa, né perché abbia contattato i due esponenti dell’Fpo.

MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Sono caduti in una trappola organizzata da un detective privato con l’aiuto di questa giovane donna russa. Ma ciò che è importante è il modo in cui si sono comportati. Sappiamo che hanno incontrato molte volte oligarchi e uomini d’affari russi. Questa è l’unica volta che vediamo cosa si sono detti e non c’è motivo di pensare che nelle altre situazioni si siano comportati diversamente.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I primi contatti tra l'Fpo austriaco e Mosca risalgono al 2008. All'epoca tra i membri del partito c'è Barbara Kapple che al tempo stesso è manager della società Austrian Technologies.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Ufficialmente questa società vendeva tecnologia austriaca all’estero, non solo in Russia, ma anche in altri paesi dell’Est come Kazakhstan e Ucraina. non era molto proficua in questo business, ma fu molto attiva nell’organizzare conferenze politiche che avevano lo scopo di sostenere gli interessi della politica estera della Russia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'8 agosto 2008 la Russia lancia un'invasione terrestre, aerea e marittima in Georgia per sostenere le regioni filorusse dell’Ossezia del Sud e dell’Abcazia. Dopo 5 giorni di guerra viene siglato il cessate il fuoco. Anche dopo la fine dei combattimenti la Russia continua a occupare l'Abcazia e l'Ossezia del Sud in violazione dell'accordo con la Georgia.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In quegli anni dal 2008 al 2010 Barbara Kappel faceva parte della fazione filorussa del partito austriaco Fpo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell’Ottobre 2008 Austrian technologies organizza una conferenza a Vienna dal titolo “Europe-Russia-Georgia: Peace Building I”. Barbara Kappel e il leader dell’Fpo HeinzChristian Strache rappresentano la parte austriaca. I partecipanti criticano gli Stati Uniti e il presidente Georgiano anti-Putin Saakashvili. Strache nell’occasione afferma che l’Europa deve perseguire i suoi interessi geopolitici approfondendo e sviluppando la cooperazione con la Russia. A distanza di due anni nel 2010 Austrian Technologies sponsorizza un’altra conferenza a Vienna dal titolo emblematico “Riflessioni sulla prospettiva Russo-Austriaca”. Insieme alla società di Barbara Kappel l’evento è organizzato dall’agenzia federale russa Rossotrudnichestvo.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Il nome per esteso del Rossotrudnichestvo è “Centro russo di scienza e cultura”. Ma è lo strumento principale del soft power russo in Europa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con sedi praticamente in ogni capitale europea il Rossotrudnichestvo è una rete capillare che per anni ha permesso al Cremlino di monitorare i paesi occidentali e promuovere idee filo-russe. Ha una sede a Varsavia, in Polonia e a Parigi. In Austria è in questo palazzo settecentesco nel cuore di Vienna.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In base alle leggi internazionali ogni governo può avere solo un numero ristretto di diplomatici che lavorano in un altro Paese. Ebbene, è piuttosto noto che una parte dei diplomatici russi sono spie. Se in un Paese c’è un un ufficio del Rossotrudnichestvo il numero di funzionari che può lavorare in quell’ufficio è illimitato e così la Russia può avere a disposizione tutte le spie che vuole.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Al punto che Mosca ha finanziato il Rossotrudnichestvo nel 2013 con 48 milioni di euro saliti nel 2020 a 228 milioni di euro.

EMANUELE BELLANO Cosa ha spinto i leader dell’Fpo a legarsi così alla Russia?

MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Entrambi avevano l’interesse comune di indebolire l’Unione Europea. L’Fpo è sempre stato un partito anti-europeista e la Russia da ciò ne ha tratto un evidente vantaggio.

EMANUELE BELLANO Quali sono state le posizioni che hanno animato la politica filorussa dell’Fpo?

MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Ogni volta che in parlamento c’era un voto che andasse contro gli interessi della Russia, su Cecenia, Donbass, sull’invasione della Crimea e così via, l’Fpo era dalla parte di Putin, votando contro le risoluzioni sia a livello nazionale che europeo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’artefice del legame tra il partito di estrema destra austriaco e il Cremlino è Johann Gudenus, l’uomo che indossa una t-shirt azzurra nel video trappola dove Strache parla con la giovane donna russa di appalti e appoggio elettorale

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Gudenus all’età di 17 anni con la sua scuola fece uno scambio culturale in Russia. Da lì è nato il suo amore per Mosca, San Pietroburgo e la cultura russa.

EMANUELE BELLANO Qual è stato il suo ruolo nel partito Fpo?

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Era il vice di Strache. Si conoscono da quando erano adolescenti.

EMANUELE BELLANO Come si sono sviluppati questi rapporti con la Russia?

NINA HORACZEK -GIORNALISTA FALTER Una delegazione austriaca di politici dell’Fpo si è recata a Mosca ma anche in Cecenia da Kadyrov, conosciuto come il macellaio di Grozny.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dittatore russo a capo della Repubblica Cecena, Razman Kadyrov è accusato di omicidi e torture soprattutto nei confronti di omosessuali e oppositori politici. Secondo le recenti ricostruzioni ci sarebbero anche le sue truppe dietro al massacro di civili a Bucha, a nord di Kiev nel marzo scorso.

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Successivamente sono stati i russi a venire a Vienna. In particolare Aleksandr Dugin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Uno dei primi viaggi del filosofo putiniano a Vienna risale al 2014. Un giornale svizzero, ha rivelato che in quell’occasione l’ideologo russo ha partecipato a una cena con i vertici dell’Fpo Heinz Christian Strache e Johan Gudenus. Nel 2018 Dugin è di nuovo a Vienna questa volta per partecipare a una cerimonia di gala.

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Dugin è stato ospite d’onore all’AkademicaBall, una cerimonia che si tiene a Vienna, in cui tutti indossano abiti di gala e ballano danze tradizionali austriache.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I balli si tengono nella prestigiosa cornice del palazzo Hofburg di Vienna. Alcuni di questi balli prendono il nome di “balli russi”. L’organizzazione è nelle mani di Nathalie Holzmuller, cittadina austriaca con passaporto russo, qui fotografata in una di queste cerimonie con Gudenus e Strache. In una lettera del 2015, Holzmuller scrive che i balli sono un progetto voluto e sponsorizzato proprio dall’Fpo. Il legame tra il partito di estrema destra austriaca e il Cremlino raggiunge l’apice un anno dopo. Nel 2016 una delegazione dell’Fpo vola a Mosca per incontrare gli esponenti di “Russia Unita”, il partito di Vladimir Putin.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In quel momento il Cremlino decide di firmare un documento di collaborazione con l’Fpo austriaco.

EMANUELE BELLANO Perché era un patto con un partito che sarebbe potuto andare al potere e far parte del governo in Austria?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Questa era l’idea di Russia Unita: avere un accordo con alcune forze in Europa che avrebbero avuto poteri di governo nei loro Paesi. E sappiamo che lo stesso accordo è stato fatto con un medesimo intento anche con la Lega di Salvini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nei giorni successivi all’invasione russa dell’Ucraina l’attuale leader dell’FPO Herbert Kikcl si è scagliato contro la Nato contro gli Stati Uniti, sostenendo che le sanzioni contro Mosca violavano il diritto internazionale. Come abbiamo visto, il partito dell’ FPO è stato infiltrato pesantemente dal soft power russo. Lungo il percorso è emerso anche il ruolo di questo Centro Russo di Scienza e Cultura il Rossotrudnichestvo. Uno strumento sommerso per monitorare l’attività e la politica dei paesi europei, e anche condizionarla. Per questo Cremlino lo ha finanziato complessivamente per oltre 240 milioni di dollari. Ora c’è da chiedersi quanti centri come questo ci sono e quanto condizionano lo svolgimento della nei paesi? 

Elezioni politiche 2022, il Pd ormai è tutto a sinistra: "Patrimoniale e forza Urss". Gaetano Mineo su Il Tempo il 22 agosto 2022

Rivoluzione russa, patrimoniale e antisemitismo sembrano essere la vera linfa dei giovani del Partito democratico. A certificarlo, dichiarazioni fatte da alcuni under 35 candidati dal Pd per approdare al Parlamento. Una virata a sinistra in piena campagna elettorale voluta fortemente da Enrico Letta dato che è stato lo stesso segretario Dem ha scegliere direttamente i 35 giovani aspiranti parlamentari. Una scelta che ogni giorno si manifesta non tanto felice dato che a un paio di giorni dalla loro candidatura, tre di questi giovani hanno messo in imbarazzo il Pd e non Letta, a quanto pare, dato che l'ex premier tira dritto come se nulla fosse accaduto. Un under 35, Raffaele La Regina, com' è noto, s' è dovuto addirittura ritirare dalla competizione elettorale per il "peso" della sue parole.

Ma andiamo con ordine, partendo dalla cronaca delle ultime ore che vede di nuovo Letta che dovrà fare i conti con le polemiche che hanno investito altri due candidati Dem under 35. Il primo caso riguarda Rachele Scarpa, 25enne candidata del Pd in Veneto, anche lei sotto accusa per le sue posizioni su Israele. Citando anche Human Rights Watch, Scarpa parlava di «regime di apartheid di Israele» e di «atti di guerra e di repressione nei confronti dei civili da parte del governo israeliano». In un post, la giovane esponente Dem scriveva esattamente: «Chi si ostina a parlare del "diritto di Israele di difendersi" si rifiuta di cogliere la gravità e la complessità della situazione, e chiude gli occhi davanti a quello che Human Rights Watch ha definito pochi giorni fa il regime di apartheid di Israele...».

L'aspirante parlamentare s'è difesa parlando di una «legittima critica alla politica del governo israeliano». La trevigiana Scarpa è giovane ma non è nuova alla politica. Prossima alla laurea in lettere antiche all'Università di Padova, è da tempo nell'orbita PD ed è stata candidata, senza successo, alle Regionali 2020. In un altro post, sempre Scarpa, parlando di un sciopero generale affermava: «... oggi sono con #cgil e #uil e con tutti i lavoratori del Paese che chiedono uguaglianza e redistribuzione. Patrimoniale subito!». Più che sufficiente per far sbottare Matteo Salvini. «Un'altra aspirante parlamentare del PD ha scritto gravi post contro Israele: si tratta di Rachele Scarpa. Troppi esponenti del Pd parlano come estremisti islamici: una vergogna», ha detto il leader della Lega. Ma non è tutto.

Quasi in contemporanea, scoppia un altra polemiche per un altro post di un altro giovane candidato. Si tratta del segretario cittadino del Pd di Napoli, Marco Sarracino, uno dei quattro under 35 indicato come capolista, finito questa volta nel mirino di Giorgia Meloni. Il 32enne candidato alla Camera, in un post ricordava la ricorrenza della rivoluzione russa guidata da Lenin. «Dopo i giovani candidati del Pd che negano il diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele, arriva anche chi inneggia all'Unione Sovietica», ha scritto su Facebook la leader di FdI. Che ha aggiunto: «Questo è il post (allegato dalla Meloni, ndr) del segretario metropolitano del Pd di Napoli Marco Sarracino che ha scritto: "Buon anniversario della Rivoluzione". Bolscevica, ovviamente. Con tanto di foto di Lenin e Armata rossa».

Dopo la polemica sollevata dalla leader di Fdi, il giovane capolista napoletano è corso ai ripari chiudendo tutti i profili social. Infine, come detto, il caso di La Regina, segretario regionale della Basilicata del Pd che ha rinunciato alla candidatura alla Camera per un'altra frase su Israele: «Gli alieni e lo Stato d'Israele hanno un punto in comune: non esistono».

(ANSA il 23 settembre 2022) - "Il Ppe ha condannato l'invasione russa fin dal primo giorno. In modo inequivocabile. Ha sostenuto e guidato le sanzioni contro la Russia. Incrollabilmente. Ha sostenuto l'invio di aiuti militari e umanitari all'Ucraina. Con fermezza. I tentativi di suggerire il contrario sono assurdi. Punto". Lo ha scritto in un tweet il segretario generale del Partito Popolare europeo, Thanasis Bakolas. In un precedente tweet, dopo le polemiche sulle parole di Berlusconi, il Ppe aveva sottolineato come "la posizione di Forza Italia è cristallina: sostiene l'Ucraina nella lotta alla guerra illegale della Russia".

(ANSA il 23 settembre 2022) - Nessun commento della Commissione europea sulle parole del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, sulla guerra in Ucraina. "No comment", è stata la risposta netta del portavoce della presidente von der Leyen, Eric Mamer, rispondendo a una domanda durante il briefing quotidiano con la stampa. Il portavoce Ue per gli Affari esteri, Peter Stano, ha annuito sorridendo.

(ANSA il 23 settembre 2022) - Quelle di Berlusconi su Putin "son parole scandalose e gravissime. Mi chiedo e chiedo a Meloni se le condivide e se gli italiani possano condividerle. Peraltro sono parole sconclusionate; gli aiuti li ha votati Berlusconi stesso con Fi sostenendo Draghi. Siamo oltre l'immaginabile, sono parole che fanno piacere a Putin. Se domenica sera se vince la destra il primo felice sarebbe Putin. Noi siamo sempre contro l'aggressore che come dice lo stesso Berlusconi, 'usa le truppe per mettere le persone perbene'". Lo ha detto il segretario del Pd Enrico Letta a Radio Anch'io.

Ugo Magri per “la Stampa” il 23 settembre 2022.

Grande comiziante Berlusconi non lo è stato mai. Perfino negli anni d'oro pativa il confronto con la parlantina sciolta di Gianfranco Fini e con quella ruspante però efficace di Umberto Bossi. Al confronto, Silvio suscitava sbadigli; in compenso prendeva molti più voti di quei due messi insieme, per cui nelle grandi kermesse con gli alleati il Cav era sempre l'ultimo a salire sul palco prendendosi tutti gli onori. 

Ieri invece, nella manifestazione a Piazza del Popolo, gli è stato assegnato il ruolo meno nobile dell'apripista, del rompighiaccio, della vecchia gloria incaricata di scaldare la platea in attesa dei veri protagonisti: Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Già questa collocazione minore rende plasticamente l'idea delle reali gerarchie nel centrodestra, in pratica chi comanda davvero, sollevando parecchi dubbi sul ruolo di garante dell'alleanza che Berlusconi promette di svolgere.

L'uomo, gliene va dato atto, ce l'ha messa tutta sfoggiando una tempra insospettabile in chi il 29 settembre prossimo spegnerà 86 candeline. Ha tentato senza successo una gag delle sue, fingendo di stupirsi («ma chi ha pagato questo qua? » ) per la pioggia di riconoscimenti con cui un ignoto presentatore l'ha chiamato sul palco. 

Nei successivi venti minuti non ha fatto altro che autocelebrarsi, rievocando per la milionesima volta i suoi passati governi, quando quelli che si recheranno a votare per la prima volta ancora non erano nati. Prevedibile, déjà vu. Molto meno efficace di quando si lancia su TikTok, oppure accoppa un moscone in diretta tivù: il miglior Berlusconi, ieri come oggi, è quello che nessuno si aspetta.

Estratto dall’articolo di Stefano Baldolini per repubblica.it il 23 settembre 2022.

Calenda: "Berlusconi con Putin e i suoi aguzzini. Queste sono le tue 'persone perbene'? Vergognati e scusati"

"Queste sono le tue 'persone perbene'? Berlusconi. Vergognati. E scusati. Altro che moderato ed europeista. Con Putin e i suoi aguzzini". Lo scrive su Twitter Carlo Calenda, leader di Azione. 

Letta: "Berlusconi scandaloso, legittima Putin"

"È una frase grave, scandalosa, ha detto una cosa a cui crede. E questo è il concetto di 'perbene' che ha Berlusconi. Se vincessero loro domenica sera, Putin brinderebbe. Si autorizza ad andare con i carri armati nel paese vicino, è questo che ha detto Berlusconi". Lo dice Enrico Letta a la7 a all'Aria che tira. Quello che è successo ieri sera da Vespa è "incredibile, ed è incredibile non ci sia una ribellione". Quella di Berlusconi è "una frase liberticida e anti democratica".

Salvini sulle parole di Berlusconi: "Non le interpreto"

Imbarazzo anche da parte di Matteo Salvini sulle parole del leader forzista su Putin e Zelensky. "Berlusconi dice che Putin è stato spinto a invadere l'Ucraina, voleva mettere persone perbene a Kiev? Non mi fate interpretare, io dico che faremo di tutto per fermare la guerra quando saremo al governo. Ma prima il giudizio su Putin era positivo da parte da tutti, ma ora giustificazioni per chi invade non ce ne sono". 

Carfagna, frasi Berlusconi? Feci bene a lasciare partito

 "E' un'affermazione molto grave e personalmente una frase che mi dice due cose a partire dal fatto che feci bene a lasciare il partito, sono sempre più convinta che sia stata una cosa giusta". Lo ha detto il ministro del Sud e della Coesione Mara Carfagna commentando a margine di una conferenza stampa a Napoli la frase di Berlusconi su Putin che avrebbe messo le "persone perbene" a governare l'Ucraina al posto di Zelensky. 

Carfagna sottolinea anche che "il sostegno di alcuni partiti alla politica estera del Governo Draghi era un sostegno solo di facciata e in questa direzione vanno dichiarazioni di Conte e altri partiti, sono i tre partiti che hanno votato la sfiducia al Governo. La volontà di non farlo proseguire era anche sulla mancata condivisione sulle scelte più imprtanti nella politica estera italiana degli ultimi 70 anni e questo mi preoccupa". 

(ANSA) - Nessun commento della Commissione europea sulle parole del leader di Forza Italia, Silvio BERLUSCONI, sulla guerra in Ucraina. "No comment", è stata la risposta netta del portavoce della presidente von der Leyen, Eric Mamer, rispondendo a una domanda durante il briefing quotidiano con la stampa. Il portavoce Ue per gli Affari esteri, Peter Stano, ha annuito sorridendo. 

(Nova) - "Amici di Orban, amici di Putin: questa e' la destra italiana": cosi' il sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola, su Twitter ha commentato le dichiarazioni rilasciate ieri dal leader di Forza Italia, Silvio , in merito alla necessita' di sostituire il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Amendola ha definito "gravi" le parole dell'ex presidente del Consiglio. "Domenica sono in gioco il futuro dell'Italia, la collocazione internazionale, lo stato di Diritto come fondamento dell'Ue. La scelta e' netta", ha aggiunto Amendola. 

Traduzione dell’articolo di Matt Murphy per bbc.com il 23 settembre 2022.  

L'ex premier italiano Silvio Berlusconi ha difeso l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin, affermando che il leader russo è stato "spinto" nel conflitto. L'ottantacinquenne ha affermato che le truppe russe dovevano sostituire il governo con "persone decenti" e poi andarsene. 

Il tre volte premier italiano è un alleato di lunga data del presidente russo. Questo fine settimana il suo partito dovrebbe prendere il potere come parte di una coalizione di destra nelle elezioni generali in Italia.

Berlusconi ha dichiarato alla TV italiana che la narrazione secondo cui il governo ucraino starebbe massacrando i russofoni nell'est del Paese è stata creata dai media di Mosca. Ha detto che la notizia, spinta dalle forze separatiste e dai politici nazionalisti del governo russo, non ha lasciato a Putin altra scelta se non quella di lanciare un'invasione limitata. 

"Putin è stato spinto dalla popolazione russa, dal suo partito e dai suoi ministri a inventare questa operazione speciale", ha detto. "Le truppe avrebbero dovuto entrare, raggiungere Kiev in una settimana, sostituire il governo Zelensky con persone decenti e una settimana dopo tornare", ha aggiunto Berlusconi. 

"Invece hanno trovato una resistenza inaspettata, che è stata poi alimentata da armi di ogni tipo provenienti dall'Occidente". I leader dell'opposizione hanno subito condannato i commenti di Berlusconi, con il leader del Partito Centrista Carlo Calenda che lo ha accusato di parlare "come un generale di Putin". 

Enrico Letta, del Partito Democratico di centro-sinistra, ha detto che l'intervento dimostra che se le elezioni di domenica saranno "favorevoli alla destra, la persona più felice sarà Putin". Ma venerdì Berlusconi ha cercato di chiarire i suoi commenti, dicendo che le sue opinioni erano state "eccessivamente semplificate".

Dagoreport il 23 settembre 2022.  

Avrà tanto scopato e goduto, e tanto ci ha fatto divertire con i suoi siparietti maramaldi, le barzellette oscene, le olgettine smutandate, le intercettazione porcelline e una lunga storia di gag, gag-ate e schitarrate con Apicella. Ma a 86 anni, e in pieno decadimento fisico (lo hanno dovuto accompagnare a braccio sul palco per la chiusura della campagna elettorale), è ora che nonno Silvio si ritiri a vita privata.

Il suo delirante discorso su Putin, che in Ucraina voleva “sostituire Zelensky con un governo di persone perbene” (come a dire che Zelensky è un farabutto), è l’ultimo inciampo di un Cav ormai disarcionato dalla realtà e da se stesso. Ha concionato neanche fosse un generale moscovita che propone i suoi piani di guerra: “Le truppe russe, secondo me, dovevano fermarsi intorno a Kiev”.  

Le sue parole hanno creato un casotto di proporzioni bibliche. Dal Quirinale al Ppe, dalla Commissione europea all’Intelligence, sono tutti sbigottiti per le dichiarazioni deliranti di Berlusconi. Nessun ex premier occidentale si era mai espresso in questi termini dallo scoppio della guerra in Ucraina. 

Il risibile tentativo del Cav di mettere una pezza è anche peggiore del buco: “Riferivo quello che alcuni raccontano senza nessuna adesione del mio pensiero”. Praticamente ha descritto se stesso come un pappagallo che rilancia sconclusionate teorie altrui. E meno male che doveva essere lui il perno euro-responsabile della coalizione di centrodestra. Invece ne è ormai l'elemento più instabile, e incontrollabile. Qualcuno lo aiuti! Soccorretelo! Salvatelo! Soprattutto da se stesso e dalla senescenza che toglie vitalità ai corpi cavernosi ma anche alle sinapsi. 

 (ANSA il 23 settembre 2022) - "Bastava vedere tutta l'intervista, non solo la frase estrapolata eccessivamente semplificata per capire quale sia il mio pensiero, che è noto da tempo. L'aggressione all'Ucraina è ingiustificabile e inaccettabile, la posizione di Fi è chiara: saremo sempre con l'Ue e la Nato". Lo scrive sui social Silvio Berlusconi, leader di Fi a proposito di quanto detto ieri a Porta a Porta in merito alla guerra in Ucraina.

 (ANSA il 23 settembre 2022) - "Riferivo quello che alcuni raccontano senza nessuna adesione del mio pensiero a quel racconto. Forse sono stato frainteso facevo solo il "cronista" riferendo il pensiero di altri. L'aggressione all'Ucraina è ingiustificabile e inaccettabile, la posizione di Forza Italia chiara e netta: non potremo mai in nessun modo e per nessuna ragione rompere la nostra partecipazione all'Unione europea e all'Alleanza atlantica". Lo scrive Silvio Berlusconi su facebook di quanto detto ieri sulla guerra in Ucraina.

(ANSA il 23 settembre 2022) - "È scioccante sentire queste parole. Forse Manfred Weber (Ppe) ha qualcosa da dire a riguardo?". Così via Twitter la presidente del gruppo dei Socialisti e democratici all'Eurocamera, la socialista spagnola Iratxe Garcia Perez, commenta le parole del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, in merito alla guerra in Ucraina.

L'oligarca Medvedchuk e l'ex leader Yanukovych: ecco le "persone perbene" che Putin voleva al posto di Zelensky. Corrado Zunino su La Repubblica il 23 Settembre 2022.

L'ex oligarca ucraino Viktor Medvedchuk, al momento dell'arresto il 12 aprile scorso . 

Le dichiarazioni di Berlusconi rimettono sotto i riflettori due uomini con cui la Russia avrebbe voluto cambiare "in una settimana" la presidenza di Kiev. L'avvocato è stato appena liberato come contropartita per i soldati di Azov. Il presidente cacciato vive dal 2014 in esilio in Russia

Putin, ha detto Silvio Berlusconi a Porta a Porta, con l'operazione speciale voleva sostituire "in una settimana" il presidente Volodymyr Zelensky, legittimamente e largamente eletto nella primavera del 2019 alla guida dell'Ucraina, con alcune "persone perbene". Detto che la guerra lampo dell'Armata con la Z prevedeva la presa di Kiev in tre giorni, con migliaia di parà russi in discesa sulla capitale dall'aeroporto di Hostomel, chi sono le "persone perbene" che Putin avrebbe voluto piazzare - come accaduto in diverse repubbliche ex sovietiche - al comando dell'Ucraina?

Il portavoce di Zelensky chiede a Berlusconi come può fidarsi di Putin. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 23 settembre 2022

Dopo la giustificazione del presidente russo da parte del leader di Forza Italia in tv, l’Ucraina invita a votare candidati che «abbiano e seguano i giusti principi morali». Meloni e Salvini difendono l’alleato: «Ha detto che era una versione di altri»

Silvio Berlusconi ha fatto arrabbiare pure l’Ucraina. Per il leader di Forza Italia, Putin sarebbe stato costretto a invadere l’Ucraina per «sostituire Zelensky – il presidente ucraino - con un governo di persone perbene», ha detto lui stesso giovedì sera a Porta a porta su Rai1. Una versione dei fatti in parte rettificata il giorno dopo: «Sono stato frainteso, era una versione di altri», ha scritto sui suoi canali social, ma il portavoce del presidente dell’Ucraina lo ha comunque criticato.

«Putin è al potere da più di 20 anni. Ha ucciso o imprigionato gli avversari politici. Ha mandato un esercito di assassini stupratori nel territorio di uno Stato sovrano», ha detto a Repubblica Seriiy Nykyforov. E ancora: «Putin ha organizzato un massacro in Siria, è responsabile dell'abbattimento di un aereo passeggeri con 300 persone nel 2014. E ora minaccia le armi nucleari. Quindi, se capiamo bene, Berlusconi si fida di lui e usa il suo esempio per definire chi è persona rispettabile e chi no?»

Alla vigilia delle elezioni del 25 settembre, il portavoce di Volodymyr Zelensky ha aggiunto: «È essenziale che i cittadini scelgano candidati che abbiano e seguano i giusti principi morali».

LA RETTIFICA

Berlusconi dice di essere stato frainteso e ha pubblicato un post sui social: «Bastava vedere tutta l'intervista - e non solo una frase estrapolata, sintetica per motivi di tempo, come si sa la semplificazione a volte è errata - per capire quale sia il mio pensiero, che peraltro è noto da tempo».

Ha aggiunto: «Riferivo quello che alcuni raccontano senza nessuna adesione del mio pensiero a quel racconto. Forse sono stato frainteso facevo solo il "cronista” riferendo il pensiero di altri», spiega.

Dopo la sua prima risposta per cui anche il conduttore Bruno Vespa aveva specificato che «anche Zelensky è una persona per bene», Berlusconi aveva assicurato che l’Italia resterà dalla parte dell’Ucraina: «L’aggressione all’Ucraina è ingiustificabile e inaccettabile, la posizione di Forza Italia chiara e netta: non potremo mai in nessun modo e per nessuna ragione rompere la nostra partecipazione all'Unione europea e all'Alleanza atlantica». Sui suoi account ha pubblicato solo quella parte.

Giorgia Meloni e Matteo Salvini, i leader di Fratelli d’Italia e Lega alleati di Berlusconi, hanno cercato di placare le polemiche. «Se Berlusconi si è corretto va bene così», ha detto Salvini. Meloni ha ricordato che il centrodestra ha sempre votato a favore dell’Ucraina in Parlamento e la linea sarà quella: «Questo c'è scritto sul programma del centrodestra, mi pare che Berlusconi - ha detto rispondendo ai giornalisti a margine dell'evento a Bagnoli con i giovani del partito - abbia anch’egli spiegato che le parole che aveva espresso erano non un’interpretazione del suo pensiero ma un’interpretazione del pensiero di altri». 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Gli orfani di Stalin indignati da Mosca. La colonnina di mercurio sale e segna temperature elettorali da punto di fusione. Francesco Maria Del Vigo il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

La colonnina di mercurio sale e segna temperature elettorali da punto di fusione. E a fondersi è, soprattutto, la ragionevolezza. Mancano ancora quasi due mesi alle elezioni e la stampa di sinistra ha già iniziato a raschiare il fondo del barile. Ieri, su Repubblica, i primi segnali di cortocircuito sono stati evidenti. Il giorno prima La Stampa (stesso gruppo editoriale) aveva pubblicato fantomatici report sui rapporti tra uomini della Lega e quelli del Cremlino, con conseguente ira della sinistra per le insopportabili ingerenze di Putin sulla politica italiana. Esplosa la prima cartuccia però, ne serviva subito un'altra da sparare contro il soldato Salvini, perché lui, si sa, è abituato ai colpi e non è mica facile buttarlo giù: i romanzi di appendice sulle liaison con Putin non bastano. Allora l'idea geniale del quotidiano diretto da Molinari: aggiungerci anche gli immigrati, da utilizzare come spauracchio contro il centrodestra. Una pennellata d'artista. Tenetevi ben saldi perché la sceneggiatura è da equilibrismo circense: i russi spingerebbero i barconi pieni di migranti dalla Cirenaica in Italia per mettere sotto pressione il Paese e quindi avvantaggiare elettoralmente il leader della Lega. Praticamente tutto il mondo ruota attorno a Salvini: secondo questa logica, molto poco logica, chissà che l'escherichia coli nell'Adriatico non sia una contromossa anti russa per mettere in difficoltà il salviniano Papeete. In questo racconto fantascientifico da ombrellone la sinistra cuoce nello stesso pentolone tutte le sue ossessioni: dal mito dei migranti (che strumentalizza con grande disinvoltura) al complottismo su Mosca.

Proprio loro, nipotini di un Pci che per decenni ha preso soldi dall'Unione Sovietica. Alla faccia delle ingerenze straniere E siamo solo alla fine di luglio. Tra agosto e settembre probabilmente inizieranno a captare segnali dallo spazio per dimostrare pericolose connessioni tra Salvini e i marziani. D'altronde c'erano già i fascisti, ci vuole un attimo a catapultarci pure i leghisti.

Dagospia il 21 agosto 2022. Dall’account facebook di Giorgia Meloni il 21 agosto 2022.  

Dopo i giovani candidati del Pd che negano il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele, arriva anche chi inneggia all’Unione Sovietica. Questo è il post del segretario metropolitano del Pd di Napoli Marco Sarracino, uno dei capolista under 35 scelti direttamente da Enrico Letta. Sarracino, candidato alla Camera nel collegio plurinominale Napoli 2, ha scritto: “Buon anniversario della Rivoluzione”. Bolscevica, ovviamente. Con tanto di foto di Lenin e Armata rossa.

Chissà se Letta rivendicherà anche questo nelle sue interviste alle TV estere, chissà quanto la comunità internazionale apprezzerà un partito che inneggia all’Unione Sovietica - un regime totalitario comunista che ha oppresso per mezzo secolo la libertà dei popoli europei, facendo milioni di morti - mentre, tra l'altro, i carri armati russi entrano in Ucraina con tanto di falce e martello a rivendicare proprio i confini dell'URSS.

Ombre russe. Abbiamo informazioni sui partiti italiani pagati dal Cremlino, dice il consigliere di Zelensky. Linkiesta il 30 Settembre 2022

«A noi non sfugge il comportamento di certi partiti, a volte proprio quelli italiani, che prendono posizioni apertamente filo-Putin», spiega Mykhailo Podolyak. «Ma non possiamo parlare pubblicamente di chi ha ricevuto soldi russi a scopo di lobbying», precisa, «perché significherebbe interferire con la politica del vostro Paese». Oggi Putin annuncerà l’annessione delle quattro regioni ucraine in cui si sono tenuti i referendum farsa

(Sergei Kholodilin/BelTA Pool Photo via AP)

«Abbiamo elementi per affermare che qualcuno in Europa, anche tra i partiti italiani, ha preso soldi dal Cremlino, ma non possiamo svelarlo perché significherebbe interferire con la politica del vostro Paese». Mykhailo Podolyak, consigliere dell’Ufficio del presidente ucraino Zelensky e capo del team di negoziatori con i diplomatici russi, lo dice a Repubblica.

«È ormai noto che la Federazione ha speso 300 milioni di euro negli ultimi anni per finanziare alcuni movimenti politici nell’Unione europea e, così facendo, ha cercato di influenzare sia le politiche nazionali sia quelle dell’Unione», spiega. Nel famoso report americano, però, l’Italia non appare. Ma «a noi non sfugge il comportamento di certi partiti, a volte proprio quelli italiani, che prendono posizioni apertamente filo-Putin, sostenendo per esempio che, per un motivo o per un altro, la Russia aveva il diritto di attaccare l’Ucraina», prosegue Podolyak.

Il consigliere del governo ucraino però non va oltre: «Cerchi di capirmi, non possiamo interferire negli affari interni dell’Italia e non possiamo parlare pubblicamente di chi ha ricevuto soldi russi a scopo di lobbying. Certamente, a livello di intelligence, i nostri due Paesi cooperano. Ho motivo di ritenere che i dati fondamentali ci siano tutti: chi ha preso e quanto».

Oggi, intanto, il presidente russo Vladimir Putin annuncerà ufficialmente l’annessione delle quattro regioni ucraine – Kherson, Zaporzhizhia, Lugansk e Donetsk – in cui negli scorsi giorni si sono tenuti i referendum farsa. Per Kyjiv, dice, non cambia niente. «I referendum non hanno valore legale, per il diritto internazionale le regioni sono e rimangono territori dell’Ucraina. E l’Ucraina è pronta a tutto per riprenderle. Il nostro popolo ce lo chiede. Sono stati voti farsa, a cui hanno partecipato poche persone. A chi andava a votare puntavano il fucile in faccia ordinando: “Vota!”. Le nostre controffensive, quindi, vanno avanti»

Ma secondo Podolyak ormai non c’è più spazio per la via diplomatica: «La Russia non vuole negoziare, lancia solo ultimatum. Se l’esercito russo abbandonasse l’intero territorio dell’Ucraina, Crimea compresa, la trattativa potrebbe riprendere».

E quanto alla minaccia energetica, spiega che «Gazprom sta facendo di tutto perché l’Europa non riceva il gas residuo necessario per la stagione invernale. E c’è la Russia dietro gli incidenti ai gasdotti North Stream: molto probabilmente un’azione pianificata». Le prove? «Ci sono dati di intelligence e ci sono alcune analisi, in termini di cosa è stato fatto e chi è il beneficiario. Non ha senso discuterne qui, ci sono indagini in corso. Ma la chiusura dei rubinetti di Gazprom e gli attentati nel Baltico fanno parte della stessa strategia».

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 22 settembre 2022.

È l’ennesimo avvertimento, l’ultima minaccia che arriva dalla Russia contro l’Italia. Dopo le prese di posizione dell’ambasciatore a Roma delle scorse settimane, il livello di attacco contro la politica Italiana si alza ulteriormente, con la scelta di mettere in fila i politici italiani e la provocazione di additarli come “traditori” rispetto ai buoni rapporti precedenti. 

Sull’account Facebook, l’ambasciata russa ha pubblicato le foto del presidente Vladimir Putin con alcuni leader politici italiani incontrati nel corso di questi anni. Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Poi si vede Putin con Enrico Letta, con Silvio Berlusconi, una foto della stretta di mano tra il presidente russo e Sergio Mattarella. E ancora, con Giorgio Napolitano, Putin e Matteo Renzi, con Paolo Gentiloni, Mario Draghi e Sergei Lavrov e poi il leader del Cremlino con Massimo D’Alema.

È eloquente l’intimazione: «Dalla recente storia delle relazioni tra la Russia e l’Italia. Ne abbiamo da ricordare». Parole che suonano sia come un’esortazione a non dimenticare le relazioni precedenti e forse - secondo alcuni analisti- l’avviso che qualcosa di segreto potrebbe essere rivelato sui rapporti tra questi leader e l’establishment di Mosca.

Gia nelle scorse settimane, sempre nei momenti chiave della guerra contro l’Ucraina, esponenti russi avevano esternato contro l’Italia e la sua scelta di schierarsi con la NATO e al fianco delle autorità ucraine. Ora che la minaccia di Vladimir Putin di nuove conseguenze è stata esplicita, anche la rappresentanza diplomatica a Roma ha deciso di allinearsi, in vista del voto che porterà in carica un nuovo governo. 

Il leader del M5S Giuseppe Conte reagisce: «Sono stato da Putin a Mosca in visita di Stato, lui è venuto in Italia. L’ho incontrato sempre come rappresentante del popolo italiano. Quando ho smesso l’incarico, nonostante un rapporto cordiale che era stato costruito, ho sempre pensato che non fosse un rapporto personale. Tant’è che dopo allora non ho mai cercato Putin, mai parlato col suo entourage e neppure con l’ambasciata russa».

Replica anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi: «Credo che il problema della Russia oggi non sia il post dell’ambasciata o il tweet ma sia ciò che ha detto Putin ieri, che pone un problema internazionale. Il problema è come risponderà la comunità internazionale all’escalation verbale, che c’è già. Cerchiamo di lavorare per evitare l’escalation politica. Noi siamo stati e siamo favorevoli alle sanzioni e all’invio delle armi all’Ucraina, ma da sempre diciamo che debba essere lasciato aperto un canale di dialogo. Non siamo come quelli che cambiano idea una volta al giorno, e penso a Giuseppe Conte».

Estratto dell’articolo di Stefano Vergine e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 22 settembre 2022.  

Il 24 febbraio, subito dopo l'annuncio dell'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin, Matteo Renzi ha fatto sapere di essersi dimesso il giorno stesso dal consiglio d'amministrazione della Delimobil. Si tratta di un'azienda russa di servizi di car-sharing […] fondata e controllata da Vincenzo Trani […] capo della Camera di Commercio italo-russa, Delimobil ha come suo secondo azionista il gruppo Vtb, seconda banca di Stato russa, considerata la più vicina a Putin e anche per questo finita sotto sanzioni di Usa e Ue già nel 2014 in seguito all'annessione della Crimea.

[…] Renzi è entrato nel board di Delimobil nell'agosto del 2021, quando la società, registrata in Lussemburgo, stava cercando di ottenere il via libera dalla Sec (la Consob americana) per quotarsi a Wall Street. Ma quanto ha guadagnato lecitamente il senatore italiano nei sette mesi circa in cui ha rivestito il ruolo di consigliere d'amministrazione di Delimobil? 

Un'informazione rilevante, visto che Renzi è un politico che avrebbe ricevuto denaro russo, lecito e tracciabile, e la società privata per cui ha lavorato è partecipata da un'azienda di Stato straniera. 

Né il leader di Italia Viva né Delimobil hanno fornito informazioni utili […] il mandato di Renzi scadeva nel 2024. Tre anni di lavoro che avrebbero assicurato al leader di Italia Viva un incasso complessivo compreso tra 200 e 230 mila euro […] […] la somma annua lorda per ognuno di loro è compresa tra i 66 mila e 77 mila euro. 

Il senatore Renzi non ha incassato, però, tutti questi soldi, visto che ha fatto parte del board di Delimobil da agosto del 2021 al febbraio del 2022. Sono sette mesi, equivalenti a una indennità complessiva lorda compresa tra 38.500 euro e 45.500 euro. Questo è quanto il politico italiano dovrebbe aver guadagnato da Delimobil. Non molto rispetto a quanto avrebbe potuto ricevere se fosse rimasto nel cda fino alla scadenza.

Secondo l’ Intelligence Usa, Mosca ha finanziato partiti in oltre 20 Paesi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Settembre 2022.

Secondo un rapporto dell'intelligence dal 2014 a oggi la Russia ha versato oltre 300 milioni di dollari a partiti e candidati per accrescere la propria influenza. Gli Stati Uniti forniranno ai singoli governi le informazioni “classificate” sui politici coinvolti

A dodici giorni dalle elezioni in Italia, Washington accusa la Russia di aver distribuito più di 300 milioni di dollari, fin dal 2014, per influenzare politici e rappresentanti di governo in più di venti Paesi, tra cui molti in Europa. L’informazione è contenuta in una nota interna inviata lunedì dal Dipartimento di Stato USA alle ambasciate e consolati americani in Europa, Asia del Sud e nord Africa. Palazzo Chigi è stato informato dagli americani, sollecitati dall’intelligence italiana, che il rapporto esiste. 

Il messaggio era classificato come “sensitive”, cioè con informazioni importanti, ma non “classified“, dunque non da tenere strettamente riservato, come riferisce il Washington Post. E quindi in poche ore la notizia ha fatto il giro del mondo . Nel cablogramma, firmato dal segretario di Stato Antony Blinken, non si fanno nomi di politici e Paesi individuati dagli 007 americani ma si dice che Washington informerà direttamente le nazioni coinvolte. I primi Paesi coinvolti, i cui nomi circolano negli Stati Uniti, sono quelli della Bosnia e dell’ Ecuador.

In molti si chiedono se anche l’Italia è coinvolta e quindi citata nel cablo di Blinken. Secondo alcuni media americani questa notizia conferma la linea del presidente Joe Biden, deciso a togliere il velo della segretezza alle manovre di Mosca per influenzare politicamente gli altri Paesi, ma secondo altri può essere un tentativo di inserirsi nelle vicende elettorali di Paesi dell’Alleanza Atlantica. 

Che la notizia rivelata dal Washington Post sia una vera e propria bomba mediatica-politica è ormai chiaro a tutti i livelli politici e istituzionali. La caccia ai nomi sarebbe già di per sé capace di stravolgere equilibri e bruciare carriere politiche. Un potenziale scandalo di questa portata che promette di diventare pubblico a undici giorni dalle elezioni politiche rende il tutto letteralmente esplosivo. E lo sa molto bene anche Mario Draghi, che viene investito della gestione di questo caso. E ne sono altrettanto consapevoli

Una volta uscita la notizia l’Italia i vertici dei Servizi italiani, hanno passato il pomeriggio di ieri avendo continui contatti con gli interlocutori americani depositari della linea e delle informazioni dell’amministrazione Usa, chiedendo conto tramite i canali ufficiali di intelligence della veridicità della notizia e dei dettagli. In un primo momento, i rappresentanti dell’intelligence americana presenti in Italia hanno risposto di non essere a conoscenza di nulla e di non aver ricevuto comunicazioni ufficiali da Washington.  

La logica istituzionale sarebbe quella di investire il Copasir, vale a dire la commissione parlamentare di vigilanza sui Servizi segreti italiani. L’intelligence può infatti comunicare in quella sede al Parlamento i dettagli eventualmente ricevuti dal Paese alleato. Non è ancora una scelta già assunta, perché come rilevano le stesse fonti esiste “un margine di discrezionalità” che è prerogativa di Palazzo Chigi.

In alcuni ambienti di Washington la posizione della Lega di Matteo Salvini viene vista con preoccupazione per le sue posizioni sovraniste e la vicinanza al premier ungherese di destra Viktor Orbàn, tra i pochi interlocutori del presidente russo Vladimir Putin. Salvini infatti non aveva convinto neanche l’amministrazione guidata da Donald Trump durante la sua visita ufficiale da rappresentante del governo italiano.

E’ possibile che, nelle prossime ore, vengano fuori i nomi dei Paesi finanziati e coinvolti dalla pressione di Mosca ma anche i nomi dei politici a “libro paga” del Cremlino. Funzionari dell’amministrazione americana non hanno fornito, al momento, altri dettagli, limitandosi a ricordare l’influenza russa nelle recenti elezioni avvenute in Albania, Bosnia e Montenegro, che una volta facevano parte del blocco sovietico. Secondo il Washington Post, un membro dell’amministrazione Usa ha evidenziato che il presidente russo Vladimir Putin ha speso ingenti somme “nel tentativo di manipolare le democrazie dall’interno“.

Il dipartimento di Stato sostiene che il flusso di denaro uscito da Mosca sia entrato in Europa attraverso ‘think tank‘ politici e in Asia, Medio Oriente, Africa e Centro America attraverso aziende statali. 

La cifra di 300 milioni elargita dalla Russia sarebbe peraltro calcolata per difetto. I soldi sarebbero molti di più. Nel messaggio interno del dipartimento non ci sono, invece, riferimenti alla possibilità che Mosca possa di nuovo intromettersi nelle elezioni americane. Il quotidiano Washington Post ha chiesto, un commento all’ambasciata russa a Washington, senza ottenerlo. Sotto i riflettori, in particolare, le attività russe in Ucraina: la fonte consultata non ha chiarito quanto denaro Mosca abbia speso nel paese guidato dal presidente Volodymyr Zelenskyy ed invaso lo scorso febbraio dalle forze armate russe. 

Un alto funzionario Usa ha infatti spiegato che “la decisione di gettare luce sulle azioni segrete russe serve a mettere in allerta i partiti che se accettano segretamente soldi dai russi, possiamo svelare” la loro identità. Ed ha fornito l’esempio di un Paese dell’Asia (senza nominarlo) in cui un candidato alla presidenza ha ricevuto soldi dall’ambasciatore russo.

Non è la prima volta che i Servizi segreti USA denunciano una campagna di influenza da parte russa alimentata da soldi recapitati essenzialmente a partiti nazionalisti e antieuropei che rappresentano un quinto di quelli dell’Europarlamento. Nel 2016 la National Intelligence guidata da James Clapper ricevette l’incarico dal Congresso di controllare i finanziamenti russi degli ultimi dieci anni, e la ricerca è tutt’ora in corsa. Già nel 2016 Washington evitò di menzionare i nomi dei partiti e dei movimenti coinvolti nelle donazioni di Putin, ma nel mirino finirono i partiti di destra in Francia, Paesi Bassi Ungheria (Jobbik, non la Fidesz di Orban) ed Italia. A quell’epoca le attenzioni si spostarono sulla Lega di Matteo Salvini il quale negò ogni coinvolgimento.

Le reazioni e commenti della politica italiana

Il segretario nazionale del PD ha commentato: “Secondo fonti americane ben informate, la Russia in questi anni ha pagato partiti politici occidentali. Chiedo che ci sia in Italia la dovuta informazione e la dovuta chiarezza prima del voto“. Sono state queste le parole di Enrico Letta intervenendo nel programma “Cartabianca” (RAITRE) . “Chiedo che gli italiani, quando andranno al voto il 25 settembre, sappiano se partiti politici del nostro paese sono stati finanziati da una potenza, la Russia, che ha invaso l’Europa” aggiungendo “Vogliamo chiedere al governo italiano di dare le informazioni e che il Copasir intervenga: credo sia fondamentale che l’opinione pubblica sappia se ci sono partiti politici che hanno preso posizione di sostegno alla Russia perché sono stati pagati dalla Russia stessa“. 

Immediata la reazione di Matteo Salvini , considerato “filorusso”: “Gli unici che hanno preso soldi dalla Russia in passato sono stati i comunisti e qualche quotidiano italiano. Liberi di farlo… Io non ho mai chiesto soldi e non ho mai preso soldi. La Lega querela? Ci credo… L’emergenza di chi è davanti al televisore sono le bollette… Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato? Se la Russia ha pagato il Pd, è giusto che si sappia“. Sono le parole di Matteo Salvini, leader della Lega, anche lui a “Cartabianca“: “L’unico paese straniero che nella mia attività politica mi ha offerto un viaggio tutto pagato e spesato, che poi non feci, furono gli Stati Uniti. Io non ci andai, altri ci andarono pagati dal governo americano, liberi di farlo”. Una nota della Lega aggiunge “L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente ‘la Repubblica’ che per anni ha allegato la rivista ‘Russia Oggi’. La Lega ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta“. 

Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia ha commenta su Twitter: “Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c’era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento”, ma incredibilmente il tweet subito dopo la pubblicazione è scomparso ? Redazione CdG 1947

Da ansa.it il 13 settembre 2022.  

La Russia ha trasferito segretamente oltre 300 milioni di dollari a partiti politici, dirigenti e politici stranieri in oltre una ventina di Paesi a partire dal 2014: lo affermano alti dirigenti Usa sulla base di accertamenti dell'intelligence americana. 

Si tratta di informazioni declassificate di un report dell'intelligence Usa, ha spiegato un alto dirigente dell'amministrazione Biden in una conference call. 

Informazioni che sono state condivise con altri Paesi.

I fondi segreti sono stati usati nell'ambito degli sforzi di Mosca di guadagnare influenza all'estero. Gli 007 ritengono che gli oltre 300 milioni trasferiti segretamente da Mosca a partiti e politici stranieri siano cifre minime e che Mosca abbia trasferito probabilmente altri fondi in modo coperto: lo riferisce un alto dirigente Usa.

Da adnkronos.com il 13 settembre 2022.

"Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato?". Matteo Salvini, segretario della Lega, a Cartabianca risponde alle domande sulle notizie basate su informazioni dell'intelligence Usa, secondo cui la Russia avrebbe finanziato partiti di altri paesi con 300 milioni di dollari dal 2014.

"Gli unici che hanno preso soldi dalla Russia in passato sono stati i comunisti e qualche quotidiano italiano. Liberi di farlo... Io non ho mai chiesto soldi e non ho mai preso soldi. La Lega querela? Ci credo... L'emergenza di chi è davanti al televisore sono le bollette... Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato? Se la Russia ha pagato il Pd, è giusto che si sappia", dice Salvini. "L'unico paese straniero che nella mia attività politica mi ha offerto un viaggio tutto pagato e spesato, che poi non feci, furono gli Stati Uniti. Io non ci andai, altri ci andarono pagati dal governo americano, liberi di farlo".

Gli Usa: dai russi 300 milioni per interferire in 24 Paesi. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022. 

Il documento inviato dal dipartimento di Stato chiede agli ambasciatori di sollevare il problema nelle varie Nazioni. L’Italia non è stata contattata 

Il governo russo ha speso, o meglio, investito almeno 300 milioni di dollari dal 2014 in avanti per cercare di «influenzare» i politici di almeno 24 Paesi. È il messaggio inviato lunedì 12 settembre dal segretario di Stato Antony Blinken alle ambasciate e ai consolati Usa con sede soprattutto in Europa, ma anche in Africa e nel Sud-Est asiatico. Non ci sono i nomi, però, né dei Paesi interessati, né dei partiti o di singoli dirigenti politici che avrebbero beneficiato dei finanziamenti «coperti» distribuiti dal Cremlino.

La notizia riapre la polemica sulle manovre pianificate da Mosca per condizionare le dinamiche politiche e sociali in altri Stati, specie quelli schierati con l’Alleanza atlantica. E chiaramente la mossa americana cade in un momento delicato per l’Italia, in piena campagna elettorale.

Il documento firmato da Blinken è stato concepito come un atto interno alla diplomazia americana. Anche se il segretario di Stato invita gli ambasciatori a «sollevare il problema» con le autorità dei Paesi che li ospitano. Il governo guidato da Mario Draghi fa sapere di non essere stato contattato.

Le informazioni provengono da un nuovo rapporto dei servizi segreti Usa e si inseriscono in un filone di indagine iniziato almeno 7-8 anni fa. In un primo tempo gli analisti americani hanno ricostruito le manovre del Cremlino per disturbare la campagna presidenziale del 2016 negli Stati Uniti. I democratici accusarono Donald Trump di aver cospirato con Putin per danneggiare Hillary Clinton.

L’inchiesta venne affidata al super procuratore Robert Mueller che il 22 marzo 2019 consegnò un mastodontico rapporto, sostanzialmente con due conclusioni. Primo: il Cremlino aveva cercato di favorire Trump. Secondo: non c’erano prove di una collusione tra l’allora candidato repubblicano e il vertice russo.

In parallelo si mosse anche la commissione Affari esteri del Senato americano. Era il 2017, i repubblicani, allora in maggioranza, si rifiutarono di partecipare alle indagini. I democratici, comunque, completarono un dossier, un «minority report», datato 10 gennaio 2018. Titolo: «L’assalto asimmetrico di Putin alla democrazia in Russia e in Europa, implicazioni per la sicurezza Usa».

Il testo dedica largo spazio ai tentativi di destabilizzazione o di condizionamento nei Paesi baltici, in Ucraina, Georgia, Montenegro, Serbia, Bulgaria ed Ungheria. Ci sono anche tre pagine dedicate all’Italia. I parlamentari puntano l’attenzione sulle «posizioni anti-establishment» e favorevoli alla Russia del Movimento 5 Stelle. Ma osservano che «non ci sono prove di finanziamenti corrisposti al Movimento 5 Stelle da fonti legate al Cremlino».

Viceversa si riportano «i sospetti» di «alcuni osservatori» a proposito della Lega: «Potrebbe aver ricevuto fondi dai servizi segreti del Cremlino». Come è noto il vertice leghista, a cominciare da Matteo Salvini, ha sempre negato qualsiasi legame economico con Putin.

In ogni caso il rapporto firmato dai senatori democratici, oggi in maggioranza, si concludeva con queste parole: «L’Italia può essere un bersaglio per il Cremlino», favorendo quelle posizioni «che possono indebolire l’unità europea sulle sanzioni (quelle del 2014, ndr) contro la Russia» 

L’ombra delle ingerenze agita la politica, la Lega minaccia querele. Stefano Montefiori e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

Il Pd: intervenga il Copasir, si faccia chiarezza prima del voto. L’Ungheria sembra essere destinazione privilegiata di investimenti da Mosca

La notizia del dossier americano irrompe sulla campagna elettorale italiana come una bomba. Tanto che il leader della Lega Matteo Salvini reagisce subito: «L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente La Repubblica che per anni ha allegato la rivista Russia Oggi . La Lega ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta».

Al momento nessuna comunicazione ufficiale risulta arrivata per via diplomatica. Ma non si può escludere che nei prossimi giorni possano essere trasmessi dettagli sul contenuto dell’informativa dell’intelligence statunitense. Per questo già da oggi anche il Copasir potrebbe aprire una pratica per accertare quali dati siano stati acquisiti, se ci siano «canali» economici verso il nostro Paese e soprattutto che tipo di verifica sia stata effettuata. Lo ha chiesto il segretario del Pd Enrico Letta: «Si deve fare chiarezza prima del voto, intervenga subito il Comitato parlamentare». E Giuseppe Conte si è allineato: «Il M5S come sempre agisce in piena trasparenza: ci auguriamo che il Copasir indaghi con il sostegno di tutte le forze parlamentari. Non possiamo non esprimere preoccupazione sul fatto che la campagna elettorale possa essere inquinata da fattori esterni». «Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c’era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento», ha scritto su Twitter Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia.

L’Italia è il Paese più al centro delle attenzioni vista l’imminenza del voto del 25 settembre, che potrebbe spostare gli equilibri in Europa e — nelle speranze del Cremlino — indebolire la coesione del fronte pro-Ucraina. Ma ci sono sospetti su ingerenze russe nel processo democratico di molti Paesi, primo fra tutti la Francia, dove Marine Le Pen ha finanziato le campagne elettorali grazie a prestiti russi. Nel 2014 l’allora Front National ha contratto un prestito di 9,4 milioni di euro presso la First Czech-Russian Bank (FCRB), che ha concesso anche un finanziamento di due milioni per il micro-partito Jeanne di Jean-Marie Le Pen. Fallita la banca due anni più tardi, il credito viene rilevato da una società formata da ex militari russi con la quale nel 2020 il Rassemblement national trova un accordo per un rimborso scaglionato fino al 2028. In occasione della campagna presidenziale del 2017, poi, il partito viene di nuovo aiutato dal prestito dell’uomo d’affari Laurent Foucher — legato a Mosca secondo il giornale Mediapart —, che fornisce otto milioni di euro benché sia insolvente e sotto inchiesta a Ginevra per truffa e riciclaggio. Nel 2022, visto che la legge francese ormai proibisce finanziamenti ai partiti da Paesi fuori dell’Unione europea, Marine Le Pen si rivolge a una banca ungherese che le assicura 10,6 milioni di euro.

L’Ungheria sembra essere una destinazione privilegiata degli investimenti di Mosca. Anche tramite la «International Investment bank», nuovo nome della banca del Comecon di era sovietica, che nel 2019 ha spostato la sua sede da Mosca a Budapest. Il suo direttore è Nikolai Kosov, figlio dell’allora capo del Kgb in Ungheria.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

Il dossier sui 300 milioni di dollari elargiti dalla Russia a venti Paesi è stato confezionato qualche mese fa, quando alla Casa Bianca c'era già Joe Biden. Le informazioni e le verifiche sarebbero state affidate a funzionari del ministero del Tesoro sulla base dei dati raccolti dalla Cia ma senza coinvolgere la National Security. 

Sono le prime informazioni trasmesse al governo italiano per via diplomatica e di intelligence . Un report che però non scioglie il nodo cruciale sulla presenza dell'Italia nella lista degli Stati dove ci sarebbero stati partiti e uomini politici «a libro paga».

«Al momento non risulta ma le cose potrebbero cambiare», dichiara il presidente del Copasir Adolfo Urso in trasferta a Washington. E in serata twitta: «Ho appena concluso un positivo incontro al Dipartimento di Stato», con la foto delle due bandiere. La tensione in una campagna elettorale già segnata dal sospetto di interferenze straniere rimane però altissima. Perché dopo la notizia sull'esistenza del report filtrata martedì sera, nessuna comunicazione ufficiale è arrivata dagli Stati Uniti sui Paesi coinvolti. Anzi, nelle note informali di queste ore si specifica che il dossier non sarà consegnato ai governi stranieri perché «classificato». E questo aumenta i dubbi su modi e tempi di diffusione delle informazioni.

Il warning

Gli analisti ritengono che la «bomba» sganciata due giorni fa possa essere in realtà un avviso, una sorta di warning per chi vincerà le elezioni italiane rispetto all'atteggiamento da tenere nei confronti di Washington. Motivo in più per spingere l'esecutivo in carica a sollecitare informazioni chiare sugli elementi raccolti dagli analisti statunitensi. E soprattutto su eventuali dettagli italiani. Finora si è parlato genericamente di fondi ai partiti stranieri. Quali? Si tratta di finanziamenti diretti? Ci sono triangolazioni? Sono coinvolte società o altre istituzioni? Interrogativi al momento senza risposta. 

«Fondi dal 2014»

Nessun chiarimento è stato fornito anche sul motivo per cui l'indagine avrebbe riguardato le elargizioni di Mosca a partire dal 2014. È l'anno dell'invasione della Crimea e del Donbass, nel febbraio ci fu la rivoluzione ucraina culminata con la fuga del presidente Viktor Yanukovich. 

Date cruciali rispetto alla guerra in corso tra Russia e Ucraina che potrebbero aver spinto l'amministrazione Biden - schierata al fianco del presidente Volodymyr Zelensky - a sollecitare indagini mirate sulla rete tessuta da Putin. Ma la scelta di far filtrare i risultati in maniera parziale proprio in questi giorni in Italia fa presto a trasformarsi in accusa di ingerenza sulla campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre. Anche tenendo conto che negli Stati Uniti sono circolate indiscrezioni sul condizionamento del voto in Albania, Montenegro, Ecuador, Madagascar, ed è stato specificato che «si stanno contattando le ambasciate degli Stati interessati» ma non risultano contatti con la nostra sede diplomatica o con la Farnesina. 

Al Copasir

 Domani mattina il sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli riferirà al Copasir l'esito delle istanze presentate in queste ore agli interlocutori di Washington. «Perché - ribadisce il deputato del Pd Enrico Borghi - siamo in un momento delicatissimo, non possiamo permetterci di rimanere in una situazione di incertezza e sospetto». La prossima settimana il presidente del Consiglio Mario Draghi sarà negli Stati Uniti e incontrerà Biden. Sembra difficile che possa essere quella l'occasione per un chiarimento, ma nessuno può escluderlo. E il timore di rivelazioni con il contagocce in grado di avvelenare questi ultimi giorni di campagna elettorale continua a salire.

Soldi russi, la mossa del premier Draghi e quella mail Usa che per ora chiude il caso. Giuseppe Sarcina e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022

Ma già si parla di altri dossier in arrivo nelle prossime settimane su finanziamenti russi. Il Dipartimento di Stato americano: il nostro allarme è sul piano globale. Proroga del Copasir fino alla scelta dei nuovi componenti (è la prima volta) 

Mario Draghi lo dirà pubblicamente. Già oggi — nella conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi dopo il Consiglio dei ministri — il premier potrebbe confermare che nel dossier sui 300 milioni di dollari distribuiti dalla Russia a venti Stati non c’è l’Italia. Le fibrillazioni che avevano segnato le ultime 48 ore con le notizie fatte filtrare negli Stati Uniti su finanziamenti a partiti e uomini politici stranieri, lo avevano convinto sulla necessità di ottenere un chiarimento con l’amministrazione di Joe Biden. E così, ieri mattina, il capo del governo ha chiamato il segretario di Stato Antony Blinken per avere informazioni dirette sul contenuto del dossier. E la risposta è stata esplicita: «Nulla su di voi».

La mail Usa

Il rapporto sui fondi russi ai partiti occidentali, risponde il Dipartimento di Stato al Corriere, va interpretato come «un’allerta globale». Non sono indicati alcuni Paesi in particolare, né forze politiche o singoli leader. È la stessa spiegazione fornita da Blinken a Draghi. E nelle stesse ore il Dipartimento di Stato ha inviato una mail ai governi: «Noi non entriamo nelle informazioni specifiche di intelligence , ma siamo stati molto chiari nell’esporre la nostra preoccupazione sulle interferenze della Russia nel processo democratico in diversi Paesi del mondo, compreso il nostro. A questo proposito non concentriamo il nostro allarme nei confronti di nessuno Stato in particolare, ma sul piano globale, poiché dobbiamo fronteggiare le sfide contro le società democratiche. Continueremo a lavorare con i nostri alleati e partner per mettere in luce i tentativi di influenza pericolosa della Russia, aiutando gli altri Paesi a difendersi contro tali attività».

Il Copasir

Mercoledì sera Adolfo Urso, presidente del Copasir per Fratelli di Italia, ha ottenuto più o meno le stesse risposte nella sua ultima giornata a Washington. Accompagnato dal numero due dell’ambasciata italiana, Alessandro Gonzales, ha avuto una serie di incontri al Dipartimento di Stato. Poi, scortato dall’ambasciatrice Mariangela Zappia, ha visto il presidente della Commissione Intelligence al Senato, il democratico Mark Warner, nonché il repubblicano Richard Burr, componente dello stesso organismo. E in tutti i colloqui ha ricevuto rassicurazioni sull’esclusione dell’Italia. Del resto poco dopo la divulgazione delle notizie, gli Stati Uniti avevano fatto sapere che le ambasciate interessate sarebbero state contattate. Ma né gli addetti diplomatici negli Usa, né la Farnesina, né gli apparati di intelligence — subito allertati dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli — hanno ricevuto informazioni specifiche sull’inserimento dell’Italia nel dossier. Resta il dubbio che nel rapporto compilato dai servizi segreti e dal Consiglio di sicurezza nazionale, diretto da Jake Sullivan, il più stretto collaboratore di Joe Biden, possano esserci dei riferimenti risaputi, attinti dalle cosiddette «fonti aperte», cioè notizie già pubblicate.

Avviso al governo

Le informazioni fatte filtrare da Washington — che gli analisti leggono come un warning per il prossimo governo — potrebbe comunque essere il preludio all’invio di altri dossier. Le parole del ministero degli Esteri Luigi Di Maio, che conferma di essere «in contatto con gli americani per tutti gli ulteriori aggiornamenti», dimostrano che nelle interlocuzioni di queste ore della diplomazia e dell’intelligence è stato spiegato che ci sono numerosi report preparati dal Tesoro e dagli 007 Usa sui finanziamenti di Mosca a partiti, imprese, uomini politici stranieri e per questo non è affatto escluso che nelle prossime settimane possano emergere altri documenti che coinvolgano anche italiani.

La proroga

I timori per quello che potrà accadere in materie così delicate sembrano dimostrati dalla norma, votata all’unanimità e inserita nel decreto Aiuti, che — per la prima volta — proroga il Copasir. E stabilisce che «fino alla nomina dei nuovi componenti dello stesso Copasir le relative funzioni sono esercitate da un comitato provvisorio costituito dai membri del comitato della precedente legislatura che siano stati rieletti in una delle Camere».

Da lastampa.it il 13 settembre 2022.

Quasi alla vigilia delle elezioni, il rapporto con la Russia torna al centro del dibattito elettorale. Un rapporto dell'intelligence statunitense denuncia, infatti, che dal 2014 – anno dell'occupazione della Crimea – a oggi Mosca ha finanziato con 300 milioni di dollari partiti politici e candidati in oltre 20 Paesi per accrescere la propria influenza. «Vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani – incalza Guido Crosetto –, perché è alto tradimento». Il Pd ha chiesto «a tutti i partiti politici italiani di assicurare la propria estraneità a questi finanziamenti». L'informativa non indica specifici 'target' russi ma chiarisce che gli Stati Uniti stanno fornendo informazioni classificate a singoli paesi specifici.

Intanto, dopo il confronto Letta-Meloni di ieri, da cui son emerse due Italie contrapposte su tanti temi, dal Pnnr ai diritti, fino all’immigrazione, oggi la leader di FdI ha parlato di sé in un'intervista al Washington Post: «Qualora gli italiani decidessero che vogliono Meloni premier, sarò premier», ha sottolineato, spiegando il programma del suo partito che definisce «conservatore» e il suo rapporto con l'Europa: «Non mi considero una minaccia, una persona mostruosa o pericolosa».

Aggiornamenti ora per ora 

20.46 – Bonelli: “Quali partiti italiani hanno preso soldi dalla Russia?”

«Quali partiti italiani hanno preso soldi dalla Russia per condizionare le elezioni? Secondo intelligence Usa 300 mln di dollari sono stati trasferiti a partiti di Paesi esteri. Esistono atti declassificati di cui il governo è a conoscenza ? Se si, li renda pubblici». Così Angelo Bonelli, leader dei Verdi.

21.05 – Russia: Crosetto, fuori i nomi. E' alto tradimento

«Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c'era una tradizione antica da parte loro», scrive Guido Crosetto su Twitter. «Però - riprende l'ax parlamentare FdI - vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché - incalza - è alto tradimento». 

21.18 – Pd, tutti partiti assicurino estraneità finanziamenti

«Dal 2014 la Russia inquina la democrazia pagando partiti e candidati che ne difendono gli interessi. La nostra democrazia è troppo preziosa per metterla in vendita. Chiediamo a tutti i partiti politici italiani di assicurare la propria estraneità a questi finanziamenti». Lo scrive su Twitter Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Partito Democratico. 

21.37 – Borghi: solo Pd garantisce di non prendere soldi esteri

«Il Pd è stato l'unico partito sin qui a dire che mai prenderemo soldi dall'estero. Abbiamo chiesto a tutti i partiti di fare altrettanto (e finora non abbiamo avuto risposte). Alla luce di queste notizie tutti i partiti garantiscano che nessuno rientra nella fattispecie». Così su Twitter Enrico Borghi, responsabile Politiche per la sicurezza nella segreteria nazionale del Pd.

21.40 – Salvini: basta falsità, ora querelo

«L'unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito comunista italiano e in epoca recente 'la Repubblica' che per anni ha allegato la rivista 'Russia Oggi'». È quanto si legge in una nota della Lega che prosegue annunciando di avere «dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini, come è già accaduto in alcuni contesti televisivi, con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci». «Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta», conclude la nota della Lega.

21.49 – Ricci: da anni rapporto Salvini-Putin sotto occhi tutti

«Sono anni che la Russia cerca di influenzare le elezioni in occidente e in Italia aveva scommesso particolarmente sulla Lega». Lo ha detto il presidente di Ali - Autonomie Locali Italiane - e coordinatore dei sindaci del Pd, ospite di Stasera Italia, su Rete4. «Ora vedremo anche se c'è qualche partito italiano che ha preso i soldi, ma che ci sia un rapporto tra il partito di Salvini e quello di Putin è sotto gli occhi di tutti», ha aggiunto Ricci, come riferisce una nota, sostenendo poi che «Putin è stato il capitano e l'esempio dei sovranisti italiani, basta guardare quello che è successo negli ultimi anni. Ora bisogna prendersi le proprie responsabilità. Quelle del 25 settembre sono elezioni politiche dove ci si gioca il posizionamento dell'Italia in Europa e nel Mondo, in un cambiamento geopolitico molto delicato. È evidente - ha concluso - che le posizioni internazionali sono molto importanti quando ci si rivolge agli elettori. Il Partito democratico sta con l'Europa e occidente, senza se e senza ma». 

Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 15 settembre 2021.

È difficile stabilire un punto d’inizio delle storie più oscure delle operazioni di interferenza russa in Italia, siamo pur sempre il Paese che ha avuto il partito comunista più grande d’Occidente, vent’anni di governo di Silvio Berlusconi – un amico personale di Putin che il Dipartimento di Stato sospettava di «affari personali» con il presidente russo, attorno a Gazprom e usando suoi presunti prestanome – e in anni recenti la più grande esplosione di partiti populisti-sovranisti in Europa, il M5S e la Lega. Ma forse è il 2014, l’anno di annessione illegale della Crimea alla Russia, il punto di svolta. E gli uomini vicini all’oligarca ortodosso Konstantin Malofeev e a Alexander Babakov (menzionato anche nell’ultimo cablo Usa) giocano un ruolo decisivo.

È una storia che si può far partire da Torino. La Lega nel 2013 deve eleggere il nuovo segretario, che sarà Matteo Salvini. Arrivano in Piemonte Aleksey Komov, collaboratore dell’oligarca ortodosso ultranazionalista russo Konstantin Malofeyev, e il deputato di “Russia Unita” Viktor Zubarev. Entrambi legati anche a Babakov, oligarca nel settore dell’energia. Nel 2015 un convegno di Lombardia-Russia a Milano sarà pagato con i soldi di Malofeev, secondo il racconto di uno dei collaboratori del Carroccio. Babakov sarà intermediario dei nove milioni “prestati” dai russi a Marine Le Pen. 

Nei primi mesi del 2014 era nata l’associazione Lombardia-Russia, di Gianluca Savoini e Claudio D’Amico. Nella primavera 2014 Lombardia-Russia si lega alla “Gioventù Russa Italiana”, un’organizzazione fondata nel 2011 da Irina Osipova, figlia di Oleg Osipov, capo del potente ufficio italiano di Rossotrudnichestvo, che nel 2016, si candida persino con Fratelli d’Italia al Comune di Roma.

Partono andirivieni trasversali con Mosca. Nell’ottobre 2014 un gruppo di leghisti vola prima in Crimea, a sostenere i russi. Ci vanno anche due volte delegazioni parlamentari M5S, la star è Alessandro Di Battista. Grillo diventa special guest di RT, oggi bannata in Europa, come Assange e come Michael Flynn, il primo consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump. Sappiamo che Flynn riceve compensi da RT. RT paga anche per quelle interviste grilline? 

Dopo la Crimea i leghisti vanno a Mosca, dove incontrano anche Sergey Naryshkin, oggi capo del Svr, i servizi segreti esteri. L’operazione d’influenza, per i russi, si lega fin dall’inizio allo spionaggio. I leghisti lo sanno? Anni dopo, a Roma, a parlare con gli emissari leghisti per un «viaggio di pace» di Salvini a Mosca sarà Oleg Kostyukov (figlio del capo del Gru), vicario dell’ambasciata russa a Roma, che arriva a domandare ai leghisti, il 27 maggio 2022, se sono «orientati a ritirare i leghisti dal governo Draghi». Mosca ha tramato per abbattere Draghi?

Secondo Newslinemag, che ha ottenuto delle mail del gruppo “Tsaargrad” – del filosofo Alexander Dugin e di Malofeev – il 17 ottobre 2018 Salvini ha un appuntamento con Malofeev, così scrive per mail il braccio destro dell’oligarca. Il giorno dopo, all’hotel Metropol a Mosca, Savoini discute un accordo: il colosso petrolifero Rosneft, guidato da Igor Sechin (in tutti questi anni portato in palmo di mano in Italia dal capo di Banca Intesa Russia, Antonio Fallico), avrebbe venduto gasolio all’Eni con uno sconto del 4%, 65 milioni, destinato alla Lega. Esce l’audio. È ancora aperta a Milano un’inchiesta, ma i soldi non sono mai stati trovati.

Nell’ultimo cablo Usa – dove non si fanno nomi specifici – si legge che spesso «il finanziamento politico russo è stato eseguito da organismi come il Fsb». E con un meccanismo di «società di comodo, think tank, università». Le ombre russe in Italia hanno spesso riguardato presunti finanziamenti a dipartimenti universitari. O alla Link University, l’università cara ai 5 Stelle e a pezzi dei servizi. O a riviste di geopolitica più o meno gialloverdi e anti-atlantiche.

Il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha detto «io me ne sono andato dal M5S perché Conte stava flirtando con Putin». Conte ieri ha assicurato: «Io posso parlare del M5S, non c’è nessuna possibilità che possa essere coinvolto e subire interferenze». Da anni i 5S, soprattutto con Vito Petrocelli, poi espulso, hanno flirtato con uomini di Putin, per esempio Konstantin Kosachev, o Leonid Slutsky, o Serghey Zeleznyak. 

Nel marzo 2020 l’allora premier grillino concesse a Putin una sfilata di mezzi militari e intelligence e generali russi in Italia, dai russi rivenduta come «missione di aiuti». Fu quello, o una missione di propaganda, con uomini dello spionaggio militare su suolo Nato, seguita da pressioni per far adottare il vaccino Sputnik in Italia? Un alto dirigente dello Spallanzani rivelò a La Stampa che due funzionari di stato russi gli proposero 250 mila euro per spingere lo Sputnik, lui rifiutò e informò carabinieri e Servizi. Cosa ruotò attorno a quella grigia storia? I russi ottennero in cadeaux la coltura virale del coronavirus dal potenziale valore commerciale miliardario?

Le domande sulle zone oscure del caso italiano si moltiplicano. Le spie russe in Italia proliferano, arrivando quasi a un centinaio. Lunedì scorso una nota del Dipartimento di Stato inviata alle ambasciate Usa in più di 100 Paesi – compresa Roma – ha suggerito le misure per reagire: sanzioni, divieti di viaggio e l’espulsione di presunte spie russe coinvolte in finanziamento. Chissà se dopo Draghi ne vedremo più qualcuna.

Da lastampa.it il 16 settembre 2022.

Davide Casaleggio attacca duramente Giuseppe Conte, sulla vicenda del presunto finanziamento dal Venezuela di Chavez-Maduro a Gianroberto Casaleggio – finanziamento che Davide Casaleggio ha sempre negato, querelando il giornale spagnolo che per primo aveva diffuso la notizia riportando un documento dei servizi segreti spagnoli. 

Ora però Casaleggio sostiene che Conte, in quella storia, ebbe un ruolo. A pochi giorni dal voto del 25 settembre, con un video su Facebook, il figlio del cofondatore del M5S attacca il leader del Movimento, l’avvocato del popolo: «Aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla».

E avanza il dubbio, tra l'altro, che dietro quel caso ci fosse la volontà di cambiare il corso del Movimento 5 Stelle. «Devo raccontarvi un fatto grave che è successo in questa legislatura. Molti di voi lo conosceranno come il "caso Venezuela". Un'infamia che è stata condotta contro mio padre - esordisce Casaleggio - Bene, in questi anni ho condotto diverse ricerche e questo mi ha permesso di farmi un'idea di cosa sia successo.

E anche di quali sono gli attori che sono stati coinvolti in questa vicenda. Anche i servizi segreti italiani, anche persone nel governo italiano sono state coinvolte in questa vicenda. Speravo che la giustizia avesse già fatto il suo corso per la fine di questa legislatura, ma così non è stato. Credo sia quindi importante condividere alcune informazioni pubblicamente». 

«Molti di voi ricorderanno il "caso Venezuela" perché è finito su tutti i giornali. Tutte le televisioni, tutte le inchieste di approfondimento in televisione parlavano del “caso Venezuela”. Una valigetta con 3,5 milioni di dollari - ricorda Davide Casaleggio - che sarebbe arrivata nelle mani di mio padre per cambiare il corso delle idee del governo italiano tramite il Movimento 5 Stelle che a suo tempo - si parla del 2010 almeno dalla storia raccontata - era fuori dal Parlamento, fuori dal Governo e quindi sostanzialmente parliamo di una storia irrealistica, che però molti giornali hanno sposato comunque. Ma cosa ho scoperto in questi anni?

Beh, innanzitutto i tempi. Questo documento falso è arrivato al giornale spagnolo, che poi lo pubblicò, proprio nel momento in cui il capo politico del Movimento 5 Stelle si era dimesso. Un momento delicato per il Movimento 5 Stelle. L'inchiesta esce sul giornale sei mesi dopo. Proprio nel momento in cui si sta discutendo del fatto di fare o meno il voto per il capo politico che doveva essere rivotato. Proprio in quel periodo in cui - come molti di voi ricorderanno - io sostenevo la necessità di fare un voto aperto a candidature multiple con il voto degli iscritti, per poter avere un nuovo capo politico».

«Questo non successe mai - rimarca Casaleggio - perché nel frattempo è stato cambiato lo statuto. È stato nominato sostanzialmente un monocandidato, che alla fine è stato ratificato da alcuni iscritti. Ora questo per quanto riguarda i tempi. Chi era invece a conoscenza di questo documento prima che arrivasse nelle mani del giornalista spagnolo? 

Bene, questo documento era custodito in un cassetto del governo italiano già da un anno. Tra l'altro prima della pubblicazione, il 27 di aprile del 2019 i servizi segreti italiani con in mano questo documento vanno da Giuseppe Conte - sostiene il foglio del cofondatore del M5S - vista la gravità del fatto denunciato dal documento e lo sottopongono per una sua valutazione. Quello che è stato fatto? Nulla». «Non si fece né un'indagine su un fatto che effettivamente poteva essere molto grave, parliamo di corruzione, riciclaggio, cercare di pagare una forza politica per indurre il governo a fare qualcosa per un Paese straniero.

È qualcosa di molto grave ma il Presidente del Consiglio al tempo non fece nulla. Non fece nulla neanche nell'altro senso. Se pensava che questo documento fosse falso, era una chiara calunnia. Un tentativo di calunnia perché al tempo il documento era segreto, ma non fece nulla neanche quando questo documento uscì sui giornali. Tutti i giornali italiani ne hanno parlato e Conte aspettò ben due giorni per fare la sua dichiarazione in cui sostanzialmente faceva finta di non saperne nulla». 

«Ora tutto questo usciva, e il governo? Nulla. Conte che aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla. Ora io spero che nel prossimo governo, che nella prossima legislatura, tutte le persone che avranno a che fare con i servizi segreti: sia le persone che controlleranno i servizi segreti, sia le persone che li gestiranno, abbiano il senso dello Stato. Perché io non tollero che si infanghino le persone che non possono difendersi. Non tollero che si infanghi mio padre. E quindi spero che si faccia chiarezza su un'operazione di calunnia pubblica che è stata portata avanti contro mio padre».

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per il Foglio il 16 settembre 2022.

La cosa grave, per quanto riguarda i finanziamenti russi a partiti italiani, è che le ombre sono poche, riguardano dettagli scabrosi ma non l’essenziale. Tutto si è svolto alla luce del sole. (...) 

Salvini nella sua ingenua furbizia ha pensato, e ha manifestato apertamente nelle forme più primitive, perfino infantili, che il suo impulso verso il regime dei pieni poteri, dell’uomo forte, della soluzione risolutiva, dell’odio per le élite euroatlantiche, dell’ideologia del risentimento e della frustrazione contro la democrazia liberale, si identificasse con la Russia di Putin (...)

Non è questione di insinuazioni o accuse, di prove, di ulteriori accertamenti, di passaggi di rubli, tutte cose in ombra ma non poi così tanto, è questione direi quasi gratuita, solare, evidente, di infatuazione per un modello che è venuto alla luce per quel che è e per quel che costa in termini di equilibrio, sviluppo, libertà, pace e comune umanità. 

Il Salvini invotabile, pericoloso, spiazzato in modo grottesco dalla storia di questi anni, non è uno sconosciuto agente del Kgb, non è un politico corrotto dai rubli, è il leader che ha scommesso apertamente su un modello insopportabile per il nostro modo di concepire la vita e l’esercizio dei diritti civili in un paese democratico. (...)

Il putinismo, che per Berlusconi è un’amicizia personale, ma l’uomo ha anche pianto la notte per Gheddafi, come raccontò mentre veniva bombardato e spento, per Meloni è una tentazione apparentemente rifiutata, per Salvini, che sta nel tridente elettorale della destra, è una seconda, macché una prima pelle. Altro che ombre russe

Marcello Sorgi per la Stampa il 17 settembre 2022.

Il lungo (forzatamente lungo) addio di Draghi si colora a tinte forti in una conferenza stampa in cui, prendendo spunto dal legittimo orgoglio di presentare un nuovo decreto Aiuti da 14 miliardi, il premier mette a posto i suoi ex-alleati e avversari. Ce n’è per tutti, con toni ora sornioni (più consoni a Draghi) ora risentiti, ora superiori, tanto che a un certo punto SuperMario accetta anche di sentirsi definire «sceso dall’alto», per dire che non ha mai avuto bisogno, né ha voluto, fare i conti con le miserie della politica quotidiana. E conferma il suo «no» a un secondo mandato.

Il primo ad affacciarsi nel mirino è Salvini, a cui sembra rivolto quel «pupazzo prezzolato» che continua a «parlare di nascosto» con Mosca. Draghi si prende la soddisfazione di far notare che l’ammontare degli ultimi due decreti è superiore, 31 contro 30 miliardi, all’ammontare dello scostamento di bilancio chiesto ogni giorno dal leader leghista. E di precisare che grazie ai suoi contatti con Blinken e l’amministrazione Usa il governo è stato in grado di scagionarlo completamente dal Russiagate. Della serie “So’ ragazzi”. 

Il secondo, ma sempre associato a Salvini, è Conte per lo scetticismo sulle sanzioni per Mosca, «che invece funzionano», e quell’ipocrita plauso alla resistenza dell’Ucraina «che avrebbe dovuto difendersi a mani nude».

La terza è Meloni, alla quale, dopo il voto a favore di Orban, Draghi ricorda che la tradizionale collocazione dell’Italia in Europa con Francia, Germania e i maggiori membri dell’Unione è scelta di pragmatismo: sono Paesi che hanno gli stessi nostri problemi, in cerca di una soluzione comune. Consiglio non richiesto. 

Il limite di queste considerazioni, sollecitate dalle domande dei giornalisti, è che sono state tutte senza fare nomi. Sassolini, o pietre, tolte dalle scarpe fuori tempo limite. 

Draghi ovviamente rifiuta di dare un giudizio sulla campagna elettorale in corso, anche se è evidente che non gli è piaciuta, e fa un solo appello: al voto. Rivolto a tutti i cittadini, perché in fondo, anche se non lo ha detto apertamente, il premier pensa che gli italiani siano meglio dei partiti che li rappresentano, e il meglio del meglio forse si annidi tra quelli astensionisti, che potrebbero cambiare le cose facendo uno sforzo per andare alle urne.

Mattia Feltri per la Stampa il 17 settembre 2022.

Forse sono io a essere inadeguato agli arabeschi logici del mio tempo. Per esempio, ora Matteo Salvini pretende delle scuse. Come sapete, qualche giorno fa il Dipartimento di Stato americano ha diffuso una nota secondo cui da anni il Cremlino paga partiti di altri paesi per sovvertirne l'ordine democratico. 

Con una deduzione particolarmente precipitosa, molti hanno dato per certo che fossero coinvolti pure dei partiti italiani e, una volta compiuto questo passo, la deduzione successiva era fatale: chi potrà mai essere stato retribuito da Mosca, se non quel tizio incline a indossare felpe con l'immagine di Putin sulla Piazza Rossa, promotore di una collaborazione politica fra il suo partito e quello di Putin, di cui è un tale ammiratore da averlo definito il garante della pace in Europa, il miglior leader al mondo insieme a Donald Trump, il presidente di un paese molto migliore dell'Unione europea, uno che vale il doppio di Obama, il triplo di Mattarella, il quadruplo di Renzi, un modello di lucidità e lungimiranza, uno senza difetti, un grande, un amico (tutto testuale)? Chi, dunque, se non Matteo Salvini? 

Salta però fuori che il documento di tutto parla fuorché di partiti italiani, e tantomeno di Salvini, circostanza confermata ieri da Franco Gabrielli, sottosegretario delegato per la sicurezza della Repubblica. Ecco, ora Salvini indignato vorrebbe che i suoi avventati accusatori gli porgessero le scuse. Lui non è - per usare le parole di Mario Draghi - un pupazzo prezzolato. No, lui ha fatto tutto gratis. E a me, inadeguato agli arabeschi logici contemporanei, pare una terribile aggravante. 

Leon Panetta ex capo della CIA: “Chi parla delle sanzioni come Salvini è stato influenzato da Mosca”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Settembre 2022. 

Leon Panetta ex capo della CIA e del Pentagono sotto la presidenza Obama, parla di Putin, Salvini, Berlusconi, e sa di cosa parla...

“Sentire da chiunque quelle cose sulle sanzioni a Mosca mi dice che è stato influenzato dalla Russia”. È netto il giudizio di Leon Panetta, quando gli ricordi l’intervento di Matteo Salvini a Cernobbio. Subito dopo il capo di Cia e Pentagono nell’amministrazione Obama, quando Biden era vice presidente, aggiunge: “Fatico a pensare che chiunque verrà eletto in Italia non capisca come il ruolo del vostro paese nel mondo sia rafforzato dall’alleanza con Nato e Usa, e facendo altro minerebbe l’economia e la politica italiana“.

Vista la denuncia del segretario di Stato Blinken, può dirci cosa sa lei della corruzione russa in Italia e in Europa?

“Abbiamo sempre avuto intelligence sugli sforzi dei russi per aggirare le sanzioni e dirigere fondi verso coloro che sono vicini a Putin e nemici degli Usa. Usa i soldi come farebbe un tiranno, per complicare l’applicazione delle sanzioni“.

il segretario di Stato USA Blinken

Cosa sa della corruzione dei politici in Europa?

“Normali operazioni di intelligence russa. Usano i fondi per convertire alla loro linea, piazzare spie e alleati nel mondo. È quello che Putin ha fatto per anni, sfruttare ogni leva di potere per minare stabilità e Usa“.

Ha informazioni sull’Italia?

“Non mi sorprenderebbe che stessero usando fondi per influenzare chi sarebbe più favorevole alla Russia. In Italia e in altri paesi”.

Silvio Berlusconi e Vladimir Putin in Sardegna

Lei ha conosciuto Berlusconi nel 1994 durante la visita del presidente Clinton. L’apprezzamento che ha espresso in varie occasioni per Putin è politico, o legato al business?

“Non sarei sorpreso se Berlusconi avesse una relazione stretta con Putin. Risale ai tempi in cui il capo del Cremlino era più rispettabile come leader, sono sicuro che il loro rapporto vada indietro negli anni. Filosoficamente Berlusconi e Putin la pensavano allo stesso modo, ciò è probabilmente vero anche oggi“.

L’episodio del Metropol dimostra che la Lega è un target?

“Dobbiamo capire che Putin e la Russia sono in un angolo, a causa dell’Ucraina. Proveranno ad usare ogni mezzo per costruire un qualche tipo di sostegno“.

Salvini , l’ambasciatore russo in Italia e SavoiniSalvini e Savoini a Mosca

Tra una settimana in Italia si vota. Si aspetta operazioni di disinformazione?

“La Russia ha lanciato un attacco sfacciato contro gli Usa durante le nostre elezioni, e continua a farlo, per minarne l’integrità. È un approccio standard per aiutare chi pensano sosterrebbe le loro posizioni. Sta accadendo in Italia e altrove“.

Anche la corruzione?

“Sì. Non escluderei nulla, in particolare quando sono in un angolo come oggi. Putin era e resta prima di tutto un agente del Kgb, ed userà le tattiche che conosce per spingere gli altri a sostenere la Russia“.

Vladimir Putin

L’Ucraina può vincere la guerra?

“Putin non può vincerla, e dovrà affrontare la difficile decisione di salvare se stesso, oppure muovere verso l’escalation“.

C’è il rischio che usi le armi nucleari tattiche?

“Resta sempre una possibilità. Quando metti una tigre all’angolo, non sai mai come risponderà“.

Quindi Putin ora ha un incentivo ad influenzare le elezioni italiane per dividere la coalizione occidentale?

“Assolutamente. Usano queste tattiche quando le circostanze sono favorevoli, immaginiamoci ora che sono in difficoltà per guerra e sanzioni. Putin non ha ottenuto neppure il sostegno della Cina, e ciò dice tutto sulla sua posizione. È molto vulnerabile ora. Perciò cercherà di colpire comunque potrà“. 

Quanto importante sarebbe sfilare l’Italia dalla coalizione?

“Punta a cercare di favorire questo risultato. Ma fatico a pensare che chiunque verrà eletto non capisca come il ruolo dell’Italia nel mondo sia rafforzato dall’alleanza con Nato e Usa, e facendo altro minerebbe tanto l’economia, quanto la politica del vostro paese“.

Salvini che a Cernobbio chiede di togliere le sanzioni è l’effetto di una posizione politica o delle pressioni russe?

“Non sei mai sicuro di cosa ci sia dietro a quel genere di commenti. È chiaro che Mosca si trova in una posizione molto difficile, non solo militarmente in Ucraina ma anche economicamente a causa delle sanzioni, sentire da chiunque quelle cose mi dice che è stato influenzato dalla Russia”.

Leon Panetta ex capo della CIA e del Pentagono

Quando era alla Cia ha visto informazioni sulla corruzione russa in Italia?

“Ogni giorno vedevo intelligence sugli sforzi dei russi per corrompere, spiare e minare la stabilità mondiale“.

È ciò che fanno. Il popolo italiano deve sapere che, ci piaccia o no, siamo impegnati in una guerra che dirà molto sul futuro della democrazia nel Ventunesimo secolo. Se vogliamo che sopravviva, dobbiamo fare tutto il possibile per fermare tiranni come Putin».f

“La Russia si ritrova ormai in un angolo a causa dell’Ucraina e proverà a usare ogni mezzo anche la corruzione“

*intervista di Paolo Mastrolilli, corrispondente dagli USA de La Repubblica 

Russia, altro che i regali di Putin: ecco il peccato originale della sinistra comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 settembre 2022

Le simpatie che negli anni, a destra e a manca, si sono coltivate in favore del regime russo devono essere giudicate per quel che sono dal punto di vista di ciascuno: inoffensive o pericolose, scriteriate o ragionevoli, comprensibili o condannabili. Ma farne la materia di una specie di Mani Pulite transazionale e geopolitica - per combinazione in concomitanza con un appuntamento elettorale - rappresenta il solito trattamento italianamente imbecille e profondamente disonesto con cui si pretende di affrontare e risolvere una vicenda con etichettatura para-giudiziaria.

Per farsi un'idea del vignettista che raffigura il presidente degli Stati Uniti e Volodymyr Zelens' kyj con baffetti hitleriani e braccia fasciate di svastica non occorre verificare se la bella trovata ha ricevuto o no remunerazione. E quel giornalista democratico che descriveva l'operazione speciale come la cauta iniziativa di chi «punta sui suoi obiettivi, e intanto cerca di non spaventare la popolazione», propinava questa sua chicca - c'è da esserne sicuri- senza che fosse retribuita: e a farla condivisibile o infame non era la presenza o l'assenza del corrispettivo. E la pretesa di investigazione sulle cause interessate e monetizzate delle simpatie verso le gesta di quel regime ha poi questo doppio effetto pericoloso: che si va alla ricerca delle bustarelle dove verosimilmente non ci sono, magari tirando in mezzo chi non c'entra, e magari lasciando fuori chi non aveva bisogno nessun bisogno di riceverne. I comunisti italiani che ricevevano i soldi sporchi dell'aguzzino sovietico eran quel che erano a prescindere da quel rifornimento. 

Felice Manti per il Giornale il 16 settembre 2022.

Dottor Jekill o Mister Hyde? Dove finisce l'Enrico Letta politico che vuole guidare (di nuovo) il Paese e dove inizia l'Enrico Letta lobbista? Domanda legittima che il Giornale pone al segretario Pd in campagna elettorale, finora senza risposta. Abbiamo ricostruito gli interessi e i legami di Letta con la Cina, solida alleata della Russia di Putin, attraverso la sua nomina nel Cda della holding del lusso cinese Liberty Zeta Ltd e nella società Tojoy, legata al presidente Xi Jinping di cui è stato co-presidente per l'Europa occidentale fino a marzo 2021.

Un intreccio di relazioni costruite nell'interregno tra l'addio di Letta alla politica con le dimissioni da parlamentare - dopo lo strappo su Palazzo Chigi orchestrato da Matteo Renzi col suo tweet #Enricostaisereno - e il suo rientro al Nazareno come salvatore della patria. Sette anni in cui si è dato da fare. Si chiama élite capture. Si assume o si coopta un ex politico in un'impresa privata che opera sotto le direttive di uno Stato straniero «in cambio delle loro conoscenze e a discapito degli interessi dei cittadini dell'Ue e degli Stati membri», scrive il Parlamento europeo che il 9 marzo scorso ha approvato la risoluzione contro «le ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell'Ue», realizzate non solo attraverso i fantomatici rubli in nero ai partiti di cui parlano gli Usa ma soprattutto attraverso parcelle (e influenze) in chiaro. 

Lo ha sottolineato anche il Copasir nella relazione del 19 agosto scorso.

Adesso che Letta è tornato a far politica, come si concilia il suo lobbismo filocinese, la tutela dell'Europa e la fedeltà al modello atlantico? Nel suo magico mondo è tutto ok, tutto si può conciliare.

Quando nel 2019 il ministro degli Esteri Luigi Di Maio spalancò le porte dell'Italia a Pechino, dall'esilio il leader Pd commentò: «Non c'è alcuna contraddizione tra la nuova Via della Seta, le regole europee e la fedeltà agli Stati Uniti». Ma solo se la fedeltà agli americani di cui parla Letta è quella ai paradisi fiscali, dal Delaware al New Jersey, in cui hanno sede le società per cui l'ex premier ha lavorato. 

Che così fanno dumping a scapito del gettito italiano (6,4 miliardi di euro il danno calcolato) e danneggiano il made in Italy. Privilegi che a parole il politico Letta dottor Jekill vorrebbe abolire, mentre il lobbista Letta Mister Hyde ne approfitta. A quale dei due credere? 

Poi c'è un potenziale conflitto d'interessi. In questi sette anni, lo scrive nel suo curriculum, Letta è stato advisor di Equanim, società francese che ha contribuito attraverso la controllata Usa a ripulire l'immagine del regime saudita di Mohammad bin Salman dopo l'omicidio del giornalista Usa Jamal Kashoggi e che ha tra i suoi clienti anche Facebook, Disney, Google, la Monsanto e i big della farmacia mondiale, da Astrazeneca a Bayer.

Ma ha anche lavorato nella società di head hunting Spencer Stuart, di cui di recente si è servito anche Mario Draghi. È stato nominato nell'advisory board di Amundi, società specializzata nell'asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole che in Italia ha inglobato Cariparma e che potrebbe scalare Banco Bpm. 

È stato advisor di Tikehau Capital, società che nel 2020 ha favorito un'operazione Italia-Cina attraverso l'acquisizione del 30% di un'azienda di motori elettrici e una linea di credito accordata da Cassa depositi e prestiti per sostenere gli investimenti in nuovi impianti e macchinari ad alta tecnologia per il mercato automotive cinese. C'è anche il Letta presidente dell'associazione Italia-Asean dietro?

Plausibile, ma non è questo il punto. Quando Letta dice che il mercato delle auto elettriche è il futuro parla il politico dottor Jekill o il lobbista Mister Hyde?

Soldi russi ai partiti. Il ricatto degli 007 americani all’Italia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

È molto inquietante la vicenda delle rivelazioni-non-rivelazioni dei servizi segreti americani sui finanziamenti russi a 24 paesi stranieri. E quello che preoccupa di più non è la Russia ma l’America. Le ipotesi, evidentemente, sono solo due. O le rivelazioni sono false oppure sono vere. I servizi segreti americani non sempre sono attendibili, quindi l’ipotesi-bufala non è da escludere. Se invece le rivelazioni sono vere, se cioè gli americani possiedono le prove dei finanziamenti e se – come è molto probabile – alcuni di questi finanziamenti riguardano l’Italia (non è ragionevole che la Russia abbia finanziato paesi vari e non l’Italia) allora bisogna capire perché la notizia (che è vecchia di cinque anni) è uscita solo oggi, quanto ha a che fare con la guerra in Ucraina e quanto con le future elezioni italiane.

È probabile che se i finanziamenti russi ci sono stati, siano stati distribuiti, più o meno equamente, tra diversi partiti, forse tutti i principali partiti. Dunque sarebbe nelle mani degli americani la decisione di come usarle e contro di chi. Che le rivelazioni possano influire sul risultato elettorale è improbabile. Potrebbero però influire sulla formazione e la composizione del futuro governo, spingendo ad escludere dal governo i partiti che si decide di denunciare come fedeli a Mosca. Oppure, ipotesi ancora più inquietante, potrebbero essere usate come minaccia e ricatto verso alcuni partiti, o verso tutti i partiti, per assicurarsi una politica filoamericana, sia nelle scelte di politica esteri sia in quelle di politica economica. Gli americani probabilmente sono preoccupati dal probabile abbandono di Draghi, che era una garanzia per loro, e potrebbero aver deciso di prendere le contromisure. L’Italia si troverebbe in una condizione di ricatto. 

Piero Sansonetti.

Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ci sono dati sensibili sull’Italia: il report Usa sui soldi ai partiti secretato a Washington. Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 15 Settembre 2022.

Esiste un rapporto del “National Security Council” classificato. Il Dipartimento: “Non daremo dettagli ma c’è preoccupazione sull’attività della Russia”

L’Italia c’è, nel dossier americano sulla corruzione russa nel mondo. E non poteva essere altrimenti, considerando i rapporti con Mosca costruiti negli ultimi decenni da diversi partiti rilevanti. Non è un segreto, del resto, che forze come Lega o M5S frenano apertamente sulle sanzioni alla Russia e le armi all’Ucraina.

Lo conferma a Repubblica una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato.

Anna Macina: “Fondi esteri, così nel 2018 fermammo lo strano emendamento del Carroccio”. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 14 Settembre 2022.

Intervista alla sottosegretaria alla Giustizia, ex 5 Stelle. Nella legge Spazzacorrotti c'era un comma che vietava i finanziamenti ai partiti da altri paesi. Ma la Lega propose di cancellarlo. "La richiesta era assurda"

La sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, ex 5 Stelle e oggi in Impegno civico, durante il governo Conte uno era capogruppo alla commissione Affari costituzionali della Camera. Lega e Movimento discutevano il varo della legge cosiddetta “spazzacorrotti”. Sono i giorni che seguono l’incontro moscovita del 18 ottobre 2018 tra Gianluca Savoini e misteriosi emissari vicini al presidente Putin.

FABIO TONACCI,GIULIANO FOSCHINI per la Repubblica il 16 settembre 2021.

Un dossier madre redatto a inizio anno, da cui è germinato un secondo dossier dato in pasto alle cancellerie dei più importanti paesi dell'Occidente. Per capire le fibrillazioni della campagna elettorale italiana delle ultime 48 ore - cominciate quando dagli Stati Uniti qualcuno ha voluto soffiare sulla brace del sospetto trasformandolo in un incendio - è necessario fare un salto indietro nel tempo e tornare a sette mesi fa, tra gennaio e febbraio del 2022, alla vigilia dell'invasione russa in Ucraina.

È allora che il National security council, il Consiglio per la sicurezza nazionale che consiglia e assiste l'inquilino della Casa Bianca, consegna nelle mani del presidente Joe Biden e al Dipartimento di Stato un corposo report (il "dossier madre"), che mette insieme informazioni confidenziali di intelligence, fonti aperte e dati raccolti dalle diverse amministrazioni del governo americano, prima tra tutti il dipartimento del Tesoro. È un lavoro che ha l'ambizione di disegnare la mappa dell'influenza occulta della Russia di Putin sugli Stati dell'Occidente, Europa compresa. Un paragrafo è dedicato anche all'Italia.

Il warning alle Cancellerie Sette mesi dopo, settembre 2022, il Dipartimento di Stato decide di informare 200 ambasciate in tutto il mondo dell'esistenza del dossier. Ne declassifica alcune parti, per segnalare ai governi esposti l'allarme interferenze russe. In Italia, Palazzo Chigi scopre dell'esistenza del dossier dalla stampa americana. Dopo due giorni di lavoro serrato a livello di intelligence e di diplomazia, a seguito di una telefonata tra Mario Draghi e il segretario di Stato, Antony Blinken, fornirà oggi alcune risposte certe: al Copasir, prima, per voce del sottosegretario Franco Gabrielli. 

E poi alla stampa, con il premier in persona. Stando alle informazioni che gli americani hanno fornito fino a questo momento, diranno i due, non ci sono evidenze che la Russia abbia finanziato direttamente alcun partito politico o leader del nostro paese. 

Il documento classificato Come detto, tutto comincia quindi sette mesi fa quando il National Security Council stila il lungo report classificato. Repubblica - in un articolo di Paolo Mastrolilli - ha rivelato ieri che si tratta di una combinazione di informazioni di intelligence, cablo diplomatici e notizie open source. Si ripercorrono fatti e circostanze che vanno tra il 2014 e il 2022: gli analisti americani mettono in fila una serie di operazioni compiute dai russi in diversi paesi occidentali ed europei. E anche in Italia, della quale si parla diffusamente. 

Di ciò il nostro governo ha chiesto conto in queste ore ricevendo però un secco no. Lo chiede anche Draghi a Blinken, si apprende da fonti di governo italiane, spiegandogli la delicatezza della fase pre-elettorale, ma ottenendo in cambio un inevitabile: esiste, ma si tratta di informazioni classificate e dunque non divulgabili. Almeno al momento, è la chiosa. A sera, il Dipartimento di Stato fa anche sapere che «Blinken ha detto a Draghi che gli Stati Uniti non vedono l'ora di lavorare con qualsiasi governo uscirà dalle prossime elezioni».

Il documento pubblico Ma perché allora, se tutto è segreto, la questione diventa pubblica? Succede martedì 13 settembre quando un lancio della Associated Press parla dell'esistenza di un report (il secondo dossier, nato dal primo) nelle mani del Dipartimento di Stato americano che dà conto di finanziamenti del Cremlino tesi a influenzare partiti ed esponenti politici occidentali: si citano 300 milioni di euro, spesi a partire dal 2014 e confluiti in una una ventina di paesi, tra cui alcuni in Europa. È stato inviato da Blinken alle ambasciate americane di almeno duecento paesi. 

In Italia nessuno del governo è stato avvisato. Gabrielli (Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica) chiede conto all'intelligence Usa di cosa stia accadendo. Si muove personalmente il numero uno dell'Aise, Giovanni Caravelli. Poche ore dopo alla Farnesina viene notificata la famosa annotazione. Si tratta di un testo generico che mette in allerta le ambasciate delle operazioni di influenza russa. È in sostanza una sintesi del "dossier madre" classificato.

Nel documento si fa riferimento a venti paesi in cui sono stati certamente compiuti investimenti russi per influenzare la politica interna. Ma l'Italia non c'è. A conferma della veridicità, l'ambasciata deposita alla Farnesina il cablogramma originale mandando in confusione il ministro degli Esteri, Luigi di Maio. Che parla di nuovi file in arrivo. Ma in realtà si tratta sempre dello stesso: una sintesi di quello originale.

Le ripercussioni politiche Con la telefonata a Draghi, Blinken circoscrive - almeno al momento - l'effetto della campagna Usa sugli equilibri italiani, a pochi giorni dalle elezioni. Il premier, invece, si garantisce la possibilità di non dover gestire un dossier - quello principale - che potrebbe potenzialmente chiamare in causa leader e partiti. Resta però un enorme punto interrogativo attorno al contenuto e alla forza delle rivelazioni del testo secretato. Sarà il nuovo esecutivo a dover lavorare con questa spada di Damocle pendente. Certamente finendo per esserne condizionato, visto che potrebbe essere declassificato in qualsiasi momento.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 15 settembre 2021.

C'è un documento che sembra la fotocopia del "cable" del segretario di Stato Blinken sulla corruzione russa, e include l'Italia. È il rapporto "Covert Foreign Money", scritto dall'Alliance for Securing Democracy del German Marshall Fund of the United States nell'agosto del 2020, quindi alla fine dell'amministrazione Trump. 

L'autore principale è Josh Rudolph, Fellow for Malign Finance , che nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale si era occupato di coordinare il lavoro delle agenzie federali sulle sanzioni contro la Russia. La Lega e il caso Metropol occupano un ampio spazio in questo studio di oltre cento pagine, dove compare anche il Movimento 5 Stelle. 

Ancora una volta quindi è la Casa Bianca repubblicana a mettere sotto la lente il partito guidato dall'alleato ideologico Matteo Salvini, attraverso questa analisi realizzata da un suo ex alto funzionario.

Il testo comincia così: «Oltre a strumenti più ampiamente studiati come attacchi informatici e disinformazione, i regimi autoritari tipo Russia e Cina hanno speso oltre 300 milioni di dollari per interferire nei processi democratici più di 100 volte in 33 paesi nello scorso decennio. La frequenza degli attacchi finanziari è aumentata in modo aggressivo, da due o tre all'anno prima del 2014, fino a 15 o 30 ogni anno dal 2016 in poi».

Sembra di leggere i rapporti di intelligence che hanno ispirato Blinken, a conferma di quanto bipartisan sia l'emergenza, con la differenza che qui si scende nei dettagli: 11 milioni di dollari a Marine Le Pen; 16 milioni stanziati dall'oligarca Oleg Deripaska per sovvenzionare il blocco europeo anti Nato, scoperti dai procuratori del Montenegro. 

«Noi chiamiamo questo strumento di interferenza straniera "finanza maligna", definita come "il finanziamento di partiti politici stranieri, candidati, campagne, élite ben collegate o politicamente influenti, gruppi, spesso attraverso strutture non trasparenti progettate per offuscare i legami con uno stato nazione o i suoi delegati».

Quindi l'ex consigliere di Trump aggiunge: «Un 17% particolarmente aggressivo dei casi di finanza maligna non opera principalmente attraverso scappatoie legali. Gli esempi includono i profitti petroliferi russi destinati a finanziare la Lega in Italia». 

Il rapporto rivela che il Cremlino pretende dagli oligarchi di «destinare parte delle loro ricchezze ad attività "patriottiche all'estero». Salvini ha sempre ripetuto di non aver mai ricevuto un rublo da Mosca, ma secondo il documento originato nei corridoi della Casa Bianca repubblicana il punto non è questo, perché ci sono «tre diverse sottocategorie di contributi stranieri a campagne, candidati e funzionari eletti: benefici tangibili, come prestiti finanziari o regali; servizi mediatici, come la manipolazione dei social media su misura; e informazioni preziose, come le ricerche sull'opposizione».

Il rapporto si concentra sul "Commodity enrichment", ossia «concedere ai donatori privilegiati lucrose posizioni nei mercati corrotti, oscuri e bizantini per le materie prime». 

Ciò «può essere visto con tre esempi in Europa: il presunto contrabbando di diamanti dall'Africa, esportazioni scontate di petrolio in Italia, e transito di gas attraverso l'Ucraina». 

Un altro strumento sono «le organizzazioni non profit, spesso segretamente sfruttate da poteri autoritari per trasferire finanziamenti agli attori politici; sovvenzionare i partiti che la pensano allo stesso modo; raggiungere specifici risultati politici o catturare le élite».

L'inchiesta inquadra la vicenda del Metropol in un mutamento strategico del Cremlino: «Prima del 2014, Putin aveva costruito legami politici con l'Europa occidentale attraverso capi di stato amichevoli come Schröder, Berlusconi e, in misura minore, Sarkozy». Ma «la sua convinzione che la Russia abbia "interessi privilegiati" per violare la sovranità nazionale delle sue precedenti conquiste imperiali si è rivelata fondamentalmente in contrasto con l'ordine del dopoguerra». 

Perciò, deluso, «Putin ha iniziato a promuovere in modo aggressivo politici e partiti non tradizionali. Ciò era fatto in parte per sviluppare alleati alternativi, fungendo da organizzazioni di facciata che sostengono l'accettazione da parte occidentale delle politiche russe aggressive. Tuttavia, tali alleati possono anche essere visti come combattenti in una forma di guerra politica: beni umani acquistati e pagati, destinati a servire, consapevolmente o meno, come misure attive per destabilizzare il consenso liberaldemocratico».

Con questa logica si arriva al Metropol, che l'ex consigliere di Trump viviseziona nei dettagli: «Sembra che l'accordo sia stato scoperto dai giornalisti prima che fosse chiuso.

Se fosse stato completato, probabilmente sarebbe stato illegale, in quanto lo sconto sul prezzo di circa 130 milioni di dollari superava il limite di 100.000 euro per i contributi politici in Italia al momento».

Descrivendo il ruolo di Savoini da intermediario di Salvini, come Aleksandr Babakov, Vladimir Kornilov e Manuel Ochsen avevano fatto per Marine Le Pen, Thierry Baudet e Markus Frohnmaier, il rapporto nota che «ciò mostra come le relazioni del governo russo con l'estrema destra dell'Europa occidentale non siano più centralizzate all'interno del Kgb, come durante la Guerra Fredda, ma invece gestite da individui che sperano di impressionare il Cremlino».

Savoini è «lo sherpa di Salvini a Mosca. È presidente dell'Associazione Culturale Lombardia-Russia, domiciliata dal febbraio 2014 nella sede della Lega, che spinge costantemente la propaganda pro-Cremlino e ha legami con gruppi dell'estrema destra in Russia e in Europa. Il suo presidente onorario è Alexey Komov, rappresentante russo del Congresso mondiale delle famiglie, che funge da collegamento con Konstantin Malofeev». Il rapporto ricorda gli incontri di Savoini con Alexander Dugin, definito «l'ideologo fascista di Putin». 

Così si arriva al 17 ottobre 2018, quando Salvini va a Mosca, partecipa ad una conferenza, «e poi secondo quanto riferito esce da una porta laterale per vedere segretamente il vice primo ministro russo Dmitry Kozak, uomo del circolo ristretto che sovrintende al settore energetico. L'incontro tra i due avrebbe avuto luogo nell'ufficio di Vladimir Pligin, potente membro del Partito Russia Unita di Putin con stretti legami con Kozak». 

Savoini la mattina dopo partecipa all'incontro al Metropol con Ilya Andreevich Yakunin, che rappresenta Pligin, Andrey Yuryevich Kharchenko, che lavora per Dugin, e un terzo uomo identificato come Yuri. La delegazione italiana comprende Gianluca Meranda, che rappresenta la banca d'investimenti Euro-IB e dovrebbe fare da intermediario tra Rosneft ed Eni, che ha negato qualsiasi ruolo.

Poi c'è «Francesco Vannucci, che sembra essere il responsabile dei meccanismi per incanalare lo sconto concordato del 4% sul prezzo alla Lega tramite gli intermediari ». Il resto lo raccontano le registrazioni dell'incontro, dove si parla di fornire diesel e kerosene russo a prezzi di favore. Il rapporto dice che i negoziati erano continuati fino a febbraio, e non erano andati a buon fine solo perché i media li avevano rivelati. Quindi cita anche i documenti del giornale spagnolo ABC sui presunti 3,5 milioni di euro regalati nel 2010 dal Venezuela a M5S.

Il consigliere di Trump però non chiude qui la sua analisi, passando alla legge "Spazzacorrotti": «L'incontro a Mosca si è svolto il 18 ottobre 2018. All'epoca, l'unico limite ai finanziamenti esteri delle elezioni italiane era di 100.000 euro. Tuttavia il partner della coalizione della Lega (M5S ndr) stava spingendo una nuova legge anticorruzione che vietava completamente il finanziamento estero di partiti e candidati italiani. Nelle settimane successive all'incontro di Mosca, nove deputati della Lega hanno proposto un emendamento che avrebbe rimosso il divieto. Il testo è stato infine ritirato e la legge anticorruzione contenente il divieto di finanziamento estero è stata approvata nel dicembre 2018.

La Lega però è riuscita alla fine ad indebolire le restrizioni nell'aprile 2019. In quell'occasione ha aggiunto una disposizione in un disegno di legge economico non correlato, che ha modificato la legge in modo da escludere "fondazioni, associazioni e comitati" dal suo campo di applicazione », come rivelato da Repubblica. Ora però gli analisti americani si chiedono: l'obiettivo era consentire agli italiani emigrati di fare donazioni politiche, oppure riaprire la porta alle ingerenze appena denunciate da Blinken?

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 15 settembre 2021.

Un finanziamento nascosto dietro un'operazione commerciale, destinato alla Lega attraverso intermediari e società autonome vicine al Carroccio. Fondi per sostenere il partito alle elezioni, per prime le Europee 2019. Se c'è una storia che rispecchia il meccanismo - svelato ieri dall'intelligence Usa - dei trecento milioni russi arrivati negli anni a politici e candidati di Paesi stranieri, questo è lo schema Metropol. O meglio, il "sistema Savoini". 

Quello teorizzato dall'ex portavoce di Matteo Salvini e fondatore dell'associazione Lombardia-Russia, seduto al tavolo del lussuoso albergo moscovita, il 18 ottobre 2018, insieme agli altri cinque protagonisti di una trattativa che avrebbe dovuto portare nelle casse leghiste circa 65 milioni di dollari. 

Il livello "superiore" del patto Una fornitura da oltre un miliardo di dollari di gas dal colosso petrolifero Rosneft su cui la procura di Milano indaga da almeno tre anni, da quando l'incontro è stato svelato dall'Espresso , prima che la testata americana Buzzfeed pubblicasse anche l'audio della trattativa. Indagini finite nel vicolo cieco di una probabile richiesta di archiviazione, il prossimo dicembre, da parte dei pm di Milano Giovanni Polizzi e Cecilia Vassena.

Le rogatorie inviate a Mosca per chiarire il ruolo dei tre russi del Metropol e anche il silenzio dei tre italiani opposto alle domande dei pm e degli investigatori della Guardia di Finanza di Milano hanno impedito di scavare e ricostruire il tentativo di finanziamento milionario. Anche se dai cellulari sequestrati sono emersi i rapporti con il livello politico superiore che garantiva la trattativa coi russi. 

"Europa vicina alla Russia" A cosa servisse quel denaro, però, lo spiega proprio Savoini, registrato al Metropol. «È molto importante che in questo periodo storico e geopolitico l'Europa stia cambiando - dice - Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l'Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima, perché vogliamo avere la nostra sovranità (..) Vogliamo davvero iniziare ad avere una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia, ma non pro Russia per la Russia ma per i nostri paesi».

Savoini parla nella hall del grande albergo. Seduti con lui ci sono l'avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci, che avrebbero dovuto occuparsi degli aspetti tecnici di un'operazione naufragata dopo la pubblicazione degli articoli. I tre italiani sono indagati per corruzione internazionale. 

Dall'altro lato i tre russi Ilya Yakunin, Yury Burundukov, Andrey Kharchenko. Il filo diretto Lega-Cremlino Tutti e tre i russi sono vicinissimi alle stanze del potere di Mosca. Ilya Yakunin è legato all'avvocato e parlamentare Vladimir Pligin e al ministro dell'Energia Dmitry Kozak; Yury Burundukov è un fedelissimo dell'oligarca Konstantin Malofeev; Andrey Kharchenko è un ex agente dei servizi segreti russi, vicino - come Yakunin - a Aleksandr Dugin, il filosofo russo scampato a fine agosto a un attentato in cui ha perso la vita sua figlia. Di Dugin parla proprio Savoini al Metropol. «Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo - dice a Miranda - Solo noi tre.

Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi tre. 

Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro "lato politico", e tu - con me - siete i miei partner. Solo noi. Tu, Francesco e io. Nessun altro». 

Anche Salvini a Mosca Ma c'è di più. Poche ore prima della trattativa al Metropol, anche Matteo Salvini - in quel momento vicepremier e ministro degli Interni - è a Mosca. Al Lotte Plaza Hotel, nel centro della capitale russa, prende la parola al convegno di Confindustria Russia. «Io qua mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no», dice alla platea di imprenditori, diplomatici e politici russi. Tra di loro anche l'allora vicepremier e ministro dell'Energia russo Dmitry Kozak, che all'incontro con i tre italiani al Metropol aveva come suo uomo Yakunin. Dopo il convegno, è la sera prima della trattativa sul gas russo, Salvini e Kozak avrebbero avuto un incontro riservato nello studio di Pligin. Anche su questo i pm hanno indagato a lungo, convocando a Milano una giornalista russa, Irina Afonichkina, che sarebbe stata presente al vertice. 

I soldi per la campagna Il giorno dopo è Meranda che riassume i termini dell'accordo raggiunto coi russi. «L'idea, come concepita dai nostri ragazzi politici, è che con uno sconto del quattro per cento, 250.000 più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere (mandare avanti) una campagna». Poi uno dei russi fa riferimento a una «commissione» che potrebbe essere garantita ai tre italiani. «Perché no? - risponde Miranda - . Ma sai, finora non è una questione professionale, è solo una questione politica. Quindi noi non contiamo lui non conta di farci dei soldi. Contiamo di sostenere una campagna politica, che è di beneficio direi di reciproco vantaggio per i due Paesi».

Estratto dell’articolo di Stefano Vergine per “il Fatto quotidiano” il 16 settembre 2022. 

"Il governo americano ha detto che prevede l'arrivo da Mosca di altre centinaia di milioni di dollari nei prossimi mesi. Siccome il rapporto in questione […] non riguarda gli Stati Uniti e quindi sono escluse le elezioni di medio termine, mi chiedo: cos' altro succederà di importante nel mondo nei prossimi mesi se non le elezioni italiane?". 

Josh Rudolph […] è l'autore di uno studio che due anni fa anticipava il tema emerso con le recenti dichiarazioni della Casa Bianca. In passato è stato consigliere del governo Usa con Obama, Trump e Biden.

[…] I suoi calcoli su che tipo di informazioni si basano?

Sono basati su articoli di giornalismo investigativo pubblicati nei Paesi dove questi fatti sono accaduti. Li abbiamo analizzati, abbiamo valutato la credibilità dei media. Così abbiamo ricostruito 120 casi. 

Quindi questi 300 milioni non sono necessariamente arrivati a destinazione?

Per lo più i soldi sono arrivati, ma nel rapporto sono incluse anche vicende come quella della Lega e del Metropol, in cui non abbiamo prove che il denaro sia giunto a destinazione, anche perché la notizia è uscita sui giornali quando la trattativa era in corso. 

[…] Quali sono state le operazioni condotte in Italia?

Il caso più evidente è quello del Metropol Hotel. Dai miei calcoli il finanziamento promesso era di 130 milioni di dollari. Nel report ho incluso anche la notizia, riportata dalla testata spagnola Abc, di 3,5 milioni di dollari del Venezuela al M5S. 

Notizia smentita dall'ex capo dei servizi segreti venezuelani, poi uscito dal Paese. Ritiene affidabile il rapporto Usa?

È credibile: la mia ricerca è arrivata alla stessa conclusione.

Certo, gli anni presi in considerazione sono leggermente diversi: i calcoli dell'intelligence vanno dal 2014 al 2022, i miei dal 2010 al 2020, ma c'è da dire che il governo Usa ha accesso a documenti classificati.[…] 

DAGOREPORT il 16 settembre 2022.

E’ chiaro che non sia stato un caso il rapporto dell’intelligence statunitense che rivela i 300 milioni di finanziamenti russi a forze politiche in due dozzine di paesi, allo scopo di influenzare e interferire nei loro processi politici. Una bomba, per i nostri Salvini, a undici giorni dalle elezioni. 

In attesa che il segretario di Stato Antony Blinken, gran frequentatore dei salotti parigini (ha studiato in Francia) scodelli la lista, la caccia ai nomi beneficiati da Mosca, è cominciata.

Oltre ai putiniani risaputi come Marine Le Pen e Orban, da fonti autorevoli Dagospia apprende che il primo nome della lista è quello di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi, nati dalle ceneri dei neonazisti, con una solida alleanza con Fratelli d'Italia all'Europarlamento.

In mezzo c’è l’Italia, starring la Lega. A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla.

Sottolineano Giuliano Foschini e Tommaso Ciriaco oggi su “la Repubblica”: “Il nodo dei rapporti tra i russi e Matteo Salvini era stato sollevato pochi giorni fa su Repubblica da un'ex analista della Cia, Julia Friedlander, ai tempi di Trump consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europen and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale”.

"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente", afferma la Friedlander. E aggiunge: “Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shelf company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari".

Dagospia il 16 settembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo da Gianluca Savoini, in riferimento all’articolo

Quanto affermato  nell'articolo pubblicato sul sito internet di Dagospia il 14 settembre 2022 è privo di qualsivoglia fondamento. Il dott. Gianluca Savoini non ha infatti mai percepito alcun finanziamento da Mosca, né in proprio, né per conto della Lega". Resta inteso che il dott. Savoini si riserva comunque di agire in giudizio in ogni competente sede per i gravissimi danni reputazionali che ha subito e sta tuttora subendo in seguito alla pubblicazione oggetto di contestazione e alla permanenza online della stessa.

Prendiamo atto della rettifica che ci ha inviato Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, ma precisiamo altresì che non abbiamo mai scritto, né ci saremmo sognati di farlo, che ha “percepito” finanziamenti da Mosca. Semplicemente, come hanno scritto più volte molti altri organi di stampa, (per citarne solo alcuni, “l’Espresso”, “Domani”, “Repubblica”, “Stampa”), ci siamo limitati a riportare che è stato coinvolto nell’operazione Metropol. 

Ecco il passaggio “incriminato” del nostro Dagoreport: “A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla”. Dove avremmo scritto che ha percepito finanziamenti da Mosca?

Dagospia il 15 settembre 2021. LE TANTE VITE DEL GRILLINO MANLIO DI STEFANO – NEL 2016 VOLAVA IN RUSSIA PER BACIARE LA PANTOFOLA DI PUTIN SOSTENENDO CHE “L'UCRAINA FOSSE UNO STATO FANTOCCIO DEGLI USA” MA DOPO UN RUSSO RISVEGLIO L'EX PUTINIANISSIMO SOTTOSEGRETARIO DEGLI ESTERI ORA È DIVENTATO IL MIGLIORE AMICO DI BIDEN E RILANCIA LA PROPOSTA DI INSTITUIRE UNA COMMISIONE D’INCHIESTA CHE INDAGHI I RAPPORTI TRA RUSSIA E PARTITI ITALIANI (INIZIAMO DA LUI?) - MA IL WEB NON DIMENTICA IL SUO PASSATO E LO SPERNACCHIA

Manlio di Stefano per blogdellestelle.it (28 giugno 2016)

Ne ha parlato la stampa di tutto il mondo e, in Italia, solo il Corriere della Sera. Domenica ho avuto il piacere di rappresentare il M5S al congresso di Russia Unita, il partito di Putin. Erano presenti circa 40 delegazioni internazionali delle quali solo 10 hanno avuto parola, io sono stato il quarto in assoluto e l’unico italiano. Sinceramente ho apprezzato questo segnale. Noi, che ad oggi rappresentiamo solo una forza di opposizione, abbiamo avuto parola prima o al posto di vice presidenti di Parlamento e segretari di partiti di maggioranza.

Evidentemente in Russia hanno già capito che siamo prossimi al Governo se ci danno tutto questo peso e hanno apprezzato un lavoro onesto e sincero in questi due anni contro le sanzioni imposte dalla UE. Qualcuno pensava che fossi andato a inchinarmi ai piedi del potente di turno come hanno sempre fatto i nostri politici, oggi in USA domani in Russia dopo domani chissà, invece no, sono andato a ribadire che il nostro unico obiettivo è difendere gli interessi nazionali italiani.

Per farlo dobbiamo immediatamente bloccare le sanzioni alla Russia e intraprendere un dialogo sull’antiterrorismo. Credo abbiano apprezzato la fierezza e chiarezza con cui ho pronunciato la frase “noi non siamo né filo russi né filo statunitensi, siamo filo italiani” spiegando cosa significhi dover ristabilire una serie di relazioni, convenienti per l’Italia, interrotte per via della miope sudditanza a forze esterne.

Non ho potuto fare il video del mio intervento per questioni logistiche ma ho registrato l’audio e, in massima trasparenza, vi invito ad ascoltarlo. Una politica estera differente è possibile, puntare ad una vera sovranità è possibile, serve solo una classe politica degna e fiera. Noi lo siamo. Ed è solo questione di tempo…

Manlio di Stefano per ilblogdellestelle.it (12 gennaio 2017)

Bassezze e scorrettezze fanno parte della quotidianità politica nazionale e, in fondo, ogni Paese si piange le sue. Quando però la voglia di pestare i piedi al tuo successore mette a rischio la stabilità di altri popoli, allora occorre prestare attenzione. 

Mi riferisco, in particolare, al Presidente uscente Obama ed al suo patetico addio alla presidenza americana fatto di sgambetti a Trump di cui l’ultimo, però, rischia di essere molto pericoloso per l’Europa tutta.

87 carri armati, obici semoventi e 144 veicoli da combattimento Bradley sono stati scaricati pochi giorni fa nel porto tedesco di Bremerhaven e, nelle prossime settimane, si aggiungeranno oltre 3.500 truppe della 4° Divisione di Fanteria di Fort Carson, una brigata di aviazione da combattimento che “vanta” circa 10 Chinook, 50 elicotteri Black Hawk e 1.800 membri del personale da Fort Drum nonché un battaglione con 24 elicotteri d’attacco Apache e 400 membri del personale da Fort Bliss, tutti destinati all’Est Europa come riporta l’Independent.

Si tratta del più grande trasferimento di armamenti e truppe americane in Europa dalla caduta dell’Unione Sovietica.

L’obbiettivo? Militarizzare l’Europa orientale con lo scopo, dichiarato, di “sostenere un’operazione della NATO per scoraggiare l’aggressione russa“, la cosiddetta “Operazione Atlantic Resolve” nata dopo la crisi ucraina.

Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia si sentono “minacciate” dalla Russia e Obama che fa? Come un giocatore di Risiko preso dalla smania di conquistare la Kamchatka decide di sommergerci di carri armati. 

Sia chiaro, Obama dopo due mandati sa perfettamente che non sarà la Russia di Putin a fare il primo passo per destabilizzare ancora di più l’est Europa e i Paesi Baltici e allora, l’unica ragione plausibile, è la stessa che accompagna da settimane questa triste chiusura di sipario su Obama: minare la ripresa dei rapporti tra Stati Uniti d’America e Russia, destabilizzare i rapporti tra Trump e Putin.

Ci ha provato cacciando i 35 ambasciatori russi dagli USA, ci ha provato con la storia dello spionaggio russo contro la Clinton, ci ha provato con la gigantesca bufala del ricatto su Trump e le prostitute russe (generato dall’area mediatica e di intelligence sotto l’influenza dei democratici) e ci prova, adesso, portando la tensione militare alle stelle ai confini con la Russia.

Ad oggi Trump, fortunatamente, ha rassicurato gli animi e parlato di ottime relazioni con la Russia e di stupidità da parte di chi alimenta tensioni e odio e, sinceramente, aspettiamo con ansia il 20 Gennaio per capire se alle parole seguiranno i fatti.

Da tempo la NATO (tanto per non dire gli Stati Uniti?) sta giocando con le nostre vite. Vite che hanno già conosciuto due guerre mondiali e sanno cosa si provi ad essere un vaso di coccio tra due d’acciaio.

Il M5S si oppone da sempre a questa immonda strategia della tensione e chiede, con una proposta di legge in discussione alla Camera dei Deputati, che la partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica sia ridiscussa nei termini e sottoposta al giudizio degli italiani.

Il nostro territorio, le nostre basi, i nostri soldati (che saranno inviati in Est Europa) e la salute dei nostri connazionali non possono essere ostaggio di giochi di potere e degli umori del presidente americano di turno.

Rapporto intelligence Usa sui finanziamenti russi ai partiti europei, Urso: «Non c’è notizia dell’Italia». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 14 settembre 2022

Il Washington Post martedì ha rivelato che la Russia avrebbe segretamente finanziato per almeno 300 milioni di dollari partiti e candidati politici stranieri in più di due dozzine di paesi. La Lega ha dato «mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini». Fratelli d’Italia chiede la lista dei nomi

Il Whashington Post martedì ha rivelato che la Russia avrebbe segretamente finanziato per almeno 300 milioni di dollari partiti e candidati politici stranieri in più di due dozzine di paesi dal 2014 nel tentativo di influenzare la politica. Il quotidiano statunitense cita un documento dei servizi segreti commissionato quest’estate dall'amministrazione del presidente degli Stati uniti Joe Biden che spiega come Mosca abbia pianificato di spendere altre centinaia di milioni di dollari nella sua campagna segreta per indebolire i sistemi democratici e promuovere le forze politiche di tutto il mondo viste come allineate con gli interessi del Cremlino.

Il presidente del Copasir Adolfo Urso ha detto di essersi confrontato con i servizi italiani: «Mi sono confrontato con l'Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica Franco Gabrielli» sul rapporto «e al momento non esistono notizie che ci sia l'Italia» tra i paesi coinvolti. Palazzo Chigi non commenta, a quanto risulta a Domani non avrebbe ancora informazioni di dettaglio.

I NOMI

Un alto funzionario statunitense ha spiegato alla stampa che il governo ha deciso di declassificare alcuni dei risultati del file nel tentativo di contrastare le influenze del presidente russo Vladimir Putin nei sistemi politici nei paesi europei, Africa e altri.  Negli schemi di finanziamento sarebbero stati coinvolti i due oligarchi Yevgeniy Prigozhin e Aleksandr Babakov. Nessun nome di stati coinvolti e di politici è stato fatto, ma gli Usa hanno inviato il report al oltre cento delle loro ambasciate.

LEGA

Nel passato della Lega pesa il caso del Metropol, quando Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, come rivelato dall’Espresso nel 2019 trattò per un finanziamento da parte di Mosca attraverso una partita di gasolio da vendere alla compagnia italiana Eni.

Matteo Salvini si è a più riprese dimostrato amichevole con il Cremlino e negli anni passati, quando non ricopriva incarichi di governo, ha personalmente incontrato Vladimir Putin con la mediazione di Claudio D’Amico, oggi consigliere leghista a Sesto San Giovanni e in rapporti d’affari con Mosca.

L’ultimo capitolo che ha fatto discutere sono stati il mancato viaggio a Mosca che il leader della Lega stava organizzando a maggio con il consulente Antonio Capuano e gli incontri con l’ambasciatore russo Sergej Razov senza avvisare Palazzo Chigi. Di fronte a queste circostanze, dopo le rivelazioni di Washington il leader della Lega ha immediatamente minacciato querele: «L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente la Repubblica (il quotidiano) che per anni ha allegato la rivista “Russia Oggi”».

La Lega «ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta», recita una nota del partito divulgata mercoledì sera.

Il leader della Lega intervistato da Rtl dice di non aver ricevuto denaro: «Mai presi rubli, euro o altro». Da Mosca, ha detto, «ho portato solo una cosa di Masha e Orso per mia figlia».

FRATELLI D’ITALIA

«Ora il ritornello costante è che anche Fratelli d'Italia abbia ricevuto qualche aiuto», ha detto a Repubblica Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato col presidente Bush e inviato speciale per l'Ucraina con Trump: «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d'Italia da voi». Per il fondatore del partito di Giorgia Meloni Guido Crosetto ricevere soldi da Putin è «alto tradimento». Meloni a Radio 24 ha detto sui soldi che «penso che non risulterà, sono mesi che sentiamo dire cose e poi non c'è niente».

IL COPASIR

In questa situazione, il Pd torna a chiedere l’intervento del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che opera in Parlamento. Il segretario del Pd Enrico Letta lo ha sottolineato con un tweet: «Gli italiani devono sapere i nomi prima del voto».

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Giovanni Tizian per “Domani” il 15 settembre 2021.

Alle tre e mezza del pomeriggio del 13 settembre il quotidiano americano Washington Post pubblica la notizia destinata a provocare molte ore più tardi un terremoto nella politica italiana. Titolo: «La Russia ha speso milioni per finanziare partiti e politici stranieri in tutto il mondo». La fonte della notizia è un documento desecretato dall'amministrazione Biden e ormai solo classificato come "sensibile". 

I milioni di cui si parla sono circa 300. Un numero che ritorna in un report del 2020, letto da Domani, sui finanziamenti coperti messi sul piatto da Russia, Cina e paesi arabi, destinati all'Europa e al resto del mondo. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha inviato a oltre cento paesi il dossier, che sarebbe approdato anche presso alcuni governi europei. Quali? Non è dato saperlo. Chi sono i leader coinvolti? La risposta è la stessa, nessun nome, nessun riferimento concreto.

Almeno pubblicamente, perché un elenco esiste ma è stato consegnato ai paesi interessati. L'Italia per ora non è compresa, questo dicono da palazzo Chigi, salvo poi specificare: «Le segnalazioni da parte degli Stati Uniti non è detto che siano concluse e che sia escluso che possano arrivare entro venerdì poiché il lavoro dell'intelligence americana è ancora in corso e le segnalazioni per vie diplomatiche vengono fatte solo quando si ritiene certa l'azione russa».

Sulla stessa linea il Copasir, il comitato di sorveglianza parlamentare sull'attività dei nostri servizi segreti. «Nessuna notizia che riguarda l'Italia, ma le cose possono cambiare», ha dichiarato il presidente dell'organismo di controllo, Adolfo Urso. Il Copasir ha comunque convocato una riunione sul tema venerdì 16 settembre. Alla notizia sono seguite le reazioni dei leader nostrani, alcune scomposte non sono mancate a destra, dove si trovano i principali sospettati di vicinanza a Putin. 

La Lega in particolare, che ha gridato al complotto. Matteo Salvini ha definito «fake news» la faccenda e ha promesso querele contro chi osa accostare il nome Lega a finanziamenti occulti del Cremlino. Curiosa reazione, nel documento finora non è citato né lui né il suo partito.

Il leader leghista ha messo le mani avanti, perché sa bene che la storia recente dei suoi rapporti con Mosca non svanisce così all'improvviso. È certo che il suo partito sarà il primo sospettato. Sospetti, legittimati dai fatti accaduti in questi ultimi anni, che ricadono sul suo partito prima di altri per motivazioni concrete, per eventi documentati quando lui era da poco al governo con i Cinque stelle. 

Come i suoi fedelissimi beccati con le mani nella ciotola russa dei soldi destinati ai sovranisti europei. Fatti, appunto, per i quali Salvini non ha mai neppure denunciato i giornalisti autori dello scoop sul caso Metropol, l'hotel di Mosca dove il 18 ottobre si è tenuta la trattativa tra l'ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, e una banda di tre russi (tutti legati a oligarchi e politici vicini a Putin) durante la quale hanno negoziato un finanziamento alla Lega per sostenere la campagna elettorale delle europee 2019. 

Uno schema usuale

Finanziamento milionario mascherato con un'operazione di compravendita di milioni di tonnellate di gasolio. Schema che viene citato anche dall'intelligence americana come usuale nei metodi usati dalle truppe di Putin per elargire soldi agli amici politici della Russia in giro per il mondo. 

Questo schema del sostegno elettorale camuffato da scambio commerciale, emerso per la prima volta pubblicamente con il negoziato del Metropol, prevede l'utilizzo di società estere fittizie attraverso le quali far transitare la somma ufficiale e quella destinata allo scopo politico dell'operazione.

Quel 18 ottobre con Savoini si è parlato anche di questo aspetto. Un caso scuola potremmo definirlo, seppure la transazione non sia avvenuta. L'esperta di intelligence Julia Friedlander, in una recente intervista, cita le «shelf company» per un quali strumento per veicolare soldi russi verso gruppi politici dell'Unione. 

Si tratta di società cartiere, di comodo o dormienti, create in uno stato estero rispetto all'obiettivo da finanziare. Friedlander, alto funzionario di stato con Donald Trump, è stata analista della Cia, consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro, e dal 2017 al 2019 direttrice per l'Europa al consiglio per la sicurezza nazionale. Friedlander nel dialogo con La Repubblica ha parlato espressamente di Lega e Salvini, il quale sulla Russia «penso abbia un interesse politico personale... Ci sono connessioni ideologiche, ma anche obiettivi economici», ha detto.

Otto giorni dopo l'intervista, ecco la notizia sui milioni distribuiti dalla Russia a partiti e leader di tutto il mondo pubblicata dal Washington Post. E che in Italia ha avuto più eco rispetto ad altri paesi proprio perché tra una settimana si terrà il voto che deciderà il prossimo governo, con la destra unita data in netto vantaggio dai sondaggi. In questa coalizione c'è la Lega, la principale indiziata non da oggi ma dall'inizio dell'era Salvini (2013) di avere stretto con Mosca un rapporto che va oltre la condivisione di ideali comuni. 

Il manifesto del Metropol

Per capire il motivo di tanta attenzione internazionale sulle ingerenze russe in Italia è necessario partire ancora una volta dal Metropol e da Savoini seduto al tavolo con gli uomini vicini al presidente Putin. L'ex portavoce di Salvini è chiamato in Russia il consigliere di Matteo pur non ricoprendo già all'epoca ruoli ufficiali nel partito.

Savoini prima di entrare nel clou dei dettagli tecnici della trattativa ha pronunciato parole che diventano una sorta di manifesto politico dell'incontro segreto, fanno da cornice ideale allo scambio commerciale dietro il quale si celava un finanziamento reale: «La nuova Europa deve essere vicina alla Russia. Non dobbiamo più dipendere dalle decisioni di illuminati a Bruxelles o in Usa. Vogliamo cambiare l'Europa insieme ai nostri alleati come Heinz-Christian Strache in Austria, Alternative für Deutschland in Germania, la signora Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria, Sverigedemokraterna in Svezia».

Attenzione alle sigle dei partiti nominati: sono quasi tutti stati coinvolti in scandali con alla base fondi russi. Va ricordato, inoltre, che un anno prima (2017) La Lega aveva siglato un patto politico con il partito di Putin, Russia Unita. Accordo di collaborazione ancora in vigore. Nel discorso introduttivo, in pratica, l'uomo di Salvini garantisce ai russi che solo i sovranisti, di cui la Lega è in quel momento forza trainante in Europa, possono cambiare gli equilibri.

In altre parole destabilizzare l'Unione, secondo i desideri e le strategie del presidente Putin. Dopo aver presentato il manifesto sovranista-leghista, Savoini ha lasciato la parola ai tecnici italiani e russi seduti al tavolo del Metropol. Iniziava così la trattativa vera e propria, fatta di cifre e luoghi, sconti sul carburante e società estere tramite le quali far passare i soldi. 

Tre anni prima del Metropol, invece, è accaduto un fatto curioso. Come raccontato da Domani nei mesi scorsi, c'è stato uno strano giro di contanti, segnalato dall'antiriciclaggio italiano, che ha riguardato un alto funzionario dell'ambasciata russa nei giorni in cui Putin era in visita a Milano e ha incontrato il leader della Lega, accompagnato da Savoini. 

Si trattava di un prelievo in banca di 125mila euro, giustificato dal diplomatico russo con la necessità di soddisfare le esigenze della delegazione in arrivo da Mosca per il vertice nel capoluogo lombardo il 17 ottobre 2014. Quel giorno Salvini ha incontrato Vladimir Putin. Un saluto rapido, un caffè al volo dopo un importante convention sull'Eurasia. 

Forse il primo incontro tra il capo della Lega e il presidente della federazione russa. È interessante il nome del funzionario dell'ambasciata che ha ritirato i contanti per la delegazione russa: Oleg Kostyukov. Lo stesso che in questi mesi ha curato le relazioni con Matteo Salvini e il suo consulente improvvisato, Antonio Capuano, l'avvocato di Frattaminore (Napoli), che ha accompagnato il capo leghista durante gli incontri segreti con l'ambasciatore di Putin a Roma per parlare del piano di pace in salsa sovranista. 

Marine e Vladimir

È interessante da analizzare il periodo in cui i russi sostengono, o tentano di farlo, i sovranisti europei. Savoini organizza decine di incontri prima del Metropol a partire dal maggio precedente con un oligarca di nome Konstantin Malofeev, rappresentato da un suo emissario al tavolo dell'hotel moscovita e artefice di alleanze tra Cremlino e destre europee. In quel periodo la Lega aveva fatto il pieno di voti, aveva il vento in poppa, si apprestava ad andare al governo dell'Italia. 

Era di fatto il primo partito dichiaratamente sovranista al governo di un paese fondatore dell'Unione Europea. Il più importante e forte nel 2018. Quattro anni prima lo scenario era decisamente diverso. La Lega era una forza residuale, Salvini era diventato segretario da un anno e la metamorfosi sovranista era appena cominciata. All'epoca all'apice dell'ascesa c'era Marine Le Pen con il Front national, che stava riorganizzandosi in vista delle elezioni del 2017 con sondaggi molto favorevoli sopra il 30 per cento.

Perciò al tempo se il Cremlino doveva sostenere un partito anti europeista con buone possibilità di vittoria, questo era sicuramente il Front national. A fine novembre 2014 la testata francese Mediapart pubblica lo scoop sul prestito da 9 milioni di euro dato al Front national dalla First Czech Russian Bank. Le Pen si era giustificata seguendo il protocollo caro ai sovranisti, il vittimismo: «Nessuna banca francese ce lo avrebbe concesso».

Aggiungendo che il denaro non ha influenzato le sue posizioni politiche. Di certo in Europa Le Pen, insieme a Salvini, la più strenua paladina della Russia e di Putin. La banca aveva accordato il finanziamento dopo l'inizio delle ostilità in Ucraina e nello stesso periodo Le Pen aveva annunciato di riconoscere il referendum sull'annessione russa della Crimea. 

Anche in questo caso, come per l'affare Metropol, non si trattava di spedire borse zeppe di contanti o portare fuori dalle ambasciate buste farcite di rubli. Il sostegno è mascherato da un'operazione finanziaria con tutti i crismi della legalità. A fornire indizi di opacità però è il nome stesso della banca: di proprietà di una società di costruzioni russa, a sua volta controllata da società riconducibile a Gennady Timchenko, amico stretto di Putin e da tempo sotto sanzioni per la guerra in Ucraina.

«Questa banca è un noto ufficio di riciclaggio di denaro di Putin» aveva scritto Aleksej Navalny, l'oppositore più noto del presidente. La banca ha chiuso i battenti nel 2016 ed è stata rilevata da una società di ex militari russi, pure questa colpita da sanzioni. L'accordo per la restituzione del debito aveva fissato il 2019 come data ultima. Alla fine si sono accordati per il 2028 con una ristrutturazione rivelata dal Wall street journal ad aprile 2022, nei giorni caldi delle ultime presidenziali francesi.

Non vanno dimenticati, poi, i 2 milioni di euro ricevuti nel 2014 dall'associazione di raccolta fondi di Jean Marie Le Pen (padre di Marine) sostenitrice del Front national. Il denaro era partito da una società di Cipro connessa a un banca del Cremlino. A favorire l'operazione sarebbe stato l'oligarca Malofeev, ancora lui, l'amico di Savoini e della Lega. Germania russa In Germania Putin ha puntato tutto sui sovranisti di Alternative für Deutschland (Afd). 

Negli anni ci sono state tracce di relazioni politiche e finanziarie tra gli uomini del Cremlino e il gruppi di estrema destra tedesco. I casi più eclatanti sono certamente due: nel 2017 a tre leader di Afd è stato pagato un volo per Mosca su un jet privato da un donatore russo; nel 2019, invece, la Bbc ha pubblicato alcuni documenti in cui emergeva il sostegno del Cremlino a Markus Frohnmaier, membro del parlamento tedesco di Afd, «avremo il nostro parlamentare assolutamente controllato nel Bundestag».

Una frase contenuta in uno scambio di mail tra un ex ufficiale del controspionaggio navale ed ex membro della camera alta del parlamento russo, e un alto funzionario dell'amministrazione del presidente Putin. 

Il trappolone di Ibiza

Di tutt' altra fattura è il caso Ibizagate che ha coinvolto Heinz Christian Strache, l'ex leader della Fpoe, la destra radicale e sovranista austriaca. 

Anche loro citati da Savoini nel discorso del Metropol. Lo scandalo austriaco ha provocato la caduta del governo, è considerato tuttavia una trappola tesa a Strache, ripreso in un video sull'isola spagnola mentre prometteva appalti a una donna, che recitava la parte di figlia di oligarca, in cambio di soldi per sostenere la campagna elettorale. I video sono stati pubblicati da Der Spiegel e Suddeutsche Zeitung.

E seppure l'incontro sia stato costruito ad arte, il caso Strache evidenzia la sensibilità sovranista alle sirene russe. Il report del 2020 Il report non più segreto rivelato dal dipartimento di stato americano ricorda in molti passaggi un dossier dettagliato pubblicato nell'agosto 2020 dal think tank americano "The Alliance for Securing Democracy". 

Nel consiglio consultivo troviamo pezzi grossi un tempo ai vertici dell'intelligence statunitense: Da Rick Ledgett, già vice direttore della National Security Agency, a Michael Morell, ex direttore ad interim della Cia tra il 2011 e il 2013. Il report rilasciato due anni fa si intitola Covert foreign money ed è un viaggio nelle ingerenze russe, cinesi e arabe che hanno come obiettivi l'Europa e il resto del mondo. I casi citati sono numerosissimi: da Le Pen al Metropol della Lega fino al caso tedesco.

Ma c'è molto altro: si parla dell'estrema destra svedese, citando casi concreti, della Polonia, della Nuova Zelanda, dell'Australia. Gli analisti spiegano i vari metodi per celare i finanziamenti. E sono quelli scoperti con i casi Le Pen e Metropol. Oppure l'utilizzo di associazioni, fondazioni, onlus. «Oltre a strumenti più ampiamente studiati come attacchi informatici e disinformazione, regimi autoritari come Russia e Cina hanno speso più di 300 milioni di dollari per interferire nei processi democratici più di 100 volte in 33 paesi nel scorso decennio», è l'incipit del report 2020, che prosegue: «Chiamiamo questo strumento di interferenza straniera "finanza maligna", definita come il finanziamento di partiti politici stranieri, candidati, campagne elettorali, élite ben collegate o gruppi politicamente influenti». La cifra e i meccanismi citati da "The Alliance for Securing Democracy" sono identici a quelli emersi in questi giorni dopo la pubblicazione del documento desecretato dal dipartimento di stato sulle interferenze russe nel mondo. L'ennesima conferma, se mai dovesse servire.

Da globalist.it il 15 settembre 2021.

«L’intelligence americana quando ci racconterà quanto spende per i politici italiani?». È il commento all’AGI della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, alla notizia del rapporto degli 007 Usa secondo cui, dal 2014 a oggi, la Russia ha versato oltre 300 milioni di dollari a movimenti politici e candidati in diversi Paesi del mondo, per accrescere la propria influenza. 

“Non dobbiamo perdere di vista il modo in cui gli autocrati stranieri prendono di mira i nostri stessi Paesi. Le entità straniere sono istituti di finanziamento che minano i nostri valori. La loro disinformazione si sta diffondendo da internet nelle aule delle nostre università” ha dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Abbiamo introdotto una legislazione per controllare gli investimenti diretti esteri nelle nostre aziende per problemi di sicurezza.

Se lo facciamo per la nostra economia, non dovremmo fare lo stesso per i nostri valori? Dobbiamo proteggerci meglio dalle interferenze maligne. Questo è il motivo per cui presenteremo un pacchetto di Difesa della Democrazia. Porterà alla luce l’influenza straniera nascosta e finanziamenti loschi. Non permetteremo ai cavalli di Troia di nessuna autocrazia di attaccare le nostre democrazie dall’interno”, ha aggiunto nel suo discorso sullo stato dell’Unione.

DAGOREPORT il 14 settembre 2022.  

E’ chiaro che non sia stato un caso il rapporto dell’intelligence statunitense che rivela i 300 milioni di finanziamenti russi a forze politiche in due dozzine di paesi, allo scopo di influenzare e interferire nei loro processi politici. Una bomba, per i nostri Salvini, a undici giorni dalle elezioni. 

In attesa che il segretario di Stato Antony Blinken, gran frequentatore dei salotti parigini (ha studiato in Francia) scodelli la lista, la caccia ai nomi beneficiati da Mosca, è cominciata. 

Oltre ai putiniani risaputi come Marine Le Pen e Orban, da fonti autorevoli Dagospia apprende che il primo nome della lista è quello di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi, nati dalle ceneri dei neonazisti, con una solida alleanza con Fratelli d'Italia all'Europarlamento.

In mezzo c’è l’Italia, starring la Lega. A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla.

Sottolineano Giuliano Foschini e Tommaso Ciriaco oggi su “la Repubblica”: “Il nodo dei rapporti tra i russi e Matteo Salvini era stato sollevato pochi giorni fa su Repubblica da un'ex analista della Cia, Julia Friedlander, ai tempi di Trump consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europen and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale”.

"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente", afferma la Friedlander. E aggiunge: “Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shell company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari".

Soldi russi, in Italia quante "excusatio non petita". GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 15 Settembre 2022.

In quali tasche è finito l’oro di Mosca? Secondo l’intelligence Usa sono venti i partiti finora accertati (in Europa, in Africa, in Asia) che ricevono un finanziamento dal Cremlino allo scopo di portare avanti nei rispettivi Paesi una linea politica favorevole alla Russia. In Italia, sui soldi russi, sono piovute le smentite a titolo di excusatio non petita. Giacchè, a quanto si conosce in merito ai documenti messi in circolazione dagli 007 americani, non sono stati resi noti i nomi dei partiti interessati, né quello dei loro leader.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno annunciato querele nei confronti di chiunque li chiamasse in causa. Il che è singolare, dal momento che nessuno l’aveva ancora fatto. Addirittura Guido Crosetto, il ‘’gigante buono’’ di FdI, si è spinto fino a chiedere «i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento».

Sul versante del centrosinistra, la notizia viene commentata con il fair play del gatto che è in procinto di avventarsi sul topo. Anche se per ora i dirigenti si limitano a chiedere la pubblicazione dei documenti.

SOLDI RUSSI E ITALIA, L’AVVISO DI URSO

Adolfo Urso, il deus ex machina del Copasir, mantiene una condotta corretta sul piano istituzionale, riservandosi di approfondire la questione con il sottosegretario Franco Gabrielli (il quale esclude la presenza di partiti italiani). Nello stesso tempo, però, il presidente del Copasir rilascia in tv delle dichiarazioni inquietanti.

«L’ingerenza straniera esiste – ha detto Urso – Cina e Russia cercano di delegittimare e sottomettere la nostra democrazia, ma noi dobbiamo garantire una campagna elettorale serena».

«Noi dovremmo contrastare il gioco di Russia e Cina che vogliono far credere che il voto nei nostri Paesi conti nulla, che loro sono in grado di condizionarlo», ha insistito Urso, spiegando poi che chiederà conto delle rivelazioni degli 007 Usa anche negli incontri che ha in programma a Washington, dove tra l’altro incontrerà il presidente della Commissione Intelligence del Congresso. Vedremo, allora, nei prossimi giorni, man mano che si avvicina il 25 settembre, se verranno rese note, in maniera attendibile, altre informazioni.

Senza mettere troppo le mani avanti, sembra comunque pacifico che i finanziamenti – ammesso e non concesso che abbiano viaggiato in percorsi bancari oscuri e coperti o attraverso le classiche valigette diplomatiche – anche per la loro consistenza non siano finiti ai partiti della Repubblica del Titano o ad Andorra o in qualche piccolo Stato di analoghe dimensioni.

SOLDI RUSSI IN ITALIA? LE CONSEGUENZE SUL VOTO

Ma se si scoprisse che alcuni partiti italiani hanno messo le mani nell’insalata russa, si potrebbero ipotizzare conseguenze sul voto, tanto da cambiarne l’esito? La risposta che ci sentiamo di dare è negativa. L’opinione pubblica è molto preoccupata per i costi dell’energia (che rappresentano gran parte della vita quotidiana delle loro famiglie).

I media – al solito – danno spazio alle peggiori notizie: nessuno è informato del ristoro, sia pur modesto, determinato dallo stanziamento, in circa un anno e al netto dell’ultimo decreto Aiuti, di una cinquantina di miliardi da parte del governo. Nella prospettiva di un avvenire prossimo molto cupo (anche per l’erosione dei redditi provocato dall’inflazione) è facile abboccare all’amo delle narrazioni populiste: perché fare tanti sacrifici quando basterebbe presentarsi da Putin con il cappello in mano? Se questa potrebbe essere la soluzione dei nostri problemi, perché prendersela con i partiti che, grazie ai loro rapporti con il Cremlino, sarebbero in grado di liberarci dagli incubi del razionamento?

Io mi sono convinto che noi, e in generale l’Occidente, abbiamo un debito di riconoscenza immenso nei confronti dell’Ucraina. La resistenza eroica di quel popolo ci ha salvato tante volte. Se l’operazione militare speciale russa fosse andata a buon fine, l’Occidente ne avrebbe preso atto, come aveva già fatto dopo le aggressioni nei confronti della Georgia e della Crimea.

Ma la lotta di un popolo ha risvegliato quel po’ di etica sopravvissuta al cinismo e all’opportunismo. Anche perché – e del resto Putin non lo ha mai negato – la crisi sarebbe andata ben oltre l’invasione dell’Ucraina. Come hanno capito subito le repubbliche baltiche, la Svezia e la Finlandia, la stessa Polonia, la Bulgaria e le altre nazioni confinanti con la Federazione russa.

L’UCRAINA CI HA SVEGLIATI

Un altro motivo di gratitudine sta nell’esserci resi conto, in conseguenza del conflitto, della dabbenaggine che ci aveva portati, in un tempo relativamente breve, a dipendere dalla Russia anche per fare la doccia.

Infine, i successi sul campo di battaglia dell’esercito ucraino possono condurre a uno scenario imprevisto. Un scenario in cui venga tolto di mezzo o almeno ridimensionato non tanto il problema della crisi energetica, ma l’autocrate che l’ha creata per motivi politici, perseguendo un disegno imperialista. Si direbbe, quasi, che gli ucraini abbiano fretta di mettersi al sicuro con i mezzi di cui dispongono proprio perché non si fidano della nostra fermezza.

L’esito delle votazioni in Svezia (neofita della Nato) manda un segnale sinistro. Biden ha i suoi guai interni e internazionali con la Cina. Macron è un’anitra azzoppata. In Italia, ormai, le nostre speranze per una politica internazionale coerente sono affidate (sic!) a Giorgia Meloni, perché Salvini e il Cav continuano a essere amici del giaguaro.

"Da Mosca 300 milioni a politici e partiti esteri". Gli 007 Usa: dal 2014 fondi per accrescere la propria influenza. "Informeremo i governi". Marco Liconti il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

La «bomba» è arrivata inattesa, al pari dell'offensiva lanciata dalle forze ucraine contro gli invasori russi. E potrebbe avere gli stessi imprevedibili effetti. A partire dal 2014, Mosca ha finanziato partiti politici, singoli candidati, funzionari e think tank stranieri con oltre 300 milioni di dollari in una ventina di Paesi. La fonte non è un anonimo funzionario di intelligence, ma il dipartimento di Stato degli Stati Uniti. La firma in calce al «cablo» riservato e inviato alle ambasciate Usa è quella del segretario di Stato, Antony Blinken. L'«investimento» di Mosca per garantirsi un atteggiamento benevolo da parte di forze politiche, intellettuali e perfino aziende di Stato, copre ogni latitudine: dall'Europa, all'America Centrale, dall'Asia, al Medioriente, al Nordafrica.

Nel documento del dipartimento di Stato non si fanno nomi, né di Paesi specifici, di personalità coinvolte, ma la tempistica, per quanto vasta sia la portata dell'operazione russa, non può non far pensare alla data fatidica del 25 settembre e alle tante polemiche che, dall'inizio dell'invasione russa, hanno visto al centro proprio l'Italia e la presunta «Quinta Colonna» filorussa che agirebbe all'interno di partiti politici, istituzioni, redazioni giornalistiche. A rafforzare il ragionamento, il fatto che Washington fa sapere che «informazioni classificate» verranno fornite a una serie di «Paesi selezionati». Non solo, secondo fonti del Giornale, i nomi dei partiti e delle personalità coinvolte potrebbero essere resi noti la prossima settimana, attraverso il consueto canale dei «leak» alla stampa, praticamente alla vigilia del voto italiano.

Nel «cablo» firmato da Blinken sono contenute anche una serie di istruzioni, «talkin points», secondo il linguaggio del dipartimento di Stato, per i diplomatici Usa impegnati nei Paesi in oggetto: in pratica, le questioni da sollevare con gli interlocutori stranieri a livello governativo, per esprimere la preoccupazione di Washington e minacciare con «sanzioni» e perfino «rivelazioni ai media» chi non prenderà provvedimenti per arginare e fermare i tentativi russi di influenzare la politica di questi Paesi. Il contesto nel quale è stato reso noto il documento ha per gli Usa un risvolto interno. Si tratta del lungo lavoro compiuto dall'intelligence statunitense per svelare i tentativi russi di influenzare le elezioni presidenziali del 2016 e del 2020, fino alle anticipazioni della Cia sull'intenzione di Mosca di invadere l'Ucraina, al tempo ampiamente inascoltate. Ma è chiaro che l'obiettivo della bomba sganciata dal dipartimento di Stato è soprattutto al di là dei confini nazionali. Putin ha speso ingenti risorse «nel tentativo di manipolare le democrazie dall'interno», riferisce un alto funzionario dell'Amministrazione, che ha chiesto di rimanere anonimo per la delicatezza delle questioni trattate.

Nel cablo firmato da Blinken e fatto trapelare ai media, classificato come «sensibile», gli 007 Usa affermano di ritenere che la Russia aveva piani per trasferire «almeno altre centinaia di milioni» in giro per il mondo a partiti politici e funzionari «amici». Non è chiaro come l'intelligence sia arrivata alla cifra, finora dichiarata, di 300 milioni di dollari spesi da Mosca per penetrare all'interno di governi e democrazie straniere. «Stiamo promuovendo una collaborazione con i nostri pari democratici. Ci scambieremo quanto abbiamo imparato, tutto per il bene della sicurezza collettiva dei nostri processi elettorali», afferma l'alto funzionario dell'Amministrazione. Ora, non resta che aspettare la prossima bomba.

Francesco Curridori per “il Giornale” il 15 settembre 2021.

«Noi ci meravigliamo perché siamo dei provinciali, ma la politica estera si fa non solo con le armi, ma con i soldi, con i trattati commerciali e, persino, col sostegno ad alcuni partiti politici». Il generale Carlo Jean, esperto di strategia militare e di geopolitica, commenta così la notizia arrivata da Washington sui finanziamenti di Putin destinati ad alcuni partiti occidentali per accrescerne l'orientamento filo-russo. 

Generale, ma, quindi, non la stupisce minimamente questa rivelazione?

«Mi stupisce il fatto che i fondi segnalati siano troppo ridotti perché 300 milioni di dollari dal 14 ad oggi sono niente». 

Niente?

«Sì, niente rispetto a quello che le grandi potenze usano per sostenere le proprie ragioni attraverso la disinformazione oppure attraverso i finanziamenti ai partiti, agli uomini politici e ai giornali o social network».

Perché oggi sembra più facile scoprire determinanti flussi di denaro?

«Il controllo dei flussi finanziari è cominciato ad essere più stretto quando è stato esteso al finanziamento del terrorismo di Al Qaeda o Isis che funziona con quantità di denaro molto ridotte e, perciò, deve essere molto capillare. Verosimilmente, le grandi potenze o medie come l'Italia hanno degli infiltrati nel sistema finanziario che informano i servizi segreti su quel che sta capitando. Queste, però, sono notizie che generalmente rimangono solo all'attenzione dei governi». 

Passiamo alla guerra. Gli ucraini stanno vincendo?

«Gli ucraini hanno avuto un grande successo. La situazione in Ucraina sul fronte Est e sul fronte Sud sta volgendo a favore degli ucraini, ma vittoria è una parola grossa. Il 20% del territorio è in mano ai russi e quello riconquistato dagli ucraini è il 3-4%». 

Com' è stata possibile questa rimonta?

«I russi hanno creduto che lo sforzo principale degli ucraini sarebbe stato verso Kherson, ma, in realtà, una gran quantità di forze di Kiev erano dirette in segreto verso Kharkiv. I russi non se ne sono accorti e sono stati travolti. Il successo tattico degli ucraini è merito degli Himars, i lanciarazzi multipli usati non più per colpire la controbatteria, ma contro le forze avanzate russe che sono dovute scappare. È stata una Caporetto». 

Quali sono gli errori della Russia?

«L'errore strategico è stato invadere un Paese di 600mila km e 44 milioni di abitanti con 200mila uomini e una scarsissima fanteria, pensando che gli ucraini non avrebbero combattuto. I primi successi, invece, hanno rafforzato il morale delle forze ucraine consentendo a Zelensky di ordinare la mobilitazione generale». 

Ma sono stati utili anche gli aiuti militari dell'Occidente?

«Sono stati determinanti. Ora, l'Occidente ha un dilemma: intensificare questi aiuti, col rischio che Putin ricorra alle armi nucleari, oppure avanzare con una guerra di logoramento, consapevole che il capo del Cremlino non può ordinare la mobilitazione generale». 

Perché non può farlo?

«La Russia di oggi è diversa da quella contadina in cui le famiglie avevano 8 figli: due morivano per la patria e gli altri lavoravano la terra. Putin non chiama la mobilitazione generale per tenere buona l'opinione pubblica».

"I comunisti hanno preso soldi dalla Russia". Ora Salvini minaccia querele. Il pensiero di Matteo Salvini si discosta da quello di Giorgia Meloni, che tiene la barra sull'impostazione di Mario Draghi e dice no allo scostamento. Francesca Galici il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Sfilata di politici a Cartabianca, dove da Bianca Berlinguer si sono presentati, uno dietro l'altro, Enrico Letta, Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Matteo Salvini ha esordito replicando a Enrico Letta sulle accuse mosse dal segretario del Partito democratico e ha rilanciato: "Gli unici che hanno preso soldi in passato dalla Russia sono i comunisti e qualche quotidiano come Repubblica. Io non ho mai chiesto né preso soldi. Dicano nomi e cognomi. Ha pagato il Pd? Se la Russia ha pagato il Pd è giusto che si sappia".

Il segretario della Lega ha rimarcato: "L'unico Paese straniero che nella mia attività politica mi offri un viaggio pagato e spesato all'estero furono gli Stati Uniti. Io non ci andai. Altri ci andarono, liberi di farlo". Durante la giornata, è arrivata anche una nota della Lega: "Ennesime insinuazioni, zeppe di dubbi e condizionali, contro la Lega e Matteo Salvini che si difenderanno in ogni sede opportuna contro le parole di Julia Friedlander e il quotidiano che le ha pubblicate". Quindi, nella nota si aggiunge: "A differenza del gruppo editoriale che per anni ha diffuso in allegato 'Russia Oggi', la Lega non ha ricevuto finanziamenti da Mosca".

Matteo Salvini è ritornato anche sul tema dello scostamento di bilancio, della necessità di mettere 30 miliardi per supportare le famiglie e le imprese in questo momento così particolare: "La Lega chiede di mettere 30 miliardi a debito, che è debito buono perché salva posti di lavoro". Una mossa che non è condivisa "dall'amica Giorgia", che si trova in linea con la decisione di Mario Draghi non procedere in questo senso. "Gli altri governi europei sono intervenuti, anche il nostro dovrebbe farlo per aiutare famiglie e lavoratori. Questa è un'altra forma di Covid, non riempie gli ospedali ma svuota le fabbriche. È un errore parlarne più avanti", ha dichiarato il segretario della Lega, sottolineando come ci siano importanti differenze in questo senso con Giorgia Meloni, sebbene i due alleati, come più volte sottolineato, vadano d'accordo su quasi tutti i punti condivisi del programma di centrodestra. "Meloni sbaglia, l'emergenza di questo momento non è il presidenzialismo, ma le bollette", ha rimarcato il segretario della Lega.

Salvini, quindi, ha aggiunto: "La riforma pensioni è da fare tra sei mesi ed è già calibrata, poi ci sono la riforma della giustizia, il presidenzialismo, l'autonomia, tutte cose che faremo una volta al Governo. Ma il problema di domani mattina non è il fascismo o la Russia, ma che è arrivata una bolletta che non puoi pagare". Ed è un provvedimento che deve prendere il governo in carica, senza aspettare quello nuovo: "C'è un governo in carica, ha trovato 13 miliardi per aiutare alcune famiglie, non sono sufficienti. Il governo italiano in carica deve intervenire, sbagliano sia Letta che Meloni: l'amica Giorgia dice che non è il momento di aiutare milioni di italiani? Allora è un errore".

Fondi russi, il Copasir: "Nessun partito italiano". Lorenzo Vita il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il presidente del Copasir afferma di avere parlato con Franco Gabrielli e di non avere avuto indicazioni di fondi russi a favore di partiti o personalità italiane nel dossier presentato dall'intelligence Usa.

"Al momento non esistono notizie che riguardano il nostro Paese in questo dossier". Le parole del presidente del Copasir, Adolfo Urso, colpiscono come un macigno le accuse nei confronti di alcuni partiti italiani accusati di essere legati a doppio filo a Mosca.

Il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, parlando alla trasmissione "Agorà" in onda su Rai 3 del dossier statunitense riguardante i finanziamenti dati dalla Russia a esponenti politici e partiti dal 2014, ha mandato un messaggio molto chiaro: "Mi sono confrontato con il sottosegretario con delega ai servizi segreti, Franco Gabrielli" e "al momento al governo è stato escluso che l'Italia compaia in questo dossier". Dichiarazioni che dunque confermerebbero che al momento le accuse nei confronti di partiti italiani risulterebbero frutto di altre ipotesi non affatto collegate alle inchieste dei servizi segreti statunitensi.

In ogni caso, il Copasir vuole vederci chiaro, ed è lo stesso Urso ad affermare che il Comitato si riunirà nei prossimi giorni, probabilmente venerdì, per discutere del dossier di Washington riguardo i 300 milioni di dollari utilizzati da Mosca per finanziare partiti in varie parti del mondo. "Il Comitato si riunirà con l'audizione di Gabrielli e in quella sede verificheremo, se le avremo, altre notizie in merito", ha detto il presidente del Copasir. Ieri i media americani avevano parlato di questo dossier senza che però trapelasse alcuna informazione riguardo i Paesi coinvolti. Come riportato dalla Cnn, un alto funzionario dell'amministrazione Biden ha detto che la Russia avrebbe utilizzato questi soldi in tutti i continenti, coinvolgendo più di venti Paesi. "La comunità dell'intelligence statunitense sta informando in via riservata i Paesi individuati" ha detto il funzionario ai giornalisti, "manteniamo riservati questi briefing data la sensibilità dei dati e per consentire a questi paesi di migliorare la loro integrità elettorale in privato".

Le parole di Urso rispondono anche alle accuse rivolte dall'ex ambasciatore Usa alla Nato, Kurt Volker, che in un'intervista a Repubblica sottolinea come i partiti del centrodestra, in particolare ora Fratelli d'Italia, sarebbero affini alla Russia al punto da essere oggetto di un presunto finanziamento e supporto esterno. "Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d'Italia da voi", queste alcune delle frasi di Volker, abbastanza sorprendenti dal momento che quanto detto dall'ex inviato di Donald Trump in Ucraina non appaiono verificate.

Accuse che sono state rispedite al mittente da parte della stessa leader di Fdi, Giorgia Meloni, che a Radio 24 ha annunciato di voler querelare Repubblica e l'ex ambasciatore per quanto detto sui finanziamenti nei confronti del suo partito. "Sono tutte verificabili le nostre forme di finanziamento. Sono certa che Fratelli d'Italia non prende soldi da stranieri", ha detto Meloni, "Repubblica e Volker ci portino le prove. Siccome non ci sono penso che la querela sia inevitabile".

Fondi russi, Paolo Guzzanti: "Quel dossier è una vera patacca". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022

Giorgia Meloni pagata dai comunisti, Matteo Salvini ingoiato dal Kgb e finito nel grande ventre del Cremlino. Fantastico. Questo è John Le Carré prigioniero di una pochade. C’è qualcosa di nuovo, anzi d'antico, c'è un retrogusto da propaganda elettorale nella doppia rivelazione americana che i russi abbiano foraggiato «300 paesi» (fatta dal segretario di Stato dem Antony Blinken); e che lo stesso Putin abbia finanziato Fratelli d'Italia e Lega (pubblicata da Repubblica organo dem, che riporta un commento di Kurt Volker ex ambasciatore americano alla Nato). Sono due dichiarazioni che non c'entrano un piffero tra loro, l'una avulsa dal contesto dell'altra. Eppure stanno diventando materia infiammabile.

Caro Paolo Guzzanti, da cronista, ex senatore, ex presidente della Commissione Mitrokhin, tra i massimi esperti di cose russe: che succede?

«Mi suona tutto molto strano, che Blinken spari una dichiarazione pubblicamente e priva di corredo probatorio (un generico "fonti d'intelligence"), be' è contrario alle procedure. Se un governo amico vuole avvertirti di qualcosa, di solito si parlano i capi di Stato, o comunque si va per via diplomatica. C'è una sciatteria sospetta. E, tra l'altro la Russia, storicamente, da noi non ha neanche bisogno di corrompere».

Nel senso che siamo, di natura, moralemente fragili?

«Guarda, io mi ricordo che Kolosov, capo della Presidentura di Roma mi diceva che "da noi c'è sempre stata la fila di chi voleva collaborare." Ne arruolavamo parecchi, di solito evitavamo i comunisti per un accordo col Pci che prevedeva di tenerli fuori; ma c'erano i Dc, i socialisti. Un comportamento pro-russo, qui è assolutamente naturale. Ma li vedi anche tu quando vanno in televisione, no?».

Cioè allora ha ragione Blinken: i comunisti vivono tra noi e nessuno ci ha avvertito?

«Dai, li vedi. Sono quelli che iniziano con "premetto che c'è un paese aggressore e uno aggredito", però poi sbracano nel filoputinismo.

Quelli che - giornalisti, politici, imprenditori - "le sanzioni alla Russia fanno più male a noi", e quindi forse è meglio lasciargli invadere la Georgia e la Crimea. Che tra l'altro, dal punto di vista meramente degli affari, era pure comprensibile».

Vabbè, stiamo divagando. Torniamo alle due dichiarazioni, rigorosamente separate. Quella di Blinken c'entra con le elezioni?

«C'entra di sicuro. Ma, se ben guardiamo, quali sono le fonti ufficiali americane della notizia? Esistono davvero? E di cosa si tratta? Di un documento certificato, di un rapporto della Cia, di un "me l'ha detto mi cuggino", o di una semplice illazione?».

Be' Blinken non sarà mica il primo cazzaro che passa, no?

«Mi pare che, nello specifico di questo fantomatico rapporto, siano indicati un pugno di paesuncoli di Asia e Africa. L'Italia, a quanto dice anche il Copasir, non è neanche citata. Cioè: non c'è nulla di ufficiale da Washington, anzi...».

Poi c'è l'intervista a Volker di Repubblica. Tra le tante cose, sono credibili i finanziamenti a Fratelli d'Italia?

«Ma è tutto illogico politicamente. La Meloni, gli Stati Uniti, in questo momento se la stanno coccolando, le danno spazio, e non tanto perché gli è simpatica, ma perché è quella che probabilmente vincerà le elezioni nel rispetto delle regole democratiche. Lei è atlantista nei fatti e nelle parole e soprattutto non mi ricordo sue sospette simpatie comuniste, neppure in gioventù...».

L'ex ambasciatore Terzi di Sant' Agata, canditato per FdI, ha scritto, all'ex collega Volker: «Vorrei quindi pregarti di chiarirmi su quali fatti e circostanze concrete si basino le insinuazioni riportate da La Repubblica, se effettivamente corrispondono alle tue parole». Gli è partito l'embolo...

«Terzi ha ragione a incazzarsi. Ma poi, 'sto Volkov, ripeto: per conto di chi parla. Coinvolgere, proprio in questo momento, Lega e Fratelli d'Italia sui finanziamenti russi senza riscontri, mi pare perfino sciocco. Finora abbiamo solo Repubblica che mette in bocca a un ex ambasciatore delle dichiarazioni contro il centrodestra, senza che l'ex ambasciatore lo ripetain tv».

Però che gli italiani siano sempre stati non ostili alla Russia, non è vero?

«Be' che l'Italia, tra i paesi occidentali sia storicamente il più vicino alla Russia (mi pare in una misura del 60% tra fan e non dichiaratamente ostili) è risaputo. Tra l'altro ti ricordo che la vera dipendenza dal gas russo l'abbiamo avuta da 'mo, dai tempi del governo Letta».

E del governo Berlusconi, per essere precisi.

«Sì. certo. Valter Bielli, capogruppo del Pds ai tempi in cui ero presidente della Commissione Mitrokhin, mi diceva: "Guzzanti, noi tutti di sinistra qui siamo da sempre filorussi, ora ci si sono messi anche quelli di destra pro Putin: a lei chi glielo fa fare di andare a schiantarsi?"».

Tutto questo potrebbe incidere sul risultato delle elezioni?

«Ma ti pare che la notizia dei soldi russi possa scuotere l'Italia? Il vecchio Cossiga mi raccontava che il Pci fino a Berlinguer aveva sempre un compagno preposto che, da Mosca, tornava con la valigetta: in aeroporto era controllata da due agenti del tesoro Usa e dal ministero degli Interni, per poi passare allo Ior dove si cambiavano i rubli, e per accertarsi che non fossero falsi. Tutti sapevano tutto. Quand'è finita la pacchia hanno dovuto vendere Botteghe Oscure».

Cioè mi stai dicendo che l'elettore medio non diserterà, schifato, le urne?

«Ma va'. Dirà:"Embè?" e poi "Ecchisenefrega". Dimenticandosi magari di Di Maio che la spara grossa su una commissione apposita da organizzare in quattro e quattr' otto; il quale, a sua volta, si dimentica che a portare l'ultima Armata Rossa in Italia coi camici e le siringhe per il Covid era stato Conte».

Guido Crosetto invoca l'alto tradimento per chi s' è preso i soldi dei russi.

«Ma, ad occhio, non c'è lo stato di guerra. Se fosse accertato tutto -"se"- ci starebbe magari il finanziamento illecito, al limite l'evasione fiscale. Ma, al limite...». 

I fiumi di soldi dal Cremlino tollerati se vanno a sinistra. Paolo Guzzanti il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.

Oggi i dem si indignano, ma fu il Pci a introdurre la corruzione della politica con i fondi illegali dell'Urss.  

Troppe cose non quadrano nella storia dei finanziamenti russi a partiti e politici accennata dal ministro della Difesa americano, poi rafforzata da indiscrezioni senza padre né madre. La storia, se non sono pronte altre scatole cinesi, sarebbe questa: il ministro americano Blinken davanti alle telecamere svela il contenuto di un rapporto dei servizi segreti americani secondo cui la Russia avrebbe speso centinaia di milioni per corrompere politici e partiti di paesi stranieri per favorire si suppone - la sua bellicosa politica estera. Poi un funzionario di rango minore afferma che fra questi Paesi c'è l'Italia e che i partiti beneficiati dai russi sarebbero quello della Meloni, di Salvini e il Movimento Cinque Stelle. Queste dichiarazioni provocano il prevedibile putiferio senza né capo, né coda perché manca sia la logica, il movente, che la fonte. È bizzarro, per non dire ridicolo, che i più indignati per questo fumosissimo scandalo, siano proprio gli uomini del Pd a partire dall'intrepido suo segretario. Enrico Letta è al timone di un partito fatto per metà dal vecchio Pci e per metà dalla vecchia Dc. E anche se lui non proviene dalla metà comunista, non può far finta di non conoscere il codice genetico del partito, quello comunista, che ha introdotto la corruzione della politica attraverso gli illegali e sontuosi finanziamenti russi, costringendo i partiti democratici ad approvvigionarsi in maniera altrettanto illegale. Ogni anno un funzionario del Pci andava a Mosca con una valigetta vuota e la riportava piena di milioni di dollari che venivano controllati al ritorno da due agenti del Tesoro americano che volevano controllare che le banconote non fossero false. Poi la banca vaticana dello Ior cambiava i dollari in lire. Alla fine, tutti i partiti democratici che avevano praticato il finanziamento illegale furono condannati a morte e sono scomparsi, mentre soltanto Il PCI si è salvato per il rotto della perché nel 1989 una provvidenziale amnistia cancellava tutti i gravissimi peccati di corruzione del sistema democratico commessi con sfacciato candore dal PCI. Oggi si alza un gran polverone su un possibile finanziamento russo a partiti e politici. Se fosse vero sarebbe gravissimo, ma con poco senso. Che gli americani vogliano danneggiare Giorgia Meloni è in aperta contraddizione con lo stile e la diligenza con cui il Dipartimento di Stato ha cercato di capire la figura e il progetto politico della Meloni. Lo hanno fatto non solo con lei ma probabilmente ha giocato a suo favore il fatto di essere una possibile candidata alla guida del governo italiano con una posizione nettamente filoatlantica, anche se sostenendo che l'Italia deve essere risarcita dai costi derivati da una scelta netta senza se e senza ma.

Quanto alla Lega, le note e passate simpatie di Matteo Salvini per Vladimir Putin non spiegherebbero il movente perché è universalmente nota l'alleanza politica fra la Lega, il partito di Putin, quello della Le Pen e dell'ungherese Orban in un contesto che non è più da tempo quello attuale dal momento che oggi Salvini si è riposizionato a causa dall'aggressione all'Ucraina. Perché, dunque, come e quando il Cremlino avrebbe speso una somma di denaro per investirlo in una incomprensibile «operazione simpatia»? Non solo mancano le prove, ma manca il senso. Ma, ammesso e non concesso, perché? Per creare una superflua turbolenza che non raggiungerebbe mai le proporzioni dello scandalo, in mancanza assoluta di prove e logica. Per quanto riguarda i Cinque Stelle si potrebbe capire il senso, ma non l'attualità. È un dato di fatto che Conte abbia ordito l'abbattimento del governo Draghi per incassare i voti dell'elettorato contrario all'invio di armi agli ucraini con una giravolta sull'invio delle armi a chi sta resistendo. Nel suo caso la logica ci sarebbe ma manca comunque qualsiasi prova.

Francesco Storace: tutti gli affari della sinistra con Cina e Putin. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022.

Ma quanto sono ipocriti a sinistra. Si riparano dai venti fragorosi sui finanziamenti russi al Pci con l'alibi del tempo trascorso («Siamo un'altra cosa»), dicono adesso. Come se sull'ambiguità delle relazioni internazionali dei figliocci di quel partito si debba solo risalire al tempo del Togliattismo. No, anche gli idoli di adesso hanno peccati da farsi perdonare e persino i loro cuginetti a Cinque stelle. Nel gioco delle relazioni pericolose spiccano tutti, a sinistra, e suscita davvero indignazione il loro accanimento su colpe inesistenti a destra. Spesso si sono fatti fare anche fessi da Mosca. Accadde a Romano Prodi e Massimo D'Alema, per la crisi energetica del 2007. All'epoca fu siglata un'intesa Eni-Enel con Gazprom, che in realtà ci mise in condizioni di sudditanza verso Mosca. E la partita la condusse con mano di spregiudicato mazziere l'ex cancelliere tedesco Schroeder. Sai che gliene fregava della fratellanza progressista...Venne poi il tempo di Enrico Letta.

Era il 2013 e nel giro di una giornata, nel freddo polare di Trieste, l'allora premier siglò con Vladimir Putin una serie di accordi a raffica sicurezza compresa dai quali non si evinceva un giudizio così definitivamente negativo sull'uomo di Mosca. Anzi, Letta uscì da quella radiosa giornata davvero tanto contento. Ma gli autogol della sinistra italiana non hanno riguardato solo la Russia, dopo la grande stagione dell'Urss in cui i comunisti di allora almeno ammettevano i legami con i fratelli del Pcus. Anche la Cina è tutt' ora protagonista di dubbie relazioni. Nei giorni scorsi, per merito de Il Giornale, è emersa la fitta collaborazione di sodali di Enrico Letta con paradisi fiscali nei quali occultare denaro evidentemente accumulato in maniera illecita. Al segretario del Pd è stata sollecitata chiarezza, senza accusarlo di fatti specifici. Ma dalla sua bocca non è uscita una parola. E la grande stampa gli ha riservato il trattamento di riguarda che di solito è omesso quando si tratta della Meloni, di Salvini o di Silvio Berlusconi.

SOSPETTI

Per non parlare poi dei compari di merenda pentastellati. Ancora è fresco nella memoria di molti il caso di Vito Petrocelli, ex presidente della commissione esteri del Senato. Da quella postazione è stato cacciato a furor di popolo per il suo esplicito sostegno all'invasione russa in Ucraina, arrivando anche a votare "no" alla risoluzione del governo Draghi sulla guerra in Ucraina, in difformità rispetto alla indicazioni del partito (dove pure fiorivano altri sotterranei distinguo). In quel caso, le polemiche furono davvero feroci, con l'imbarazzo di un Movimento politico in cui i filoPetrocelli stavano acquattati pur condividendone le posizioni a sostegno di Mosca. Ma altrettanto clamore hanno suscitato nel tempo i sospetti rapporti del M5s con il Venezuela. Tra Chavez e Maduro c'è stata una fitta rete di relazioni che sono arrivate a far partire un'indagine giudiziaria su un presunto versamento di discrete quantità di quattrini che sarebbero addirittura arrivate in valigetta a Gianroberto Casaleggio. 

Una questione ancora non chiara. Ma che aldilà del presunto maneggio di denaro si parlò di ben 3,5 milioni di dollari campeggia sulla politica internazionale dell'Italia proprio perché i pentastellati non hanno mai voluto assumere posizioni di netta condanna del regime rosso di Caracas. Va detto anche che il figlio di Casaleggio, Davide, non ha esitato a denunciare il giornalista spagnolo che aveva realizzato lo scoop. Il che, se vale per tutelare l'onorabilità e la memoria del padre, nulla sposta rispetto alla linea filovenezuelana del Movimento cinque stelle. In Italia c'è comunque un'inchiesta della Procura di Milano. Il paradosso, per un Movimento come quello di Beppe Grillo, è che tutto possa finire in prescrizione. Salvando quelli che non la volevano per i processi. Sono quelli che strillano contro la destra per non far parlare dei peccatucci di casa loro. 

Fondi russi, il foglio che incastra la sinistra: ferie pagate, cosa state vedendo. Libero Quotidiano il 16 settembre 2022

C'è stato un tempo in cui l'Urss non si limitava a finanziare il Pci con operazioni politiche. Ma agiva come la più grande agenzia di viaggio nazionale per i compagni italiani che si guadagnavano gite premio in aereo a Mosca o crociere sul Mar Nero, per veder realizzate le promesse del sol dell'avvenire e consolidarsi nella propria fede filo-sovietica, magari con relativa delusione al ritorno.

A occuparsi di questi tour con l'avallo del Pci e del Pcus era l'Italturist, un'agenzia di viaggio operativa per circa un trentennio, dall'inizio degli anni '60 fino alla fine degli anni '80, e presieduta all'inizio da Armando Cossutta, che raccontava quell'esperienza con entusiasmo e la presentava come strumento di servizio al popolo, a cui consentiva di visitare «Paesi proibiti»: l'Urss, ma anche la Cina e Cuba, tutti rigorosamente comunisti. 

Una prima svolta ci fu all'inizio degli anni '70 allorché l'Italturist, fino ad allora di proprietà del Pci, fu ceduta alla Lega delle cooperative immobiliari, partecipata anche dal Psi, della cui sezione milanese era stato presidente Francesco Siclari. Lo stesso Siclari fu "promosso" a presidente dell'Italturist, che di fatto continuava ad agire nell'orbita del Pci: sotto la sua gestione, come ci dicono le nostre fonti, professionisti che lavoravano per Italturist in vari settori, «si consolidò quel criterio "meritocratico" che permetteva a tre categorie, sindacalisti e militanti del partito, dirigenti del Pci, e villeggianti generici provenienti dalla classe operaia, di prendere il volo in direzione Mosca o Leningrado per una vacanza su mezzi sì scassati ma a prezzi ridottissimi. Talmente bassi, se non nulli, che l’agenzia turistica non riusciva a coprire le spese ed era cronicamente in perdita. I debiti venivano poi gentilmente ripianati non solo da Italturist e dagli organismi collegati, ma anche dal fornitore, cioè l’Urss».

Se consideriamo che la Italturist organizzava un volo a settimana verso la Russia, che su ogni volo c’erano un centinaio di passeggeri e che solo il volo costava circa 100mila lire (non pagate dai passeggeri), «possiamo affermare», continuano le fonti, «che tra anni ’60 e ’70 l’Urss abbia tappato le falle di Italturist, versando qualche miliardo di lire». Vacanze a carico del Cremlino che offriva lo svago al proletariato italico, all’insegna di Falce e Martello... All’inizio degli anni ’80 Italturist iniziò a contemplare, tra le sue mete, anche posti turistici come Santo Domingo. Solo che a metà del decennio un Jumbo della compagnia restò piantato a terra nell’aeroporto di New York, tra le proteste dei viaggiatori che avrebbero dovuto raggiungere Santo Domingo e quelli che avrebbero dovuto tornare in Italia. Fu il punto di non ritorno: l’Italturist passò sotto il controllo dell’Unipol, trasformandosi in un’azienda di mercato. Da allora forse gli aerei cominciarono ad arrivare in orario, non come quando c’era Breznev...

Le rivelazioni americane e il polverone italiano. Americani e russi irrompono come al solito in campagna elettorale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Settembre 2022 

La storia si ripete e spesso nelle forme più cretine. Basta non avere memoria e il gioco è fatto. Adesso siamo tutti impegnati a fingere di voler sapere immediatamente, a tutti i costi, senza fare sconti a nessuno – vada come deve andare – che cosa e chi si nasconde dietro le sibilline parole del ministro della Difesa americano, il quale ha dichiarato che i russi avrebbero speso parecchi milioni per corrompere politici, partiti, giornalisti, influencer e chiunque possa portare loro dei vantaggi.

Poi, dopo questa prima generica affermazione, arriva la notizia sotto forma di indiscrezione secondo cui due partiti italiani del centrodestra, se non tutti e tre, sarebbero coinvolti insieme ai Cinque Stelle il cui leader ed ex presidente del Consiglio fece entrare in Italia un distaccamento dell’Armata Rossa per portare siringhe e medici. È certamente stata una mano santa per il dibattito televisivo che non riusciva a liberarsi dalla noia dei funerali regali e del tetto sul prezzo del gas. Così, “er dibbbattito” si è arricchito del chiacchiericcio con cui si finge di accusare e difendere chi forse ha preso i soldi di Putin. Il lettore mi perdonerà se parlo in prima persona, ma di queste faccende ne so qualcosa avendo vissuto la terribile avventura di presiedere tra il 2002 e il 2006 una Commissione parlamentare bicamerale di inchiesta che aveva il compito di scoprire se e come i nostri servizi segreti avessero utilizzato le informazioni dei colleghi inglesi sugli agenti russi durante la guerra fredda. Quella commissione (la più ostacolata, diffamata, derisa, e dimenticata anche se gli atti del Parlamento dimostrano che scoprì molto di più del previsto) fu varata dal Parlamento in seguito alle voci, insinuazioni, accuse, seguite alla pubblicazione del libro L’Archivio Mitrokhin scritto dall’ex archivista del Kgb Vasili Mitrokhin e da Christopher Andrew, storico di fiducia del servizio segreto inglese.

In Italia scoppiò una guerra civile delle parole tra i comunisti che si accusavano l’un l’altro di essere stati al soldo del Kgb mentre un’altra parte li accusava di essere stati al soldo della Cia. Fu fatto un drammatico polverone nel corso del quale almeno 5 persone persero la vita nell’indifferenza generale. L’ultimo fu Sasha Litvinenko, quello avvelenato con il polonio visto isu tutti gli schermi del mondo prima che morisse E non gliene frega assolutamente niente a nessuno della verità di come andarono realmente le cose, di chi era colpevole e di che cosa: oggi sembra che si voglia giocare di nuovo la stessa carta sussurrando un segreto – non poi troppo segreto perché si tratta solo di una informativa – in cui si rivelerebbe che i russi hanno speso una modestissima quantità di denaro per influenzare le politiche di paesi stranieri. Ma i russi non hanno nessun bisogno di spendere e spandere per ottenere questo risultato. Ci sono paesi – e certamente tra questi l’Italia – in cui una parte della dirigenza e dell’intellighenzia si trova naturalmente e gratuitamente dalla parte dei russi sia in versione sovietica che putiniana senza alcuna soluzione di continuità.

Io nella mia vita giornalistica che ha ormai superato i sessant’anni ricordo benissimo tutte le spie russe che venivano a trovare i giornalisti nelle redazioni di quasi tutti i giornali in cui ho lavorato. Ed è facilissimo vedere sugli schermi, o sulle pagine, soltanto osservando le omissioni, le riduzioni di evidenza, le esaltazioni laddove ti aspetteresti un tono basso, la manina e la luna russa che suona con agevolezza tutte le musiche che vuole sia nel la politica parlamentare che sulla stampa stampata. E non parliamo poi della comunicazione televisiva che conta molto più dei social totalmente sopravvalutati per la mania del correre dietro a personaggi insignificanti come gli influencer. Questo modo di agire ricorda quello dei guardiani dello zoo che vanno a portare il cibo ai grandi felini in gabbia. Quando arrivano col secchio della carne le bestie si agitano, ruggiscono, frustano l’aria con la coda, poi mangiano i loro bocconi e se ne tornano tranquille nelle loro tane. Non esiste e non esisterà mai alcuna lista di coloro i quali agiscono perché pagati dai russi. Come mi disse davanti a tutta la commissione il capo dello spionaggio sovietico a Roma, «noi non abbiamo mai avuto bisogno di spendere un centesimo per avere informazioni perché dietro la nostra porta c’è la fila dei volontari che corrono al nostro soccorso e non si tratta solo dei comunisti, anzi i comunisti li teniamo alla larga perché non vogliamo che si compromettano con noi». Si riferiva evidentemente al periodo in cui il partito comunista esisteva e aveva l’obbligo tassativo di non consentire ai suoi iscritti di lavorare per i sovietici proprio per evitare possibili scandali.

Oggi è evidentissimo che in Italia agisce, come sempre ha agito, un partito filorusso a prescindere che non ha a che vedere né col comunismo né col capitalismo ma semplicemente con gli interessi della Russia. Da anni e anni assistiamo alla pantomima delle continue richieste di abrogare le sanzioni comminate alla Russia per avere riportato la guerra in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale aggredendo paesi europei come la Georgia e poi l’Ucraina, prima nel 2014 occupandone la Crimea con un’armata di soldati senza mostrine senza gradi e poi con l’operazione militare speciale del 24 febbraio scorso. In Italia la reazione però è sempre stata e resta del tutto automatica: una gran parte dei nostri opinion makers hanno protestato vivacemente soltanto per contestare l’invio delle armi agli aggrediti, quelle armi che oggi permettono agli stessi aggrediti di difendersi con efficacia dagli aggressori. Ma soltanto in Italia accade che seriamente si finga che ci sia un approfondito dibattito fra chi vuole schierarsi con gli aggrediti e chi con gli aggressori. Naturalmente questa operazione non viene condotta in maniera così rozza e non c’è filorusso che non inizi la sua perorazione contro l’invio di armi all’Ucraina senza premettere con voce contrita che “naturalmente condanniamo nel modo più deciso l’aggressione di Putin all’Ucraina”.

Ora il fatto che la Russia spende una ragionevole quantità di soldi per alimentare la propaganda a suo favore, è non solo previsto e banale, ma rende piuttosto ridicolo anche chi finge di scandalizzarsi. Avendo svolto molte inchieste giornalistiche sulle influenze della Cia in Italia a partire dal 1947 so come tutti che gli americani hanno finanziato largamente giornali, politici e partiti e hanno fatto a mio parere benissimo perché permettevano di contrapporre una spesa ingente a quella che i comunisti potevano spendere. In Italia si sono già viste commissioni d’inchiesta e procedimenti giudiziari nati e abortiti per indagare sugli agenti e gli anni della vecchia Guerra fredda che sembra oggi sempre la stessa. Le dichiarazioni americane, finora prive di qualsiasi corredo, finiscono per fare il gioco del nemico proprio per la fragilità e la vaghezza con cui sono state formulate, tanto che le stesse fonti americane hanno indicato una dozzina di lontanissimi Paesi extraeuropei, mentre in Italia salivano all’onore della cronaca i nomi di due partiti di centrodestra e del Movimento Cinque stelle.

Risultato? Molte banali levate di scudi di chi grida allo scandalo, simmetriche e altrettanto inutili rispetto a quelle di chi pretende la verità (da chi? dagli americani che hanno preso l’iniziativa di rivelare senza rivelare?) e chi – con raffinatezza intellettuale – si delizia all’idea che l’Italia cada preda di un nuovo maccartismo, una nuova “caccia alle streghe”, seguendo il titolo della commedia di Arthur Miller che dette il nome a un’epoca: quella della persecuzione degli intellettuali sospettati di essere agenti sovietici e oggi di Putin. Avendo compiuto i miei sessanta anni da giornalista, più quattro dedicati all’insabbiata inchiesta sugli influencer russi, mi viene il sospetto che il Segretario di Stato americano sia caduto nel gioco di specchi in cui i russi sono davvero i maestri assoluti.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Fondi russi, gli altarini di Repubblica: cos'ha pubblicato per sei anni. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022

L'Italia s' è desta, La Repubblica no. Fanno i segugi nel quotidiano di Maurizio Molinari, masi sono scordati i loro precedenti specifici. Recenti, recentissimi. Ogni giorno ci raccontano di quattrini arrivati da Mosca, mai quelli che sono passati dalle loro parti. La memoria tocca rinfrescarla nei nostri archivi o anche su Google. Mica c'è solo - se c'è, anche se Gabrielli e Urso, sottosegretario ai servizi e presidente del Copasir smentiscono- la politica. I finanziamenti opachi li prendeva ieri chi li denuncia oggi. Se li sono scordati quei soldi dalla Russia, i signori di Repubblica. Prima della guerra all'Ucraina sono arrivati con certezza anche a loro. No, non ci passa per la testa di dire che stanno con Kiev perché Mosca non caccia più moneta, ma davvero le lezioni di etica, fasulle, potrebbero risparmiarcele. Ieri, ad esempio, ci hanno raccontato la bufala dei finanziamenti russi a Lega e Fdi, ma senza uno straccio di prova, di indizio. Voci, che chiunque può far circolare. Tanto in Italia non ci sarà un solo magistrato pronto a sanzionare le balle da campagna elettorale. 

LINEE POLITICHE

Ma intanto il puzzo arriva. Lo porta Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato, che si fa intervistare dal quotidiano della Gedi: «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fdi da voi». Alè, pure la Meloni adesso. La domanda è obbligata: «Davvero l'allarme riguarda anche Fratelli d'Italia?», chiede Repubblica. «Non ho prove dirette personali, ma è un ritornello costante che c'è stata qualche assistenza. Se guarda bene la loro linea politica, alcuni aspetti riflettono le posizioni russe». Ma complimenti per lo scoop, senza «prove dirette personali»: intanto lo diciamo. Improvvisamente dalla "home" di Twitter spunta un messaggio di aprile del Fatto quotidiano: «Quando chiuse con la Repubblica, Russia Today offrì 1,5 milioni di euro l'anno al Sole 24 ore. Ripetiamo la domanda a Rep: quanto vi dava Mosca per gli spot?». Forse non hanno "prove dirette" sui soldi alla Gran casa della sinistra editoriale. E però non si può fare la morale, "senza prove", da una testata che le "prove" invece se le può far contestare agevolmente. 

FINANZIATO DA MOSCA

Perché sono stati sei anni belli ed evidentemente generosi, quelli dal 2010 al 2016. Ogni mese i lettori di Repubblica erano deliziati da un supplemento intitolato Russia Oggi. Era il derivato di Russia Today, poi messo al bando in Occidente sotto l'accusa più pesante: emanazione mediatica dei voleri di Vladimir Putin. Ricordiamo che il quotidiano allora lo dirigeva Ezio Mauro che non nascondeva il suo legame con il supplemento impacchettato ogni trenta giorni dal Cremlino. Perché c'era un annuncio a "spiegare" la pubblicazione dell'inserto, «realizzato senza la partecipazione dei giornali e dei redattori di Repubblica. È finanziato dai proventi dell'attività pubblicitaria e dagli sponsor commerciali, così come da mezzi di enti russi». E chi lo realizzava quel giornale ospitato non gratis da Repubblica? La redazione si chiamava Rossiyskaya Gazeta, quotidiano a sua volta finanziato da Mosca. Insomma, per sei anni uno dei maggiori quotidiani del nostro paese ha concesso spazio alle tesi di Putin attraverso una rivista megafono della Russia. Avrebbero potuto chiedere a uno dei colleghi di Rossiyskaya Gazeta un editoriale su «quanto ci costa la politica italiana». Non conveniva, sennò il flusso dei soldi di Mosca in redazione sarebbe stato immediatamente bloccato. Nel nome della democrazia e della libertà di stampa.

La rivelazione degli 007 americani. Dalla Russia almeno 300 milioni ai partiti di 24 Paesi, l’Italia chiede chiarimenti. Linkiesta il 14 Settembre 2022.

Non sono stati rivelati al momenti i nomi coinvolti. Roma ha chiesto maggiori informazioni, soprattutto in vista delle elezioni del 25 settembre. La Lega, intanto, ha già fatto sapere di voler querelare chiunque associ il nome del Carroccio a questa vicenda. L’ex ambasciatore Volker punta il dito contro Salvini, Meloni e Berlusconi

La Russia ha speso almeno trecento milioni di dollari, a partire dal 2014, cioè dall’anno dell’annessione della Crimea, per finanziare partiti politici, think tank e candidati di 24 Paesi e influenzare così i risultati elettorali. La rivelazione è contenuta in un report dell’intelligence americana di cui ha parlato in un briefing con i giornalisti un alto funzionario dell’amministrazione Biden. Mentre il Dipartimento di Stato rendeva noto un cablogramma inviato dal segretario di Stato Antony Blinken a numerose ambasciate e consolati Usa all’estero – molti dei quali in Europa, Africa e Asia del Sud – manifestando le preoccupazioni americane e spiegando ai funzionari come rispondere, con misure che vanno dalle sanzioni economiche al bando dei viaggi.

Non sono stati resi pubblici né le nazioni bersaglio del soft power russo, né i partiti o i dirigenti coinvolti in questo schema. Ma gli Stati Uniti ritengono che i 300 milioni siano una parte di uno sforzo economico più esteso da parte russa.

Il Washington Post, citando fonti anonime del governo americano, riporta che tra i partiti coinvolti ci sono anche candidati alla presidenza. Tra gli oltre venti paesi interessati ci sarebbero Albania, Montenegro, Madagascar e forse anche l’Ecuador. Si parla anche di un Paese asiatico non identificato, in cui l’ambasciatore russo avrebbe dato milioni di dollari in contanti a un candidato. Gli altri Paesi e politici coinvolti non sono stati rivelati, ma sono concentrati soprattutto in Europa.

«Facendo luce sul finanziamento politico segreto russo e sui tentativi di minare i processi democratici, stiamo avvisando questi partiti e candidati stranieri che se accettano segretamente denaro di Mosca, noi possiamo denunciarli e lo faremo», dice una fonte dell’amministrazione al quotidiano americano. I funzionari, sempre secondo il Washington Post, hanno affermato che le forze legate al Cremlino hanno utilizzato società di comodo, think tank e altri mezzi per influenzare gli eventi politici, a volte a beneficio di gruppi di estrema destra. Il cablo nomina gli oligarchi russi coinvolti negli «schemi di finanziamento», tra cui Yevgeniy Prigozhin e Aleksandr Babakov.

Materiale potenzialmente esplosivo soprattutto in Italia, che tra 11 giorni andrà alle urne. Roma – come spiega Repubblica – ha chiesto a Washington tramite i canali ufficiali di intelligence se l’Italia è parte del dossier e l’identità degli eventuali politici finiti nella rete. Ma gli Stati Uniti mantengono ancora una certa riservatezza. È più probabile quindi che i nomi escano prima da fonti americane che da canali italiani ufficiali. O che magari vengano rilanciati dai media statunitensi.

Palazzo Chigi avrebbe preso molto sul serio la questione, soprattutto in vista del 25 settembre. Unanime la reazione dei partiti italiani, che hanno chiesto al Copasir di fare chiarezza e comunicare eventualmente al Parlamento le informazioni che arrivano dal Paese alleato.

Ieri, in serata, intanto la Lega in una nota ha già fatto sapere di voler querelare chiunque associ il nome della Lega a questa vicenda.

Ma nell’intervista rilasciata a Paolo Mastrolilli di Repubblica, l’ex ambasciatore americano alla Nato Kurt Volker fa esplicitamente i nomi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l’Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri Paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d’Italia da voi», dice.

Come? «Per promuovere la loro narrazione. A volte i fondi vanno ai partiti in Europa, o anche ai singoli politici, con pagamenti diretti oppure affari conclusi da compagnie russe che beneficiano questi politici, creando in loro un interesse diretto ad aiutare Mosca».

L’ambasciatore ammette di non avere prove dirette personali, «ma è un ritornello costante che c’è stata qualche forma di assistenza». E poi, aggiunge, «la Lega è in circolazione da parecchio tempo ed era noto che riflettesse le prospettive russe. Fratelli d’Italia è una formazione più recente, anche se erede di altri partiti, ed è cresciuta in maniera straordinaria nell’ultimo anno. Ciò obbliga a porsi domande su quali sono le fonti dei loro finanziamenti, delle posizioni prese e dell’aumento della popolarità».

E secondo l’ambasciatore, ci sono sospetti anche riguardo Forza Italia. «È interessante che Berlusconi non fosse così filo russo, quando aveva fatto il premier la prima e la seconda volta, ma alla terza è completamente cambiato. Ha sviluppato uno stretto rapporto personale con Putin, e forti relazioni di business con la Russia», sostiene Volker.

Mosca Connection. Ci sarebbe anche l’Italia nel dossier americano sui soldi russi ai partiti. Linkiesta il 15 Settembre 2022.

Secondo quanto scrive Repubblica, citando «una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato», ci sarebbero informazioni anche sul nostro Paese nel report redatto dagli 007 Usa. Ma per il momento i nomi dei politici che hanno preso soldi da Mosca non vengono divulgati. Secondo Di Maio, potrebbero arrivare presto altri dettagli

Con la nota del segretario di Stato americano Antony Blinken recapitata a Palazzo Chigi e alla Farnesina sulla penetrazione dell’influenza russa nei Paesi europei, a Roma è iniziata la caccia ai nomi. Al momento, non filtra nulla. Il documento con i dettagli è secretato. Ma, secondo quanto scrive Repubblica, citando «una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato», l’Italia ci sarebbe eccome nel dossier americano sulla corruzione russa nel mondo. E non poteva essere altrimenti, considerando i rapporti con Mosca costruiti negli ultimi decenni da diversi partiti rilevanti. E questo alimenta molti dubbi sulle elezioni del 25 settembre e il futuro assetto del governo italiano.

È possibile che il nostro governo e i servizi di intelligence non siano ancora stati informati dei dettagli perché, dopo l’annuncio dei giorni scorsi, Washington ha deciso di procedere per passi, in base a necessità e circostanze. Ieri però il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, ha confermato che «condivideremo con i Paesi alleati le informazioni classificate di intelligence raccolte sulle attività della Russia per influenzare i processi politici nelle democrazie». Quindi se ci sono nomi di politici o partiti che hanno ricevuto favori, e magari violato la legge, prima o poi Roma verrà informata.

Un portavoce del dipartimento di Stato spiega così la logica a Repubblica: «Non entreremo in specifiche informazioni di intelligence, ma siamo stati chiari sulla nostra preoccupazione per l’attività della Russia per influenzare il processo democratico in vari paesi del mondo, inclusi gli Stati Uniti. La nostra preoccupazione per l’attività di Mosca in questo senso non riguarda un Paese, ma è di natura globale, mentre continuiamo ad affrontare le sue sfide contro le società democratiche». La fonte quindi ha chiarito così la strategia: «L’influenza politica segreta russa rappresenta una sfida importante per gli Usa e altre democrazie in tutto il mondo. Abbiamo lavorato per esporla mentre la scopriamo. Abbiamo, e continueremo a lavorare con i nostri alleati e partner in tutto il mondo, per denunciare gli sforzi di influenza maligna della Russia e aiutare altri paesi a difendersi da questa attività». Quanto alla pubblicazione di nomi e cognomi, «non abbiamo ulteriori informazioni da discutere sui Paesi specifici, in merito a questo argomento». E «si tratta di una decisione deliberata», ha spiegato Ned Price, perché ora era importante denunciare la minaccia di Mosca a livello globale, ma nel dettaglio dei singoli Paesi coinvolti l’intelligence lavorerà con discrezione.

Il rapporto inviato a Roma è stato redatto dal Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca ed è composto da un mix di informazioni di intelligence e “open source”, ossia già disponibili pubblicamente. Però non può essere divulgato nella sua interezza, perché contiene diversi capitoli classificati. La ragione per cui Washington ha deciso di procedere con la denuncia è simile a quella che ha portato alla progressiva declassificazione e pubblicazione delle manovre militari russe, alla vigilia e dopo l’invasione dell’Ucraina. I servizi americani, tra l’altro, hanno raccolto negli anni una grande quantità di informazioni sulla corruzione condotta dal Cremlino. Ora quindi le pubblicano, e soprattutto le condividono con i Paesi alleati più colpiti, allo scopo di metterli in condizione di reagire e fermare Mosca.

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha spiegato che dopo la nota potrebbero arrivare altre rivelazioni, accennando alla possibilità che almeno un altro dossier venga recapitato all’esecutivo italiano.

La notizia, chiaramente, ha messo in subbuglio i partiti italiani a pochi giorni dal voto. E in particolare la coalizione di destra. Il leader della Lega Matteo Salvini è stato il primo a esporsi, dopo aver minacciato querele: «Mi hanno processato come bieco spione russo e invece non era vero niente. Abbiamo chiacchierato sul nulla». Giorgia Meloni ha chiesto «chiarezza» sul caso e Guido Crosetto ha evocato addirittura «l’alto tradimento».

Mentre Adolfo Urso, capo del Copasir di Fratelli d’Italia, dall’America, dove si trova in missione per Giorgia Meloni, inizialmente ha detto: «Non ci sono italiani nel dossier americano». E ha convocato in tutta fretta per domani l’audizione di Franco Gabrielli al Copasir. Poi Urso a Washington ha incontrato il presidente democratico della Commissione intelligence del Senato, Mark Warner, e il repubblicano Richard Burr. Al termine dei colloqui, il suo tono è cambiato, fa notare Repubblica. «L’amministrazione Usa fornisca immediate ed esaurienti informazioni al governo italiano sul dossier sui finanziamenti russi a partiti ed esponenti politici di alcuni Paesi», ha detto. «È necessario fare subito assoluta chiarezza. Siamo in campagna elettorale e abbiamo il dovere di tutelare le istituzioni democratiche e di evitare ogni forma di delegittimazione».

Unfit to lead. Salvini è inadeguato a governare, ma risparmiamoci il processo alle intenzioni sui soldi dalla Russia. Andrea Cangini su L'inkiesta il 16 Settembre 2022

Finora la notizia sui presunti finanziamenti del Cremlino ai partiti europei non ha portato a elementi concreti di colpevolezza. Non bisogna indulgere nella cultura del sospetto. Basta guardare la storia politica del leader della Lega per capire la sua mediocrità

Ci sono ottime ed evidenti ragioni politiche interne e internazionali per considerare Matteo Salvini inadeguato a ricoprire funzioni di governo, ragioni che rischiano di essere eclissate dal fuoco di sbarramento mediatico innescato dalle rivelazioni sui finanziamenti russi. 

Rivelazioni che, per il momento, non hanno rivelato nulla. Nulla di concreto: né un nome, né un fatto, né una circostanza. Per ora si tratta di un processo alle intenzioni. Un processo mediatico ispirato dalla cultura del sospetto. 

Un sospetto legittimamente dovuto alle passate scelte politiche filoputiniane di Matteo Salvini e alle sue ambiguità presenti sull’Ucraina. Ma comunque un processo alle intenzioni. Intenzioni criminali, per giunta. Un metodo oggettivamente scorretto, poco garantista e nella realtà destinato a puntellare il sempre più precario segretario della Lega Salvini premier, un tempo “Lega Nord”.

In attesa di eventuali prove sui soldi russi e sulla eventuale ricattabilità di Matteo Salvini, il metodo liberale imporrebbe di attenersi ai fatti. Ai fatti della politica interna e ai fatti, mai come oggi qualificanti, della politica internazionale. Ne abbiamo già a sufficienza per esprimere un giudizio lapidario.

Rublodollari e moralismi. Gratuito o mercenario, il sostegno a Putin è un alto tradimento. Carmelo Palma su L'inkiesta il 16 Settembre 2022

Al di là di stucchevoli processi mediatici sulle presunte mazzette del Cremlino ai partiti italiani, è così rilevante sapere se l’amore dichiarato per il dittatore russo di Salvini e Berlusconi sia stato sincero o pagato? O se il pacifismo anti-ucraino del Movimento 5 stelle sia stato fatturato? È una questione di responsabilità politica, non solo penale

Scommetto un euro che dei trecento milioni di rublodollari, di cui i servizi americani seguono le tracce in Europa e rendono noto di avere una contabilità abbastanza precisa, neppure una mazzetta sarà trovata in Italia nelle tasche o nei conti dei molti indiziati speciali della benevolenza del Cremlino. 

Non lo dico – sia chiaro – per fiducia nell’onestà degli amici italiani di Putin, che sono tanti e pure tanto bisognosi, né per sfiducia nelle buone intenzioni dell’intelligence Usa. Non è in discussione, ovviamente, che il regime putiniano, alla pari di qualunque organizzazione mafiosa, usi la corruzione economica, quanto il ricatto e l’intimidazione, come strumento di infiltrazione, reclutamento e condizionamento politico. 

A essere in discussione è che queste operazioni speciali possano essere contestate, accertate e sanzionate in sede giudiziaria come se fossero le bustarelle di Mario Chiesa. Per quanto malconciati siano gli apparati russi, c’è da dubitare che ignorino le tecniche, alla portata di qualunque organizzazione criminale transnazionale, per movimentare montagne di soldi invisibili. 

Per altro verso, sia detto in generale, varrebbe la pena di essere prudenti circa il vantaggio di montare processi mediatici usando a spizzichi e bocconi gli stralci dei dossier degli apparati di sicurezza, come altri fanno con le intercettazioni ricettate nelle segrete stanze delle procure. Anche perché al gioco dei veri o finti dossier potrebbero iniziare a giocare anche i russi. Così, in ogni caso, non si fa una buona giustizia, ma neppure una buona politica, meno che mai antitotalitaria.

A partire da questa vicenda, è invece più interessante e secondo me urgente riflettere sul fatto che a suscitare interesse e riprovazione e a far gridare al tradimento non sia la militanza apertamente collaborazionistica di una grande parte della politica italiana con l’avvelenatore in chief di Mosca, ma il possibile emolumento per il servizio prestato.

Davvero è così rilevante sapere se l’amore dichiarato per Putin di Salvini e Berlusconi sia stato sincero o mercenario, se il pacifismo anti-ucraino del Movimento 5 stelle e della sinistra senza se e senza ma, prima e dopo il 24 febbraio 2022, sia stato pro bono o fatturato e se il ruffiano relativismo sulla complessità della questione russa, che ha portato la meglio gioventù e i venerati maestri della politica italiana, a destra come a sinistra, a tenere bordone al macellaio del Cremlino e a menare scandalo per le sanzioni e per l’isolamento di Mosca, sia stato remunerato o l’unica remunerazione concessa sia stata la considerazione e l’amicizia del grande capo della satrapia cekista?

In un Paese come l’Italia, abituata al voyeurismo giudiziario e quindi a eccitarsi e indignarsi solo guardando la politica dal buco della serratura delle inchieste e dei processi, sembra che l’accusa di putinismo, che oggi la generalità dei putiniani rigetta sdegnosamente, possa essere dimostrata unicamente portando le prove di una corruzione economica o di un guadagno colpevole. 

Il che conferma che la cultura di Tangentopoli non ha solo imbarbarito, ma anche instupidito l’Italia, stabilendo l’equivalenza tra lo scandalo e l’illecito e tra la responsabilità politica e quella penale. Quindi, alla fine, se non c’è un reato, se non si trovano i piccioli, se non si trovano ad esempio le piste, cancellate proprio da parte russa, del dopo Metropol, allora non c’è nulla di cui rispondere, vero? 

Se Salvini eleggeva Mosca a Gerusalemme della diaspora sovranista, se Meloni esecrava le «folli sanzioni» alla Russia dopo l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea, se Berlusconi giurava in mondovisione sulla caratura democratica del suo amico particolare, se Prodi denunciava l’errore dell’ostracismo di Putin e ostentava ricambiato familiarità col capobanda moscovita, sdilinquendosi in complimenti sulla sua abilità economica e politica, se insomma accadeva tutto questo e moltissimo altro di uguale o di simile, possiamo dire che in realtà non è successo niente e non si è consumato alcun oltraggio alla causa della verità e della libertà, della pace e della sicurezza, se questa difesa di Putin non è stata contraccambiata almeno da un piccolo cadeau?

Possibile che pure sugli affari internazionali, cioè sulle questioni più radicalmente esistenziali per la nostra democrazia, la misura della qualità, dell’onestà e della lealtà patriottica della classe politica sia misurata da un metro così stupidamente moralistico

Strumenti di pressione. La lunga storia dell’influenza esercitata da Putin per destabilizzare l’Occidente. Maurizio Stefanini Linkiesta il 15 Settembre 2022.

Le rivelazioni del Dipartimento di Stato americano sui soldi dati da Mosca alle formazioni politiche europee non sono una sorpresa perché accompagnano una fitta e variegata serie di operazioni, anche social, che da tempo abbiamo purtroppo imparato a conoscere

La Russia di Putin usa i finanziamenti, ma i suoi strumenti di influenza sono soprattutto altri. Lo stesso alto funzionario dell’amministrazione Biden, che in una conference call ha riferito di come all’intelligence americana risultino almeno 300 milioni di dollari in trasferimenti segreti a partiti politici, dirigenti e politici stranieri in 24 Paesi a partire dal 2014 ha subito aggiunto come gli Stati Uniti si aspettino comunque nei prossimi mesi un utilizzo sempre maggiore dei mezzi di influenza coperta da parte dei russi. Con l’obiettivo di minare le sanzioni internazionali per la guerra in Ucraina e mantenere la sua influenza nel mondo.

Quando si parla delle operazioni con cui in passato il Cremlino è stato accusato di avere influenzato la politica straniera, come con la Brexit, l’elezione di Trump, la protesta separatista in Catalogna, la sconfitta del referendum di Renz, l’agitazione No Vax o la richiesta di impeachment a Mattarella per favorire la formazione del governo giallo-verde, il riferimento è essenzialmente a un lavorio fatto sulle piattaforme social. In particolare, attraverso quella Internet Research Agency di San Pietroburgo che si è meritata il soprannome di «fabbrica dei troll», e il cui finanziatore è Yevgeny Prigozhin. Il «cuoco di Putin» che – su un altro campo – sempre per rafforzare l’influenza russa ha inventato la compagnia di ventura Wagner.

Il Dipartimento di Stato ha fatto sapere di avere inviato la relativa documentazione alle ambasciate e ao consolati nei Paesi interessati, ma a quanto pare secondo i servizi americani sarebbe solo la punta dell’iceberg. Quei 300 milioni, spiegano, non sono che una cifra minima, e probabilmente Mosca ha preferito trasferire probabilmente altri fondi in modo coperto. Non vengono fatti nomi o citati Paesi, ma il Dipartimento di Stato è sicuro di poterli fornire presto. Non è chiaro se ci sia un problema di accertamenti o decrittazione, o se piuttosto i nomi vengano tenuti in sospeso per tenere qualcuno sotto pressione.

Ma il fatto che i finanziamenti non siano neanche il principale strumento di influenza di Putin, ad esempio, era stato espresso dal politologo ucraino Anton Shekhovtsov quando nel 2017 era venuto a Roma per un convegno sulla strategia di influenza della Russia in Europa organizzato dall’Atlantic Council e dall’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici.

Visiting Fellow all’austriaco Institute for Human Sciences, tra i massimi esperti nei rapporti tra Putin e i movimenti populisti di destra e di sinistra, autore di un libro sulla storia dell’attrazione reciproca tra la Russia sovietica e post-sovietica e il fascismo e radicalismo di destra, Shekhovtsov spiegò in particolare che all’epoca «l’evidenza più forte per un finanziamento vero e proprio dalla Russia riguarda solo un gruppuscolo di estrema destra polacco non molto influente».

In effetti, ci sarebbero anche i 9 milioni di euro che nel 2017 il partito di Marine Le Pen ottenne in prestito dalla First Czech Russian Bank: fondata nel 1996 con capitali di Praga e di Mosca, acquisita nel 2002 dalla StroyTransGaz , la società russa che costruisce i gasdotti per la Gazprom. Lo scorso 20 aprile il presidente francese Emmanuel Macron glielo rinfacciò durante un dibattito elettorale, e lei rispose: «Se sono stata costretta ad andare a fare un prestito all’estero è perché nessuna banca francese ha accettato di concedermelo. Sono una donna assolutamente libera». L’idea di Shekhovtsov era che «non è corretto dire che è stata finanziata dalla Russia. Ha ricevuto soldi in prestito, ma dovrà restituirli». Va detto che secondo successive inchieste di Le Monde e Mediapart la Le Pen avrebbe chiesto a banche russe 40 milioni.

Poi, nel febbraio del 2019, fu rivelata la la storia dell’incontro che il 18 ottobre 2018 ci sarebbe stato all’hotel Metropol di Mosca tra tre italiani e alcuni russi non identificati. Tra gli italiani c’è Gianluca Savoini, esponente leghista proveniente dall’estrema destra, presidente dell’associazione Lombardia Russia, già portavoce di Salvini, e grande tessitore di rapporti tra la Russia e la Lega. Si parla di una trattativa per la vendita di petrolio dalla quale, secondo gli accordi, dovrebbero risultare dei fondi neri per il finanziamento della campagna elettorale della Lega in vista delle elezioni europee: 3 milioni di tonnellate di gasolio da far arrivare all’Eni, per un valore di 1 miliardo e mezzo di dollari, 65 milioni dei quali per le casse della Lega.

Savoini, in particolare, fornisce il contesto politico della trattativa, spiegando che la Lega insieme all’alleanza sovranista vuole «cambiare l’Europa. La nuova Europa deve essere molto vicina alla Russia». Il giorno prima, il 17 ottobre, sempre a Mosca, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva partecipato a un incontro organizzato da Confindustria al Lotte Hotel, al quale era presente anche Savoini. In realtà, molti analisti si dissero subito certi che sotto dovessero esserci i servizi russi, per il fatto che l’Hotel Metropol è notoriamente sotto stretto controllo del Fsb. Ma nessuno si sbilanciò se fosse on regolamento di conti nei servizi russi stessi, o piuttosto un «avvertimento» a Salvini, che in quel momento si stava avvicinando a Trump, e aveva anche proposto al Cremlino di fare una «prima mossa» in Ucraina.

In realtà, un rapporto organico tra Lega e regime di Putin esiste nella forma di un patto di cooperazione col partito putiniano Russia Unita. Firmato a Mosca il 6 marzo del 2017, scadeva il 6 marzo 2022, ma in mancanza di comunicazione è stato rinnovato automaticamente fino al 6 marzo 2027. Come ricordava sempre Shekhovtsov, la Lega ha poi votato sistematicamente posizioni pro-Putin al Parlamento Europeo all’interno di un gruppo in cui fa parte di un nucleo duro filo-Cremlino, assieme al partito di Marine Le Pen e all’Fpö austriaco. Di quest’ultimo partito si può ricordare come il 18 maggio 2019 Heinz-Christian Strache diede le dimissioni da presidente, oltre che da vicecancelliere e ministro del Servizio Civile e dello Sport, in seguito alla pubblicazione da parte della Suddeutsche Zeitung e dello Spiegel di un video girato nel 2017 a Ibiza in cui Strache accettava offerte di corruzione dalla sedicente nipote di un oligarca russo, che in realtà era una giornalista d’inchiesta. Insomma, come la Lega anche la Fpö si è mostrata filo-Putin, è apparsa disposta a prendere soldi dalla Russia, ma non c’è evidenza che li abbia presi. Da ricordare che accanto a Strache a dirsi disposto a prendere 250 milioni di euro era il compagno di partito Johann Gudenus; noto come «uomo dei russi», e figlio di un colonnello negazionista dell’Olocausto.

Nello stesso gruppo figura anche Alternative für Deutschland (Afd). In un’inchiesta congiunta del 2019 dello Spiegel, della Zdf e della Bbc sui tentativi del Cremlino di influenzare le Legislative del 2017 saltò fuori un documento russo sul deputato Afd Markus Frohnmaier come «uno dei parlamentari che sarà sotto assoluto controllo». Secondo un’informativa di un’intelligence dell’Ue in mano all’emittente britannica, Frohnmaier avrebbe chiesto aiuto ai russi per la campagna del 2017 in cambio della fedeltà poi in politica estera. Sempre durante quella campagna tre esponenti della Afd sarebbero volati a Mosca con biglietti pagati dai russi. Effettivamente in questi mesi Afd sta facendo una campagna durissima contro le sanzioni, al punto che il cancelliere Scholz la ha definita «partito della Russia».

Insomma, ci sono sospetti di finanziamenti, e ci sono evidenze di appoggi. In Italia riguardano non solo la Lega ma anche i Cinque Stelle e Forza Italia. In passato anche Fratelli d’Italia, che però sembra avere ora cambiato linea in modo radicale. È possibile che le due cose siano state collegate? Tutti e tre i partiti del centrodestra sono stati in realtà tirati in ballo in una intervista dell’ex-ambasciatore Usa presso la Nato di Bush, Kurt Volker. «Le simpatie per la Russia della Lega e di Berlusconi erano note, ma ora il ritornello costante è che anche Fratelli d’Italia abbia ricevuto qualche aiuto», ha detto. «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l’Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d’Italia da voi».

Ovviamente, la cosa ha provocato minacce di querela e smentite, e si è detto addirittura che l’Italia tra i 24 Paesi non ci sarebbe. Lo stesso Volker ammette che non ha «prove dirette personali, ma è un ritornello costante che c’è stata qualche assistenza. Se guarda bene la loro linea politica, alcuni aspetti riflettono le posizioni russe».

Ma forse la cosa interessante è che pure secondo Volker «il Cremlino cerca di promuovere da anni la divisione nelle nostre società: l’uso più semplice dei fondi è coi social media». Era appunto anche la tesi di Shekhovtsov. «A volte i fondi vanno ai partiti in Europa, o anche ai singoli politici, con pagamenti diretti oppure affari conclusi da compagnie russe che beneficiano questi politici, creando in loro un interesse diretto ad aiutare Mosca», ha aggiunto Volker. Ma la sua domanda di Volker su come Fratelli d’Italia sia «cresciuta in maniera straordinaria nell’ultimo anno» e dunque «su quali sono le fonti dei loro finanziamenti, delle posizioni prese e dell’aumento della popolarità» trova però come prima risposta proprio il fatto che Fratelli d’Italia come unico grande partito di opposizione alla compagine di unità nazionale di Draghi ha raccolto un  vento di protesta di cui è stata componente quell’agitazione No Vax che la «fabbrica dei troll» ha pompato.

Così come per far eleggere Trump aveva pompato la storia di «Hillary Clinon pedofila» o per favorire la Brexit aveva pompato fake anti-Ue.

Dopo le manovre russo cinesi. America ed Europa devono capire che al mondo non c’è solo l’Occidente: la crisi mondiale vista con gli occhi di Gramsci. Michele Prospero su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

Le “grandi manovre d’Oriente” (e anche l’invito a Mosca per il G20 in Indonesia) smontano pezzi importanti del dispositivo ideologico di una guerra ineluttabile tra democrazia e autocrazia che viene attualmente utilizzato come il principale schema interpretativo delle relazioni internazionali. Insieme alle autocrazie di Russia, Bielorussia, Tagikistan e Cina ha partecipato infatti alle esercitazioni militari congiunte anche l’India. Ovvero, la più grande democrazia mondiale che vanta una storia di “modernizzazione” in cui molto pronunciata è l’influenza occidentale.

L’Europa e l’America trascurano quel fenomeno politico rilevante rappresentato dalle molteplici esperienze di statualità che nel mondo seguono percorsi alternativi rispetto a quelli liberaldemocratici tracciati dall’Occidente. Con una impostazione dei rapporti internazionali nei termini di un generale scontro di civiltà tra mondo libero e Stati canaglia, le sorti dei valori democratici e l’avanzata della cultura dei diritti fondamentali non migliorano di sicuro. Miliardi di persone, che non vivono sotto l’ombrello delle liberaldemocrazie, non possono essere sacrificati sull’altare del loro regime politico interno assunto quale misura dell’asimmetrica legittimazione posseduta dagli Stati nelle relazioni internazionali.

Enumerando gli “elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati”, Gramsci nei Quaderni (Q. 4, (XVIII), p. 38 bis) ne elencava tre: “1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare”. A questi tre indicatori di carattere quantitativo egli aggiungeva, come quarto indice da considerare, anche “un elemento imponderabile”, cioè quello che rimarca “la posizione ideologica che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia”. Il possesso di tutti questi ingredienti conferisce una spiccata capacità di influenza (“un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza”) dato che, oltre alla forza effettuale (che mostra la vittoria prevedibile sulla base del dispiegamento delle milizie), dispensa allo Stato una forza ipotetica capace di condizionamento. In virtù di questa calcolabilità delle prerogative militari, economiche ed ideologiche, alla grande potenza riesce possibile “ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere”.

Le relazioni internazionali esprimono, secondo l’approccio di Gramsci, un terreno di rapporti interstatali dal carattere asimmetrico perché in essi gioca, accanto alla stretta effettualità della potenza, un ruolo cruciale il momento dell’egemonia. “Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione”.

Non conta, dunque, solo la giuridica prerogativa di un territorio di essere un soggetto formalmente presente nelle arene delle relazioni internazionali. Va presa in considerazione anche la sostanziale possibilità di esprimere una posizione incisiva ed esercitare una visibile influenza nelle cose del mondo. Questi requisiti connessi alla capacità di influenza e direzione accompagnano solo poche delle entità statali. Una “direzione autonoma” non si esaurisce nel riconoscimento giuridico di essere parte degli attori che sono ospitati negli organismi delle Nazioni Unite; serve una effettuale condizione che mostri, nelle relazioni con gli altri, i segni dell’autonomia ovvero della forza.

Accanto a Stati che dispongono di significative risorse per esercitare un “influsso” e avere una certa “ripercussione” nei processi politici, esistono delle statualità con una rilevanza pari allo zero. Si incontrano poi altre e più grandi entità politiche organizzate dotate di una forza tale che consente loro di rivendicare il ruolo di potenza egemone. Questi Paesi sono in grado di esercitare pressioni, concordare aiuti, fornire assistenza e quindi di proporsi come Stati guida alla testa di una alleanza di nazioni che si contendono, con altre aggregazioni, il governo del mondo. Con lo scioglimento del Patto di Varsavia, gli Stati Uniti hanno coltivato la sensazione reale di essere entrati in un mondo divenuto ormai unipolare. Sulla base della supremazia, spalancata plasticamente con il collasso storico del nemico della lunga guerra fredda, il punto 4 di Gramsci, quello cioè relativo alla ideologia, è diventato il caposaldo di una operazione condotta nel solco della “fine della storia”, con le potenze del bene, dei diritti, della democrazia, autorizzate a celebrare il loro trionfo irreversibile.

Questa pax imperiale americana è durata poco perché tutte le potenze escluse, umiliate, marginali, o anche in ascesa, si sono variamente riaffacciate sulla scena. Perso il richiamo del numero 4 (la mobilitazione ideologica) che accompagnò il grande mito sovietico, alla riesumazione della potenza nazionalista e bellicosa dell’autocrazia russa contribuiscono il punto 1 (estensione territoriale, con risorse naturali di notevole rilevanza) e il punto 3 (la forza militare, con il possesso di armi atomiche). Anche se il punto 2 (la consistenza del “potenziale economico”) non è paragonabile a quello vantato dalla superiore macchina americana, il territorio pieno di risorse energetiche attribuisce alla Russia un potere di ricatto capace di indebolire la capacità produttiva delle potenze industriali occidentali.

Trascurare la rinascita russa e, addirittura, “abbaiare” con i simboli della Nato ai confini, adottando una strategia di puro contenimento militare con allargamenti ai limiti della intransigenza nei vecchi territori di influenza sovietica, non sono le sole politiche possibili verso Mosca. Il risentimento e l’esplosione dell’orgoglio nazionale dell’impero ferito (che ha un’ampia estensione territoriale, ma senza “una popolazione adeguata, naturalmente” per condurre davvero una minacciosa politica di espansione e conquista continentale) conducono a fenomeni bellici prolungati che rendono più complesso, e meno vantaggioso per l’America stessa ma soprattutto per i satelliti europei, il governo del mondo attraversato da nuove polarizzazioni militari.

Secondo Gramsci, “nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica”. Nel caso specifico russo, si tratta di una territorialità di carattere pluri-continentale che mostra il governo di Mosca sospingere i propri progetti ora verso Occidente, ora verso Oriente. Mentre Pechino venne attratta in passato dagli Usa in efficaci politiche di contenimento dell’espansionismo sovietico, oggi la Cina è sospinta per ragioni tattiche verso Mosca che organizza i molteplici centri di resistenza al dominio americano. Un capolavoro con tracce di insipienza tattico-storica degli strateghi Usa ha condotto, come naturale reazione precauzionale-difensiva, verso un’alleanza tra due grandi Paesi (storicamente rivali) che accantonano differenze e convergono in una comune istanza di contenimento dell’Impero a stelle e strisce.

La Cina è la sola grande potenza che può già oggi cominciare a competere con gli Usa sulle quattro variabili indicate da Gramsci (anche nella dimensione militare e navale, infatti, sembra ormai aver imboccato la strada per colmare il divario) e ciò giustifica la crescente accentuazione del sentimento di rivalità che caratterizza l’America ossessionata dal pericolo di un sorpasso. E’ vero che il profilo ideologico non è più quello di sessant’anni fa, ma una narrazione e un simbolismo caratterizzati dal richiamo al marxismo (espressione della cultura occidentale) rimangono pur sempre nella iconografia del regime di Pechino. Se, come suggerisce Gramsci, “nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (forze produttive) dalla capacità finanziaria”, si comprende in radice il timore serpeggiante nel governo americano.

Il potere statunitense percepisce che la globalizzazione, proprio da Clinton accelerata, ha minato la tradizionale egemonia nordamericana nell’economia-mondo e ha corroso persino la sovranità del dollaro e della borsa (anche sul versante finanziario Pechino sfida apertamente gli Usa con minacce e ritirate). Dinanzi alle “grandi manovre d’Oriente”, l’America può continuare nella battaglia frontale attirando a rimorchio un’Europa che grazie alla sua memoria storico-giuridica serve all’Impero per condurre in maniera più credibile la battaglia n. 4 (per la democrazia e i diritti). Ma alla sfida per il riconoscimento lanciata da Russia, Cina, India e Iran, Stati assai influenti e provvisti di una autonoma capacità di decisione nel campo della politica estera, l’Occidente non può rispondere spingendo semplicemente sulla leva militare.

Un accomodamento politico creativo alla spinosa emergenza di Taiwan va pure escogitata, e con tempestività. La cooperazione, il multilateralismo, la soluzione diplomatica agli obiettivi di potenza alla fine rappresentano una opzione meno costosa, più pacifica e più utile agli stessi interessi occidentali in declino e chiamati necessariamente a ridefinirsi su basi diverse, alla luce dei nuovi equilibri visibili su scala mondiale. Michele Prospero

Non solo antisemiti. I "nuovi" dem filosovietici inneggiano in rete a Lenin e Togliatti. Pasquale Napolitano il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.

I "piccoli Lenin" crescono in casa Letta. Sono tutti figli della coppia Provenzano-Orlando 

I «piccoli Lenin» crescono in casa Letta. Sono tutti figli della coppia Provenzano-Orlando. Dopo il caso dei due candidati dem under 35, entrambi capilista, con posizioni anti-Israele, Raffaele La Regina e Rachele Scarpa, spunta il fan di Lenin. Marco Sarracino, capolista del Partito democratico nel collegio Napoli 2, in tweet del 2019 festeggiava la rivoluzione bolscevica: «Beati quelli che si ribellano per ottenere un mondo più giusto. Buon anniversario della Rivoluzione».

Il post rispunta e accende la polemica. Giorgia Meloni, che lo rende pubblico, va subito all'attacco: «Dopo i giovani candidati del Pd che negano il diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele, arriva anche chi inneggia all'Unione sovietica. Il segretario metropolitano del Pd di Napoli Marco Sarracino, uno dei capolista under 35 scelti direttamente da Enrico Letta. Sarracino, candidato alla Camera nel collegio plurinominale Napoli 2, ha scritto: Buon anniversario della Rivoluzione. Bolscevica, ovviamente. Con tanto di foto di Lenin e Armata rossa. Chissà se Letta rivendicherà anche questo nelle sue interviste alle televisioni estere, chissà quanto la comunità internazionale apprezzerà un partito che inneggia all'Unione Sovietica - un regime totalitario comunista che ha oppresso per mezzo secolo la libertà dei popoli europei, facendo milioni di morti - mentre, tra l'altro, i carri armati russi entrano in Ucraina con tanto di falce e martello a rivendicare proprio i confini dell'Urss» tuona la leader di Fratelli d'Italia.

Sarracino in grande imbarazzo disattiva gli account social. Il timore è che dal «suo passato rivoluzionario» possano spuntare altri elogi all'Urss e selfie con Stalin.

E sempre ieri la pagina ufficiale del Pd Lazio ricorda l'anniversario della morte di Palmiro Togliatti: «Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano. Il nostro obiettivo è la creazione nel nostro Paese di una società di liberi e di eguali. 21 agosto 1964, moriva a Jalta Palmiro Togliatti, fondatore del Pci, padre costituente, uno dei politici più influenti del Novecento» si legge. Inutile ricordare che Togliatti fu il più filosovietico tra i leader del partito comunista italiano. Tanto da meritarsi il nome di una città in suo onore nell'Unione sovietica, Togliattigrad.

Letta è accerchiato dai filo russi. E prova a buttare la palla nel campo degli avversari. Però i filo sovietici ce li ha in casa. Sarracino, con gli altri under 35 candidati nelle liste dem, sono tutti allievi di Peppe Provenzano, l'ex ministro che guida insieme ad Andrea Orlando l'ala più a sinistra del Pd. Sarracino è stato uno dei più convinti sostenitori dell'accordo (poi saltato) tra il Partito democratico e la sinistra radicale dei centri sociali guidata in città dall'ex sindaco di Napoli Luigi e Magistris.

Su Sarracino attacca anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, sul filo del sarcasmo e dell'ironia: «Enrico Letta aveva ostentato con orgoglio i suoi candidati under 35. Ma alla luce di certe affermazioni di questi esponenti del Pd viene da chiedersi dove li abbia trovati Enrico Letta. Saranno pure anagraficamente giovani, ma sono culturalmente e ideologicamente paleolitici. Rachele Scarpa ha esternato pensieri inaccettabili nei confronti di Israele, superata da tale La Regina, che si è già ritirato a causa di sue analoghe affermazioni assurde nei confronti di Israele. Ora viene fuori tra questi candidati anche un tale Sarracino che addirittura avrebbe lodato la rivoluzione di ottobre, Lenin e l'Armata rossa. Avendo verificate le idee di questi giovani virgulti, a Letta Fratoianni sarà sembrato moderatissimo, pur essendo di idee di estrema sinistra. Letta è veramente un venditore di pentole bucate. Nemmeno Wanna Marchi l'avrebbe preso come assistente».

L'imbarazzo al Nazareno è forte. Letta ha ordinato a tutti candidati: ripulite le vostre pagine dalle simpatie sovietiche. Inutile, il passato rosso viene a riprenderlo.

Da repubblica.it il 22 agosto 2022.

Chi è senza colpa social scagli la prima pietra. E però ne fischiano già parecchie, l’altro ieri contro due giovani capilista del Pd: quello che ci ha rimesso il posto in Basilicata aveva fatto pure lo spiritoso sottomettendo la credibilità dello stato di Israele a una specialità di pastasciutta, “il mollicato” di una leggendaria trattoria di Avigliano, “Mauariedd”. 

Ieri ben tre sassate. Una contro un ulteriore capolista under 30 del Pd, Marco Sarracino, in Campania, pizzicato a inneggiare nel 2019 alla Rivoluzione d’ottobre e all’Unione sovietica; una seconda, sul versante opposto, ai danni di un esponente marchigiano di Fratelli d’Italia, Guido Castelli, che si affacciava nerovestito su Facebook facendo il saluto romano, in data imprecisata, ma sul portone della Cripta Mussolini. Infine sempre via social si è scoperta che una candidata napoletana dei cinque stelle, Claudia Majolo, qualche anno fa non solo pubblicava hashtag tipo #Berlusconiamoremio, ma si scagliava proprio contro i grillini facendo loro pesare che “o’ Nan’”, cioè il Cavaliere, insomma secondo lei “chiavava” assai più di loro e “con le femmine più belle”.

I SOCIAL E L'EFFETTO BOOMERANG. Estratto dall'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Chi è senza colpa social scagli la prima pietra. E però ne fischiano già parecchie, l'altro ieri contro due giovani capilista del Pd: quello che ci ha rimesso il posto in Basilicata aveva fatto pure lo spiritoso sottomettendo la credibilità dello stato di Israele a una specialità di pastasciutta, "il mollicato" di una leggendaria trattoria di Avigliano, "Mauariedd". Mentre la collega Rachele Scarpa oltre alle critiche a Israele ha sciorinato elogi alla patrimoniale altre tre sassate. 

Una contro un ulteriore capolista under 30 del Pd, Marco Sarracino, in Campania, pizzicato a inneggiare nel 2019 alla Rivoluzione d'ottobre e all'Unione sovietica; una seconda, sul versante opposto, ai danni di un esponente marchigiano di Fratelli d'Italia, Guido Castelli, che si affacciava nerovestito su Facebook facendo il saluto romano, in data imprecisata, ma sul portone della Cripta Mussolini.

Infine sempre via social si è scoperta che una candidata napoletana dei cinque stelle, Claudia Majolo, qualche anno fa non solo pubblicava hashtag tipo #Berlusconiamoremio, ma si scagliava proprio contro i grillini facendo loro pesare che "o' Nan'", cioè il Cavaliere, insomma secondo lei "chiavava" assai più di loro e "con le femmine più belle". 

Sia consentito di non entrare nel merito delle singole vicende, anche perché altre, e poi altre, e altre ancora ne usciranno fuori. Più interessante è la frequenza di questi agguati della memoria digitale resi massivi, a destra come a sinistra, dall'imponente e disinvolto uso dei social, specie da parte delle giovani generazioni, secondo moduli che potrebbero definirsi di autolesionismo postumo; ossia un giorno, lillo lallo, pubblichi una roba che, come un boomerang al rallentatore, prima o poi ti ritorna addosso. 

Si può quindi aggiungere che come un tempo esistevano gli agit-prop, esistono oggi squadrette di sicari che perlustrano il web alla ricerca di post e foto potenzialmente compromettenti. Hai voglia infatti a cancellare. Perché lì dentro resta assolutamente tutto. […]

È difficile stabilire se l'odierna visibilità, figlia della moltiplicazione degli schermi, sia la causa o un effetto di questi procurati incidenti; sta di fatto che il regime dell'auto- apparenza accompagna passo passo una classe politica che nei social si esprime attraverso un costante sfogo di narcisismo, esibizionismo, imprudenza, faccia tosta, leggerezza e volatilità.

In altre parole le piattaforme digitali sono a tutte le età e a tutti i livelli del potere l'ideale palcoscenico dell'odierna crisi italiana, ma anche il luogo meno difeso rispetto alle possibili, anzi certissime incursioni del nemico (pure lui, comunque, in via di disfacimento). [..]

Connessi in modo parossistico alla rete, finiscono in realtà per sconnettersi dalla realtà scoprendosi, anzi offrendo di buon grado il fianco a qualsiasi malintenzionato che sappia sfruttare, prima durante e dopo la campagna elettorale, promesse a vanvera, sparate contraddittorie, selfie con gentaccia, sfacciati assenteismi, microfoni accesi e vocali imperdonabili; e ancora account fasulli, lodi auto- sbrodolate, paparazzate abituali od occasionali, citazioni assurde, errori di grammatica, e giù fino ai colpi di sonno, ai titoli di studio fasulli, ai posteggi in seconda fila e alle risatine durante i funerali. […] 

QUANTI CADUTI PER UN TWEET IN RETE. Estratto dall'articolo di Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 22 agosto 2022.  

Ne "uccide" - in senso metaforico - più Twitter della spada. E degli stessi veti incrociati delle correnti interne ai partiti. Di recente, le cronache politiche sono uno stillicidio di candidature mancate o ritirate a causa di improvvidi tweet e post che riemergono dal passato. Un «twittericidio» che sta lasciando diversi caduti sul campo. […] 

Grande Fratello Internet? Social-maccartismo? Il punto è che le tracce digitali non vanno "in prescrizione", e per la politica non vale il diritto all'oblio. Così Twitter, insieme agli altri media sociali, si è trasformato in un armadio permanente degli scheletri di chi ambisce a una carica elettiva e, proprio per questo, dovrebbe darsi un profilo pubblico rigoroso o, quanto meno, rammentare il proverbio «un bel tacer non fu mai scritto». 

Adesso, giustappunto, valido specialmente sui social, dove si invera la profezia di Zuckerberg sull'avvento della trasparenza assoluta. Perciò, come avviene negli Usa, pure i partiti nostrani dovrebbero fare un po' di vetting (la verifica preventiva delle "credenziali" di chi presentano all'elettorato).

Matteo Salvini e la Russia, Marco Travaglio smonta il finto scoop. Il Tempo il 29 luglio 2022.

Russiagate, arriva l'avvocato difensore che non t'aspetti. Sul caso del dossier russo e dei presunti rapporti tra Lega e Cremlino, scende in campo perfino il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, che prende di petto il giornalista della Stampa Jacopo Iacoboni. Travaglio lo scrive nero su bianco nell'editoriale pubblicato sul suo giornale venerdì 29 luglio. E rivela che, in un primo momento, anche il Fatto stava per cadere nella trappola ma poi ha aperto gli occhi e si è tenuto alla larga dal quello che poi si sarebbe rivelato un finto scoop.   

Nel suo editoriale, Travaglio definisce il caso come una vera e propria "trappola della Stampa". E ancora: "Ci ha aperto gli occhi una prova più rocciosa della smentita di Gabrielli: la firma di Jacopo Iacoboni" che "vede Putin dappertutto”. Il direttore del Fatto Quotidiano affonda il colpo e scarica interamente su Draghi la responsabile della recente caduta del governo. “Se la caduta di Draghi l'avesse voluta Putin - scrive Travaglio - il suo primo complice sarebbe Draghi che vi si è impegnato più di lui: per fare un dispetto a Putin gli sarebbe bastato non insultare la Lega e i 5Stelle mentre chiedeva loro la fiducia. Invece si è sfiduciato da solo, putiniano che non è altro”.  

Berlusconi e le telefonate con l’ambasciatore russo: "Mi ha spiegato la verità sulla guerra". Tommaso Ciriaco su La Repubblica il 29 Luglio 2022.

Durante la crisi di governo, contatti con Razov: "L'Ucraina voleva attaccare Mosca". Meloni: "FdI con Kiev"

"Ho parlato con l'ambasciatore Razov, mi ha spiegato che la Russia...". Mercoledì scorso. Sono le ore folli che precedono la crisi di governo. Silvio Berlusconi alza il telefono, prima di eclissarsi a metà giornata e non rispondere al cellulare per almeno un'ora. Chiama un paio dei suoi ministri. Contatta alcuni parlamentari azzurri. Si confida con diversi big accorsi a Villa Grande, dove si sta consumando la cacciata di Mario Draghi.

(ANSA il 29 luglio 2022) - "Leggiamo con profondo stupore una fantasiosa ricostruzione del quotidiano "Repubblica", relativa alle ore precedenti alla caduta del governo Draghi. Stupisce che uno dei più grandi quotidiani italiani dia spazio a illazioni non soltanto infondate, ma che vanno nella direzione esattamente opposta rispetto alle nostre convinzioni e ai nostri comportamenti". 

E' quanto si legge in una nota di Forza Italia in merito ad un articolo di Repubblica dal titolo 'Le telefonate di Berlusconi con l'ambasciatore russo 'Mi ha spiegato la verità''. Nell'articolo si racconta che Berlusconi nel giorno della caduta del governo Draghi avrebbe parlato con diversi dirigenti e ministri azzurri criticando alcune scelte di politica estera dell'esecutivo e confidando loro di aver parlato con l'ambasciatore russo in Italia che avrebbe spiegato all'ex premier le ragioni di Mosca, che era stata l'Ucraina a fare ventimila vittime nelle zone contese e che l'invasione era necessaria perchè il rischio era che Kiev attaccasse la Russia.

"Innanzitutto - prosegue la nota - è sconcertante l'idea che un leader si faccia suggerire dall'ambasciatore di un paese straniero valutazioni di politica internazionale. Un leader della caratura internazionale di Silvio Berlusconi, quando desidera avere contatti con leader stranieri lo fa al massimo livello, cosa che con la Russia non avviene da molto tempo. Tutto questo farebbe addirittura sorridere, se non fossimo di fronte ad una delle peggiori tragedie del nostro tempo. 

La crisi Ucraina ha portato guerra, morte e distruzioni alle soglie dell'Europa, come conseguenza di una guerra scatenata dalla Russia in violazione del diritto internazionale. La nostra posizione su questo è perfettamente allineata con quella del Governo Italiano, dell'Unione Europea e degli Stati Uniti. La solidarietà atlantica per noi è una cosa seria, è il cardine della nostra politica estera. Questo non ci impedisce di provare profondo dolore per le vittime e le distruzioni e di auspicare, come farebbe ogni persona ragionevole, che si trovi una strada diplomatica per far cessare questo massacro".

"Lo abbiamo detto e ripetuto in tante occasioni ufficiali e Forza Italia lo ha tradotto in concreto con gli atti legislativi e le risoluzioni votate in Parlamento. Forse sarebbe più utile raccontare questi, che sono fatti ben chiari e visibili, piuttosto che raccogliere pettegolezzi mal interpretati o addirittura inventati di sana pianta". 

Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 29 luglio 2022.

"Ho parlato con l'ambasciatore Razov, mi ha spiegato che la Russia...". Mercoledì scorso. Sono le ore folli che precedono la crisi di governo. Silvio Berlusconi alza il telefono, prima di eclissarsi a metà giornata e non rispondere al cellulare per almeno un'ora. Chiama un paio dei suoi ministri. Contatta alcuni parlamentari azzurri. Si confida con diversi big accorsi a Villa Grande, dove si sta consumando la cacciata di Mario Draghi. 

A tutti, il Cavaliere consegna alcune critiche sui presunti errori in politica estera del premier che sta per silurare. E a un certo punto si lascia sfuggire una vera e propria rivelazione: "Ho parlato con l'ambasciatore russo in Italia Razov. Mi ha spiegato le loro ragioni, cosa ha fatto Zelensky". Di più: "Mi ha raccontato che è stata l'Ucraina a provocare ventimila vittime nelle zone contese. E che l'invasione era necessaria perché il rischio era che l'Ucraina attaccasse la Russia".

Al di là dell'enormità della tesi, che stravolge tutti i recenti eventi della crisi ucraina, il Cavaliere rende noto qualcosa che noto non era: il leader di uno dei partiti di maggioranza che non voterà la fiducia al presidente del Consiglio - lui, sì, attestato su una linea atlantica - è entrato in contatto con il terminale diplomatico di Mosca in Italia. Con chi cioè, ai massimi livelli, brinderà all'affossamento dell'ex banchiere. 

E d'altra parte, non è un mistero che Silvio Berlusconi sia sensibile alle ragioni di Mosca. Il suo rapporto con Putin è antico, consolidato, cementato in passato dalla sintonia su numerosi dossier. Nulla o quasi è cambiato dopo l'attacco di Mosca all'Ucraina. Al 24 febbraio sono seguiti giorni di silenzio.

Poi è arrivata una prima, moderata presa di posizione contro l'aggressione. Infine il Cavaliere è tornato a sposare le tesi dello Zar. Secondo diverse fonti, la virata è nata dopo un primo contatto con i russi. E si è concretizzata il 20 maggio scorso. 

 A Napoli per un evento di Forza Italia, l'ex premier critica la Nato e rilancia: "L'Europa deve fare una proposta di pace cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin. Inviare armi significa essere cobelligeranti". In quelle settimane pressioni della diplomazia americana giungono fino a Gianni Letta, per comprendere la linea del Cavaliere. Ma dura poco. Berlusconi non si spende per Kiev. Fino alla telefonata con Razov, rivelata dallo stesso leader. 

L'ambasciata russa in Italia è anche il canale con cui Salvini tiene i contatti con Mosca. Il teatro di incontri con Razov subito dopo l'avvio della guerra. Secondo alcune indiscrezioni, il leghista avrebbe ripreso a frequentare la sede diplomatica nelle ultime settimane. Tre o quattro volte tra fine giugno e fine luglio, ospite di Razov o del suo vice. 

Lo staff di Salvini, pur rivendicando i colloqui del passato, sostiene però che "gli ultimi contatti del segretario con l'ambasciata risalgono a maggio". Repubblica ha chiesto un commento anche all'ambasciata russa, senza ottenere risposta. Fonti di intelligence escludono, invece, che ci possa essere stato un controllo del lavoro di parlamentari o leader politici, oggi come nei mesi scorsi.

Diverso è il discorso dal punto di vista russo: come dimostra il caso Biot, l'ambasciata lavora da tempo come centrale del controspionaggio. Per influire, in qualche modo, sulle vicende politiche interne. 

Di certo, il dialogo tra Berlusconi, Salvini e la diplomazia russa imbarazza Giorgia Meloni. Già nel mirino della stampa internazionale, deve provare a distinguersi dagli alleati. E rassicurare l'attuale amministrazione Usa, che ha memoria dei suoi passati rapporti con Donald Trump. "Saremo garanti senza ambiguità della collocazione italiana - promette - e dell'assoluto sostegno all'eroica battaglia del popolo ucraino".

Sono tutte novità che si aggiungono a quanto pubblicato ieri dalla Stampa sui contatti avuti il 27 e 28 maggio dal consigliere di Salvini per i rapporti internazionali, Antonio Capuano, con Oleg Kostyukov, un funzionario dell'ambasciata russa, nel periodo in cui Carroccio e 5S si opponevano all'invio di armi a Kiev. 

Il funzionario avrebbe chiesto se i ministri leghisti fossero intenzionati a dimettersi. Il leader del Carroccio ha replicato parlando di "fake news". Il sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli ha negato un ruolo dell'intelligence italiana nella vicenda. Enrico Letta e Luigi Di Maio denunciano però queste "rivelazioni inquietanti". E anche Fratelli d'Italia attacca: "Le questioni di carattere internazionale vanno chiarite e approfondite".

 Estratto dell’articolo di Francesco Olivo per “la Stampa” il 29 luglio 2022.  

La Lega si sente accerchiata: da una parte vede in azione quella che chiama la «macchina del fango», dall'altra avverte la paura che ci siano apparati, non meglio precisati, pronti a colpire nel momento più delicato. Le rivelazioni de La Stampa sui contatti tra il consigliere di Matteo Salvini, Antonio Capuano, e un funzionario dell'ambasciata russa, Oleg Kostyukov guastano il clima ottimista nel centrodestra […]

C'è un precedente che in via Bellerio ricordano con fastidio: la visita di Salvini in Polonia del marzo scorso, quando il segretario fu contestato al confine con l'Ucraina dal sindaco di Przemy, che esibì una maglietta con il volto di Putin, indossata anni prima dal segretario della Lega. In molti nel cerchio ristretto salviniano ritengono che si sia trattata di un'imboscata montata ad arte per esporlo a una figuraccia che fece il giro del mondo.

[…]Tra i dirigenti leghisti il timore che potessero arrivare nuovi dettagli sui rapporti di Salvini con i russi è sempre stato presente. Quel viaggio mai fatto a Mosca ha suscitato grande perplessità, nel migliore dei casi, all'interno del partito. Quando sui giornali sono emersi i dettagli dell'organizzazione persino un partito monolitico come la Lega ha vacillato, e il segretario ha dovuto trascorrere molto tempo a spiegare i suoi movimenti. 

L'aspetto che più ha indispettito i dirigenti del Carroccio, anche quelli vicinissimi a Salvini, come il suo vice Lorenzo Fontana, era proprio il ruolo di Antonio Capuano, l'ex deputato di Forza Italia, diventato consulente che apriva le porte delle ambasciate. Allora c'era una campagna elettorale, quella delle amministrative, finita con una sconfitta, oggi la posta in gioco è più alta. Nel Carroccio sperano che non tornino i fantasmi dell'ambasciata russa. 

Massimo Giannini insulta Lega e Salvini: "Utili idioti". Libero Quotidiano il 29 luglio 2022.

Massimo Giannini, nel suo editoriale su La Stampa, difende quanto il suo stesso giornale ha scritto sulle presunte ingerenze russe su Matteo Salvini per la caduta del governo di Mario Draghi. "Siamo consapevoli di quanto siano delicati i nuovi dettagli sul Russia-gate della Lega, emersi dal retroscena di Jacopo Iacoboni pubblicato ieri sul nostro giornale. I colloqui riservati tra Antonio Capuano, emissario di Via Bellerio, e Oleg Kostyukov, numero due dell'Ambasciata russa a Roma, deflagrano in piena campagna elettorale. Confermano l'esistenza di un legame particolare tra il Cremlino e il Carroccio. Gettano una luce nuova e diversa anche sulla caduta di Draghi. Evidenziano per la prima volta un possibile nesso causale tra il supporto dei diplomatici di Putin al 'viaggio di pace' di Salvini a Mosca e il ritiro dei ministri leghisti dal governo".

Quindi il direttore de La Stampa contrattacca chi ha accusato il suo giornale di produrre fake news: "Ci rendiamo conto dell'enorme rilevanza politica di questi fatti. Per questo, di fronte alle reazioni sdegnate e alle smentite scontate, ci teniamo a confermare tutto quello che abbiamo scritto. A ribadire che i dettagli sugli incontri e sulle conversazioni tra Kostyukov e Capuano sono contenuti in documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali. Dunque, è la Lega che deve spiegare una volta per tutte al Parlamento e al Paese le sue 'relazioni pericolose' in politica estera. Noi non dobbiamo chiarire alcunché". E conclude durissimo: "La certezza è che alla Stampa non ci sono 'servi sciocchi' della sinistra. La speranza è che nella Lega non ci siano 'utili idioti' della Russia".

I DOCUMENTI DELL’ANTIRICICLAGGIO SUL FUNZIONARIO RUSSO DEL VIAGGIO A MOSCA DI MATTEO. Quei 125mila euro in contanti per il convegno con Salvini e Putin. EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 30 luglio 2022

Il 17 ottobre 2014, a Milano, Matteo Salvini ha incontrato Vladimir Putin. Un saluto rapido, un caffè al volo dopo un importante convention sull’Eurasia che si teneva in quei giorni nel capoluogo lombardo. Forse il primo incontro tra il capo della Lega e il presidente della federazione russa.

In quei giorni però l’antiriciclaggio italiana fa una scoperta, uno strano giro di denaro in contatti subito segnalato come sospetto. Si trattava di 125 mila dollari movimentati da un alto funzionario dell’ambasciata russa in Italia.

E precisamente da quel funzionario che di nome fa Oleg Kostyukov, lo stesso che in questi mesi ha curato le relazioni con Matteo Salvini e il suo consulente improvvisato, Antonio Capuano, l’avvocato di Frattaminore (Napoli) con un passato in Forza Italia e stabili relazioni con il mondo della diplomazia soprattutto mediorientale. 

EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 29 luglio 2022.  

I rapporti tra Matteo Salvini e uomini dell'ambasciata russa in Italia continuano ad agitare la politica. A giugno la notizia degli incontri segreti del leghista e del suo consigliere diplomatico Antonio Capuano con l'ambasciatore Sergey Razov (raccontate da Domani) e quella sull'acquisto dei biglietti aerei per l'asserito “viaggio di pace” a Mosca del Capitano (un’esclusiva della Verità) avevano creato imbarazzo al partito e polemiche.

Ieri un nuovo retroscena della Stampa ha aggiunto dettagli interessanti alla liaison tra il Carroccio e gli emissari di Vladimir Putin. Che riguardano alcuni colloqui avvenuti lo scorso fine maggio tra Capuano e Oleg Kostyukov, il capo dell'ufficio politico dell'ambasciata già finito sulle cronache per aver anticipato i soldi dei voli, poi restituiti dalla Lega. 

Secondo il quotidiano torinese – che cita e virgoletta le parole di un presunto documento informale dell'intelligence - durante uno di questi colloqui il funzionario russo domanderebbe a Capuano se i ministri della Lega sarebbero «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Un quesito che farebbe «trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del governo italiano con questa operazione».

Draghi, atlantista e convinto assertore dall'aiuto militare all'Ucraina sempre contrastato dalla Lega (e dai Cinque Stelle), è caduto poco più di un mese dopo il colloquio riportato dal giornale. Per tutta la giornata il centrosinistra ha chiesto a Salvini di spiegare se la scelta di non dare la fiducia a Draghi sia stata o meno condizionata dalle pressioni dei russi. Salvini e i suoi uomini hanno reagito parlando di una «panzana». 

Salvini ha pure anticipato una smentita istituzionale all'articolo, arrivata in effetti da Franco Gabrielli pochi minuti dopo. Il sottosegretario con delega ai servizi segreti ha detto che «l'attribuzione all'intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra Capuano e rappresentanti dell'ambasciata russa per far cadere il governo Draghi sono prive di ogni fondamento». La Stampa ha confermato lo scoop e l'esistenza di documenti, seppur definendoli «una sintesi informale dell'intelligence sulla vicenda, comunicata ai competenti livelli istituzionali». Ossia, allo stesso Gabrielli, che però dice che le informazioni non sono attribuibili al comparto che sovrintende.

Dunque, chi mente? Esistono o meno carte delle nostre agenzie di sicurezza che riportano frasi in cui Kostyukov (figlio del comandante del Gru, i servizi militari russi) in cui si fanno domande o pressioni sul consigliere di Salvini per fare cadere un esecutivo non gradito? 

Domani ha sentito fonti interne al comparto, funzionari russi e autorevoli esponenti governativi vicino al dossier, e può aggiungere qualche tassello. Testimonianze che evidenziano soprattutto come all'origine dell'episodio ci sia stata un'operazione di spionaggio dei nostri servizi, che hanno effettuato – scopre adesso Domani - intercettazioni preventive sul telefono di Capuano.

Il contenuto di alcune conversazione captate tra il russo e l'avvocato di Frattaminore sono poi finite – forse a causa di qualche fonte interna ai servizi o alla catena di funzionari al Dis e a palazzo Chigi che conoscevano i fatti – prima alla Verità (che aveva già dato l’identica notizia di ieri il 10 giugno) e poi alla Stampa (che ieri l'ha rilanciata con eco assai maggiore). 

Una fuga di notizie che in queste ore sta preoccupando le nostre agenzie di sicurezza, in primis l'Aisi di Mario Parente e poi il Dis di Elisabetta Belloni: quasi mai intercettazioni preventive effettuate dai servizi a cittadini italiani o stranieri sono arrivate in tempo reale – seppur secondo Gabrielli in maniera imprecisa e non mediata dall'intelligence – sui media.

Partiamo dalla sera primo marzo 2022. L'invasione di Mosca dell'Ucraina è iniziata da pochi giorni, e Salvini e Capuano varcano il portone dell'ambasciata russa a Roma. Forse non sanno che villa Abamelek sul Gianicolo è uno dei palazzi più sorvegliati d'Italia. Non solo dalla polizia per normali questioni di sicurezza, ma anche dal nostro controspionaggio dell'Aisi e dai servizi segreti americani. 

Capuano è pure segnalato dall'antiriciclaggio, ed è noto da tempo per avere eccellenti rapporti con l'ambasciatori mediorientali. Dopo la sua seconda visita in ambasciata, seguendo la prassi (che prevederebbe una richiesta alla procura generale in caso di captazione) la nostra intelligence decide di intercettare il telefono del legale campano. I nostri 007 vogliono capire chi sono i suoi interlocutori, e se dietro l'attivismo del neo consigliere diplomatico di Salvini ci siano rischi per la sicurezza nazionale.

A fine maggio il telefono di Capuano diventa caldissimo. Lui e Salvini hanno infatti deciso, d'accordo con Razov, di partire per la Russia e incontrare pezzi grossi del Cremlino, compreso il ministro degli esteri Lavrov. I nostri agenti ascoltano tutto, compreso il pasticcio dell'acquisto dei biglietti: la Lega non riesce a comprarli per via delle sanzioni, così il capo dell’ufficio politico Kostyukov si offre di comprali di tasca sua, anticipando la somma in rubli. Il viaggio, poi, salta quando l'ipotesi di una visita a Mosca di Salvini finisce sui giornali.

A giugno il caso riesplode prima su Domani, che svela cene e incontri tra Razov e Salvini, e poi sulla Verità che pubblica la vicenda dei biglietti aerei, conosciuta a pochissimi uomini della cerchia del leader leghista. Salvini si domanda chi possa averla spifferata al giornale amico, e comincia a sospettare di qualche talpa all'interno dei nostri apparati di sicurezza. «È in quel momento che abbiamo capito che Capuano probabilmente era stato intercettato», spiegano alcuni fedelissimi del leghista. 

Il 10 giugno la Verità pubblica un articolo sugli affari di Capuano. Anche stavolta, le informazioni sembrano provenire da fonti che hanno ascoltato direttamente i colloqui. Nelle righe finali, viene riporta esattamente la notizia pubblicata ieri dalla Stampa. Senza citare fonti né documenti di intelligence, La Verità scrive: «Nella serata del 28 maggio...i russi (parlando con Capuano, ndr) da parte loro si sarebbero mostrati interessati a sapere se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni del governo». Un testo identico a quello del documento ufficioso citato dal foglio torinese.

Fonti diplomatiche russe negano a Domani che ci sia mai stata da parte di Mosca alcuna operazione di sabotaggio dell'odiato Draghi, e che in quei giorni «sui giornali italiani era un susseguirsi di dichiarazioni della Lega contro il governo sulla questione del ddl Concorrenza e dei balneari». Insomma, pure se Kostyukov avesse fatto la domanda a Capuano sui ministri, non si trattava per i russi di una pressione sulla Lega per far cadere il governo, ma di una semplice curiosità politica, suppur certamente interessata. Abbiamo provato a chiamare il funzionario per sapere se avesse fatto quella domanda e a qual fine, ma senza successo.

La vecchia notizia dalla Verità torna in prima pagina sulla Stampa, e assume un sapore assai più rilevante: non solo perché intanto il governo è davvero caduto anche per mano della Lega, ma perché viene citato un documento dell'intelligence che conterrebbe virgolettati precisi di quei colloqui.

Nel pezzo non parla mai di intercettazioni da parte del controspionaggio, ma diversi testimoni spiegano a Domani che il contenuto delle telefonate tra Capuano e Kostyukov verrebbe proprio dalle “preventive” ordinate mesi prima dall’Aisi. Ma perché Gabrielli scrive dunque una nota così netta? Perché vuole proteggere l'intelligence tenendola fuori dalla tenzone elettorale. E perché, conoscendo bene il contenuto delle telefonate (come ovvio che sia, essendo autorità delegata), in assenza di trascrizioni e documenti ufficiali delle stesse vuole buttare acqua sul fuoco delle polemiche politiche. Perché nelle interlocuzioni registrate della coppia non ci sarebbero indicazioni di operazioni, come scrive Gabrielli, «per far cadere il governo Draghi».

Qualcuno nell'Aisi dice che non esisterebbe nemmeno una corrispondenza letterale tra le registrazioni dei colloqui e le frasi virgolettate uscite sui giornali, ma il tema è secondario. Le interlocuzioni tra russi, Salvini e Capuano ci sono state eccome, e la nuova vicenda pone senza dubbio ulteriori interrogativi sulla natura dei reali rapporti tra Salvini e la Russia, e sul perché il leghista si sia affidato a uno come Capuano. 

Quante intercettazioni inedite di Capuano hanno ancora in mano i nostri servizi e/o altri soggetti di apparati stranieri? E chi e perché – anche se a spizzichi e bocconi – ha fatto uscire materiale segreto così dirompente? 

È quello che si chiede oggi Salvini, che sa bene che lui stesso potrebbe essere stato registrato nel caso avesse chiamato il telefono del consulente.

Il problema politico è triplice. Perché il segretario di un partito che si appresta a governare, invece di fare mea culpa per le sue frequentazioni pericolose, denuncia complotti. Ma la verità che da Gianluca Savoini, protagonista dello scandalo Metropol, all'avvocato Capuano è lui e la sua corte la causa primaria delle sue sventure.

Le rivelazioni (vere) de “La Stampa” sui rapporti fra la Russia e Lega agitano la politica. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Luglio 2022. 

Nel merito il leader della Lega non smentisce i fatti riportati nell’articolo pubblicato ieri dal quotidiano La Stampa. A cominciare dai contatti tra un funzionario dell’ambasciata russa a Roma e il suo consigliere per i rapporti internazionali, l’avvocato Antonio Capuano ex parlamentare di Forza Italia

E’ scoppiata una vera e propria bufera politica sulle presunte ingerenze russe nella caduta del governo Draghi rivelate dal quotidiano La Stampa, al leader della Lega sono arrivati durissimi attacchi dalla sinistra, con pressanti richieste di chiarimenti. Per Matteo Salvini sono solo “fesserie” e “fake news“.

Enrico Letta segretario del Pd ha annunciato interrogazioni parlamentari e chiede al Copasir di approfondire la vicenda, definendo “inquietanti” le notizie pubblicate: “Sarebbe una cosa di una gravità senza fine“. Secondo il segretario del Pd, “questa campagna elettorale inizia nel modo peggiore, con una grandissima macchia. Vogliamo sapere se è stato Putin a far cadere il governo Draghi”. Richiesta rilanciata, nell’aula della Camera, dalla deputata dem Lia Quartapelle, la quale sollecita un’informativa urgente del governo, scatenando forti proteste dai banchi del centrodestra. Uno scontro che si ripete al Senato, tra il senatore “dem” Dario Parrini e il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo.

Una sollecitazione che viene ritenuta “legittima” anche dagli alleati di Fratelli d’Italia: “Le questioni di carattere internazionale vanno chiarite e approfondite“, afferma il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida. Un atteggiamento prudente in linea con il messaggio filo-atlantico lanciato da Giorgia Meloni, in occasione della direzione del partito: “Saremo garanti, senza ambiguità, della collocazione italiana e dell’assoluto sostegno all’eroica battaglia del popolo ucraino – dice la leader di FdI – Un’Italia guidata da noi e dal centrodestra sarà affidabile sui tavoli internazionali“. Dichiarazioni che non sono proprio una mano tesa all’alleato Salvini in difficoltà.

Letta lancia anche un appello a vigilare per “garantire che la campagna elettorale si svolgerà senza influenze esterne da parte della Russia“. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, si limita a dichiarare che “le ingerenze straniere nei processi elettorali sono oggetto di attenzione anche in Italia”. La stessa attenzione che predica il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il quale invita Salvini a “spiegare queste sue relazioni con la Russia, negli stessi giorni in cui si faceva pagare in rubli il biglietto per Mosca” ed attacca il Movimento 5 stelle: “Questo tentativo da parte russa di far ritirare i ministri della Lega – spiega – fa il paio con l’endorsement dell’ambasciatore russo alla bozza di risoluzione del partito di Conte sulla questione Ucraina”. 

Giuseppe Conte replica definendole solo “corbellerie“, visto che “il sottoscritto non è andato in nessuna ambasciata russa, non ha avuto contatti con esponenti del governo russo, perché noi queste cose non le facciamo – spiega – Salvini deve chiarire nelle sedi opportune, non possiamo permetterci opacità in un momento così delicato“.

Nel merito il leader della Lega non smentisce i fatti riportati nell’articolo pubblicato ieri dal quotidiano La Stampa. A cominciare dai contatti tra un funzionario dell’ambasciata russa a Roma e il suo consigliere per i rapporti internazionali, l’avvocato Antonio Capuano ex parlamentare di Forza Italia. In una delle conversazioni, circa due mesi prima della caduta del governo Draghi, il diplomatico si informava sulle intenzioni dei ministri leghisti, se fossero pronti a dimettersi. Salvini prova minimizzare: “Io ho lavorato e lavoro per la pace e per cercare di fermare questa maledetta guerra. Figurati se vado a parlare di ministri e viceministri – dice a Radio24 – mi sembra la solita fantasia in cui c’è Putin, c’è il fascismo, il razzismo, il nazismo, il sovranismo“. 

I ministri leghisti, quelli che avrebbero dovuto mollare il governo, diffondono una nota congiunta: “Dimissioni su richiesta di Putin? Si, su Marte – scrivono Giorgetti, Garavaglia e Stefani – Qualcuno ha preso un colpo di sole molto serio“. In realtà, il caso viene preso molto sul serio anche fuori dall’Italia: da Washington, ad esempio, fonti diplomatiche dell’amministrazione americana esprimono “seria preoccupazione” per la vicenda.

A spegnere le polemiche evidentemente non è bastata la nota di smentita firmata dal sottosegretario Franco Gabrielli, che ha la delega alla Sicurezza della Repubblica: “Le notizie circa l’attribuzione all’intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l’avvocato Capuano e rappresentanti dell’ambasciata russa in Italia, per far cadere il governo Draghi, sono prive di ogni fondamento“. Precisazione doverosa dal punto di vista istituzionale, che però non smonta la ricostruzione fatta nell’articolo, tanto che la direzione de La Stampa conferma che “i documenti visionati dal nostro giornale sono una sintesi informale del lavoro d’intelligence sulla vicenda“.

Secondo quanto risulta anche a chi scrive, quanto emerso dagli articoli del quotidiano La Stampa è assolutamente veritiero, anche se resta da chiedersi: chi aveva interesse di far uscire dai “servizi” italiani questa velina che da origine alle notizie di stampa ? Come avrebbe mai potuto il sottosegretario Gabrielli confermare la veridicità di quanto trapelato ? Se lo avesse fatto avrebbe avrebbe delegittimato a livello internazionale i nostri “servizi” esteri. Ed un uomo di Stato come Gabrielli queste cose le sa molto bene.

In una campagna elettorale già tesa emergono elementi nuovi sul rapporto tra Matteo Salvini e la Russia, che illuminano di una luce inquietante anche la caduta di Mario Draghi, e gli eventi accaduti negli ultimi due mesi di vita del governo.

Secondo documenti d’intelligence che La Stampa ha potuto visionare, alla fine di maggio Oleg Kostyukov, importante funzionario dell’ambasciata russa, domanda a un emissario del leader leghista se i loro ministri sono «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Lasciando quindi agli atti un interesse fattuale di Mosca alla «destabilizzazione» dell’Italia. In quei giorni Salvini e il M5S stanno scatenando l’offensiva contro l’allora premier, rispettivamente, con la campagna d’opinione e la risoluzione parlamentare che punta a chiedere il no all’invio delle armi in Ucraina, e i russi ritengono giunto il momento di poter esplicitare il passo più grave: Kostuykov domanda al consigliere per i rapporti internazionali del leader della Lega Salvini, Antonio Capuano – un ex deputato napoletano di Forza Italia, oggi non più parlamentare, che in passato sostenne di aver aiutato l’allora ministro Frattini in alcuni dossier internazionali – se i leghisti si vogliono ritirare dal governo, in sostanza facendolo cadere. «Il diplomatico, facendo trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del Governo italiano con questa operazione, avrebbe chiesto se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni dal Governo».

Kostuykov, «vicario dell’ufficio politico dell’ambasciata russa a Roma», è l’uomo che, come forse ricorderete, compra materialmente in quei giorni i biglietti aerei per la tentata, e poi abortita, “missione di pace” di Salvini a Mosca. Biglietti che il capo leghista ha spiegato poi di aver rimborsato. Ma ovviamente il problema non è solo quello: mentre aiutavano ad acquistare i biglietti, i russi si interessavano alle sorti del governo italiano. Tutto questo avviene in una serie di conversazioni tra il 27 e il 28 maggio 2022. Il 26, il giorno prima, Draghi ha parlato al telefono con Putin per provare a sbloccare la crisi del grano, uscirà dalla telefonata con un amaro “non ho visto spiragli di pace“. Con una mano Putin parla con Draghi. Con l’altra mano, i funzionari russi si adoperano con la Lega, contro Draghi.

In tutta la primavera del 2022 l’attivismo russo in Italia è stato attentamente monitorato. A inizio di maggio del 2022 Capuano sarebbe contattato “da una esponente (non si fa il nome di questa donna, ndr) del partito di Vladimir Putin, Russia Unita, che, informata della missione programmata per il leader del Carroccio, si sarebbe offerta di supportare il Consulente di Salvini nell’organizzazione della trasferta, suggerendogli in prima battuta di prelevare il denaro necessario per effettuare tutti i pagamenti previsti nel corso della trasferta, da convertire in rubli in loco, essendo inutilizzabili carte di credito e bonifici bancari. In tale contesto, il Consulente avrebbe riferito di incontri già fissati con il Ministro Sergej Lavrov – con il quale sarebbe stato programmato un pranzo per il 6 maggio 2022 – e con il Presidente della Camera Alta dell’Assemblea Federale russa, Valentina Matvienko“.

Matvienko, piccola parentesi, è una oligarca non da poco: possiede una straordinaria proprietà in Italia, sulla costa di Pesaro, 26 ettari di territorio, 650 metri di costa disponibile e totalmente privatizzata, casa di 774 metri quadrati. È una delle funzionarie più potenti del regime del Cremlino, quella che il 23 febbraio 2022 ha firmato la richiesta di truppe russe all’estero, ossia l’entrata in guerra della Russia con l’invasione dell’Ucraina. Una donna che è naturalmente sotto sanzioni dell’Ue – addirittura fin dalla prima ondata, il 21 marzo 2014, assieme a uomini come Vladislav Surkov, allora consigliere di Putin, il “mago del Cremlino”, e Sergey Narishkin, oggi capo del Svr, i servizi esteri russi. Non è chiaro perché questa magione non sia stata sequestrata, nel momento in cui scriviamo.

Matvienko viene da una lunga storia sovietica, prima nel Komsomol, il Comitato della Gioventù Sovietica, poi nel Partito e nel Servizio diplomatico. Sostiene Kamil Galeev, fellow del Wilson Center e esperto di storia sovietica, che, parlando in linea generale, le giovani donne del Komsomol svolgevano per lo più compiti di accompagnatrici in quella Unione sovietica brutalmente sessista: «Le ragazze stereotipate del Komsomol che aspiravano alla carriera partecipavano spesso a saune con i capi, in Urss era chiamato “l’escort service”“.

Lavrov, Matvienko, forse anche Putin: questa è la triade che i russi promettono di far incontrare al capo della Lega a Mosca. Il 19 maggio 2022 Salvini aveva già incontrato “riservatamente l’Ambasciatore russo, con il quale avrebbe discusso anche dell’eventuale viaggio di Papa Francesco in Russia, ravvisando uno spiraglio circa la possibilità che esso si concretizzi alla luce della disponibilità del diplomatico, che avrebbe unicamente posto una non meglio identificata condizione, ritenuta tuttavia superabile“.

Il 27 maggio, in Vaticano, il cardinale di Stato Pietro Parolin vede Salvini e, appunto, il consulente Capuano, che evidentemente non è un mitomane. E qui entra in gioco la disponibilità di un terzo Paese, non del tutto amichevole con Mario Draghi: la Turchia di Recep Tayyip Erdogan – che Draghi definì senza tanti giri di parole «un dittatore». Apprendiamo che “la logistica del viaggio dovrebbe prevedere uno scalo intermedio in Turchia, prima di arrivare a Mosca“. In questo contesto si inserisce la vicenda specifica – già diventata pubblica, e confermata anche dall’ambasciata russa – dei voli che il capo leghista non riesce ad acquistare. Gli viene in aiuto Oleg Kostyukov. Finora però non si era mai saputo il tenore dei colloqui tra il russo e il consulente del leader leghista. Kostyukov, dettaglio notevole, sarebbe il figlio di Igor Kostyukov, il capo del Gru, i servizi militari di Mosca, pezzo grossissimo dell’apparato putiniano. Abbiamo chiesto all’ambasciata russa a Roma una conferma o smentita sui legami tra i due, non abbiamo ricevuto alcuna risposta.

La sera del 27 maggio l’ambasciata russa manda per sms a Capuano i biglietti aerei di Salvini. Il quale riceve conferma che oltre al pranzo con Lavrov, ci sarà un incontro «fissato per martedì 31 maggio 2022», con Dmitry Medvedev, l’uomo che in questi mesi si è dimostrato il più falco dei falchi del Cremlino, e che 50 giorni dopo, alla caduta di Draghi, esulterà postando su Telegram una foto del premier italiano e di Boris Johnson, e la didascalia «chi sarà il prossimo?».

«Salvini – veniamo a sapere – avrebbe precisato che il suo obiettivo sarebbe di riuscire ad ottenere qualcosa a livello mediatico, fosse anche soltanto “una pacca sulla spalla”». Già era campagna elettorale?

Nella scena di questa spericolata operazione – che i russi dunque legano non solo a questioni internazionali, ma anche ad affari interni italiani che non dovrebbero riguardarli – gli americani si accorgono dei movimenti e cercano di marcarli, e depotenziarli. “Capuano sarebbe stato contattato da un soggetto dell’ambasciata americana a Roma, che si sarebbe detto molto interessato al viaggio del senatore Salvini a Mosca, pur non avendone ancora compreso la reale finalità. Capuano avrebbe risposto di non poter fornire dettagli (agli americani)”, e avrebbe rilanciato la palla chiedendo di vedere eventualmente dopo il viaggio in Russia l’allora incaricato d’affari dell’ambasciata Usa, sollecitandolo a organizzare un incontro del leader leghista “con esponenti di altissimo livello a Washington”. Gli americani, sappiamo da fonti qualificate, ovviamente non daranno mai seguito a questa cosa. Ma continueranno a tenere discretamente d’occhio questa vicenda.

Dopo l’ultimo contatto coi russi, che annuncia la decisione di Salvini di rinunciare all’impresa, Kostyukov compie l’opera. Di fronte a un Capuano in agitazione per la possibile irritazione del Cremlino, lo rassicura «di non preoccuparsi per gli impatti su Mosca»: «Parallele evidenze attesterebbero che il diplomatico russo, dopo il colloquio con Capuano, avrebbe lasciato la propria residenza per recarsi all’Ambasciata russa a Roma dove si sarebbe trattenuto per circa un’ora, verosimilmente allo scopo di tenere comunicazioni riservate con Mosca». Il viaggio leghista a Mosca è fallito, ma c’è ampio e soddisfacente materiale per l’operazione-caduta di Draghi.

Tutto questo avviene due mesi prima dell’impallinamento di Draghi, quando tutti gli attori si muovono ancora nel regno delle possibilità, e commettono dunque qualche spericolatezza. Non sappiamo cosa succede nell’ultimo mese e mezzo, se gli interessi russi per le scelte dei ministri italiani si siano riappalesati. Certo fanno impressione, a rileggerle in questa luce, le parole pronunciate dal premier italiano in quello che resta il suo ultimo discorso in Senato: «In politica estera, abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostegno del governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin». Redazione CdG 1947

Che scoperta! Non servono indagini per sapere che Salvini non sta dalla parte del mondo libero. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 30 Luglio 2022.

A definire la posizione della Lega e del suo leader bastano i silenzi che ha avuto sull’invasione di Putin, mentre il sostegno (incerto) alla giusta linea Draghi è sempre stato dato obtorto collo, solo per opportunismo e non per convinzione politica.

È stato necessario prenderlo nella flagranza della figura da tonto in Polonia, con quel sindaco che gli srotolava in faccia la sua ex maglietta con l’immagine del despota russo, per estorcergli una mezza parola di condanna dell’aggressione all’Ucraina. Ma non ci piove che se fosse stato per Salvini non solo quel riconoscimento obtorto collo non ci sarebbe stato, ma nemmeno sarebbero stati presi i provvedimenti a sostegno della difesa degli aggrediti.

Le polemiche di questi giorni sull’azione della Lega contaminata da probabilissime interferenze non meriterebbero nemmeno gli accertamenti di cui si vagheggia, perché basta e avanza considerare ciò che non da oggi è sotto gli occhi di tutti: e cioè che Matteo Salvini e il suo partito, a parte le invocazioni di pace buone per il comizio del pacifista comunista sindacalista collaborazionista, non hanno speso autonomamente una parola di censura, non hanno intrapreso nessuna iniziativa e insomma non hanno fatto nulla, letteralmente nulla, per rendere chiaro che stavano dalla parte del mondo libero e contro quella che ad esso si è opposto con le armi, con le stragi, con gli stupri di massa, con le deportazioni.

La realtà è che Matteo Salvini e la Lega molto malvolentieri si sono costretti a condividere l’azione di governo e il percorso delle sanzioni, e l’hanno fatto – sempre nel modo ambiguo e sostanzialmente esitante di cui abbondantemente hanno dato prova – non per convinzione ma per necessità: la bieca necessità di manutenzione del proprio accreditamento, perché uscire dal governo dichiarando quel che davvero pensavano, e cioè bisognava che i russi fossero lasciati in pace e ‘sticazzi la resistenza degli ucraini, li avrebbe spediti a raccogliere consenso in consorzio con quelli per cui i profughi sono passanti e con Sua Eccellenza il punto di riferimento fortissimo di tutti i terzi mandati.

Non c’è proprio nulla da indagare su Salvini e sulla Lega.

Manuale di interferenza. Come la Russia organizza le sue operazioni politiche all’estero. Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 30 Luglio 2022.

L’approccio tentacolare del Cremlino, dismessi gli agit-prop di epoca sovietica, si insinua con operazioni di influenza efficaci proprio perché affidate a più attori locali. L’obiettivo è quello di rompere la coesione tra Paesi europei e indebolire le democrazie.

Se la potenza militare del Cremlino, che continua a mietere vittime in Ucraina e in altri Paesi, è una pallida imitazione di quell’Armata Rossa che per decenni ha tenuto sotto scacco mezzo mondo, allo stesso modo nemmeno le operazioni clandestine orchestrate da Mosca sono paragonabili alle vaste reti di agitatori e agenti sotto copertura che facevano capo al KGB all’apice del proprio potere. Come dimostrano i dibattiti di questi giorni sui rapporti fra la Russia e la Lega di Salvini la presenza russa in Europa si è trasformata. Pensare alla vicinanza fra partiti ed esponenti politici al Cremlino immaginandoli come dei “Manchurian candidate” pilotati (o, al contrario, degli “utili idioti” sempre di sovietica memoria) sarebbe sbagliato e soprattutto impedisce di capire perché l’influenza russa sia spesso così efficace.

La realtà è che le operazioni di influenza russe, oggi, sono raramente guidate da una campagna centralizzata né puntano a sovvertire completamente l’ordine costituzionale dei Paesi attaccati. Le “misure attive”, come erano definite in epoca sovietica, sono oggi più improvvisate, anche se rimangono gestite da professionisti. Gli strumenti a disposizione sono tanti: finanziamenti più o meno occulti (come i crediti concessi all’allora Front National nella campagna elettorale francese del 2017), propaganda mirata sui social con mobilitazione di bot (come nelle presidenziali americane del 2016), disinformazione (sui vaccini o migranti).

Tuttavia, per capire come le autorità russe provino a influenzare singoli partiti o più ampiamente la politica di altri Paesi, bisogna considerare due questioni.

Prima di tutto, le operazioni di influenza sono un’estensione della logica di guerra che si è impadronita della politica estera russa. Come faceva notare l’accademico Andrei Kortunov qualche anno fa, una logica di guerra tende alla sconfitta del proprio nemico costi quel che costi; la logica politica tenta di mediare obiettivi contrastanti fra avversari. Con il definitivo cambio di registro russo, ogni strumento è lecito per abbattere la coesione del campo occidentale. L’Unione Europea, in particolare, si presta particolarmente bene a causa della prevalenza dell’unanimità in decisioni di politica estera.

In secondo luogo, il supporto diretto a politici stranieri è strettamente legato all’ambizione russa di dominare lo spazio informativo europeo. È un desiderio che viene da lontano. Mosca è convinta che il crollo dell’URSS, le primavere arabe e le cosiddette “rivoluzioni colorate” nello spazio post-sovietico, siano state il risultato di operazioni di influenza americane e che di conseguenza dominare l’ecosistema informativo sia la chiave per qualsiasi tipo di vittoria.

Come sul campo di battaglia, seminare confusione e influenzare le decisioni dell’avversario amplificano e aprono la strada all’utilizzo dell’hard power economico e militare. Ciò significa, in ogni situazione, sfruttare e adattarsi alla situazione locale. Questo non è un approccio solo russo, ma Mosca si distingue perché, diversamente dalle questioni militari, concede molto più spazio di manovra sia alle iniziative dei singoli attori sul terreno sia a coloro che all’interno nell’apparato statale meglio conoscono i diversi contesti nazionali. Ambasciate, il servizio culturale Rostrudnichestvo, agenzie di sicurezza o anche oligarchi e figure vicine a Putin agiscono quasi sempre autonomamente, nella speranza di soddisfare il Cremlino e dimostrare la propria utilità, giustificando la propria posizione nella costellazione del potere.

La scelta di quale formazione politica sostenere (e come) è quindi estremamente opportunistica e non corrisponde sempre a indicazioni da Mosca, dove tuttavia si apprezza avere a disposizione diverse opzioni e potenziali alleati.

Questo opportunismo significa anche che spesso sono proprio quelli che ricevono gli aiuti da Mosca a cercare supporto presso i loro referenti russi. Spinti da trattamenti di favore e riconoscimento diplomatico da quella che rimane comunque una potenza nucleare, questi individui si fanno sostanzialmente carico di ancorare le preferenze politiche del Cremlino alle specifiche situazioni politiche e di convertire le operazioni rivolte alle élite in una propaganda fruibile dall’intera popolazione. Uno scetticismo diffuso nei confronti della NATO diventa così sostegno all’invasione dell’Ucraina; il malessere economico si trasforma in opposizione alle sanzioni. Spesso non è necessario un vero scambio di favori, perché gli agenti dell’influenza russa non devono adattare posizioni nuove. It takes two to tango.

Insomma, è improbabile che qualcuno a Mosca pensi che supportando l’estremismo in Europa si riuscirà a portare dal proprio lato della barricata i Paesi europei. Non si può parlare di un grande piano di sovversione russo o di una quinta colonna. Però è proprio per questo che le operazioni di influenza russe sono incredibilmente resilienti ed efficaci. Lasciando gran parte del lavoro ad attori locali e limitandosi ad amplificare posizioni già presenti nell’agone politico, le autorità russe possono spostare quei pochi punti percentuali in un’elezione (o ammorbidire emendamenti di legge, o dare l’ultima spintarella all’Orbán di turno a porre un veto in Europa) sufficienti per complicare immensamente la macchina decisionale europea e incrinare i rapporti fra alleati.

Quello che colpisce, semmai, è che tutto ciò possa avvenire abbastanza alla luce del sole senza particolari conseguenze. Fino a pochi anni fa, l’influenza russa funzionava soprattutto nello spazio post-sovietico, dove la corruzione endemica e strutture sociali dominate da oligarchi permettevano sostegni diretti e, in un certo senso, normalizzati.

Tutto ciò non sembrava possibile in una democrazia, dove l’ingerenza diretta di una potenza straniera dovrebbe decretare la morte elettorale di un partito politico. Ma in un dibattito pubblico avvelenato, dove ognuno sceglie di credere in ciò che preferisce, dove la "plausible deniability" è diventata superflua e dove conta mobilitare il maggior numero di bolle informative per vincere un’elezione, l’approccio tentacolare russo è uno che permette apparentemente di federare gli interessi dei gruppi politici più diversi. Siamo in uno scenario in cui il dialogo diretto con Mosca può essere presentato sia come ragion di Stato che come asse contro il “liberalismo gender e woke”. E a quel punto, a che serve una rete di agitprop?

I 5 Stelle.

I 5stelle e i rapporti con Mosca. Il Giornale svela i veri “amici di Putin”. Il Tempo il 29 luglio 2022

I rapporti con Mosca e la politica estera incendiano la campagna elettorale italiana. Dopo la bufera lanciata dalle pagine del quotidiano La Stampa, sui legami tra la Lega di Matteo Salvini  e un funzionario dell'ambasciata russa far cadere il governo Draghi, già smentite sonoramente da Salvini che le ha definite "fake news" seguito dal sottosegretario Gabrielli che ha puntualizzato l'estraneità dei servizi segreti nella vicenda, il Giornale svela chi sono i "veri amici di Putin".  

Se Salvini deve chiarire nelle sedi opportune quali sono i rapporti tra il suo partito e l'ambasciata di Mosca anche i 5 stelle avrebbero qualcosa da spiegare. Da Giuseppe Conte a Di Battista, ecco tutti i grillini che dovrebbero "arrossire" per le loro passate posizioni filo putiniane. Proprio il leader pentastellato, ricorda Il Giornale, a giugno scorso ricevette un endorsement dall'ambasciatore di Mosca Sergey Razov sul no alle armi a Kiev. Ma andando indietro nel tempo, Conte dovrebbe ricordarsi che quando era premier "elogiava «l'amico Putin» e si metteva d'accordo con lui per la discussa missione dei militari russi nella Bergamo martoriata dal Covid. E poi c'è Beppe Grillo, che nel 2017 in un'intervista al settimanale francese Journal du Dimanche annotava: «La politica internazionale ha bisogno di uomini forti come Donald Trump e Vladimir Putin»" sottolinea Il Giornale.  

Ma c'è anche l'ex grillino Di Battista, che potrebbe rientrare nel Movimento per le prossime elezioni, appena tornato da un viaggio in Russia per realizzare dei reportage per Il Fatto Quotidiano. "In rete si trovano ancora le foto di Di Battista e Di Stefano sorridenti accanto ai due fedelissimi di Putin Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak. E c'è da dire che erano passati solo due anni dall'annessione russa della Crimea e dalle conseguenti sanzioni ai danni del Cremlino" spiega il Giornale, mettendo in dubbio la ritrovata fede atlantista del sottosegretario alla Farnesina Manlio Di Stefano.  "Solo qualche anno fa il braccio destro di Luigi Di Maio era il capofila del putinismo all'italiana. L'ex grillino, a giugno del 2015, alla Camera dei Deputati parlava così delle rivolte europeiste del 2014 a Kiev: «Un colpo di stato finanziato da Europa e Usa». Oggi risultano particolarmente sinistre le sue parole su un governo ucraino capeggiato da «convinti neonazisti». E ancora, sempre Di Stefano due anni dopo è stato il protagonista di una spedizione alla volta di Mosca per partecipare al congresso di Russia" proprio insieme a Di Battista.  

E ancora, continua il Giornale, anche Chiara Appendino, l'ex sindaca di Torino era una frequentatrice abituale del Forum Economico di San Pietroburgo. Ma tornando ad oggi ai Cinque Stelle si potrebbero chiedere  se è vero che tra i "papabili per candidarsi alle politiche nelle liste dei pentastellati ci siano nomi come quelli di Alessandro Orsini e Michele Santoro. Entrambi contrari agli aiuti militari all'Ucraina e accusati di filo-putinismo". Infine ci sono anche l'ex grillino Vito Petrocelli, cacciato dalla presidenza della Commissione Esteri del Senato per le sue posizioni vicine al Cremlino e la senatrice Bianca Laura Granato, che ha dichiarato dopo lo scoppio della guerra in Ucraina diceva che «Putin sta combattendo una battaglia per tutti noi». 

Omissione impossibile. La sinistra s’indigna per le pressioni russe sulla Lega, dimenticandosi di Conte. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 29 Luglio 2022.

Dinanzi alle rivelazioni della Stampa, Letta attacca la destra mentre il grosso del suo gruppo dirigente ripete che la crisi dell’esecutivo è una colpa imperdonabile di Salvini, Berlusconi e un altro che sul momento proprio non gli viene in mente.

Difficile dire se faccia più ridere sentire Giuseppe Conte sostenere che Matteo Salvini debba chiarire i suoi legami con la Russia e quanto questi legami abbiano pesato nella caduta del governo Draghi (provocata da Conte), o il fatto che a sottolineare la contraddizione sia Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri del governo Conte che nel 2020 correva ad accogliere i mezzi corazzati dell’esercito russo in aeroporto. Su youtube si trovano ancora le sue conferenze stampa notturne da Pratica di Mare, in cui elenca con entusiasmo il gran numero di Antonov in arrivo («uno dei più grandi aerei al mondo!»).

Sono solo alcune delle surreali reazioni all’articolo di Jacopo Iacoboni pubblicato ieri dalla Stampa, secondo cui a fine maggio un funzionario dell’ambasciata russa avrebbe domandato a un emissario di Salvini se i ministri leghisti fossero intenzionati a dimettersi. Tra le reazioni più significative va certamente segnalata la dichiarazione di Enrico Letta, che attacca direttamente il leader della Lega, domandandosi se dietro la caduta del governo Draghi ci sia dunque Putin, salvo dimenticarsi di rivolgere la stessa domanda a chi quella crisi l’ha aperta. Ricordiamolo un’altra volta agli smemorati: Conte e il Movimento 5 stelle.

Non si tratta di dimenticanze, in verità, ma di una deliberata e reiterata omissione, che si accompagna al tentativo di cancellare le tracce delle proprie scelte, nel momento in cui si profila in tutta la sua gravità il peso delle conseguenze. Da giorni quotidiani e tv evocano infatti un possibile cappotto del centrodestra, con un risultato che permetterebbe alla coalizione guidata da Giorgia Meloni di riscrivere a proprio piacimento la Costituzione, scegliere tutte le autorità di controllo e di garanzia, fare insomma un sol boccone dell’intero sistema di pesi e contrappesi che garantisce il regolare funzionamento della democrazia e dello stato di diritto (pericolo accentuato dal taglio populista dei parlamentari voluto dai grillini e sposato, all’ultimo momento, pure dal Pd).

Il fatto che il centrodestra abbia la possibilità di far deragliare la democrazia italiana non significa che lo farà, naturalmente. Lungi da me fare processi alle intenzioni. Il problema è che Meloni e Salvini fanno a gara per conquistarsi le simpatie di Viktor Orbán, che in Ungheria ha già fatto esattamente questo. Indipendentemente da rivelazioni e retroscena sui rapporti con i funzionari del Cremlino, i profili instagram dei leader del centrodestra e i loro selfie sorridenti con il teorico (e pratico) della “democrazia illiberale”, principale alleato di Putin in Europa, offrono dunque sufficienti motivi di inquietudine.

Vorrei poter credere che il Pd, cioè il partito che più di ogni altro dovrebbe impedire questo esito, dopo averlo in mille modi propiziato (dal taglio dei parlamentari alla mancata riforma della legge elettorale, alla legittimazione di Conte quale statista e punto di riferimento dei progressisti), si fosse almeno reso conto degli errori commessi e intendesse emendarsene. Invece c’è al suo interno persino chi ha il coraggio di chiedere esplicitamente di riannodare i fili con i cinquestelle, mentre Letta si limita a svicolare e il grosso del suo gruppo dirigente ripete che la caduta del governo Draghi è una colpa imperdonabile di Salvini, Berlusconi e un altro che sul momento proprio non gli viene in mente.

Intendiamoci, se il loro svicolare fosse solo dettato dal desiderio di non perdere voti in campagna elettorale, si potrebbe anche capire. Se però la rimozione del passato fosse anche un modo per tenersi una porta aperta, per oggi o per domani, sarebbe imperdonabile. 

Grillo, Gigino fa politica per lavoro, è "cartelletta"

(ANSA il 23 luglio 2022) - "Ci vuole una nuova interpretazione della politica e vi dico la verità: tutti questi sconvolgimenti, queste defezioni nel nostro Movimento, queste sparizioni sono provocate da questa legge (dei due mandati, ndr) che è innaturale, che è contro l'animo umano. C'è gente che fa questo lavoro, entra in politica per diventare poi una "cartelletta". Gigino "a cartelletta" ora è di là che aspetta il momento di archiviarsi in qualche ministero della Nato. Ed ha chiamato decine e decine di cartellette che aspettano come lui di essere archiviate a loro volta in qualche ministero". Così Beppe Grillo sul suo blog. 

Grillo, tutti contro M5s, siamo degli straordinari appestati

(ANSA il 23 luglio 2022) - "L'Italia si merita tante cose e noi non siamo riuscite a farle: mi sento colpevole anche io. Ma abbiamo fatto qualcosa di straordinario: sono tutti contro di noi. Siamo degli appestati. E quando tutti, compresi i bulli della stampa, sono contro di noi significa una sola cosa: vuol dire che abbiamo ragione. Non fatevene un problema. Noi siamo antibiotico e se perdiamo questo perdiamo il baricentro in cui collocarci". Così Beppe Grillo in un messaggio al Movimento.

Grillo, servirebbe proporzionale e sfiducia costruttiva

(ANSA il 23 luglio 2022) - "L'Italia si merita una legge elettorale, proporzionale con lo sbarramento, si merita una legge sulla sfiducia costruttiva, si merita tante cose e noi non siamo riusciti a farle: mi sento colpevole anche io. Ma abbiamo fatto qualcosa di straordinario: sono tutti contro di noi". Così il garante M5s Beppe Grillo sul suo blog.  

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2022.

Il Pd non può allearsi con i Cinquestelle, altrimenti la metà dei suoi elettori non lo vota, ma non può allearsi nemmeno con Renzi, altrimenti non lo vota l'altra metà. Forse potrebbe allearsi con Calenda, ma è Calenda che non può allearsi con il Pd, altrimenti gli elettori di destra nauseati da Salvini e Berlusconi, e disposti a votare lui, non lo voterebbero più. Certo, il Pd potrebbe sempre allearsi con Mélenchon, ma bisognerebbe prima trovare Mélenchon, qualcuno che incarni la causa dei poveri anche fisicamente: l'unico con la faccia giusta è Landini, che però in politica per ora non vuole entrarci.

Questo per quanto riguarda il centrosinistra, parlandone da vivo. Nel centrodestra predestinato alla vittoria, Meloni vuole che a decidere il premier sia chi prenderà più voti, cioè lei, ma Berlusconi adesso ha cambiato idea e vuole che il premier lo scelgano i parlamentari eletti, con la segreta convinzione che sceglieranno lui. 

Quanto a Salvini, che ormai si lascia intervistare solo tra rosari e madonne, ha deciso di saltare un giro e punta direttamente a fare il Papa. Mentre Draghi spicciava casa, i partiti hanno avuto un anno e mezzo, dicesi un anno e mezzo, per pensare esclusivamente ai fatti loro, cioè a scrivere una nuova legge elettorale e a ridisegnare le regole del gioco, del loro gioco. Non hanno fatto nemmeno quello. Draghi li ha sfidati in aula, domandando: «Siete pronti?». La risposta è arrivata ed è desolante: non sono pronti. Né a far governare lui, né a governare loro. 

Estratto dell’articolo di Andrea Malaguti per “la Stampa” domenica 24 Luglio 2022.

«Il Pd è arrogante. I progressisti siamo noi. Sul terzo mandato c'è la disponibilità di tutti di fare la cosa più giusta per il Movimento». Avvocato del Popolo con simpatie leghiste nel Conte Uno, centrista con lieve strabismo mancino nel Conte Due, malpancista draghiano nel Conte accantonato, infine eco-warrior e difensore dei deboli nella tragicomica estate pre-elettorale. Un Giuseppe Conte insolitamente amaro spiega in questa intervista a La Stampa come intende rimettere assieme i cocci del Movimento Cinque Stelle.

[…] Presidente Conte, ha ucciso lei il governo Draghi?

[…] «Veramente il primo colpo di questa crisi l'ha sparato chi ha inserito nel decreto sugli aiuti una norma sull'inceneritore di Roma sapendo perfettamente di mettere due dita negli occhi al Movimento e di attaccare le nostre battaglie decennali per l'ambiente, la transizione energetica e l'economia circolare». 

Perché nessuno si vuole prendere la responsabilità di avere affondato Draghi?

«Perché c'è una diffusa forma di ipocrisia. E quindi si prova a scaricare la colpa sul Movimento che ha solo chiesto di risolvere alcune criticità. Ma il punto vero è un altro. Un governo di unità nazionale che non riesce a costruire un terreno di dialettica politica ma si affida a un decisionismo autoreferenziale, alimentato solo da una ristretta cerchia di collaboratori, finisce inevitabilmente per andare in cortocircuito e saltare». 

[…] Letta, semplificando molto, le ha dato del traditore.

«Ma io l'unico impegno l'ho preso con i cittadini. I nostri obiettivi sono chiari: portare avanti le battaglie sulla giustizia sociale e sulla tutela ambientale. Come avevamo spiegato sin dal primo momento erano queste le ragioni del nostro appoggio al governo Draghi: difendere le nostre riforme su ambiente e giustizia sociale». 

Traditore è brutto. Non le fa male?

«È un'infamia, ma non mi fa male. […]».

 Il campo largo non esiste più.

«L'ho sempre detto. Non si può pensare di definire con arroganza un perimetro di gioco e stabilire arbitrariamente chi vi è ammesso. […]».

[…] Una ferita che non si cura?

«Tocca al Pd decidere che cosa fare. Ovvio che se i dem cercano una svolta moderata che possa accogliere anche l'agenda di Calenda noi non ci possiamo stare». 

Immagino che Calenda pensi lo stesso.

«Immagino anch' io. Certamente è impossibile costruire qualcosa di utile per i cittadini con chi - dando sfogo a pulsioni antidemocratiche - ha dichiarato più volte che il suo scopo è distruggere il Movimento».

Al di là delle aspettative di Calenda, sono i sondaggi a dire che per il Movimento le cose non vanno bene.

«Ci risentiamo il 26 settembre, dopo che gli italiani si saranno espressi». 

In attesa di un improbabile chiarimento col Pd, va avanti con Speranza e Articolo 1?

«Con loro c'è genuina consonanza di cose da fare».

Landini può essere un vostro compagno di viaggio?

«Nel rispetto dei ruoli reciproci. Landini, come Bombardieri, si sta dimostrando molto sensibile al dramma che si sta abbattendo sull'Italia e sicuramente sono interlocutori che possono contribuire alla nostra agenda progressista». 

Salvini, Calenda, Renzi, Draghi, ora Letta. Non è facile andare d'accordo con lei.

«Questa domanda può essere fatta a chiunque nel quadro attuale dove sembrano tutti contro tutti. Ma nella mia vita politica io non ho mai attaccato e non mi sono mai scontrato con nessuno per motivi personali. Ho sempre posto questioni politiche». 

Anche con Draghi?

«Certo. Ho sempre rispettato il suo ruolo e confidato sul fatto che il suo prestigio potesse essere utile al Paese in questo momento drammatico». 

Quel "prestigio" se n'è andato.

«Stavo aggiungendo che il prestigio non basta. Che servono risposte concrete. […]». 

[…] Davvero il reddito di cittadinanza le piace così com' è?

«Qualsiasi riforma va calibrata nel corso del tempo, però bisogna intendersi: un conto è renderla più efficace, un altro cercare di smantellarla come vogliono fare Italia Viva e Fratelli d'Italia che continuano a comportarsi come se la povertà non esistesse». 

Il ministro Di Maio ha detto a La Stampa: con Conte il Movimento ha perso 11 milioni di voti e regalato il potere alla destra.

«Ma davvero vuole che risponda a battute di questo livello?» 

Mi piacerebbe.

«Di Maio forse dimentica che è stato lui a dimezzare in pochi mesi il consenso ottenuto nel 2018. Da lui mi sarei aspettato un maggiore senso di responsabilità, visto il delicatissimo ruolo istituzionale che ricopre. Invece non ha mai perso occasione per fomentare e contribuire a destabilizzare la maggioranza».

Alla caduta di Draghi, a Mosca hanno brindato.

«Hanno poco da festeggiare. Le elezioni sono la forza delle democrazie. Nei sistemi autocratici come il loro le crepe sono meno visibili, ma quando appaiono fanno crollare quei sistemi di botto». 

Lei Putin non l'aveva capito?

«Non è questione di capire. Putin ha una sua agenda e degli interessi strategici chiari da tempo. Ora ha commesso un gravissimo errore storico che mette a rischio il suo stesso sistema».

Presidente, nessuna deroga al doppio mandato, lo dice Grillo. Come fa con Fico o Taverna?

«Quella del doppio mandato è stata una intuizione straordinaria. La politica non deve pensare all'autoconservazione altrimenti si rischia di trovare un ministro degli Esteri che invece di pensare alla guerra si dedica anima e corpo a garantirsi una carriera politica». 

Così ha parlato di Di Maio ma non di Fico.

«Le persone che sono rimaste nel Movimento mi hanno assicurato anche in queste ore che sono pronte a lavorare con noi comunque vada». 

[…] Alessandro Di Battista lo riprende a bordo?

«È un po' che non lo sento. Avremo occasione di confrontarci».

Da “il Giornale” il 5 agosto 2022.

L'ex sottosegretario Stefano Buffagni, che per lungo tempo è stato un esponente in vista del Movimento 5 Stelle, ha detto la sua in merito agli stravolgimenti che hanno coinvolto i grillini negli ultimi tempi: «Non sono uno zombie, sono sempre stato un battitore libero. Rispetto gli impegni coi cittadini, torno volentieri alla mia professione», ha esordito. 

Poi una stroncatura particolare: «I navigator mi sembravano uno spreco, ho lavorato perchè non venissero creati, ma per spirito di squadra in tv li ho difesi. E così anche altre cose che non mi convincevano», ha aggiunto Buffagni, che ha anche sottolineato di non avere intenzione di lasciare la politica.

«Uno non vale l'altro, e questo continuerò a ribadirlo sempre e ovunque. Non è una poltrona a fare il valore alle persone», ha insistito Buffagni a mezzo Facebook. Il parlamentare grillino non sarà ricandidato per via della regola dei due mandati. Quella su cui Beppe Grillo ha insistito e per cui Giuseppe Conte ha provato a derogare. L'ex sottosegretario non ha chiarito se ha intenzione di restare tra i pentastellati o no. Buffagni ha aggiunto di non aver condiviso la mossa di Di Maio, che è fuoriuscito.

F.Man. per “il Giornale” il 5 agosto 2022.

«Non mi sento né elevato né zombie». Pierpaolo Sileri dismette i panni del grillino duro e puro («Luigi Di Maio ha fatto bene ad allearsi col Pd») e lascia la politica per rimettersi il camice da chirurgo. Ma prima si toglie qualche sassolino dalle scarpe. Scagliandoli contro Beppe Grillo che accusa i transfughi di essere degli zombie, contro il suo ex premier Giuseppe Conte («Ha sbagliato a sfiduciare il governo in un momento così delicato per il Paese») e contro Roberto Speranza. Ma senza fare nomi («Non voglio entrare in polemica con nessuno...»), tanto si capiscono da soli.

D'altronde che lui al ministero della Sanità fosse una sorta di intruso dopo una serie di furibondi litigi con il capo di gabinetto del ministro e che durante la gestione della pandemia fosse poco considerato o addirittura messo in disparte quando di ritorno dalla Cina avvisò dei rischi che il nostro Paese è cosa ampiamente nota. Ma lui fa spallucce... 

Le sue intuizioni sulla pandemia furono azzeccate eppure qualcuno la accusò di portare sfiga...

«L'accusa di portare sfortuna si commenta da sola. All'epoca, e parliamo di gennaio-febbraio 2020, mi limitavo da medico a constatare che un virus respiratorio così contagioso aveva alte probabilità di diffondersi anche al di fuori dalla Cina, tanto più che si cominciava a capire che anche le persone asintomatiche potevano diffondere l'infezione».

E invece non le diedero retta. Gli errori commessi allora possono ripetersi?

«Aspetti. Col senno di poi è facile dire: potevamo fare questo, potevamo intervenire prima, e così via. Sono stati commessi degli errori, probabilmente sulla comunicazione si sarebbe potuto fare di più, ma la verità è che in tutto il mondo e non solo in Italia ci siamo trovati di fronte ad un evento che non si era mai verificato in queste dimensioni, e per il quale non eravamo preparati. L'Italia, per di più, è stato il primo paese fuori dalla Cina ad essere investito dal virus». 

E oggi?

«Siamo in una posizione molto migliore di due anni e mezzo fa. Soprattutto abbiamo ripreso consapevolezza di quanto sia centrale la sanità pubblica, siamo tornati ad investirci destinando circa 20 miliardi dei fondi del Pnrr alla riorganizzazione del sistema sanitario, che prevede tra i suoi interventi la realizzazione di un hub pandemico. Di fronte a fenomeni globali come le epidemie occorre una tempestiva risposta centralizzata». 

Lei, grillino atipico, che ne pensa del crollo M5s? Ha fallito la sua missione?

«Contaminare il sistema rompendo certi schemi al fine di migliorarsi dovrebbe essere il modo di affrontare la politica quando governi. Ma senza urlare e con buon senso. Era questo, portare il Paese reale dentro le istituzioni, il mandato che ci avevano affidato gli elettori nel 2018».

L'addio a Mario Draghi?

«Non ho condiviso la scelta del Movimento di togliere la fiducia al governo in un momento difficile». 

E se Carlo Calenda, Matteo Renzi o qualche centrista la chiamasse?

«Non oggi ma nel marzo 2018, appena eletto, dissi che non mi sarei ricandidato, e lo confermo: tornerò al mio primo amore, la chirurgia». 

Qualche consiglio al centrodestra o a chi dovesse vincere le elezioni?

«Ascoltare le ragioni l'opposizione. Condividere le scelte, anche difficili, che il nuovo esecutivo sarà chiamato a prendere. E magari chiedere qualche consiglio a Draghi».

Bordate al Pd e al premier. Michele Santoro scende in campo: “Fondo il partito che non c’è, mi alleo con Conte contro l’agenda Draghi”. Redazione su Il Riformista il 30 Luglio 2022. 

Vuole fondare il partito che non c’è, un richiamo alla “tv che non c’è” che negli anni Novanta era il suo sogno per spezzare il duopolio formato da Rai e Mediaset. Michele Santoro scende in campo e si lancia in una nuova avventura politica in vista delle elezioni del 25 settembre.

L’obiettivo è mettere insieme le forze contrarie alla cosiddetta ‘agenda Draghi’, a partire ovviamente dal Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, segnato in queste ore dalla decisione di seguire il diktat di Beppe Grillo sul limite al doppio mandato che “farà fuori” una cinquantina di eletti, tra cui molti dei ‘big’ pentastellati.

In un colloquio con Repubblica, Santoro getta le basi per la nuova avventura politica: “Io sono sinceramente disponibile con tutte le mie conoscenze e capacità di comunicazione a dare un contributo. Un partito non nasce per decisione di una o poche persone ma per rappresentare le esigenze di un pezzo di società. Di sicuro non mi interessa fare il candidato indipendente senza un progetto che guardi al futuro. Serve il partito che non c’è e che non c’è mai stato”.

L’obiettivo è quello di formare qualcosa a sinistra del Partito Democratico, salvo che Dem rimuovano “l’agenda Draghi”, altrimenti tutti quelli che non la condividono “si prendono per mano”.

Un partito, quello di Enrico Letta, che dopo l’addio all’alleanza con i 5 Stelle “è scoperto a sinistra. Di Calenda ne ha già tanti al suo interno. Se Letta insiste nell’ammucchiata di centrodestra dentro la sinistra, resta lo spazio per un campo alternativo. Se in questo campo ci fosse spazio per una lista per la pace, perché no?”.

Non a caso nel partito che non c’è di Santoro si partirebbe dai nomi di coloro che erano presenti alla serata “Pace proibita”, lo spettacolo pacifista sul conflitto in Ucraina al teatro Ghione. “Spero che Sinistra italiana voglia sedersi al tavolo, ma come non ho visto Letta telefonare a Conte nemmeno ho visto Conte telefonare a Fratojanni e neanche Fratojanni aprire un confronto. Se non ci saremo al voto, non sarà per colpa nostra”, dice Santoro a Repubblica.

Ovviamente ce n’è anche per Mario Draghi, il premier è infatti l’obiettivo numero uno di Santoro. Il presidente del Consiglio secondo il giornalista “se l’è data a gambe. I maligni dicono perché dopo aver perso la corsa al Quirinale non vedeva l’ora di dire ai partiti: sbrigatevela voi. La fiducia in Parlamento l’aveva pure presa”.

Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 30 luglio 2022.  

Michele Santoro fonda un partito? E con chi? E quando? Siamo andati a chiederglielo nel suo ufficio romano in via Giulia: il 25 settembre gli elettori potranno votare Santoro?

«Dovrei fondare un partito in una settimana? - risponde il giornalista - io sono sinceramente disponibile con tutte le mie conoscenze e capacità di comunicazione a dare un contributo. Un partito non nasce per decisione di una o poche persone ma per rappresentare le esigenze di un pezzo di società. Di sicuro non mi interessa fare il candidato indipendente senza un progetto che guardi al futuro. Serve il partito che non c'è e che non c'è mai stato. Se il Pd rimuove l'agenda Draghi apre uno scenario, altrimenti se tutti quelli che non condividono l'agenda Draghi si prendono per mano è un fatto positivo. Qualunque cosa succeda il 25 settembre, io dal giorno dopo andrò avanti comunque». 

Santoro contro il Pd?

«Se io fossi in Letta, non darei per scontata la rottura con Conte e chiederei un mano a chi, come me, rappresenta il dissenso sulla guerra». 

Con che credibilità il Pd si presenta al voto con chi ha una linea diversa in politica estera?

«Se Letta facesse una proposta chiara a Conte lo costringerebbe a rispondere. C'è un problema di visione comune? Ma perché, quegli altri a destra ce l'hanno?». 

Letta ha già detto che l'alleanza con il M5S è finita.

«Il Pd è scoperto a sinistra. Di Calenda ne ha già tanti al suo interno. Se Letta insiste nell'ammucchiata di centrodestra dentro la sinistra, resta lo spazio per un campo alternativo. Se in questo campo ci fosse spazio per una lista per la pace, perché no?».

E chi ci sarebbe nel partito?

«Si partirebbe da chi ha partecipato alla serata Pace proibita al teatro Ghione. Spero che Sinistra italiana voglia sedersi al tavolo, ma come non ho visto Letta telefonare a Conte nemmeno ho visto Conte telefonare a Fratoianni e neanche Fratoianni aprire un confronto. Se non ci saremo al voto, non sarà per colpa nostra». 

E di chi?

«Voglio parlare di Mattarella, un uomo che ho sempre considerato saggio ma di cui stavolta non ho compreso le scelte. Andremo a votare in un momento tra i più delicati del dopoguerra, con una campagna elettorale di pochi giorni, gli ultimi, e con una opinione pubblica che è al 50% critica di tutti gli attori politici.

Questa fretta di chiudere il governo Draghi ad agosto non la capisco». 

E che c'entra Mattarella?

«Ha provato a convincere Draghi, ma Draghi se l'è data a gambe. I maligni dicono perché dopo aver perso la corsa al Quirinale non vedeva l'ora di dire ai partiti: sbrigatevela voi».

Guardi che sono i partiti ad aver tolto la fiducia a Draghi.

«La fiducia in Parlamento Draghi l'aveva pure presa». 

Cioè Draghi doveva far finta di nulla quando il M5S non ha votato la fiducia sul decreto Aiuti?

«Draghi la crisi l'ha provocata prima quando ha consentito a un suo ministro di fare una scissione nel principale partito di maggioranza sostenendo che non ne sapeva nulla. Doveva impedire che avvenisse». 

Continua a essere oscuro cosa avrebbe potuto fare Mattarella.

«Qualunque cosa pur di non creare una impossibile campagna elettorale in agosto. Questa situazione mette il 50% degli elettori nella condizione di non poter scegliere, o mangi la minestra o ti butti dalla finestra, e impedisce a quelli come me, che avrebbero voluto fare qualcosa di nuovo, di raccogliere le firme». 

La sua ricostruzione della crisi sembra il remake di certe letture sulla guerra in Ucraina. La spina al governo l'hanno staccata Conte, Salvini e Berlusconi, però la colpa è di Mattarella, Draghi e Di Maio.

«Non credo che la maggioranza degli italiani abbia capito perché si è aperta questa crisi». 

La destra non c'entra con la caduta di Draghi, insomma.

«La destra c'entra, ha sfruttato l'occasione per capitalizzare con poca spesa un risultato clamoroso, anche perché al voto c'è la destra ma non c'è la sinistra». 

Il Pd cos' è? Un partito di centro?

«Il Pd non ha più nulla a che vedere con la sinistra, è un partito moderato specializzato nella gestione del potere e partner ideale dei tecnici. Oltre al fatto che è diventato il più atlantista di tutti. Ma almeno non è un convertito dell'ultim' ora come Meloni, che era innamorata di Putin e ora lo è degli Usa». 

Lei invece è un anti-atlantista?

«Sono per mantenere le alleanze atlantiche, ma in un quadro dove l'Europa sia padrona delle sue scelte. Non doveva consentire che gli Usa armassero l'Ucraina ancora prima della guerra, dando a Putin l'alibi per poter fare l'invasione». 

Siamo alle solite: la tesi della guerra per procura.

«Non userei questa definizione. Gli Usa stanno sperimentando una guerra fondata non più sull'invio di truppe ma sul coordinamento delle informazioni sul campo di battaglia, come dimostrano le uccisioni mirate. Se vincessero, sarebbe difficile immaginare in futuro invasioni di Paesi sgradite agli americani».

Si fatica a considerarlo un guaio.

«Sempre che non provochi la fine del mondo. Siamo entrati con disinvoltura, fischiettando Topolino come i marines di Full Metal Jacket, in una situazione che ci ha già portati nell'anticamera di una guerra mondiale e nucleare. Usa e Germania in recessione, la crisi di Taiwan che incombe. Tutta la campagna elettorale dovrebbe parlare di questo, e invece niente». 

Chi lo impedisce?

«La vicenda Ucraina è scesa di interesse perché l'informazione ha puntato sulla tv del dolore che dopo un po' diventa ripetitiva».

Ma il dolore c'è ed è tutto degli ucraini aggrediti.

«È sicuramente la parte che sopporta la sofferenza più grande, ma non l'unica, a partire da quel quasi miliardo di persone che rischia di dover fronteggiare la fame». 

Per colpa di Mosca.

«L'invasione è stato un atto criminale grave. Nego il fatto che la guerra e le armi siano la soluzione. Se i 100 miliardi spesi per armare Kiev li avessero investiti per costruire la pace tra Russia e Ucraina, magari non ci sarebbe stata l'invasione».

È come se il Santoro di Samarcanda avesse detto: paghiamo la mafia per non farla sparare.

«Santoro non l'ha detto, altri all'epoca l'hanno fatto». 

Ce l'ha con l'informazione perché non conduce più un programma?

«La Rai andrebbe liberata e restituita ai cittadini, alla mia età non ci penso proprio a infilarmi in quella situazione. Certo è che in passato c'erano telegiornali non allineati, come il Tg3, non a caso soprannominato TeleKabul». 

 Telekabul lo coniò Giuliano Ferrara, non era un complimento.

«Infatti Ferrara oggi vota Pd». 

La Russia non c'entra nulla con la caduta del governo Draghi?

«Si combatte con tutte le armi, come gli americani provano a ingerire, così fanno i russi».

Dalla parte della Libia controllata dai russi si sono intensificate le partenze di migranti. Un caso? «Non è impensabile che i russi usino questi mezzi, è orribile ma mi scandalizza di più il trattamento riservato in Libia ai migranti». 

Per lei è normale anche la condotta di un leader come Matteo Salvini sulla vicenda russa?

«Sono convinto che Salvini debba dare spiegazioni serie. È un politico raffazzonato e maldestro, Bossi era Churchill in confronto. Se ti affidi a personaggi come Capuano è giusto che si approfondisca. Se Putin ha suggerito a Salvini di fare cadere Draghi sarebbe grave. Ma noi abbiamo prove di questo? O ci basiamo su un bollettino di qualche agente segreto? L'intercettazione del funzionario che parlava con Capuano esiste?». 

E Berlusconi?

 «Se Berlusconi chiama l'ambasciatore russo non è un attentato. Conosco Berlusconi, sono sicuro che è contro la guerra, accetta la linea del governo per convenienza». 

Lei accusa il Pd di essere un partito quasi di destra, poi vorrebbe allearsi con il Movimento che ha votato i decreti Salvini, fondato da un ex comico che voleva abolire i sindacati e il Parlamento. Bella sinistra.

«Ci sono delle contraddizioni nella storia del M5S, ma gli riconosco la qualità di aver saputo interpretare un pezzo di società che non aveva voce, pur con tutte le contraddizioni. Reddito di cittadinanza e superbonus sono provvedimenti mal fatti ma importantissimi». 

Santoro ideologo del rossobrunismo?

«Ma quale rossobruno, sono come Ciccio Ingrassia che in Amarcord sale sull'albero e dice "voglio una donna", anche io vorrei salire e urlare: voglio un partito».

Il Partito Democratico.

Vittorio Feltri disintegra Enrico Letta: "Vizio comunista", perché è un perdente. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 18 settembre 2022

Il Pd di Enrico Letta è destinato a perdere le prossime elezioni politiche perché non ha smarrito il vizio di essere comunista, forse non nella forma ma di sicuro nella sostanza. L'ideologia marxista si è in parte evoluta ma ha mantenuto le caratteristiche del passato, e i partiti che ha figliato assomigliano a chi li ha generati. Il problema è che a distanza di molti anni dalla fine del sovietismo non si è ancora esaurita una mentalità russa, la quale continua a influenzare il comportamento dei compagni. Niente di spaventoso, siamo tutti consapevoli che il socialismo reale ha avuto un ruolo drammatico nella vita di tanti Paesi, compreso il nostro. Ora però sarebbe giunto il momento di rivedere la storia, cioè di aggiornare le idee rendendole compatibili con l'attualità. Operazione che non sta riuscendo ai dirigenti progressisti, afflitti dalla nostalgia per i tempi trascorsi e incapaci di fare un passo avanti verso il futuro.

Da Occhetto a D'Alema che tentarono di rinnovare il vecchio Pci sono trascorsi vari anni, ciononostante non si sono visti molti progressi sul piano dell'ammodernamento delle strutture ideologiche del comunismo, che è rimasto legato a vetusti schemi di cui Enrico Letta è tuttora erede. Cosicché non c'è traccia di maturazione nella politica democratica. Il partito seguita a inciampare nel vecchiume rosso senza dare segni di evoluzione. Non ce la fa a uscire dalla gabbia comunista, percorre sempre la stessa strada antiquata disseminata di presunzione, di politicamente corretto e di luoghi comuni. Non è un caso che il programma del Pd comprenda la voglia di dare ai giovani di 18 anni un assegno di 10.000 euro non si sa per quale ragione, di conferire la nazionalità italiana agli scolari, insomma una serie di provvedimenti inspiegabili che comprendono anche diversi benefici da garantire agli omosessuali. Senza contare il resto: ovvero il reddito di cittadinanza, il salario minimo e altre misure destinate ad aggravare il debito pubblico e a non apportare alcun beneficio alla società. Davanti a questo quadro desolante è evidente che gli italiani siano perplessi e non abbiano voglia di farsi governare dal Pd. E preferiscano affidarsi a Giorgia Meloni per dirigere l'Italia, una persona che porta con sé una ventata di aria fresca e che promette una politica innovatrice. Speriamo non ci deluda.

Partigiani avvoltoi anche con i loro morti. Giannino della Frattina l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Sono senza vergogna. Nemmeno dei morti hanno rispetto (e questa è da sempre una specialità della casa) in una delle più brutte campagne elettorali degli ultimi lustri. E ce ne voleva. Leggete, è tutto vero. «Il 25 settembre, quando voteremo, inorridisco pensando che cento anni dopo la marcia su Roma gli eredi del fascismo possono prendersi Palazzo Chigi e mettere mano alla Costituzione» ha ammonito ieri Sergio Fogagnolo agitando il pugno sinistro chiuso. Lui è il figlio di Umberto, uno dei quindici partigiani uccisi a piazzale Loreto il 10 agosto del 1944 per rappresaglia dopo l'attentato di due giorni prima a un camion di riservisti tedeschi che stava distribuendo del pane ai milanesi. E sempre lui, per non farsi mancare niente, ha definito il leader della Lega Matteo Salvini un possibile «ministro dell'Interno con vocazione totalitaria». L'occasione è stata l'annuale cerimonia organizzata a Milano e battezzata dall'Anpi che mai come quest'anno si è trasformata una manifestazione elettorale e demenziale del Pd e compagni vari. Non è mancato niente: dall'anatema antifascista scagliato contro il centrodestra dal palco, a un tripudio di bandiere del Pd e della Cgil (che cattivo gusto in un'occasione ufficiale) agitate fino ad avvolgere figure istituzionali invitate per il loro ruolo come il questore, il vice prefetto, rappresentanti di carabinieri, polizia, vigli, Comuni e Regione. Tutti coinvolti in un tripudio di sbandieratori e di selfie organizzati da aspiranti candidati come la piddina Lia Quartapelle o la vice sindaco Anna Scavuzzo che in un'occasione tutt'altro che ridanciana hanno sfoderato i sorrisi più smaglianti per scatti già pronti per il manifesto elettorale. Tutto terribilmente triste, non per il cordoglio dovuto a quelle povere vittime della guerra civile, ma per i sinistri avvoltoi che si sono avventati sui loro cadaveri. E poco ha da lamentarsi il presidente dell'Anpi Milano Roberto Cenati preoccupato a posteriori di assicurare, a frittata ormai fatta. Dicendo ai quattro venti che «la cerimonia aveva unicamente, come ogni anno, lo scopo di ricordare l'eccidio nazifascista», ma senza smentire nemmeno una sillaba di quanto sputato con veleno dal palco. Perché quelle discutibili frasi sono state pronunciate da un protagonista ben noto della celebrazione e le bandiere hanno garrito arroganti. Perché a sinistra sono i soliti, disposti a tutto pur di artigliare il potere. E del resto la lezione di Lenin non si dimentica solo scolorendo i vessilli rossi con la falce e martello in quelli ipocritamente tricolori del Pd.

Giuseppe Alberto Falci per il Corriere della Sera il 3 agosto 2022.  

«Passate da Marco», «chiedete a Marco», «solo Marco ha l'incastro del mosaico delle liste delle varie regioni». In queste ore chi varca l'ingresso della sede del Partito democratico, il cosiddetto «Nazareno», sente rimbombare un nome più di altri: «Marco». 

Marco è Marco Meloni, oggi coordinatore della segreteria, l'uomo forse più vicino a Enrico Letta, colui che assieme a pochi altri ha l'arduo compito di compilare le liste per le elezioni del 25 settembre al tempo del taglio dei parlamentari. Definirlo consigliere è forse sminuirne il ruolo. 

C'è chi lo ha ribattezzato «il sacerdote del lettismo», chi ancora «il depositario di tutti i segreti di Enrico», chi «il più leale», in virtù di una serie di battaglie antirenziane all'indomani della fine del governo Letta. Sardo, di Quartu Sant' Elena, tifoso del Cagliari, avvocato, ex atleta, è figlio d'arte, il padre Igino è stato un'importante democristiano locale e dirigente sanitario.

Una laurea in giurisprudenza nel curriculum, una specializzazione in diritto comunitario, ma soprattutto una passionaccia per la politica. Un rapporto, quello fra «Marco» e «Enrico», che risale agli anni del Partito popolare italiano e che si consolida nel 2001 quando inizia a collaborare con Letta all'epoca ministro dell'Industria. Poi, va da sé, l'Arel, la fondazione del think tank Vedrò, l'associazione 360. Meloni, insomma, non si separa più dal segretario del Pd. 

«È l'ombra di Enrico» dicono tutti. Guida la campagna di comunicazione per le candidature alle primarie Pd nel 2007, poi vinte da Veltroni, e nel 2009 viene nominato componente della segreteria Bersani in quota Letta. Entra in Parlamento nel 2013 e quando nel febbraio del 2014 l'attuale segretario del Pd si dimetterà da Palazzo Chigi e consegnerà la campanella a Matteo Renzi, resterà l'unico a difendere la causa «lettiana». Tutto il gruppo di Enrico si volatilizza, alcuni addirittura vanno con Renzi, ma lui terrà aperto l'ufficio di Letta e condurrà una battaglia parlamentare. 

Prima contro l'Italicum («Questa legge non è votabile»), poi contro il Rosatellum, non votando la fiducia: «Il governo ha compiuto un grave strappo istituzionale». Poi ancora si schiera contro un documento del Pd che prende di mira il governatore della Bankitalia Ignazio Visco. «La Banca d'Italia non era sotto attacco così pesante dai tempi di Sarcinelli e dell'incriminazione di Baffi» dirà al Corriere.

Fa un'opposizione parlamentare ma mantiene il filo diretto con l'amico Enrico quando quest' ultimo nel 2015 lascia il Parlamento e si trasferisce a Parigi a Science Po. Dirige la scuola di Politiche di Letta con la consapevolezza, racconta un amico, «che prima o poi un cavallo di razza come Enrico sarebbe ritornato». E adesso rieccoli l'uno a fianco all'altro. L'uno a guidare il Pd, l'altro a compilare le liste e a fare scudo al segretario.

Michele Serra per “la Repubblica” il 25 luglio 2022. 

Siamo alle solite. Il sedicente centrodestra digerisce di tutto, perfino i moderati, i liberali e i democristiani, che sono, in quella compagnia nero-verde, zeppa di fascisti vecchi e nuovi, la variante esotica.

Il centrosinistra invece cammina sui pezzi di vetro, tutti odiano tutti, ognuno ha la sua lezioncina da calare dall'alto, Calenda deride «le frattaglie di sinistra» (essendo lui frattaglia di centro), le rimanenze pentastellate accelerano la loro estinzione azzuffandosi, hanno fatto più scissioni i grillini in una legislatura che i marxisti in due secoli, Conte schifa l'agenda Draghi (e come sarà l'agenda Conte, rilegata in vero cuoio?), perfino il paziente Letta diffida della presenza di Renzi in una coalizione pur sempre dipendente, in larga parte, dagli elettori di sinistra, che vedono in Renzi un truffatore dai tempi in cui gli affidarono, incautamente, le chiavi di casa.

Letta vincerà le elezioni (Pd primo partito, mi butto nel pronostico, non sono un sondaggista ma ho bevuto due Campari orange), decidano gli altri se considerarlo un socio interessante o continuare a disgustarlo, porgli condizioni, fare i bulli. 

Il grosso dell'opinione pubblica progressista vota Pd vuoi per pigrizia, vuoi per conformismo, vuoi per disperazione, fatevene una ragione, senza quel pezzo di Italia è possibile governare solo se si è di destra, per giunta di questa destra qui, molto più sudamericana e filippina che europea: a cominciare dal Berlusca.

Capisco che questo macro-dato (o vi mettete d'accordo, o siete altrettanti Bertinotti) possa irritare gli estremisti di centro così come quelli di sinistra. Ma così stanno le cose, a meno di credere che la terra sia piatta e l'Italia sia un Paese normale.

Da corriere.it il 25 luglio 2022.

Pd: non ci sono dubbi su Draghi ma il tema premier non è in agenda

«Noi non siamo la destra che litiga su Palazzo Chigi e sugli incarichi prima ancora di fare le liste. Noi siamo impegnati a testa bassa a parlare agli italiani e ce la metteremo tutta per convincerli a scegliere la nostra proposta politica». È quanto sottolineato da fonti del Nazareno. «Poi, in merito al giudizio su Mario Draghi, nessuno certo può avere dubbi su ciò che pensano Letta e il Pd sul suo profilo e la sua caratura. Ma non è un tema in agenda ora», viene aggiunto. 

Salvini: premier chi avrà più voti. Basta liti

«Lasciamo a sinistra litigi e divisioni: per quanto ci riguarda, siamo pronti a ragionare con gli alleati sul programma di governo partendo da tasse, lavoro, immigrazione e ambiente. Chi avrà un voto in più, avrà l’onore e l’onere di indicare il premier». Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini.

Manfredi: non mi candido, avanti impegno per Napoli

«I napoletani mi hanno votato per fare il sindaco di Napoli, quindi ho un impegno con i napoletani che onorerò. Mi concentrerò al massimo su Napoli, facendo rispettare a livello nazionale i bisogni e le necessità della città e del Mezzogiorno». Gaetano Manfredi risponde così all’appello rivolto dal segretario del Pd, Enrico Letta, ai sindaci delle grandi città, affinché si impegnino in prima persona alle prossime Politiche. Nessuna candidatura in vista, quindi, per l’ex ministro, che assicura comunque il suo impegno in un’altra forma: 

«Porterò avanti le istanze della città e del Mezzogiorno - sottolinea - mi auguro che nella prossima campagna elettorale e nei programmi anche del prossimo governo ci sia una centralità di Napoli e del Sud, perché noi abbiamo bisogno, soprattutto in questa fase di grande crisi sociale, di avere un impegno forte da parte del Governo per sostenere le tante criticità che abbiamo, di mettere al centro le città e i problemi dei cittadini e fare in modo che si possa dare una risposta concreta ai bisogni delle persone». 

Meloni: senza accordo su premier alleanza inutile

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, è sempre più determinata a fare da traino nel centrodestra: «Se non dovessimo riuscire a metterci d’accordo» sul nodo della premiership nel centrodestra «non avrebbe senso andare al governo insieme», ha detto in una intervista che andrà in onda questa sera nel corso dell’edizione delle ore 20.00 del Tg5, il cui testo è stato anticipato. «Confido che si vorranno confermare, anche per ragioni di tempo, regole che nel centrodestra hanno sempre funzionato, che noi abbiamo sempre rispettato e che non si capisce per quale ragione dovrebbero cambiare oggi», ha sottolineato. 

Meloni ha anche aggiunto che pensa che sarà una campagna elettorale «violentissima» ma che «non ci facciamo intimidire. E penso anche che la sinistra abbia bisogno di inventare una macchina del fango contro di noi, perché non può dire niente di concreto e di vero. Noi non abbiamo bisogno di inventare una macchina del fango contro di loro perché possiamo banalmente raccontare i disastri che hanno prodotto in Italia negli ultimi 10 anni al governo».

Letta dice che alle elezioni bisogna scegliere Pd e Fdi? Per giorgia Meloni «Letta fotografa la realtà». «Sono i due principali partiti che - spiega nell’intervista al Tg5 - si confronteranno in queste elezioni in un sistema che potrebbe tornare bipolare. Considero questa una buona notizia perché nel bipolarismo si confrontano identità: centrodestra contro centrosinistra, progressisti contro conservatori. Questo è lo scontro e gli italiani sceglieranno da che parte stare». 

Elezioni: Letta, Draghi? si è compiuto suicidio collettivo domenica 24 Luglio 2022.

(ANSA domenica 24 Luglio 2022) Con la caduta di Draghi "credo che quello che si è compiuto sia stato un suicidio collettivo della politica italiana e credo che le nostre istituzioni, la nostra politica esca molto ammaccata". Lo ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, a Mezz'ora in più, su Rai tre. 

Elezioni: Letta, rottura dai 5stelle? Irreversibile

(ANSA domenica 24 Luglio 2022) La rottura dai 5 stele "in queste elezioni è irreversibile, lo abbiamo detto, lo avevo detto prima". Lo ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, a Mezz'ora in più, su Rai tre. "Avevo detto a Conte se prendete una decisione di questo tipo questa sarà la conseguenza e siamo lineari con questa scelta"

Elezioni: Letta, Conte ha interrotto evoluzione M5s

(ANSA domenica 24 Luglio 2022) "Io non farò un campagna astiosa o arrabbiata contro il M5s, con loro abbiamo fatto un percorso e lo rivendico. Non mi sono pentito, perché i 5 stelle di inizio legislatura hanno combinato quello che hanno combinato, poi c'è stata una evoluzione che ha consentito di fare il governo che ha gestito la pandemia e il governo Draghi. Conte poi ha abbandonato quella evoluzione". Lo ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, a Mezz'ora in più, su Rai tre. 

Elezioni: Letta, noi molto più progressisti del M5s

(ANSA domenica 24 Luglio 2022) - ROMA, 24 LUG - "Siamo molto più progressisti noi del M5s, su molti temi, posso fare l'elenco". Lo ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, a Mezz'ora in più, su Rai tre.

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” domenica 24 Luglio 2022.

«La scelta alle elezioni del 25 settembre è chiara: o noi o Meloni». Enrico Letta è convinto di poter vincere la sfida con la destra. […] Lei dice: "O noi o Meloni". Ma noi chi? «Noi, il Pd, che sta organizzando una lista aperta ed espansiva: "Democratici e progressisti". Sarà il cuore del nostro progetto Italia 27, la data di fine legislatura. L'obiettivo è arrivarci dopo aver governato e trasformato il Paese». 

[…] Non basta la vittoria di lista, si vince in coalizione e la destra parte avanti nei sondaggi.

«Nelle prossime due settimane parleremo con tutti coloro che sono interessati e disponibili a costruire un progetto politico vincente e che sia nel solco condiviso dalle forze che hanno dato la fiducia al governo Draghi. Ecco, il riferimento a Draghi è il perimetro della serietà e del patriottismo, la base di partenza». 

[…] Le faccio dei nomi: Calenda?

«Calenda, di tutti i protagonisti possibili, è il più consistente dal punto di vista dei numeri e ha svolto in Europa un lavoro interessante e in parte condiviso. Discuteremo con lui con spirito costruttivo».

Speranza?

«È una delle personalità che spero possano candidarsi nella lista aperta del Pd. Glielo chiederò». 

È il rientro degli scissionisti di Articolo 1?

«È il segno dell'apertura della nostra lista». 

Di Maio?

«Tra le personalità che vengono dal M5S è la più influente e con lui sicuramente continuerà il dialogo già aperto». 

Renzi?

«Parleremo con tutti». 

Anche con i ministri ex Forza Italia?

«Certo. Lo dico anche a coloro che a casa mia storcono il naso. Non si tratta di far entrare Gelmini, Carfagna e Brunetta nel Pd, ma di tre persone che hanno dimostrato grande coraggio, lasciando il certo per l'incerto, e un seggio garantito, perché in dissenso con un centrodestra guidato dai nazionalisti e dagli antieuropeisti. Meritano apprezzamento». 

Ma è davvero praticabile e auspicabile un cosiddetto fronte repubblicano, cioè una coalizione, per ipotesi, da Toti a Fratoianni? O il rischio è il bis della litigiosa Unione di Prodi?

«Non voglio tracciare confini, dico solo che, se non convinciamo a votare per noi elettori che stavano con il centrodestra, magari anche alle ultime amministrative, la partita non si gioca nemmeno. Abbiamo in vigore la peggiore legge elettorale possibile, che obbliga ad alleanze elettorali, e anche dall'altra parte le divisioni sono evidenti.

Dobbiamo essere molto forti nell'identità, allo stesso tempo il raccordo con l'esperienza del governo Draghi è utile a convincere del nostro progetto i moderati del campo opposto. Tra le associazioni che hanno chiesto che Draghi continuasse ce ne sono molte vicine in passato al centrodestra. Non voglio che votino, che so, Forza Italia. Non deve ripetersi».

Che senso ha andare al voto sull'agenda Draghi? Draghi non c'è, e forse nemmeno un'agenda così ben definita.

«Usciamo rapidamente da questo tormentone dell'agenda Draghi. Si tratta di un punto di partenza e non del programma della coalizione […]». 

[…]

Il Pd userà contro Meloni l'argomento del rischio fascismo?

«Certo potrei parlare di rischio fascismo, ma non farò una campagna sugli -ismi, bensì su fatti concreti. Chi ha fatto cadere il governo è già costato agli italiani una quattordicesima, perché è tramontato il taglio del cuneo fiscale che avrebbe dato ai lavoratori una mensilità in più a fine anno. Lo riproporremo nel nostro programma».

Teme un cambio in politica estera se vince la destra?

«Gli interlocutori europei di Salvini e Meloni sono Orbàn, Le Pen, il polacco Kaczynski e Abascal, il leader della spagnola Vox. Questo è il Pentagono internazionale di FdI e Lega. Sa cosa li accomuna? Hanno votato tutti contro il Next Generation Eu e sono sempre dalla parte opposta a tutte le scelte europeiste». 

È possibile che l'Italia cambi linea anche sul sostegno all'Ucraina?

«Ho apprezzato la responsabilità di Meloni sul tema, non posso dire la stessa cosa di Berlusconi e Salvini, da cui sono arrivate solo condanne a mezza bocca o addirittura simpatia per Putin». 

Può esserci una influenza russa dietro la caduta di Draghi?

«Spero che chi ha staccato la spina a Draghi non sia stato insufflato da voci da Mosca o dall'ambasciata russa. Ma non c'è dubbio che all'ambasciata, la stessa davanti alla quale il Pd organizzò una manifestazione già poche ore dopo l'invasione dell'Ucraina, si è brindato a vodka e caviale». 

Grazie anche a Giuseppe Conte, il suo fresco ex alleato. C'è ancora una possibilità che faccia parte anche lui della coalizione elettorale?

«No. Il percorso comune si è interrotto il 20 luglio e non può riprendere, è stato un punto di non ritorno. Lo avevo avvertito che non votare la prima fiducia sarebbe stato lo sparo di Sarajevo». 

Se Conte all'ultimo avesse votato la fiducia a Draghi l'avrebbe ripreso a bordo?

«Con i se non si ragiona. Conte ha fatto le sue scelte e i suoi calcoli. Ha aperto un varco per le elezioni e Salvini non aspettava altro. Ma non è successo tutto in un giorno». 

Il Pd non dovrebbe fare autocritica per aver puntato da anni su una alleanza così inaffidabile e politicamente ambigua?

«[…] Senza il Conte due avremmo avuto Salvini primo ministro dopo il Papeete.

Anche oggi che il rapporto si è interrotto è evidente che non sono più i 5S del vaffa. Di questo percorso il Pd non può e non deve pentirsi». 

[…] Si prepara una campagna all'insegna della demagogia. Berlusconi ha già cominciato: pensioni minime a 1000 euro e un milione di alberi da piantare.

«Non c'è nessuna credibilità. L'altro giorno, mentre andavo in aeroporto, ho pensato a quanto ci costò la campagna elettorale di Berlusconi nel 2008, quando affossò il salvataggio di Alitalia il conto fu di 3 miliardi. E aggiungo che di alberi la sola Regione Emilia Romagna ne ha già piantati un milione dall'inizio della nuova consiliatura. Di che parliamo? Siamo alla comicità, purtroppo Berlusconi ormai fa tenerezza. Mi sento di rivolgere un appello a chi gli sta vicino, affinché ponga fine a questo sfruttamento dell'icona Berlusconi». 

Chi lo sfrutta?

«Berlusconi ha sciolto Forza Italia nella Lega consigliato da persone del partito che hanno deciso per lui e preso gli accordi con Salvini».

[…]

Ste.val. per “Libero quotidiano” domenica 24 Luglio 2022.

Troppo facile prevederlo. E infatti, non appena si è concretizzata la crisi di governo ed è stata fissata la data delle elezioni, ecco subito rispuntare il ritornello preferito della sinistra, unica arma- peraltro alquanto spuntata - sfoderata contro i rivali elettorali: gridare al pericolo fascista, con particolare riferimento a Giorgia Meloni, leader del partito accreditato attualmente dai sondaggi come quello che gode del maggior favore da parte degli elettori.

Su Twitter per esempio, il social network più "chic", è subito balzato in testa alla classifica - trend topic, in termine tecnico - il gruppo di interventi caratterizzati dall'hashtag (sorta di aggregatore tematico) #No_ai_fascisti_d_Italia. E via con gli insulti. «Se anche tu sei schifato da questa destra becera, corrotta, venduta e incapace che vuole riportare in vita una larva debellata ma purtroppo non estinta, protesta anche tu! Facciamoci sentire! Noi non li vogliamo, puzzano di marcio»: questo uno dei tantissimi interventi. 

E ancora: «Volete questa gentaglia al governo?» sopra le foto di Meloni, Berlusconi e Sal vini. E poi: «Questa destra è oscena e blaterante, ipocrita e aberrante. Schifo. Nausea. Orrore». Come detto, ognuno di questi interventi è caratterizzato dall'etichetta #No_ai_fascisti_d_Italia. Buona campagna elettorale.

I Cespugli.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” 12 settembre 2022. 

Riassumendo: i socialisti, da quando non c'è più il partito, si attaccano di volta in volta a destra o a sinistra per fare eleggere qualcuno. Bruno Tabacci, il contrario. Sono gli altri che si attaccano a lui, indipendentemente dal fatto che in quel momento sia a destra o a sinistra, per cercare di entrare in Parlamento. 

Di fatto la sua funzione sociale è traghettare gruppi, gettare ponti, lanciare scialuppe di salvataggio, condurre truppe cammellate, accompagnare responsabili, raggruppare peones. È una sorta di tour leader dell'Emiciclo.

Col suo Centro democratico, che si basa su percentuali risibili ma che appoggia i governi giusti (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi...), Bruno Tabacci salva le varie liste dall'onere della raccolta firme. Come organizza lui il trasporto pubblico dei parlamentari, nessuno. «Ma Lei cosa fa, Tabacci?». «Presto simboli, organizzo pullman», che è un po' il nuovo «Faccio cose, vedo gente». 

Aria curiale, vecchie ventiquattrore da avvocato anni Settanta, profilo da funzionario del Politburó, uno che c'era già con Tribuna politica, Bruno Tabacci ne ha fatte di cose e vista di gente nella sua carriera. Settantasei anni, nato mentre l'Assemblea Costituente eleggeva il primo capo dello Stato, era l'estate 1946, a Quistello, bassa mantovana e altissime ambizioni, terra di tortelli, di zucche e di barcaioli, da cui l'abilità nel traghettare, Bruno Tabacci ha iniziato come vicesindaco nel 1970. E non ha ancor finito oggi, che è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. In mezzo, la Storia. Era colonnello di Ciriaco De Mita, è diventato padre di Di Maio: «Luigi è più giovane dei mie figli, c'è un passaggio generazionale, un investimento nel futuro».

Il passato invece è una sicurezza. Prima Repubblica, seconde file e terzo polo moderato sono cinquant' anni che si srotola fra liste, listoni e raggruppamenti, dalla scuola d'eccellenza di Giovanni Marcora, del quale fu l'ambizioso «ragazzo spazzola», al salvataggio dei radicali di Emma Bonino, per finire oggi coi grillini dissidenti. Al cospetto la Gelmini e la Carfagna sono un fulgido esempio di coerenza. 

Consigliere regionale Dc negli anni '80, presidente della Regione Lombardia per volere di De Mita dall'87 all'89, deputato della sinistra democristiana, sfiorato dalla bufera Tangentopoli, una carriera sotterranea da dirigente statale, poi lista Biancofiore, poi onorevole dell'Udc nella Casa delle Libertà dal 2001 al 2008 (quando, berlusconiano, si accreditava come «la spina nel fianco del Cavaliere»), poi deputato della Rosa Bianca, un brevissimo passaggio non accreditato nel Pd, poi in Alleanza per l'Italia con Francesco Rutelli, super assessore al bilancio del Comune di Milano con Giuliano Pisapia, che era il suo avvocato (anni economici di «rifondazione liberista»), quindi candidato alle elezioni primarie del Centrosinistra nel 2012, quindi un anno con +Europa, quindi sostegno a Giuseppe Conte, quindi uomo forte del governo Draghi, quindi (e siamo a oggi) il partito fondato con Di Maio: Impegno civico.

Di fatto Bruno Tabacci è un bigino di Storia dei partiti politici nell'Italia repubblicana. Il programma è sempre quello: stare un po' più a sinistra se si è dentro una colazione di centro-destra, e un po' più a destra se si è dentro una coalizione di centro-sinistra. Cambiano solo i nomi. 

Finora ha collezionato tre coalizioni («Casa delle Libertà», «Italia. Bene Comune» e «Centro-sinistra») e dieci sigle: Dc (1970-94), Ppi (1994-96), Udr (1998), Ccd (1998-2002), Udc (2002-08), RpI (2008-09), ApI (2009-12), Cd (dal 2012), +Eu (2019-20), Ic (2022). Un vero record. L'importante è essere amico di tutti, ma comandare sempre da solo. Come si dice lungo il Po: «Na barca con dù timon... l'è na barca da coion!».

Finanza bianca e anima rossa, buone frequentazioni nel bel mondo delle banche e delle grandi società pubbliche da cui il suo motto «Eni, vidi, vici» - democristiano fino alla punta dei capelli, che non ha; un culto religioso per don Giussani e uno laico per il Grande Centro, padanissimo Mantua me genuit ma antilumbard, Bruno Tabacci è il tipico cattolico apostolico di rito cattocomunista che si impone nella spartizione di potere: dalle partecipate ma fu solo un caso se un anno fa, mentre papà aveva la delega alla politica aerospaziale, il figlio è stato assunto in Leonardo, colosso nei settori della difesa e dell'aerospazio ai salotti milanesi, Ztl e dintorni: e se serve è pronto a dare consigli anche a Beppe Sala.

Tabaccisauro in grisaglia di quel che fu la preistoria Dc, il «compagno Br1» è il moderato del moderatismo cocchiero della sinistra, utile a fottere la maggioranza silenziosa che vota sempre a destra per ritrovarsi nella palude delle larghe intese. Anche se poi, qualsiasi poltrona gli va bene. 

Segreti di Bruno Tabacci: discrezione, dissimulazione, collezionare Fondazioni e Comitati, mantenere un'equidistanza evangelica tra Mastella e Casini. Inossidabile, intramontabile, inaffondabile. Una inquietante somiglianza con il Mr. Grady di Shining, sui social ha anche l'endorsement satirico «Marxisti per Tabacci», per dire.

Bacco, Tabacci e Venere riducono l'uomo in Bevitore misurato, non tabagista, sensibile alle femmine facoltose il capriccio più noto è quello per l'imprenditrice Angiola Armellini, «Lady 1243 appartamenti», indagata nel 2014 per una maxi evasione fiscale (risposta di Tabacci ai giornalisti: «Mica sono il suo commercialista»), una passione per il ciclismo a là Prodi, gran tessitore di trame pentapartitiche (le cene all'«Ambasciata» di Quistello con Andreotti, Cossiga e la Faraona all'uva), Bruno Tabacci la cui resistenza politica è inversamente proporzionale alla scarsa visibilità di cui gode - ha la rara capacità di essere sempre centrale pur apparendo così laterale.

 Peso elettorale: 0,7%; ospitate tv: troppe. Domanda: ma il fatto di essere così spesso invitato a La7 nella trasmissione di Giovanni Floris in cui uno degli autori è il suo portavoce Carlo Romano, è un conflitto di interessi o un semplice mistero dei palinsesti televisivi? #dimartedì Cose che stanno particolarmente a cuore a Bruno Tabacci: l'eterno democratico Angelo Sanza, che la prima cosa che fa quando arriva in Transatlantico è cercare l'amico onorevole Bruno Tabacci; i salotti, le poltrone e i sofà; dire peste e corna (privatamente) di Carlo Calenda; le battaglie contro l'evasione fiscale; le vacanze al Tanka Village, il resort di lusso di Ligresti; i cespugli di centro; i consigli di amministrazione; la torta sbrisolona. 

Cose che NON stanno particolarmente a cuore di Bruno Tabacci: l'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio; Roberto Formigoni; ricordare il proprio passato nell'area del centrodestra; rilasciare interviste sotto le 80 righe; l'etica politica; essere interrotto mentre ascolta compiaciuto se stesso.

Tabacci, comunque, è educato, colto, intelligente, furbo e granitico. Soltanto non riusciamo a capire perché un elettore dovrebbe votare Pd per poi fare eleggere i vari Di Maio, Bonino, Della Vedova, Azzolina e Bruno Tabacci. Sì, certo, è vero. In fondo anche i Muppets facevano ridere. 

Nino Femiani per il Resto Del Carlino il 27 luglio 2022.

«È solo un chiacchiericcio non all'altezza dei bisogni del Paese». A parlare è Paolo Cirino Pomicino, ex ministro del Bilancio e cavallo di razza della Dc. Uno di quelli che di centro ne ha masticato e argomentato a lungo tanto da diventare un osservatore arguto e senza peli sulla lingua. «La verità è che in questi mesi si usa questa parola come se fosse un cartello stradale». 

Eppure c'è un affollamento mai visto verso questa collocazione, quasi si avvertisse la necessità di smarcarsi da centrodestra e centrosinistra.

«Quello che abbiamo di fronte è un centro senza aggettivi e senza qualità. Attenzione: non è un problema di definizione, ma di contenuti perché il centro non può che essere liberale o popolare. Al di là di queste due grandi famiglie non può che trascinarsi un centro tartufesco e paesano a cui affluiscono tutti i soggetti che oggi dicono di essere centristi, e mi riferisco a Toti, Calenda, Renzi, Di Maio, Brunetta, Gelmini, Brugnaro, Quagliariello e così via. Tutti amici personali, ma tutti aggrovigliati da 30 anni in un ginepraio personalistico». 

Che cosa rimprovera a tutti questi esponenti politici?

«Il fatto che manchi in ciascuno di loro la decisione di assumere, come punto di riferimento e aggregazione, una cultura politica. Se noi siamo popolari o liberali, ci definiamo tali, non ci chiamino Azione o Insieme o Italia Viva o Identità e Azione. È la dimostrazione che questi sono incerti anche su chi sono veramente. Lo ripeto: posto in questo modo il centro non ha alcun significato politico». 

Come spiega allora la corsa a costruire movimenti di centro?

«Alla base ci sono interessi personali e personalissimi». 

Non crede neppure alla possibilità di un cartello elettorale di centro?

«Il cartello elettorale dei 10 piccoli indiani avrebbe un senso se almeno poggiasse su una cultura politica comune. Sarebbe povero di numeri, ma forte di ideali. Invece questi sono deboli nei numeri e assenti nella dottrina politica». 

Qualcuno immagina una aggregazione di centro che si avvicina al 25-30 per cento. Lo ritiene possibile?

«È il solito scherzo dei sondaggisti che si divertono a chiedere a destra e a manca. E poi si fa il sondaggio su quello che c'è, non su quello che si immagina potrebbe esserci. Questo centro è pastafrolla». 

Eppure si dice che il centro potrebbe essere la vera sorpresa del 25 settembre perché offrirebbe agli elettori moderati una scelta nuova tra la destra sovranista e la sinistra che ruota intorno al Pd.

«Io ho assistito in questi mesi a un crescendo del processo di frantumazione del centrodestra e del centrosinistra. Ma non vedo all'orizzonte un processo di ricomposizione culturale e politica. E sa perché? Perché nessuno ha fatto una vera riflessione sul disastro di questi 28 anni di Seconda Repubblica. E nessuno, compresi questi nuovi centristi, si è veramente impegnato a far risorgere quelle due culture, popolare e liberale, che costruirono l'Italia repubblicana e l'Europa comunitaria. Questo è l'Abc se si vuole far rivivere il centro».

E invece?

«Invece si creano piccoli movimenti finalizzati alla composizione di liste la cui costruzione ruota intorno a tre criteri: familismo, sesso e amore. Anche in quelli che appaiono i più avanzati, il meccanismo è sempre lo stesso: candido il cognato, l'amica, l'amante». 

Hanno ereditato molti esempi in questo senso

«Eh, già. La verità è che non è contagioso solo il Covid, ma anche un costume che fa prevalere l'interesse personale su quello del Paese. Questo significa che i partitini di centro hanno una statura molto modesta. Penso che saranno presto alla canna del gas e, visto il sistema maggioritario, li immagino a trattare in ginocchio con centrodestra o con Pd. E il centro finirà per essere la solita illusione». 

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2022. 

Le elezioni saranno la sagra delle liste. E il Pd sa che per tentare di competere dovrà raggruppare più forze nel «campo aperto» di cui ha parlato Letta. Perché è vero che la sfida con il centrodestra si giocherà sul terreno politico, ma conterà soprattutto il calcolo numerico. E con il Rosatellum liste anche piccolissime potranno essere determinanti per far scattare un seggio proporzionale, far vincere un collegio uninominale o far aumentare le percentuali dei partiti maggiori.

Ed è partendo dalle regole della legge elettorale che è iniziato il lavoro al Nazareno, dove hanno ideato per l'alleanza uno schema «a quattro punte»: a Fratoianni di Sinistra italiana è stato proposto di riunire ogni possibile formazione a sinistra; a Tabacci del Centro Democratico è stata assegnata la delega per raccogliere naufraghi grillini e del centrodestra; ai Socialisti è stato suggerito di unirsi ai Verdi o convergere con Fratoianni. Mentre il Pd farà il regista e con la scritta «democratici e progressisti» posta sotto il simbolo, progetta di accogliere il gruppo di Speranza. La scelta delle «punte» non è casuale: ognuna di loro guida un partito che non deve raccogliere le firme per presentare le liste alle elezioni.

Una rogna non da poco, specie stavolta che le firme si dovrebbero raccogliere sotto gli ombrelloni. Il ruolo delle «punte» sarà anche quello di collettori sul territorio delle liste civiche, perché il 25 settembre servirà pure lo 0,1% per contrastare il fronte avverso. Specie al Senato, dove la ripartizione dei seggi avviene su base regionale e dove un ras locale può determinare il risultato. 

Lo schema del «campo aperto» è assai vantaggioso per Letta. I voti delle forze che non supereranno lo sbarramento del 3% verranno infatti assegnati ai partiti maggiori.

Cioè al Pd, che in cambio garantirà agli alleati delle candidature sicure. Così i dem confidano di aver gioco facile per uscire dalle urne come prima forza nazionale: un risultato che rappresenterebbe un'assicurazione sulla vita per il segretario in caso di sconfitta. Tutto fatto? Niente affatto. Manca ancora la «quarta punta», cioè Calenda.

Il leader di Azione per ora resiste alle avance di Letta.

«Calenda è un problema», sospira un autorevole dirigente dem: «È un problema gestirlo ed è un problema averlo contro». In base ai sondaggi, detiene un pacchetto di consensi tale da poter anche superare la soglia del 5% stabilita per chi va da solo. E diverrebbe un incubo per il Pd. Per evitarlo, Letta punta sulla Bonino e insiste perché entri a far parte dell'alleanza. La storica esponente radicale è propensa ad accettare. In tal caso cambierebbe tutto: +Europa non solo è alleata di Azione ma soprattutto ha l'esenzione per la raccolta delle firme. Se il connubio si rompesse, Calenda sarebbe chiamato ad un grande sforzo organizzativo in poco tempo.

Sarà un caso ma ieri il leader di Azione è parso più possibilista sull'accordo: «Quello che abbiamo proposto non è un rassemblement di centro ma una coalizione tra partiti, ognuno con una sua identità. Io posso rappresentare i liberaldemocratici e i popolari se arrivano persone da Fi che mi aiutano a farlo. Noi non abbiamo preclusioni a discutere di programmi, ma partiamo da lì». Il punto è che il Rosatellum non prevede in comune nessun candidato premier, nessun simbolo, nessun programma.

E allora il dibattito che si è aperto sull'«agenda Draghi» e sulla definizione da dare all'alleanza è pura accademia. Brunetta ha parlato di un «rassemblement repubblicano», con dentro tutti tranne i Cinquestelle. Fratoianni di una «coalizione progressista» con dentro tutti compresi i Cinquestelle. Ma l'argomento vero è come risolvere un calcolo aritmetico, nel gioco del dare avere sui seggi tra alleati. 

A meno di non puntare su un centro autonomo, come minaccia Renzi dinnanzi ai maldipancia del Pd. Che però non può permettersi defezioni. A rompere l'enfasi oratoria da comizio elettorale e il clima da eroica battaglia contro i sovranisti ci ha pensato prosaicamente Mastella, che oggi presenterà il suo simbolo di «Noi di centro» e ieri ha avvisato il Pd di non far «prevalere veti», o domani - cioè il 25 settembre - «il suo risultato sarebbe compromesso».

Il resto si vedrà nel giro di pochi giorni e si capirà la collocazione dei tre ministri ex forzisti e dell'ex grillino Di Maio. Questo «campo aperto» di Letta - come dice un rappresentante del centrodestra - «sarà pure politicamente un campo profughi ma può trasformarsi per noi in un campo di battaglia, specie al Senato, se non ci adeguiamo con uno schema simile». Alle liste, alle liste. E al Nazareno va bene così. Intanto perché nel partito non si aprirà il dibattito sugli errori commessi prima e durante la crisi, e di cui si parla solo sottovoce. Eppoi perché «campo aperto» è meglio di «campo largo» che evocava l'epopea del Comintern. 

Adriana Logroscino per corriere.it il 25 luglio 2022. 

«L’unica formula è quella di una coalizione larga ma senza cinquestelle. E soprattutto niente ossessioni: rendono solo Meloni una martire. A Enrico Letta suggerisco di tirar fuori il carattere o molto presto sarà un altro ex segretario del Pd». Clemente Mastella, oggi sindaco di Benevento, a lungo in parlamento, ministro nei governi di Berlusconi, di D’Alema e di Prodi, nelle campagne elettorali si esalta.

Nonostante non intenda candidarsi personalmente, «per rispetto agli elettori beneventani che mi hanno scelto di nuovo meno di un anno fa», ha appena presentato il nuovo simbolo di «Noi di centro». 

Sindaco Mastella, anche questa campagna elettorale breve che nasce da una caduta traumatica del governo, si gioca al centro?

«Come sempre. È una campagna elettorale che il centrosinistra può vincere a patto di non porre veti ma nello stesso tempo fissando un perimetro. Il Pd ha l’autorevolezza per tracciarlo». 

I sondaggi, però, danno il centrodestra in netto vantaggio.

«Il centrodestra ormai è più una destra. È un fatto di numeri: il partito di Berlusconi prende la metà dei voti di Salvini e un terzo di quelli di Meloni. Peraltro al Nord, dove di più è stata sofferta la caduta del governo Draghi, industriali, commercianti, piccoli imprenditori che votavano Lega ora sono molto arrabbiati. Si asterranno. Muovendosi nella direzione di un progetto di solidarietà nazionale, il centrosinistra se la gioca».

E lei è pronto a fare la sua parte.

«Noi siamo al centro e rappresentiamo una realtà territoriale importante. Ho commissionato qualche sondaggio: in Campania Noi di centro può raccogliere il 9 per cento, in Puglia il 5, in Basilicata il 4, in Molise il 5. Aspetto i risultati di Calabria, Sardegna e Abruzzo. L’identità democristiana e parademocristiana è forte. Sono un punto di riferimento, soprattutto dopo anni di disastri. Posso attirare consensi sul centrosinistra oppure no». 

Insomma lei si propone. Ma sono tanti i soggetti centristi che si fanno avanti. Che pensa di Azione di Calenda? È in crescita.

«Guardi, io a Benevento ho vinto contro il candidato di sinistra e contro quello di destra. Li ho battuti entrambi. E si segni questa data: il 28 luglio si vota per il presidente della Provincia, vuole scommettere che il mio candidato batterà l’avversario del Pd sostenuto dal centrodestra? 

Do anche un pronostico: finisce 60 a 40. Io sono per un’alleanza larga ma il mio simbolo può vincere anche da solo, al Senato. In Campania prendo certamente più voti di Di Maio e probabilmente più voti anche di quel che resta del M5S. Non so se Calenda possa avere le stesse aspettative».

Anche lui sembra disposto ad andare al voto da solo.

«Vedremo dove arriva da solo con la sua idea di sfidare il Pd nel collegio di Roma 1. Non ho niente contro Calenda, anzi lo stimo. Ma dovrebbe essere più umile. Non è l’unico ad avere qualcosa da dire». 

Quindi la sua ricetta è un’alleanza larga senza M5S. I punti fondamentali del suo programma?

«La mia idea è di adottare la formula rivelatasi vincente in Campania e in Puglia: un’alleanza larga, senza cinquestelle, puntando su sindaci e amministratori, sia perché si candidino, sia perché indichino candidati. Se al Pd pensano di fare le liste dividendosi i posti in base al peso delle correnti, hanno già perso. 

E riguardo ai temi ne pongo almeno tre, fondamentali: attenzione ai diversamente abili, trascuratissimi, ingabbiati nel labirinto della burocrazia, lotta alla disuguaglianza tra Nord e Sud anche riprendendo il reclutamento nell’amministrazione pubblica, revisione immediata del Pnrr, i cui benefici non stanno arrivando ai Comuni».

Lei è stato ministro di un governo di centrodestra: vuole dare un suggerimento alla possibile leader dello schieramento, Giorgia Meloni?

«Giorgia, non ti illudere, non succederà: Salvini e Berlusconi ti fregheranno comunque». 

 DI MAIO, PARTITO DI CONTE È DIVENTATO DI ESTREMA SINISTRA

(ANSA il 25 luglio 2022) - "Conte e Salvini si sono messi agli estremi. Il partito di Conte è diventato di estrema sinistra, e il centrodestra è un'alleanza di estrema destra. In mezzo c'è l'alleanza dei moderati, noi che dobbiamo dare un'alternativa al Paese, anche nel solco dell'agenda Draghi". Lo ha detto Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di Ipf, ospite de L'aria che tira, su La7.

ELEZIONI: DI MAIO, CALENDA? ESSERE UNITI È UN VALORE

(ANSA il 25 luglio 2022) - "Le coalizioni si presentano fra il 12 e il 14 agosto, nelle prossime settimane ci sarà un dibattito. Le coalizioni sono fondamentali per stare uniti contro gli estremismi. Essere uniti, fra coloro che hanno provato a salvare il governo di unità nazionale, è un valore. Ci lavoreremo, poi gli italiani decideranno". Così Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di Ipf, ospite de L'aria che tira, su La7, commentando le dichiarazioni del leader di Azione Carlo Calenda, che a una domanda di un giornalista su Di Maio ha risposto "Non so di chi lei stia parlando".

Calenda va convinto? "Il tema non convincere una persona, tutti dobbiamo convincerci che essere uniti attorno ai programmi e a una visione del Paese è un valore", ha replicato Di Maio.

IPF:DI MAIO, GRILLO-DI BATTISTA? NERVOSI,HANNO SFASCIATO TUTTO

(ANSA il 25 luglio 2022) - "Li vedo un po' nervosi, hanno capito come sempre di aver sfasciato tutto". Lo ha detto Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di Ipf, ospite de L'aria che tira, su La7, dopo aver visto i recenti video in cui è stato criticato dal garante M5s Beppe Grillo e dall'ex deputato del Movimento Alessandro Di Battista. 

"Il nostro sogno era andare al governo, fare le riforme e cambiare l'Italia, poi sono diventati il partito di Conte, che ha buttato giù Mario Draghi, non un premier qualsiasi - ha spiegato Di Maio -. A Grillo vorrò sempre bene, di Conte ha detto cose peggiori". Di Battista può diventare leader del Movimento? "Decideranno loro, ma ora è un partito padronale - ha risposto il ministro -: li porta a litigare con tutti, forse il problema è proprio Conte". 

GAS: DI MAIO, CADUTO GOVERNO PIÙ DIFFICILE STARE AI TAVOLI

(ANSA il 25 luglio 2022) - Il tetto al prezzo del gas "è importante. Abbiamo fatto contratti importanti con l'Algeria, 4 miliardi di metri cubi in più, abbiamo assicurato all'Italia il gas che serve per evitare il buio in inverno, ma il prezzo non si determina nei contratti, si stabilisce ad Amsterdam al Ttf. 

Il tetto massimo è un provvedimento europeo che può bloccare il prezzo. Ci metteremo il massimo impegno per arrivare a questo risultato, ma avendo fatto cadere governo è molto più difficile stare ai tavoli internazionali". Lo ha detto Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di Ipf, ospite de L'aria che tira, su La7.

VADEMECUM DEI “MODERATI”. La grande mappa dei centristi. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 25 luglio 2022 • 19:54

Chiamati un tempo cespugli e derisi per la loro proliferazione, oggi i cosiddetti “moderati” sono ricercati da tutti, grazie a una legge elettorale che premia le coalizioni ampie e a causa della rottura, apparentemente insanabile, tra Pd e Movimento 5 stelle: una guida per fare chiarezza

Raramente il panorama politico italiano è stato così ricco di formazioni, medie e piccole, che si definiscono o sono definite “centriste”, ossia al “centro” dello spettro politico, "moderate”, almeno in teoria, e capaci di trovare alleanze e affinità tanto a destra quanto a sinistra.

Le ragioni di questa proliferazione sono numerose, dallo sfaldamento parlamentare del Movimento 5 stelle e Forza Italia, alla forza attrattiva verso il “moderatismo” esercitata dal governo Draghi. Quali che siano le cause, però, i centristi sono al centro della cronaca politica di questi giorni.

Con una legge elettorale che penalizza pesantemente le coalizioni più piccole e meno inclusive, si è aperta una vera e propria “caccia ai centristi”. Soprattutto il Pd, che per il momento sembra intenzionato a non allearsi con il Movimento 5 stelle, ha un disperato bisogno di trovare alleati con cui contestare i preziosi collegi uninominali al centrodestra.

Ecco quindi una mappa delle principali formazioni del campo centrista e delle loro possibili alleanze, partendo, orientativamente, da chi è più a destra e spostandoci verso sinistra.

ITALIA AL CENTRO E CORAGGIO ITALIA

Sono i due piccoli partiti del presidente della Liguria Giovanni Toti e del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Formalmente alleati fino alle scorse elezioni amministrative, si sono divisi in seguito a una serie di dissapori interni. 

Tra le varie formazioni centriste, queste due sono le più apertamente schierate. Tanto Toti quanto Brugnaro governano con maggioranze di centrodestra e il loro personale politico proviene quasi tutto da Forza Italia e Lega. Si sono però distaccati dai loro alleati quanto questi ultimi hanno abbandonato il governo Draghi.

Sembra difficile però che porteranno le loro obiezioni fino al punto da correre da soli (mentre è pressoché impossibile un’alleanza con il centrosinistra). È invece probabile una collocazione come “gamba centrista” di una coalizione spostata molto a destra, raccogliendo magari alcuni fuoriusciti da Forza Italia e frenando così l’espansione verso il centro dell’alleanza di centrosinistra. 

I FUORIUSCITI DA FORZA ITALIA

Non sono ancora un partito, né una lista ma i ministri e gli altri parlamentari usciti da Forza Italia potrebbero costituire la loro formazione o andare a rafforzare le altre formazioni centriste. I personaggi più noti di questo gruppo sono gli ex ministri Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, oltre al senatore Andrea Cangini, ex Forza Italia. Ma molti indicano anche la ministra per il Sud Mara Carfagna, che però non sembra aver preso ancora una decisione definitiva.

Difficilmente questi fuoriusciti muoveranno moltissimi voti, ma le loro decisioni potrebbero essere spia di uno smottamento più ampio di elettori e di personale politico verso lidi centristi. Gelmini al momento appare la più convinta ed è in aperta trattativa con Carlo Calenda e il suo partito Azione, mentre Brunetta al momento non ha dato indicazioni chiare.

Una possibilità è un ritorno all’ovile di centrodestra, magari partecipando alla possibile “gamba centrista” del centrodestra che vorrebbero incarnare Toti e Brugnaro. Ma è possibile anche che quella strada sia sbarrata e che invece i fuorusciti scelgano di correre con qualche aggregazione centrista indipendente che, con grande soddisfazione del centrosinistra, potrebbe contribuire a togliere qualche voto ai loro avversari in collegi chiave. 

INSIEME PER IL FUTURO

La nuova formazione creata da Luigi Di Maio con la sua scissione dal Movimento 5 stelle sembra avere già un percorso chiaro, anche se non ancora formalizzato. Trattative sono in corso da tempo con il sindaco di Milano Beppe Sala per la creazione di una lista centrista di orientamento ambientalista che possa andare a sostegno della coalizione di centrosinistra.

Né Di Maio stesso né il Pd hanno escluso questa ipotesi. Ai suoi alleati Di Maio può offrire un forte radicamento territoriale nella provincia di Napoli, un fatto che può aiutare molto nella conquista del relativo collegio uninominale. Ma nell’attuale situazione nulla è definito e le trattative, tanto quelle con Sala quanto quelle con il Pd, potrebbero non portare a nulla.

Se l’alleanza con il Pd non dovesse partire, Di Maio e la sua lista si troverebbero in una situazione complicata. La soglia di sbarramento della legge elettorale è al 3 per cento e difficilmente il neonato Insieme per il futuro potrebbe raggiungere da solo questa soglia. 

ITALIA VIVA

Situazione non molto diversa per il partito di Matteo Renzi, Italia viva. Dato dai sondaggi stabilmente sotto il 3 per cento, Renzi può contare su un discreto radicamento territoriale nell’area di Firenze. Alleandosi con il Pd può garantire la conquista del seggio uninominale al centrosinistra, ma potrebbe metterla in dubbio se decidesse di candidarsi da indipendente.

Il percorso che porta all’alleanza con il Pd è però accidentato almeno quanto quello di Insieme per il futuro. Renzi è pur sempre il segretario del Pd che ha fatto fuori l’attuale leader Enrico Letta al tempo del famoso «Enrico stai sereno». Renzi è visto malissimo anche dalla sinistra del Pd e sono in molti a dubitare dell’utilità di imbarcarlo nell’alleanza.

AZIONE E +EUROPA

Il partito dell’ex ministro Carlo Calenda e quello guidato dal sottosegretairo Benedetto Della Vedova e di cui fa parte anche Emma Bonino, sono alleati da tempo e, tra tutti i centristi, sono gli unici dati regolarmente sopra il 3 per cento dai sondaggi: nessuno più di loro ha buone possibilità di entrare in parlamento anche correndo da soli.

Allo stesso tempo, sono con ogni probabilità gli alleati più naturali per l’attuale Pd guidato da Enrico Letta. Entrambi hanno fatto un totem della cosiddetta “agenda Draghi”, il vago insieme di politiche che si ritiene rappresenti la continuità con l’attuale governo dimissionario.

Entrambi i partiti, e Calenda in particolare, sono forti negli stessi elettorati da cui attinge il Pd di Letta: i ceti istruiti dei centri urbani. Calenda sembra saperlo perfettamente e mentre in questi giorni, con una mano, apre alla possibile alleanza con il centrosinistra, con l’altra minaccia di candidarsi da indipendente nel collegio di Roma, storico feudo del Pd e uno dei pochi collegi che il partito di Letta può vincere fuori dalle storicamente rosse Toscana ed Emilia Romagna.

Calenda però è un negoziatore irruento con un passato tutt’altro che sereno con il Pd. Entrato nel partito dopo le elezioni 2018, ne è uscito subito dopo essere stato eletto al Parlamento europeo, per poi candidarsi a Roma con una lista rivale del centrosinistra che ha ottenuto un discreto risultato. 

Considerato da molti un pericoloso «piantagrane» che causa più grattacapi che altro ai partiti e alle coalizioni di cui fa parte, in questi giorni Calenda sembra intento ad alzare il prezzo di una sua collaborazione con il centrosinistra, chiedendo ad esempio al Pd di «aderire» al programma che presenterà prossimamente e cercando di imporre la scelta di Mario Draghi come «candidato premier» della coalizione (la legge elettorale, però, non prevede l’indicazione di questa figura).

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Da "mai un nuovo partito" all'ammucchiata: la (in)coerenza di Calenda. Clarissa Gigante il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il leader di Azione incontra Renzi e si candida a rifondare il campo largo di sinistra. Ma la sua carriera è costellata di smentite e passi indietro.

Da giorni lavora per un campo largo, di rifondare una sinistra di centro sfruttando la scia lasciata da Mario Draghi con le sue dimissioni. Ed è proprio al governo uscente che Carlo Calenda guarda. E in particolare ai ministri che hanno lasciato Forza Italia. Da giorni, smania, briga con +Europa, si muove nelle retrovie per accordarsi col Pd e assicurarsi di rientrare in Parlamento, corteggia Matteo Renzi. Che però - per ora - gli risponde picche: corriamo da soli, avrebbe ribattuto il leader di Italia Viva nel loro primo incontro avvenuto stasera.

Eppure l'ex ministro per lo Sviluppo economico non brilla certo per coerenza. Ma la Rete - si sa - non dimentica. E così riaffiorano le parole pronunciate il 29 maggio 2019, appena sei mesi prima di fondare la sua Azione: "Per essere chiari non ho mai detto che fonderò un partito. Ho anzi specificato che rimango nel PD e solo se me lo chiedesse Zingaretti in vista di un’alleanza elettorale potrei dare una mano a costruire la gamba lib dem. Mi pare che il ragionamento sia stato invertito". Parole scritte nere su bianco in un tweet in cui commentava un'intervista a Repubblica.

Pochi mesi dopo, il 21 novembre 2019, lo strappo ufficiale: insieme a Matteo Richetti lancia Azione, rifacendosi a un centrosinistra "riformista e progressista". Casus belli è l'alleanza con il Movimento 5 Stelle. Lo stesso partito che ora vuol tenere fuori dalla grande ammucchiata che va da Letta alla Gelmini, da Fratoianni alla Bonino.

Una carriera quella di Calenda costellata da smentite e passi indietro. "Io sindaco? Neanche morto, sarei un cialtrone", diceva nel 2018. Ma nell'ottobre 2020 cosa fa? Va in tv da Fabio Fazio e si candida al Campidoglio, ovvio. Chiedendo pure al Pd di appoggiarlo

E persino quel "mai coi 5Stelle" che aveva portato alla scissione dal Pd si infrange quando Azione ha votato a favore di Virginia Raggi come presidente della commissione Expo 2030. Ma come: non erano "un disvalore per l'Italia?". Vai a sapere cosa è cambiato...

Ma non finisce qua: all'indomani delle presidenziali in Francia, Calenda si è sperticato in apprezzamenti entusiastici per la riconferma di Emmanuel Macron. Eppue solo nel 2019 aveva usato toni fortemente critici verso il titolare dell'Eliseo, accusandolo di essere "come Salvini" sulla gestione dell'immigrazione e "poco europeista" nella gestione della vicenda Fincantieri.

Ora Calenda si spende per una sola persona: Mario Draghi. "Dobbiamo fare di tutto per cercare di tenerlo a Palazzo Chigi", assicura parlando del suo Patto Repubblicano. Salvo poi trovare un altro nome: "O mi candido io o insieme con Bonino".

L'Armata Brancaleone "2.0". È andato avanti per due anni a dissertare sul centro, ad elogiare i valori liberali, a teorizzare il "correre da soli" per evitare di inquinare la propria identità. Poi Carlo Calenda ha lanciato il contrordine compagni. Augusto Minzolini il 26 Luglio 2022 su Il Giornale. 

È andato avanti per due anni a dissertare sul centro, ad elogiare i valori liberali, a teorizzare il «correre da soli» per evitare di inquinare la propria identità. Poi Carlo Calenda, a tre giorni dallo scioglimento delle Camere, ha lanciato il contrordine compagni - l'espressione più calzante visto l'epilogo - e si è messo a trattare con Enrico Letta per mettere in piedi un'alleanza che mischia il suo Fronte Repubblicano, con tanto di fuoriusciti di Forza Italia come Gelmini e Brunetta, con il campo più o meno largo del segretario del Pd. Un mezzo guazzabuglio in cui finirà un po' di tutto, da post comunisti come Roberto Speranza, ultima appendice di Massimo D'Alema, a ex grillini come Giggino Di Maio, orfano di Beppe Grillo. Forse non mancheranno neppure un comunista doc come Fratoianni e un ambientalista in trincea come Bonelli. Una compagnia di giro che, vista la coerenza, se ci fosse bisogno sarebbe pronta ad allearsi all'indomani del voto con il trio lescano: Conte, Travaglio e il Dibba. In fondo Letta fino all'ultimo ha tentato di assicurare l'appoggio esterno dei pasdaran grillini al dimissionario governo di Mario Draghi.

Insomma, siamo alle solite, sta andando in scena un'altra (grande) presa in giro. Alla maniera di sempre: una chiamata alle armi ideologica, che ritira fuori l'armamentario tradizionale della sinistra (dai rischi per la democrazia, al pericolo populista, all'allarme sul fascismo) per coprire le contraddizioni di uno schieramento variegato in cui c'è tutto e il suo contrario, senza identità. Siamo alla riedizione della gioiosa macchina da guerra edizione «2.0», visto che sono trascorsi trent'anni dalla prima. O sarebbe più preciso parlare di una nuova armata Brancaleone con Letta nei panni del «Branca» e Calenda in quelli di Thorz, il guerriero teutonico con il pentolame addosso interpretato da Paolo Villaggio. Già, perché almeno la «macchina» di Occhetto aveva un marchio di sinistra, mentre quella di Letta è una macedonia in cui i sapori si confondono al punto da diventare stantia. L'unico accorgimento è il riferimento all'«agenda Draghi», cioè il programma di un governo di unità nazionale, individuato sulla base di un minimo comun denominatore per forze diverse che non per nulla mantiene un'impronta generica sulle tematiche che possono dividere, dalla sicurezza all'immigrazione. Insomma, il programma di un esecutivo istituzionale, non di una coalizione politica.

Ma a parte Letta - che nel disegnare un campo largo, uno stretto e uno medio deve aver perso la testa - e Renzi, le cui intenzioni com'è nel personaggio sono tutte da verificare, la vera delusione è Calenda. Il leader di Azione è andato avanti per mesi a far proclami ai quattro venti per presentarsi come il campione del riformismo, del liberalismo, della modernizzazione e ora scende (sempre che non cambi idea) a miti consigli per assicurarsi quattro poltrone. Non osa per inaugurare una nuova stagione, ma ripete la parabola di quegli uomini nuovi che finiscono per impantanarsi in costumi, liturgie e atteggiamenti stravecchi. La ragione? Manca di gusto per il rischio e il coraggio se uno non ce l'ha mica se lo può dare. Manzoni docet.

Adriana Logroscino per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2022.  

«L'unica formula è quella di una coalizione larga ma senza Cinquestelle, come in Campania e in Puglia. E soprattutto niente ossessioni: rendono Meloni una martire.

Il Pd non pensi di fare le liste dividendo i posti tra le correnti o ha già perso. Coinvolga i sindaci. Enrico Letta tiri fuori il carattere o molto presto sarà un altro ex segretario del Pd».

Clemente Mastella, oggi sindaco di Benevento, a lungo in Parlamento, ministro nei governi di Berlusconi, di D'Alema e di Prodi, nelle campagne elettorali si esalta. Non si candiderà, resta a fare il sindaco, ma ha appena presentato il nuovo simbolo di «Noi di centro». 

Anche questa campagna elettorale breve, che nasce da una caduta traumatica del governo, si gioca al centro?

«Come sempre. E il centrosinistra può vincere a patto di non porre veti ma nello stesso tempo fissare un perimetro. Il Pd ha l'autorevolezza per tracciarlo».

I sondaggi, però, danno il centrodestra in vantaggio.

«Il centrodestra ormai è più una destra. Il partito di Berlusconi prende la metà dei voti di Salvini e un terzo di quelli di Meloni. Peraltro al Nord, dove di più è stata sofferta la caduta del governo Draghi, industriali, commercianti, piccoli imprenditori che votavano Lega ora sono molto arrabbiati. Si asterranno. Con un progetto di solidarietà nazionale, il centrosinistra se la gioca». 

E lei è pronto.

«Noi rappresentiamo una realtà territoriale importante. Ho commissionato qualche sondaggio: in Campania, Noi di centro può raccogliere il 9%, in Puglia il 5, in Basilicata il 4, in Molise il 5. L'identità democristiana e parademocristiana è forte. Siamo un punto di riferimento solido. Possiamo attirare consensi sul centrosinistra».

Che dice degli altri centristi? Di Calenda?

«A Benevento ho vinto contro il candidato di sinistra e contro quello di destra. Sono per un'alleanza larga ma il mio simbolo può vincere anche da solo, al Senato. In Campania prendo certamente più voti di Di Maio e forse di quel che resta del M5S. Non so se Calenda possa avere le stesse aspettative». 

Anche lui sembra disposto ad andare al voto da solo.

«Vedremo dove arriva da solo con la sua idea di sfidare il Pd nel collegio di Roma 1. Stimo Calenda, ma dovrebbe essere più umile».

Lei è stato ministro di un governo di centrodestra: vuole dare un suggerimento alla possibile leader dello schieramento, Giorgia Meloni?

«Giorgia, non ti illudere, non succederà: Salvini e Berlusconi ti fregheranno comunque».

Dagospia il 2 agosto 2022. Dalla pagina facebook di Azione

Luca Steffenoni

E anche questa alternativa ce la siamo giocata, che tristezza. 

Alessandro Dumini

Vorrei sapere come si concilia questo accordo con la proposta di Letta di un “bonus” (mancia elettorale) di 10.000 euro da elargire a i giovani finanziato attraverso un aumento delle tasse di successione. Gradita una risposta 

Warner Vitali

Delusione totale. Eri l’unico a cui avrei dato il mio voto. Bene, domenica libera !!

Guglielmo Maria Pepoli

Poteva nascere qualcosa di nuovo in questo Paese. Sarà per la prossima. Mi spiace molto per gli ex forzisti che non potranno candidarsi negli uninominali, equiparati a tutta la marmaglia ex grillina. È andata così. 

Simona Fanelli

Mai qualcosa di nuovo, ma sempre d'antico, l'usato sicuro, si poteva sperare in una botta di coraggio e invece anche stavolta niente da fare, addio alla rinnovata voglia di votare 

Emilia Marcacci

Alla faccia di tutto quello che avevi detto Carlè.. 

Marco Garbarino

Arrivederci! Un iscritto e un voto di meno ...buona fortuna! 

Patrizia Malaspina

Da iscritta ad Azione,sono molto delusa.Sono stanca di votare tappandomi il naso.Dopo 30 anni non voglio più farlo e non lo farò 

Lorenzo Ranfino

In coalizione con Di Maio, Speranza, Fratoianni ecc ecc...Ero convinto di votarvi. Addio. Siete stati una delusione 

Carlo Attardi

Bla bla bla calenda ci alla fine tu sarai alleato con di maio ????? 

Alessandro Bergamo

Bene. Il 25 settembre mi reputo libero da impegni. Stavolta ero davvero sicuro di aver trovato davvero una proposta politica condivisibile e interessante, ma mi sbagliavo, ahimè.

Il mio voto nella stessa accozzaglia di Fratoianni e Bonelli, Giggino e … Altro... 

Gianluca Conti - Azione

Sono infinitamente e profondamente deluso e demotivato. Ci credevo. 

Giuseppe Tedesco

Che delusione! 

Enzo Napolitano

No caro Calenda oggi hai perso te e tutti quelli che speravano in un polo moderato e innovatore. 

Giuseppe Scanu

Calenda alla fine,ma non avevamo dubbi,entrerà in parlamento con Di iMaio e Fratoianni..dategli il premio Giachetti!! 

Stefano Borgioli

Allora siamo in squadra con Fratoianni. Ottimo. Prenoto il fine settimana al mare per il 25 settembre. 

Paola Manica

Che vergogna! Stampella del PD!

Antonio Amato

Alleluja. La montagna ha partorito un topolino. Esaú, al confronto di Calenda, era un dilettante. W l'ammucchiata 

Giovanni Colella

A differenza di tanti che già si stracciano le vesti, attendo che Calenda ci spieghi bene il contenuto dell'accordo (tanto c'è sempre "un puro più puro che ti epura", cit.) 

Christian La Monaca

Hai fatto la cazzata Calenda 

Stefania Gander

Che tristezza.

Sebastian Rambelli

Siete. Purtroppo solo voi.

I territori chiedevano il coraggio di andare da soli per costruire la vera casa dei liberali e progressisti. 

Paolo Gilardi

Poteva nascere qualcosa di interessante al Centro e invece avete buttata tutto alle ortiche 

Nico Cutrì

Invece io non sono soddisfatto, avete perso il mio voto, non andrò direttamente a votare.

Io non sono socialista ma diciamo un liberale di sinistra, non mi piace il PD e alleandovi con uno come Letta, che ha esordito nella campagna elettorale parland… Altro...

Tiziano Bracci

Una delusione…ed ero anche intenzionato a votarvi. Altro che terzo polo!

Francesco Rossano

Ora metteci pure di maio e qualche altro cialtrone simile e siamo a posto! 

Giuseppe Siotto

E niente volevo darvi il voto e subito lo avete perso ... coalizione col PD pura vergogna 

Francesco Rodella

Come fate a costruire una proposta reale se i vostri programmi politici sono completamente diversi? Altro che alternativa concreta, avete solo dimostrato di essere una accozzaglia basata sull'incoerenza e sulla disonestà intellettuale.

Giovanni Uccello

Grazie Calenda di avermi tolto l'ultimo dubbio...il 25/9 al mareeee 

Francesco de Sabato

Ecco fatto. Mo ci diranno meraviglie di questo suq. Ci presenteranno catenine, spezie, qualche piccolo tappeto, pantofole e kaftan spacciandoli per la soluzione miracolosa per il popolo italiano. Perché intendiamoci, loro mettono in prima linea gli ita… Altro... 

Lara Bonati

Incredibile. Piú europa e Calenda con il PD. Ciao ciao.

Guido Della Frera

Peccato ! Grande occasione persa .

Rileggerei post di calenda del 22 luglio a proposito di cartelli elettorali!!! 

Davide Pietrangelo

Mi sono perso la parte in cui per essere contro Putin bisogna per forza essere alleati con il PD 

Marco Boldrin

Che tristezza... Avete perso un voto 

Giuseppe Corapi

E con tutto il cuore vi dedico una bella risata! 

Paolo Nardella

Cari Azionisti con oggi muore il partito di Azione, da delegato nazionale all'assemblea chiederò la convocazione di una assise per vedere se è confermata la fiducia nel segretario. A breve pubblicherò dei video con la verità, purtroppo evidente, di que… Altro... 

Biagio Parmaliana

Che delusione - io so cosa sia il PD specie in Sicilia - mi ero tesserato ieri se avessi saputo non l'avrei mai fatto 

Nando Paragliola

Che senso ha presentarsi come un partito riformista se poi vi coalizzate con un partito che prova a riformare questo paese da 15 anni stando al governo! Caro Carlo Calenda hai perso un’opportunità di crescita! Spero vivamente che Matteo Renzi faccia la… Altro...

Tommaso Balderi

Quando Carlo Calenda si renderà conto che con questa "lungimirante mossa" perderà più voti di quanti ne troverà...sarà comunque troppo tardi 

Michele Bocchini

Potevate prendervi una grande fetta di astensionisti, ma dopo questo accordo la grande fetta di astensionisti rimarranno tali! Mai col Pd!

Dagonews il 2 agosto 2022.

In merito all'alleanza tra Letta e Calenda, il segretario nazionale di Noi Di Centro, Clemente Mastella, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Dal millepiedi al bipide, dall'alleanza arcobaleno a quella giallorossa, con queste premesse credo sia difficile e complicato aspirare al governo del Paese. Mai visto nella mia esperienza che i leader anziché misurarsi anche nel territorio vanno tranquillamente nei posti di capilista al proporzionale.

Ho davanti agli occhi nella mia Campania un grande leader scomparso da poco, Ciriaco De Mita, che subì l'umiliazione di non essere candidato dalla sinistra e diede una lezione morale a tutti, candidandosi in autonomia e vincendo nel maggioritario. Questi sono i leader veri di cui il Paese avrebbe bisogno. Anche perché nell'elezione uninominale dovrebbero rendersi conto della difficoltà della gente, dell'esasperazione che c'è in giro, di un autunno che si annuncia drammatico. Io guardo le cose da distante e con il mio manipolo andremo da soli, creando  qualche problemuccio in giro per l'Italia. 

Mi appare infine veramente incredibile come mai la semi-coalizione accetti Fratoianni, che ha sempre votato contro Draghi, e non Conte che ha votato una sola volta contro pur facendolo cadere in maniera improvvida".

Valentina Santarpia Per corriere.it il 2 agosto 2022.

Agenda Draghi, nessun leader di partito candidato nei collegi uninominali, spartizione precisa dei collegi tra i due blocchi e l’attribuzione di «grave responsabilità attribuita a chi ha fatto cadere il governo»: è questo in sintesi il succo dell’accordo faticosamente raggiunto durante l’incontro tra il segretario del Pd Enrico Letta, il leader di Azione Carlo Calenda e quello di Più Europa Benedetto Della Vedova. Un «patto» siglato «perché considerano un dovere costruire una proposta vincente di governo» fondata su alcuni punti chiave.

I collegi

La totalità dei candidati nei collegi uninominali della coalizione verrà quindi suddivisa tra Democratici e Progressisti e Azione/+Europa nella misura del 70% (Partito Democratico) e 30% (+Europa/Azione), scomputando dal totale dei collegi quelli che verranno attribuiti alle altre liste dell’alleanza elettorale. Questo rapporto verrà applicato alle diverse fasce di collegi che verranno identificati di comune intesa. Le parti si impegnano a chiedere che il tempo di parola attribuito alla coalizione nelle trasmissioni televisive sia ripartito nelle stesse percentuali applicate ai collegi. Ma il ruolo di «frontrunner» è definito: Enrico Letta per i democratici e progressisti, e Carlo Calenda per Azione/+Europa e liberali (qui la mappa dei collegi). 

Lo stop ai leader

Uno dei punti chiave dell’accordo è l’impegno a non candidare personalità che possano risultare divisive per i rispettivi elettorati nei collegi uninominali, per aumentare le possibilità di vittoria dell’alleanza. Conseguentemente, nei collegi uninominali «non saranno candidati i leader delle forze politiche che costituiranno l’alleanza, gli ex parlamentari del M5s (usciti nell’ultima legislatura), gli ex parlamentari di Forza Italia (usciti nell’ultima legislatura)». Questa era una delle richieste più insistenti di Calenda a Letta. Ed è un punto cruciale perché per la prima volta le regole del Rosatellum incrociano la riforma che riduce i deputati a 400 e i senatori a 200. Con la nuova legge elettorale sarà fondamentale per vincere avere i candidati migliori nell’uninominale.

Sì al salario minimo, ma va rivisto il reddito di cittadinanza

In ambito economico e sociale, viene ribadito l’impegno generico a «contrastare le disuguaglianze e i costi della crisi su salari e pensioni» ma convenendo di «realizzare il salario minimo nel quadro della direttiva UE e una riduzione consistente del “cuneo fiscale” a tutela in particolare dei lavoratori». Sul reddito di cittadinanza si interverrà invece nella direzione di «correggere lo strumento». Correzioni previste anche per il “Bonus 110%” in linea con gli intendimenti tracciati dal governo Draghi. 

Le riforme

Nell’accordo si parla anche di riforme, soprattutto di quelle da completare o modificare dopo quella che viene definita «l’interruzione traumatica del governo»: il primo obiettivo indicato è «realizzare integralmente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nel rispetto del cronoprogramma convenuto con l’Unione europea».

Ci si propone poi di « improntare le politiche di bilancio alla responsabilità e le politiche fiscali alla progressività, promuovendo al contempo una riforma del Patto di Stabilità e Crescita dell’Unione Europea che non segni un ritorno alla stagione dell’austerità». No all’aumento delle tasse, come si temeva, visto che l’alleanza si impone di «non aumentare il carico fiscale complessivo». Mentre viene considerata «assoluta priorità» l’approvazione delle leggi in materia di Diritti civili e Ius scholae. 

Le politiche energetiche

Per quanto riguarda le conseguenze del mutato scenario internazionali in ambito energetico, PD e Azione/+Europa si impegnano a mettere in campo «le politiche pubbliche più idonee per garantire l’autonomia del Paese attraverso un’intensificazione degli investimenti in energie rinnovabili, il rafforzamento della diversificazione degli approvvigionamenti per ridurre la dipendenza dal gas russo, la realizzazione di impianti di rigassificazione nel quadro di una strategia nazionale di transizione ecologica virtuosa e sostenibile». 

La politica estera

Viene ribadita, in linea con il governo Draghi, anche la linea atlantista della politica internazionale e dell’appoggio all’Ucraina contro il regime di Putin: «PD e Azione/+ Europa si impegnano a promuovere, nell’ambito della rispettiva autonomia programmatica, l’interesse nazionale nel quadro di un solido ancoraggio all’Europa e nel rispetto degli impegni internazionali dell’Italia e del sistema di alleanze così come venutosi a determinare a partire dal secondo dopoguerra. In questa cornice le parti riconoscono l’importanza di proseguire nelle linee guida di politica estera e di difesa del governo Draghi con riferimento in particolare alla crisi ucraina e al contrasto al regime di Putin».

Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 2 agosto 2022.

Luigi Di Maio candidato nel Pd. A nemmeno 24 ore dal lancio del suo nuovo cartello "Impegno Civico", in asse con Bruno Tabacci, il ministro degli Esteri viaggia veloce verso una candidatura inattesa, sotto le insegne dem (lontanissimi i tempi in cui lo chiamava il partito di Bibbiano). L'offerta è stata appena formulata da Enrico Letta: il Partito democratico, fanno sapere dal Nazareno, "nelle prossime liste elettorali offrirà diritto di tribuna in Parlamento ai leader dei diversi partiti e movimenti politici del centrosinistra che entreranno a far parte dell’alleanza elettorale". A cominciare dall'ex capo politico del M5S. 

La mossa dei democratici arriva dopo l'accordo con Carlo Calenda e i radicali di +Europa. Nel testo dell'intesa elettorale appena siglata, c'è scritto che nei collegi uninominali non saranno candidati politici considerati divisivi. Quindi "i leader delle forze politiche che costituiranno l’alleanza, gli ex parlamentari del M5S (usciti nell’ultima legislatura), gli ex parlamentari di Forza Italia (usciti nell’ultima legislatura)". Per Di Maio sarebbe stato game over. Il partito appena lanciato, con appena 50 giorni di campagna elettorale, difficilmente riuscirà a raggiungere il 3%, soglia minima per ottenere seggi nel prossimo Parlamento. L'unica via era puntare tutto su qualche collegio uninominale, per Di Maio e forse per un paio di fedelissimi. Ipotesi archiviata dal patto Letta-Calenda. 

Ecco allora l'exit strategy, l'offerta del Pd: candidare nelle proprie liste, sotto l'insegna Democratici e Progressisti, i leader delle formazioni minori che faranno parte dell'alleanza. Potrebbero essere indicati in posizioni eleggibili, nella quota proporzionale. Con un filo d'imbarazzo forse, dati i trascorsi tra Di Maio e i dem, ma gli incastri del Rosatellum e le condizioni di Calenda non lasciano aperte altre strade.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 2 agosto 2022.

Chi vuole si metta dunque in mezzo. Non si dirà al centro perché la geometrica definizione, oltre che politicamente abusata, pare velleitaria, ambigua e fuorviante nelle sue varie destinazioni, "centrino", "centricchio", "centriculo" e così via. 

Per quanto generico e arronzato, "in mezzo" suona paradossalmente più esatto. In ogni caso auguri, di posto ce n'è fin troppo trattandosi di uno spazio al tempo stesso immaginario e affollatissimo. 

C'è Calenda, di cui s' è pure letto che sarebbe un trotzkista moderato; c'è Renzi che ha già proposto un "Polo del buonsenso"; ci sono le due ministre fuoriuscite dal berlusconismo, Carfagna e Gelmini e magari Brunetta, se e quando avrà deciso; c'è poi, a prescindere dalla ragnatela di reciproci plagi e incompatibilità, l'ape seconda di Di Maio & Tabacci (la prima fu di Rutelli, Alleanza per l'Italia, 2009); e Pizzarotti, e Quagliariello, e Pierfurby Casini; e solo in Lombardia Sala e forse Moratti e con qualche slancio anche Bertolaso, per cui alla fine mancherebbe solo Formigoni, ma se lo chiamano viene pure lui.

Dinanzi a tale brulichio si ha scrupolo a richiamare la nobile, archeologica nozione di Terzo Polo, o meglio ancora di Terza Forza: il sogno di dar vita nel secondo dopoguerra a un'area intermedia che a nome di un elettorato laico riuscisse a tener testa alle due chiese ideologiche, Dc e Pci, che prosperavano nel bipolarismo imperfetto (vedi "Storia dei laici nell'Italia clericale e comunista" di Massimo Teodori, Marsilio, 2008). 

Obiettivo generoso su cui si concentrarono l'ex azionista poi repubblicano Ugo La Malfa e l'ex socialista e fondatore del Psdi Giuseppe Saragat; una corrente culturale che da Valiani a Garosci, passando per il Mondo di Pannunzio e i liberali di sinistra divenuti radicali e in seguito pannelliani, finì per collezionare una tale improvvida sequela di occasioni mancate da rivelarsi tristemente minoritaria. Roba antica e tuttavia, rispetto alle miserie dell'oggi, più che rispettabile. Come lo furono dopo tutto l'illusione lib-lab e il miraggio di un'area a guida Craxi che nel corso degli anni '80 schiavardasse gli instabili assetti consociativi del dopo- Moro e del dopo-Berlinguer. Invano.

E non per celebrare la nostalgia, eppure c'era ancora una classe politica che non andava in cerca di spazi per farne parcheggi, garage, uffici di collocamento o pollai ad alto tasso di galli canterini per cui non si fa mai giorno. Così l'ultimo ricordo, tanto dignitoso quanto autolesionista, di Terzo Polo resta, all'indomani dell'ignominioso big bang della Prima Repubblica, il cartello elettorale che Mino Martinazzoli e Mariotto Segni costituirono in extremis nel 1994 cercando invano di contrastare l'immane pressione del berlusconismo da una parte e la gioiosa presunta macchina da guerra dei progressisti dall'altra. 

Tutto questo per dire, se non altro, la jella che da sempre perseguita questo tipo di ridislocazioni, anche ieri non del tutto immuni da opportunismo e trasformismo, ma oggi marchiate anche da bizantinismo elettoralistico, narcisismo leaderistico e sostanziale, inconfessabile volontà di non scegliere riservandosi, dopo il voto, la propria ipotetica utilità marginale facendo pendere l'ago della bilancia a destra o a sinistra.

Di qui - e nonostante ogni buona intenzione tocca arrivarci - si ripropone fino alla nausea la chimera del centro, luogo vuoto quant' altri mai, frutto dell'inconsistenza e dello spappolamento delle culture politiche, oltre che della incapacità di generare qualcosa di nuovo e vitale. Di qui, anche, gli sforzi di quanti - anime perse, fritto misto, scappati di casa, legione straniera - si agitano come tarantolati ora "aspettando Godot", come da prezioso riferimento dell'onorevole Lupi, ora inseguendo l'esempio di Mastella che due mesi orsono si è portato avanti e ha battezzato il suo partitino "Noi di centro" facendo risuonare in sala la colonna sonora battiatiana: "Cerco un centro di gravità permanente".

Al sindaco di Benevento va senz' altro riconosciuto il più sincero, istruttivo e a suo modo raffinato ragionamento meta-centroide di chi si mette in mezzo quando ha annunciato: «Siamo già forti al Sud e pronti a rompere le uova nel paniere. Ma siamo interessati anche alla frittata».

Estratto dell’articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 5 agosto 2022.

Clemente Mastella […] quanto le piace questo gran ritorno della politica del bilancino e dei posti in lista dati, promessi e mancati?

«Il bilancino è un magnifico strumento della politica. Basta però saperlo usare». 

[…] «I leader di centrosinistra […] non sanno come si mette in piedi una coalizione. Prendessero esempio da Berlusconi e da Prodi, loro ci sapevano fare perché generosi quindi lungimiranti». 

[…] Sta dicendo che Letta non dovrebbe essere generoso solo con Calenda, sennò Fratoianni lo saluta e se ne va?

«Tutti devono essere più generosi con tutti, perché non sa fa politica guardando soltanto il proprio ombelico. Ognuno dice: il mio programma qui, il mio programma lì... […] Ma quale tuo programma! Il programma […] dev' essere […] comune». 

«Se uno ha lo 0,5 per cento, ma in un collegio è determinante, quello 0,5 è un tesoro inestimabile per una coalizione. La concentrazione in alcune regioni […] di una percentuale dello zero virgola pesa molto più di un 2 per cento spalmato sull'intero territorio nazionale».

[…] Insomma il Cencelli va usato o no?

«Certo che sì […] però, c'è l'equilibrio e la saggezza del maggior partito della coalizione di venire incontro alle esigenze dei partiti più piccoli. Penso a quanto si comportò bene l'Ulivo prodiano con me nel 2006. Ma facendo giustamente anche i propri interessi. E' stata l'ultima volta in cui il centrosinistra ha vinto […]». 

La «pari dignità» invocata da tutti in queste ore quindi è una formula giusta secondo lei?

«È un motto antico ma ora snaturato. Adesso significa uno vale uno, cioè s' è grillizzato questo motto. Ed è un errore, perché - per dirla alla Cuccia - le azioni dei vari partiti si pesano, non si contano». […] 

Non conviene farsi concedere un «diritto di tribuna»?

«Non ho nulla contro questa possibilità. Dico solo una cosa: ma le pare che Di Maio presenta in pompa magna una lista con il suo nome e un minuto dopo si fa candidare tra i sicuri eletti del Pd?».

Il Cappellaio Matto. Nel campo più o meno largo di Enrico Letta, già scoppiato prima di nascere, spicca, non ce ne voglia, la figura di Carlo Calenda. Augusto Minzolini il 6 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Nel campo più o meno largo di Enrico Letta, già scoppiato prima di nascere, spicca, non ce ne voglia, la figura di Carlo Calenda. In questa edizione «speciale» del Paese delle Meraviglie in cui succede di tutto, dove qualsiasi argomento è prezioso per una polemica in un caravanserraglio in cui alloggiano pseudo-liberali, radicali, cattolici, riformisti o supposti tali, verdi delle origini, post-comunisti e comunisti (ricorda il bar di guerre stellari), non si capisce il ruolo che il leader di Azione si è dato. Due giorni dopo l'accordo siglato con il segretario del Pd appare stupito come Alice per la presenza di Fratoianni e Bonelli. Addirittura incredulo di fronte alle loro asserzioni, come se non fosse a conoscenza di ciò che pensano da sempre, a quale elettorato si rivolgono e quale sia il loro retroterra culturale e programmatico. Che poi, in realtà, non è poi tanto diverso da quello di piddini o ex-piddini come Orlando, Speranza o Provenzano. Calenda, invece, parla come se fosse precipitato in questo strano Paese direttamente da un altro mondo: si mostra inconsapevole, perplesso, tentato dalla voglia di prendere il biglietto per il viaggio di ritorno.

Francamente la sorpresa di Calenda non convince. Il personaggio non è un novizio della politica, ha fatto il ministro, ha dialogato per tanto tempo con le strane creature che Letta desidera avere nel campo largo. Desideri - e di questo bisogna dargli atto - che il segretario del Pd non ha mai sottaciuto, né nascosto. Motivo per cui c'è da chiedersi se in realtà nel Paese del «campo largo» Calenda non interpreti il ruolo di Alice ma quello del Cappellaio Matto. E già, perché non c'è nessuna relazione - e coerenza - tra il Calenda che si presenta al Comune di Roma in alternativa sia alla destra sia alla sinistra, che la tira per mesi e mesi sull'idea di un terzo Polo, che poi fa l'accordo con Letta, ben conoscendo la geografia politica che persegue il suo alleato e che ora, come un marziano caduto sulla terra, lancia veti e scomuniche come se non avesse capito due giorni fa i contorni della coalizione in cui si è ficcato.

Sì, c'è un «nonsense» nel suo comportamento. C'è del «genio e sregolatezza» che sconfina nel masochismo verso se stesso o nel sadismo verso i suoi alleati e lo schieramento a cui ha aderito. Ma, soprattutto, fa a botte con quell'immagine di serietà e professionalità che il leader di Azione ha tentato di darsi. È difficile rivendicare tali requisiti, infatti, se non sai o non ti rendi conto degli alleati con cui ti accompagni. Se ti sposi con Letta e ti nascondi i parenti che il tuo nuovo coniuge si porta dietro. E, soprattutto, viste le incongruenze e le contraddizioni che il nostro Cappellaio Matto fa finta di scoprire oggi, appare sempre più evidente che nella trattativa con il Pd l'unico dato certo, che ha contato davvero, non è stato il programma ma quel trenta per cento di candidature per cui il leader di Azione ha barattato la scommessa di un anno fa. A questo punto solo le urne ci diranno se il Cappellaio del campo largo è matto davvero o no.

 Elezioni, il ritratto di Carlo Calenda: un tuttologo sceso in politica. Claudio Querques su Il Tempo il 7 agosto 2022.

Se hai un nonno lombardo-valdese che ha il tuo stesso nome, ambasciatore a Tripoli nel 1969, ministro plenipotenziario in Libia, e una madre che si chiama Cristina Comencini, che è figlia di Luigi, l’altro nonno regista, non hai molte scelte. O ti ritiri nella tua tenuta, fai magari l’agricoltore, metti l’etichetta sul miele e sui pomodori Bio o accetti la sfida. Carlo Calenda ha fatto clic sulla seconda opzione: ha raccolto l’eredità genetica e ne ha fatto nutrimento per il suo smisurato ego. «Mio nonno è stato un modello per me, uomo tosto, caratteraccio ma colto e con un grandissimo senso delle istituzioni», raccontò in un’intervista, descrivendo il suo avo e in fondo anche se stesso. Per capire qualcosa di Carlo jr bisogna dunque partire da qui. Dal suo culto degli «antenati». Dal timore di deluderli, non reggere il confronto con il padre del padre, dalle sue competizioni compulsive. Fin da piccolo. Eccolo allora, Carletto, 9 anni. 1981. I bambini che fanno cinema, e diventano piccole star spesso sono destinati a soffrire da grandi. Se il successo gli gira le spalle, se vengono messi da parte. Lee Aaker, l’attore-bambino di Rin Tin Tin, dopo aver lottato per liberarsi dalla dipendenza da alcol e droga, in preda a turbe psichiche e disturbi della personalità, morì indigente. Carlo no. Faceva la quarta elementare quando recitò con Eleonora Rossi Drago nello sceneggiato Cuore, romanzo strappalacrime di Edmondo De Amicis. Dietro la macchina da presa c’era nonno Luigi, il padre di sua madre e della Commedia all’italiana. L’altro nonno. Poi per lui più niente, neanche un Carosello. Il luminoso orizzonte era comunque segnato. Precoce in tutto, padre quando gli altri hanno i brufoli e sono ancora figli, a soli 16 anni. Il primo lavoro, il porta a porta per vendere polizze, la gavetta esibita con orgoglio. Sempre con quel cognome ingombrante, un peso per chiunque avesse desiderato una vita semplicemente normale. La maturità classica tra biberon e pannolini al liceo Mamiani. L’università a «La Sapienza», la laurea in Giurisprudenza con quella amnesia da smemorato sul voto («105 o 107?, non ricordo...»). Un cursus senza infamia e soprattutto senza la lode che t’aspetteresti dal nipote di cotanto nonno. L’anatomia del predestinato incompiuto sarebbe monca se non citassimo le «canne» che il giovane Carlo non disdegnava e non ha mai rinnegato. Uno spinello «ma solo ogni tanto per provare». L’allegra brigata degli amici di Roma nord, le frequentazioni parioline. Lo stage alla Ferrari, il rapporto desublimante con Luca Cordero di Montezemolo, («...continuo a dargli del lei»), l’esperienza in Confindustria, direttore degli Affari internazionali; il matrimonio con l’amatissima Violante Guidotti Bentivoglio e gli altri tre figli, tutti battezzati, compreso Giulio, marxista-leninista, («un piccolo comunista che adoro...»). Diciamolo: la tentazione di classificarlo tra i Capalbio-boys è forte. L’humus è quello, le partenze intelligenti, le biciclettate Chiarone-Macchiatonda. Ma Calenda è un’altra cosa. Tiene insieme i tratti della gauche caviar con i toni da guascone, il polically incorrect con il generone romano. È il profilo della destra che piace alla sinistra. Tutt’altro che un moderato, però. Se avesse voluto emulare il suo avo celebratissimo avrebbe continuato la strada diplomatica. Invece, al contrario di Enrico Bottini, il bimbetto di «Cuore», Carlo è partito dagli Appennini senza mai arrivare alle Ande. Il rapporto con Matteo Renzi è un capitolo a parte. Grandi amori. Litigi monumentali. L’anfitrione e il rivale si fondono. La nomina ad ambasciatore presso l’Unione europea a Bruxelles quando il toscano era premier fece infuriare tutti. Poi il lancio in politica. L’ex militante della Fgci, pizzaiolo alle feste dell’Unità, deluso senza partito e senza scranno che arriva da un binario morto (Italia Futura) in via Veneto: ministro allo Sviluppo economico. Carlo e Matteo, dicevamo. Prima amici, poi fratelli-coltelli. Costretti a convivere in una stessa bolla, due gocce di una stessa lacrima, aggrappati a quel che resta della scia di Mario Draghi pur pensandola all’opposto su tutto o quasi. Non è uomo da passioni fredde, Calenda. Vive di brevi ma intensi innamoramenti, sempre «en marche», come Macron, di cui è strenuo ammiratore. La tessera del Pd quando tutti la stracciano, le dimissioni quando gli altri la riprendono. E poiché solo chi ha avuto troppo si sente autorizzato a chiedere di più, eccolo tentare in solitario la scalata verso il Campidoglio. Sarebbe stato il suo trampolino per Palazzo Chigi. Risultato: Azione al primo turno è la lista più votata (19,3%), quasi ex aequo con la sindaca uscente Virginia Raggi. Tutt’e due fuori dal ballottaggio, però. Il resto è storia dei nostri giorni. Calenda europarlamentare che cannoneggia i grillini e i post grillini su Twitter, il bersaglio preferito. I selfie con la Bonino, incravattato, descamisados, strariparante contro tutti e contro nessuno. L’elogio del nucleare e dei termovalorizzatori, la rincorsa ai distinguo, i veti sul perimetro delle alleanze, la stretta di mano con Letta. Con il sospetto che in cuor suo anche lui abbia tramato "Enrico stai sereno".

Dalla caduta del governo Draghi alla rottura col Pd: le dichiarazioni del leader di Azione.  CorriereTv su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.

(LaPresse) Il 21 luglio cade il governo Draghi. Calenda su Twitter attacca i "populisti" che hanno segnato la fine dell'esecutivo: punta il dito contro il Movimento Cinque Stelle, la Lega e Forza Italia che hanno mandato a casa «l'Italiano più autorevole». Poco dopo, sempre su Twitter, inizia a indicare i punti fondamentali dell'agenda Draghi da cui ripartire. Qualche giorno dopo, il 25 luglio, a chi gli chiede di possibili aperture verso Di Maio risponde piccato: «Non so di cosa stia parlando». Una chiusura, quella verso il ministro degli Esteri, ribadita a forza di "cinguettii": «Nessuna intenzione di entrare in cartelli elettorali». Sempre il 25 luglio, Azione e Più Europa presentano il Manifesto del Fronte Repubblicano. Il 29 luglio, Calenda annuncia l’adesione ad Azione di Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. Nel frattempo l'ex titolare del Mise continua la sua interlocuzione con il Pd per dar vita ad un'alleanza che abbia due condizioni: no a nomi divisivi nei collegi uninominali e una base di programma condiviso. Il 2 agosto, dopo tensioni e "sportellate social", arriva la fumata bianca: Pd, Azione e +Europa siglano l'accordo che li vedrà insieme al voto. Calenda promette di dire basta a polemiche e discussioni per concentrarsi sulla campagna elettorale: «Siamo solidi, andiamo a vincere». Letta continua gli incontri con Verdi e Si e dopo giorni di trattative (e bordate social di Calenda) il 6 agosto arriva l'accordo con Bonelli e Fratoianni. Due giorni dopo, l'8 agosto, ospite di Lucia Annunziata, Calenda annuncia il ritiro dall'alleanza: «Non sono a mio agio» Letta registra l'addio e replica: «Andiamo avanti nell'interesse del Paese, l'unico alleato di Calenda è Calenda».

Valentina Santarpia per corriere.it il 7 agosto 2022.  

Un Calenda strepitosamente pensoso e silenzioso: così anticipa Lucia Annunziata il no di Calenda all’alleanza con il Pd di Letta e il cartello elettorale messo su negli ultimi giorni. «Una delle decisioni più sofferte prese da quando ho iniziato a fare politica- dice Calenda, spiegando la sua scelta con un lunghissimo preambolo durante la trasmissione Mezz’ora in più su Rai Tre.

Non sente un «minimo di coerenza valoriale» e questo lo ha spinto a non andare avanti con l’alleanza. «Ho deciso di fare politica dopo le elezioni quando il Pd aveva avuto la quota più bassa: mi sono iscritto a quel partito convinto che potesse essere l’unico argine contro il populismo di destra. L’ho lasciato poi perché lo Stato del Paese, così tragico, non solo per questioni economiche, ma anche di abbrutimento, e che in fondo per trent’anni ci avevano diviso in greggi, uno di destra e uno di sinistra, un grande rumore che nona Aveva prodotto nulla. 

Da questa servitù gli italiani non si riuscivano a staccare, questa legislatura ha visto tutto e il contrario di tutto, e poi nel fallimento più assoluto, due punti di rottura: l’incapacità di trovare un nome diverso da Mattarella per la presidente della Repubblica e l’ignominia della caduta di Draghi. 

Alla viglia di questa caduta ho intrapreso una trattativa col Pd: penso che l’Italia ha bisogno di un grande partito socialdemocratico, popolare, ho fatto un negoziato con Letta evndo in testa quest’idea, cerchiamo di trovare un’alternativa, abbiamo avuto tanti incarichi di governo, abbiamo la credibilità, finalmente- nell’evento della caduta di Draghi- dimostriamo che c’è un’altra Italia. Man mano che questa negoziazione andava avanti entravano elementi che stonavano: lo spartiacque era non stare con chi aveva provocato la caduta di Draghi. Oggi mi trovo a fianco che hanno votato 54 volte la sfiducia a Draghi più dei 5 Stelle e dall’altro gli ex 5 Stelle che hanno demolito il lavoro fatto al Mise. E allora mi sono un po’ perso, due giorni fa sono andato da Enrico e gli ho detto: tutti questi meccanismi per cui recuperiamo Di Maio, Tabacci, Manlio Di Stefano, gli italiani non la capiranno. Gl i ho detto: rinuncio ai collegi, mi tengo solo il 10%, facciamo solo un’alleanza con me. E’ come se la sinistra avesse paura di non rappresentare la sinistra. Non mi sento a mio agio con questo, non c’è dentro coraggio, bellezza, serietà, onore a fare politica così. Pertanto ho comunicato ai vertici del Pd che non intendo andare avanti con questa alleanza. Non intendo perché credo sia contrario a tutto quello che ho promesso. Ci ho creduto ma così non so cosa spiegare, a Enrico ho detto: perché hai detto di no ai 5 Stelle e dici sì a partiti che hanno votato 56 volte la sfiducia a Draghi e hanno un terzo dei loro consensi? Le reazioni? Franceschini «dispiaciuto»; Letta «sapeva». 

- +Europa ribadisce il sostegno al patto con il Pd e Azione. Apprezzamenti dal Nazareno

Il Partito Democratico esprime forte apprezzamento per la nota diramata poco fa dalla Segreteria di +Europa, che ribadisce il proprio sostegno al Patto sottoscritto martedì scorso tra lo stesso Pd e la Federazione +Europa/Azione. 

«La Segreteria di +Europa ribadisce il forte apprezzamento per il patto sottoscritto martedì scorso dalla Federazione +Europa/Azione con il Partito Democratico». E' quanto si legge in una nota. In particolare, viene sottolineato, «la Segreteria apprezza le parole usate ieri dal Segretario del PD Enrico Letta, che ha ribadito come il patto tra PD e Federazione +Europa/Azione sia un accordo di governo fondato sull'agenda Draghi e sulla collocazione europea e atlantica del nostro Paese, mentre gli accordi con altre liste siano accordi elettorali, finalizzati a non consegnare la vittoria a tavolino dell'alleanza guidata da Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Enrico Letta inoltre ha escluso qualsiasi tentazione di riapertura al M5S di Conte». «Se dovessero emergere nuovi elementi di valutazione sul patto, la Direzione di +Europa si riunirà per discuterne e assumere decisioni», conclude la nota del partito.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio e Giovanna Vitale per “la Repubblica” l'8 agosto 2022.

«Non posso stare in compagnia di questi qui. Non ci sto». Ieri, di buon mattino, Carlo Calenda segnala alle persone a lui più vicine la prima pagina di Repubblica sulla quale campeggiano le foto dei leader del centrosinistra: Letta, Bonino, Calenda, Di Maio, Bonelli, Fratoianni. Ed è il fatto di ritrovarsi in compagnia di questi ultimi tre che gli fa saltare la mosca al naso. 

«Non posso immaginare di salire su un palco con loro», dice a un amico. Però già sabato pomeriggio - dopo la conferenza stampa di Enrico Letta con Bonelli e Fratoianni - aveva deciso di rompere il patto siglato appena martedì scorso col segretario del Pd. Lo aveva indispettito che il leader democratico si fosse presentato al Nazareno con i due capi dei piccoli partiti di sinistra. Quell'immagine - veicolata su tutti i media avrebbe finito per fargli perdere importanza e centralità. Era la conferma di essere finito in quella che chiama «l'ammucchiata». 

Cinque giorni dopo averlo solennemente firmato, Calenda straccia l'accordo che lo legava al centrosinistra, con una formula generosa: 70 per cento dei collegi al Pd, 30 al suo piccolo partito, Azione. Farà il Terzo Polo. Forse con Renzi. Un voltafaccia così repentino ha pochi eguali nella storia politica del Paese. E colpisce anche perché, nel frattempo, non c'è stata alcuna violazione dell'accordo. Semplicemente Calenda ha cambiato idea. Vuole ballare da solo. [...]

Sabato sera Calenda ha informato Letta che avrebbe rotto. Nel presentare Bonelli e Fratoianni, Letta aveva specificato che quello con Calenda era «un patto di governo», e quello con la sinistra «un accordo elettorale». 

La distinzione, invece che rassicurarlo, lo aveva indispettito. «Siamo alleati per cazzeggiare », aveva commentato sarcastico con i suoi. «Chissà cosa dirà Letta quando presenterà Di Maio e Tabacci: "Siamo alleati per andare in discoteca insieme"». Ieri mattina nel piccolo mondo romano era chiaro a tutti che in tv Calenda avrebbe annunciato la rottura. […]

“Famo a capisse”. Che cos’è successo tra Letta e Calenda: Riccardo Magi fa chiarezza sullo stappo Pd-Azione. Antonio Lamorte il riformista l'8 Agosto 2022 

L’accordo tra Partito Democratico e Azione è stato l’accordo più breve nella storia della politica italiana: un flirt estivo in pratica, durato neanche una settimana. Enrico Letta e Carlo Calenda solo martedì scorso avevano annunciato l’intesa all’interno della coalizione di centrosinistra per le elezioni politiche del prossimo 25 settembre. Calenda ieri ha annunciato lo strappo, in diretta alla trasmissione Mezz’ora in più di Lucia Annunziata su Rai3.

A fare chiarezza sulla vicenda è Riccardo Magi, deputato della Repubblica di +Europa, il cartello nel quale Calenda si era unito per correre alle elezioni. E con il quale ormai il rapporto sembra compromesso – l’ex ministra Emma Bonino ha annunciato che resterà con Letta. Calenda ha attribuito la rottura all’inclusione nell’alleanza di Sinistra Italia ed Europa Verde, oltre a Impegno Civico di Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.

L’ex ministro ha parlato di “ammucchiata”, di distanze incolmabili sull’agenda Draghi, termovalorizzatori e rigassificatori, posizionamento atlantico e revisione del reddito di cittadinanza con i partiti a sinistra del Pd. La rottura, prima di andare in onda, era stata anticipata da Calenda al ministro della Cultura dem Dario Franceschini e a +Europa. “È evidente che ha avuto un ripensamento. Lo rispetto. Ma non può dire che non sapeva”, ha detto a Il Corriere della Sera il segretario nazionale di +Europa Benedetto della Vedova sull’accordo tra Pd e Si-Ev.

IL POST DI RICCARDO MAGI

A Roma si dice “famo a capisse” (significa intendiamoci)

1. Carlo Calenda scrive una bozza di accordo con il PD in cui pone a Letta tutte le condizioni tanto di Azione quanto di +Europa.

2. Enrico Letta accetta TUTTE quelle condizioni (tra cui il fatto che Fratoianni, Bonelli e Di Maio – che tutti sapevano sarebbero stati nella coalizione – non fossero candidati nei collegi uninominali).

3. Calenda, +Europa e il PD firmano un patto davanti alle telecamere.

4. Letta, come concordato nel patto, sigla un accordo elettorale con altri partiti ma ribadisce che l’accordo programmatico e di Governo è quello con noi.

5. Calenda attacca Renzi per la sua idea di andare solo, dice che così favorirà solo la destra.

6. Passano solo 4 giorni e Calenda cambia idea.

7. Chiediamo a Calenda un incontro e ci dice che è inutile. Gli chiediamo di fare una riunione congiunta delle segreterie di +Europa/Azione per decidere tutti assieme. Ci dice di no.

8. Calenda dice di lasciare il patto con il PD in diretta tv su Raitre.

9. Mentre noi convochiamo una direzione di +Europa per prendere una decisione lui avvisa i suoi che il patto di Federazione con +Europa è saltato (peccato scoprirlo cosi).

10. Non so se domani Calenda cambierà di nuovo idea.

Un commento? Se la parola non ha valore la politica non ha valore. È una citazione di Carlo Calenda.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2022.  

Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, e adesso che succede?

«Noi martedì abbiamo sottoscritto un patto elettorale e di governo con Enrico Letta per proseguire le politiche di Draghi. E vogliamo rispettarlo».

E Carlo Calenda? È federato con voi, ma quel patto lo ha rotto.

«Sono stupito». 

Perché? Calenda, tra le altre cose, ha detto che non vuole stare in una coalizione con chi non ha votato la fiducia al governo Draghi.

«Doveva dirlo prima». 

In che senso?

«Che era tutto chiaro, dall'inizio alla fine». 

Si spieghi meglio.

«Le presenze di Bonelli, Fratoianni e anche del movimento di Di Maio erano già previste al momento della firma del patto siglato anche da Calenda. Ed erano note dal primo all'ultimo incontro che abbiamo avuto con Letta». 

Dunque Calenda sapeva?

«Assolutamente sì. Tutti gli aspetti erano chiarissimi e non ci sono state sorprese e novità dell'ultima ora». 

E allora che cosa è successo a Calenda?

«Non lo so». 

Non immagina qualcosa?

«È evidente che ha avuto un ripensamento. Lo rispetto. Ma non può dire che non sapeva». 

Ha provato a convincerlo di non fare lo strappo?

«Fino all'ultimo».

 Calenda ha cercato di far rompere il patto anche a voi?

«Si, ha cercato di convincerci che bisognasse fare la sua stessa scelta. Ma per noi non è praticabile. La politica seria vuol dire che prendi una decisione e poi la porti avanti.

Comunque decideremo stasera nella nostra direzione». 

Pensa che qualche sondaggio abbia influenzato Calenda?

«Noi i sondaggi non li abbiamo visti. Ma al di là di questi c'è un punto importante delle tecnicalità elettorali che finisce per essere un punto politico decisivo: una presentazione autonoma è un regalo a Salvini e Meloni perché la legge elettorale è implacabile in questo senso». 

Ma come si è arrivati all'intesa di Azione e +Europa con il Pd?

«Comincio dal principio». 

E cioè?

«Da quando noi di +Europa e Carlo Calenda, subito dopo la caduta del governo Draghi, abbiamo discusso due ipotesi per le elezioni». 

Quali?

«La prima era che ci presentassimo come terzo polo liberal democratico, ovvero correre da soli. E la seconda era quella di fare un accordo con Letta che, come noi, ha sostenuto Draghi dal primo giorno fino all'ultimo. E siccome era un fatto rilevante abbiamo discusso per un po'». 

Ed avete deciso di andare con il Pd di Letta.

«Certo, non volevamo fare un regalo alla destra». 

Quindi cosa avete fatto?

«Ci siamo presentati da Letta con una nostra proposta ideata da Calenda: è stata la rielaborazione consensuale di quel documento la base del nostro patto. Dentro c'era tutto quello che chiedevamo». 

Ovvero?

«I rigassificatori, il Pnrr, la revisione del reddito di cittadinanza, una politica di bilancio improntata alla responsabilità. Il fatto che la campagna elettorale avrebbe avuto due front runner, Letta e Calenda. Poi abbiamo chiarito che non un voto di +Europa e Azione doveva andare a chi non aveva votato la fiducia a Draghi. Per questo abbiamo chiesto che nessuno dei leader della coalizione si doveva candidare nei collegi uninominali». 

E così è stato. Dopo che è successo ancora?

«Venerdì abbiamo avuto l'incontro con Letta e abbiamo ribadito che doveva essere chiara l'asimmetria che c'era tra noi e le alleanze che stava facendo. Cosa che Letta ha sottolineato con grande chiarezza».

E alla fine?

«Avremmo potuto essere i protagonisti liberal democratici di questa sfida elettorale senza fare favori a Salvini e a Meloni che purtroppo oggi festeggeranno. Ora vediamo cosa accadrà». 

Maria Pia Mazza per open.online l'8 agosto 2022.

Emma Bonino è «incredula» per la decisione di Carlo Calenda di strappare l’accordo politico con il Partito Democratico e la coalizione di centrosinistra in vista delle elezioni del 25 settembre. La senatrice di +Europa, ospite di Marianna Aprile e Luca Telese a In Onda, ha commentato la scelta del leader di Azione: «La serietà è tenere fede alla parola data». 

Bonino ha tentato di ricostruire quanto accaduto negli ultimi giorni: «Quattro giorni fa, quattro non quaranta, il Partito Democratico, Calenda, +Europa siglano un accordo politico. Peraltro, per ironia della sorte la bozza è scritta da Calenda: benissimo, bravi tutti, applausi».

E però, prosegue Bonino «dal giovedì comincio a sentire rumori su Calenda che “Non regge i suoi”, e arriviamo a ieri con il segretario del mio partito, Benedetto Della Vedova, che ha la pazienza di un santo, che ancora prova a parlare con Calenda, che però dice: “È inutile che ci vediamo, è una perdita di tempo”». 

La senatrice di +Europa prosegue: «Stamattina (7 agosto) da Benedetto Della Vedova, in qualità di segretario di partito, apprendiamo che Calenda ci ha detto che la cosa è chiusa, amen e arrivederci».

Alla domanda dei due giornalisti se si sia trattato di uno strappo legato a un incidente di percorso, Emma Bonino ha replicato: «Non lo so, io avevo molta fiducia, credo non sia serio cambiare opinione ogni tre giorni, specialmente da una forza politica che si candida a partecipare al governo di un Paese: io su questa strada non lo posso seguire». I vertici di +Europa non intendono cestinare il patto stretto con i dem. Di conseguenza, verrà meno il sodalizio tra Azione e +Europa. 

La decisione verrà comunque discussa domani durante la direzione di partito, durante la quale «parleremo – spiega Bonino -, ma a oggi la situazione è che Calenda ha chiuso e sbattuto la porta in faccia». 

E le parole della senatrice non sembrano lasciare spazio a possibili ricuciture con il leader di Azione, che viene anzi pizzicato sulla questione del simbolo e della raccolta firme che dovrà raccogliere per poter partecipare alle elezioni. 

Una strada da percorre a meno che Calenda non entri in coalizione con Matteo Renzi, creando così il Terzo polo, e risparmiandosi anche la raccolta delle firme. Ma Bonino, su questo aspetto, conclude tranchant: «Non so se devono raccogliere le firme, spero si siano informati loro».

Giovanna Casadio per repubblica.it l'8 agosto 2022.  

"C'è stato un patto con Enrico Letta che è stato siglato il 2 agosto di quest'anno, non del Medioevo, e io a quello mi attengo". Emma Bonino, storica radicale e leader di +Europa, non rompe l'intesa con il Pd. Piuttosto che mancare alla parola data, sceglie di strappare con Azione.

Bonino, dà l'addio a Calenda?

"È lui che ha dato l'addio. Eravamo insieme fino a sabato, e domenica ha deciso di andarsene per conto proprio. Ha mancato alla parola data per ragioni fumose, non convincenti e men che meno dirimenti". […] "Sono personalmente dispiaciuta e politicamente incredula. A oggi sono ferma al patto con Letta. Inoltre il testo dell'accordo è stato concluso sulla base di una bozza i cui contenuti erano stati scritti da Calenda. Io mi attengo a quell'accordo. Cosa sia successo dopo di così stravolgente, non lo so. Non lo comprendo". 

[…] "A me sembra che Letta abbia rispettato il patto, dal momento che era noto a tutti, e quindi anche ad Azione, che il segretario del Pd aveva intese anche con Nicola Fratoianni di Sinistra italiana e Angelo Bonelli dei Verdi e con Lugi Di Maio e Bruno Tabacci. Se per noi Azione/+Europa fossero state indigeribili, allora non dovevamo neppure sederci al tavolo. Non è che lo scopriamo dopo, o facciamo finta di scoprirlo dopo". […] 

Lei l'ha sentito, l'ha chiamato?

"Io?! Io non lo chiamo . So che si sono chattati con Benedetto Della Vedova, il quale gli ha chiesto di vedersi e discuterne. La risposta è stata: "E' inutile, perdiamo solo del tempo. Stop"". […] 

Adesso la strada verso la vittoria per il centrodestra è un'autostrada?

"È sicuro. E per me il primo motivo dell'alleanza con i dem è che neppure uno solo dei nostri voti vada al centrodestra putiniano, orbaniano e salviniano. Se avviene, qualcuno se ne assumerà la responsabilità". […] 

Nascerà un polo di centro Calenda-Renzi?

"Ne ho viste di tutte le tinte, ma una situazione politica così sfarinata non la ricordo. A proposito del centro, non ho la palla di vetro. Immagino che ci fossero malumori in Azione sull'alleanza con il Pd, però un leader se ha forte convinzione e coraggio va avanti. Di certo +Europa è messa in difficoltà per superare la soglia del 3%. Calenda è convinto di arrivare lo stesso al 15%: non mi resta che fargli gli auguri". 

Estratto dell’articolo di Annalisa Cuzzocrea per “la Stampa” l'8 agosto 2022.  

[…] il segretario del Partito democratico non usa mai le parole "rabbia", "delusione", "amarezza", ma non ce n'è bisogno: sono sentimenti che trasudano, seppur trattenuti, da tutto quel che dice sulla decisione di Calenda di mancare all'impegno preso e di non correre più in alleanza con i dem alle prossime elezioni.

Ma lei le ha capite, le ragioni di questo passo indietro?

«No, non ho capito e non credo siano facilmente comprensibili, ma mi sento di poter dire che Calenda può stare, secondo quello che lui stesso ha detto, solo in un partito che guida lui, in una coalizione di cui è il solo leader e in cui non ci sia nessun altro. Le cose che ha detto in questi giorni, e nell'intervista a Lucia Annunziata su Rai3, denotano che è sufficiente a se stesso e incapace di parlare con chiunque altro». 

Sostiene che nel vostro accordo mancassero coraggio, serietà, bellezza e onore.

«Credo che il primo onore sia rispettare la parola data, vale in politica come nella vita. E non una parola data a casaccio, ma una firma fatta davanti alle telecamere». 

Era già successo che Calenda mettesse in discussione un accordo siglato con una stretta di mano. Lo ha raccontato lei stesso.

«È vero, è la seconda volta. Col senno di poi sono stato troppo ingenuo. Ma sono esterrefatto: il principio fondamentale del diritto è "pacta sunt servanda". Se un politico, un uomo di Stato, fa saltare gli accordi che ha firmato perché ha cambiato idea non c'è più politica, siamo su Twitter, dove si può cambiare idea ogni minuto. Ecco, credo che Calenda abbia scambiato Twitter con il mondo reale».

Il leader di Azione chiedeva un'alleanza più netta, più chiara, con un profilo programmatico più coerente. Dal suo punto di vista, era probabilmente l'unica che potesse funzionare. Ha detto di averle proposto un patto 90 e 10 purché foste solo voi. È vero?

«Ma queste cose le aveva dette fin dall'inizio, dopo di che abbiamo raggiunto un patto che comprendeva anche altri contraenti. Nel documento c'era scritto che ci sarebbero state altre intese e avevamo chiarito che sarebbero state obbligate dalla legge elettorale, portando elementi di convergenza soprattutto di natura istituzionale. Per questo lo avevo chiamato "patto per la Costituzione". Calenda ragiona come se non sapesse come funziona questa legge elettorale, che impone di fare alleanze per la parte uninominale. Chi va da solo, sta regalando agli altri la vittoria». 

Lo dice anche a chi l'ha criticata per aver speso queste settimane a cercare di mettere insieme quello che insieme, evidentemente, non poteva stare?

«In tanti mi hanno detto: parliamo di temi, andiamo da soli. Ma il Rosatellum le alleanze le impone. A destra hanno fatto rapidamente perché Berlusconi e Salvini si sono arresi, consegnandosi a Giorgia Meloni. Da noi era più complesso, ma era doveroso fare quegli accordi». 

Se però fronte repubblicano doveva essere, per arginare il centrodestra, a quel punto bisognava ci fossero dentro tutti, 5 stelle compresi. O no?

«I 5 stelle si sono assunti la gravissima responsabilità di aver fatto cadere Draghi. Lo hanno fatto senza alcuna capacità di capire la slavina che avrebbero provocato, in modo irresponsabile, e questo ha sancito una rottura di rapporti insanabile».

Ora Conte le dice di non cercarli, di dare i collegi che sarebbero stati di Calenda a Luigi Di Maio e ai suoi. È davvero chiusa la possibilità di un'alleanza rinnovata con il Movimento?

«Per quanto ci riguarda le alleanze sono chiuse e definite. È stato fin troppo complicato. Ora pensiamo solo alla campagna elettorale, a parlare dei nostri temi, a incontrare le persone. Abbiamo 600 feste dell'Unità in corso in tutt' Italia. Non dico che le farò tutte, ma tantissime». 

Però Calenda ha ragione a dire che anche Sinistra italiana ha contribuito alla caduta del governo Draghi, ha votato 54 volte contro.

«Calenda ha reso Fratoianni e Sinistra italiana un totem gigantesco, quando evidentemente il nostro accordo - di cui era perfettamente al corrente - proviene da un rapporto storico e nasce soprattutto per il lavoro che abbiamo fatto a livello europeo con i Verdi. Ha ingigantito una questione inesistente per giustificare il fatto che ha cambiato idea. Trovo che quanto abbia fatto sia gravissimo sia nei contenuti che nel metodo». 

Ha detto di averla chiamata sabato per avvisarla. Vero?

«Non ha chiamato me, ha chiamato Dario Franceschini e poi sono stato io a telefonargli per capire cosa stesse succedendo».

Ma che succede con Più Europa, che ha confermato l'accordo?

«È la dimostrazione che si tratta di un colpo di testa tutto personalistico di Calenda, che ha sfasciato la sua stessa federazione. Ringrazio Emma Bonino e Benedetto Della Vedova: faremo insieme una bellissima campagna elettorale. Noi confermiamo gli accordi fatti con tutti, non ci rimangiamo la parola data». 

Calenda e Renzi potrebbero dar vita a un terzo polo che cercherà di rubare voti soprattutto al Pd. E i 5 stelle dall'altra parte cercheranno di schiacciarvi su posizioni centriste. Una simile tenaglia non rischia di portarvi alla disfatta?

«Renzi e Calenda sono stati eletti, entrambi, con il Pd. Sono loro ad avere un problema, non noi. Devono spiegare all'opinione pubblica quello che mi sembra evidente: non riescono a stare in un gioco di squadra. O comandano o portano via il pallone. Questa logica del centro è residuale rispetto a comportamenti individuali, non c'è una strategia politica. E visto che non vedo folle di elettori leghisti o di Fratelli d'Italia che corrono verso di loro, è un modo per aiutare Meloni e Salvini, non per contrastarli».

Davvero pensa vogliano aiutare la destra?

«Si stanno assumendo questa responsabilità […]».

 […] Ha ancora senso parlare di agenda Draghi?

«La parola agenda porta malissimo, è successo anche con l'agenda Monti. Togliamo la parola dal tavolo. Il programma del governo Draghi è stato positivo e lo abbiamo sostenuto, ma aveva una sua oggettiva parzialità dovuta al tipo di maggioranza. Non c'erano dentro temi che noi vorremmo in un governo di centrosinistra: più ambizione sull'ambiente, sul sociale, sui diritti». […]

Carlo Calenda, Sallusti: "Curiosa macchietta, fuori dai salotti-chic non è nessuno". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano l'08 agosto 2022

Calenda ha cambiato idea, straccia l'accordo firmato solo poche ore fa a favore di telecamere con il Pd di Enrico Letta e si appresta alla corsa elettorale (forse) solitaria. Non c'è che dire, siamo di fronte a un uomo per il quale la parola e gli impegni sono carta straccia, si va dove non le convinzioni ma i sondaggi misti all'ego ipertrofico ti suggeriscono di andare.

Attenzione al trucco, in realtà non cambia nulla se non per il Pd che nelle urne si ritroverà con un alleato in meno: Calenda resta Calenda comunque corra alle elezioni, cioè un rappresentante della peggiore sinistra, quella radical chic che tanto piace alla gente (di sinistra) che piace. I suoi voti, pochi o tanti che saranno (al momento sono pochi, attorno al cinque per cento) un minuto dopo la chiusura dei seggi saranno messi di nuovo a disposizione di Enrico Letta, nel frattempo alleato con la sinistra-sinistra di Fratoianni e compagni.

Calenda è uno abituato a usare tutti e tutto come un taxi. È stato renziano quando Renzi premier gli ha proposto di fare il viceministro dell'Economia, poi Pd ortodosso per fare prima il ministro e poi l'eurodeputato, oggi è convinto di farsi portare in alto dai voti di elettori moderati del Centrodestra che poi ovviamente tradirà alla prima opportunità. Insomma, non solo pensa di essere il più bravo di tutti, ma pure il più furbo in un mondo, quello della politica, dove i furbi non scarseggiano.

Il suo mantra usato come specchietto per le allodole è "l'agenda Draghi" che in realtà non esiste se non nel cognome del possessore che apre porte altrimenti socchiuse se non chiuse del tutto. Fuori dal centro di Roma e dai salotti chic disseminati su e giù per l'Italia Calenda è uno sconosciuto, una curiosa macchietta frutto della fantasia tutta italiana di sfornare personaggi improbabili e farli passare per statisti. Dice di essere il "terzo polo" quando in natura e per definizione i poli sono solo due, o stai a Nord o a Sud.

Chi sostiene di aver scoperto il terzo ci sta solo prendendo per i fondelli. Il "terzo polo" è un non luogo che esiste solo nella fantasia di bambini mai cresciuti, è l'Isola che non c'è di Peter Pan Calenda.

Il rumors su Nicola Fratoianni: “Per siglare l'accordo col Pd ha preteso un posto in lista per la moglie”. Il Tempo il 07 agosto 2022

“Qualcuno ha perfino insinuato che per siglare l’accordo col Pd, Nicola Fratoianni, pisano come Enrico Letta, abbia preteso dal segretario dem un posto in lista per lei”. Il lei in questione della frase apparse in un articolo del Corriere della Sera è Elisabetta Piccolotti, moglie del numero uno di Sinistra Italiana. “È stata portavoce dei Giovani Comunisti e ora è nella segreteria nazionale di Sinistra italiana, cioè accanto al marito che ne è il segretario” spiega il profilo tracciato dal quotidiano, che però riporta anche la secca smentita della stessa Piccolotti riguardo ai rumors dei più maligni: “È solo un accordo tecnico, per togliere parlamentari alle destre”. “Dai giornali di destra ricevo attacchi sessisti, qualunque cosa faccia è perché sono la moglie di Fratoianni…” il resto dello sfogo della donna, che ha conosciuto Fratoianni nel 2001 in occasione del G8 di Genova e che ora si prepara ad affrontare l'ultimo mese abbondante di campagna elettorale prima dell'appuntamento del 25 settembre.

Fabrizio Caccia per corriere.it il 7 agosto 2022.

«Credo sia stata l’unica volta di Nicola Fratoianni in tight e papillon — scherza la moglie, Elisabetta Piccolotti —. Anche perché si è sposato una volta sola, che io sappia...». Era il 3 settembre 2019, Palazzo Trinci a Foligno, la città dove risiedono. Matrimonio civile dopo 10 anni di fidanzamento e un figlio, Adriano, che oggi ha 9 anni. «Nicola elegantissimo e io pure, in bianco, ma con sotto i pantaloni» si schermisce lei. Officiante Nichi Vendola con la fascia tricolore, mentre a Roma nasceva il Conte II. Tra gli invitati, «molta sinistra alternativa»: Fausto Bertinotti, Paolo Cento, Fabio Mussi, la scrittrice Michela Murgia. 

Dieci anni di differenza tra loro due, «a casa cucina lui», la prima volta che si videro fu al G8 di Genova nel luglio 2001, «io avevo 18 anni, Nicola 28, entrambi nei Giovani Comunisti». Ma Elisabetta non ha gran voglia di continuare, «dai giornali di destra ricevo attacchi sessisti, qualunque cosa faccia è perché sono la moglie di Fratoianni...». Lei è stata portavoce dei Giovani Comunisti e ora è nella segreteria nazionale di Sinistra italiana, cioè accanto al marito che ne è il segretario. Perciò figuriamoci. Qualcuno ha perfino insinuato che per siglare l’accordo col Pd, Fratoianni, pisano come Letta, abbia preteso dal segretario dem un posto in lista per lei. Ma Elisabetta taglia corto: «É solo un accordo tecnico, per togliere parlamentari alle destre». 

E lui? Deputato alla Camera dal 15 marzo 2013 (con Sel, Sinistra Ecologia Libertà), già dirigente di Rifondazione comunista, ai tempi del G8 di Genova Fratoianni per gli amici era solo «Fraz». E Beppe Caccia, che era con Luca Casarini nelle Tute Bianche, lo ricorda allo Stadio Carlini, «dove noi tutti campeggiavamo», impegnato in mille discussioni con loro e con quelli della Rete del Sud Ribelle, finché si trovò «la convergenza» e nacquero così i Disobbedienti, pietra miliare del movimento italiano no global. Non c’è dubbio che Genova sia rimasta nel cuore del leader di Si. In vena di amarcord una volta disse: «Mi capita spesso ripensando a quei giorni di sentire nelle narici l’odore dei gas lanciati ovunque, gli elicotteri e il rumore dei manganelli sugli scudi... Ma le ragioni di allora, le diseguaglianze, sono ancora davanti a noi».

Quattro anni dopo, nel 2005, fu proprio Fratoianni a convincere Nichi Vendola a candidarsi a governatore della Puglia: «Una grande intuizione, la primavera pugliese cominciò così», chiosa Elisabetta. Con Beppe Caccia e Luca Casarini non si sono più persi di vista. Quando loro diedero vita al progetto Mediterranea saving humans, nel Canale di Sicilia per salvare i migranti, Fratoianni s’imbarcò anche lui sulla nave Mare Jonio: «E Nicola è davvero un grande cuoco, ma a livello gourmet — conferma Beppe Caccia —. Lo ricordo in mezzo a una tempesta nel novembre 2018 che friggeva melanzane per un’indimenticabile pasta alla Norma...». 

Sui migranti Fratoianni ha battagliato molto con l’ex ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini: durante un question time il 3 luglio 2019 gli disse «lei sta rosicando» perché il gip di Agrigento aveva appena scarcerato la «Capitana» della Sea Watch, Carola Rackete. Su quella barca, pochi giorni prima, era salito anche lui con altri parlamentari per verificare le condizioni dei naufraghi. Nel 2015 — ricorda l’amico Beppe — andammo pure a Francoforte alla grande manifestazione no global contro il nuovo grattacielo della Bce, «dove dentro c’era Mario Draghi, vi dice niente questo nome?».

Fratoianni era là come parlamentare per tutelare i manifestanti italiani arrestati dalla polizia e comunque ormai è noto che all’«agenda Draghi» preferisca «l’agenda Greta» e le battaglie della Thunberg sul clima. «A sensibilizzarlo molto — racconta la moglie — ci pensa nostro figlio Adriano. L’altro giorno gli ha detto: “Papà senti che caldo, bisogna fare qualcosa...”». Tifoso dell’Inter, amante di Battiato, il leader di Si è anche piuttosto presente sui social: Facebook, Twitter, Instagram. Una volta postò una foto di lui con un grembiule rosso e due pescioni in una teglia pronti per essere infornati. Era una vigilia di Natale. Beffardo un follower gli scrisse: «Di rosso ormai è rimasto solo il grembiule. Buone feste».

Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” il 9 agosto 2022.

Guardiamoli un attimo da vicino, questi signori con cui Enrico Letta ciancia di aver imbastito una santa alleanza per salvare la Costituzione, nel consueto approccio sereno della sinistra alla democrazia dell'alternanza. 

Quello che in particolare sta vivendo il suo warholiano quarto d'ora di celebrità è Nicola Fratoianni, che su Twitter si presenta così: "Segretario nazionale di Sinistra Italiana, domani chi lo sa... Però sarò per sempre uno di quelli che nel luglio 2001 erano a Genova". 

Una mini-biografia che è una rivendicazione, la rivendicazione dell'intrasigenza ideologica tardoadolescenziale come stella polare del suo impegno politico, tra l'amore compulsivo per la patrimoniale e il gretinismo che gli ha fatto stringere l'accordo delle nanoparticelle col verde Bonelli. C'è anche una fotografia, che lo ritrae ventinovenne nei giorni della peggio gioventù al G8 di Genova, vicino a due tipini un po' più a sinistra di Lenin.

Uno è Francesco Caruso, ex parlamentare di Rifondazione che si dichiara "sovversivo a tempo pieno", il quale tra i tanti procedimenti nel 2002 venne arrestato con l'accusa di "sovversione, cospirazione politica ed attentato agli organi costituzionali dello Stato" (un po' più di uno scippo, diciamo), poi decaduta per sopraggiunta prescrizione. 

L'altro contestatore in foto, con megafono d'ordinanza, è nientemeno che Luca Casarini, rivoluzionario no global di professione, un «amico» come si è definito lui stesso, che è stato anche eletto membro della direzione nazionale e segretario di Sinistra Italiana in Sicilia.

Nel marzo 2019 Fratoianni lo ospita negli uffici della Camera, nonostante l'amico fosse indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e rifiuto di obbedire alle autorità. Il caso era quello della nave Mare Jonio della ong Mediterranea, di cui Casarini era capomissione, che aveva disobbedito alla richiesta della Guardia di Finanza di non entrare in acque italiane, e sbarcato a Lampedusa 49 clandestini. 

OCCUPAZIONE Un fiero difensore della legalità costituzionale, che il nostro ricevette con tutti gli onori in Translantico, quasi infastidito che qualcuno lo trovasse bizzarro: «Sì, l'ho invitato io, abbiamo fatto il punto sulla situazione». Non specificò meglio quale situazione, probabilmente quella penale dell'amico.

Certamente non idilliaca, ma ancora niente rispetto a quella del centro sociale torinese Askatasuna, collettivo di galantuomini antagonisti che occupa abusivamente uno stabile da 26 anni, sede di un'"associazione a delinquere" secondo l'indagine che ha appena visto il rinvio a giudizio di 28 dei suddetti galantuomini, accusati di molteplici reati compiuti contro le forze dell'ordine, le istituzioni e il cantiere della Tav in Val di Susa. 

Ebbene, succede che Fratelli d'Italia presenti in Comune una mozione per chiedere lo sgombero di Askatasuna, il minimo sindacale in uno Stato di diritto, dato l'inquietante quadretto. Chi si oppone? Ma certo, gli eroici consiglieri di Sinistra Italiana.

ALTA VELOCITÀ Del resto, c'è almeno una grande passione comune tra i presunti associati a delinquere e il presunto leader di SI: l'opposizione integrale alla Tav, all'ovvietà contemporanea di una linea ad alta velocità in una tratta fondamentale per il transito di persone e merci tra Italia e Francia.

Lo disse chiaro e tondo il compagno Fratoianni, partecipando all'adunata generale No Tav dell'8 dicembre 2018: «La Tav è una grande opera ormai superata dalla realtà, che non ha più senso» (mentre la lotta dura senza paura al "capitalismo finanziario" che invoca ogni piè sospinto è modernità avveniristica, nel fumettone tardosessantottino in cui vive il nostro, dove Marx ostenta le treccine di Greta Thunberg). 

Quel giorno, oltre che coi centri sociali, era a braccetto coi gilet gialli, i barbari "populisti" il cui possibile "arrivo in Italia" va assolutamente scongiurato, secondo l'allarme lanciato da Letta un mese e mezzo fa. Ma andava ancora l'Agenda Draghi, adesso nel bel mondo progressista tira l'Agenda Fratoianni, per fermare "le destre" estremiste ed eversive. Loro.

(LaPresse il 10 agosto 2022) - "Per molti anni ho scelto di non commentare articoli di giornali e le tante parole spese sul mio conto quando, ad ogni passaggio che ha contraddistinto il mio impegno politico, sono stata descritta come la 'moglie di' o 'Lady Franceschini'. 

Ora però non posso non farlo, non soltanto perché le reputo profondamente ingiuste ma perché proprio contro questo atteggiamento misogino e maschilista ho sempre lavorato, nelle istituzioni con atti a sostegno delle donne e contro la discriminazione delle nostre ragazze in ogni campo".

Lo scrive su Facebook Michela Di Biase, consigliera regionale e moglie dell'attuale ministro della Cultura Dario Franceschini. 

"Non posso tacere - spiega - perché sono madre di figlia femmina e l’esempio che voglio dare a lei e alle bambine come lei è che nessuno può permettersi di svilirci, sminuirci, mettere in discussione ciò che siamo, il lavoro che abbiamo fatto, i nostri sogni". 

"Sì, sono la moglie di un uomo che come me fa politica - prosegue Di Biase -, ci siamo conosciuti grazie alla militanza, come spesso accade a molti sul luogo di lavoro. 

Non lo conoscevo ancora  quando per la prima volta mi sono candidata nel mio Municipio, a 26 anni, unendo all’impegno politico, l’università e il lavoro. Sono stata consigliera municipale per due mandati, prima degli eletti e sono stata la prima capogruppo donna dei miei quartieri: Alessandrino, Centocelle, Tor Sapienza, Quarticciolo, La Rustica.

Sono stata poi eletta in consiglio comunale a Roma, sempre chiedendo alle persone di scrivere il mio nome sulla scheda elettorale". "Nel 2016 - ricorda via social -, dopo aver ricoperto il ruolo di presidente della commissione cultura, sono stata la prima degli eletti e sono diventata capogruppo del Partito Democratico nell’assemblea capitolina mentre era sindaca Virginia Raggi. Da lì, sono stata eletta in Regione Lazio dove sono stata la seconda consigliera più votata. Nominata? No, votata.

Ho sempre chiesto la fiducia dei cittadini, che hanno scritto anche in quella circostanza circa 15.000 volte Di Biase sulla scheda. Sono 16 anni che rappresento il Partito Democratico nelle istituzioni, 16 anni di incontri, dibattiti, militanza, gioia, condivisione di obiettivi comuni. 

Ora, descrivermi come 'la moglie di' è in primo luogo ingiusto e, cosa molto più grave, è frutto di una cultura maschilista che vuole raccontare le donne non attraverso il loro lavoro, la loro storia ma attraverso l’uomo (marito, padre, fratello) che hanno accanto". "Il Partito Democratico sia romano e regionale ha messo il mio nella rosa di nomi per le candidature alle prossime elezioni politiche, di questo sono orgogliosa e grata. Grata perché quella che da sempre è la mia comunità ha riconosciuto il mio lavoro ed il mio impegno di questi anni", conclude

Lo sfogo di due donne in politica che hanno sposato politici. Elisabetta Piccolotti e Michela Di Biase, candidate e prese di mira: “Non chiamateci mogli di”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Agosto 2022 

Le chiamano “Lady” con accanto il cognome del marito o “moglie di…”. Ma loro sono donne con ventennali carriere politiche alle spalle. Quando i nomi di Elisabetta Piccolotti e Michela Di Biase sono finiti tra le possibili candidature del centro-sinista è partita la polemica. Sono state accusate di essere in pole position perché mogli di politici di primo piano. Piccolotti è la moglie del Segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni e Di Biase del ministro Dario Franceschini. La prima è coordinatrice della Segreteria nazionale di Sinistra italiana, la seconda è consigliera regionale nel Lazio per il Pd. Entrambe fanno politica da decenni e non ci stanno a passare per “moglie di” e vedere il loro nome passato come “quota mogli”. Entrambe hanno deciso di spiegare perché dai loro profili social.

Elisabetta Piccolotti: “Un sistema maschilista e sessista che riduce le donne ad orpello degli uomini”

“Il famoso collegio uninominale non era per Elisabetta Piccolotti: erano due, per Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro, e io ne sono davvero felice – ha scritto Elisabetta Piccolotti – Ringrazio le centinaia di persone che mi hanno espresso solidarietà, ricordando i miei 24 anni di impegno e passione politica, tutti fuori dal parlamento e a prescindere dal mio matrimonio. A tutti gli altri vorrei dire solo una cosa: a credere a quello che scrivono certi campioni destrorsi, renziani e pentastellati si può finire – a volte inconsapevolmente – a fare la parte degli utili idioti del sistema mediatico e di potere di questo paese. Un sistema maschilista e sessista, fondato sulla demolizione del valore e della storia delle donne e sulla loro riduzione ad orpello degli uomini”.

E aggiunge: “Volete sapere se mi candiderò nel proporzionale? Ho riflettuto molto ieri su questa cosa, ma non perché sono preoccupata dall’ondata di putrido fango che mi è piovuta addosso, ma perché invece sono preoccupata che questo fango possa nuocere a ciò cui tengo di più, a ciò a cui ho dedicato la vita intera: la sinistra, l’ecologismo e la comunità di uomini e donne che con tante fatiche e tanti sacrifici hanno lottato affinché le nostre proposte avessero una rappresentanza autonoma e forte. È a loro che non voglio in alcun modo nuocere, ed è per questo che è a loro che va la scelta. Deciderà l’assemblea nazionale del mio partito se sono utile o sono d’intralcio, se candidarmi e dove, come sempre è stato. Decideranno loro e non due maschi in una stanza, e giudicheranno se il mio profilo è utile ad accrescere il consenso della nostra lista. È così che si fa nelle esperienze collettive: non io, ma noi”.

Poche ore dopo è arrivato anche lo sfogo di Michela Di Biase: “Per molti anni ho scelto di non commentare articoli di giornali e le tante parole spese sul mio conto quando, ad ogni passaggio che ha contraddistinto il mio impegno politico, sono stata descritta come la “moglie di” o “Lady Franceschini”. Ora però non posso non farlo, non soltanto perché le reputo profondamente ingiusto ma perché proprio contro questo atteggiamento misogino e maschilista ho sempre lavorato, nelle istituzioni con atti a sostegno delle donne e contro la discriminazione delle nostre ragazze in ogni campo. Non posso tacere perché sono madre di figlia femmina e l’esempio che voglio dare a lei e alle bambine come lei è che nessuno può permettersi di svilirci, sminuirci, mettere in discussione ciò che siamo, il lavoro che abbiamo fatto, i nostri sogni”.

E aggiunge: “Sì, sono la moglie di un uomo che come me fa politica, ci siamo conosciuti grazie alla militanza, come spesso accade a molti sul luogo di lavoro. Non lo conoscevo ancora quando per la prima volta mi sono candidata nel mio Municipio, a 26 anni, unendo all’impegno politico, l’università e il lavoro. Sono stata consigliera municipale per due mandati, prima degli eletti e sono stata la prima capogruppo donna dei miei quartieri: Alessandrino, Centocelle, Tor Sapienza, Quarticciolo, La Rustica. Sono stata poi eletta in consiglio comunale a Roma, sempre chiedendo alle persone di scrivere il mio nome sulla scheda elettorale. Nel 2016, dopo aver ricoperto il ruolo di presidente della commissione cultura, sono stata la prima degli eletti e sono diventata capogruppo del Partito Democratico nell’assemblea capitolina mentre era sindaca Virginia Raggi. Da lì, sono stata eletta in Regione Lazio dove sono stata la seconda consigliera più votata. Nominata? No, votata. Ho sempre chiesto la fiducia dei cittadini, che hanno scritto anche in quella circostanza circa 15.000 volte Di Biase sulla scheda”.

E conclude: “Sono 16 anni che rappresento il Partito Democratico nelle istituzioni, 16 anni di incontri, dibattiti, militanza, gioia, condivisione di obiettivi comuni. Ora, descrivermi come “la moglie di” è in primo luogo ingiusto e, cosa molto più grave, è frutto di una cultura maschilista che vuole raccontare le donne non attraverso il loro lavoro, la loro storia ma attraverso l’uomo (marito, padre, fratello) che hanno accanto. Il Partito Democratico sia romano e regionale ha messo il mio nella rosa di nomi per le candidature alle prossime elezioni politiche, di questo sono orgogliosa e grata. Grata perché quella che da sempre è la mia comunità ha riconosciuto il mio lavoro ed il mio impegno di questi anni”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

"Contro di me tanti insulti perché “moglie di” e zero righe sulle mie battaglie politiche". “Io, moglie di Fratoianni ma faccio politica da 25 anni: un errore rifiutare accordo con i 5 Stelle”, intervista a Elisabetta Piccolotti. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 21 Agosto 2022 

Ha scritto Angela Azzaro sul Riformista: “In tanti si sono schierati contro la candidatura di Elisabetta Piccolotti alle prossime elezioni. La colpa? È la moglie di Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana e frontman nella costruzione dell’alleanza elettorale con il Pd. Mai polemica fu più misera, sessista e fondata sulla misoginia”. A lei che è stata oggetto di questi attacchi, la risposta.

Chi è Elisabetta Piccolotti? Ho dovuto farmi questa domanda, ed è stato terribile. Sono stata cancellata e azzerata, come viene azzerata la realtà delle donne in ogni cultura patriarcale. Articoli e post che contestavano la mia candidatura non contenevano nemmeno una riga sulle mie posizioni, sulla mia esperienza, sui miei 24 anni di politica fuori dal Parlamento. Li leggevo e pensavo: che cosa mi stanno contestando? Mi stanno chiedendo di divorziare, di smettere di fare politica per fare la casalinga, o di limitarmi a dare volantini? A chi ti contesta di essere stata un pessimo Assessore alla Cultura puoi ribattere con argomenti, ma cosa puoi rispondere a chi ti contesta di essere la ‘moglie di..’? Ogni risposta riporta ad un terreno semantico sessista, l’unica strada è ribellarti e liberarti. Ed è stato straordinario vedere che a ribellarsi non sono stata l’unica, sui social, nel mio partito e nella mia comunità. Non sono stata lasciata sola, è il segno che il patriarcato non ha più il consenso delle donne e anche di tanti uomini.

Metà degli italiani sono fortemente indecisi se recarsi ai seggi il 25 settembre. Una parte si dice disgustata dalla politica. Un “disgusto” che sembra attecchire soprattutto nei giovani. Come se lo spiega?

Il disgusto dei giovani è comprensibile se si riflette sul totale fallimento delle politiche che li hanno riguardati negli ultimi vent’anni. Hanno pagato il prezzo di una modernizzazione senza modernità, basti pensare alla tragedia dei cambiamenti climatici, e di riforme e tagli la cui unica ratio era togliere a quelli che venivano dopo. L’Italia ha fallito sull’istruzione, è innegabile visto che siamo nella parte alta della classifica europea sull’abbandono scolastico e in fondo per numero di laureati. Stessa storia sul lavoro: un neolaureato tedesco nel 2018 poteva guadagnare circa 54.000 euro l’anno, in Italia non solo c’è un mare di precariato, ma si guadagna il 66% in meno. E ancora l’imbroglio della retorica del ‘merito’ e l’esplosione delle diseguaglianze. Non sento nessuno ammettere la verità: in Italia c’è chi parte avvantaggiato alla nascita. I figli delle famiglie benestanti e colte hanno accesso alla cultura, ai libri, ai viaggi di istruzione all’estero e a molti altri strumenti, mentre gli altri no, vivono nel deserto della povertà educativa. In questo modo chi viene da una famiglia con un reddito medio-basso è spesso un perdente in partenza. Il blocco dell’ascensore sociale è una vergogna rivelatrice, negli ultimi decenni a dettare le scelte è stato chi aveva un ricco conto in banca. A cosa servivano le grandi campagne mediatiche di molti editori contro la sinistra? A rimuovere l’ultimo ostacolo alla più spietata delle competizioni sociali. Se mi chiede perché faccio politica a sinistra da 24 anni le rispondo che è solo perché già giovanissima avevo compreso tutto questo. E a chi è giovane oggi dico: l’astensionismo è un favore a chi difende lo status quo, le cose cambiano solo quando si conquista il potere di cambiarle.

Guerra, fame, apartheid vaccinale, cambiamenti climatici che producano migrazioni di massa e disastri ambientali. Questioni epocali che sembrano non entrare, se non per polemiche interne, nel dibattito politico del belpaese. Un tempo era la sinistra a incarnare certi valori e battaglie. Perché questo rapporto con i giovani si è così lacerato e come cercare di ricucirlo?

Il dibattito politico dell’Italia è fortemente inquinato. Non c’è alcuna razionalità nella gerarchia dei temi proposti dai media e dalle destre liberiste o sovraniste. Siamo costretti a fronteggiare continue ondate emotive che occupano ogni spazio mediatico, fino allo shock seguente. Dalla casta ai migranti, da questi al Covid, poi è arrivata la guerra e da questa si è passati alle bollette: il problema è che ogni nuovo tema azzera quello precedente. In questo modo i cittadini non possono comprendere la complessità che lega insieme i problemi e non possono coltivare una visione alternativa, una cultura politica del cambiamento. È talmente forte il rifiuto di una politica della complessità che ormai ci accusano di ‘buonismo’ quando parliamo di diritti umani e migrazioni, di ‘catastrofismo’ quando parliamo dei cambiamenti climatici, di ‘putinismo’ quando ci battiamo per la pace. Insomma ho l’impressione che il problema non risieda in un disimpegno della sinistra da queste battaglie, ma quanto nell’impossibilità di far arrivare la nostra voce alla maggioranza. Per farlo serve una massa critica maggiore, una disposizione all’innovazione teorica e politica, un’apertura vera ai linguaggi e ai temi dei più giovani. La lista “Verdi e Sinistra” è il primo passo che abbiamo fatto in questa direzione, se i risultati elettorali ci daranno ragione ne faremo tanti altri. Molti giovani l’hanno capito, tanto che nei sondaggi siamo molto più alti tra le giovani generazioni di quanto non sia tra i più anziani. Finalmente è finita l’epoca in cui essere ecologisti e di sinistra era da ‘sfigati’, nel mondo le forze politiche e le figure che si battono insieme a noi per la giustizia sociale e climatica sono attrattive, come dimostrano Ocasio Cortez e Sanders, Melenchon, l’esperienza di Podemos e Syriza, il Sud America di Boric e di tanti altri.

Calenda che prima firma e poi rompe il patto elettorale con Letta. Il segretario del Pd che gli dà del traditore, il leader di Azione che grida: vergogna. Nel centrosinistra sembra un continuo scontro tra ego ipertrofici. Il gioco di squadra sembra bandito…

Il 26 settembre il centro-sinistra dovrà aprire una grande riflessione su quanto è accaduto in queste settimane. Rifiutare la possibilità di un accordo coi 5 Stelle è stato un errore di Letta, accompagnato da uno speculare errore di Conte. Calenda ne ha approfittato per lanciare un’opa conservatrice e liberista sul campo democratico, ma non è riuscito a portarla a termine grazie anche all’intelligenza di Sinistra italiana e Europa verde. Abbiamo ottenuto che non si chiudesse definitivamente la porta su un potenziale governo progressista in futuro, ma il problema politico di fondo non è risolto. Credo che gli elettori e le elettrici abbiano una straordinaria opportunità di dire la propria nelle urne su questi problemi. Il voto ad una lista come la nostra può spingere contemporaneamente in tre direzioni: indebolire il progetto trumpiano e neo-conservatore di Meloni, fermare la manovra centrista che vorrebbe l’Italia oggetto di un perpetuo commissariamento tecnico (con Draghi o con un altro non fa differenza), eleggere parlamentari che lavoreranno con coerenza per dare al paese un governo che si occupi con una qualche efficacia di questione sociale e emergenza climatica. Gli elettori hanno l’opportunità di dimostrare che non si vince al centro, come lo dimostrarono al tempo di Vendola e dei sindaci arancioni. Quella stagione fu in termini generali la più promettente degli ultimi decenni, vale la pena continuare a rifletterci.

Cosa teme di più della destra che si candida a governare l’Italia?

La destra di Giorgia Meloni non è un progetto populista come ne abbiamo visti tanti. Non parlano di tsunami, di ramazza, di rottamazione della classe dirigente esistente. Sono una destra tutta ordine, disciplina, illiberalità e manganello. Insistono su un frame completamente diverso: nell’Italia spaventata dal disordine del mondo stravolto dalla guerra, da un capitalismo rapace e dal surriscaldamento globale, propongono un principio d’ordine sostanzialmente autoritario e classista. I poveri, i migranti, i giovani che pretendono tempo libero e paghe adeguate, le donne libere e le persone con una identità gender fluid e i diversi in generale sono da considerarsi categorie da rimuovere, persone da rimettere nel posto che una cultura tradizionale e paternalista riservava loro in passato. Non possiamo considerarlo un progetto debole e arraffazzonato, anche perché da Orban a Vox fino alla destra americana ha una potente internazionale nera a sostenerlo. Leggerei in quest’ottica anche le ultime scelte di Meloni sui temi della politica estera e della guerra in Ucraina: si vuole accreditare affinché la lascino governare davvero. E noi dobbiamo fare di tutto perché questo non succeda. Non voglio lasciare a mio figlio un paese in cui non potrà mai sentirsi libero fino in fondo.

Da donna a donna: cosa pensa di Giorgia Meloni?

Penso che non possiamo sottovalutarla, come mai vanno sottovalutate le donne. Ha convinzioni ideologiche così radicate da costituire un ostacolo insormontabile al riconoscimento delle ragioni altrui. Immaginarla al governo significa immaginare un paese ad una sola dimensione, massificante e omologante. Per questo dal mio punto di vista è la rappresentante di una destra molto più pericolosa di quella fondata sul trasversalismo comunicativo di Salvini o sull’individualismo competitivo di Berlusconi. Ho sentito Conte affermare che Meloni non è adeguata al governo: un po’ poco, non le pare? E vedo che Renzi e Calenda non la considerano in grado di nuocere davvero al paese. In tutta franchezza credo che stiano sbagliando di grosso.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Carlotta De Leo per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2022.

«Non mi aspettavo un'eco così ampia. Il mio non è stato uno sfogo, ma una lunga riflessione». Il telefono di Michela Di Biase - consigliera regionale del Pd nel Lazio, in procinto di conquistare una candidatura alle prossime elezioni politiche - è rovente dopo il post in cui si è scagliata contro «la cultura maschilista» che la etichetta come «lady Franceschini». 

Tra i primi a chiamare, il segretario Enrico Letta: «Lo ringrazio. Ho avuto il pieno sostegno di tanti. Mi sono sentita parte di una comunità». 

Che cosa l'ha spinta a parlare adesso?

«Per anni ho evitato di replicare agli attacchi di chi mi bollava come "moglie di". Come se fossi un orpello, un'appendice. Ora però non è più giusto stare in silenzio anche pensando alle nostre figlie e ai valori in cui vogliamo che crescano. Dobbiamo opporci a chi pretende di raccontare le donne attraverso l'uomo (marito, padre, fratello) che hanno accanto al fine di svilirne il ruolo nelle istituzioni». 

In questi giorni anche Elisabetta Piccolotti ha accusato il «sistema maschilista» che preferisce parlare del suo matrimonio (con Nicola Fratoianni) piuttosto che dei suoi anni di impegno politico.

«Esattamente lo stesso schema. Io sono sposata con un uomo che come me fa politica, ci siamo conosciuti grazie alla militanza. Il mio impegno però è iniziato ben prima di incontrarlo, a 26 anni, nel mio municipio. E sono stata la prima tra gli eletti in Campidoglio nel 2016 e poi la seconda in Regione nel 2018. Sono 16 anni che il mio percorso nelle istituzioni prosegue lineare, tappa per tappa». 

Ora in ballo c'è l'approdo in Parlamento. Il suo nome è stato inserito dal Pd locale in una rosa di possibili candidature per il voto di settembre.

«Una scelta dettata dal mio impegno e dai risultati che mi sono stati riconosciuti in tanti anni di attività politica. Sarà la Direzione nazionale ora a decidere se e dove schierarmi, io come al solito mi metterò al lavoro con lo stesso impegno di sempre». 

Le ha fatto piacere ricevere il sostegno di Beatrice Lorenzin, Pina Picierno e Stefania Pezzopane?

«Molto. Con loro ho lavorato in passato e conoscono il mio impegno. Dico sempre che la solidarietà femminile è un valore importante che dovrebbe essere condiviso. Nel 2016, quando Giorgia Meloni fu attaccata perché si candidò al Campidoglio mentre era incinta, io la difesi strenuamente: nessuno può dire a una donna cosa fare e cosa non può fare. Su questi principi dobbiamo essere granitici».

Le "mogli di..." si offendono ma non mollano i seggi sicuri. Andrea Indini il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.

La surreale crociata delle signore Franceschini e Fratoianni, che urlano al maschilismo del sistema

Anni a violentare l'italiano, a pretendere storpiature assurde della grammatica, a imporre asterischi. Anni ad aggredire i talk show con strampalate crociate neo femministe. Anni di battaglie inutili finite con l'inondare i social di obbrobriosi schwa. E poi? E poi si ritrovano ancora a piagnucolare e a montare una surreale polemica sulle «mogli di...». In questa strana estate di campagna elettorale ci saremmo aspettati un confronto serrato su ben altri temi. La crisi economica, per esempio. L'emergenza sicurezza. O ancora: l'immigrazione, il carovita, la riforma del fisco. E invece no. Sul tavolo abbiamo: sessismo, cultura maschilista e demolizione della donna. Un déjà-vu di cui avremmo fatto volentieri a meno.

A buttarla in caciara sono state Elisabetta Piccolotti e Michela Di Biase. I loro nomi potrebbero non dire granché al lettore poco avvezzo di politica. E quindi, per aiutare a inquadrarle, potremmo ricorrere all'uso di perifrasi. Magari dicendo che la prima, la Piccolotti, è la moglie di Nicola Fratoianni e la seconda, la Di Biase, è invece sposata con Dario Franceschini. Se pure i nomi dei mariti, alle orecchie dello stesso lettore disinteressato, dovessero dire poco, allora potremmo scrivere che uno è il segretario di Sinistra Italiana e l'altro è l'attuale ministro per i Beni culturali nonché esponente di spicco del Pd. I due non se ne vorrebbero. Le due, invece, sentitesi appellare sui giornali Lady Fratoianni e Lady Franceschini, se la sono presa. E non poco.

«Sono sedici anni che rappresento il Partito democratico nelle istituzioni - ha sbottato la Di Biase - Sedici anni di incontri, dibattiti, militanza, gioia, condivisione di obiettivi comuni. Ora, descrivermi come la moglie di... è in primo luogo ingiusto e, cosa molto più grave, è frutto di una cultura maschilista che vuole raccontare le donne non attraverso il loro lavoro ma attraverso l'uomo che hanno accanto». La Piccolotti non è stata da meno e, infuriata, ha puntato il dito contro il Sistema. «Un sistema maschilista e sessista - ha detto - fondato sulla demolizione del valore e della storia delle donne e sulla loro riduzione ad orpello degli uomini».

Certo, nei giorni scorsi, alcune malelingue hanno spettegolato sulle due dicendo che erano state garantite a entrambe candidature blindate in virtù proprio della fede che portano all'anulare. E questo le ha inorridite ancora di più. «A credere a quello che scrivono certi campioni destrorsi, renziani e pentastellati - ha tuonato la Piccolotti - si può finire, a volte inconsapevolmente, a fare la parte degli utili idioti del sistema mediatico e di potere di questo Paese». Tuttavia, anziché zittire quelle stesse linguacce mettendosi in gioco con una candidatura in un collegio dove è necessario andare a raccattare voti sul territorio, le due Lady hanno preferito inforcare la solita, sbiadita denuncia di sessismo. E Repubblica, dietro di loro, a montare il caso urlando al «maschilismo».

Ora (e non se la prendano le femministe battagliere) se si vuole davvero affrontare i problemi che affliggono le donne (e non in politica ma nella vita reale), alla Piccolotti e alla Di Biase bisognerebbe suggerire di battersi per qualcosa di più concreto. Chessò: prolungare i mesi di maternità pagata (cinque non coprono nemmeno il periodo di allattamento esclusivo consigliato dall'Oms), incentivare il reinserimento nel mondo del lavoro per le neo mamme o aumentare le detrazioni legate alle spese per crescere i figli. La parità di genere si raggiunge attraverso questo tipo di riforme. E non certo imponendo schwa e asterischi o, peggio ancora, lagnandosi per qualche giornale che parla di loro come «mogli di...». 

Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per "Il Messaggero" il 28 agosto 2022.

(…)  La politica, a volte, è anche un affare di famiglia. Ministri e ministre, premier e capi di Stato, onorevoli di ogni colore condividono una sol condizione: sono mamme, papà, fratelli, sorelle. Figlie e figli premurosi, ossessivi, o gelidi come un iceberg. La famiglia è croce, quando la parentela porta guai, scandali, imbarazzi. Ma è anche delizia. Può riparare dalla bufera, ridare forza.

Prendi Giorgia Meloni, madre e italiana, leader di Fdi e premier-in-pectore del centrodestra.

Una foto su Facebook, condivisa giovedì, per scrollarsi di dosso un peso. Abbraccia mamma Anna, 70 anni, «soffre di obesità da quando era giovane», racconta. Altro che devianza, si difende, «potrei mai pensarlo?». Tra migliaia di commenti, si fa spazio Antonio Tajani, numero due di Forza Italia: «Cara Giorgia, tua mamma è bellissima. Un abbraccio». 

UN VECCHIO TABÙ Politica e famiglia, senza veli. Fino all'altro ieri era un tabù. Riavvolgi il nastro, scorri i filmati in bianco e nero dell'Istituto Luce, con la vocina metallica in sottofondo. E scopri che raramente mogli, madri, figli e cugini di illustri primorepubblicani, da una parte e l'altra dell'emiciclo, facevano capolino dall'uscio di casa

A scostare la tenda di casa ci provò Achille Occhetto. era il 1988, e non finì molto meglio.

Un bacio con la moglie Aureliana Alberici, in copertina su Venerdì di Repubblica, da quella Capalbio poi diventata meta prescelta della politica ztl. Un mezzo per il fine: dimostrare che la modernità aveva bussato al portone di Botteghe Oscure. Fu scandalo: per tenere buona la base il Pci finì per organizzare mini-referendum con i militanti alle feste dell'Unità, che infine «assolsero» il segretario. (…)

Poi arrivarono i social e via alla rivoluzione. La privacy diventa eccezione, la messa in piazza la regola. E anche qui, come in tutte le grandi cesure della storia, c'è chi cavalca e chi subisce. L'ERA SOCIAL Alla prima schiera appartiene Matteo Salvini, leader on-life, il primo a cogliere il potenziale dell'arena social 2.0: Instagram, soprattutto, adesso anche Tiktok. Per il «Capitano» famiglia e politica si intrecciano in un nodo solo. Padre premuroso, raccontano, forse non il più discreto.

(…) Quante gite, pranzi, cene immortalate su Twitter e Instagram da Carlo Calenda con i figli e la moglie Violante, di cui ha voluto condividere pubblicamente la malattia. Perfino chi, come i Cinque Stelle, ha sempre tuonato contro il binomio famiglia-politica, alla fine si è concesso agli obiettivi. Dalle foto floreali dei baci fra Luigi Di Maio e Virginia Saba - un refresh d'immagine per l'allora capo politico -, alle uscite a favor di telecamera di Giuseppe Conte e Olivia Paladino fino alle scenette social di casa Raggi, con il marito Andrea a puntellare la bacheca di scatti della sua Virginia, ora in cucina, ora sulla scrivania. (…)

Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 17 agosto 2022.  

«Tengo famiglia». Un dato di fatto, un tratto antropologico (di lunga durata), un tema politico a tutti gli effetti (sfociante spesso nel malcostume). La "questione parentale" in Italia è un prisma con tante facce, e - tramontata la società cetuale - riaffiora immancabilmente sotto le vesti delle varie Parentopoli. 

Il Sud Europa, si sa, è la culla delle tribù, dei clan e del familismo, tendenzialmente amorale (per citare la celebre, e un po' datata, formula di Edward Banfield), che può farsi pure disinvoltamente e direttamente immorale.

La nostra è una delle nazioni che vanno più agevolmente a nozze con l'antipolitica; e, dunque, talvolta, su questo soggetto si registra pure qualche eccesso di sensibilità, facendo, così, irrompere nel dibattito una certa qual tendenza al savonarolismo e a un'indignazione moraleggiante degna di miglior causa. 

La candidatura del parente di chi già detiene una carica importante nel mondo politico identifica una prassi assai diffusa anche stavolta, alla vigilia delle elezioni del 25 settembre. Un autentico partito trasversale, dove non esiste colore od orientamento "ideologico" che tenga al punto di immunizzare rispetto alla pratica (o alla "tentazione").

E non c'è neppure tematica di genere che faccia davvero la differenza, dal momento che nelle liste dei vari partiti trovano spazio "mogli/compagne di" come pure "mariti/compagni di" e "figli/figlie di" (e i rumors dei palazzi romani insinuano anche "amanti - di ogni sesso - di", ma ci fermiamo qui perché la "calunnia è un venticello" e qui ci sforziamo, invece, di fare analisi). E lo diciamo proprio per introdurre un po' di "political correctness" in un contesto molto scivoloso, nel quale basta poco per travalicare la cronaca o la critica ed entrare nelle paludi della misoginia e del sessismo.

Scorrendo i nomi che scenderanno nell'agone delle politiche 2022, da giorni tiene banco una polemica sulla presenza di Michela Di Biase (moglie di Dario Franceschini) e di Elisabetta Piccolotti (moglie di Nicola Fratoianni). Una querelle che trova alimento anche nel centrosinistra, dove le esclusioni dal posto in lista o la corsa obbligata in collegi che si presentano come mission impossible - specie alla luce dei timori crescenti di una valanga neroverdeblu di destra nelle urne - rendono gli animi assai esacerbati. 

Il giudizio di tanti oscilla così vorticosamente, arrestando le sue lancette sull'epochè, fra l'idea che la candidatura costituisca il corretto riconoscimento di una militanza di lungo periodo (che precede l'incontro con il leader e il passaggio alla condizione di compagna di vita) e la domanda se le valutazioni di opportunità non suggerissero comunque agli eredi della sinistra della "questione morale" di operare scelte differenti.

Ma poi, a relativizzare, come sempre in Italia, c'è giustappunto la constatazione del "così fan tutti". Nella Lega si leva, infatti, qualche voce di protesta - senza esagerare, trattandosi dell'ultimo partito "lenin-stalinista" - perché un collegio sicuro è stato assegnato ad Andrea Barabotti, che del Carroccio è attivista effettivamente da tanto tempo, ma di cui non si può non notare anche il fatto che si tratta del compagno della pasionaria salviniana Susanna Ceccardi, l'europarlamentare già protagonista del tentativo (fallito) dell'assalto al "palazzo d'Inverno" della Regione Toscana.

E che dire delle parlamentarie del Movimento 5 Stelle, convertitesi nuovamente in una sorta di "familiarie", nelle quali si sono messi in lizza numerosi parenti di chi già ricopre un ruolo, da Davide Buffagni (fratello di Stefano) a Samuele Sorial (fratello dell'ex deputato Giorgio), da Ergys Haxhiu (compagno della ministra uscente Fabiana Dadone) a Paolo Trenta (fratello dell'ex ministra Elisabetta)? 

E, ancora, last but not least, si deve citare il capogruppo alla Camera di Fdi Francesco Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni, e pilastro di un inner circle dove i connotati endogamici si spiegano anche con la natura di "polo escluso" della destra postmissina, e con la sindrome di accerchiamento che i suoi dirigenti, oggi pronti a espugnare per la prima volta palazzo Chigi, hanno vissuto in maniera particolarmente sentita. 

In alcuni di questi casi - e, paradossalmente, soprattutto da parte di alcune forze di ascendenza populista che avevano tuonato contro il professionismo politico - agisce l'istinto "umano troppo umano" di utilizzare le elezioni come un ufficio di collocamento, ancor più nello spaventevole orizzonte di destino della jobless society. 

In altri ancora gioca la concezione di una blindatura del potere per consanguineità, garanzia della sua tenuta e dell'osservanza fedele delle decisioni. L'impressione è, così, quella di politiche familiari che rischiano di fare rima con quelle dinastiche "di antico regime". E, allora, bisognerebbe tenere anche a mente che le società democratiche sono quelle dove il merito dovrebbe prevalere sul retaggio e il lignaggio "di sangue". Specialmente quando il consenso e la legittimazione generale calano, e il numero degli astensionisti aumenta.  

Mogli in Parlamento, lady Franceschini e la signora Fratoianni verso la candidatura. Domenico Alcamo su Il Tempo il 09 agosto 2022

La politica è sentimento, dunque è assai probabile che si intrecci con l'altro sentimento, il più nobile di tutti, l'amore. La stracitata metafora italiana di tutto ciò fu la liason tra Palmiro Togliatti e Nilde Iotti, che continuarono a chiamarsi per cognome in pubblico, nelle lunghe giornate in cui la vita s'agganciava alla prassi del Partito Comunista Italiano. È storia, quella.

Eppure tra cuore sentimentale e cuore dell'impegno vi è un intreccio difficile da districare, che spesso emerge dai rumors e piomba nel confronto pubblico. Come in questa tornata elettorale. In cui pare certa la corsa di Michela Di Biase, consigliera regionale del Pd, un passato in Campidoglio, sposata con Dario Franceschini. Ora, pare che ella sia in procinto, dopo anni di politica territoriale, di compiere il grande salto, e sostenere che il consorte veda la cosa di buon occhio è un eufemismo. Così come si è molto scritto e sussurrato, in questi giorni, circa il destino di Elisabetta Piccolotti. Trattasi della moglie del leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, e dirigente del partito in Umbria. Ultimamente lei è molto presente sui talk televisivi e i retroscena hanno dato conto di un impegno del marito per assicurarle lo sbarco in Parlamento, che lei mancò, la volta scorsa, per un soffio. Così come, a quanto pare, sarà sicuramente confermata alla Camera Marta Fascina, compagna di Silvio Berlusconi. Una storia, la loro, nata nel corso di questa legislatura, e venuta alla luce nella fase iniziale del Covid. Al di là dell'aspetto patinato della liason, un certo ruolo politico di Marta Fascina si è appalesato durante i concitati vertici del «centrodestra di governo» (espressione ormai desueta) nei giorni della crisi dell'esecutivo Draghi.

E poi c'è un evergreen, ossia Clemente Mastella. Anche lui pare che stia lavorando per una riconferma della sua signora, Sandra Lonardo, per quanto sia tutto molto difficile, specie considerando la corsa solitaria del movimento «Noi di centro». In questa legislatura, peraltro, Lonardo è stata il prolungamento parlamentare delle strategie del marito, sindaco di Benevento. Appena lui provò, con le sue interlocuzioni, a gettare le basi per un terzo governo di Giuseppe Conte (prodromico a una nascita di un partito personale), lei uscì da Forza Italia e se ne andò al gruppo misto del Senato, nell'ottica di sostenere questo nuovo esecutivo. E poi c'è anche un caso inverso, per quanto virtuale. Qualche giorno fa, un sito che si occupa di questioni piemontesi, Lospiffero, ha rivelato un cambio di testimone, dove stavolta un «lui» subentrerebbe a una «lei». Si tratta del ministro uscente Fabiana Dadone. Pentastellata, è al secondo mandato e come noto non è stata sancita la deroga al limite. Per questo motivo, il sito riportava l'ipotesi di una corsa del suo compagno. Un altro sito di cronaca locale, poi, ha confermato l'evoluzione della cosa. Durante una riunione di attivisti, Ergys Haxiu, questo il nome dell'uomo, avrebbe annunciato l'intenzione di autocandidarsi per le «parlamentarie».

(ANSA il 9 agosto 2022) - La questione della raccolta firme "pesa zero". Lo torna a ribadire il leader di Azione, Carlo Calenda che a Morning News su Canale 5 ha spiegato: "ieri il Parlamento europeo ha mandato al Viminale la certificazione che io sono stato eletto in una lista composita, quindi non è un problema l'esenzione che è a piena norma di legge".

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Carlo Calenda e i suoi devono decidere se fare o no l'accordo con noi, se fare una lista unica. Noi siamo disponibili a stare in squadra perchè il Terzo polo sarebbe la grande sorpresa delle elezioni e solo con un terzo Polo forte si potrà chiedere a Draghi di rimanere a Palazzo Chigi". Lo afferma Matteo Renzi parlando a Omnibus.

Felice Manti per “il Giornale” il 9 agosto 2022.  

«Matteo Renzi e Carlo Calenda somigliano a quelle calamite che giocano ad attrarsi e a respingersi». La metafora di uno dei tanti sherpa che sta lavorando dietro le quinte all'accordo elettorale tra i due ex Pd spiega meglio di altre immagini la complessità di costruire un progetto politico con due personalità così profondamente pronunciate. «Non c'è una stanza abbastanza grande da contenere contemporaneamente l'ego di entrambi», ci dice la fonte, ma alla fine alle prossime Politiche la loro sarà una coppia di fatto. «Lo chiede la legge elettorale, che per una coalizione chiede una soglia improponibile al momento, il 10%. Soprattutto se confrontata con la soglia minima per avere diritto di tribuna in Parlamento, che per una lista scende al 3%», spiega l'esperto. 

I due dicono di essere amici ma sono due pescatori che si contendono lo stesso stagno centrista, con le stesse esche elettorali, tra colpi di testa e colpi di tweet. Nel 2013 Renzi plaudì alla sua nomina a viceministro dello Sviluppo economico. «Abbiamo bisogno di persone che facciano politica bene come Calenda sicuramente sta facendo e farà per il futuro», disse da sindaco di Firenze nel 2013. Sarà Renzi da neo premier - dopo lo sfregio a Enrico Letta - a offrire a Calenda la stessa prestigiosa poltrona al ministero, che scalerà dopo l'addio di Federica Guidi. 

Quando Renzi venne sfrattato da Palazzo Chigi dopo il flop al referendum Calenda restò allo Sviluppo ma fu uno dei primi a offrirgli una mano: «Credo che possa cambiare e lo farà, ha delle caratteristiche di leadership non comuni e noi ne abbiamo bisogna ma prima deve passare dall'io al noi». 

Amici sì, fedeli no: «Con Renzi ho avuto sempre un rapporto molto franco e diretto. E penso che questa sia la base per un rapporto di lealtà. Altra cosa è la fedeltà, ma quella si giura da ministro ai cittadini e alla Costituzione». A Renzi Calenda ha sempre rimproverato il limite del suo «caminettino con Luca Lotti e Maria Elena Boschi», e insieme intuirono che la stagione del Pd riformista che Renzi voleva era al capolinea. «Se il Pd continua con il cupio dissolvi, farò altro», disse Calenda nel 2018 quando Renzi fece capire che al Nazareno si sentiva un estraneo.

Il loro addio al Pd fu simile, anche se Calenda rimproverò a Renzi «l'indebolimento del governo», salvo poi definirlo uno dei tanti «riformisti rammolliti», che sta con M5s, ne vota i provvedimenti e poi dice che si è sbagliato. È più retorico di Giuseppe Conte, meno coerente di Clemente Mastella. Come un ottimo presidente del Consiglio si possa ridurre a questo non lo capirò mai...», disse all'indomani della mancata sfiducia di Iv all'allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, escludendo «totalmente» un suo riavvicinamento al leader di Iv considerato «incomprensibile, scorretto, né lineare né trasparente», beccandosi da Renzi l'accusa di essere «vittima della sindrome del beneficiario rancoroso». 

Poi, complice la corsa di Calenda al Campidoglio, fu Renzi a fornire un endorsement molto gradito dal leader di Azione, che incassò un discreto successo: «Secondo me sarà la grande sorpresa, e sarà un bene per la Capitale». E così per mesi, fino a qualche giorno fa. Su tweet le accuse, su whatsapp gli smile e i complimenti, animati dall'idea comune di «abbandonare gli egoismi e costruire una casa comune che vada in doppia cifra».

Ma per quella c'è tempo, ora basta il 3%. Anche la querelle sulle firme è l'ennesima boutade elettorale di questa campagna degna di Zelig. 

«D'altronde, il tempo ci sarebbe. La legge prevede che se ne raccolgano 375 alla Camera e altrettante al Senato in ognuno dei collegi proporzionali. Firme perfettamente sovrapponibili per entrambi i rami del Parlamento, ora che il limite dell'elettorato attivo è sceso a 18 anni anche per Palazzo Madama. In più, siccome sono elezioni anticipate di più di sei mesi rispetto alla scadenza naturale, bastano meno di 200 firme a collegio. Non un'impresa titanica». 

Ci sarebbe anche il problemino della lista elettorale collegata. «Già, in teoria le firme sostengono una lista di persone, il Viminale fa spallucce. E comunque siccome Renzi è in Parlamento il problema non si pone». Il matrimonio s' ha da fare, mancano solo le pubblicazioni e la lista (di nozze).

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Una delle regole più scontate, soprattutto quando si rompe di colpo un'alleanza, è cercare di seminare zizzania nel campo avverso. Ho il timore che a questo sia dedito Calenda che prima ha più volte sottolineato di avere telefonato a me e non a Letta e ora ammicca addirittura al fatto che io avrei 'capito perfettamente' le sue ragioni". Lo dice all'Ansa il ministro della Cultura, Dario Franceschini (Pd). "In effetti ho capito le sue motivazioni, totalmente sbagliate, e quando, nel corso di quella telefonata, ho cercato di parlarne, mi ha bloccato dicendo: non ho chiamato per discutere ma per comunicare una decisione già presa".

INTERVISTA A CARLO CALENDA. Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 9 agosto 2022.

[…] Poi va in tv e annuncia la rottura senza nemmeno avvertire Letta.

«Se qualcuno continua a ripetere questa storia dovrò chiedere a Letta il permesso di leggere i 30 messaggi. Tre ore prima del programma di Annunziata chiamo Franceschini e gli confermo la decisione: questa coalizione non si tiene in piedi. E lui capisce perfettamente». 

Sta dicendo che Franceschini le ha dato ragione?

«Questo deve chiederlo a lui. Il problema del Pd è sempre lo stesso, siccome non si sente in grado di rappresentare tutta la sinistra, mette dentro chiunque. Temevano che Fratoianni e Bonelli andassero con Conte. A fare cosa, Melénchon con la pochette? È finita a bordello e per la sinistra sarà una sconfitta clamorosa». […]

Il disastro Pd porta la firma di quattro “geni”: Letta, Franceschini, Guerini e Prodi. L’attacco del Fatto. Milena Desanctis il 9 Ago 2022 su Il Secolo d'Italia.

Il Fatto Quotidiano punzecchia i «quattro geni del disastro Pd». E li elenca uno ad uno: “Letta, Franceschini, Guerini e Prodi”. Si parte con il segretario dem. «Il disastro  – scrive il quotidiano – è uno solo, ma i responsabili sono molteplici. La corte spietata a Carlo Calenda, nel Pd, ha avuto almeno tre padri illustri. Quello che ci ha messo la faccia e oggi raccoglie i cocci ovviamente è Enrico Letta. Il giorno dopo è quello dei rimpianti (“Sono stato ingenuo”, scrive il segretario dem) e delle ironie. Gira la fotografia inclemente del bacio sulla guancia stampatogli da Calenda martedì scorso, dopo aver firmato le due pagine di un accordo durato cinque giorni. Un bacio “di Giuda”, dicono ora al Nazareno».

Pd, il “Fatto” su Franceschini

A finire sulla graticola è poi l’ex ministro della Cultura. «Sulla svolta a destra si legge in chiaro la firma dell’eterno tessitore, Dario Franceschini». Per il Fatto «è diventato protagonista della nuova stagione e del nuovo progetto (come lo era stato di tutti i precedenti), il suo ruolo è stato riconosciuto dallo stesso Calenda: il ministro della Cultura è stato il primo esponente del Pd ad essere avvertito della sua scelta di rompere il patto, come ha detto domenica nell’intervista di Lucia Annunziata

«Tra gli interpreti della volta a destra c’è Guerini»

Tra gli interpreti “influenti della svolta a destra”, scrive ancora il quotidiano «c’è anche Lorenzo Guerini, un altro ministro del governo Draghi (alla Difesa). In queste settimane si è preso cura non solo del rapporto con Calenda ma anche di quello con +Europa, interloquendo soprattutto con Benedetto Della Vedova. Guerini è il meno ex tra gli ex colonnelli di Matteo Renzi, ha sposato con convinzione l’operazione centrista e ha lavorato per aprirla anche a Italia Viva. Ieri era uno dei più delusi dalla giravolta del capo di Azione».

Pd, il Fatto: «Il padre nobile erede della Dc: Prodi»

Il Fatto poi cita anche Roberto Gentiloni. «A questi tre padri politici se ne potrebbe aggiungere  un quarto Roberto Gentiloni: sono tutti e quattro ex democristiani. E poi il padre nobile, anch’egli erede della Dc: nemmeno Romano Prodi ha fatto mancare il suo sostegno, sempre influente, all’operazione Calenda. Puntuale era arrivato il suo commento alla notizia dell’alleanza con il Pd, martedì scorso: “Sono molto contento dell’intesa siglata tra Pd e Azione/+Europa – aveva fatto sapere il Professore – non solo perché si tratta di un accordo elettorale che rende molto più forte la coalizione, ma anche perché questo accordo comprende finalmente una comune strategia su scelte determinanti per il futuro del Paese”. Altrettanto puntuali  – conclude il Fatto – le doglianze e la sorpresa, ieri, per lo scarto di Carletto: “Le motivazioni di Calenda sono incomprensibili”. Era comprensibile invece fidarsi di lui?».

Da nextquotidiano.it il 9 agosto 2022.

Lo ha chiamato “sogno di mezza estate”, ma l’effetto finale è quello di un vaneggiamento condito da gaffe storiche sulla storia dell’Italia. Marco Travaglio, nel suo editoriale di oggi su Il Fatto Quotidiano, prova a ironizzare – ma neanche troppo – sulla decisione che dovrebbe prendere Enrico Letta (e altri esponenti del Partito Democratico) dopo il tira e molla e la rottura con Carlo Calenda. 

E per farlo, prova a utilizzare un paragone storico: dovrebbero dimettersi come fece Armando Diaz dopo la disfatta di Caporetto durante la prima guerra mondiale. Sì, Armando Diaz: colui il quale venne promosso dopo la disastrosa campagna militare guidata da Luigi Cadorna (che venne destituito).

Travaglio e la gaffe sulle dimissioni di Armando Diaz dopo la disfatta di Caporetto

Una gaffe che racconta di un falso storico utilizzato malamente per cercare di ironizzare e criticare il comportamento di Letta e degli altri esponenti del Partito Democratico. 

“E ora la fantapolitica. Letta e i vicedisastri Franceschini, Guerini&C., come Diaz dopo Caporetto, si dimettono. E nominano reggente del Pd l’unico leader che ancora scaldi il cuore del fu elettorato di sinistra: Bersani”. 

I dettagli del seguito di questa storia di fantapolitica sono le scuse di Bersani (a nome del Partito Democratico) a Conte e la creazione di un tavolo per scrivere un programma condiviso tra PD e M5S. Questo il sogno di mezza estate di Travaglio. Ma a fare rumore è la clamorosa gaffe storica. 

Perché la storica disfatta di Caporetto, durante la prima guerra mondiale (era l’autunno del 1917), non vedeva un fronte italiano guidato da Armando Diaz. Al vertice dell’operazione militare c’era l’allora generale Luigi Cadorna che dopo la sconfitta venne destituito.

Insomma, non si dimise per propria volontà, ma fu invitato a farlo. Cadorna e non Armando Diaz. Perché quest’ultimo fu proprio promosso, al posto di Cadorna, dopo che quest’ultimo si rese protagonista della più grande sconfitta italiana durante il primo conflitto mondiale. E, sotto la sua guida, l’esercito italiano risollevò le sue sorti. E, leggendo l’editoriale di Travaglio sotto questa corretta chiave storica, sembra quasi un buon auspicio a Enrico Letta.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 10 agosto 2022.

Scrive Marco Travaglio nel suo editoriale di ieri sul Fatto quotidiano: «E ora la fantapolitica. Letta e i vicedisastri Franceschini, Guerini & C., come Diaz dopo Caporetto, si dimettono». Il direttore è troppo modesto. Non è solo fantapolitica ma anche e soprattutto fantastoria. 

Infatti, a Caporetto, lo sconfitto fu il generale Luigi Cadorna. Inoltre Cadorna non si dimise. Fu esonerato dopo aver scaricato ogni colpa della disfatta sui soldati e sui politici. Al suo posto, venne chiamato il generale Armando Diaz. 

Sotto il comando di Diaz, l'esercito riuscì a riorganizzarsi e passare al contrattacco. La battaglia di Caporetto, finita con la rotta degli italiani, si svolse tra ottobre e novembre del 1917. 

Su Cadorna si è scritto di tutto. Alcuni storici lo ritengono incompetente e insensibile verso le condizioni dei soldati. Al fine di tenere alto il morale, si fa per dire, ordinò la fucilazione dei supposti codardi, possibilmente senza perdere tempo con la corte marziale. 

Ciclicamente qualche Comune cancella o prova a cancellare le piazze dedicate al generale. Altri storici ne rivalutano almeno in parte la strategia e l'intelligenza militare. Una cosa è certa: era il numero uno quando le nostre divisioni furono travolte a Caporetto. Per questo fu defenestrato.

Diaz diventò Capo di Stato maggiore nella notte dell'8 novembre 1917, rimpolpò le truppe richiamando i nati nel 1899 (gli eroici «ragazzi del '99»), ebbe un notevole aiuto dagli Alleati, ristrutturò la catena di comando, concentrò gli sforzi sulla prima linea, passò all'attacco e alla fine del 1918 ottenne la vittoria contro l'Austria, che capitolò il 4 novembre, quasi un anno esatto dopo Caporetto. 

Tutte cose che, siamo pronti a scommettere, Travaglio conosce alla perfezione. Un lapsus, dopo aver frequentato a lungo i grillini, intesi come partito, è il minimo che possa accadere. 

Non si può uscire indenni da prolungati colloqui con i leader del Movimento 5 stelle, famosi soprattutto per gli sfondoni in ogni campo, dal congiuntivo alla scienza, passando per il diritto e qualunque altro argomento.

Chiariamo: non che gli altri schieramenti siano pieni di cervelloni, anzi, ma nel Movimento c'era e c'è una miscela esplosiva di talenti completamente mancati, dal governativo Luigi Di Maio, secondo il quale Pinochet era un dittatore venezuelano, all'extra parlamentare Alessandro Di Battista, secondo il quale Napoleone aveva combattuto la famosa battaglia di Auschwitz. Senza contare i perfetti (s)conosciuti giunti al governo convinti che Beirut fosse in Libia e l'Ucraina facesse parte dell'Unione europea. In questo senso, Travaglio è solo una vittima, come gli (ex) elettori del Movimento, e gli siamo vicini.

Per gli Usa Di Maio è il cavallo di Troia di Pechino. Felice Manti l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il report al Congresso sui legami con il regime cinese, dal 5G alla narrazione sul Covid 19

«Luigi Di Maio è l'uomo di Pechino in Italia». Un documento ufficiale sulla Cina del Congresso degli Stati Uniti d'America datato dicembre 2020 certifica le ombre sull'attuale ministro degli Esteri. L'ex leader M5s oggi professa il suo atlantismo, ma il suo acrobatico curriculum in fatto di lealtà politica rende la sua professione di fede poco credibile.

All'intelligence americana non sono mai andate giù certe liaisons dangereuses con Pechino, dal mancato blitz del governo di Giuseppe Conte sulla tecnologia 5G, che i grillini volevano regalare a Huawei - considerato dagli 007 il grande orecchio del regime cinese - fino alla gestione della pandemia di Covid 19. Un innamoramento, quello di Di Maio per la Cina, celebrato ufficialmente il 18 settembre del 2018 quando l'allora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, nella sua prima visita extra Ue, si presentò nel Sichuan accompagnato dall'ambasciatore Ettore Sequi. «La Via della Seta è una grandissima occasione commerciale per le nostre imprese e per tutti noi, in cui ho creduto dal mio primo viaggio in Cina», ha sempre detto l'ex grillino. E quando a fine 2019 si iniziò a parlare del Covid, Di Maio lanciò l'appello: «Serve uno scatto di solidarietà verso la Cina».

In un passaggio del Report 2020 consegnato al Congresso Usa si legge: «Il ministro degli Esteri Luigi di Maio, che ha pianificato l'ingresso dell'Italia nella Via della Seta (definita Bri, Belt and road initiative) è chiaramente predisposto a favorire la Cina», tanto da aver messo «particolarmente in luce (arguably highlighted)» gli arrivi di aiuto «dalla Cina, non quelli degli Stati Uniti», alimentando in modo sproporzionato la percezione che solo la Cina l'abbia effettivamente fatto».

Un regalino mediatico che non è sfuggito nemmeno al German Marshall Fund Usa, un think tank indipendente che ragiona sui rapporti tra Europa e Stati Uniti. In un documento GmfUs si legge: «Le photo opportunities sono propaganda e disinformazione, un metodo consolidato per riscrivere la narrazione del virus», a cui anche l'Italia si è prestata. Il 12 marzo Di Maio infatti esaltò la donazione degli aiuti cinesi in un video sui social: «Questo è quello che noi definiamo solidarietà e sono sicuro che ne arriverà altra».

Che Di Maio abbia spalancato le porte dell'Italia alla Cina lo dicono tre anni di dichiarazioni e il suo (fallito) tentativo di fare da paciere con l'inutile vertice a tre in Italia con Usa e Cina. E quando Beppe Grillo si presentò all'ambasciata cinese Di Maio fece spallucce («visita a titolo personale»), tanto che Benedetto Della Vedova di +Europa (che oggi è ospite delle liste Pd come lui) definì la sua gestione della Farnesina «un'inutile sudditanza alla Cina». Anche Fdi denunciò il tentativo di «svendere l'Italia alla potenza del turbocapitalismo comunista che ci sta spolpando». Il Copasir lanciò l'allarme su Huawei e 5G, Di Maio disse che aveva rassicurato Washington ma il segretario di Stato Mike Pompeo lo smentì a stretto giro di posta: «La Cina ha un approccio predatorio e rappresenta una minaccia comune per i nostri Paesi». Ma il top Di Maio lo ha toccato in un collegamento al Tg2: «Chi ci ha deriso sulla Via della Seta ora deve ammettere che investire in questa amicizia ci ha permesso salvare vite in Italia». Infatti abbiamo il più alto numero di morti per Covid al mondo, e una Procura si sta occupando della tragica gestione dell'emergenza del governo Conte. E non ci sarà niente da (de)ridere.

Luigi Di Maio candida l'amica "gretina": chi è e cosa fa. B.B. su Libero Quotidiano il 10 agosto 2022

Gigino diventa "gretino" è un gioco di parole fin troppo scontato per attaccarci un pezzo, eppure è fattuale. Il ministro degli Esteri, fondatore con Bruno Tabacci di Impegno Civico, dopo avere stretto un accordo con il Partito Animalista Italiano, ha annunciato con entusiasmo l'ingresso di Federica Gasbarro nella sua formazione. Chi è costei? Un'attivista green, considerata la Greta Thunberg italiana, autrice di tre libri e inserita nei cento Number One di Forbes Italia, la classifica degli under 30 italiani leader del futuro 2021. La 27enne è stata l'unica italiana scelta dalle Nazioni Unite al primo raduno di giovani leader al Palazzo di vetro di New York durante il vertice per il Clima 2019. Di Maio deve averla conosciuta in qualche evento nazionale e internazionale e ora ha pensato di puntare su di lei sia per attrarre voti dalle nuove generazioni, sia perché il tema climatico è l'ultimo cavallo di battaglia cavalcato dal partito dei sindaci (vedi Beppe Sala a Milano e Dario Nardella a Firenze).

Il titolare della Farnesina, quindi, ha subito lanciato «una legge sul clima» che sarà ai primi punti del programma elettorale di Impegno Civico, nella speranza di racimolare consensi qua e là, visto che gli ultimi sondaggi danno la sua formazione all'1,5%, in calo rispetto a una settimana fa e ben sotto la soglia necessaria per entrare in Parlamento. «La riconversione ecologica sarà una delle nostre priorità», ha detto Iolanda Di Stasio, capogruppo alla Camera di Ic, mentre l'azzurra Stefania Prestigiacomo ha definito «imbarazzante» il Di Maio «Green-llino».

L'ambiente, del resto, è sempre stato un chiodo fisso dei Cinquestelle ed evidentemente anche di quelli che hanno lasciato il Movimento per tuffarsi in nuove avventure. A Roma la sindaca Virginia Raggi (rimasta fuori dalle liste delle Parlamentarie) aveva vietato le bottigliette d'acqua in Campidoglio per privilegiare le brocche di vetro e tra i risultati sbandierati dalla sua amministrazione ha sempre citato le macchinette mangia-plastica, mentre i cittadini si aspettavano strade pulite e cassonetti svuotati dai rifiuti. Ieri alla Camera i pentastellati erano in prima fila a votare il ddl sulle celebrazioni per l'ottavo centenario della morte di San Francesco d'Assisi, perché «noi ci ispiriamo al suo insegnamento e siamo convinti che la vita di Francesco possa costituire anche oggi un messaggio per tutti i decisori politici», ha detto il deputato M5S Marco Bella. Gigino non è più grillino, da quando ha sbattuto la porta e ha mollato Conte. Ma l'anima ambientalista pervade anche il suo partito, ora che è alleato con Pd, Sinistra italiana ed Europa Verde. E chissà che l'ex amico Di Battista non torni con lui... 

Letta punta su economia e giustizia sociale. Carlo Cottarelli e Ilaria Cucchi spiegano perché si candidano. Linkiesta l'11 Agosto 2022

L’Italia è «a un bivio economico», dice l’economista candidato da Pd e PiùEuropa. «Essere progressista vuol anche dire essere solidali con chi è stato meno fortunato della vita, avere quindi una tassazione progressiva, non una flat tax». E la sorella di Stefano Cucchi anticipa già le critiche: «Mi diranno che sfrutto la vicenda di mio fratello? Io dico che la utilizzerò affinché sia un esempio per tutti»

L’economista Carlo Cottarelli si candiderà alle prossime elezioni con Pd e PiùEuropa. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e l’attivista sindacale Aboubakar Soumahoro si candideranno con Sinistra Italiana e Verdi. Sono i primi nomi annunciati dalla coalizione di centrosinistra in vista delle elezioni del 25 settembre.

In un’intervento su Repubblica, Cottarelli spiega il perché della sua candidatura. «La decisione è stata rapida per un motivo ben preciso. Le prossime elezioni sono le più importanti che abbiamo avuto da anni e, forse, che avremo nei prossimi anni e mi sembrava giusto scendere in campo (si dice così, no?) direttamente», scrive l’economista. «Perché questa importanza? Primo perché si confrontano, in modo netto, due visioni politiche del mondo, una progressista e una conservatrice. Secondo, perché i prossimi anni saranno decisivi per il futuro economico del nostro Paese».

Per l’economista che guida l’Osservatorio sui conti pubblici italiani, «l’Italia è a un bivio politico. Le due visioni del mondo, quella conservatrice e quella progressista sono entrambe legittime. Ma sono visioni molto diverse. Per me essere progressista vuol dire mettere al centro della politica la giustizia sociale, intesa come possibilità di crescita personale che tutti devono avere indipendentemente dal fatto di essere nati da una famiglia benestante o meno, dal fatto di essere nati maschi o femmine, dal fatto di essere nati al Nord, al Centro, al Sud, o con disabilità o meno. È l’articolo 3 della nostra Costituzione: dare una possibilità a tutti. Essere progressista vuol anche dire essere solidali con chi è stato meno fortunato della vita, avere quindi una tassazione progressiva, non una flat tax (la cui progressività è minima). Vuol dire combattere l’evasione fiscale e non pensare sempre a che nome debba avere il prossimo condono fiscale mascherato, in modo che il peso delle tasse sia distribuito in modo più equo e non ricada solo su chi ora paga per gli altri». E ancora: «Essere progressista vuol dire guardare all’Europa come entità politica che si deve sviluppare ulteriormente, perché la sua voce nel mondo conti di più. E non guardarla, come altri fanno, solo come capro espiatorio quando le cose vanno male in Italia. Essere progressista vuol dire tutelare l’ambiente perché le prossime generazioni abbiano le stesse possibilità che abbiamo avuto noi, e non minimizzare i rischi climatici. Essere progressista vuol dire avere uno stato che funziona bene, che non sia di peso per le imprese con la sua burocrazia. Ridurre la burocrazia è il miglior sussidio che possiamo dare alle nostre imprese».

L’Italia è «a un bivio economico», secondo Cottarelli. «Il Pnrr è stato portato avanti con energia dal governo Draghi. Questo, insieme a un uso oculato delle risorse messe a disposizione dall’Unione Europea e dalla Bce ha consentito una forte ripresa. Non siamo più il fanalino di coda dell’Europa». Ma «gli spazi di bilancio andranno inevitabilmente a ridursi. Diventa allora fondamentale usare le più limitate risorse in modo oculato, dando priorità alla pubblica istruzione, alla sanità, agli investimenti pubblici. Temo che, forse non tutta, ma una parte della destra, non si renda ben conto che il vincolo di bilancio diventerà più stretto nei prossimi anni. Non si spiegherebbero altrimenti le promesse elettorali già in circolazione».

Da più di un anno Cottarelli ha lavorato sia come presidente del Comitato Programma per l’Italia creato da Azione e PiùEuropa, sia con il Pd, come membro dell’Osservatorio degli indipendenti delle Agorà Democratiche. «È stato quindi per me naturale accettare l’offerta che veniva dal PD e da PiùEuropa», dice. «Mi è molto spiaciuto che non sia stato possibile portare avanti in modo unitario anche con Azione un percorso elettorale comune. Ma occorre guardare in avanti. Occorre capire che, seppure su strade diverse, ci accomuna la visione progressista del mondo, non la visione conservatrice che viene portata avanti dalla destra. E spero che, d’ora innanzi, tutti vedremo come avversario politico principale chi porta avanti quella visione conservatrice che non ci sentiamo di condividere».

Anche Ilaria Cucchi, in un’intervista. Repubblica, spiega perché sarà candidata alle prossime elezioni con Sinistra italiana e Verdi. «Lo dico già, voglio essere strumentalizzata per la vicenda di Stefano. Porterò l’esperienza maturata sul campo per portare avanti una battaglia sui diritti», sottolinea subito. Già sa quali saranno le critiche che le pioveranno addosso durante la campagna elettorale e vuole ribaltare il concetto: «Mi diranno che sfrutto la vicenda di mio fratello? Io dico che la utilizzerò affinché sia un esempio per tutti».

Cucchi si è battuta strenuamente nelle aule di tribunale affinché venisse fatta giustizia per la morte di Stefano per mano di due carabinieri. Un caso giudiziario oggetto di un feroce dibattito politico, di contrapposizione tra destra e sinistra. Dopo anni è riuscita a far riaprire il caso in procura, fino a ottenere la condanna definitiva pronunciata dalla Cassazione lo scorso aprile nei confronti dei militari ritenuti responsabili di omicidio preterintenzionale.

Ma non è la prima volta che si candida. Nel 2013 accettò di correre alla Camera con Rivoluzione Civile, la lista guidata dal magistrato Antonio Ingroia, che non superò lo sbarramento del 4%. E stavolta crede di farcela. Non ha mai fatto politica. Ma «per certi aspetti faccio politica da 13 anni. Diciamo che l’ho fatta sulla mia pelle. Ecco… vorrei essere un esempio, tutto quello per cui ho combattuto vorrei che avesse una dimensione collettiva», spiega. «Vorrei battermi da un lato per una giustizia efficiente. Il diritto ad avere una giustizia che funzioni per tutti. Lo stesso tema riguarda la sanità».

Ilaria Cucchi sa già che la vicenda di suo fratello «sarà oggetto di critiche, sicuramente questo succederà. Lo metto in conto già da ora. Ma non mi creo problemi e non questo a fermarmi. Mio fratello è un simbolo di ingiustizia. E io mi impegnerò perché simili vicende non si verifichino più. Per questo ho deciso di candidarmi».

«Sì, strumentalizzo mio fratello Stefano: voglio difendere gli ultimi». Intervista a Ilaria Cucchi, candidata al Senato per l’Alleanza Sinistra Italiana-Verdi: «Mi batto per una giustizia che tuteli i diritti di tutti. Basta spot elettorali, le carceri sono discariche». Simona Musco su Il Dubbio l'1 settembre 2022.

«È vero, può scriverlo: io strumentalizzo mio fratello. L’ho fatto per 13 anni e continuerò a farlo, perché Stefano è diventato un simbolo e tramite lui riusciamo a dare voce a tutti gli altri ultimi. Altrimenti non saremmo arrivati fin qui». Ilaria Cucchi, sorella del giovane geometra romano arrestato per droga nell’ottobre 2009 e pestato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana, non ha paura delle accuse, non ha paura più nemmeno degli insulti, tanti, violenti, il più delle volte sessisti. «Un medico è addirittura arrivato a dire che mia madre ha partorito la gallina dalle uova d’oro, evocando la favola di Esopo. Sono parole che fanno male. Ma abbiamo le spalle larghe», racconta al Dubbio, mentre spiega la sua scelta di candidarsi al Senato per l’Alleanza Sinistra Italiana-Verdi. Una battaglia per i diritti, tema sparito dalla campagna elettorale, e «che faremo tra la gente che ha combattuto con noi per Stefano». Una battaglia contro «gli spot elettorali sulla giustizia» e per raccontare la «discarica sociale» in cui la politica ha trasformato il carcere.

Cosa ne pensa del dibattito sulla giustizia in questa campagna elettorale?

Che se ne parli poco. E mi chiedo se chi lo fa abbia mai dovuto affrontare un processo lungo 13 anni, così come ho dovuto fare io, che la giustizia l’ho vissuta sulla mia pelle. Lo scenario è abbastanza avvilente: assisto a questi talk show che sono diventati dei teatrini, in cui si parla di tutto e del contrario di tutto, ma non della cosa fondamentale, diritti e giustizia. A parlare è prevalentemente Giorgia Meloni, ma che soluzione ha trovato? Sono solo chiacchiere e slogan irrealizzabili. È chiaro che si tratta di spot, perché l’Italia non può rinunciare all’Europa. Le proposte in materia di giustizia e carcere vanno contro la Carta europea dei diritti fondamentali. Vuol dire o farci sanzionare o farci buttare fuori dall’Europa. Non si può rimanere quando c’è da prendere i soldi ed essere “fuori” quando si tratta di diritti.

Lei ha invitato i candidati a passare una settimana in cella per capire come funzionino le carceri, un tema che non è stato affrontato in alcun modo, nonostante i dati raccontino di un’emergenza senza fine, tra suicidi e violenze. 

È un problema enorme, che non possiamo continuare ad ignorare, ma nessuno ne parla. Anzi, la proposta in campo è di rendere le carceri ancor più dei ghetti, lontane dalla società. Si pensa di risolvere il problema rimandando gli immigrati a casa loro, ma questa non è una soluzione, è populismo. Siamo in un momento in cui piace far leva sulla paura della gente, ci piace parlare di sicurezza, ma si tratta di soluzioni pseudo securitarie. Quando si parla di depenalizzazione dei reati minori si parla alla pancia della gente, senza evidenziare che le sanzioni amministrative consentirebbero tempi più brevi e salverebbero la giustizia da quella burocrazia interminabile che toglie spazio a ciò che conta.

Come racconterà le carceri ai suoi elettori?

Come luoghi che, per come sono concepiti oggi, non possono far altro che creare ulteriori reati. Il problema non riguarda solo i detenuti, che vivono in condizioni disumane, ma anche tutti coloro che lavorano quotidianamente in una realtà che è brutale. Sono una vera e propria discarica sociale, dove le persone vengono semplicemente gettate via. Si parla di sovraffollamento, ma non si dice che la stragrande maggioranza dei detenuti ha commesso reati bagatellari e potrebbe stare a casa, mentre chi ha potere, molto spesso, sta tranquillamente a casa propria.

Com’è cambiata la sua idea di giustizia dopo il caso di suo fratello?

Appartenevo allo stereotipo di cittadino medio, benpensante, di famiglia medio-borghese, cattolica. Per questo comprendo benissimo il meccanismo che scatta nella gente di fronte a questi slogan: c’è bisogno di sentirsi rassicurati e si ascolta chi lo fa. La vita, poi, mi ha voluto dare questa lezione e da allora sono cambiata e ho capito qual è la realtà della giustizia.

E qual è?

Non è vero che è uguale per tutti, ma solo per chi se la può permettere. La giustizia spesso obbliga un cittadino comune, quale ero io, di farsi carico di un peso che non gli appartiene, ovvero sostituire lo Stato nelle aule di giustizia e anche fuori. In più ci si scontra anche con l’indifferenza e l’ipocrisia, che scarica sulle vittime anche la responsabilità della propria morte, come accaduto con mio fratello. Meloni, con tutto il rispetto, parla dall’alto della sua posizione, ma sicuramente, e sono contenta per lei, un processo non l’ha mai affrontato. Io posso dire benissimo quali sono i problemi dei processi, dopo 160 udienze e 16 gradi di giudizio, dei quali avrei volentieri fatto a meno. E questo mi porta a dire che il primo problema è il controllo effettivo delle indagini.

Che giustizia immagina?

Una giustizia che vada nella direzione dei diritti. Bisogna dare l’opportunità alla persona offesa, così come all’indagato, di avere un ruolo attivo, di poter vigilare sulle indagini. Vogliamo dare la possibilità ai gip di controllare meglio lo sviluppo delle indagini e l’operato degli accusatori, evitando quelle patologie che causano la lunghezza dei procedimenti. Indagini più controllate, garantite e funzionali sono la premessa necessaria di ogni possibile riforma seria della giustizia. Vogliamo maggiore autonomia per i sostituti procuratori nei confronti dei capi degli Uffici, perché, troppo spesso, gli scandali recenti ne hanno messo in evidenza la nomina come condizionata da poteri esterni alla vera funzione giudiziaria e contigui alla politica. E soprattutto vogliamo fare in modo che l’istituto del gratuito patrocinio sia molto più efficace nel garantire il diritto di difesa per coloro che non hanno disponibilità economiche, per gli ultimi. I temi centrali, in questa campagna elettorale, sono però altri, soprattutto di tipo economico.

Lei cosa propone?

I problemi nascono dalla negazione dei diritti, che devono essere garantiti e uguali per tutti. Lo Stato deve garantire a tutti, per esempio, la possibilità di sopravvivere, un lavoro o, se non può farlo, un reddito di cittadinanza. La sanità, poi, è di fatto privatizzata, così come la giustizia. La famiglia Cucchi si è potuta permettere 13 anni di processi perché aveva una casa da ipotecare, diversamente Stefano Cucchi sarebbe morto di suo, così come era stato deciso nelle indagini iniziali. Questi sono i veri problemi. Io sono un cittadino normale che si trova catapultata in questo mondo, dopo aver fatto politica sul campo tra la gente per anni. Non servono più le chiacchiere, non si possono usare le paure delle persone. Io ho paura di poter essere un giorno in mano a questa gente. Questa non è politica, ma cabaret. Ed è per questo che ci batteremo per portare la nostra voce.

Carlo Cottarelli per “La Verità” il 14 agosto 2022.

Carlo Cottarelli, il più tragico premier incaricato che la storia repubblicana ricordi, discetta di economia e molto altro su Repubblica, in una godibilissima intervista doppia con un altro interlocutore noto per la trascinante simpatia, Alan Friedman. Fresco candidato del Pd, l'economista trapiantato nel cuore della Cattolica con il suo indispensabile e neutralissimo Osservatorio dei Conti pubblici parla di economia, finanza, debito e Bce. 

E qui, oibò, l'ottimato ex Fmi, forte del suo palmares ad Atene e dintorni, spiega alle masse: «Siamo nelle mani della Bce». Bene, bravo, bis: è la stessa cosa che diciamo da settimane sulla Verità, a differenza di chi ha magnificato la bellezza dello «scudo» di Madame Lagarde. Poi aggiunge: «Se l'Italia fosse sotto pressione, il governo chiedesse aiuto e la Bce rispondesse: no, rivolgiti al Mes? Potrebbe essere catastrofico».

Oibò/2. Ma è lo stesso Cottarelli Carlo che, intervistato dal Dubbio nel 2019, diceva che il Mes l'avrebbe preso «perché il risparmio c'è»? O è per caso parente di quell'economista che scriveva che «La campagna #StopMes è solo demagogia. La proposta di riforma del Mes è sbagliata e l'Italia si deve opporre, ma il #Mes (il fondo salvastati) non va abolito.

Ne potremmo avere bisogno purtroppo. Sarebbe come se chi sta poco bene chiedesse di abolire l'ambulanza»? Sarà mica omonimo di quel Cottarelli che fino a ieri stava scrivendo il programma per Azione, il cui neo candidato Matteo Renzi chiede ogni due per tre l'utilizzo del Mes «pandemico»? Viene l'orrendo sospetto che di Cottarelli ce ne sia soltanto uno, e che abbia imparato da tempo una legge ferrea della politica che aumenta le probabilità di farsi candidare: dire quello che conviene lì per lì, facendo finta che sia sempre vero.

Estratto dell’articolo di Enrico Marro per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2022.

Professore perché si candida col centrosinistra?

«L'Italia - risponde l'economista Carlo Cottarelli - è arrivata a un punto di svolta e mi sembra giusto dare un contributo. Quando me l'hanno chiesto non ci ho messo molto a decidere. In campo ci sono due visioni molto diverse di come dovrebbe funzionare l'Italia. Entrambe legittime. E dico subito che per me non c'è il rischio di un ritorno del fascismo. Ma sulle priorità dell'economia e sul rapporto con l'Europa mi sento molto più vicino a una visione che non è quella del centrodestra» . 

Ma lei non ha scritto il programma di Azione di Carlo Calenda? Perché allora si candida col Pd?

«Non ho scritto il programma di Azione, ma ho coordinato il gruppo di esperti che ha preparato gli 8 rapporti dai quali poi il partito ha scelto cosa prendere per il programma. Allo stesso tempo avevo partecipato al comitato dei garanti delle agorà democratiche per il Pd, iniziativa volta a far emergere dal basso i temi programmatici. […]».

Molti si chiedono che c'entra un riformista come lei con il leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni.

«Appunto, è una questione di alleanze. Questa legge elettorale costringe ad accordi per aumentare le possibilità di vittoria. […]». 

Nell'uninominale potrebbe trovarsi a sfidare l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti.

«[…] Su alcune cose siamo vicini, su altre no, come l'interpretazione della crisi del 2011, che Tremonti vede come una congiura internazionale mentre io la attribuisco anche agli errori compiuti negli anni Duemila, quando lui era al governo». 

Dalle liste Pd sono stati esclusi molti riformisti. Dopo la rottura con Calenda il partito è più a sinistra?

«E allora perché avrebbero chiesto a Cottarelli di candidarsi? Io sono sempre stato nell'area liberal democratica. In passato ho votato anche il Pd, alle ultime elezioni +Europa. Credo di essere stato coinvolto anche per evitare uno sbilanciamento troppo a sinistra, tanto è vero che la mia candidatura è stata presentata da +Europa e dal Pd». […] 

La candidata di Sinistra Italiana. Intervista a Ilaria Cucchi: “Ecco perché mi candido con Fratoianni”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 13 Agosto 2022

Ilaria Cucchi, cosa l’ha spinta ad accettare di candidarsi con Sinistra Italiana-Verdi?

Nicola Fratoianni. Si, è stato proprio lui a convincermi. La sua onestà e trasparenza nel chiedermi di aiutarlo a portare avanti valori nei quali io credo fermamente. Io non sono una politica anche se la politica, mio malgrado, sono stata costretta a farla sul campo. Quando l’arresto e l’uccisione di Stefano si sono abbattuti sulla mia famiglia hanno travolto la mia vita perfetta di giovane donna medio borghese, madre di due figli (Giulia di pochi mesi), con tante certezze, dall’alto delle proprie convinzioni conservatrici filo centrodestra. Il tema dei diritti umani mi era estraneo. Ancor di più quello del carcere. Si, ne sentivo parlare, ma ritenevo che non mi riguardassero o potessero riguardarmi. Erano fuori dal mio mondo. Una vita fa … Sì, quanta acqua è passata sotto i ponti da quel 15 ottobre del 2009! Meglio sarebbe dire quanto sangue! Quando vidi il cadavere di Stefano all’obitorio tutto quel mondo ovattato e perfetto in cui avevo vissuto è stato spazzato via in un ciclone di dolore e rabbia fortissimi. Devastanti. Contattai subito Fabio Anselmo che avevo visto in TV difendere nell’aula del Tribunale di Ferrara la famiglia Aldrovandi per l’uccisione di Federico. Pensi che in realtà credevo che fosse accaduto a Roma. Attraverso Fabio conobbi la madre di Federico, Patrizia Moretti e tante altre famiglie che stavano vivendo o avevano vissuto la mia stessa tragedia. Entrai in un mondo diverso, nel quale indifferenza e cinismo si coniugavano con il dolore e la rabbia delle persone coinvolte. Iniziai a frequentare le aule dei loro processi ancor prima del mio e poi insieme al mio. Imparai a conoscere il volto diverso dello Stato. Inutile essere ipocriti. Era ostile ed arrogante nel voler negare ostinatamente l’evidenza delle tragedie frutto degli sbagli dei suoi servitori – come amiamo definirli anche quando ciò non fanno – nascondendo prove e depistando. Non ho avuto tempo di pensare. Mi sono ritrovata in una dimensione del tutto nuova dove facevo fatica a riconoscere quella donna che ero prima. 16 gradi di giudizio e 160 udienze. Il carcere e l’aula dei Tribunali sono diventati la mia casa. Ho imparato una lezione spietata: di indifferenza e cinismo si può morire. Stefano mi ha lasciato in eredità tutto questo. Ecco perché ho accettato la proposta di Fratoianni.

Tra i “leoni da tastiera”, e non solo, monta l’accusa di voler sfruttare la morte di Stefano, suo fratello. Quanta misoginia c’è in questa infamia? “Sorella di…”, “moglie di…”.

Tantissima misoginia. Non è stato facile e non lo è tuttora sopportare la violenza degli haters. I “grandi Leoni da tastiera”. Fanno male perché mi colpiscono proprio in quanto donna. Perché una donna non può alzare la testa contro la violenza in genere ma, soprattutto, quando questa le viene inflitta da appartenenti alle istituzioni. Parlo di violenza verbale, condita con fake news, che può persino evolversi in una dimensione fisica. Quando io e Fabio siamo riusciti, dopo sette anni di sconfitte nei processi sbagliati, a far riaprire letteralmente il caso di mio fratello, gli attacchi degli haters si sono fatti sempre più intensi e cruenti. Non mi perdonavano “il successo” giudiziario e mediatico. Misoginia? Eccome! Pensi che sono arrivati a prendersela anche con mia madre spingendo a ferirla nella sua dimensione più nobile ed intima: quella del parto, vilipesa perché il suo frutto è stato Stefano Cucchi, usando espressioni tanto crudeli quanto grevi. Talvolta persino “dotte”. Pensi che un hater, medico di professione, è stato condannato dal Tribunale di Ferrara per aver scritto sui social, nella pagina Facebook di Stefano Paoloni (segretario del Sap) pesanti offese nei nostri riguardi. Si è spinto, dall’alto del suo bagaglio culturale, ad evocare addirittura una favola di Esopo. Così si è rivolto a me: “Questa è una mitomane pronta a tutto … la morte di suo fratello si è rivelata essere una gallina dalle uova d’oro per lei e per la sua famiglia!!!”. Ma non sempre la Magistratura ci protegge. Pensi che questa condanna è avvenuta nonostante la fiera opposizione della Procura della Repubblica che prima aveva tentato di far archiviare il procedimento e poi aveva chiesto l’assoluzione dell’hater! Non solo ma il Procuratore in persona ha pure proposto ricorso contro la sentenza sostenendo che quelle espressioni fossero frutto “dell’esercizio del legittimo diritto di critica”. Avevo denunciato pubblicamente il fatto che tanti haters operassero attraverso profili appartenenti alle forze dell’ordine e che questo non fosse accettabile. Pensi che qualcuno di loro mi chiese scusa e qualcun altro pagò anche un risarcimento. Lo stesso medico in questione aveva mostrato il proposito di farlo ma, grazie alla strenua difesa del Procuratore, evidentemente particolarmente sensibile alle mie vicende processuali, ora siamo ancora a processo. Gli haters sono oramai miei costanti compagni di vita. Li querelo ma spesso mi imbatto in indagini svogliate ed inefficienti. Oppure i magistrati che legittimano i loro attacchi. Io e Fabio vogliamo redigere una raccolta casistica.

I temi della giustizia sembrano essere usciti fuori dal dibattito politico. Eppure di mala giustizia si continua a soffrire e a morire. I suicidi in carcere non fanno più notizia, come le condizioni di vita dei detenuti. Per non parlare dei processi senza fine. Che Paese è quello che chiude gli occhi di fronte a tutto ciò?

Di Giustizia si può morire. Io lo so bene. Mio fratello è stato portato davanti ad un Giudice ed un Pubblico Ministero e, aggiungo, ad un avvocato, poche ore dopo il violentissimo pestaggio che aveva subito ad opera di due carabinieri che lo avevano arrestato. Stava malissimo. Lo dice la sua voce che ho ascoltato dalla registrazione dell’udienza. Aveva due fratture vertebrali ed il volto gonfio e pieno di lividi. Nessuno ha visto o notato nulla. Solo la segretaria d’udienza ha testimoniato raccontando di essersi accorta delle sue condizioni ma che, in fondo, era abituata a veder portare in udienza “gli arrestati della notte” in quello stato. I temi della giustizia sono fuori dal dibattito politico, è vero. Questo è un altro motivo per il quale ho accettato la candidatura. Quando se ne parla si fa riferimento a “facili” riforme e lo si fa con spot ad effetto che tendano ad ottenere consensi “disinformati” che in realtà sono lontanissimi dai problemi reali che affliggono la Giustizia. Il cittadino ne diventa consapevole solo quando ci sbatte la faccia. Il populismo, purtroppo, si è impadronito anche di questo delicatissimo ambito. Entra sempre più spesso nelle aule giudiziarie. Fabio dice che la Giustizia è appannaggio soltanto di coloro che hanno risorse economiche importanti. Come dargli torto? Io lo so molto bene. Si guardi solo come è stato trattato mio fratello all’udienza di convalida del suo arresto. E, viceversa, quello che ho dovuto fare io per restituire dignità alla sua vita negata in modo così spietato. Fabio mi dice che, spesso, in Tribunale si processano i reati e non gli imputati. Anche di questo ho esperienza diretta. Mi fa sorridere perché, ogni volta che sente parlare di riforma della Giustizia si agita e si arrabbia. Vogliamo poi parlare delle condizioni in cui si trovano le nostre carceri? Il problema è che ciò non interessa nessuno perché oramai prevale nell’opinione comune la figura del carcere come discarica sociale dove rinchiudere non solo i “delinquenti” ma anche chi possa disturbare il senso comune in quanto non normo conformato. Provo tanta amarezza perché è stato necessario che mi uccidessero un fratello per capire tutto questo. Altri non devono commettere i miei stessi errori. Abbiamo molto da lavorare sulla consapevolezza sociale di questi temi fondamentali per uno vero Stato civile e democratico.

Cosa teme di più di una destra che i sondaggi danno con il vento elettorale in poppa?

Voglio essere sincera e diretta. La maggior parte delle aggressioni verbali che ho dovuto subire e sopportare provengono proprio da quegli schieramenti; simpatizzanti, militanti ma anche, addirittura, dagli stessi esponenti politici, finanche Parlamentari o politici con responsabilità di governo. Esprimono su questi temi una cultura lontanissima dalla mia, che sento fondata sulla sopraffazione del potere sul cittadino che vi si rapporti o che ne abbia soltanto bisogno. E ciò in modo direttamente proporzionale alla vulnerabilità sociale di questi. Voglio pensare positivo e cioè che, alla fine, abbaino e non mordano. Ma dobbiamo vincere noi.

Metà degli italiani è indecisa se recarsi ai seggi elettorali il 25 settembre; una parte di questa metà si dice “disgustata” dalla politica. Un sentimento diffuso soprattutto tra i giovani. Come se lo spiega e perché le tante e i tanti disillusi, disgustati, dovrebbero votare e votare a sinistra?

Ha presente la Canzone “ destra-sinistra”di Giorgio Gaber? La trovo geniale e di straordinaria attualità. La politica è sempre più lontana dalle necessità, sempre più drammaticamente contingenti e stringenti, dei cittadini. Il solo nome “politica” è percepito come un disvalore sinonimo di affari e malaffari. Potere fine a se stesso. Troppi programmi mai mantenuti. Troppi slogan roboanti e del tutto improbabili. Nel deserto dei concreti risultati ottenuti si sono abbattute le tempeste della pandemia ed ora della guerra. Il tenore di questa breve campagna elettorale, tutta incentrata sul chi litiga ed insulta chi, non aiuta di certo. Nel mio piccolo sono veramente in tantissimi coloro che mi ringraziano per essermi messa in gioco. Dicono che altrimenti non avrebbero votato.

In politica lei porta la sua storia, il suo impegno civile, il suo dolore. Cosa si sente di dire a quanti hanno vissuto esperienze simili alle sue e che attendono ancora di avere giustizia?

Di continuare a crederci. Di non smettere mai di lottare. Di non lasciare mai prevalere la rabbia e la frustrazione che io conosco molto bene. Certo, è facile dire tutto questo quando io ce l’ho fatta. Ma non ho fatto tutto da sola. Se non avessi avuto affianco a me tantissime persone e, aggiungo, la gente comune che si è riconosciuta proprio nelle mie sconfitte e nella mia frustrazione ma anche nella mia resistenza.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Abou Soumahoro come Di Vittorio: quando i “cafoni” sfidano la schiavitù. IL RITRATTO | La sua lotta ha fatto conoscere agli italiani l’esistenza disumana dei nuovi braccianti. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 13 agosto 2022.

«Onorevoli colleghi, questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: “Un cafone in Parlamento…”. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto».

Insediandosi in Parlamento nel 1921 Giuseppe Di Vittorio da Cerignola, Puglia, diceva: «Io sono un cafone» – e a milioni i cafoni, i contadini del sud, gli Ambrogio, i Nicola, i Tonino lo amavano. Era uno di loro, bastava guardarlo, guardargli le mani. Guardo ora Aboubakar Soumahoro, per tutti Abou, che si candida in Parlamento e penso che siano cambiati i nomi dei cafoni – oggi sono Malik, Biko, Amir, Momoudou. Ma la schiavitù è la stessa, ma la dignità è la stessa. C’è stato un tempo al Sud in cui avere la schiena dritta significava lottare per la propria dignità, coltivare un sogno di uguaglianza e di diritti. Luoghi come Rosarno, San Ferdinando, come altre cittadine dello Jonio, da Bianco a Isola Capo Rizzuto, hanno vissuto occupazioni di terre, coraggio di sindacalisti, fucilate e persecuzioni, mobilitazioni di massa, bandiere rosse al vento portate a piedi, su ciucci e biciclette, municipi in fiamme, persino repubbliche proclamate per un giorno.

Un anno dopo la rivolta di Rosarno del 2010 li vidi con addosso i vestiti della domenica. Per un giorno non portavano gli stivaloni di gomma, i cappellacci sformati, le mantelline impermeabili e le tute e i maglioni tarmati con cui li incroci sempre sulle strade mentre vanno verso i campi a raccogliere arance o sbucano da qualche interpoderale, o stanno assembrati sulla provinciale aspettando che un caporale li scelga per lavorare. Per un giorno avevano messo le adidas ai piedi, i pantaloni levi’s, i maglioni baciabbracci, i giubbotti dolcegabbana. Tutto rigorosamente griffato. Tutto rigorosamente falso. Tutta roba che si prende dai fratelli e dai cugini che la vendono per strada. Era un giorno importante quello, e le persone per bene sanno che ai giorni importanti bisogna presentarsi vestiti ammodo. È un segno di rispetto. E qui, di questo stiamo parlando: di rispetto.

Antichi sono i loro gesti del lavoro. Le arance si raccolgono come cent’anni fa, nell’umido che intirizzisce le braccia e si smangia le ossa. Antiche le braccia da lavoro. Antico il modo in cui sfilavano per il paese con i loro cartelli. Antica la maniera in cui si incolonnavano ordinati per salire sui pullman – organizzati dai sindacati, dalle associazioni – che li avrebbero portati alla manifestazione di Reggio Calabria, in città.

Quando li incontri per strada nei giorni del lavoro e li vedi camminare a piedi per andare nei campi o in bicicletta tornarsene da qualche parte e portarsi le buste della spesa attaccate al braccio o poggiate sulla testa, ti dici che un tempo le cose dovevano essere così, quando a faticare si andava a piedi o in bicicletta. Antiche sono le braccia del lavoro. È il lavoro che è antico. È la cosa più antica che c’è. È l’organizzazione della lotta che è moderna, che cambia sempre. Che chiede sempre la stessa cosa: rispetto. Perché è una cosa importante essere lavoratori. Dovrebbe esserlo.

Ci vuole niente perché un incendio divampi in una distesa di ripari di fortuna quando metti su un telo di plastica con due assi di legno e poi dei cartoni tutto intorno a ripararti dal freddo – succede in tutti gli slums del mondo, a Dacca a Niamey a Manila. A San Ferdinando, Italia. Successe così a gennaio 2018, quando tra le fiamme morì Becky Moses che al campo era arrivata pochi giorni prima da Riace, perché le avevano negato il visto di asilo politico. È per quello che ti industri che magari se ci metti due lamiere quella baracca non prende fuoco e tu finisci arrostito dentro.

Era il lavoretto extra di Soumaila Sacko, cioè quando non lo chiamavano a rompersi il culo in campagna per quattro soldi. Ognuno fa gli extra che può nella baraccopoli di San Ferdinando – c’è chi vende qualche bibita, c’è chi prepara panini o uno stufato. Tutta una economia, è la legge del mercato, no? Così, s’era partito a piedi, Soumaila con due suoi amici, Drame Madiheri e Madoufoune Fofana, a cercare lamiere. Nello scattio del caldo – le quattro del pomeriggio del giugno 2018. Loro intanto si portavano avanti, a vedere, scegliere, accantonare, e poi magari passava il furgone di un amico e caricavano. È una fabbrica abbandonata, l’ex Fornace. E pure sequestrata, perché ci avevano stoccato rifiuti che venivano dalla Centrale di Brindisi o da chissà dove. In attesa di bonifica. Ai proprietari non interessava neppure più. Che la smontassero tutta, pure i muri, per quel che gli importa.

Alle cinque e mezza, sei del pomeriggio si sente il primo colpo di fucile – Soumaila e Drame sono sul tetto e Madoufoune sta di sotto, hanno già messo da parte tre lamiere, un buon lavoro. Non fanno in tempo a capire – che i colpi sono arrivati alle gambe e ai piedi – e a scendere di corsa che arriva il secondo sparo. Soumaila è colpito alla testa. Il corteo era piccolo – sarà un centinaio di persone. Era venuto fuori dalla baraccopoli. Dall’inferno. E loro sembravano diavoli. Cappellucci di lana, pantaloni di tuta, magliette di calcio, alcuni in canotta e scalzi. Diavoli rimpannucciati dalla Caritas. Poi, ne arrivavano altri, a piedi o in bici.

Il cielo si era fatto improvvisamente velato, una cammarìa di scirocco dopo giorni di sole pieno. Si sarà stufato anche il cielo, qui, di sovrintendere le cose del mondo. Libertà libertà – gridavano gli africani. E poi – tocca uno, toccano tutti. E ancora: Soumaila, uno di noi. Ecco, se volete capire cosa sia il capitalismo 4.0 e le magnifiche sorti e progressive dell’automazione – venite qui, a San Ferdinando, a Rosarno, dove regna la schiavitù. Dove regna l’apartheid. Venite qui, è l’Alabama prima di Martin Luther King, è Johannesburg prima di Nelson Mandela, e forse riusciremo insieme a capire cosa significhi «non abbiamo da perdere che le nostre catene». Un bracciante nero sventolava una foto di Soumaila. Io non ho paura, urlava verso le auto – ferme ora che loro si erano sdraiati per terra a un incrocio. Io non ho paura. Qui è un programma minimo di riforme.

Vogliamo giustizia, gridava Abou nel megafono, nella piazzetta di San Ferdinando, intanto che si aspettava che una delegazione incontrasse il sindaco e il vicequestore. Non vogliamo ancora tendopoli. C’erano le telecamere – arrivano sempre i giornalisti, in Calabria, quando succede un fattaccio. Abou è un sindacalista di base, e qui lo rispettano tutti. Parla di lavoro e dignità, di italiani e migranti, di chi aizza la guerra tra poveri, di fratellanza. Intorno, c’erano i giovani delle associazioni che da anni si battono per condizioni migliori. Soumaila è stato assassinato, diceva Abou, e vogliamo giustizia. Non era un ladro, era in prima fila nelle lotte – gridava Abou.

Questo è Abou – un lavoratore della terra che chiede rispetto e dignità per il suo popolo di lavoratori. Spero che possa entrare in Parlamento e dire: Io sono un cafone. Perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto.

Carlotta De Leo per corriere.it il 13 agosto 2022.

Gina Lollobrigida ritenta l’avventura politica? L’icona cinematografica e scultrice di successo - che ha da poco festeggiato i 95 anni - sarebbe candidata di Italia sovrana e popolare nel collegio uninominale di Latina per il Senato e in altre circoscrizioni nel plurinominale proporzionale. A dare l’annuncio è il senatore Emanuele Dessì, ex M5S, oggi esponente del Partito comunista.

Italia Sovrana e Popolare è una nuova piattaforma politica nata dalla fusione di realtà differenti - Ancora Italia, Partito Comunista, Riconquistare l’Italia, Comitati No Draghi, Azione Civile di Antonio Ingroia, Rinascita Repubblicana, Italia Unita - accomunate dall’aspra critica al governo Draghi e alle limitazioni sanitarie imposte durante la pandemia. La nuova lista sta organizzando raccolte firme per presentare i suoi candidati alle urne. Tra questi anche Daniele Giovanardi, fratello dell’ex ministro Carlo, ex primario del pronto soccorso di Modena, poi sospeso dall’ordine dei medici per non essersi vaccinato. Giovanardi sarà candidato al Senato.

Gina Lollobrigida sarebbe la capolista di Isp nel collegio uninominale di Latina per il Senato secondo quanto scrive La Repubblica che rivela come la candidatura sarebbe arrivata «grazie al suo avvocato Antonio Ingroia». Non si tratterebbe, comunque, di un debutto elettorale per l’attrice: nel 1999 si candidò al Parlamento europeo con la lista dei «Democratici». 

La diva - nata a Subiaco il 4 luglio 1927 - ha vissuto una vita piena di inizi. La sua famiglia apparteneva alla borghesia agiata ma fu ridotta in povertà dai bombardamenti. Col piglio che la contraddistingue, coglie al balzo l’occasione del riscatto quando, per caso, partecipa a concorso di bellezza che le fa spiccare il volo verso l’edizione di Miss Italia a Stresa nel 1947: arriva seconda ma conquista pubblico e giudici. La sua bravura nel cinema è notata prima all’estero: per decenni è l’unica diva italiana (insieme ad Alida Valli) amata dai registi americani. Il successo - un trionfo - in Italia arriva nel 1953 con «Pane amore e fantasia» di Luigi Comencini (1953).

Ma l’inizio degli anni ‘70 segna un nuovo inizio: Lollobrigida lascia il set (a cui tornerà solo vent’anni dopo) per diventare fotografa e poi scultrice. Le sue opere vengono esposte in tutto il mondo.

Gina Lollobrigida: «Mi candido perché stufa delle liti dei politici. Chi mi piaceva? Gandhi». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 14 agosto 2022.  

La Bersagliera non smette di combattere. Nemmeno a 95 anni. La prossima sfida è quella elettorale: sarà capolista al collegio uninominale del Senato a Latina, per Italia sovrana e popolare, la lista promossa da Partito comunista, Patria socialista, Azione civile, Ancora Italia e Riconquistare l’Italia.

, ma è matta? Ride. «Ma no. Ero solo stufa di sentire i politici litigare tra loro senza mai arrivare al dunque».

E se sarà eletta, per cosa farà la prima battaglia? «Mi batterò perché sia il popolo a decidere, dalla sanità alla giustizia. L’Italia sta messa male, voglio fare qualcosa di buono e positivo».

Draghi, come premier, le è piaciuto? «Mah, mi piaceva, però... Rispetto il suo lavoro, ma non lo condivido».

E cosa pensa dei suoi colleghi di partito? Chi le piace? «A me piaceva Gandhi per il suo modo di fare, per la non violenza. Ed ero molto amica di Indira, la vedevo ogni volta che veniva a Roma. Era una donna straordinaria».

Guardi che la politica è un gran lavoro di tessitura. Non ci sono dei politici con i quali vorrebbe collaborare? «Io collaboro con tutti. Basta che sia per il bene dell’Italia».

Ma dove trova le forze? «Finché c’è l’energia, la uso per cose importanti, soprattutto per il mio Paese».

Quando ha deciso di candidarsi? «Ne ho parlato con il mio avvocato, Antonio Ingroia, e ho preso questa decisione».

Se dovesse vincere, , le farà da portaborse? «No. Farò questa esperienza senza di lui».

Nel ‘99, quando si candidò al Parlamento europeo con i democratici di Romano Prodi, pur ottenendo diecimila preferenze non fu eletta. «È stata una esperienza, nella vita si può perdere e si può vincere».

Farà la campagna elettorale? «Non ci siamo ancora organizzati, ma se serve la farò».

Ma Francesco Lollobrigida, Fratelli d’Italia, è un parente? «Credo di sì. In questi giorni di Lollobrigida ne ho trovati tanti».

Si rivede Claudio Signorile: io sto con Pizzarotti, sono un facilitatore. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 10 agosto 2022.  

«Mi sto appassionando, vedo in proiezione qualcosa che mi piace, un nuovo soggetto politico. E quindi ho deciso di dare una mano anch’io. Anche noi di Mezzogiorno federato il 25 settembre saremo parte dell’ alleanza tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, ma sbagliereste a chiamarlo terzo polo, perché è molto di più: qui sta nascendo il Partito riformista...».

Claudio Signorile, 85 anni tra un mese, l’uomo che fu il numero 2 di Bettino Craxi nel Psi, ammette che gli piacerebbe molto chiamarlo pure «nuovo socialismo», anzi se lo lascia proprio sfuggire di bocca a un certo punto, ma poi l’esperienza di 50 anni di politica lo induce a non correre troppo («Ne abbiamo viste di cotte e di crude»).

Mezzogiorno federato è il movimento civico che lui presiede, ma non sta solo al Sud, «gli elettori lo troveranno in lista anche a Milano e Torino, che in fondo sono due grandi città meridionali». Nei giorni scorsi, Signorile aveva scritto una lettera aperta a Renzi e Calenda, chiedendo loro espressamente di allearsi: «Perché lo spazio politico per muoversi c’è ed è grande, perché quelli che voi chiamate ancora i due Poli, in realtà sono da una parte la vecchia Quercia — il Pd — coi suoi cespugli e dall’altra parte il centrodestra, una cosa che non è un polo, perché Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia sono partiti troppo diversi tra loro. In più, metteteci che il Movimento 5 Stelle, che al Sud arrivò a prendere il 40% dei voti, ora si è spento e secondo me non arriva manco al 10%. Noi perciò dovremo essere bravi a dialogare con la tanta, troppa gente che non vota più. E questa rete civica, formata da noi, da Pizzarotti, dall’alleanza civica del Nord, da altri, può dare voce finalmente ai territori». 

Signorile, però, non sarà in lista: «Di sicuro avremo i nostri candidati, ma suvvia, ormai ho la mia età. Però la politica si può fare in tanti modi, anche da fuori, anche facendo soltanto il facilitatore. Come me». Renzi e Calenda, dice, «hanno stoffa politica» e se pure sceglieranno Mara Carfagna come front runner non importa. A lui che fu ministro per il Mezzogiorno nei governi Spadolini e Fanfani dall’81 all’83 non piace molto «tecnicamente» la ministra per il Sud del governo Draghi. Ha fatto poco, secondo lui. «L’importante però — dice Signorile — è che questo Partito riformista del futuro si ponga come primo obiettivo di dare continuità proprio all’agenda Draghi, attuando tutti i processi legati al Pnrr. Un partito che sia anche meridionalista e moderno, che rilanci il Sud non più visto come percettore di bonus, ma dandogli nuova consapevolezza».

E allora ecco che torna il ponte sullo stretto di Messina, il suo più antico amore, il progetto che proprio lui da ministro dei Trasporti del governo Craxi nell’85 portò avanti fino all’approvazione: «Io dico che si può ancora fare — sospira Signorile —. Non è una mangiatoia, farebbe il bene del sistema logistico di tutto il Mediterraneo. Ma bisogna crederci».

Claudio Reale per repubblica.it il 22 agosto 2022.

È una sfida nella terra delle origini, quella del nonno messinese e della crisi di Sigonella. Ma sarà anche un ritorno, visto che la famiglia di Bettino Craxi ha una tradizione elettorale a Marsala. 

Sta di fatto che questa volta Bobo Craxi e la sorella Stefania si troveranno l’uno contro l’altro, seppure indirettamente: Bobo, che prova a tornare nelle istituzioni dopo essere stato sottosegretario agli Esteri nel governo Prodi II, sarà candidato dal centrosinistra nell’uninominale a Palermo-Resuttana-San Lorenzo, mentre Stefania, presidente uscente della commissione Esteri del Senato, correrà probabilmente a Gela.

“Avrei voluto candidarla a Marsala – dice il coordinatore regionale forzista, Gianfranco Miccichè – ma ci teneva a correre a Palazzo Madama e l’unico uninominale assegnato in Sicilia a Forza Italia è quello in provincia di Caltanissetta”. 

Non è la prima volta, del resto, che le carriere dei due figli di Craxi si intrecciano. La prima risale proprio all’esperienza di governo di Bobo: dal 2006 al 2008 il più giovane dei fratelli fu sottosegretario agli Esteri nel Consiglio dei ministri guidato da Romano Prodi, e quando quella legislatura si concluse Bobo passò il testimone alla sorella, che ricoprì lo stesso incarico nel quarto e ultimo governo di Silvio Berlusconi. 

Più fitto, del resto, è l’intreccio fra la famiglia dell’ex presidente del Consiglio travolto da Tangentopoli e la Sicilia. A cominciare da quel cognome così singolare: la famiglia, infatti, affonda le radici in un paesino in provincia di Messina, San Fratello, che conserva da 15 secoli il gallo-italico, un dialetto di origini longobarde parlato da poche migliaia di persone. All’isola, poi, è legata forse la decisione più celebre che Craxi assunse in politica estera durante i suoi governi: la scelta di tenere testa agli Stati Uniti dopo il sequestro della nave da crociera Achille Lauro, con i carabinieri inviati ad accerchiare la Delta force statunitense per reclamare la sovranità sull’inchiesta.

Bettino Craxi, però, non tornò più in Sicilia. Dopo la morte del leader socialista al termine della latitanza ad Hammamet, in compenso, vi tornò il figlio Bobo. Era il 2001, l’anno del 61-0: il centrodestra fece l’en plein nei collegi dell’isola e Bobo Craxi, che aveva fatto confluire il suo Nuovo Psi in Forza Italia, fu candidato proprio a Marsala. “È il punto più vicino alla Tunisia”, disse allora. Finì con un plebiscito: il 56,8 per cento in uno dei collegi più a vocazione forzista di quella tornata. Per una sfida che adesso si ripete con un raddoppio. E con una sfida indiretta fra fratelli.

Le scelte di campo differenti. Craxi contro Craxi, sfida in famiglia in Sicilia per le elezioni: confronto ‘a distanza’ tra Stefania e Bobo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Agosto 2022. 

Una sfida in famiglia tra i fratelli Craxi, anche se a distanza, perché non correranno per lo stesso posto. I figli del leader socialista Bettino, Stefania e Bobo, si troveranno a confrontarsi l’uno contro l’altro in Sicilia per un posto nel prossimo Parlamento, che verrà deciso dagli esiti del voto del 25 settembre.

Stefania, senatrice di Forza Italia alla guida della commissione Esteri di Palazzo Madama, correrà per il collegio uninominale di Gela. “Avrei voluto candidarla a Marsala – spiega il coordinatore regionale forzista, Gianfranco Miccichè – ma ci teneva a correre a Palazzo Madama e l’unico uninominale assegnato in Sicilia a Forza Italia è quello in provincia di Caltanissetta”.

Il fratello Bobo domenica ha comunicato via social di aver accettato la proposta di candidatura proposta dai Socialisti, che aderiscono alla coalizione col PD dei “Democratici e progressisti”, provando a strappare al centrodestra il seggio uninominale di Palermo-Resuttana-San Lorenzo.

Elezioni, le liste dei candidati tra sorprese e ‘bocciati’: Meloni pesca negli ex berlusconiani, esclusioni eccellenti nel PD

“Ho una passione civile che prescinde da questo affascinante impegno elettorale, e la causa per cui mi batterò non è affatto la peggiore; è l’unica che può impedire l’onda nera dell’autoritarismo che da Budapest si propaga in tutta Europa. Discuterò di temi e problemi, programmi per il risanamento e per l’innovazione italiana; ed il mio impegno per creare una più robusta alleanza con i paesi del Mediterraneo, economica, culturale, politica”, le parole di Craxi affidate ai social. 

Storie e carriere che si intrecciano, quelle dei due figli di Bettino. Il più giovane Bobo, come ricorda Repubblica, fu dal 2006 al 2008 sottosegretario agli Esteri nel Consiglio dei ministri guidato da Romano Prodi. Nella successiva legislatura, l’ultimo governo a guida Berlusconi, quel posto fu preso dalla sorella Stefania.

Fratelli e una famiglia legatissima all’isola: la radici familiari sono riconducibili a San Fratello, piccolo paese in provincia di Messina. Ma in Sicilia si è tenuta anche una delle decisioni più forti dei governi Craxi, la crisi di Sigonella, quando il leader socialista mandò i carabinieri ad accerchiare la Delta force statunitense dopo il sequestro dalla nave Achille Lauro.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da lastampa.it il 10 agosto 2022.

«Cari amici, ho deciso di scendere in Politica». Tre punti esclamativi per enfatizzare sulla notizia. E in allegato una foto che lo ritrae a braccia conserte, con un accenno di sorriso e sullo sfondo il simbolo di “Per Rivoluzione Sanitaria”. Adriano Panzironi, sedicente medico, si candida alle elezioni. Il guru di un regime alimentare che promette di far vivere fino a 120 anni oltre che di curare diverse patologie, la cui dieta è condannata dal Tar del Lazio perché «pericolosa per la salute» cinque giorni fa ha fondato il suo partito. Si chiama "Per Rivoluzione Sanitaria" ed è stato costituito nello studio romano del notaio Enzo Becchetti.

Solo oggi l’annuncio su Facebook della sua candidatura. «Prima che diate il vostro giudizio su questa mia importante scelta – scrive in un lungo post –, vorrei fare una riflessione con voi. Sono quasi 10 anni che combatto contro la Medicina dogmatica, e nonostante sia riuscito a far diventare centinaia di migliaia di persone consapevoli della loro salute, mi rendo conto che nulla è cambiato nella gestione sanitaria». 

Da qui «sono giunto all’amara consapevolezza – continua il sedicente medico – che se vogliamo cambiare la Medicina e salvare milioni di persone dalla morte per malattie degenerative dobbiamo aver il coraggio di presentarci al Paese». Ed ecco allora il nuovo partito, il cui simbolo è una ghigliottina francese. «Non lascia dubbi d'interpretazione – sottolinea Panzironi –. Vogliamo andare in Parlamento per decapitare l’attuale direzione sanitaria e non ci faremo ammorbidire dalle sirene della politica».

Per arrivare al 25 settembre c’è però lo scoglio firme. Ed è per questo che il guru chiede ai suoi seguaci di «raccogliere decine di migliaia di firme certificate in tutta Italia entro il termine massimo del 20 agosto».

«Chiedo il vostro aiuto – conclude il post –, perché senza l’aiuto di ognuno di voi sarà impossibile realizzare questo miracolo». 

Gli strani partiti improvvisati dei candidati più improbabili. Massimiliano Parente il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

In campo complottisti e con programmi surreali. Dal generale che vuole la lira ai no vax, ecco chi sono

Il bello delle elezioni in Italia è che saltano fuori personaggi improbabili che si candidano con partiti improvvisati e programmi surreali e non li prenderebbe neppure una clinica psichiatrica. Alcuni sono davvero imperdibili, la cosa che li accomuna è che sono tutti complottisti, e anche che di meglio nella vita non hanno da fare.

Non poteva mancare Antonio Pappalardo, generale dei carabinieri in pensione, leader del Movimento Gilet Arancioni (mai capito perché scelgano sempre i gilet segnaletici, ma sicuramente ha scelto l'arancione perché in Francia c'erano già stati i gilet gialli), che poi se lo vedi non ce l'ha neppure il gilet ma la giacca arancione sì (con tanto di cravatta, se avesse fondato un Partito delle Carote avrebbe avuto un outfit più consono).

Programma pappalardesco a prova di bomba (d'altra parte era generale dei carabinieri): «Fatemi capo del governo. Faccio stampare la lira italica e il giorno dopo vi arriva a casa». Non ho capito se poi a casa ci manda anche la scatola del Monopoli o quella dobbiamo comprarla noi con l'euro. E questo era generale dei carabinieri, ok. In pensione però ci si annoia, qualcosa doveva pur fare.

Non dissimile dal generale è Gianluigi Paragone, che per me è un enigma. Prima era della Lega (quando la Lega era separatista), poi è stato eletto con il M5S, poi all'interno di questa legislatura è uscito, si è paragonato a se stesso, e ha formato un partito suo (in Italia lo fanno tutti prima o poi), Italexit, che sembra il nome di un treno per andare a fare un giro in Europa e invece vorrebbe fare il verso alla Brexit, di cui perfino gli inglesi si sono pentiti, e cioè uscire dall'Ue. Ora, mi domando, chi lo voterà Italexit? Neppure il generale Pappalardo, almeno potevano allearsi (stessa visione complottista), ma nelle loro fantasie potrebbero allearsi dopo: Italexit esce dall'euro e Pappalardo stampa la lira italica e ve la manda a casa (non è ben specificato quante lire italiche ci mandi a casa, dipenderà da quante ne stampa).

Ovviamente anche Paragone, No vax, No greenpass, No euro, No tutto. Ha imbarcato pure Stefano Puzzer, quello dei portuali No pass, il quale ha dichiarato: «Dobbiamo uscire dalla dittatura, e smettere di mandare le armi in Ucraina». La dittatura è rappresentata dal governo Draghi, dal vaccino e dal Greenpass, e anche dal fatto che siamo nella Nato e non un paese della Federazione russa. Sono fantastici. Quindi via dal M5S e dentro Italexit. Si fosse chiamato Paragonexit avrebbe almeno previsto quello che succederà a Paragone, che è comunque un ottimo risultato per tutti gli italiani. Purtroppo temo che ce lo ritroveremo in televisione.

E Mario Adinolfi, che dire di Mario Adinolfi? Molti mi dicono: lascia stare Adinolfi, è come sparare sulla Croce Rossa. Beh, dipende da chi guida l'ambulanza. A parte che, dopo il body positivity di Vanessa Incontrada acclamata dai napoletani e da Vanity Fair con «Sei bellissima» perché grassa, possiamo dire che è molto, molto più bello della Incontrada. Il bellissimo Adinolfi, che è anche cristianissimo, che ha battuto il record di voti con il suo Popolo della Famiglia a Ventotene (zero voti, alla faccia del popolo, non l'ha votato neppure un suo familiare), fonda un nuovo partito, Alternativa per l'Italia, insieme a Simone di Stefano, fascista dichiarato, di Casa Pound (bella alternativa, complimenti). Ma magari questa volta il bellissimo Adinolfi un voto (di Di Stefano) lo prende.

Estratto dall'articolo di Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” l'11 agosto 2022.

È la famosa categoria "altri", quella che spesso i sondaggisti mettono in fondo alla lista dei risultati e dentro c'è un po' di tutto. Anche chi, però, ambisce a raggiungere l'agognata quota del 3 per cento, che dà diritto ad una rappresentanza parlamentare. 

La formazione che più si avvicina all'obiettivo, perlomeno sempre secondo le rilevazioni, è Italexit. Quotata dal 2 al 4 per cento, la creatura del senatore e giornalista Gianluigi Paragone - fu direttore della Padania , quotidiano della vecchia Lega Nord chiuso da Matteo Salvini - vive un momento di trepidazione dovuto alla necessaria raccolta delle firme. [...]

Sempre sul fronte sovranista, ma spostato più a "sinistra", c'è Italia sovrana e popolare. Tra i promotori ci sono Partito comunista, Patria socialista, Ancora Italia, Riconquistare l'Italia, Azione Civile di Antonio Ingroia e la ex leghista Francesca Donato. Il tentativo è quello di unificare battaglie in comune tra mondi altrimenti distanti: contro la Nato, contro l'euro, contro l'obbligo vaccinale e il Green pass. Lo slogan, anzi il nome originario, era Uniti per la costituzione. [...]

A sinistra-sinistra c'è la corsa alle firme anche di Unione popolare, promossa da Rifondazione comunista e Potere al popolo, guidata da Luigi De Magistris, il cui nome è stato apposto nel simbolo assieme all'arcobaleno pacifista. Oltre 600 banchetti in tutta Italia e alcune candidature già pronte: gli storici Piero Bevilacqua e Angelo d'Orsi, la giornalista del Tg2 Chiara Prato, la ex assessora della giunta Raggi a Roma Pinuccia Montanari. Tra le proposte: salario minimo a 10 euro l'ora e blocco del costo delle bollette. L'ex sindaco di Napoli potrebbe candidarsi nel collegio della sua città ma pure in Calabria, dove lo scorso anno, in solitaria, aveva preso il 16 per cento come candidato presidente

Da virologi a star televisive. E ora sognano il Parlamento. Bassetti, Ricciardi e Lo Palco alla prova delle elezioni: sono i nomi più sussurrati per la discesa in campo. Francesco Boezi il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Per ora si tratta di ipotesi corroborate da qualche affermazione e da qualche intenzione: l'ora dei virologi in politica, però, sembra arrivata sul serio. Nel corso delle passate tornate, abbiamo assistito a qualche esordio. Il 25 settembre - data delle elezioni politiche - potrebbe coincidere con un'infornata in Parlamento di professionisti che abbiamo conosciuto sui media durante l'intero arco pandemico (con qualche picco di presenzialismo e qualche sparizione transitoria).

Matteo Bassetti, l'infettivologo che dirige la Clinica Malattie infettive del San Martino di Genova, non ha affatto scartato l'opzione della discesa in campo: «Credo che storicamente i ministri della Salute che hanno lavorato meglio siano stati dei medici: Elio Guzzanti, Girolamo Sirchia, Umberto Veronesi. Tanto più in questo momento, tra Covid e vaiolo delle scimmie, serve un ministro tecnico. E un infettivologo a maggior ragione», ha detto al Corriere della Sera. Bassetti, che ha dunque dato la propria disponibilità a ricoprire l'incarico di capo di Dicastero della Salute, potrebbe trovare spazio nella coalizione di centrodestra ma per ora - come premesso - non c'è niente di certo: «Io sono un liberale. Mi sono sempre ritenuto un liberale di centro. Ma soprattutto sono dalla parte della sanità - ha aggiunto -. Comunque se non condividere le posizioni di Speranza significa essere di centrodestra, allora sono di centrodestra». Bisognerà anche attendere di capire quanti e quali ministri tecnici sceglierà il centrodestra, qualora la coalizione formata da Fi, Lega e Fdi - come pare probabile - dovesse governare il Paese dopo il prossimo appuntamento elettorale. Bassetti, insomma, potrebbe anche essere preso in considerazione in assenza di candidatura, come esterno.

Chi invece in politica c'è già è Pier Luigi Lopalco: dopo l'esperienza da assessore regionale in Puglia, l'epidemiologo ha scelto il partito del ministro Speranza. Articolo Unoi, stilando la lista dei candidati selezionati dal territorio, ha inserito anche Lo Palco. Se il Pd di Enrico Letta, decidendo di ovviare alle richieste di Speranza, dovesse contribuire a blindare Lo Palco in qualche seggio sicuro non ci sarebbe poi molto di cui stupirsi: non sono in pochi a credere che sia lo stesso Speranza a battersi affinché Lo Palco sieda tra qualche settimana tra gli scranni di un'Aula parlamentare.

Poi c'è un terzo nome: quello di Walter Ricciardi, accademico ed igienista che ha affiancato proprio Speranza in funzione dell'imprevisto pandemico, in qualità di consulente. Ricciardi è uno dei primissimi ad aver creduto in Azione, il movimento di Carlo Calenda che si presenterà agli elettori insieme ad Italia viva di Matteo Renzi nel cosiddetto Terzo Polo, ed è dunque probabile che l'ex ministro dello Sviluppo economico lo voglia in lista. «La sanità - ha detto ieri il professore all'Adnkronos - è in una crisi strutturale e, per evitare che diventi irreversibile, ha bisogno di un governo che la ponga al centro delle sue azioni. Questo dovrebbe avvenire in maniera bipartisan: tutti gli schieramenti oggi in campo dovrebbero essere d'accordo sulla priorità di questo tema. Non ci dovrebbero essere divisioni. E mi auguro che questo succeda», ha concluso Ricciardi.

Per ora - come premesso - è tutto in forse: per avere qualche certezza, bisognerà attendere l'ufficializzazione dei nomi selezionati dai partiti. La data limite è il 21 di agosto. Al netto di queste tre figure, non si può neppure escludere la presenza di altri virologi pronti alla discesa in campo.

Elezioni, ecco i nomi delle toghe in pole per una candidatura. Libero Quotidiano il 12 agosto 2022

Dal tribunale al Parlamento: la carriera di diversi magistrati italiani starebbe per virare sulla politica tanto che il Csm ha convocato una seduta ad hoc in pieno agosto, precisamente il 19, per esaminare le richieste di aspettativa che i giudici devono presentare se intendono candidarsi alla tornata del 25 settembre. Per ora non è arrivata nessuna istanza, ma c'è ancora un po' tempo e si infittiscono le ipotesi sui magistrati che potrebbero scendere in campo. Dei pochissimi togati già presenti in Parlamento, secondo l'Ansa, punta alla riconferma Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia in tre governi (Letta, Renzi e Gentiloni), eletto nel 2018 alla Camera con il Pd e poi passato con Italia Viva. Anche per l'ex sostituto Pg a Roma Simonetta Matone non si tratterebbe di una nuova esperienza: è già stata candidata del centrodestra alle suppletive di Roma di gennaio, quando Roberto Gualtieri ha lasciato il suo seggio alla Camera.

Sarebbe invece un debutto nella politica nazionale per Catello Maresca, leader dell'opposizione al Consiglio comunale di Napoli, che ha un passato di pm anticamorra e che in tempi più recenti è finito al centro di polemiche per essere tornato a fare il magistrato (giudice a Campobasso) durante il mandato di consigliere comunale. Con Italexit correrà la giudice onoraria di Pisa Lina Manuali che l'anno scorso ha assolto un uomo dall'accusa di avere violato uno dei Dpcm del governo Conte per essere uscito di casa durante la pandemia: l'ha annunciato qualche giorno fa Gianluigi Paragone. Nessuna ufficialità per Cafiero De Raho, che sino al febbraio scorso ha guidato la procura nazionale antimafia, alla cui candidatura penserebbe il leader M5s Giuseppe Conte. A Carlo Nordio, già procuratore aggiunto a Venezia, guarderebbe invece Giorgia Meloni, soprattutto per un ruolo nel futuro governo. Spera nel sostegno del centro-destra l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, attualmente sotto processo a Perugia, che ha già tentato senza successo l'elezione in Parlamento e che ora intende riprovarci in nome della battaglia contro "l'uso politico della giustizia".

I Programmi.

Tutto quello che non sapevate dei protagonisti della tornata elettorale. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 24 settembre 2022.  

Giorgia Meloni: la figlia, gli amici e la «rivoluzione» per superare 7 maschi. «Io sono un soldato» 

Trent’anni fa gli esordi nel Fronte della Gioventù. Toni bassi e pause scelte mentre sale nei sondaggi

Enrico Letta, l’arma del «voto utile» per la sfida a Giorgia Meloni. Le spine del segretario sono gli alleati mancati 

La campagna decisionista per il primato nei consensi. Nel partito le insidie delle correnti e di Bonaccini 

Giuseppe Conte, l’avvocato nostalgico di Palazzo Chigi tra i peones in guerra e la fede in Padre Pio 

Il leader 5 Stelle come un nobile decaduto, cerca un nuovo ruolo. Con il voto punta ad avere una pattuglia che risponda solo a lui 

Salvini, il leader della Lega adesso teme un futuro da gregario 

Sondaggi e politica estera, il difficile rapporto con la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Le alleanze e (soprattutto) gli abbandoni del capo del Carroccio 

Calenda, dal Cuore televisivo al successo su Twitter: le avventure di Carlo il guastafeste 

Il rapporto tormentato con il Pd che lo candidò in Europa. L’addio ai dem, la corsa solitaria a Roma, poi il nuovo strappo 

Renzi, dai quiz vinti in tv al crac del referendum. L’ex rottamatore insegue il rilancio 

Attira simpatie e ironie quando si presenta da Maria De Filippi con il giubbetto di Fonzie. Pensa che sia meglio perdere un amico che una battuta

Berlusconi, l’asso pigliatutto: l’ultimo tentativo di tenere a bada chi vuole spodestarlo 

Silvio Berlusconi si considera da sempre il regista del centrodestra e già si interroga su cosa vorrà fare dopo il voto 

Nicola Fratoianni, contro il capitale e il «nemico comune»: la vita da equilibrista del leader rosso 

Fratoianni non vuole finire nel girone dei rinnegati della sinistra-sinistra. Con Bonelli, i dissapori sono accantonati. Per un miraggio: il 3%

Di Maio, l’ex pupillo Cinque Stelle (dai molti padri) che ora prova a diventare grande 

Dalla carriera lampo con il Movimento allo strappo con Conte. Il ritorno (forse) in Campania per cercare di strappare un seggio 

Maurizio Lupi tra famiglia, chiesa e ponti con quasi tutti. Il maratoneta che presidia i moderati 

Prima la tentazione di costruire un solido polo centrista, poi la scelta, insieme a Toti, di tenere a bada l’avversario Calenda 

Emma Bonino, sempre in prima linea per la difesa dei diritti: è stata la prima radicale a diventare ministro

Nata 74 anni fa, ha sempre tenuto riservata la sua vita privata. 

L’alfabeto politico a un passo dalle urne. I protagonisti e le sfide cruciali: lettera per lettera le elezioni più anomale di sempre. Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2022.

AGENDA. La più celebre fra tutte è quella che non esiste, per ammissione dello stesso diretto interessato. E cioè l’agenda Draghi. Il che la dice lunga sulla raffinatissima capacità italica di discutere del nulla fino allo sfinimento. Forse per reazione o per compensazione, nel frattempo, di agende ne sono spuntate a decine. Una per ogni partito, compresi quelli che vanno in coalizione e quindi dovrebbero averne una sola. Sembra ormai di essere in una cartoleria. Ciò che le accomuna, comunque, è il contenere ricette costosissime, confuse e spalmate su un periodo di tempo, cinque anni, che in politica è una specie di regno dell’utopia.

BERLUSCONI. Ha messo un piede su TikTok e ha sbaragliato tutti con numeri da record, facendo apparire gli altri, trent’anni più giovani, come dei pinguini nel deserto. È una sciocchezza che però dà la cifra del suo tocco da frontman. L’età e la storia gli remano contro: sono gli anni del sovranismo, la concorrenza al centro si è moltiplicata, la storia dell’imprenditore che si è fatto da solo tra tv e calcio, al tempo di Elon Musk, non tiene più. I miti abitano altrove. Ma avesse qualche primavera di meno alla guida del centrodestra ci sarebbe sempre lui. Sicuro.

CONTE. È sopravvissuto a un governo con la Lega, uno col Pd, una pandemia e una scissione. Ha fatto cadere l’esecutivo Draghi e ha rilanciato il Movimento 5 Stelle di cui, ora, tutti hanno paura. Se pensiamo che c’è chi non è sopravvissuto a un referendum, la resilienza di Conte è impressionante. Il reddito di cittadinanza aiuta, non c’è dubbio, ma ridurre tutto alle analisi cispadane sul voto degli straccioni del Sud fa un po’ ridere. E lo rafforza. Ancora.

DISSENSO. Fuori dai blocchi canonici c’è un arcipelago politico che spera nel 3% e spara a palle quadre su tutto: invio delle armi, caro-bollette, politiche sociali. Da Italexit di Gianluigi Paragone a Unione Popolare di Luigi De Magistris, passando per Italia sovrana e popolare di Marco Rizzo. Difficile che qualcuno riesca a entrare ma soltanto perché si vota il 25 settembre e non il 25 dicembre. Dopo un autunno come quello che ci aspetta è probabile che bisognerà riscrivere la mappa politica dell’Italia. Nuove forze di opposizione crescono.

ENERGIA. Inutile girarci intorno: il caro-bollette, e l’inflazione tutta, sono la vera sfida che attenderà al varco il nuovo esecutivo. E sarà difficile salvare gli italiani senza irritare l’Europa (il debito) o derogando all’anti-putinismo di cui Roma si è vestita dal primo giorno di guerra (riprendere il gas russo): due strade complicate da percorrere, per mille ragioni, ma le alternative non sono chiare. E la gente non ha alcuna voglia di mettersi lì a cavillare. Se in queste settimane vi siete divertiti (le perversioni esistono e sono lecite), state tranquilli: la bagarre da campagna elettorale ricomincerà a breve.

FEDERALISMO RAFFORZATO. Pensavamo di essercelo lasciato alle spalle dopo gli anni pandemici del «nessuno si salva da solo». E invece è tornato. Non solo, è pure cresciuto. L’autonomia non è più un tema politico ma geografico. Tutto il Nord, di destra e di sinistra, è tornato a chiedere spazi di auto-gestione e la possibilità che li ottenga è alta, considerato che il Sud, da nefasta tradizione, fatica sempre ad alzare barricate identitarie. Come nel gioco dell’oca siamo tornati alla casella di partenza: c’è la crisi? Faccio da me. Ma se giù non si cammina, anche su si rischia il blocco. Impossibile farglielo capire.

GUERRA. La complessità di un conflitto non è roba da alfabeti. Una cosa però va detta: finalmente gli italiani - di solito piuttosto refrattari alla geopolitica (che, nel nostro dibattito, è un po’ come la matematica al liceo classico) - hanno compreso quanto pesino sulla loro vita quotidiana le ricadute di ciò che accade fuori dai confini nazionali. Una lezione amara, anzi tragica, che cade nel momento peggiore. Ma pur sempre una lezione.

LETTA. Il pulmino elettrico che lo porta al comizio si ferma. Lui scende, ripiega su un’auto. Arriva sul palco e sentenzia: «L’elettrico è il futuro». Ci sono periodi in cui non gira proprio e si vede. Ma Letta ci ha messo del suo rispolverando la mitica vocazione maggioritaria nel momento in cui il Pd è più debole. Senza alleati pesanti (vuole recuperarli dopo?) e a mani nude contro i conservatori col vento della storia in poppa. Di più, con una campagna durissima da dentro o fuori: «Scegli». La sensazione è che gli italiani sceglieranno.

MELONI. Questa volta il boccino ce l’ha lei. Berlusconi si arrangia, Salvini pedala, lei va in Ferrari. Ma dove? È arrivata a questo punto da oppositrice irriducibile a tutto e tutti, non ultimo Draghi. Ora la chiamano «la Draghetta» per le professioni di atlantismo e l’attenzione ai conti pubblici. Forse è un trucco, forse no. Bruxelles, Washington e i mercati non sembrano affatto tranquilli. Gli elettori pare di sì. Ma con le bollette in arrivo lo saranno molto meno. E di certo non la votano per sentirsi dire che scostamenti non se ne possono fare. Si sale in fretta, ma si cade anche in fretta.

ODIO. E niente, non ce l’hanno fatta. Neanche questa volta è stato possibile assistere a un confronto concreto e comprensibile sui temi - che pure ci sono - a favor di cittadino. Accuse di nostalgismo fascista, di vetero-comunismo, di impresentabilità. Misteriosi dossier americani senza indicazioni chiare e code di veleni su «pupazzi prezzolati» senza nome e cognome. Pura bagarre. La «mostrificazione» dell’avversario o, peggio ancora, dell’altro da sé, è la cifra del dibattito italico a favor di telecamera. Non ne usciremo mai.

PANDEMIA. Fino a poco tempo fa non si discuteva d’altro. Ora sembra che tutti l’abbiano lasciata a casa insieme alle mascherine. Parlarne non conviene a nessuno, né in un senso né in un altro, e dunque si fa finta che il problema non esista. C’è da sperare che sia così. Diversamente, in un Paese piegato dall’inflazione e con i venti di guerra dietro casa, potrebbe essere complicato evocare nuove restrizioni o far ripartire la campagna vaccinale con obblighi inclusi. Per ora vince il silenzio che, in campagna elettorale, fa sempre tanto rumore.

RENZI E CALENDA. La strana coppia che si era tanto odiata è la vera novità politica di questa tornata. Poche stupidaggini su fascismo e antifascismo, contenuti tecnici, difesa dichiarata dello status quo (Europa, Nato e compagnia). I voti, probabilmente, arriveranno. Restano i dubbi su Draghi che loro continuano a tirare per la giacca nonostante tutti i suoi «niet» (ci perdonerà...) ma anche sulle strategie future. Se dovesse profilarsi la possibilità di creare un’ammucchiata di centrosinistra, 5 stelle compresi, Renzi non ci metterà molto a strappare portandosi dietro un bel po’ di parlamentari e lasciando Calenda al palo con il suo oltranzismo anti-stelle. E la strana coppia tornerà ad odiarsi.

SALVINI. Ha fatto una campagna elettorale molto lineare sui suoi temi classici e con un finale in crescendo su bollette e sanzioni. Tre anni fa sarebbe arrivato al 40%, ma ora l’impressione è che abbia perso il tocco magico. Ne sono successe tante da quell’estate al Papeete del 2019, quando staccò la spina al governo gialloverde e spianò la strada al Pd. Dall’uscita dall’Euro al governo con Draghi ne passa di strada. E ne passano di voti. Su Putin ha cambiato idea, si è pentito del Green Pass. Che confusione. L’impressione è che i sovranisti duri e puri stiano guardando altrove, così come pure, per motivi opposti, i leghisti classici alla Luca Zaia. L’obiettivo, non scontato, è restare sopra il 10%. Scendere al di sotto sarebbe un disastro.

TEMPO. Dopo il Covid, i lockdown e la guerra in Ucraina ecco un’altra cosa da raccontare ai nipoti (sperando restino svegli): la campagna elettorale più anomala di sempre. Anomala perché concentrata in una finestra temporale strettissima e coincidente con il periodo agostano e l’inizio di settembre, notoriamente settimane non proprio elettive per la politica. Un bene? Un male? Difficile dirlo. La fretta non è mai un buona cosa né per chi si propone né per chi è chiamato a scegliere. Ma il sospetto è che, nel 2023, avremmo assistito a un balletto tendenzialmente simile solo più dilatato. Forse ce la siamo cavata, tutto sommato, a buon mercato.

UNIONE EUROPEA. Almeno fra i quattro principali competitor non c’è nessuno che affermi di voler abbandonare l’euro o uscire dall’unione continentale. Fino a qualche tempo fa lo dicevano, o lo lasciavano intendere, tanti fra gli odierni protagonisti. Per l’Europa, che pure fa di tutto per ringalluzzire i suoi critici (vedi le ultime affermazioni della Von der Leyen), è di fatto una vittoria. Per gli interessati meno. Cambiare idea è segno di intelligenza, usare il dissenso come un taxi, per poi scaricarlo, anche, seppur in chiave cinica. Ma, dal punto di vista di un elettore, non è il massimo. Figura migliore la fa chi europeista lo è sempre stato.

VOTO. È convinzione comune che la partita sia chiusa ma fingere di aver spiato il futuro nella palla di vetro non è mai un buon esercizio. Usciamo da una legislatura di quelle memorabili in cui è successo tutto e il suo contrario e non è affatto detto che la prossima scivolerà in cavalleria. Il Paese si ritroverà comunque spaccato in due nonché aperto, come da tempo accade, a qualunque tipo di rimescolamento o di calata dall’alto. È l’Italia bellezza, niente è mai come sembra.

Canne, fine vita, gay: i leader senza filtri sui temi più divisivi delle elezioni 2022. Dario Martini su Il Tempo il 24 settembre 2022

Cinque leader come raramente si sono visti in questa campagna elettorale. Pronti a sottoporsi anche a domande personali, che inevitabilmente svelano il loro lato umano. Silvio Berlusconi (Forza Italia), Matteo Salvini (Lega), Carlo Calenda (Terzo polo), Giuseppe Conte (M5S) e Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) si confrontano su numerosi temi, dal salario minimo al nucleare, dalla guerra in Ucraina alle tasse. Ma anche sulla propria esperienza con la cannabis, sull'eutanasia e sull'omosessualità. Ad intervistarli in video è Torcha, progetto editoriale basato sui social media che ha pubblicato le interviste multiple su Instagram e YouTube, consultabili quindi da chiunque.

Giorgia Meloni (FdI) ed Enrico Letta (Pd)- si legge sulla piattaforma - sono stati invitati, ma non hanno accettato di partecipare. Il Tempo ha selezionato alcune domande, le cui risposte svelano aspetti inediti dei cinque leader e la loro visione della vita e del mondo. La domanda, in maiuscolo blu, è uguale per tutti. Gli intervistati che forniscono le risposte sono identificati con la prima lettera del cognome, ad eccezione di Calenda e di Conte, per i quali utilizziamo le abbreviazioni «Cal» e «Con».

SI È MAI FATTO UNA CANNA?

B: «Non mi è mai interessato. Ho sempre creduto che ci siano tanti modi più piacevoli per stare con le persone».

S: «No, anche se dai tempi del liceo fumavo le sigarette.

Sono arrivato anche a fumarne due pacchetti al giorno.

Quattro anni fa ho smesso anche con quelle. Ci si può divertire in tanti altri modi».

Cal: «Cacchio, me ne sono fumate troppe. Forse per qualcuno è un semplice passatempo, però io me le sono fumate in un periodo della mia vita in cui non contribuivano a farmi stare bene. Era per me un momento molto difficile, prima che nascesse mia figlia. Non mi hanno aiutato, anzi».

Con: «Confesso di no. Non ho neppure, non so, resistito alla tentazione».

F: «Da giovane, certo».

RICORREREBBE ALL'EUTANASIA?

B: «Mai, mai, mai. Io amo troppo la vita, la considero un dono di Dio da godere fino all'ultimo istante. Come tutti naturalmente ho paura delle sofferenze. Ma credo valga la pena affrontarle con l'aiuto dei medici e delle persone care».

S: «No. E faccio tutti gli scongiuri del caso fuorionda».

Cal: «Sì».

Con: «Guardi, non ci ho mai pensato. Direi che però senz' altro mi piacerebbe avere la libertà di scegliere».

F: «Non so dirlo francamente. Proprio perché la considero una scelta così intima, profonda, così legata al contesto, alla condizione che si vive, che non può essere programmata. Vorrei avere il diritto di poterlo fare in modo curato, protetto, pubblico e legale».

COME REAGIREBBE SE SUO FIGLIO O FIGLIA NON FOSSE CISGENDER*?

*Termine che indica le persone la cui identità di genere corrisponde al sesso biologico. Viene utilizzato in opposizione a «transgender».

S: «Liberi di vivere, amare, fare, disfare come vogliono. Io sono per la libertà».

Cal: «Me ne fregherebbe zero. Posso dire che c'ho questo caso e me ne può fregare di meno. È una cosa per me del tutto irrilevante».

Con: «Io vorrei per mio figlio che possa essere felice, che possa vivere in una società che non discrimina nessuno».

F: «Lo amerei esattamente come lo amo adesso».

LE PIACEREBBE UN MONDO SENZA CONTANTI?

B: «No, no, no. Assolutamente no. Io credo che la carta di credito certo sia la più comoda. Ma credo anche che ognuno abbia il diritto di spendere il denaro che ha guadagnato lecitamente senza essere spiato da nessuno, neppure dallo Stato».

S: «Non vedo perché uno debba eliminare il contante.

No, io sono per le libertà.

Libertà di scuola, libertà d'impresa, libertà d'insegnamento, libertà di scelta e libertà di pagare come si vuole».

Cal: «A me sì, piacerebbe.

Intanto penso che è anche più salutare, sano. Lo abbiamo imparato durante il Covid. Penso che ci arriveremo.

È una cosa ineluttabile. Ed è più comodo».

Con: «Certo, ritengo assolutamente recessive e dannose le proposte che vengono dal centrodestra di elevare sino a diecimila euro la soglia del contante, che noi nel Conte 2 abbiamo abbassato. Questo significa di elevare la possibilità di far trionfare il malaffare. Perché, ditemi, chi va in giro con diecimila euro? Ritorniamo agli "spalloni", alle valigette che abbiamo conosciuto negli anni '80, '90.

F: «Sì, mi piacerebbe. Avremmo anche un mondo più pulito, più ecologico. Pensate a quanta carta in meno sprecheremo».

Nelle risposte che seguono, i cinque leader vengono invitati ad esprimere solo un sì o un no. E, nel caso, a motivare brevemente.

SALARIO MINIMO

B: «No, danneggerebbe i dipendenti».

S: «No, perché danneggerebbe milioni di lavoratori».

Cal: «Sì».

Con: «Assolutamente sì, è prioritario».

F: «Sì, almeno 10 euro l'ora».

to per il sostegno al popolo ucraino aggredito, anche se la diplomazia è l'arma che metterà fine alla guerra nel 2022».

Cal: «Sì».

Con: «No, direi basta con le armi e sì al negoziato di pace».

F: «No».

I sei leader sotto la lente: punti di forza e di debolezza per la corsa a premier. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 17 Settembre 2022.

Il bilancio di strategie, tentativi di cambiare ed errori. E l’ultima settimana può riservare sorprese.

Il rush finale (in attesa di un ultimo coniglio dal cilindro)

Che fatica, ancora sette giorni di questa campagna elettorale sotto il sole che si trascina fino al verdetto di domenica 25 settembre, quando, dalle sette alle ventitré, si deciderà il destino della prossima legislatura. I leader le hanno provate un po’ tutte: dalla linea politica ai manifesti, dai comizi alle comparsate su TikTok, dalle camicette bianche alle cravatte rosse, dagli agguati ai sorrisi. Ora è il momento di sparare le ultime cartucce, cercando di correggere quello che è andato storto, e spostando le truppe dove si può spiazzare l’avversario. I punti di forza e le debolezze di partiti e schieramenti si sono ormai rivelati, ma c’è ancora tempo per le sorprese, perché un ultimo coniglio dal cilindro proveranno tutti a tirarlo fuori.

Meloni - Le parole rassicuranti, la zavorra di Orbán

I PUNTI DI FORZA

La avvantaggia il motto evangelico: il vostro parlare sia sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno. Parole nette, anche se un po’ edulcorate, ma siamo pur sempre in campagna elettorale. Mai messe le mani nel fango, politica internazionale che rassicura gli Usa, eredità post fascista addomesticata, prima donna in grado di diventare premier non per concessione, vele sempre sopravento, anche nelle strambate, che in politica sono un obbligo. 

I PUNTI DI DEBOLEZZA

Rapporto a brutto muso con l’Europa di Germania e Francia, la zavorra del premier ungherese Orbán e un dubbio sul futuro dei diritti civili, un approccio con l’ambiente di tipo produttivista. Tutti elementi non necessariamente negativi, ma a doppio taglio. Alleati sgambettatori che si accinge a seminare con distacco abissale. Un po’ come il ciclista di una canzone di Paolo Conte, che stracciava tutti: «Ma la solitudine aumentava».

Salvini - I cavalli di battaglia e il fattore Russia

I PUNTI DI FORZA

Finalmente basta con la palla al piede del governo di Mario Draghi, governatori e Giancarlo Giorgetti a fare i portatori d’acqua che le liste sono tutte sue, via libera ai cavalli di battaglia di una vita, piatto, si dice a poker, sugli interessi del Nord, scudiero di balneari e tassisti, anche se c’è quella accidenti di Giorgia che fa concorrenza. Fa debito per scommettere tutto sul partito delle bollette, contando che gli dia un po’ di ossigeno. 

I PUNTI DI DEBOLEZZA

Non ha trovato il paletto di frassino per fermare il vampiro che gli prosciuga perfino le valli bergamasche, la campagna del Sud gli è costata più soldati della battaglia di Borodino, gli Usa di lui non si fidano e l’Europa nemmeno. La vicinanza a singhiozzo alla Russia lo indebolisce e in casa non mancano gli accoltellatori per ora silenziosi. Si allena a stare sott’acqua, perché, insegna Califano, «nella palude si salva solo il coccodrillo».

Berlusconi - L’arma a doppio taglio dell’«usato sicuro»

I PUNTI DI FORZA

Punta tutto sull’usato sicuro: taglio delle tasse, pensioni minime a mille euro, un milione di alberi in più. Ma soprattutto investe sul suo prestigio internazionale. Amico degli americani, con il Ppe in Europa, contro l’autocrazia elettorale di Orbán, alla faccia degli alleati che vorrebbero fare un solo boccone di quasi trent’anni della sua creatura, Forza Italia. Attento al Sud, dove prova a saccheggiare la Lega in affanno. 

I PUNTI DI DEBOLEZZA

Troppo usato, fosse anche sicuro. Qualche correzione di rotta, però tardiva, sull’invasione dell’Ucraina. L’abbandono da parte di compagne di una vita, come Gelmini e Carfagna, che con Carlo Calenda mettono la freccia e puntano a sorpassarlo. Un partito che magari prova a mettercela tutta ma soffre l’appannamento del vecchio leone. E lui che forse non se ne cura più tanto, perché è ovvio, «dopo di me il diluvio».

Letta - La sfida del voto utile, l’insidia degli ex alleati

I PUNTI DI FORZA

È nell’ultima settimana, gli dicono, che il voto si polarizza, e anche gli scontenti e i disillusi alla fine ci ripensano e convergono sul voto utile. E lui si dice l’unico, numeri alla mano, che può arginare Giorgia Meloni. Il «no» scontato di Mario Draghi a un ritorno in campo lo aiuta a tentare di svuotare le urne di Carlo Calenda. Cerca voti contro le tentazioni anti europeiste e rivendica di essersi opposto a Putin fin dalla prima ora. 

I PUNTI DI DEBOLEZZA

La partita delle alleanze lo vede in difesa, specie con questa legge elettorale. La sfida sull’antifascismo ha funzionato meno di quanto sperato, gli attacchi di Conte e Calenda lo hanno insidiato più di quelli del centrodestra. I colonnelli del suo partito non hanno dato l’impressione di combattere ventre a terra, aspettando piuttosto il giorno dopo. Quando, con la voluta ambiguità di quel verso, «Più che ‘l dolor poté ‘l digiuno».

Conte - I regali per il Sud, l’abbandono del Nord

I PUNTI DI FORZA

Bonus 110 sulle ristrutturazioni, Reddito di cittadinanza e avanti Sud alla riscossa. Via Di Maio, Di Battista al confino, Beppe Grillo alla finestra. Spregiudicata ambiguità sulla Russia per incassare su bombe e bollette senza strappare del tutto con le alleanze internazionali. Via la zavorra del patto con il Pd che rischiava di fagocitarlo, linea di lotta e di pochette. A un passo dalla scomparsa vede una lucina in fondo al tunnel. 

I PUNTI DI DEBOLEZZA

Truppe nella sacca del Nord abbandonate a se stesse, la controffensiva dell’Ucraina che fa traballare la critica alle sanzioni, una rimonta in percentuale che rischia di non avere un corrispettivo di eletti, falchi a Cinque stelle pronti gettarsi sul quartier generale, ritorno nel gorgo dell’opposizione. Avverte Padre Pio: «Una persona annega in alto mare, una annega in un bicchier d’acqua, ma entrambi muoiono».

Calenda - Scommessa Terzo polo, la trappola dei collegi

I PUNTI DI FORZA

No al centrodestra, no ai Cinque stelle, no alle ambiguità del Pd, no alle elemosine, sì ai rigassificatori, sì al nucleare green, sì all’Europa, no a Putin, sì al Piano di ripresa e resilienza. Calenda il timone lo ha avuto in mano per tutta la campagna elettorale e ha scommesso tutto su un polo che sventrasse gli schieramenti tradizionali. Continui richiami al governo di Mario Draghi, che ha goduto di larga popolarità. 

I PUNTI DI DEBOLEZZA

Rischia di rimanere intrappolato nella morsa del voto utile. La legge elettorale lo penalizza nei collegi uninominali. L’impossibilità di coinvolgere direttamente Draghi nel suo progetto lo indebolisce. Matteo Renzi si è messo in riga rispettando i patti ma poi non ha resistito ed è salito su un jet privato. E ora Calenda resiste alle faine che gli dicono: «Facciamo come con Melampo, mettiamoci d’accordo».

"Il M5S ha realizzato l'80% del programma". Ma Conte viene smentito in diretta. Il leader dei 5 Stelle si pavoneggia per aver portato a termine quasi tutto il programma del Movimento. La verità però è un'altra. Luca Sablone il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.

"Quell'80% è stato conquistato con le unghie e con i denti". Così Giuseppe Conte, a ridosso della chiusura della campagna elettorale, prova a pavoneggiarsi per aver portato a termine quasi tutto il programma del Movimento 5 Stelle. Ma davvero i grillini possono vantare di aver messo in atto l'80% di quanto promesso nel 2018? Non è proprio così e infatti il presidente del M5S, ospite a Piazzapulita su La7, è stato smentito in diretta dalla giornalista Annalisa Cuzzocrea.

Conte viene smentito

L'uscita di Conte è stata ripresa da Pagella politica, che ha voluto rilanciare una recente analisi per smentire la tesi secondo cui il Movimento avrebbe realizzato l'80% del suo programma del 2018. In allegato c'è il fact-checking in questione: Pagella politica sostiene che dei 20 punti promessi quattro anni fa solamente due sono stati completamente realizzati; invece 10 sono stati portati avanti solo in parte e i restanti 8 non sono stati proprio realizzati.

Nello specifico a essere completamente portati a termine sono stati il reddito di cittadinanza e la lotta contro la corruzione, mafie e conflitti d'interesse. Tra le promesse mantenute solo in parte rientrano smart nation; investimenti produttivi; sicurezza e legalità; pensione di cittadinanza; superamento della legge Fornero; 17 miliardi per aiutare le famiglie con i figli; tutela dei risparmi dei cittadini; giustizia rapida, equa ed efficiente; la sanità si prende cura di te; valorizzazione e tutela del Made in Italy.

Infine a non essere stati realizzati sono via subito 400 leggi inutili; meno tasse, più qualità della vita; tagli agli sprechi e ai costi della politica; stop al business dell'immigrazione; banca pubblica per gli investimenti; green economy - Italia 100% rinnovabile; riduzione del rapporto debito pubblico/Pil di 40 punti in 10 anni; superamento della cosiddetta "Buona scuola".

Cosa non torna del M5S

Dunque per Pagella politica l'affermazione di Conte non corrisponde alla realtà dei fatti. Ma, pur prendendo per veritiera la narrazione dell'avvocato, una domanda sorge spontanea: se davvero il Movimento 5 Stelle ha portato a termine l'80% del suo programma, allora per quale motivo l'Italia è ancora disastrata? Togliendo di mezzo l'emergenza Coronavirus e gli effetti drammatici della guerra, il Paese prima del 2020 era veramente un gioiello?

Delle due l'una: o è falso che il M5S ha rispettato l'80% dei propri impegni elettorali oppure le promesse mantenute non si sono rivelate tanto efficaci da risollevare le sorti dell'Italia. Da qui la contraddizione di Conte, che in effetti rischia di subire un autogol: se è vero che il Movimento è stato così ligio nell'ottemperare a quanto garantito allora qualcosa non ha funzionato. E non è poca roba.

I programmi elettorali dei partiti a confronto. Redazione politica su La Repubblica il 24 settembre 2022.

Divisi su riforme, fisco, migranti,diritti civili. Nodo ambiente

Centrodestra: presidenzialismo e filo atlantismo

Il filo atlantismo è un imperativo categorico del programma del centrodestra, un progetto che si interseca con le posizioni del Pd e dei sostenitori della cosiddetta "Agenda Draghi". Al netto del Ponte sullo Stretto, che non trova molti proseliti al di là di Fi-Lega e Fdi, più complessa è la partita sul fronte delle riforme, con il presidenzialismo e le autonomie, su cui puntano Giorgia Meloni (per il primo), e Matteo Salvini (per le seconde), che diventa un vero proprio spartiacque rispetto al centrosinistra e ai propositi dei moderati di centro. Su salute e nuove fonti energetiche si concentra uno dei 15 punti del centrodestra che però non direbbe no al nucleare pulito dell'ultima generazione: un passo decisamente forte per la sinistra ecologista, i 5 stelle (contrari anche ai termovalorizzatori), e il Pd.

Centrosinistra: salario minimo e dote ai 18enni

E alla richiesta di meno tasse, con una flat tax al 15% anche per i lavoratori dipendenti rilanciata da Matteo Salvini (per Berlusconi potrebbe bastare al 23), il Pd risponde con la rimodulazione dell'Irpef , la parità salariale, e la dote di 10 mila euro per i diciottenni da ricavare da una sorta di patrimoniale. Ma i dem e la sinistra rilanciano anche sui diritti civili, lo ius scholae e la tutela dell'ambiente.

E, andando contro uno dei cardini dei 5 stelle, Enrico Letta vorrebbe la modifica del reddito di cittadinanza e del superbonus 110. Elemento divisivo tra centrodestra, Pd e sinistra è sicuramente la modalità con cui si declinano i canoni su sicurezza e migranti (più orientati verso l'accoglienza nel Pd e nella sinistra e più sul concetto del respingimento da parte di Fratelli d'Italia e Lega) con una ulteriore differenziazione tra Giorgia Meloni , Matteo Salvini e Silvio Berlusconi per quanto riguarda l'ipotesi di "blocco navale" per evitare gli arrivi dalla Libia.

M5S: reddito di cittadinanza e cashback fiscale

I 5 stelle puntano sugli aiuti alle imprese e alle famiglie, un tema su cui convergono sostanzialmente tutte le forze politiche, sia pure con diverse declinazioni sull'argomento. E tengono il punto su salario minimo e il no alle trivelle (idea che li accomuna alla sinistra ecologista). Il rilancio contro la precarietà del lavoro sembra essere un denominatore comune.

L'inclusione sociale è un altro cavallo di battaglia del centrodestra, mentre il cashback fiscale rappresenta un punto di riferimento per il partito di Conte.

Terzo Polo: agenda Draghi e Pnrr

L'agenda Draghi campeggia nel programma di Carlo Calenda e Matteo Renzi, viatico forse non secondario per un eventuale accordo in salsa centrista tra Azione e Italia Viva. Per trovare i punti in comune nei programmi dei due leader non c'è quindi che l'imbarazzo della scelta: dall'atlantismo all'europeismo, al sostegno all'Ucraina. E ancora, il Pnrr con il raggiungimento di tutti i 55 obiettivi. Un Pnrr sul quale invece i partiti del centrodestra chiedono alcune revisioni. In questo quadro, un capitolo di convergenza tra Calenda e Renzi è quello delle riforme, proprio a cominciare da quelle avviate dal governo uscente, dalla concorrenza alla giustizia (a partire dalla riforma del Csm), dal fisco, con la riforma dell'Irpef ,all'agenda sociale. Attenzione anche per la politica energetica e ambientale, con una forte spinta per le rinnovabili, l'installazione dei rigassificatori che invece vede la contrarietà della sinistra. 

Flavia Amabile per “la Stampa” il 22 settembre 2022.

Fate una ricerca sui social, andate a leggere le conversazioni sulla scuola. C'è sempre qualcuno che, prima o poi, scrive che la spesa pubblica in Italia è diminuita, che l'Italia spende meno degli altri Paesi europei, che gli insegnanti sono sempre di meno, e i loro stipendi sempre più bassi. Solo l'ultima affermazione è vera, le altre sono completamente false, sostiene la Fondazione Agnelli nel dossier «Le risorse per l'istruzione: luoghi comuni e dati reali», un'analisi dettagliata da consegnare al governo che verrà, sostiene il direttore Andrea Gavosto.

«Analizzando i programmi elettorali dei vari partiti - spiega Gavosto - emerge che la scuola non è un tema prioritario. Quasi tutti hanno proposte che non sono molto originali, tendono a considerare gli insegnanti innanzitutto come bacino elettorale e lanciano idee con costi che arrivano fino a 30 miliardi. Con questa analisi cerchiamo di dire al prossimo Parlamento che investire sulla scuola è necessario ma che bisogna investire meglio. I test Invalsi mostrano come, nonostante la spesa, quasi uno studente su due non arriva a un livello adeguato di competenze alla fine del ciclo scolastico».

Per la scuola, infatti, come percentuale del Pil, la spesa è rimasta stabile per molti anni e nel 2020 ha ripreso a salire ed è l'unico settore della pubblica amministrazione in cui il personale è cresciuto del 20% negli ultimi dieci anni. Le risorse sono calate soltanto per l'università. Non è vero nemmeno che l'Italia spende per la scuola meno del resto d'Europa, sostiene la Fondazione Agnelli.

Se si considera la percentuale del Pil il dato è allineato alla media europea e a quella di Paesi come Germania e Spagna. E, se si considera la spesa per ogni singolo studente fra i 6 e i 15 anni, l'Italia spende circa 75mila euro, a parità di potere d'acquisto, più della media europea, un risultato dovuto anche al fatto che l'Italia non ha modificato la sua quota di spesa nonostante il calo della popolazione studentesca (più marcato che nel resto d'Europa). 

Nonostante il calo degli studenti gli insegnanti crescono, otto anni fa il rapporto era di 10,9 studenti per ogni insegnante, lo scorso anno era 8,6. Crescono però i precari quelli di ruolo sono in calo. Oggi i docenti a tempo determinato sono il 24% del totale, sei anni fa erano il 14%. Sono soprattutto insegnanti di sostegno (i due terzi di chi ha questo ruolo è a tempo determinato) senza preparazione specifica e con un tasso di mobilità che impedisce la continuità didattica.

È vero invece che le retribuzioni sono inferiori a quelle della maggioranza degli altri Paesi europei, ma, tra scuola e casa, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare (dati Ocse Talis 2018, relativi alla secondaria di I grado) 26 ore alla settimana contro una media europea di 33 ore.

Cosa pensano i partiti su matrimonio egualitario e omogenitorialità. GIULIA MORETTI su Il Domani il 13 settembre 2022

Il procedere della campagna elettorale sta rendendo evidente che le posizioni più distanti sono quelle sui diritti civili. Ecco cosa ne pensano i vari schieramenti

È sui diritti civili che tra le proposte elettorali di centrodestra e centrosinistra il fossato è più ampio. In particolare, le questioni di genere costituiscono il polo cui entrambi gli schieramenti si rivolgono per delineare la propria identità, l’uno, la destra, in senso oppositivo, l’altro, la sinistra, in senso positivo.  

Due dei temi sul tavolo sono l’introduzione del matrimonio egualitario e la tutela legale dell’omogenitorialità voluti da Partito democratico (con al fianco Più Europa e Sinistra Italiana), Movimento 5 stelle e Unione popolare, ma avversati da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. 

IN ITALIA E NEL MONDO

Il matrimonio egualitario è attualmente sancito dagli ordinamenti di 31 paesi nel mondo su 235, 17 dei quali si trovano in Europa. Allo stato attuale, l’Italia non fa parte di questi paesi: le coppie di persone dello stesso sesso non possono, infatti, sposarsi ma possono accedere alle unioni civili.

Tuttavia, prima che la legge che le regola, la cosiddetta legge Cirinnà, fosse approvata nel 2016, il tema non era entrato nelle aule per lungo tempo.

Di fonte all’inerzia del parlamento, nel 2008 un’iniziativa dal basso ha fatto accendere i riflettori sul tema: numerose coppie, che avevano fatto richiesta di pubblicazioni di matrimonio e che se le erano viste rifiutate, hanno avviato procedimenti giudiziari. L’esito di questi ha permesso di appurare che dal nostro ordinamento derivano due diritti fondamentali garantiti a chi decide di impegnarsi in una relazione stabile: il diritto alla vita familiare e quello al matrimonio.

VITA FAMILIARE E MATRIMONIO: LE DIFFERENZE

Il diritto alla vita familiare protegge il singolo dalle eventuali ingerenze statali nella sua vita emozionale e sessuale ma riguarda i legami vissuti al di fuori del matrimonio. Il diritto al matrimonio tutela quanti vogliano accedere a questo istituto, con i relativi diritti e doveri.

La Corte costituzionale, nel 2010, ha invitato il parlamento a intraprendere un percorso che portasse al riconoscimento delle stabili convivenze tra persone dello stesso sesso. La Corte europea dei diritti dell’uomo, poi, nel 2015 e nel 2017, ha condannato l’Italia per non aver provveduto a rendere effettivo il diritto alla vita familiare.

Se, dunque, la legge sulle unioni civili ha colmato tale lacuna, le coppie omosessuali rimangono ancora private del diritto al matrimonio, l’accesso al quale le metterebbe nelle condizioni di essere soggetti agli stessi effetti che esso produce. Tra questi l’accesso all’adozione.

I DUBBI SULL’ARTICOLO 29 DELLA COSTITUZIONE

«La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Alcuni dubbi in merito alla possibilità di introdurre in Italia il matrimonio egualitario derivano dalla formulazione dell’articolo 29 della Costituzione, che identifica la famiglia «come società naturale fondata sul matrimonio».

I detrattori del matrimonio egualitario sostengono che il matrimonio tra persone dello stesso sesso costituirebbe una formazione sociale “non naturale”, contraddicendo, quindi, il precetto costituzionale.

Numerosi costituzionalisti, tra cui Roberto Bin, hanno messo in luce come la famiglia, essendo una formazione sociale e culturale, non possa essere definita “naturale” nel comune del termine. Ciò sarebbe un ossimoro: può essere naturale qualcosa che si fonda sul matrimonio che è un artificio giuridico?  

Quell’aggettivo sarebbe, dunque, da riferire ai «bisogni umani fondamentali, imprescindibili, legati alla socialità dell’uomo, alla sua riproduzione, alla sua affettività». Sulla stessa linea appare essere anche la Corte costituzionale che in una sentenza del 2010 ha sottolineato che «i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore».

L’OMOGENITORIALITÀ: LE POSIZIONI DEI PARTITI

Come detto in precedenza, c’è una stretta connessione tra matrimonio egualitario e omogenitorialità. Rendere legale per due persone dello stesso sesso sposarsi apre loro la strada anche alle adozioni (anche all’adozione del figlio del partner, la stepchild adoption) e all’accesso alla fecondazione eterologa, stimolando il dibattito sulla capacità di coppie omosessuali di crescere bambini sani.

«La famiglia è quella composta da una mamma e un papà», scrive la Lega nel proprio programma elettorale e dello stesso avviso è Fratelli d’Italia che nel documento programmatico ribadisce la propria posizione a favore del «divieto di adozioni omogenitoriali».

Favorevoli sono, invece i partiti di area progressista. Il tema è stato argomento di dibattito anche durante il confronto tra il segretario del Pd, Enrico Letta, e la la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, avvenuto su Corriere tv.

«Ai bambini bisogna garantire il massimo e il massimo è avere un padre e una madre, stabilità nella coppia», ha sostenuto Giorgia Meloni. Non si è fatta attendere la risposta di Letta che ha sostenuto: «Ai bambini serve amore», subito ripreso da Meloni la quale ha affermato che «lo stato non norma l’amore».

IL «MASSIMO» DA OFFRIRE AI BAMBINI

La Corte di cassazione ha stabilito che il criterio da rispettare quando si prendono decisioni sui bambini è «il supremo interesse del minore», le scelte compiute devono, dunque, essere fatte sulla base dell’accertamento della capacità dei genitori di garantire ai bambini un sano sviluppo psicofisico.

Le scienze, in particolare quelle sociali, si sono interrogate sull’idoneità delle coppie omosessuali a crescere un bambino. Uno studio del 2015 (Scientific Consensus, the Law, and Same Sex Parenting Outcomes), che ha preso in esame 19.430 studi sul tema, ha concluso che nella comunità scientifica internazionale c’è accordo sul fatto che «non esistono differenze sostanziali tra i bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso e quelli cresciuti in altre configurazioni genitoriali». Tutti gli studi, quattro, che conducono a una conclusione diversa provengono da ricercatori di accademie cristiane e ritenuti inaffidabili per gravi falle metodologiche.

La Corte costituzionale in una sentenza del 2021, relativa ad un caso di doppia paternità, pur ribadendo che la scelta di normare l’omogenitorialità è a discrezione del parlamento, ha definito «ormai indifferibile» l’individuazione di strumenti legali che tutelino situazioni familiari, nello specifico omogenitoriali, di fatto già esistenti. Ne andrebbe, dicono i giudici, del «preminente interesse del minore».

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Cambiamento climatico e ambiente, ecco cosa non funziona nei programmi dei partiti. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2022.

Il clima si ribella, e punisce violentemente la nostra indolenza. L’estate è stata una delle più terribili: senza pioggia e senza ghiaccio sulle montagne il livello dei fiumi si è più che dimezzato. Per la prima volta nella storia in Germania è stata fermata la navigazione sul fiume Reno, in Italia il mare è entrato per 40 km nel Po e l’acqua salata ha compromesso definitivamente 30 mila ettari di terreno. Mentre la produzione agricola nazionale ha perso quasi il 30% e in alcuni territori il 70% a causa della siccità e delle temperature a lungo troppo elevate. Il processo di tropicalizzazione sta accelerando accompagnato dai nubifragi: sempre più frequenti, estremi, e tragici. Effetto del riscaldamento climatico. Contrastarlo è una priorità per tutti i governi. 

Gli obiettivi sono definiti dall’Accordo di Parigi del dicembre 2015 e dagli impegni con la Ue del luglio 2021: l’aumento della temperatura deve restare sotto 1,5° C rispetto al periodo preindustriale, questo comporta l’impegno a ridurre entro il 2030 di almeno il 55% le emissioni di CO2 equivalente rispetto al 1990 (per arrivare alla neutralità climatica nel 2050). Oggi l’Europa le ha ridotte del 27% (media dei 27 Paesi), l’Italia è a meno 20% (fonte Eurostat maggio 2022). 

L’indice di valutazione

Quindi con quali azioni concrete i maggiori partiti intendono rispettare questi impegni? Una valutazione è stata fatta da un panel formato da 20 esperti fra i più qualificati studiosi del clima, politiche ambientali, energetiche, ed economiche. Hanno esaminato i programmi depositati al Viminale dalle forze politiche che si presentano alle elezioni del 25 settembre, e lo hanno fatto sulla base di 10 criteri oggettivi.

A Flourish chart

Il risultato è sintetizzato in un «indice di impegno climatico» attribuibile alle varie forze politiche che va da 0 a 10, dove 0 indica le posizioni negazioniste e 10 l’obiettivo raggiunto (il documento integrale è pubblicato qui). Vediamo allora come si posizionano le forze politiche in campo rispetto all’obiettivo da raggiungere considerando i punti principali del loro programma. Qui per ragioni di spazio prendiamo in considerazione i partiti maggiori, mentre nelle grafiche in pagina c’è la valutazione di tutti i partiti. 

Fratelli d’Italia, Lega e FI

Nell’«Accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra» depositato al Viminale il dodicesimo capitolo (su 15) è dedicato all’ambiente, che viene definito giustamente una priorità. C’è, però, solo un accenno al dovere di «rispettare gli impegni internazionali assunti dall’Italia per contrastare i cambiamenti climatici», con l’aggiunta di «aggiornarli» ma senza l’indicazione di chiari e precisi obiettivi. La sfida della transizione energetica viene affrontata nel capitolo 11. Il cuore delle azioni proposte consiste nel «Ricorso alla produzione energetica attraverso la creazione di impianti di ultima generazione senza veti e preconcetti, valutando anche il ricorso al nucleare pulito e sicuro». Tempi lunghi che spostano in là nel tempo un problema che va affrontato oggi. Per gli esperti l’obiettivo è ancora lontano.

Movimento 5 Stelle

Nel programma «Dalla parte giusta. Cuore e coraggio per l’Italia di domani» sono dedicati all’ambiente 3 capitoli su 21. Le principali proposte: riconversione del parco auto circolante, bonus edilizi, bonus energia per le imprese, impianti non inquinanti per il trattamento dei rifiuti, sburocratizzazione della trafila per la costruzione di impianti per l’eolico e il fotovoltaico. Ma in nessun punto del programma si affronta il problema del clima in modo sistemico: vengono indicate solo singole micro-politiche scollegate tra loro, senza di fatto nessun riferimento al quadro politico e normativo di riferimento. Non ci sono indicazioni su come uscire il più possibile dai combustibili fossili. Per gli esperti il M5S si piazza poco più che a metà strada per raggiungere l’obiettivo.

Partito democratico

Lo «sviluppo sostenibile e la transizione ecologica» vengono messi come uno dei tre pilastri fondamentali del programma «Insieme per un’Italia democratica e progressista» insieme al lavoro e ai diritti. Le principali azioni previste: aumentare la quota di rinnovabili prodotte in Italia, anche attraverso lo sviluppo delle Comunità energetiche, con l’obiettivo di installare 85 GW di rinnovabili in piùentro il 2030, con la creazione di circa 500 mila nuovi posti di lavoro; la progressiva riduzione dei sussidi dannosi per l’ambiente con compensazione per famiglie e imprese più vulnerabili; l’incentivo dell’installazione di almeno 100 mila colonnine elettriche e di 30 mila punti di ricarica rapida entro il 2027. Per gli esperti il programma si avvicina all’obiettivo.

Azione/Italia viva

Nel programma di Azione e Italia viva è dedicato all’ambiente un ampio capitolo (su 20). Previsti interventi su trasporti, edilizia e foreste «per arrivare alla riduzione delle emissioni del 55%». Viene però chiesto a Bruxelles di abbassare il prezzo per le emissioni di CO2 a carico delle imprese, e questo per il panel di studiosi rallenta la spinta a correre sulle energie rinnovabili. Prospettati investimenti in impianti di cattura della CO2, una tecnologia ancora troppo costosa e lontana. Sul lungo periodo per arrivare a emissioni zero pensano al nucleare di ultima generazione. Unico programma corredato di dati, ma non sufficiente nell’insieme perché pro-Ue nel testo, ma poi pro-fossile nelle proposte: per gli esperti si collocano a metà strada nel raggiungimento dell’obiettivo. 

Le dichiarazioni dei leader

Cosa cambia se dai programmi si passa alla valutazione delle dichiarazioni nella campagna elettorale? I 20 esperti le hanno passate in rassegna. Quel che emerge è che finora il tema del caro-energia ha polverizzato ogni altro ragionamento su ambiente e clima. Da inizio settembre di fatto nessuno dà peso agli accordi internazionali, alla riduzione delle emissioni e all’investimento sulle energie pulite, tranne Giuseppe Conte che rilancia il fotovoltaico, soprattutto sui social network. Ogni riferimento a tecnologie (molti), fonti (molti) ed emissioni (quasi nessuno) sta nel discorso politico di breve periodo su come superare la dipendenza da Mosca. Lo scenario politico si è polarizzato sul tema del nucleare, dai NO (Bonelli e Conte) ai Sì decisi e ripetuti (Calenda e Salvini). Va ribadito che le emissioni di Co2 del nucleare sono zero, ma trattandosi di scelta molto divisiva, rimanda nei fatti alle calende greche. Letta ribatte sulle rinnovabili, ma senza troppa forza. Meloni non si sbilancia sul nucleare, ma apre al tema in generale della transizione parlando di «Italia hub energetico». Invece Carlo Calenda si scaglia contro la Commissione Europea («Il piano Timmermans») ed il Green Deal Europeo, quindi in netto contrasto con le posizioni di principio espresse nel suo programma condiviso con Renzi. In estrema sintesi, tra i big salgono Conte (rafforza la posizione rispetto al programma scarno) e Giorgia Meloni (mette il tema al centro, ma è difficile capire con quale visione); mentre scende Calenda. In linea con il programma presentato, per il momento, tutti gli altri.

La buona notizia è che nessun partito nega l’esistenza del problema, quella brutta è che manca un’idea organica e complessiva sul futuro

Quel futuro dove vivranno i nostri figli, e che sarà sempre più inospitale, poiché il pianeta è indifferente alle nostre misere distrazioni. Lui reagirà solo alle «azioni», quelle che sono state a lungo osservate, studiate, e poi decise e sottoscritte negli accordi internazionali. Tutto il resto sono parole inutili.

Tutela degli animali, cosa dicono (o non dicono) i programmi dei partiti? S.Mor. su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022

L’analisi dei programmi elettorali realizzata dalle 13 associazioni animaliste firmatarie dell’appello #ancheglianimalivotano. Poco spazio ancora viene riservato al tema 

Qualcuno è sensibile, per altri — invece — non si tratta di temi ai quali dedicare attenzione nei programmi elettorali. Così mentre la tutela degli animali domestici e la prevenzione del randagismo trovano spazio nei punti di diverse forze politiche, la protezione degli animali selvatici e il collegamento tra la necessità del contrasto ai cambiamenti climatici e le condizioni degli animali negli allevamenti intensivi diventa uno dei grandi assenti.

Forza Italia, Verdi-Sinistra, M5S, Fratelli d’Italia, +Europa, Unione Popolare, Impegno Civico Di Maio e Italexit si trovano d’accordo sulla necessità di istituire — con il prossimo Parlamento — la figura del Garante nazionale dei diritti degli animali, sull’inasprire e rendere più efficaci le pene contro i maltrattamenti degli animali, sul rendere meno costosa la vita delle famiglie che vivono con animali (ad esempio rendendo equa l’Iva su cibo e prestazioni veterinarie), recependo l’appello #ancheglianimalivotano lanciato a inizio agosto da 13 associazioni animaliste presenti nel nostro Paese (ALI, Animal Equality Italia, Animalisti Italiani, CiWF Italia, ENPA, Essere Animali, Humane Society International/Europe, LAC, LAV, LEIDAA, LNDC Animal Protection, OIPA e Save the Dogs and Other Animals).

Quando si entra nello specifico della tutela degli animali, però, la situazione cambia. Alleanza Verdi–Sinistra, Movimento 5 Stelle, Unione Popolare e Italexit sono i primi quattro partiti che hanno scelto di aderire a tutte le 6 macro-aree di intervento individuate nel manifesto «Anche gli animali votano», elaborato come programma destinato a partiti, candidati premier e candidati al Parlamento. Nessun riferimento alla salvaguardia e benessere degli animali è stato inserito nei programmi di Azione-Italia Viva, Italia Sovrana e Popolare e di Alternativa per L’Italia-No Green Pass. Nel programma del centrodestra, poi, si fa riferimento alla tutela della biodiversità e all’educazione ambientale, mentre si fa riferimento in negativo all’obiettivo di «contrastare la proliferazione degli animali selvatici», aumentando periodi e territori aperti alla caccia.

Qualche riferimento sulla tutela dei domestici emerge nei programmi dei singoli partiti, Forza Italia, Lega e Fratelli D’Italia. Anche il Pd inserisce un punto sulla tutela del benessere animale, mentre Impegno Civico Di Maio indica, come la maggioranza degli altri partiti, la necessità d’istituire la figura del Garante nazionale. Si parla di benessere animale anche in un capitolo (il 18esimo) del programma di +Europa con Emma Bonino («+Europa crede tutti gli esseri viventi abbiano diritto al rispetto delle proprie caratteristiche etologiche e alla tutela dell’integrità psicofisica: per questo ritiene indispensabile che siano garantite agli animali condizioni di vita rispettose, anche seguendo modalità di custodia che limitino il più possibile la sofferenza e la paura. Privilegiando l’aspetto etico e il rispetto dell’animale, il risultato economico non può essere raggiunto causando sofferenza evitabile. Crede in scelte normative guidate dalla consapevolezza che ogni animale sia un essere senziente, come riconosciuto dall’art.13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e che, come tale, vada rispettato e tutelato con nuove considerazioni che si riflettano nel sistema complesso dell’economia e della scienza. La pandemia di covid-19 ha posto all’attenzione della pubblica opinione l’intima connessione tra benessere umano, animale ed ecosistemico e la necessità di seguire l’approccio scientificamente riconosciuto denominato “one health”, che vede la tutela della salute umana, strettamente connessa a quella degli animali e dell’ambiente. Un solo pianeta e una sola salute globale»).

Manca nella maggior parte dei programmi la volontà di avviare le azioni necessarie per abbandonare il sistema intensivo di allevamento. Per quanto riguarda gli animali domestici, Fratelli D’Italia propone di «inasprire le pene per i reati contro gli animali, fermare la tratta illegale di cuccioli proveniente dall’Est Europa», mentre Lega, Pd e Italexit sostengono tra gli altri temi «l’abbassamento dell’Iva sulle prestazioni veterinarie; contrasto al randagismo e ai maltrattamenti». Quando si parla di animali selvatici, la coalizione di centrodestra sottolinea «la necessità di salvaguardare la biodiversità, anche attraverso l’istituzione di riserve naturali e la promozione dell’educazione ambientale e al rispetto della fauna e della flora», ma sia nel programma comune che in quello dei singoli partiti si prevedono «interventi di contrasto al fenomeno della proliferazione della fauna selvatica», ovvero interventi per aumentare la caccia come previsto anche da Azione-Italia Viva.

L’impegno sull’abolizione della caccia arriva da Alleanza Verdi – Sinistra, Movimento 5 Stelle, Unione Popolare e Italexit. «Chiunque governi dovrà tenere conto della necessità di dare piena attuazione al nuovo articolo 9 della Costituzione», sostengono le 13 associazioni firmatarie. «La politica deve prendere atto che la tutela e il benessere degli animali sono temi irrinunciabili nel dibattito elettorale, in grado di orientare gli elettori», concludono le 13 associazioni firmatarie del manifesto #ancheglianimalivotano. «Siamo disponibili a ulteriori confronti con le altre forze politiche interessate a raccogliere il nostro appello per una società più giusta per tutti, compresi gli animali».

FRATELLI D’ITALIA

Nel programma è indicata «la necessità di salvaguardare la biodiversità, anche attraverso l’istituzione di riserve naturali e la promozione dell’educazione ambientale e al rispetto della fauna e della flora». Viene indicato, però, anche «il rafforzamento degli strumenti di garanzia sui finanziamenti a favore delle imprese agricole degli allevamenti e della pesca» e «interventi di contrasto al fenomeno della proliferazione della fauna selvatica». Nel capitolo 15 viene fissato l’obiettivo di «rilanciare la produzione e la qualità dell’agroalimentare,della pesca e degli allevamenti di qualità italiani». Nel capitolo 16 («A difesa dell’ambiente e della natura») si legge invece sia necessario «inasprire le pene per i reati contro gli animali», portare avanti «campagne di formazione e informazione sul loro rispetto; fermare la tratta illegale dei cuccioli provenienti dall’Est Europa» e riconoscere il «ruolo sociale e terapeutico degli animali d’affezione» e la «tutela delle specie e della biodiversità». 

LEGA

Nel programma della Lega è indicata «la necessità di salvaguardare la biodiversità, anche attraverso l’istituzione di riserve naturali e la promozione dell’educazione ambientale e al rispetto della fauna e della flora». Negativamente si indica «il rafforzamento degli strumenti di garanzia sui finanziamenti a favore delle imprese agricole degli allevamenti e della pesca» e «interventi di contrasto al fenomeno della proliferazione della fauna selvatica». Nel capitolo «Agricoltura» è sottolineata la necessità di modificare la Legge a tutela della fauna selvatica «tramite il forte coinvolgimento del mondo agricolo e rurale in genere in sintonia con il mondo venatorio». Nel capitolo «Tutela del benessere animale» si leggono tra gli altri impegni «l’abbassamento dell’Iva su prestazioni veterinarie e cibo per animali, iniziative per il contrasto all’abbandono e al randagismo, miglioramenti dei canili, introduzione di sanzioni più efficaci nel Codice penale per il contrasto ai maltrattamenti e agli altri reati a danno degli animali, aumento del personale dedicato e formato nelle Forze di Polizia, istituzione di un Garante nazionale dei diritti degli animali».

FORZA ITALIA

Nel programma di Governo del Centrodestra viene indicata «la necessità di salvaguardare la biodiversità,anche attraverso l’istituzione di riserve naturali e la promozione dell’educazione ambientale e al rispetto della fauna e della flora». Si indicano «il rafforzamento degli strumenti di garanzia sui finanziamenti a favore delle imprese agricole degli allevamenti e della pesca» e «interventi di contrasto al fenomeno della proliferazione della fauna selvatica» (ovvero più caccia). Nel programma — all’interno del capitolo «Salute» — si ricorda la «valorizzazione dell’approccio “one health” che connetta la salute degli esseri umani, quella degli animali e la salubrità dell’ambiente. Sostegno all’adozione degli animali in canili e gattili, inasprimenti di pena per coloro che maltrattano e abbandonano gli animali. Promozione della pet therapy a supporto delle persone con fragilità».

NOI MODERATI

Nel programma è indicata «la necessità di salvaguardare la biodiversità, anche attraverso l’istituzione di riserve naturali e la promozione dell’educazione ambientale e al rispetto della fauna e della flora». Si indica «il rafforzamento degli strumenti di garanzia sui finanziamenti a favore delle imprese agricole degli allevamenti e della pesca» e «interventi di contrasto al fenomeno della proliferazione della fauna selvatica». Nel programma dei quattro partiti che compongono la coalizione non vi è alcun riferimento alla tutela degli animali.

PD-ITALIA DEMOCRATICA E PROGRESSISTA

All’interno del programma, nell’allegato 3 «Diritti e cittadinanza», il Pd dedica il punto alla «Tutela del benessere animale - Per tutelare i diritti degli animali rafforzare le sanzioni per il contrasto ai maltrattamenti e potenziare la diffusione delle strutture di accoglienza». In un altro passaggio si parla di «allevamento e pesca come motori della transizione ecologica».

ALLEANZA VERDI-SINISTRA

Nel capitolo 10 «L’Italia che ama gli animali» sono stati fatti propri tutti i punti proposti dalle associazioni animaliste per la tutela giuridica degli animali, per i domestici e i selvatici, per quelli utilizzati da circhi, zoo, moda, allevamenti esperimentazione, per l’abolizione della caccia. Nel capitolo «Tutela degli animali allevati a fini alimentari» è stato inserito l’impegno «all’adesione e sostegno del Plant Based Treaty a complemento dell’Accordo di Parigi (sistemi alimentari da adattare ai cambiamenti climatici)». 

+EUROPA

Nel programma depositato al Ministero dell’Interno non vi è alcun riferimento diretto alla tutela degli animali. In quello integrale pubblicato sul sito vi è, invece, l’obiettivo di aumento della spesa pubblica in ricerca di base e applicata che, senza alcun riferimento allo stop all’uso degli animali nella sperimentazione, significherebbe un aumento di questo utilizzo. Nel capitolo 18 «Benessere animale» sono elencati, tra gli altri,dei positivi impegni su trasporti animali per allevamenti e macellazioni, Iva su prestazioni veterinarie e cibo per animali, contrasto al traffico dei cuccioli, stop al taglio delle pinne agli squali e all’uso degli animali nei circhi.

IMPEGNO CIVICO DI MAIO-CENTRO DEMOCRATICO

Per attuare l’integrazione della Costituzione su ambiente e animali propongono «una Legge nazionale sul clima e l’istituzione della figura del Garante nazionale dei diritti e del benessere animale». All’interno del programma al punto 10 (quando si parla di «Diritti civili,immigrazione, inclusione») viene proposta positivamente una «urgente modifica della norma contro i maltrattamenti a danno degli animali con l’inasprimento delle pene e con la codifica di nuovi reati». Impegni anche su Iva agevolata su cibo e prestazioni veterinarie, animali nei circhi, importazione animali esotici. Sui mezzi a trazione animale si parla di regolamentazione. Negativa e poco chiara la posizione sulla caccia esposta all’interno del capitolo 11 (su «Sicurezza Alimentare») in cui si parla di «proliferazione fuori controllo di alcuni animali selvatici», e per la quale viene proposto di «intervenire sulla legge 157/92senza tuttavia stravolgere le regole che disciplinano il prelievo venatorio».

MOVIMENTO 5 STELLE

Nel programma depositato al Ministero dell’Interno, nel capitolo «Dalla parte degli animali: contro caccia, bracconaggio e violenze» sono indicati come obiettivi la «progressiva abolizione della caccia a partire dal divieto di accesso ai terreni privati; contrasto al bracconaggio», «pene severe per chi commette violenza maltrattamenti contro gli animali», «cashback veterinario per ottenere sul conto corrente le detrazioni connesse alle spese veterinarie e per farmaci effettuate con strumenti di pagamento elettronici». Nell’incontro del 5 settembre di Giuseppe Conte con le associazioni animaliste è stato presentato il capitolo «Tutela degli animali e della biodiversità» del Programma esteso del Movimento 5 Stelle-pubblicato il 9 settembre nel quale vi è l’adesione a tutte le nostre proposte.

VIVA CALENDA Nessun riferimento alla tutela degli animali. Nei passaggi sul contrasto ai cambiamenti climatici nessun riferimento a interventi sugli allevamenti. Al punto 6 del capitolo Agricoltura si chiede «l’approvazioneimmediata del decreto legge concordato con le Regioni a modifica della legge 157 che ha ormai trenta anni,per una gestione efficiente della fauna selvatica» che prevedeva l’aumento dei periodi e dei territori di caccia. Nel punto sulla pesca si propongono «incentivi per il ricambio dei navigli e dei mezzi con una età media oltre i trenta anni (...) e dotare il settore di uno stabile strumento di sostegno al reddito».

UNIONE POPOLARE

Nel capitolo 8 è indicata la necessità di una «Riforma agro-ecologica della Politica Agricola Comune tagliando i sussidi agli allevamenti intensivi e sostenendo aziende agricole che producono con metodi ecologici e a tutela della biodiversità», «Piena applicazione della Strategia europea sulla biodiversità», «Nuova Legge quadro sulle aree protette che dovranno arrivare al 30% di territorio e mare entro il 2030», «Tutela delle api e degli altri impollinatori con interventi su pesticidi». Nel capitolo 12 si afferma l’impegno alla «Tutela legale del benessere degli animali sia selvatici che d’affezione e istituzione del Garante nazionale dei diritti degli animali». Nel programma esteso al punto 24 «Tutelare gli animali» sono ripresi in positivo diversi punto del programma delle associazioni animaliste fra i quali anche l’incentivazione dei metodi di ricerca senza uso di animali e l’abbassamento dell’IVA sulle bevande vegetali. L’8 settembre Unione Popolare ha comunicato ufficialmente l’adesione a tutte le nostre proposte.

ITALEXIT

Nel capitolo «Cura degli animali domestici e della fauna selvatica, tutela ambientale» si legge che «Italexit ha a cuore la salute degli animali e vuole tutelarli da qualsiasi abuso. Siamo a favore di aiuti ai proprietari di animali domestici attraverso la defiscalizzazione delle spese veterinarie. Siamo contrari agli allevamenti intensivi in cui gli animali sono costretti a vivere in condizioni inaccettabili. Chiediamo che la caccia sia sospesa nelle zone colpite da calamità naturali e incendi che provocano il depauperamento della fauna e della flora almeno fino a che quegli stessi territori siano tornati alla normalità». Nella «sezione benessere animale e veterinaria» da pagina 75 tra l’altro si fissano degli obiettivi per la diminuzione dell’Iva sulle prestazioni veterinarie e il blisteraggio dei farmaci veterinari portando a compimento la norma approvata nelle scorse settimane, riforma della Legge sulla prevenzione del randagismo e libero accesso dei volontari nei canili, una norma di regolazione dei Centri di recupero della fauna selvatica, disincentivi alla zootecnia intensiva, stop all’uso degli animali nei circhi e per le carrozzelle, stop alla sperimentazione sugli animali. L’8 settembre Italexit ha comunicato ufficialmente l’adesione a tutte le nostre proposte.

ITALIA SOVRANA E POPOLARE

Nessun riferimento alla tutela degli animali. Nel capitolo 7 «Beni comuni» si impegna per «promozione e difesa dei diritti degli animali, stop alla vivisezione e basta allevamenti intensivi».

ALTERNATIVA PER L’ITALIA-NO GREEN PASS

Nessun riferimento alla tutela degli animali.

 Cosa fa la politica per proteggere gli animali: i programmi a confronto. Simone Cosimi su La Repubblica il 5 Settembre 2022. 

Proposte dettagliate da SI-Verdi, tracce nel Movimento 5 Stelle e nella Lega. Dal Pd e nel programma unitario del centrodestra una sola riga e dal Terzo polo solo ristori e cinghiali, in un carosello di proposte molto simili e spesso generiche. Cosa ne pensano Lav ed Enpa

A dedicare un intero capitolo del proprio programma agli animali - attenzione, non all'ambiente o alla transizione energetica, ma specificamente agli animali, alla loro tutela e al loro benessere - è solo l'alleanza fra Sinistra Italiana e Verdi. Qualcosa c'è anche nel documento presentato dal Movimento 5 Stelle, una mezza paginetta. Mentre il PD se la cava con una riga e mezzo all'ultima pagina, la 37esima, del suo programma. Nell'accordo quadro del centrodestra, invece, di animali se ne parla alla penultima, di pagina, con un unico obiettivo: "Interventi di contrasto al fenomeno della proliferazione della fauna selvatica e alla diffusione delle epidemie animali". Anche se i singoli partiti qualcosa in più prevedono nei programmi specifici di lista. Nelle oltre 60 pagine di Azione-Italia Viva stessa linea delle destre: di animali se ne parla solo in termini di abbattimento dei cinghiali e di "risorse a copertura dei danni da fauna selvatica che minano la competitività delle imprese e persino la sicurezza pubblica". Solo problemi, zero tutele. 

I temi che i partiti non toccano

Questo il quadro, piuttosto sconfortante, di quanto i principali partiti propongono per le elezioni del 25 settembre rispetto alla fauna, agli animali selvatici o domestici. Come se alcuni temi non esistessero. In ordine sparso, e su ambiti diversi, i punti su cui proporre qualcosa in più che una riga e mezza sarebbero moltissimi e riguarderebbero potenzialmente i cuori e le tasche di milioni di italiani: l'intervento sugli allevamenti intensivi, le detrazioni fiscali per le spese sanitare degli animali di compagnia, la questione (irrisolta, in molte zone del Sud) del randagismo, una più attenta regolamentazione della caccia, l'inasprimento delle pene per chi li maltratta o commercia (e si tratta di un traffico miliardario, basti pensare alle specie esotiche), un piano di rilancio delle aree protette e così via. Argomenti forse divisivi ma che, sebbene il grosso delle preoccupazioni degli italiani riguardi in questo momento il portafoglio, potrebbero avere una certa presa nell'elettorato. E invece oltre alla sensibilità di base - non una sorpresa in un Paese che non ha mai avuto un'autentica maturazione del movimento "verde" come nei vicini centroeuropei - mancano perfino la voglia e il fiuto politico di puntare su alcuni temi in chiave elettorale. Se non per una foto col cagnolino di casa, per fortuna sempre di meno. 

Il parere delle associazioni animaliste

"Che i politici non facciano l'interesse pubblico non mi stupisce - commenta Carla Rocchi, presidente di Enpa - ma che non sappiano fare neanche i propri è sconcertante. Mentono su tutto, potrebbero almeno toccare anche questi argomenti o proporre punti importanti e che non costano nulla, come l'accesso degli animali di compagnia nelle case di riposo. La mia è una provocazione per dire che questa sciatteria è autolesionistica, perché ignora quanto accade nella società e ignora perfino numeri chiari come le decine di migliaia di contribuenti che ci aiutano con il 5x1000, segno di un'attenzione enorme. Quando pensano agli animali, i dirigenti politici immaginano invece solo i cacciatori, che sono sempre di meno e sempre più anziani. E invece quello degli animali è un tema intimo, casalingo, che tocca milioni di persone. Se lei pensa che sono stata eletta in Parlamento per quattro volte, anche in collegi difficili e quando la sensibilità era ancora più bassa, presentandomi solo con le mie proposte legate alla tutela degli animali e su nessun altro punto, capisce quanto sia grave, anzitutto per gli stessi politici, l'errore di estromettere questi argomenti dal dibattito pubblico".

Più ottimista Gianluca Felicetti, presidente della Lav, che da 22 anni propone a ogni elezione un'agenda di priorità a tutti i partiti e ai singoli candidati. E che replica anche quest'anno con l'iniziativa "Anche gli animali votano", lanciata insieme ad altre 12 associazioni, i cui capisaldi sono stati in gran parte ripresi e integrati in alcuni programmi fra cui quello di SI-Verdi: "Il tema che mi pare uscire con una certa rilevanza, accolto da molti partiti, è quello del Garante nazionale per gli animali - spiega Felicetti - le competenze sulla fauna sono infatti talmente sparpagliate fra tanti ministeri, dalla Salute alla Cultura passando per l'Interno, che è urgente fare come in Spagna e istituire, nel nostro caso alla presidenza del Consiglio, una cabina di regia. Anche alla Commissione Europea si sta andando in quella direzione". Il problema però è di profondità storica: "Alla politica italiana manca da sempre una politica per gli animali - aggiunge il presidente Lav - anche se noto con un minimo di sollievo che almeno sul fronte degli animali domestici il dibattito, lentamente, sta evolvendo. Sulla fauna selvatica, invece, la narrazione è ancora e sempre di una minaccia. Così si creano animali di serie A e di serie B ma la legge è chiara e per esempio se si propone di inasprire le sanzioni sui maltrattamenti, queste vanno appesantite per tutti i casi". 

Sinistra Italiana-Verdi: possesso responsabile

L'alleanza fra Sinistra Italiana e Verdi è il cartello elettorale che dedica più spazio agli animali, dedicando il punto 10 del programma: "L'Italia che ama gli animali". Si parla di molte cose. Per esempio, di raggiungere il 30% di aree protette e del 10% a stretta protezione, secondo le indicazioni comunitarie, di abolizione della caccia, di gestione dei siti Rete Natura 2000, di contrasto alla desertificazione. E ancora, di norme per rendere legalmente gli animali "esseri senzienti" "anche nello spirito dell'art. 9 della Costituzione da poco modificato" e di altri aspetti ambientali, come migliorare le capacità gestionali di parchi e riserve nazionali e regionali, di "piani di gestione di specie minacciate" e di reintrodurre il corpo forestale. 

Per la tutela degli animali, più nello specifico, i rossoverdi propongono un aumento delle pene per reati e maltrattamenti, la realizzazione di strutture e l'istituzione di un numero unico d'intervento e di un Garante nazionale per i diritti degli animali che sistematizzi le diverse competenze ora sparse fra ministeri e dipartimenti. Per gli animali d'affezione si parla inoltre di "possesso responsabile" con promozione alla sterilizzazione e contro il randagismo, lo stop alla vendita online e offline di animali e la "riduzione dell'aliquota Iva su cibo per animali e prestazioni veterinarie, oggi soggetti a tassazione come 'beni di lusso'". Per i selvatici, invece, l'abolizione della caccia "che non può essere considerata uno sport" e, oltre a quanto già detto, l'aumento delle sanzioni per il bracconaggio, il divieto di importazione e detenzione di animali esotici, di trofei di caccia e il sostegno alle imprese d'abbigliamento per la riconversione delle produzioni animali. 

Il programma prevede anche altri punti importanti: per esempio l'attuazione della legge-delega approvata dal Parlamento nel luglio scorso per il superamento dell'uso degli animali in circhi e spettacoli viaggianti, estendendolo ai delfinari, e lo stop all'uso degli animali nelle feste locali, in zoo, acquari, palii, carrozzelle. Molto anche sull'allevamento: si va dal blocco all'apertura di nuovi allevamenti intensivi o all'ampliamento di quelli esistenti alla realizzazione di un programma di riduzione degli animali allevati fino al sostegno in sede europea della proposta legislativa della Commissione UE per l'eliminazione progressiva delle gabbie negli allevamenti in risposta alla mobilitazione internazionale "End the Cage Age". 

Ancora: Sinistra Italiana e Verdi propongono altre misure molto sentite come lo stop previsto dalla legge di delegazione europea alla triturazione dei pulcini; la promozione delle scelte alimentari vegetali e la riconversione della produzione alimentare verso prodotti a base vegetale. Ci sono poi l'adesione e il sostegno del Plant Based Treaty a complemento dell'accordo Unfccc/Parigi (sistemi alimentari da adattare ai cambiamenti climatici); la disincentivazione e un migliore disciplina dei trasporti di animali e il completamento dell'avvio del Sistema di qualità nazionale benessere animale, attraverso l'approvazione di standard adeguati e coerenti con il benessere animale per le singole specie allevate con la scelta di un'etichettatura trasparente per il consumatore. Si prevede infine l'introduzione dello stordimento preventivo obbligatorio in tutti i tipi di macellazioni come già deciso da altri Paesi europei. Non manca poi il superamento della sperimentazione animale scientifica.

Movimento 5 stelle: abolizione della caccia e cashback veterinario

Agli animali il Movimento di Giuseppe Conte arriva alla terz'ultima pagina del suo programma, articolato per punti. Si prevede la "progressiva abolizione della caccia a partire dal divieto di accesso ai terreni privati" e il "contrasto al bracconaggio". Secondo punto: "pene severe per chi commette violenze o maltrattamenti sugli animali". Terzo punto, un cavallo di battaglia dei pentastellati dell'era contiana: un "cashback veterinario" per ottenere sul conto corrente le detrazioni connesse alle spese veterinarie e per farmaci saldati con metodi elettronici. 

Pd: diffusione strutture di accoglienza

Il Pd, come detto, dedica agli animali questo punto: "Tutela del benessere animale - Per tutelare i diritti degli animali rafforzare le sanzioni per il contrasto ai maltrattamenti e potenziare la diffusione delle strutture di accoglienza". Anzi, in un passaggio si parla di "allevamento e pesca come motori della transizione ecologica". Nient'altro. 

Lega: abbassamento Iva su cure e cibo

Abbiamo già visto in apertura l'unico punto dedicato agli animali nell'accordo quadro del centrodestra. La Lega, nel suo programma specifico, dedica però un punto alla tutela degli animali e al benessere degli animali. Come? Anche in questo caso con l'abbassamento dell'Iva sulle prestazioni veterinarie e sul cibo per gli animali domestici, con la lotta al randagismo (anche con una commissione parlamentare dedicata), lo stop alla vendita di animali, standard minimi nei canili e inasprimento delle pene per i maltrattamenti. Anche in questo caso fa capolino la figura del Garante nazionale per i diritti degli animali e, punto in effetti originale non visto altrove, la "creazione di una black list che neghi la possibilità a chi ha commesso illeciti nei confronti di animali di poterne detenere altri per un tempo congruo (compatibilmente con il principio rieducativo della pena)". 

Fratelli d'Italia: stop alla tratta dei cuccioli dall'Est

Nel programma di Fratelli d'Italia, appena presentato, un accenno agli animali si trova a pagina 26, in calce al punto dedicato ad ambiente e natura. Prevede al solito di inasprire le pene per i reati contro gli animali e l'organizzazione di "campagne di formazione e informazione sul loro rispetto" così come la necessità di fermare la tratta di cuccioli dall'Est Europa e il "riconoscimento del ruolo sociale e terapeutico degli animali d'affezione". Si chiude con un generico "tutela delle specie e della biodiversità". 

Forza Italia: sostegno all'adozione

Nel programma pubblicato sul sito ufficiale gli animali vengono citati soprattutto nella parte relativa alla salute, dove si parla di "valorizzazione dell'approccio one health che connetta la salute degli esseri umani, quella degli animali e la salubrità dell'ambiente", di "sostegno all'adozione degli animali in canili e gattili, inasprimenti di pena per coloro che maltrattano e abbandonano gli animali" e di "promozione della pet therapy a supporto delle persone con fragilità". Nulla invece sull'argomento nel programma del contenitore di centro "Noi moderati" di Maurizio Lupi, Giovanni Toti e Luigi Brugnaro. 

+Europa: ridurre la pesca intensiva

Spazio al benessere animale anche nel programma di +Europa. Ultima pagina del documento, tanto per non smentire la percezione per così dire "accessoria" di alcuni temi. Sette i punti proposti, con un certo peso della pesca, ignorata praticamente da tutti gli altri schieramenti: limitare il trasporto di animali vivi per ragioni legate alle produzioni alimentari nella UE con incentivazione del trasporto dei prodotti semi-lavorati utilizzando la catena del freddo; ridurre la pesca intensiva, vigilare efficacemente sul divieto di utilizzo di sistemi di pesca non sostenibili come spadare e FAD, oltre ad aumentare il controllo e la localizzazione delle flotte al fine di evitare abusi e sconfinamenti nelle acque interdette alla pesca; raggiungere la protezione di un terzo delle aree marine per garantire ripresa e conservazione delle popolazioni ittiche planetarie, oramai ridotte oltre il possibile. 

Ancora: proibire il finning (l'asportazione delle pinne degli squali a fini alimentari e rigetto dell'animale ancora vivo in mare); ridurre al 10% l'Iva sui trattamenti sanitari e sul cibo per gli animali domestici; contrastare il commercio di animali selvatici e attuare un maggior controllo della cessione di animali domestici, "al fine di evitare fenomeni che non rispettino il benessere degli animali come le puppy farm dell'est Europa" (quindi per +Europa il commercio non va vietato tout court) e "superare, con la prospettiva del divieto, l'utilizzo degli animali negli spettacoli circensi". 

Unione popolare, un garante nazionale dei diritti

Specificamente agli animali, nel programma della lista dell'ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, di Potere al popolo, del Partito della Rifondazione comunista e di ManifestA si trova una riga: "Tutela del benessere animale e istituzione del Garante Nazionale dei Diritti degli Animali. Sostegno alle misure proposte dalle associazioni animaliste". 

Impegno Civico

Anche la formazione di Luigi Di Maio si allinea alla proposta, a quanto pare condivisa da molti, dell'istituzione di un Garante nazionale per il benessere e i diritti degli animali, che riassuma in sé molte delle prerogative oggi spalmate su diversi ministeri e dipartimenti. 

Tasse & lavoro: diminuirle e aumentarlo. Dai tre poli e i 5 stelle ricette diverse: eccole. Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022 

Il centrodestra vuole la “tassazione piatta”, un’aliquota unica che ciascun partito declina a modo suo. Meloni punta ad applicarla alla quota d’incremento dall’anno prima. Il Pd crede in cuneo fiscale e salario minimo, a sinistra s’affaccia la patrimoniale. Detassazione pro giovani dal terzo polo. M5S insiste: reddito di cittadinanza 

Meno tasse e più lavoro. Sono gli obiettivi di politica economica che i partiti hanno messo al centro dei loro programmi. Ovviamente le strade per raggiungerli sono diverse, in relazione ai gruppi sociali di riferimento. Comune a tutti, invece, è la carenza di analisi sui costi delle proposte, spesso, tra l’altro, condite con le promesse di mandare i lavoratori in pensione prima e di aiutare di più famiglie e imprese contro il carovita. Come se tutte queste misure fossero gratis. E nessuno dovesse pagarne il conto. Ma la realtà è un’altra. Sarà già difficile reperire i 25-30 miliardi che servono per le spese in più previste per il 2023.

CENTRODESTRA: più aliquote e pace fiscale

Il centrodestra ha un programma comune, frutto di un accordo tra Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati (la lista unica dei centristi che raggruppa i movimenti guidati da Maurizio Lupi, Giovanni Toti e Luigi Brugnaro) che ha avuto origine dai programmi dei singoli partiti, i quali comunque non sono affatto scomparsi e anzi, talvolta, come nel caso della Lega, campeggiano sulla home page, dove invece non si rinviene il documento di coalizione. Sul fronte fiscale, il programma di coalizione (17 pagine), ruota sulla flat tax, ovvero un’aliquota unica di prelievo. Che però ciascun partito, a casa sua, declina in modo diverso (si va dal 15% proposto dalla Lega al 23 di Forza Italia) mentre il compromesso raggiunto nell’accordo a quattro è il seguente: si propone che sulla flat tax attuale (15% per le partite Iva con ricavi fino a 65mila euro) il tetto salga a 100mila euro. Inoltre, si vuole introdurre la «flat tax incrementale»: cioè l’applicazione della tassa piatta sull’«incremento di reddito rispetto alle annualità precedenti, con la prospettiva di un ulteriore ampliamento per famiglie e imprese». Per esempio, se si dichiarano 50mila euro rispetto ai 40mila dichiarati in precedenza, sui 10mila euro si pagherebbe non la normale Irpef (il 35%, in questo caso) ma la flat tax del 15%. Questa riforma, voluta più di tutti da Fratelli d’Italia, si applicherebbe, «in prospettiva», a tutti i contribuenti, quindi anche ai lavoratori dipendenti. Messa così, la compatibilità della riforma con l’equilibrio dei conti pubblici dipende molto dalla gradualità con la quale essa verrebbe estesa alla generalità dei contribuenti. In ogni caso, sui costi della flat tax circolano le stime più diverse. La Lega, a proposito della sua proposta (15%), parla di 13 miliardi. Secondo il sito lavoce.info, invece, il gettito Irpef crollerebbe di 58 miliardi l’anno. Così come ci si divide sulla cosiddetta «pace fiscale», che altro non sarebbe che un’ulteriore sanatoria sulle cartelle esattoriali. Chiuderebbe i conti col passato, sostiene il centrodestra, e, insieme con l’aliquota piatta, spingerebbe a presentare dichiarazioni dei redditi più fedeli. No, ribattono gli oppositori, incentiverebbe ancora di più chi evade. Sul fronte del lavoro, il programma di coalizione vuole introdurre «maggiori tutele per il lavoro autonomo e le professioni» e l’«estensione della possibilità di utilizzo dei voucher lavoro» nel turismo e in agricoltura, mentre Fratelli d’Italia spinge per una super deduzione a favore delle aziende che fanno assunzioni aggiuntive. Infine, la parola precarietà compare solo una volta, per dire che va eliminata quella del personale docente. Nessun accenno al salario minimo.

CENTROSINISTRA: stipendio in più e dote ai 18enni

Il centrosinistra, a differenza del centrodestra, non ha un programma comune. L’alleanza elettorale tra Pd, Verdi, Sinistra Italiana e +Europa non si è spinta fino a questo. Bisogna allora partire dal programma dei dem. Che punta sul taglio del «cuneo», ovvero della differenza tra retribuzione lorda e netta. Centrale, nel programma del partito guidato da Enrico Letta, è la proposta di aumentare gli stipendi netti «fino a una mensilità in più», con l’introduzione di una franchigia di mille euro sui contributi Inps a carico dei lavoratori (senza conseguenze sulla pensione). Secondo stime dello stesso Pd, applicare gradualmente questo sconto a tutte le retribuzioni fino a 35mila euro (16,4 milioni di lavoratori), avrebbe un costo a regime di circa 11 miliardi. I dem suggeriscono inoltre una tassazione agevolata per il secondo percettore di reddito in famiglia, per agevolare il lavoro femminile. Per i giovani, invece: la totale decontribuzione delle assunzioni a tempo indeterminato degli under 35 e la proposta di una dote di 10mila euro da erogare al compimento dei 18 anni e sulla base dell’Isee, per le spese relative a casa, istruzione e all’avvio di una attività lavorativa. La dote, che andrebbe a beneficio di un 18enne su due (nel 2021 sono diventati maggiorenni 567mila italiani), sarebbe finanziata con l’aumento dell’imposta su successioni e donazioni oltre i 5 milioni di euro. Qui il centrodestra grida alla patrimoniale mentre il Pd replica che riguarderebbe appena lo 0,2 per cento del totale delle operazioni annuali. Chi fa della patrimoniale un obiettivo importante sono invece i Verdi e Sinistra Italiana, che hanno sottoscritto un programma comune dove si propongono di «aumentare la tassazione sui patrimoni superiori a 5 milioni di euro, con un’imposta progressiva che cresca fino al 2% oltre i 50 milioni». Dove le posizioni di Pd, Verdi e SI si avvicinano molto è sul lavoro, con la proposta di un salario minimo, a partire dall’estensione a tutti dei contratti di lavoro firmati dai sindacati più rappresentativi e comunque non inferiore a 9 euro l’ora secondo i dem, non meno di 10 euro secondo Verdi e SI. Più cauta invece +Europa, che nel suo programma parla di «salario minimo mobile», definito «in accordo tra le parti sociali», senza indicare cifre. Infine, di lotta alla precarietà si parla una dozzina di volte nel programma dem, che invoca una stretta sui contratti a termine.

TERZO POLO: no a false Coop e e partite Iva

Per trovare una proposta fiscale ad effetto nel programma comune di Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi bisogna invece arrivare alla «detassazione specifica per i giovani: totale fino a 25 anni, ridotta del 50% fino a 29 anni». Detto in forma di slogan: niente tasse per i più giovani. Ma c’è anche la «detassazione straordinaria - per il solo 2022 - di una extra mensilità (fino a 2.200 euro) che le imprese potranno scegliere di erogare ai propri dipendenti ai fini di alleviare gli effetti dell’inflazione». Per il resto, si propone la semplificazione della struttura delle aliquote Irpef; il completamento dell’abolizione dell’Irap; aliquote dimezzate per l’Ires «in caso di fusioni tra imprese»; riduzione a due delle aliquote dell’Iva e uno scivolo biennale con «tassa agevolata» per gli autonomi in regime di flat tax che superano i 65mila euro di ricavi: qualcosa che ricorda la flat tax incrementale. Sul fronte lavoro c’è invece l’idea di eliminare il Reddito di cittadinanza dopo il primo rifiuto e di ridurlo dopo 2 anni: proposte più morbide di quelle del centrodestra, che vuole la «sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza con misure più efficaci di inclusione sociale». Anche Calenda e Renzi, infine, sono per introdurre il salario minimo, ma secondo linee «condivise con le parti sociali». Che, però, su questo non hanno mai trovato un’intesa. Sulla precarietà, i due partiti non sono per limitare i contratti a termine, ma per combattere le false partite Iva, le collaborazioni irregolari, le false cooperative, i tirocini abusivi. E, come il centrodestra, chiedono il ripristino dei voucher.

CINQUE STELLE: nuovo cashback e 110% infinito

Il Movimento rivendica il Superbonus e il cashback, due sue creature fiscali. Lo sconto del 110% sui lavori di efficientamento energetico e di messa in sicurezza sismica degli edifici andrebbe reso strutturale, secondo il partito di Giuseppe Conte, insieme al meccanismo di cessione dei crediti fiscali. Il cashback, invece, nato per facilitare i pagamenti con carta di credito e bancomat e poi soppresso, viene riproposto con una novità: l’«introduzione di un meccanismo che permetta l’immediato accredito su conto corrente delle spese detraibili sostenute con strumenti elettronici», per esempio, il 19% sul costo dei medicinali tornerebbe sul conto al momento dell’acquisto in farmacia. Per il resto, taglio del cuneo; salario minimo di «nove euro lordi l’ora», stop a stage e tirocini gratuiti, lotta alla precarietà. Proposte, insomma, più vicine a quelle del centrosinistra mentre l’idea di una «maxirateazione delle cartelle esattoriali» ricorda di più i programmi del centrodestra. Ma sul Reddito di cittadinanza non c’è bisogno di dirlo: né abolizione né ridimensionamento; la riforma va rafforzata, rendendo «più efficiente il sistema delle politiche attive» di collocamento al lavoro e il monitoraggio sulle frodi.

Presi per la gola. È tutto un magna magna. Marco Fattorini su L'Inkista il 31 Agosto 2022.

Reddito alimentare, patente del cibo e censimento delle sagre: a meno di un mese dalle elezioni, i partiti si danno battaglia (anche) a suon di Dop e Igp

Pancetta o guanciale? L’eterno dilemma sulla carbonara arriva in campagna elettorale grazie al segretario del Partito Democratico Enrico Letta, che ha rilanciato la parodia di un manifesto dem. D’altronde, come ha detto Matteo Salvini incontrando gli allevatori casertani, «l’uomo è ciò che mangia, se mangia bene viene su un uomo per bene, se mangia schifezze viene su una schifezza». Pazienza se in questi anni il leader della Lega abbia collezionato decine di selfie mentre ingurgitava qualunque tipo di panino e dolce. Ora è il tempo del made in Italy. Nel dubbio la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni si è messa a preparare i panzerotti pugliesi, ospite di una manifestazione a Ceglie Messapica.

Oltre al folklore enogastronomico dei politici nostrani, ci sono i programmi elettorali. Con la crisi energetica e alimentare mondiale causata dall’invasione russa in Ucraina, l’agricoltura ha ottenuto ampio spazio tra le promesse di tutti i partiti. Investimenti, sostegno alle imprese, tutela delle filiere sono temi trattati sia a destra che a sinistra, spesso con ricette che si ripetono. Il cibo, invece, resta più defilato. Con una proposta bipartisan che va da Berlusconi a Di Maio: azzerare l’Iva su pane, pasta e latte.

Il Partito Democratico promette il reddito alimentare. Un sostegno da realizzare «tramite un sistema digitale che permetta alle persone indigenti di ricevere un determinato numero di pacchi alimentari, attraverso il recupero del cibo, che rischia di essere sprecato, dalla distribuzione e la sua successiva erogazione in centri di distribuzione messi a disposizione dai Comuni». I dem vogliono che tutti abbiano accesso a un’alimentazione sana. Così mettono nero su bianco l’impegno «a rendere universale e gratuito l’accesso alle mense scolastiche».

Il centrodestra punta sulla «salvaguardia del comparto alimentare». Si parte con la lotta al Nutriscore, il sistema di etichettatura già in uso in Francia e al vaglio dell’Unione Europea che assegna colori e lettere in base alla salubrità degli alimenti. Giorgia Meloni vorrebbe «un liceo del Made in Italy» e dichiara guerra ai cibi Italian sounding, le imitazioni delle nostre eccellenze enogastronomiche «che ogni anno ci rubano decine di miliardi». La coalizione insiste per la tutela delle specificità agricole italiane e la loro promozione sui mercati esteri. La Lega chiede di istituire «un vero Ministero per l’Agroalimentare» per difendere la filiera e i distretti produttivi, ma anche per supportare il sistema dei consorzi di tutela dei prodotti di qualità.

L’alleanza Verdi-Sinistra dedica un capitolo del programma all’«Italia del mangiare sano». Qui Bonelli e Fratoianni chiedono lo stop all’apertura di nuovi allevamenti intensivi e all’ampliamento di quelli esistenti. Morale della favola: bisogna ridurre il numero di animali allevati. In compenso i due partiti spingono per la «promozione delle scelte alimentari vegetali e della riconversione della produzione verso prodotti a base vegetale». I rossoverdi vorrebbero introdurre la “Patente del Cibo” per garantire che le pietanze consumate siano prodotte nel rispetto dei diritti e della dignità di tutte le persone impegnate lungo la filiera, dell’ambiente e dei consumatori «che hanno diritto ad un cibo biologicamente ed eticamente sano».

Il Terzo Polo di Calenda e Renzi propone di potenziare e stabilizzare le risorse del fondo aiuti alimentari, nato per sostenere i comparti agricoli in crisi e le attività del terzo settore impegnate sul fronte della povertà alimentare. Il Movimento 5 Stelle vuole incentivare la filiera corta, oltre a valorizzare i prodotti DOP e IGP.

Italexit, il partito antisistema di Gianluigi Paragone, promette politiche a supporto dei ristoratori penalizzati dagli aumenti delle bollette e dei costi primari. Ma anche misure che salvaguardino «i settori della produzione vitivinicola». Gli euroscettici vorrebbero pure introdurre il primo censimento delle sagre e delle feste di paese «al fine di renderle genuine e abolirne lo svolgimento ove si riscontrassero degli illeciti». E qui Paragone stila un paio di esempi come la sagra dell’hot dog a Cortina o quella della carne argentina a Cinisello Balsamo. Buon appetito.

Quanto potere nelle loro mani...Politica dominata dalla pubblica accusa, giudici assenti: sono i pm Antimafia le vere star. Gennaro De Falco su Il Riformista il 30 Agosto 2022 

Da un’analisi anche superficiale dei contrassegni presentati al Ministero degli Interni per le elezioni politiche del 2022 balza all’occhio un dato che io ritengo assolutamente impressionante e sintomatico dello squilibrio dei poteri e nei poteri dello Stato determinatosi in Italia dagli anni ‘90 in poi. Ebbene, tra i simboli presentati ben due sono direttamente riferibili a Luigi de Magistris, ex pm di Catanzaro e già sindaco di Napoli, vale a dire Unione Popolare con de Magistris e Unione Popolare, insomma un ex pm per ben due liste.

Gli fa concorrenza un altro ex pm, Antonio Ingroia, con Azione Civile, anch’egli su posizioni di sinistra radicale, mentre a destra, almeno secondo quanto da lui dichiarato, ha tentato di collocarsi il celeberrimo ex pm Palamara con la sua lista Oltre il Sistema che però non è stata ammessa. Oltre ai partiti per così dire personali, spicca certamente la candidatura nei 5 Stelle dell’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho che segue in politica i suoi predecessori nella carica di procuratore nazionale antimafia. Non partecipa alla gara Catello Maresca, ex sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli, sfortunato concorrente con una lista personale appoggiata dal centrodestra alla carica di sindaco della città partenopea nelle ultime elezioni amministrative che ha spiegato le ragioni della sua mancata partecipazione alla competizione con una lettera diffusa in rete in cui afferma di non essersi candidato nonostante le sollecitazioni degli aderenti alla sua associazione.

Insomma, in queste elezioni non abbiamo il partito dei magistrati ma addirittura una serie di partiti ma dei pm. Orbene, la prima circostanza che balza agli occhi è che si tratta sempre di pubblici ministeri in ogni possibile articolazione della loro carriera e che non vi sono appartenenti alla magistratura giudicante che appare in netto svantaggio, ed inoltre, con l’eccezione di Luca Palamara che ha una storia del tutto particolare, sono tutti schierati a sinistra e sono tutti di origine meridionale. Inoltre, bene o male, per specificità degli incarichi ricoperti e per provenienza territoriale, si tratta di pm provenienti dall’Antimafia, e questo significa due cose: la prima è che non è affatto vero che al Sud la mafia controlla la politica e la seconda è che il ceto politico non viene ritenuto idoneo ad arginare il fenomeno criminale che, comunque, almeno in termini “organizzati”, attualmente è molto meno incisivo di quanto si dice o si vorrebbe far credere, almeno in ambito politico. Detto ciò, è evidente che quello politico è un “mercato” e come tale soggiace alle sue regole in cui, come in tutti i “mercati”, conta la pubblicità e la “spendibilità” del prodotto”.

In questo i pubblici ministeri sono assolutamente soverchianti anche rispetto ai loro stessi colleghi giudicanti, per non dire rispetto agli avvocati che sono per lo più ridotti al ruolo di mere onnipresenti comparse. Come può parlarsi di principio di parità delle parti del processo fra loro se l’accusa gode di tanto potere su tutto e tutti? Anche per poter solo pensare di organizzare una lista o per essere candidati da un partito occorre un seguito e dei mezzi, in altri termini occorre potere che si trasforma in consenso elettorale. Tutto ciò può sembrare ovvio ma spesso sono proprio le cose ovvie che sfuggono, e allora occorre chiedersi quale sia la fonte di questo potere che risale ad Antonio di Pietro, anche lui ex pm ed alla sua Italia del Valori. In questa sede io non intendo assolutamente contestare il diritto dei pm persone fisiche ad essere presenti in politica ma soltanto analizzare le ragioni della loro oggettiva appetibilità che a me pare evidentissima, cui si è sommata la geniale intuizione di Gianroberto Casaleggio che fu prima al fianco di Antonio di Pietro e che poi, conservandone ampiamente i contenuti insieme a Beppe Grillo, si è per così dire “messo in proprio” ponendo le basi del Movimento Cinque Stelle.

Insomma, anche la politica in Italia è dominata dalla pubblica accusa e, negli ultimi anni, il suo strumento è stata assai spesso la “rete”. Ma quali sono le ragioni della popolarità e, quindi, del potere dei pubblici ministeri? Io credo che la risposta a questo interrogativo sia molteplice. Penso che le masse siano cronicamente affette da una sorta di isteria neo-giacobina e che, per questa ragione, siano sempre alla ricerca di un angelo vendicatore che le difenda da ogni male supposto, reale o anche solo temuto, angelo vendicatore che nell’Italia di oggi ha finito con identificarsi con la pubblica accusa e non, come pure sarebbe naturale, o almeno come accadeva dai tempi della rivoluzione francese nell’avvocatura in cui gli ex pm saltano continuamente a piè pari. È come se nell’Italia degli ultimi decenni si fosse imposto un inedito modello politico di stampo neo-Trotzkista che definirei di rivoluzione giudiziaria permanente, il cui inaspettato strumento è stato il codice di procedura penale del 1989. Il Codice Vassalli, secondo la mia convinzione, con gli amplissimi poteri attribuiti alle Procure, è stato all’origine del radicale mutamento che ha destabilizzato la società sia tra i poteri dello stato che al loro stesso interno.

Basta vedere cosa accade quotidianamente nelle aule di giustizia dove i giudici attendono quietamente l’arrivo degli impegnatissimi pm per iniziare i processi e, per lo più, non considerano minimamente anche la sola presenza degli avvocati, difensori degli imputati o delle parti civili non rileva. Nel codice di procedura penale del 1989, inspiegabilmente tuttora adorato dall’avvocatura, la polizia giudiziaria, quindi il potere amministrativo diretta promanazione di quello politico, è stato messo sotto la direzione del pm, poi si è sommato un rito processuale assolutamente insostenibile per le difese per la sua farraginosità e per la scarsità di mezzi disponibili ed un’evidente rapporto preferenziale tra informazione e Procure. Tutti questi fattori sommati tra loro, unitamente a clamorosi fatti di cronaca che hanno colpito il nostro Paese, hanno determinato la forza e quindi il consenso raccolto dai pm. Insomma, è il “sistema” che ha generato questo stato di cose e non i singoli attori che vi compaiono. In ogni caso un fatto è certo, piaccia o non piaccia, le cose stanno in questo modo e certamente il ceto politico non sembra, almeno per ora, possedere la forza, il coraggio ed i mezzi anche culturali per riequilibrarlo. Gennaro De Falco

Lo strapotere della magistratura e la politica. Politici genuflessi ai magistrati, cosi riformare la giustizia è impossibile. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Agosto 2022 

La questione giustizia lambisce appena una campagna elettorale che, a tutta evidenza, ha grane decisamente più importanti di cui occuparsi di questi tempi. La sortita di Silvio Berlusconi sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm ha riacceso una polemica che covava sotto le ceneri da parecchi anni e ha riproposto un tema particolarmente avvertito dalle camere penali e dalla magistratura italiana, come ha dimostrato la pronta reazione dell’Anm all’incursione forzista.

Non c’è dubbio che il tema del più complessivo riposizionamento del potere giudiziario nella geometria costituzionale del paese sia una questione importante che non può essere certo risolta a colpi di polemiche o con micro-interventi per appagare le ansie garantiste di questa o quella forza politica. Riposizionamento, si badi bene, che non vuol dire un ridimensionamento della funzione giudiziaria, ma la ricerca di un più corretto riequilibrio tra le varie articolazioni del potere pubblico fra loro e, soprattutto, verso i cittadini.

In questa traiettoria non si deve dimenticare che la riforma più incisiva è venuta dal governo Conte, ossia da quello a trazione pentastellata, che ha praticamente abrogato il vituperato abuso d’ufficio (articolo 323 Cp). Così si è alleviata la posizione di tanti pubblici amministratori sotto processo che o sono stati assolti grazie a quella modifica o, comunque, non subiranno più indagini per quel reato che più di ogni altro costituiva il confine incerto e ondivago dei rapporti tra magistratura e politica. Il tema del controllo giudiziario, nella declinazione cara a molte toghe del cosiddetto controllo di legalità, sta ai margini della contesa elettorale, resta sottotraccia sebbene sia la madre di tutte le battaglie per le parti contrapposte di questa contesa.

Le ragioni che hanno favorito l’espansione di questo controllo in tutti i gangli della vita politica e sociale è questione che non può essere neppure lambita in questa sede. Quel che può farsi è segnalare e mettere sotto osservazione tutti i casi in cui questa preminenza del potere giudiziario sulla politica non è tanto affermata dal primo a colpi di avvisi di garanzia o di arresti, quanto è riconosciuta dalla stessa politica come atto di naturale sottomissione a fronte di una propria crisi cui non riesce a porre rimedio se non genuflettendosi alla pretesa superiorità delle toghe. Stefano Castiglione e Alberto Stancanelli. Due nomi che a tanti dicono poco o nulla. Due stimatissimi magistrati della Corte dei conti di alto livello professionale ed etico ben conosciuti tra gli addetti ai lavori.

Il primo nominato dalla sindaca Raggi capo di gabinetto del comune di Roma qualche tempo or sono, il secondo nominato dal sindaco Gualtieri capo di gabinetto del comune di Roma. Insomma, due magistrati nel posto più importante dell’amministrazione capitolina e in un comune delle dimensioni della Capitale. Un incarico capace di condizionare in modo decisivo la vita di migliaia e migliaia di dipendenti, di decine di società partecipate, di milioni di cittadini. Alberto Stancanelli è stato chiamato a coprire questo posto-chiave il 20 agosto scorso, dopo che la pubblicazione del video della violenta lite di Frosinone aveva costretto alle immediate dimissioni Albino Ruberti, capo di gabinetto del sindaco di Roma.

A fronte di una fibrillazione evidente del sistema amministrativo della Capitale, il sindaco Gualtieri non ha potuto, o saputo, far altro che aprire la cassetta del pronto soccorso politico e tirar fuori il nome di un prestigioso magistrato della Corte dei conti. Tra centinaia di dirigenti comunali e regionali o tra centinaia di funzionari apicali nei ministeri romani – primo tra tutti quello dell’Economia che il sindaco in carica ben conosce per averlo diretto con autorevolezza – la scelta è caduta su una toga. Che si tratti di un giudice contabile o di un giudice amministrativo o ordinario, la questione non cambia. Platealmente e senza alcun tentennamento la politica tutta – stante la risonanza mediatica del minacciato regolamento di conti frusinate («Se devono inginocchia’ e chiede scusa, io li ammazzo» avrebbe detto il reprobo) – ha optato ancora una volta per un giudice.

Il segnale è chiaro: badate bene, purtroppo, moralità e competenza non sono abituali commensali in questo paese e se occorre rassicurare i cittadini elettori in uno snodo così delicato e per un fatto così increscioso è bene appellarsi alla riserva strategica della nazione che sono o i generali o i magistrati. Con la differenza che, mentre i primi sono totalmente alle dipendenze del potere politico per la loro collocazione istituzionale, gli altri costituiscono un ordine autonomo e provvisto di un proprio carisma costituzionale. Accade, quindi, che mentre si schermaglia sulle briciole e sui lembi più marginali della questione giustizia, la politica con solerzia e senza alcuna incertezza proclami, per l’ennesima volta, la propria subalternità a un potere “altro” da sé e, per giunta, per farsi affiancare nell’esercizio di rilevanti prerogative che i cittadini le hanno affidato con il proprio voto.

David Lyon scrisse anni or sono un libro dal titolo struggente e suggestivo (“La società sorvegliata”, Feltrinelli, 2002) che evocava i rischi della diffusione delle tecnologie per il controllo della vita quotidiana dei cittadini, soprattutto dopo l’11 settembre. Esistono altre forme di sorveglianza ovviamente che, tuttavia, come quelle tecnologiche, devono essere contrastate o, almeno, arginate. Ma per farlo è necessario che i poteri sorvegliati non stiano a riconoscere, alla prima crisi, la superiorità etica e di competenza dei sorveglianti i quali – anche i migliori – avvertono la portata politica e istituzionale di queste investiture. E’ proprio di questa legittimazione, invero ulteriore, che profittano le componenti corporative e autoreferenziali del potere giudiziario (complessivamente inteso) per ergersi a una sorta di Camera stellata. Ossia a somiglianza di quella Corte che aveva sede presso il Palazzo di Westminster tra la fine del XV secolo e la metà del XVII secolo e che aveva il compito di giudicare i potenti del tempo. Alberto Cisterna

Giustizia, cosa prevedono i programmi dei partiti. GIULIA MERLO su Il Domani il 26 agosto 2022.

Il centrodestra punta a riscrivere le tre riforme Cartabia e a separare le carriere  dei magistrati. Il terzo polo ha recepito buona parte delle proposte garantiste delle Camere penali; il Pd punta sulla depenalizzazione, sul contrasto alle mafie, la legalizzazione della cannabis e una legge sul fine vita; il M5S vuole riformare la prescrizione, mantenere il 41 bis e dice sì a matrimonio egualitario e legalizzazione della cannabis.

Ogni partito sta presentando il suo programma elettorale e la giustizia è uno degli argomenti più controversi e sempre presenti, vista anche la sua rilevanza nel contesto del Pnrr.

CENTRODESTRA

Il programma del centrodestra contiene due punti molto vaghi, che prevedono la separazione delle carriere per i magistrati e la riscrittura delle riforme sull’ordinamento giudiziario, civile e penale. In pratica, una totale revisione dell’impianto delle leggi Cartabia appena approvate. Si parla di «giusto processo e ragionevole durate, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama» e di «razionalizzazione delle pene e garanzia dell’effettività».

L’accordo di centrodestra prevede, poi, la semplificazione del codice degli appalti e la riforma del diritto penale dell’economia.

Ogni partito, poi, poteva prevedere un programma individuale ma solo la Lega lo ha messo per iscritto. Fratelli d’Italia e Forza Italia, infatti, hanno depositato come programma elettorale l’accordo quadro del centrodestra. Poi, nelle sue pillole video, Silvio Berlusconi ha proposto di introdurre il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione in primo e secondo grado. La Lega è l’unico partito ad aver depositato un suo programma più dettagliato rispetto a quello di coalizione, lungo addirittura 202 pagine.

LA LEGA

Il programma della lega prevede un capitolo sulla giustizia penale che ha al centro «garantismo e certezza della pena». Accanto a una serie di principi come la garanzia del diritto di difesa, della terzietà del giudice, la tutela dei diritti delle vittime e la certezza del diritto, prevede di stanziare nuove risorse per i tribunali con l’obiettivo di diminuire i tempi dei processi. In tema di antimafia, si parla di «efficienza nella gestione dei beni e delle aziende sottoposte a sequestro e confisca». Per la riforma del codice penale, l’introduzione di strumenti di contrasto ai fenomeni di microcriminalità e baby gang, introdurre sanzioni in materia di social media; «tutelare l’inviolabilità del domicilio dalle occupazione» e la riforma della legge Severino nei confronti degli amministratori locali.

Anche la Lega prevede di «porre limiti all’appello dell’accusa» a cui aggiunge la riforma della disciplina delle misure cautelari, con un «doppio binario per alcune tipologie di reati, con requisiti più rigorosi di applicazione». Ritorna anche il tema referendario della responsabilità civile del magistrato.

Rispetto all’organizzazione complessiva e di geografia giudiziaria, spicca la proposta di «riaprire alcuni tribunali soppressi».

Tra le riforme, si prevede quella della magistratura onoraria e dell’ordinamento penitenziario.

Per il settore civile, sono previste misure in materia di famiglia, con «meccanismi di supporto per dare una gestione della crisi coniugale» per la disciplina dei rapporti, «con valorizzazione di ciascuna figura genitoriale». E’ previsto poi un «ripensamento del sistema dei servizi sociali». Sul piano procedurale, invece, si prevede «il procedimento monitorio accelerato per il recupero del credito»; l’ampliamento «delle competenze del tribunale per le imprese» e l’approvazione della legge sull’equo compenso dei professionisti. 

PD

Il programma del Pd punta a dare piena attuazione alle riforme Cartabia già approvate, puntando soprattutto su riduzione di tempi e costi della giustizia. Nel civile l’obiettivo è la riduzione del contenzioso, anche con incentivi fiscali per accedere ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie. Nel penale si prevede di «intervenire sulla depenalizzazione dove necessario», puntando anche sulla giustizia ripartiva e si prevede una legge contro le querele temerarie ai giornalisti.

Complessivamente l’obiettivo è di completare la digitalizzazione del servizio giustizia e degli uffici, con un ammodernamento delle strutture; la stabilizzazione dei precari «per la messa a regime dell’Ufficio del Processo e proseguendo con il reclutamento e assunzione di personale nelle cancellerie e di nuovi magistrati». Sul fronte del Csm, si propone «di istituire con legge di revisione costituzionale un’Alta Corte competente» per giudicare i procedimenti disciplinari e le nomine contestate e il completamento della riforma della magistratura onoraria.

Per gli avvocati è prevista l’introduzione dell’avvocato in Costituzione e di rendere attuabile l’accesso in magistratura per i cassazionisti. Viene poi rilanciato il piano nazionale contro le mafie e che permetta di colpire i patrimoni mafiosi, riprendendo il lavoro degli Stati generali della lotta alle mafie del 2017.

Sì alla legalizzazione dell’autoproduzione di cannabis per uso personale, garantendola anche per uso terapeutico. Si prevede anche l’approvazione della legge sul fine vita, una legge sulla omolesbotransfobia e il matrimonio egualitario. Presente anche la modifica della legge Severino per gli amministratori locali.

In merito al carcere, è prevista la riforma complessiva dell’ordinamento, con potenziamento delle misure alternative e l’aumento del lavoro penitenziario come percorso formativo per il reinserimento nella società.

TERZO POLO

Nel programma di Azione e Italia Viva, il capitolo sulla giustizia integra buona parte delle proposte dell’Unione camere penali italiane ed è diviso in cinque punti.

Sulle carriere dei magistrati prevede la separazione delle carriere, approvando il ddl di iniziativa popolare promosso dalle Camere Penali; le valutazioni dei magistrati con la presenza di avvocatura e professori nei consigli giudiziari; il superamento del sistema delle correnti con ritocchi alla riforma Cartabia.

Come interventi trasversali, si prevede il potenziamento della pianta organica dei magistrati e la riduzione di fuori ruolo; il rafforzamento del processo telematico con una sola piattaforma per tutti i riti; requisiti di formazione manageriale per chi svolge incarichi direttivi e una informatizzazione degli uffici.

Sul penale si prevede una riforma della custodia cautelare per impedirne gli abusi; il ripristino della prescrizione sostanziale; l’incentivo ai riti alternativi; riforme contro il processo mediatico; limiti all’appello del pm in caso di assoluzione.

Per il sistema penitenziario, una riforma complessiva che incentivi le misure alternative e legge per le detenute madri, per evitare minori in carcere.

Sul civile, invece, riforma del processo di primo grado per snellirlo, unificando i riti di cognizione; valorizzazione della mediazione; introduzione di misure correttive all’arbitrato; innalzamento della soglia per accedere al gratuito patrocinio.

Manca invece la proposta di FI sul divieto di appello per le sentenze di assoluzione in primo e secondo grado, ma sia Azione che Italia Viva si sono dette favorevoli.

MOVIMENTO 5 STELLE

Il programma del M5S prevede due punti: legalità e diritti.

Nel capitolo sulla legalità è previsto il contrasto alle mafie, con il potenziamento degli strumenti esistenti e il completamento della riforma in tema di ergastolo ostativo, oltre alla tutela del 41bis e delle misure di prevenzione. C’è la lotta alla corruzione, con trasparenza nell’utilizzo dei fondi del Pnrr e tutele per i whistleblowers e i testimoni di giustizia. Infine il contrato alle agromafie ed ecomafie, con tutela del diritto alla salute. Si prevedono poi la regolamentazione della coltivazione della cannabis, il potenziamento delle misure di contrasto alla violenza contro le donne e il «superamento dell’improcedibilità nel processo penale», con probabile volontà di ritorno alla legge Bonafede e quindi facendo saltare la prescrizione processuale introdotta con al riforma Cartabia. Sul fronte dei diritti, si prevede il matrimonio egualitario e una legge contro l’omotransfobia.

Estratto dall'articolo di Andrea Bulleri per “Il Messaggero” il 29 agosto 2022.

Giorgia Meloni cita il mahatma Gandhi: «La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali». Silvio Berlusconi sperimenta l'abbaio social («bau, bau!», si legge in uno degli ultimi post del Cavaliere) prima di rilanciare con Totò: «I cani sono qualcosa a metà strada tra gli angeli e i bambini». 

E se Matteo Salvini non manca di farsi immortalare con i trovatelli dei canili di Napoli e Milano, Carlo Calenda rivela la sua preferenza felina. Almeno a Ferragosto, quando condivide uno scatto con la gatta Naso Corto: «L'unico membro della famiglia che non mi abbandona mai», twitta il leader di Azione.  […]

Del resto, le stime rivelano che gli animali d'affezione in Italia sono più di 60 milioni, quasi un terzo dei quali cani e gatti. E se i quadrupedi non votano (contrariamente al titolo del «manifesto» lanciato proprio nei giorni scorsi delle associazioni animaliste), è lecito pensare che molti dei loro proprietari, invece, lo facciano. 

 Ed ecco che i programmi di partiti e coalizioni ma soprattutto i social dei loro front runner si popolano di idee e di slogan per difendere i nostri «familiari a quattro zampe». Li chiama così Giorgia Meloni, l'ultima in ordine di tempo a esprimersi sul tema: «Ogni anno ogni anno vengano abbandonati 80mila gatti e 50mila cani», denuncia la leader di FdI via social. 

«Fratelli d'Italia aggiunge intende battersi per garantire a questi membri della famiglia una vita dignitosa e piena d'affetto». Come? Aumentando le pene per chi li maltratta o li abbandona. […]

Va oltre la Lega, con Matteo Salvini che promette di «inasprire le pene per i violenti e garantire un po' di tasse in meno per chi mantiene un amico in casa». Ad esempio, si legge nel programma leghista, tagliando l'Iva sulle prestazioni veterinarie e sul cibo per cani e gatti, perché è lo slogan «amare non è un lusso». 

Nel centrodestra punta sulla sensibilità animalista e non da oggi anche Berlusconi. «Nel programma di Forza Italia ci sono misure per il sostegno all'adozione degli animali nei canili e nei gattili spiega il Cavaliere e aumenti di pena chi li maltratta». […]

E se Cinquestelle e Verdi-sinistra rilanciano con la proposta di abolire la caccia (ma pure di introdurre un «cashback veterinario» per detrarre le spese, propongono i primi, e di far sì animali domestici e selvatici «non siano più considerati oggetti ma esseri senzienti», rilanciano i secondi), l'animal house della politica non sembra aver contagiato il Terzo polo, che nel programma non contempla interventi specifici per migliorare la vita dei quattrozampe. 

Quattrozampe di cui Calenda si mostra comunque un affezionato possessore: non solo della già citata gatta Naso Corto, ma anche di due cani pastore (ribattezzati dal figlio di simpatie marxiste Antonio, come Gramsci, e Rosa, come la Luxemburg). E chissà che nelle prossime settimane anche al centro non spunti un Naso Corto Act. Andrea Bulleri

Flavia Perina per “La Stampa” il 29 agosto 2022.

È arrivato il Pet Moment della campagna elettorale. Giorgia Meloni cita Gandhi («La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali»), Silvio Berlusconi ricorda Totò («Gli animali sono qualcosa a metà tra angeli e bambini») ed entrambi presentano, a due giorni di distanza uno dall'altra, uno specifico programma per la tutela delle bestiole. 

Lega e Pd risultano un po' indietro, ma è possibile che si adeguino nelle prossime ore: l'argomento è ineludibile da quando, nel 2018, Alessandra Ghisleri fece presente che il tema animalista è significativo per il 20 per cento della platea elettorale.

Le nostre case, dicono le statistiche, ospitano una ventina di milioni di cani e gatti. È quella la vera "famiglia allargata italiana", e si dovrà dare atto a Michela Brambilla e a Monica Cirinnà di averci visto lungo all'inizio degli anni Duemila, quando sfidarono l'ironia collettiva avviando la crociata politica per cani, gatti e pesci rossi. 

La sinistra, all'epoca, sembrava decisamente in vantaggio nella partita. La Roma di Walter Veltroni fu la prima capitale ad avere un Ufficio per i diritti degli Animali («l'assessorato alle gattare», disse il volgo), ma ecco, anche in quel campo come nelle fabbriche del Nord o nelle periferie urbane la potenziale supremazia è stata sperperata.

Il Pet Moment è diventato cosa di destra soprattutto grazie al barboncino Dudù, che nel 2012 cominciò ad accompagnare Silvio Berlusconi ovunque. Fu l'inizio di una moda e l'avvio di una nuova pagina del giornalismo. Tutti all'improvviso avevano un cagnolino e ne esibivano le prodezze portandoselo ad Arcore a ogni convocazione. Fiorirono servizi sulla vita famigliare della bestiola («Le foto segrete di Dudù») e sulle sue simpatie politiche all'interno della cerchia del Cavaliere, con ampia pubblicistica sui metodi per ingraziarsi l'animaletto. 

Il più furbo risultò Daniele Capezzone: «Porto un limone in tasca e lo uso come palla. Amicizia assicurata». Nacque un sospetto sull'omosessualità di Dudù, lo dissipò Micaela Biancofiore che in radio raccontò di un approccio con la sua Puggy: «No, non è gay», titolarono le riviste.

Cani e leadership diventarono tema politico, oggetto di analisi. Alle elezioni successive il tentativo di umanizzazione dell'algido Mario Monti passò per un barboncino bianco (Empy, come empatia) che gli piazzarono in braccio a sorpresa in televisione, durante un'intervista alle Invasioni Barbariche. Monti lo adottò con evidente disagio, non poteva fare altrimenti, poi dopo il voto si lamentò del dono-scherzo in un'intervista. Apriti cielo. «Che fine ha fatto Empy» diventò un tormentone. 

La politica italiana, che aveva ammortizzato abbandoni coniugali, seconde e terze mogli, cambi di schieramento da un estremo all'altro, scoprì una nuova regola: mai rinnegare un cane (Empy comunque era in casa dei nipoti).

Matteo Salvini entrò nella corsa nel 2015, quando si fece prestare uno Yorkshire Terrier da Lorenzo Fontana, con tanto di maglioncino a collo alto, per una foto sorridente che Libero titolò: «Salvini studia da leader e presenta l'anti-Dudù». 

Era la vigilia delle Regionali, i rapporti in casa centrodestra erano come sempre tesi e chissà se l'attacco di canismo non rappresentasse, al contrario, il tentativo di riconquistare al dialogo con Berlusconi (poi successe davvero: l'accordo si fece e lo Yorkshire portò fortuna pure a Fontana, che ha fatto la carriera che sapete).

Sta di fatto che la Pet Politique ci ha accompagnato per un lungo tratto, e che gli animali dei potenti sono da molti anni un fortissimo richiamo di popolarità: non a caso tutti hanno scelto bestiole innocue, piccole, pelose, con gli occhi tondi che chiamano le carezze. 

Nessuno che abbia un lupo siberiano o un bulldog, e persino nell'esaltazione dei cani-eroi (un altro classico di Salvini) vince l'allegro Jack Russel della Questura di Genova o i miti labrador che salvano i bagnanti a Sperlonga.

C'è un solo tipo di cani che non piacciono, che non meritano le citazioni di Totò o Gandhi, che non sono angeli, ne' bambini, ne' misurano la civiltà dei popoli, e sono i cani degli immigrati e dei richiedenti asilo. «I clandestini sbarcano a frotte, anche con barboncini» sbotta Salvini quando da Lampedusa arriva lo scatto di undici tunisini con un cagnolino in braccio. 

«Il governo si riferiva a questo quando diceva che avrebbe rilanciato il turismo?», fa eco Giorgia Meloni davanti alla stessa foto, e par di capire che anche l'amore viscerale per gli animaletti abbia un suo preciso limite patriottico. Va bene difenderli, anche con specifiche leggi. Vanno bene i sostegni alle spese veterinarie, alle case-rifugio, alle adozioni dei meticci, agli anziani che stentano a mantenere la loro unica compagnia (tutte proposte segnalate nei programmi di FI e FdI), ma se il cane è migrante no, il Pet Moment svanisce.

Quello sarà pure migliore amico, ma portarselo dietro è una provocazione. Ps. Giorgia Meloni comunque ha un gatto. «Per quanto possano amarti sono animali orgogliosi che preferiscono un rapporto paritario con l'uomo». Insomma, i cani li giudica troppo sottomessi, e chissà che anche questo non sia un alert per i suoi alleati.

Centrodestra.

Da La Stampa il 17 settembre 2022.

Nella sua campagna volutamente vintage Silvio Berlusconi ha chiesto il voto per Forza Italia alle donne, con argomenti di questo tipo. Intanto, «perché sono più bello di Enrico Letta», verità che andrebbe sottoposta a giurie più imparziali, e poi «perché per tutta la vita sono andato a caccia del vostro amore». Visti i trascorsi (anche giudiziari) dell'aspirante senatore questo sfoggio di virilità era francamente evitabile. Il Cavaliere insiste nel cliché dell'inguaribile Don Giovanni, fuori tempo e fuori gusto, svelando un mondo ormai troppo noto anche a chi vorrebbe dimenticarlo. Un tempo avrebbe scatenato l'indignazione, oggi è solo una frase che langue nelle agenzie, pronunciata da un Cavaliere d'altri tempi.

Giustizia, centrodestra diviso tra garantismo e “manette facili”. Difficile, in prospettiva, una coabitazione serena tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, che hanno sensibilità diverse sul tema. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 agosto 2022.

“Riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del Csm – Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama – Riforma del diritto penale: razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell’economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali”: sono questi i tre punti previsti dal programma di centrodestra per riformare la giustizia “secondo Costituzione” nella prossima legislatura. «Il centrodestra – ha spiegato il deputato di Forza Italia e sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto – ha messo in campo un programma autenticamente liberale, volto a fare del cittadino il punto di riferimento dell’intero sistema Paese.

Un obiettivo che ispira anche le nostre proposte sulla giustizia, che si nutrono della cultura garantista di Forza Italia e muovono da un richiamo vero, di sostanza, alla centralità della Costituzione». «L’ulteriore semplificazione e velocizzazione del processo penale e di quello civile – ha aggiunto -, la digitalizzazione e un intervento più incisivo sull’ordinamento giudiziario, unitamente ad una particolare attenzione alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono i cardini di quell’attività riformista che il centrodestra compirà una volta al governo. Questo, nella consapevolezza che dalla qualità della giustizia dipende il livello di civiltà del Paese e il suo sviluppo economico».

A leggere il programma e a sentire Sisto parrebbe un buon piano quello pensato dal centrodestra per la giustizia. Ma ci sono un paio di “però” da sollevare. Il primo: si parla di separazione delle carriere, obiettivo invocato ad alta voce dall’Unione delle Camere penali e posto come loro primo punto per una riforma della giustizia non più rinviabile. Tuttavia ci si può fidare, soprattutto di Silvio Berlusconi? Come non ricordare quel 18 maggio 2000, quando ci fu la cerimonia di consegna da parte dell’Unione Camere penali di Roma della “Toga Rossa” proprio al leader di Forza Italia per «la sciagurata ma efficace campagna astensionistica per sabotare i referendum sulla giustizia» promossi, tra gli altri, dal Partito Radicale, tra i quali c’era proprio quello sulla separazione delle carriere? Berlusconi non si fece neanche trovare e mandò avanti l’allora suo portavoce Paolo Bonaiuti a ritirare il “premio”. Promise che avrebbe fatto la riforma in Parlamento ma sappiamo come è andata a finire. Il secondo: vien da pensare che l’espressione “garanzia” della “effettività” della pena sia stata elaborata e scritta da Lega e Fratelli d’Italia, garantisti sul processo e giustizialisti sull’esecuzione penale, come da loro ammissione, o meglio confessione.

Ricordiamo che Giorgia Meloni è prima firmataria di una proposta di legge costituzionale per modificare l’articolo 27 della Costituzione (al terzo comma aggiungere: «La legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini»). Dunque il programma del centrodestra “secondo Costituzione” a quale carta fa riferimento? All’attuale o a quella eventualmente riscritta nei loro desiderata? Tornando all’esecuzione penale, non esistendo pene scontate virtualmente, la scelta è tra dentro o fuori il carcere. Quel proposito sta a significare che non verrà dato spazio alle misure alternative al carcere e/o si contrasterà quella parte di riforma del processo penale che prevede di irrogarle direttamente dal giudice di cognizione per condanne sotto i 4 anni? Vuol dire far cadere ogni speranza – letterale – di una legge conforme alla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo? Se davvero Forza Italia ha abbandonato il suo garantismo classista in materia di carcere, lo scenario appena ipotizzato probabilmente non condurrà ad una coabitazione serena tra le varie forze che compongono il centrodestra.

Per quanto concerne gli altri punti dell’accordo quadro: sulla ragionevole durata del processo, fonti della coalizione ci dicono che al momento non è possibile dare una risposta all’Unione delle Camere penali in merito al ripristino della prescrizione sostanziale, come superamento dell’improcedibilità. Ribadiscono che quello è un programma di massima, i cui punti specifici andranno declinati e dettagliati una volta capita la composizione del Parlamento. Pertanto nessun approfondimento ci è stato dato neanche per quanto concerne la riforma del Csm, se non che bisognerà lasciarsi alle spalle la mediazione politica che ha forgiato le riforme dell’attuale ministro Marta Cartabia e puntare a riforme più incisive, sempre ovviamente nei margini della delega della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che scade a giugno 2023.

Siamo tornati! Cittadini smarriti tra populismo fiscale e piogge di bonus. Politicamente i bonus rappresentano l’altra faccia della medaglia populista della flat tax. Nicola Daniele Coniglio su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Agosto 2022

Fa molto caldo e, si sa, con temperature così la nostra attenzione tende ad essere bassa. Ma in quest’estate calda è bene per noi elettori mantenere un pochino di lucidità per resistere alla tele(s)vendita a colpi di bonus e riduzioni di tasse. In una situazione così difficile per il Paese ci si augurava un - almeno modesto, modestissimo - senso di responsabilità e di rispetto per gli elettori. Sarà necessario riporre queste speranze nel cassetto del futuro e fare alcune riflessioni sulle proposte faraoniche che ci arrivano dalla politica per non smarrirci nell’immediato. Una premessa importante per il lettore: quando ci rapportiamo alla collettività abbiamo due tasche. Dalla prima tasca tiriamo fuori il nostro contributo alla cassa comune. Questo avviene pagando direttamente o indirettamente tasse e contributi di varia natura. È una tasca che quando viene toccata ci rende, giustamente, molto sensibili. Sono risorse «nostre» e vorremmo che siano o toccate il meno possibile oppure messe a buon uso. C’è però un’altra tasca in cui in modo più o meno consapevole tutti ricevono qualcosa dalla cassa comune. Questo ricevere ha mille forme. Può essere un sussidio per un affitto o un assegno per i bambini. Può essere il medicinale costoso che il sistema sanitario ci garantisce se stiamo male.

È la luce del lampione sotto casa nostra o la possibilità di mandare i nostri figli a scuola senza costi. Ora, il punto fondamentale è che …. queste due tasche non sono separate ma sono sostanzialmente parte dello stesso sistema (fiscale). Se prendiamo meno risorse da una tasca è inevitabile che ci saranno conseguenze sull’altra. Ragionamento banale? Dovrebbe esserlo ma è evidente che, purtroppo, gran parte dei cittadini continua a credere che queste due tasche vivano ciascuna di vita propria. La bassa politica da saldi elettorali di questi giorni non fa che cavalcare questa ignoranza collettiva guardandosi bene dallo spiegare ai cittadini quali sono esattamente le idee di riforma complessiva contenute nelle loro proposte. Chi propone la flat tax (tassa piatta) al 15% oppure la 23% (perché non al 9,99%?) ammicca all’elettore dicendogli che dalla prima tasca (dei cittadini più ricchi però!) prenderà di meno. È un messaggio politico ammissibile? Certo, a patto però che si spieghi in modo serio quali riduzioni di spesa pubblica (sanità? scuola? difesa?) e trasferimenti (sussidi alle famiglie? trasferimenti ai Comuni?) corrispondono inevitabilmente a quelle che saranno le minori entrate fiscali. A chi racconta che tagli consistenti delle tasse pagate dai più ricchi o dalle imprese sono in grado di generare maggiori risorse per la collettività attraverso una maggiore crescita economica chiederei di documentare questa affermazione con esempi concreti e basi scientifiche solide. Le ricerche economiche esistenti sottolineano che le riduzioni delle tasse sui ricchi avvantaggiano i ricchi. Punto. Le riduzioni delle tasse sulle imprese non svolgono un ruolo duraturo di stimolo alla produttività (quello che serve davvero al nostro Paese!).

Ma altrettanto deprecabile è la campagna a botte di bonus a cui nessun politico sembra sottrarsi. Un bonus ben disegnato e implementato può essere uno strumento utile (sebbene generalmente in modo temporaneo) per risolvere un problema collettivo degno di essere affrontato. Alcuni bonus sono iniqui e poco efficaci. Una politica economica seria non può essere un’accozzaglia informe di bonus inseriti allo scopo di ammiccare talora ad un gruppo di interesse e talora ad un altro per convenienze elettorali o economiche. Da anni ormai nel nostro Paese i bonus sono diventati la risposta semplice e incompetente a problemi complessi che richiederebbero azioni strutturali e amministrazioni capaci. Politicamente i bonus rappresentano l’altra faccia della medaglia populista della flat tax: seducono l’elettore dicendo cosa vorrebbero mettergli nella tasca senza però spiegare chi sta pagando e a che altra misura saremo costretti a rinunciare.

Il sistema fiscale è un patto di solidarietà tra i cittadini. Se disegnato in modo efficiente, equo e condiviso rappresenta un meraviglioso strumento che consente di proteggere i cittadini dai rischi che la lotteria della vita comporta: perdere il proprio reddito, vedere la propria salute peggiorare, nascere in una famiglia con poche risorse, ecc..

La costituzione repubblicana ci ha regalato un sistema fiscale progressivo che più che assomigliare al cattivo sceriffo, come molti vogliono farci credere, è in realtà un Robin Hood della foresta di Sherwood che prende risorse dai più fortunati per darli a quelli meno fortunati e per costruire beni comuni.

In quest’estate torrida, piuttosto che fare gara a sparare il bonus più grosso sarebbe troppo chiedere alle forze politiche di mettere nero su bianco cosa intendete fare, qualora eletti, della quantità e della distribuzione delle risorse pubbliche che servono per affrontare l’inverno difficile che arriverà? Gli elettori ve ne saranno certamente grati.

Il centrodestra presenta il piano per governare: Programma per l’Italia. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.

Il Programma per l’Italia di Meloni, Salvini, Berlusconi: il documento in 15 punti, ma ogni partito presenterà poi un proprio programma specifico. 

Quindici titoli per un programma di legislatura, e anche di più. E’ il documento comune del centrodestra, sottoscritto dai leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, Lega Matteo Salvini e Forza Italia Silvio Berlusconi, con cui la coalizione si presenterà unita al voto del 25 settembre. Il documento è stato firmato anche dai leader di Noi Moderati, la lista unitaria dei centristi del centrodestra presentata oggi da Maurizio Lupi (Noi con l’Italia), Giovanni Toti (Italia al centro), Lorenzo Cesa (Udc) e Luigi Brugnaro (Coraggio Italia).

Un programma lungo e dettagliato nei titoli ma solo in parte sulle singole misure da attuare, visto che ogni partito presenterà un proprio programma specifico con i temi forti e identitari che lo caratterizzano, sui quali si giocherà la sfida interna per la primazia e per i pesi del prossimo, probabile governo.

Le ultime notizie sulle elezioni politiche

Ci sono i nodi cardine che Giorgia Meloni aveva preteso, già nel primo punto che è un messaggio rassicurante al mondo, ai vertici europei, ai mercati: l’Italia, a pieno titolo parte dell’Europa, dell’Alleanza Atlantica e dell’Occidente. Più Italia in Europa, più Europa nel Mondo, e anche impegnata nel «rispetto degli impegni assunti nell’Alleanza Atlantica» specificamente a sostegno dell’Ucraina. Come c’è l’adesione agli impegni europei ma anche la richiesta di un’unione «più politica» e con al «revisione del Patto di Stabilità».

Garanzie anche sul Pnrr: le riforme richieste verranno portate a termine, ma si opererà per una revisione dello stesso Piano «in funzione delle mutate condizioni, necessità e priorità». Sempre su spinta di FdI, il centrodestra si impegna per una riforma costituzionale che preveda «l’elezione diretta del Presidente della Repubblica», alla quale però si abbina il percorso «da completare» sulle Autonomie (indispensabile per la Lega) come anche il completamento della riforma della giustizia, punto preteso da Forza Italia.

Centrodestra, ecco il Programma per l’Italia

Il capitolo del fisco, che tanto fa discutere, punta tutto sulla «riduzione della pressione fiscale», mettendo assieme sia la proposta di FdI ispirata al principio del «chi più assume, meno paga», sia quelle care a Lega e FI della flat tax: si partirà con un’estensione «per le partite IVA fino a 100.000 euro di fatturato» (punto targato Lega, che estende l’aliquota del 15% ma non oltre un importo definito), sia la modulazione preferita da FdI - flat tax su incremento di reddito rispetto alle annualità precedenti – sia il principio generale propugnato da Berlusconi: la prospettiva di «ulteriore ampliamento per famiglie e imprese».

Sul lavoro, si insiste sul taglio del cuneo fiscale, sulla defiscalizzazione per i nuovi assunti e sull’abbassamento dell’Iva per i beni di prima necessità. Si vogliono incentivare i voucher e innalzare i limiti all’uso del contante. Confermata la «sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Resta insomma il sostegno a chi non è in grado di lavorare o è in particolare stato di bisogno, ma il meccanismo attuale verrà interamente sostituito, anche se non è ancora specificato in che forma.

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Molta parte del programma è dedicata ai temi del sostegno alla natalità, della famiglia, delle giovani coppie, come al tema della sicurezza. Sul punto, passa la proposta della Lega di tornare all’applicazione dei «decreti sicurezza» varati dal Conte 1 con Salvini ministro dell’Interno, sia quella su cui batte da tempo la Meloni del «controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani». Insomma una mediazione tra diverse posizioni che dovrà poi essere tradotta in calcoli in termini di sostenibilità delle singole proposte. Ci sono 40 giorni per discuterne e, si prevede, scontrarsi con gli avversari.

I favoritissimi verso Palazzo Chigi.  Il piano del centrodestra per il governo, “Programma Italia”: i 15 punti su fisco, Pnrr, Ponte sullo Stretto e sicurezza. Antonio Lamorte su Il Riformista il 11 Agosto 2022 

Il centrodestra favoritissimo per la vittoria alle elezioni politiche del prossimo 25 settembre presenta il suo piano di governo comune: un programma di legislatura in 15 punti intitolato “Programma Italia”. Il testo è stato sottoscritto dai leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, della Lega Matteo Salvini, di Forza Italia Silvio Berlusconi. Un programma lungo nei titoli ma aperto sulle singole misure: ogni partito presenterà infatti il proprio programma in cui svilupperà i temi più forti e identitari.

A guidare la coalizione è Meloni, in vetta ai sondaggi delle intenzioni di voto, la stessa leader che dovrebbe diventare premier (la prima donna in Italia) secondo il principio del chi prende più voti. Meloni ha assicurato il posizionamento Atlantico ed Europeo all’interno dell’Occidente e di sostegno all’Ucraina. Un tema che torna anche nel documento in cui si ritrova anche l’adesione agli impegni europei e la richiesta di un’unione “più politica ” e “revisione del Patto di Stabilità”. Rassicurazioni sul Pnrr e le riforme che saranno portate a termine anche se si opererà una revisione del Piano “in funzione delle mutate condizioni, necessità e priorità”.

Fdi spinge per la riforma costituzionale con elezione diretta del Presidente della Repubblica, la Lega per completare il percorso delle Autonomie, Forza Italia sulla riforma della Giustizia. “Riduzione della pressione” fiscale si legge al capitolo sul fisco: si trovano la proposta di Fdi “chi più assume meno paga” e l’estensione “per le partite IVA fino a 100.000 euro di fatturato” cara alla Lega e la flat tax modulata sull’incremento di reddito rispetto alle annualità precedente cara a Forza Italia.

Capitolo Lavoro: taglio del cuneo fiscale, defiscalizzazione per i nuovi assunti, abbassamento dell’Iva per beni di prima necessità, sostituzione del reddito di cittadinanza “con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro”. Gran parte del programma si concentra sul sostegno alla natalità, alla famiglia, alle giovani coppie. La Lega insiste sul tema sicurezza con i decreti sicurezza varati dal governo Conte 1 quando il segretario del Carroccio Matteo Salvini era ministro dell’Interno. Meloni insiste sul “controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani”.

I leader dei partiti che compongono il centrodestra “hanno condiviso e dato il via libera al programma di governo che la coalizione realizzerà dopo le elezioni del 25 settembre quando, finalmente, l’Italia potrà avere un governo coeso e capace di dare al Paese delle risposte concrete. Un programma che si articola in 15 punti, serio e realizzabile, incentrato sulla tutela dell’interesse nazionale e della Patria, sulla crescita economica e sulla difesa del potere d’acquisto delle famiglie. Nel documento, elaborato nelle scorse settimane da un tavolo tecnico composto dai delegati di tutte le forze del centrodestra, vengono ribaditi i nostri valori e la nostra collocazione in Europa, nell’Alleanza Atlantica e in Occidente, la necessità di una profonda riforma fiscale con la Flat Tax, del superamento della legge Fornero con Quota 41, dei Decreti sicurezza, dell’autonomia regionale e del presidenzialismo e di tutti gli altri elementi che sono indispensabili per affrontare i problemi dell’Italia e dare finalmente il via a un rilancio che non può più essere rinviato”. Il centrodestra sottolinea anche “i temi delle infrastrutture strategiche, delle riforme come quelle della giustizia e della pubblica amministrazione, passando, ovviamente per la necessità di tagliare il carico fiscale a famiglie e imprese”.

Per l’Italia – Accordo quadro di programma per un Governo di centrodestra

1. Italia, a pieno titolo parte dell’Europa, dell’Alleanza Atlantica e dell’Occidente

Più Italia in Europa, più Europa nel Mondo

– Politica estera incentrata sulla tutela dell’interesse nazionale e la difesa della Patria

– Rispetto delle alleanze internazionali e rafforzamento del ruolo diplomatico dell’Italia nel contesto geopolitico

– Rispetto degli impegni assunti nell’Alleanza Atlantica, anche in merito all’adeguamento degli stanziamenti per la difesa, sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione della Federazione Russa e sostegno ad ogni iniziativa diplomatica volta alla soluzione del conflitto

– Piena adesione al processo di integrazione europea, con la prospettiva di un’Unione Europea più politica e meno burocratica

– Revisione delle regole del Patto di stabilità e della governance economica al fine di attuare politiche in grado di assicurare una crescita stabile e duratura e la piena occupazione

– Tutela degli interessi nazionali nella discussione dei dossier legislativi europei, anche alla luce dei cambiamenti avvenuti nel contesto internazionale, con particolare riferimento alla transizione ecologica

– Incentivare il processo di designazione di sedi di enti internazionali sul territorio italiano

– Centralità dell’Italia nell’area mediterranea

– Piano straordinario europeo per lo sviluppo del continente africano, anche attraverso politiche di cooperazione internazionale finalizzate alla crescita socio-economica e alla stabilità politica

– Difesa e promozione delle radici e identità storiche e culturali classiche e giudaico-cristiane dell’Europa.

2. Infrastrutture strategiche e utilizzo efficiente delle risorse europee Pieno utilizzo delle risorse del Pnrr, colmando gli attuali ritardi di attuazione

– Accordo con la Commissione europea, così come previsto dai Regolamenti europei, per la revisione del Pnrr in funzione delle mutate condizioni, necessità e priorità

– Efficientamento dell’utilizzo dei fondi europei con riferimento all’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime

– Garantire la piena attuazione delle misure previste per il Sud Italia e le aree svantaggiate

– Rendere l’Italia competitiva con gli altri Stati europei attraverso l’ammodernamento della rete infrastrutturale e la realizzazione delle grandi opere. Potenziamento della rete dell’alta velocità per collegare tutto il territorio nazionale dal Nord alla Sicilia, realizzando il ponte sullo Stretto

– Potenziamento e sviluppo delle infrastrutture digitali ed estensione della banda ultralarga in tutta Italia

– Difesa delle infrastrutture strategiche nazionali.

3. Riforme istituzionali, della giustizia e della Pubblica Amministrazione secondo Costituzione

– Elezione diretta del Presidente della Repubblica

– Attuare il percorso già avviato per il riconoscimento delle Autonomie ai sensi dell’art. 116, comma 3 della Costituzione, garantendo tutti i meccanismi di perequazione previsti dall’art. 119 della Costituzione

– Piena attuazione della legge sul federalismo fiscale e Roma Capitale

– Valorizzazione del ruolo degli enti locali

– Riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del CSM

– Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama

– Riforma del diritto penale: razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell’economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali

– Principio della pari dignità fra Pubblica Amministrazione e cittadino

– Delegificazione e deregolamentazione per razionalizzare il funzionamento della Pubblica Amministrazione

– Digitalizzazione, efficientamento e ammodernamento della Pubblica Amministrazione

– Semplificazione del Codice degli appalti

4. Per un fisco equo

– Riduzione della pressione fiscale per famiglie, imprese e lavoratori autonomi

– No a patrimoniali dichiarate o mascherate

– Abolizione dei micro tributi che comportano eccessivi oneri di gestione per lo Stato

– Pace fiscale e “saldo e stralcio”: accordo tra cittadini ed Erario per la risoluzione del pregresso

– Politiche fiscali ispirate al principio del “chi più assume, meno paga”

– Estensione della flat tax per le partite Iva fino a 100.000 euro di fatturato, flat tax su incremento di reddito rispetto alle annualità precedenti, con la prospettiva di ulteriore ampliamento per famiglie e imprese

– Semplificazione degli adempimenti e razionalizzazione del complesso sistema tributario

– Rapporto più equo tra Fisco e contribuenti: procedure semplificate, onere della prova fiscale a carico dello Stato, riforma della giustizia tributaria e superamento dell’eccesso di afflittività del sistema sanzionatorio

– Introduzione del “conto unico fiscale” per la piena e immediata compensazione dei crediti e dei debiti verso la PA

– Diritto al conto corrente per tutti i cittadini.

5. Sostegno alla famiglia e alla natalità

– Allineamento alla media europea della spesa pubblica per infanzia e famiglia

– Piano di sostegno alla natalità, prevedendo anche asili nido gratuiti, asili nido aziendali, ludoteche

– Riduzione dell’aliquota IVA sui prodotti e servizi per l’infanzia

– Aumento dell’assegno unico e universale

– Progressiva introduzione del quoziente familiare

– Sostegno concreto alle famiglie con disabili a carico attraverso l’incremento dei livelli essenziali di assistenza sociale

– Politiche di conciliazione lavoro-famiglia per madri e padri

– Tutela del lavoro delle giovani madri

– Ferma tutela della proprietà privata e creazione di un sistema di protezione della casa e immediato sgombero delle case occupate

– Agevolazioni per l’accesso al mutuo per l’acquisto della prima casa per le giovani coppie

– Sostegno ai genitori separati o divorziati in difficoltà economica.

6. Sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale

– Decreti sicurezza

– Adeguamento dell’organico e delle dotazioni delle Forze dell’Ordine e dei Vigili del Fuoco, fattiva collaborazione di questi con la Polizia locale e le Forze armate per consentire un capillare controllo del territorio

– Implementazione della sicurezza nelle città: rafforzamento operazione strade sicure, poliziotto di quartiere e videosorveglianza

– Contrasto al fenomeno delle baby gang e alla microcriminalità

– Potenziamento delle misure e dei sistemi di cyber-sicurezza

– Riqualificazione di quartieri, edifici, stazioni, strade e parchi in stato di degrado e di illegalità diffusa. Norme più severe per gli atti contro il decoro

– Azioni incisive e urgenti per il contrasto al crescente fenomeno della violenza nei confronti delle donne

– Lotta alle mafie e al terrorismo

– Contrasto ad ogni forma di antisemitismo e all’integralismo islamico

– Combattere lo spaccio e la diffusione delle droghe con ogni mezzo, anche attraverso campagne di prevenzione e informazione

– Piano carceri, maggiore attenzione alla Polizia Penitenziaria e accordi con gli Stati esteri per la detenzione in patria dei detenuti stranieri.

– Contrasto all’immigrazione irregolare e gestione ordinata dei flussi legali di immigrazione

– Favorire l’inclusione sociale e lavorativa degli immigrati regolari

– Difesa dei confini nazionali ed europei come richiesto dall’UE con il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, con controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani

– Creazione di hot-spot nei territori extra-europei, gestiti dall’Unione Europea, per valutare le richieste d’asilo

– Garantire ai Comuni le risorse necessarie per far fronte alle spese per la gestione e la presa in carico dei minori non accompagnati.

7. Tutela della salute

– Sviluppo della sanità di prossimità e della medicina territoriale, rafforzamento della medicina predittiva e incremento dell’organico di medici e operatori sanitari

– Aggiornamento dei piani pandemici e di emergenza e revisione del Piano sanitario nazionale

– Oltre la pandemia: ripristino delle prestazioni ordinarie e delle procedure di screening, abbattimento dei tempi delle liste di attesa

– Estensione prestazioni medico sanitarie esenti da ticket

– Contrasto alla pandemia da Covid-19 attraverso la promozione di comportamenti virtuosi e adeguamenti strutturali – come la ventilazione meccanica controllata e il potenziamento dei trasporti – senza compressione delle libertà individuali

– Riordino delle scuole di specializzazione dell’area medica

– Revisione del piano oncologico nazionale.

8. Difesa del lavoro, dell’impresa e dell’economia

– Taglio del cuneo fiscale in favore di imprese e lavoratori

– Tutela del potere d’acquisto di famiglie, lavoratori e pensionati di fronte alla crisi economica e agli elevati tassi di inflazione

– Interventi sull’Iva per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità e ampliamento della platea dei beni con Iva ridotta

– Riduzione Iva sui prodotti energetici

– Defiscalizzazione e incentivazione del welfare aziendale, anche attraverso detassazione e decontribuzione premi di produzione e buoni energia

– Maggiori tutele per lavoro autonomo e libere professioni, tutela delle micro e delle piccole medie imprese, lotta alla concorrenza sleale

– Estensione della possibilità di utilizzo dei voucher lavoro, in particolar modo per i settori del turismo e dell’agricoltura

– Contrasto al lavoro irregolare, rafforzamento della prevenzione degli infortuni e defiscalizzazione dei costi della sicurezza sul lavoro

– Rafforzamento dei meccanismi di decontribuzione per il lavoro femminile, gli under-35, i disabili, e per le assunzioni nelle zone svantaggiate

– Incentivi all’imprenditoria femminile e giovanile, in particolare nelle aree depresse

– Facilitazione per l’accesso al credito per famiglie e imprese

– Politiche di sostegno alle aziende ad alta intensità occupazionale

– Rafforzamento delle politiche attive per il lavoro

– Innalzamento del limite all’uso del denaro contante, allineandolo alla media dell’Unione Europea

– Bonus edilizi: salvaguardia delle situazioni in essere e riordino degli incentivi destinati alla riqualificazione, alla messa in sicurezza e all’efficientamento energetico degli immobili residenziali pubblici e privati.

9. Stato sociale e sostegno ai bisognosi

– Ridefinizione del sistema di ammortizzatori sociali al fine di introdurre sussidi più equi ed universali

– Sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro

– Innalzamento delle pensioni minime, sociali e di invalidità

– Flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione, favorendo il ricambio generazionale

– Controllo sull’effettiva applicazione degli incentivi all’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro

– Piano straordinario di riqualificazione delle periferie, anche attraverso il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica

– Potenziamento di politiche mirate alla piena presa in carico delle persone con disabilità, anche attraverso l’incremento delle relative risorse

– Maggiori tutele in favore dei lavoratori fragili, immunodepressi e con disabilità grave.

10. Made in Italy, cultura e turismo

– Valorizzare la Bellezza dell’Italia nella sua immagine riconosciuta nel mondo

– Tutela e promozione del Made in Italy, con riguardo alla tipicità delle eccellenze italiane

– Italiani all’estero come ambasciatori dell’Italia e del Made in Italy: promozione delle nostre eccellenze e della nostra cultura attraverso le comunità italiane nel mondo

– Costituzione di reti di impresa del comparto turistico, per la promozione e commercializzazione del settore, anche a livello internazionale. Sostegno al settore dello spettacolo e incentivi per l’organizzazione di eventi a livello nazionale

– Sostegno alla presenza dell’Italia nei circuiti dei grandi eventi internazionali

– Tutela della nautica e delle imprese balneari: 8000 km di litorale, 300.000 addetti del settore, un patrimonio che va tutelato

– Tutela e promozione del patrimonio culturale, artistico, archeologico, materiale e immateriale, e valorizzazione delle professionalità culturali che costituiscono il volano economico e identitario italiano

– Valorizzazione e promozione di un’offerta turistica diversificata

– Supporto alla digitalizzazione dell’intera filiera del settore turistico e della cultura

– Contrasto all’esercizio abusivo delle professioni e delle attività del turismo e della cultura

11. La sfida dell’autosufficienza energetica

– Transizione energetica sostenibile

– Aumento della produzione dell’energia rinnovabile

– Diversificazione degli approvvigionamenti energetici e realizzazione di un piano per l’autosufficienza energetica

– Pieno utilizzo delle risorse nazionali, anche attraverso la riattivazione e nuova realizzazione di pozzi di gas naturale in un’ottica di utilizzo sostenibile delle fonti

– Promozione dell’efficientamento energetico

– Sostegno alle politiche di price-cap a livello europeo

– Ricorso alla produzione energetica attraverso la creazione di impianti di ultima generazione senza veti e preconcetti, valutando anche il ricorso al nucleare pulito e sicuro.

12. L’Ambiente, una priorità

– Rispettare e aggiornare gli impegni internazionali assunti dall’Italia per contrastare i cambiamenti climatici

– Definizione ed attuazione del piano strategico nazionale di economia circolare in grado di ridurre il consumo delle risorse naturali, aumentare il livello qualitativo e quantitativo del riciclo dei rifiuti, ridurre i conferimenti in discarica, trasformare il rifiuto in energia rinnovabile attraverso la realizzazione di impianti innovativi e sostenibili

– Piano straordinario per la tutela e la salvaguardia della qualità delle acque marittime e interne ed efficientamento delle reti idriche per limitare il fenomeno della dispersione delle acque

– Programma straordinario di resilienza delle aree a rischio dissesto idrogeologico con interventi mirati

– Salvaguardia della biodiversità, anche attraverso l’istituzione di nuove riserve naturali

– Promozione dell’educazione ambientale e al rispetto della fauna e della flora

– Rimboschimento e piantumazione di alberi sull’intero territorio nazionale, in particolare nelle zone colpite da incendi o calamità naturali

– Incentivare l’utilizzo del trasporto pubblico e promuovere e favorire politiche di mobilità urbana sostenibile.

13. L’Agricoltura: la nostra storia, il nostro futuro

– Promozione di una Politica Agricola Comune e di un piano strategico nazionale, capaci di rispondere alle esigenze di oggi, per uno sviluppo che coniughi indipendenza e sostenibilità ambientale ed economica

– Salvaguardia del comparto agroalimentare, lotta al nutri-score e all’italian sounding

– Tutela delle specificità e delle eccellenze agricole italiane e loro promozione sui mercati esteri

– Rifinanziamento della misura “Più Impresa” a favore dei giovani agricoltori e dell’imprenditoria femminile

– Innalzamento dei massimali degli aiuti in regime de minimis per le imprese agricole, allineandoli a quanto previsto negli altri settori economici

– Promozione di una filiera italiana per l’innovazione in agricoltura

– Rafforzamento degli strumenti di garanzia sui finanziamenti a favore delle imprese agricole, degli allevamenti e della pesca

– Potenziamento degli strumenti di contrasto al caporalato e al lavoro irregolare

– Riconoscimento e valorizzazione delle piccole produzioni locali di qualità

– Interventi di contrasto al fenomeno della proliferazione della fauna selvatica e alla diffusione delle epidemie animali

– Interventi per un “piano nazionale invasi” per l’irrigazione agricola.

14. Scuola, università e ricerca

– Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico

– Piano per l’eliminazione del precariato del personale docente e investimento nella formazione e aggiornamento dei docenti

– Ammodernamento, messa in sicurezza, nuove realizzazioni di edilizia scolastica e residenze universitarie

– Valorizzazione e promozione delle scuole tecniche professionali volte all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro

– Allineamento ai parametri europei degli investimenti nella ricerca

– Incentivare i corsi universitari per le professioni Stem

– Maggiore sostegno agli studenti meritevoli e incapienti

– Riconoscere la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso il buono scuola

– Favorire il rientro degli italiani altamente specializzati attualmente all’estero.

15. Giovani, sport e sociale

– Valutazione dell’impatto generazionale delle leggi e dei provvedimenti a tutela delle future generazioni

– Sostegno allo sport quale strumento di crescita e integrazione sociale e promozione di stili di vita sani

– Potenziamento degli strumenti di finanziamento per esperienze formative e lavorative all’estero per giovani diplomati e laureati, finalizzate al reimpiego sul territorio nazionale delle competenze acquisite

– Supporto e valorizzazione degli enti del Terzo settore e delle associazioni sportive dilettantistiche, nell’ottica del principio di sussidiarietà

– Reintroduzione e rafforzamento del sistema del prestito d’onore per studenti universitari

– Programma di investimento e potenziamento dell’impiantistica sportiva, anche scolastica e universitaria

– Introduzione di borse di studio universitarie per meriti sportivi

– Promozione e rilancio dell’artigianato e dell’impresa come prospettiva lavorativa per le nuove generazioni

– Supporto all’imprenditoria giovanile, incentivi alla creazione di start up tecnologiche e a valenza sociale.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Un programma così di destra che se ne vergognano perfino loro.  STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani l'11 agosto 2022

Il programma è così di destra che se ne vergognano perfino loro e propongono anche i correttivi a quelli che sono palesi eccessi di propaganda.

Le otto pagine di compromesso tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno tutte le parole chiave di ciascun partito ma anche correttivi per renderlo digeribile agli altri.

Non basterebbe una legislatura anche solo a iniziare la parte comprensibile del programma, che comunque costerebbe qualche centinaio di miliardi all’anno. Ma non è un problema per ora, intanto il centrodestra vuole vincere le elezioni.

Berlusconi rilancia: "Stop ai processi per chi è assolto". E i magistrati scendono in campo. Basta con la pena interminabile dei processi, con cittadini già assolti che devono confrontarsi per anni o per decenni con l'ostinazione dei pubblici ministeri. Luca Fazzo il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.

Basta con la pena interminabile dei processi, con cittadini già assolti che devono confrontarsi per anni o per decenni con l'ostinazione dei pubblici ministeri. Come era inevitabile, il tema della giustizia fa irruzione nella campagna elettorale per le politiche del 25 settembre, e lo fa per iniziativa del leader che da quasi trent'anni indica nello strapotere della magistratura uno dei mali cronici del paese. Silvio Berlusconi affida a un messaggio di poche righe la prima parola d'ordine su questo fronte: «Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili. Un cittadino - una volta riconosciuto innocente - ha diritto di non essere perseguitato per sempre».

Parole semplici, in linea con quanto Forza Italia sostiene da sempre, e che ha cercato quando è stata al potere di tradurre in pratica. Ma che bastano a sollevare l'immediata reazione delle toghe organizzate, che evidentemente neanche in questa occasione intendono rinunciare a svolgere un ruolo attivo, e ben schierato, nella campagna elettorale. Con il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Peppe Santalucia che insorge: «La questione era stata affrontata dal legislatore nel 2006 con la legge Pecorella e la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima quella legge». Un commento che assomiglia molto a una promessa di guerra: se la legge annunciata da Berlusconi dovesse venire approvata, i pm si preparano a chiedere nuovamente che sia la Corte Costituzionale a spazzare via l'innovazione, come sedici anni fa.

Ma Santalucia e i suoi colleghi sono i primi a sapere che il clima è mutato. Al punto che un anno fa anche la commissione nominata dalla ministra Marta Cartabia per la riforma dei codici, presieduta da un giurista insigne come Giorgio Lattanzi, al termine dei suoi lavori propose la semplice e radicale modifica: se un imputato viene assolto, il pm non può appellare. L'Anm insorse, sostenuta dai mass media di area, e la Cartabia fece un passo indietro.

Peccato, per il partito dei giudici, che lo scenario che si prepara per il dopo elezioni appare assai diverso da quello che produsse la pallida riforma Cartabia. Se arriverà davvero la vittoria del centrodestra, la proposta lanciata ieri da Berlusconi appare destinata a divenire (nuovamente) legge. Nel giro di poche ore arrivano infatti due endorsement importanti. Uno è di Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega, secondo cui l'idea «sacrosanta» del Cavaliere «è un'antica battaglia, oggi più che mai attuale ed è anche nel programma elettorale della Lega». Poco dopo a spezzare una lancia significativa è Carlo Nordio, l'ex magistrato che Fratelli d'Italia pare intenzionata a proporre come ministro della Giustizia nel nuovo esecutivo: «Sono - dice Nordio al Giornale - assolutamente d'accordo. Poiché una condanna può intervenire solo aldilà di ogni ragionevole dubbio, come si può condannare un imputato quando il giudice precedente ha dubitato al punto di assolverlo?».

Certo, ci sarebbe poi da fare i conti con le eccezioni di costituzionalità che ieri Santalucia preannuncia. Ma Giulia Bongiorno fa già sapere che la nuova legge si potrà scrivere «attenti a tener conto di tutte le indicazioni della Corte costituzionale». E comunque i tempi cambiano, le sensibilità e gli orientamenti della Consulta anche: come dimostra il fatto che proprio un suo ex presidente come Lattanzi avesse tenuto a battesimo la proposta di svolta. Una riforma che oltre a impedire calvari interminabili e sentenze contraddittorie, ridurrebbe a costo zero gli arretrati della giustizia.

Gli attacchi alla proposta del Cav. Assoluzione inappellabile, negli Stati Uniti già esiste: il cittadino va protetto dallo strapotere dei pm. Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 30 Agosto 2022 

Diversi giornali e programmi televisivi hanno criticato Berlusconi per aver proposto di impedire al PM di fare appello contro le sentenze di assoluzione pronunziate da un giudice penale di primo grado. Hanno anche indicato come questa proposta non possa comunque essere attuata perché la Corte costituzionale ha già dichiarato incostituzionale una legge che la proponeva. Ritengo che queste critiche siano frutto di un acuto provincialismo e di una errata concezione del ruolo delle corti Costituzionali in un paese liberal democratico.

Occorre innanzitutto ricordare che il divieto di appellare le sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero (PM) è un istituto creato 231 anni fa. Fa parte di un insieme di diritti costituzionali riconosciuti al cittadino statunitense nei confronti del governo. Si tratta del Bill of Rights approvato nel 1791 che oltre a riconoscere ai cittadini diritti come quelli riguardanti la libertà di parola, di stampa, di associazione, di religione e così via elenca anche i diritti del cittadino ad avere un giusto processo (due process of law) e tra questi anche il diritto del cittadino a non essere processato due volte per lo stesso reato (quinto emendamento). Questa previsione costituzionale muove dalla costatazione che il PM ha a sua disposizione molti più poteri e risorse del cittadino (si pensi solo ai poteri di indagine) e che per ciò stesso non vi sia né possa esservi di fatto una eguaglianza tra le parti del processo penale.

Che sia quindi necessario tutelare la parte più debole, cioè il cittadino giudicato innocente da ulteriori iniziative penali di natura persecutoria da parte del PM. Ciò che dovrebbe meravigliare non è, quindi, la proposta di adottare questo istituto anche in Italia ma piuttosto che questa tutela processuale a protezione del cittadino, vigente in numerosi paesi, venga proposta da noi con un ritardo plurisecolare. Un ritardo, occorre ricordarlo, interrotto “temporaneamente” solo nel 2006 da una legge (la n. 20 del 2006) che introduceva quell’istituto anche nel nostro processo penale. Ho detto “temporaneamente” perché quell’istituto venne subito cancellato dalla nostra Corte costituzionale che accolse con sorprendente celerità le eccezioni di costituzionalità sollevate dal pubblici ministeri di Roma e Milano (sentenza n. 26 del 2007). Ad avviso della nostra Corte costituzionale quell’istituto violerebbe il principio costituzionale dell’eguaglianza tra le parti nel processo in quanto consentirebbe al cittadino di fare ricorso in caso di condanna ma non al PM in caso di assoluzione.

Per la nostra Corte, a differenza del Costituente degli USA, è assolutamente irrilevante che di fatto non esista, né possa esistere nel processo penale eguaglianza tra accusa e difesa a causa della sproporzione tra i poteri e le risorse di cui dispone il PM rispetto a quelle di cui dispone il cittadino, una sproporzione, peraltro, ancor più marcata in Italia di quanto non sia che negli altri paesi democratici ove l’indipendenza del PM non è così assoluta, irresponsabile e incontrollata come da noi. Che dire della sentenza della Corte Costituzionale? Frutto di un formalismo giuridico che ignora anche le più evidenti realtà fattuali? Forse sì, ma a mio avviso vi è anche un fattore che condiziona i giudizi della Corte ben al di là del caso appena considerato e che deriva da uno dei molteplici aspetti della sua anomala composizione. Le nostre ricerche mostrano, infatti, che a partire dagli anni ‘60 la nostra Corte costituzionale ha con continuità accolto le eccezioni di costituzionalità sollevate dai magistrati riguardanti la tutela dei loro interessi corporativi e dei loro poteri.

Mostrano anche che oltre ai giudici della Corte eletti dai magistrati (5 su 15) lavorano nella Corte oltre trenta magistrati (a tempo pieno o parziale) che fungono da assistenti di studio di tutti i giudici Costituzionali ed il cui compito è quello di collaborare con essi per le decisioni che riguardano le questioni di costituzionalità sollevate proprio dai loro colleghi che operano negli uffici giudiziari. Non dovrebbe quindi sorprendere più di tanto la regolarità con cui la Corte tutela gli interessi economici ed i poteri della magistratura. Se anche si volesse considerare questo fenomeno come frutto di una strana, fortuita coincidenza mi sembra innegabile che la presenza dei magistrati ordinari come assistenti di studio costituisca un evidente caso di conflitto di interessi che andrebbe sanato, stabilendo che i magistrati ordinari non possano più svolgere le funzioni di assistente di studio dei giudici costituzionali. È una riforma che suggerisco da tempo ma che sinora non ha avuto ascolto.

Aggiungo una postilla che può essere di interesse per il lettore. Le nostre ricerche sulle Corti costituzionali dei paesi democratici mostrano che le anomalie della composizione della nostra Corte rispetto a quella degli altri paesi vanno ben al di là di quelle riguardanti gli assistenti di studio. Per sanarle e dare anche alla nostra Corte maggiore funzionalità, legittimazione democratica e trasparenza non basterebbe una legge ordinaria ma sarebbero anche necessarie profonde riforme di ordine costituzionale (“L’anomala struttura della Corte Costituzionale italiana, giudici e assistenti di studio: proposte di riforma”, archiviopenale.it, 2021, 3). Giuseppe Di Federico 

Da adnkronos.com il 17 Agosto 2022

“Il tema è stato già affrontato dal Legislatore nel 2006 con la legge Pecorella, che ha visto un anno dopo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale. 

Dell’inappellabilità delle sentenze se ne può discutere ma non nei modi in cui è stata rappresentata in queste ore. Non è certo questa la soluzione ai problemi della giustizia”. 

A dirlo il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, interpellato dall’Adnkronos sulla proposta di Silvio Berlusconi relativa all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado.

“Se un processo si conclude con un’assoluzione non si può pensare che si tratti di malagiustizia: i processi si fanno per accertare i fatti - sottolinea il presidente dell’Anm - Non è accettabile questo modo di ragionare, i processi vanno fatti per accertare la verità storica che non si conosce all’inizio”.

Berlusconi: «Stop agli appelli dei pm». E l’Anm fa già catenaccio. È la proposta chiave di FI sulla giustizia: vietare il ricorso dell’accusa in caso di proscioglimento. Dal “sindacato” delle toghe arriva subito l’altolà: «Lo prevedeva la legge Pecorella, bocciata dalla Consulta». Errico Novi su Il Dubbio il 18 agosto 2022.

Un grande classico: Berlusconi contro l’Anm. Come vent’anni fa, all’epoca delle inchieste sul Cav, e più tardi con la riforma Castelli. È il primo vero scontro sulla giustizia della campagna elettorale. Un po’ retrò è anche l’oggetto della polemica: l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, obiettivo inseguito già da Gaetano Pecorella con la sua riforma del 2006 e censurato pochi mesi dopo dalla Consulta.

Ora questo antico mantra garantista è il cuore della piattaforma di Forza Italia sulla materia penale, e Berlusconi ne parla nella videopillola sul programma diffusa stamattina: «Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili. Un cittadino – una volta riconosciuto innocente – ha diritto di non essere perseguitato per sempre. Anche perché perseguitare gli innocenti significa lasciare i veri colpevoli in libertà».

«Cominciamo a parlare di giustizia», spiega l’ex premier, «in Italia, ogni anno migliaia di persone vengono arrestate e processate pur essendo innocenti. Il processo è già una pena, che colpisce l’imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro. Per questo», dice i leader di FI, «non deve trascinarsi all’infinito, in appelli e controappelli». Conclusione per gli elettori: «Se sei d’accordo, se anche tu pensi che la presunzione di innocenza sia alla base della nostra civiltà giuridica, il 25 settembre devi andare a votare e devi votare Forza Italia».

È una sfida a cui per ore nessun altro partito risponde. Fulminea è invece la replica dell’Associazione nazionale magistrati, e in particolare del presidente Giuseppe Santalucia: «La questione era stata affrontata dal legislatore nel 2006 con la legge Pecorella e la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima quella legge», tiene a ricordare. «Ci sono principi costituzionali che devono essere rispettati. Il tema può essere discusso ma non rappresentato nei termini che ho letto, ossia che migliaia di persone siano ingiustamente sotto processo. Questo non rende giustizia al difficile lavoro dei Tribunali e delle Corti nell’accertamento della verità dei fatti».

Scambio che ha venature politiche ma anche culturali. Perché la proposta di Berlusconi non è solo radicata nella storia degli azzurri, in quel tentativo di Pecorella (la legge 46 del 2006) che la Consulta finì per sopprimere (con le sentenze 26 del 2007 e 85 del 2008). Dietro c’è il nodo cruciale del ragionevole dubbio: si può giudicare nel merito, una seconda volta, qualcuno che un primo giudice ha ritenuto innocente, e sulla cui colpevolezza dunque può sussistere quanto meno il ragionevole dubbio? E c’è lo scontro fra sicurezza sociale e diritti dell’individuo, concezione liberale del processo, cara all’Unione Camere penali, e centralità della repressione.

D’altra parte l’incognita agitata da Santalucia è reale: stavolta la legge reggerebbe al vaglio della Consulta? L’Anm dice no anche se «il tema può essere discusso». Santalucia è un giurista aperto e anche questa sfumatura lo conferma.

Inoltre, la riforma Cartabia ha già modificato alcuni aspetti della materia: la disciplina delle impugnazioni prevede ora – o almeno lo prevede lo schema di decreto attuativo , che ancora non è stato emanato in via definitiva – l’inappellabilità delle condanne quando la pena consiste in lavori di pubblica utilità, e sancisce come non appellabili anche le sentenze di proscioglimento o non luogo a procedere per reati puniti con pena pecuniaria o alternativa.

Non è tutto, perché introduce (ed è forse il punto decisivo) un limite particolare per il solo imputato: l’inammissibilità dell’appello per “aspecificità” dei motivi. Ne ha parlato ieri, in una ampia ed efficace intervista al Dubbio, Gian Luigi Gatta, consigliere della ministra Cartabia per le libere professioni e tra i maggiori artefici materiali della riforma penale.

A voler scavare ancora più a fondo nella prospettiva indicata da Berlusconi, prima ancora che via Arenula mettesse nero su bianco l’articolato (della legge delega prima e ora del decreto attuativo), era stata la commissione di esperti individuata dalla guardasigilli a ricordare la «diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti del processo penale: privo di autonoma copertura nell’articolo 112 Cost. – e, dunque, più “malleabile” – quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’articolo 24 Cost. – e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi – quello dell’imputato». Così si legge nella relazione che Giorgio Lattanzi, presidente di quella commissione ministeriale, ha consegnato a Cartabia nella primavera 2021.

Lattanzi è presidente emerito della Consulta, e si è posto dunque il problema della costituzionalità di una riforma dell’appello. Così nella sua relazione si legge ancora che l’inappellabilità dei proscioglimenti «si configura come compatibile con il quadro costituzionale». A due condizioni: di introdurre gli argini ai ricorsi di cui ha detto Gatta al Dubbio, e di prevedere una compensazione (fra difesa e accusa) ancora più forte, il “l’appello a critica vincolata”, che è invece rimasto fuori dall’impianto riformatore. Si tratta di capire se questa discrepanza basterebbe a indurre un nuovo “arresto” della Corte costituzionale.

Non si può dare per scontato, insomma, che la previsione negativa dell’Anm sia corretta, ma un’alea resta. D’altra parte, sulla giustizia, Forza Italia si muove ad ampio raggio. Oltre ala separazione delle carriere, rilanciata sia da Berlusconi che da Deborah Bergamini, ipotizza fra l’altro il diritto alla “buona fama”. Ne ha scritto il Fatto quotidiano di oggi, in chiave critica. Si tratta di una riforma studiata da Francesco Paolo Sisto insieme con Giulia Bongiorno (e infatti ve n’è traccia pure nel programma della Lega). Prevederebbe limiti alla diffusione delle intercettazioni ma anche l’obbligo di deindicizzare dal web le notizie relative a un’iniziale condanna se la persona è successivamente assolta.

Sono ipotesi che andranno discusse con Fratelli d’Italia, apparsa, negli ultimi tempi, meno riottosa alle soluzioni garantiste di quanto fosse sembrato con i no ad alcuni referendum: sul Dubbio di ieri si è dato conto della disponibilità del partito di Giorgia Meloni a un ripristino della “vecchia” prescrizione.

A conti fatti va riconosciuto che sulla giustizia il centrodestra è decisamente a uno stadio avanzato dei lavori. Si può dire qualcosa del genere forse per il terzo polo di Calenda e Renzi ma, al momento, non per il Pd e il rassemblement progressista, più orientato a preservare i risultati della riforma Cartabia. Si vedrà. Ma certo, rivedere il Cav che sferraglia sulla giustizia con l’Anm, a lustri di distanza dagli scontri dei primi anni Duemila, dà una curiosa sensazione di vertigini. 

Palamara, inappellabilità assoluzione è civiltà giuridica. ANSA  il 18 Agosto 2022

"Quello della inappellabilità delle sentenze di assoluzione è un principio di civiltà giuridica che serve anche a spezzare il corto circuito mediatico giudiziario. Questo Paese si deve liberare dell'idea di portare la magistratura sul terreno della contrapposizione politica": ad affermarlo è l'ex magistrato e candidato alle prossime elezioni Luca Palamara. Il quale in una dichiarazione all'ANSA interviene sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione che Silvio Berlusconi è tornato a proporre. "Chi ha paura di affrontare il tema delle assoluzioni inappellabili, soprattutto quando vengono emesse a distanza di tanti anni dal fatto - sostiene Palamara -, e rievoca il pronunciamento della Corte costituzionale del 2006, è troppo attaccato a quella idea giustizialista che considera il processo penale una clava da utilizzare contro il nemico di turno. E non invece il luogo nel quale accertare nel contraddittorio tra le parti davanti ad un giudice terzo se un fatto si è verificato o meno e se costituisca reato". (ANSA).

La proposta che divide. Berlusconi lancia l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, è scontro tra penalisti e Anm. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Agosto 2022.  

Il processo è già una pena, che colpisce l’imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro. Per questo non deve trascinarsi all’infinito, in appelli e controappelli. Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili. Un cittadino – una volta riconosciuto innocente – ha diritto di non essere perseguitato per sempre” . Lo scrive su Fb Silvio Berlusconi nella sua pillola quotidiana.

Silvio Berlusconi punta forte sulla giustizia. Il leader di Forza Italia, nella consueta pillola quotidiana sui social in cui evidenza i punti del programma del partito, lancia una proposta che ha immediatamente alzato un polverone.

Ricordando come ogni anno in Italia “migliaia di persone vengono arrestate e processate pur essendo innocenti”, Berlusconi ha attaccato l’attuale sistema giustizia, un processo “che è già una pena che colpisce l’imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro”.

Per questo “non deve trascinarsi all’infinito, in appelli e controappelli”. Dunque l’idea del leader e fondatore di Forza Italia è che le sentenze di assoluzioni “di primo o di secondo grado non saranno appellabili”. “Un cittadino – una volta riconosciuto innocente – ha diritto di non essere perseguitato per sempre”, è la proposta di Berlusconi.

Idea che riceve l’ok di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, che ha ricordato come l’inappellabilità delle assoluzioni “è una cinque riforme da noi indicate a tutti i leader politici come imprescindibili per una riforma liberale della giustizia. Se sei stato assolto una volta, nessun secondo giudizio potrà mai eliminare il dubbio”.

Il numero uno dei penalisti ricorda che si tratta di un’ipotesi rilanciata anche dalla commissione Lattanzi, sulla riforma del processo penale, ma poi “sacrificata“. “La legge in tal senso portava la prima firma di Gaetano Pecorella che era parlamentare di Forza Italia ma anche presidente dell’Unione delle Camere penali, ed è vero che la Consulta l’ha dichiarata incostituzionale, ma questa ipotesi è stata rilanciata dalla commissione Lattanzi istituita dalla ministra Cartabia“, sottolinea l’avvocato Caiazza, ricordando che “esplicitamente la commissione si preoccupava di sottolineare che ovviamente la legge delega che suggeriva avrebbe dovuto tenere contro delle ragioni di annullamento da parte della Corte costituzionale. Poiché questa proveniva da una ex presidente dalla Consulta, è certamente una strada praticabile“.

Caiazza sottolinea come la ministra Marta Cartabia abbia “fatto pressoché il massimo, dato il contesto della sua maggioranza. La riforma della Giustizia è un esercizio di equilibrio pressoché impossibile tra le componenti liberali e giustizialiste della maggioranza. Noi abbiamo espresso apprezzamento per questo lavoro – conclude il presidente dei penalisti – ma abbiamo anche detto che però, andando verso una nuova legislatura, non ha più senso ancorarsi a quelle mediazioni forzate”

A mettersi di traverso è pero l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati. Il suo presidente Giuseppe Santalucia ha ricordato che “la questione era stata affrontata dal legislatore nel 2006 con la legge Pecorella e la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima quella legge”. “Ci sono principi costituzionali – sottolinea Santalucia – che devono essere necessariamente rispettati. Il tema può essere discusso ma non rappresento nei termini che ho letto, ossia che migliaia di persone siano ingiustamente sotto processo. Questo non rende giustizia al difficile lavoro dei tribunali e del corti nell’accertamento della verità dei fatti”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Silvio Berlusconi: "Col presidenzialismo Mattarella deve dimettersi", ira Letta. Libero Quotidiano il 12 agosto 2022.

Silvio Berlusconi ai microfoni di Radio Capital spiega il programma del centrodestra. Come è noto, tra i punti previsti dai moderati c'è anche quello del presidenzialismo. E il leader di Forza Italia, cercando di spiegare in modo chiaro cosa prevede la riforma, ha parlato anche delle conseguenze che avrebbe sul Capo dello Stato, Sergio Mattarella: "Se entrasse in vigore presidenzialismo Mattarella dovrebbe dimettersi, poi magari potrebbe essere eletto di nuovo.

È un sistema perfettamente democratico. Se entrasse in vigore questa riforma, penso che sarebbero necessarie le dimissioni del presidente Mattarella per andare alle elezioni dirette del capo dello Stato". Apriti cielo. Immediata la reazione della sinistra che non ha perso occasione per mettere nel mirino, ancora una volta, il nemico di turno: il Cavaliere. Enrico Letta ha subito tuonato: "La dichiarazione di Berlusconi sulle dimissioni di Mattarella se passasse la riforma del presidenzialismo «è la dimostrazione di quello che pensiamo da tempo ed è il motivo per il quale diciamo agli italiani che questa destra se vincesse le elezioni, potrebbe cambiare la nostra costituzione in senso peggiorativo. È un attacco a Mattarella e noi difendiamo il presidente della Repubblica. Il fatto che la campagna elettorale della destra inizi con l’attacco a Mattarella dimostra che è pericolosa", ha affermato il segretario del Pd. Insomma il tema delle grandi riforme accende al campagna elettorale. E il presidenzialismo che da tempo viene invocato dal centrodestra manda su tutte le furie la sinistra. 

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 13 agosto 2022.

L’attacco di Silvio Berlusconi a Sergio Mattarella non disvela solo l’ennesimo ritorno del Caimano, la voglia matta che ha la destra – una volta vinte le elezioni – di prendersi il paese, minando l’equilibrio dei poteri che caratterizza le nostre istituzioni, così come indica la Costituzione. 

Proditoria o ingenua che sia, la gaffe improvvida sulle dimissioni del presidente della Repubblica in caso di approvazione del presidenzialismo è infatti anche il frutto avvelenato della profonda inimicizia che divide da sempre Silvio e Sergio. Un astio ultratrentennale che non si è mai sopito, e che ha toccato il suo zenit quando Mattarella è stato eletto sulla poltrona del Quirinale. Sedia sulla quale Berlusconi brama invano di accomodarsi da lustri.

L’antipatia tra i due è nei fatti, scolpita dalla storia recente del paese e dall’antica rivalità politica. Ma soprattutto dai caratteri opposti, dai riferimenti culturali e valoriali che più discordi non si può: fratello di Piersanti, ucciso dalla mafia stragista dei Riina e dei Provenzano nel 1980, Mattarella è un uomo riservato e schivo, legalista ed etico, un cattolico democratico della migliore scuola della sinistra Dc. 

Un profilo che ha in Aldo Moro il suo maestro e che ha nulla da spartire con quello del tycoon craxiano e appassionato di escort. Capace di fondare Forza Italia insieme a Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E di difendere senza vergogna un mafioso pluriomicida come lo “stalliere” Vincenzo Mangano, capo di una delle famiglie alleate con i boss che hanno ucciso Piersanti Mattarella.

Al netto delle differenze antropologiche tra i due, l’acrimonia diventa fatto pubblico nel 2015, quando Berlusconi rompe il patto del Nazareno con Matteo Renzi proprio sul nome dell’ex democristiano che l’allora segretario del Pd aveva candidato al Quirinale. Ma in realtà l’antipatia di Berlusconi ha origini assai più remote: Mattarella fu infatti tra i cinque ministri del governo Andreotti a lasciare l’incarico come protesta estrema per la decisione di mettere la fiducia sulla legge Mammì. 

Dispositivo che nel 1990 legalizzò quello che una direttiva europea al tempo vietava senza se e senza ma: il possesso, da parte di un soggetto privato come Berlusconi, di tre canali televisivi a diffusione nazionale. La legge passò lo stesso, sancendo l’inizio dell’impero Fininvest, fondamenta del potere economico e poi politico di Berlusconi.

La guerra contro l’anomalia berlusconiana divenne uno dei tratti distintivi della corrente di sinistra guidata da Mattarella nella Dc, che poi confluì nel Partito popolare dopo lo tsunami di Tangentopoli. «Rigorosa chiusura alla Lega, all’Msi, a Berlusconi», disse Mattarella durante la campagna elettorale del 1994 che vide poi trionfare il Cavaliere. Di più: «Quello che preoccupa di più è la concezione cinica e mercantile che della democrazia che dimostra di aver il cavalier Berlusconi», aggiunse da direttore del quotidiano Il Popolo. 

Rileggendo editoriali e dichiarazioni dell’epoca è chiaro che Berlusconi e Mattarella si consideravano avversari pericolosi.

Il secondo, in particolare, cercò per un lustro e con ogni mezzo di mantenere i cattolici moderati e il Partito popolare fuori dal perimetro della destra di Berlusconi, Fini e Bossi. «È evidente la gravità della scorrettezza di un presidente del Consiglio che ostenta tanto arrogante disprezzo per una forza di opposizione e per il suo elettorato, da ritenere di poterlo comprare a buon prezzo», disse Mattarella all’inizio del primo governo del Cavaliere «Qui probabilmente Berlusconi confonde il suo ruolo istituzionale con quello di presidente del Milan: ma in politica non esistono le campagne acquisti». Trent’anni dopo, sappiamo che il futuro presidente su questo sbagliava grandemente, sottovalutando la capacità dell’imprenditore di comprarsi consenso e parlamentari.

Berlusconi provò in ogni modo, nel corso degli anni Novanta e i primi del nuovo secolo, ad allargare verso il centro la coalizione di cui fu federatore, per provare a vendersi in Italia e all’estero come erede della tradizione conservatrice ma moderata di Alcide De Gasperi.

La conquista dell’elettorato della Dc era un’ossessione che Mattarella ostacolò in ogni modo. Conscio fin da subito che il programma berlusconiano avesse tratti «illiberali: c’è un rischio», scrisse il siciliano, «di svuotare sostanzialmente alcuni aspetti fondamentali della nostra democrazia, attraverso l’eliminazione di minoranze, la sordina alle opposizioni parlamentari, il controllo (con le tv e i giornali, ndr) della pubblica opinione». 

Più di ogni altro aspetto, Mattarella già 25 anni fa segnalava i pericoli insiti nell’elezione diretta da parte del popolo di quello che Berlusconi chiamava allora non il presidente, ma «il capo» del governo. «Una denominazione estranea alla nostra Costituzione, ma propria degli anni Trenta», chiosò Mattarella più volte, allertando sulle «volontà smodate di comando e di potere» del nuovo premier.

Fondatore dell’Ulivo e poi del Partito democratico, Mattarella ha lasciato il parlamento nel 2008, e una volta eletto alla Consulta non è mai più intervenuto direttamente sui protagonisti della politica nazionale, trasformandosi rapidamente in un civil servant e uomo delle istituzioni superpartes. Già nel 2013, con la fine del primo mandato di Giorgio Napolitano, il suo nome era circolato tra i papabili alla successione. 

In particolare, fu l’allora segretario Pier Luigi Bersani a proporre la sua candidatura, ma Berlusconi mise il veto: non si fidava di chi, molti anni prima, non solo aveva cercato di affondare la legge primo mattone del suo impero mediatico, ma che aveva pure osteggiato l’ingresso di Forza Italia nel Partito popolare europeo: quando gli europarlamentari azzurri nel 1998 furono ammessi a titolo individuale per la prima volta, Mattarella spiegò a Berlusconi: «Non basta invadere l’impero romano per diventare un “civis romanus”. Anche gli Unni e i Vandali provarono a fare i romani, ma essendo barbari non ci riuscirono». Un modo cortese per dire: barbaro eri, barbaro rimani.

Anche nel 2015, quando Napolitano chiuse in anticipo il secondo mandato, Berlusconi bloccò in ogni modo il trasloco dell’allora giudice della Consulta al Quirinale. L’astio per Mattarella era tale che il Cavaliere prima provò a convincere Matteo Renzi ad appoggiare insieme a lui Giuliano Amato, poi – quando l’ex Rottamatore si impuntò – urlò al tradimento, fece votare ai suoi scheda bianca e decise di far saltare il patto del Nazareno. Stretto mesi prima con Renzi per portare avanti riforme bipartisan e la legge elettorale Italicum. 

Quello strappo con Renzi sul nome di Mattarella ha segnato la strategia politica del Cavaliere per anni, appiattendolo sempre più verso la destra di Salvini e Meloni. Sarebbe ingiusto però non ricordare che durante il primo settennato i rapporti tra Silvio e Sergio – almeno da un punto di vista formale – sono migliorati col tempo. Dal Quirinale – che ieri ha preferito non fare alcun commento – ricordano bene che durante le consultazioni Berlusconi ha avuto con Mattarella incontri sempre cordiali e rispettosi.

L’inimicizia, spiegano però ambienti di Forza Italia, si è rinnovata di recente. A causa di due queestioni a cui il magnate tiene moltissimo. In primis, il capo di Fininvest ha sperato che Mattarella lo nominasse senatore a vita entro la fine del primo mandato. Un gesto a suo parere dovuto, per lenire la ferita, mai guarita, della sua cacciata da palazzo Madama. Avvenuta in seguito all’approvazione della legge Severino, che prevede la decadenza dei parlamentari in seguito a condanne definitive particolarmente gravi. Come quella incassata nel 2013 dall’ex premier a quattro anni di carcere per frode fiscale in merito alla compravendita dei diritti Mediaset.

Mattarella è anche il presidente del Csm, e solo un turista delle istituzioni poteva sperare davvero nella “grazia” presidenziale. Non è un caso che Mattarella abbia mai ascoltato gli emissari di Berlusconi: nel 2016 l’ex deputata Michaela Biancofiore chiese al capo dello stato «di sanare un’ingiustizia: a Berlusconi deve essere restituito quello che è stato tolto da una legge iniqua», mentre recentemente il giornalista Alessandro Sallusti ha scritto una lettera aperta al presidente in cui fa un appello «per riabilitare Berlusconi ed unire il paese: penso che come ultimo atto della sua presidenza Mattarella possa prendere in considerazione l’idea di mettere fine alla più grande guerra – giocata nei tribunali e sui media – intrapresa contro un solo uomo. Uomo che a questo paese, comunque la si pensi, ha dato tanto sia come cittadino che da imprenditore che da politico e statista».

In secondo ordine, l’avversione del forzista sì è rinfocolata lo scorso gennaio, quando l’ex Cavaliere, nonostante la condanna passata in giudicato e i processo ancora in corso per reati gravissimi, si è autocandidato alla presidenza della Repubblica. Il fallimento dell’operazione era scontato in partenza, ma ad Arcore l’amarezza per il flop non è stata banale. E così la rielezione del galantuomo Mattarella, diventato una sorta di nemesi in terra del Mackie Messer di Milano 2 (così lo chiamava Eugenio Scalfari, citando il lestofante cantato da Bertolt Brecht), non ha che peggiorato l’umore di Berlusconi.

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 13 agosto 2022.

Il mandato di Sergio Mattarella scadrà alla fine di gennaio del 2029, quando l'attuale inquilino del Quirinale sfiorerà gli 88 anni. Se non interverranno fatti nuovi, come per esempio una riforma costituzionale che porti all'elezione diretta del capo dello Stato oppure ragioni personali che inducano il presidente della Repubblica a dimettersi dall'incarico prima del tempo, per 14 anni sul Colle avremo avuto dunque la stessa persona, nominata quando aveva 74 anni e in carica fino alla soglia dei 90.

Mattarella infatti è stato eletto a febbraio del 2015, in un'altra stagione, quando a fare il bello e il cattivo tempo a Palazzo Chigi c'era Matteo Renzi. Dopo altri tre premier non eletti dal popolo - ossia Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e infine Mario Draghi -, il Parlamento non ha saputo fare altro che riconfermare l'attuale capo dello Stato. In nessun altro Paese occidentale si ha notizia di un fatto del genere. 

In America, i presidenti vengono scelti dopo una lunga campagna elettorale e rimangono in carica per quattro anni, che possono diventare otto con un secondo mandato. Ovviamente, sempre che gli americani votino a favore del presidente uscente. In Gran Bretagna il problema non si pone, perché non si parla di una democrazia, ma di una monarchia, tuttavia i poteri della Regina, dal punto di vista politico, sono estremamente limitati.

In Francia i presidenti della République sono eletti dal popolo e il loro mandato dura cinque anni, terminati i quali si torna al voto e i francesi scelgono da chi essere rappresentati. La Germania non ha un'elezione diretta del capo dello Stato, come in America e in Francia, ma l'incarico dura cinque anni e le prerogative sono piuttosto contenute. 

Ecco, se si spinge lo sguardo oltre frontiera si capisce che l'Italia rappresenta un'anomalia, perché in nessuna democrazia occidentale un uomo che non sia stato eletto potrebbe rimanere per un così lungo periodo ai vertici delle istituzioni. 

Men che meno un presidente non eletto potrebbe decidere di affidare il governo del Paese a persone che non siano state selezionate da un processo democratico, ossia scelte con un voto. Per quanto le elezioni non abbiano offerto un risultato chiaro, in Germania a guidare il governo di coalizione è Olaf Scholz, leader dei socialdemocratici, ossia numero uno del partito che ha preso il maggior numero di consensi.

La Francia, che è una Repubblica presidenziale, ha il governo che si è scelto Emmanuel Macron, ovvero il capo dello Stato che ha vinto le elezioni. Da noi invece, l'esecutivo è guidato dall'ex governatore della Bce, che nessuno ha mai votato e a decidere di affidargli l'incarico, negando il normale ricorso al voto, è un signore che fino a prima del febbraio di sette anni fa pochissimi italiani conoscevano, ovvero Sergio Mattarella. 

Ecco, se dovessimo fare il punto dello stato della democrazia in Italia dovremmo partire da qui, ovvero dal fatto che da oltre dieci anni in questo Paese si succedono presidenti del Consiglio che gli italiani non si sono scelti e spesso non conoscevano neppure, mentre abbiamo presidenti della Repubblica che, se fossero stati preventivamente sottoposti al vaglio degli elettori, non sarebbero mai arrivati sul Colle.

Giorgio Napolitano, quando fu nominato capo dello Stato, rappresentava una minoranza della minoranza. Leader della componente migliorista del Pci, era considerato un perdente e infatti all'interno del suo partito era isolato. I Ds giocarono il suo nome quasi per scherzo, convinti che sarebbe stato impallinato. L'uomo che avrebbero voluto al Quirinale era infatti Massimo D'Alema ma, come spesso accade, colui che era stato scelto come candidato a perdere, inspiegabilmente fu eletto.

Non solo: arrivato a fine mandato, riuscì nella non facile impresa di essere riconfermato, divenendo il primo presidente della Repubblica a godere del bis. La nomina di Mattarella fu ancora più incredibile. Renzi e Berlusconi si erano messi d'accordo per scegliere Giuliano Amato, ma poi alla fine il primo cercò di fregare il secondo o viceversa. Risultato, all'improvviso spuntò il nome dell'ex ministro della sinistra dc, un personaggio da tempo scomparso dai radar, che gli ex democristiani avevano piazzato alla Corte costituzionale.

Probabilmente Renzi lo scelse perché era talmente incolore che mai gli avrebbe fatto ombra. O per lo meno questo è ciò che credeva. Di quanto si fosse sbagliato se ne accorse alla fine del 2016, quando perse il referendum sulla Costituzione e il capo dello Stato gli negò le elezioni. 

Così facendo, l'uomo che mai nessun italiano avrebbe scelto per rappresentare la Repubblica, condizionò la storia della Repubblica. Detto ciò, ieri Silvio Berlusconi ha sostenuto non solo di essere favorevole a una riforma costituzionale che consenta agli elettori di scegliere il capo dello Stato, dunque di volere una Repubblica presidenziale, ma ha anche aggiunto che, nel caso ciò avvenisse, Mattarella potrebbe farsi da parte prima dello scadenza naturale del mandato.

In pratica, il Cavaliere ha detto una cosa ovvia. Se gli italiani vogliono decidere da chi farsi rappresentare, è evidente che chi li rappresenta oggi non è più legittimato a farlo. Tuttavia, pur essendo scontata, la frase del fondatore di Forza Italia è stata usata per la solita gazzarra politica. Letta e compagni infatti, si sono schierati in difesa di Mattarella e contro il principio sacrosanto di un presidente eletto dal popolo. 

Nulla di cui stupirsi, naturalmente. Essendo riusciti a eleggere negli ultimi 30 anni presidenti di sinistra, sono terrorizzati alla sola idea che a decidere il capo dello Stato non sia la parrocchietta loro, ma gli italiani. La cosa paradossale è che parlano in nome della democrazia, loro che la democrazia l'hanno messa e la mettono ogni giorno sotto i piedi. La sinistra parla di popolo, ma a decidere non vogliono che sia il popolo, bensì la nomenclatura dei loro partiti. Per quanto ci riguarda, siamo presidenzialisti da sempre.

Anzi, siamo per una democrazia compiuta, dove un Mattarella non sarebbe mai stato eletto presidente. A noi va bene il sistema americano, ma anche quello francese. L'unico che non ci piace è quello italiano, dove a decidere chi debba essere il presidente della Repubblica non è la Repubblica, ma la monarchia dei partiti.

Re Silvio: la tesi di Berlusconi sul presidenzialismo. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Dubbio il 16 agosto 2022.

Per la verità ci aveva già abituati da un pezzo. Negli ultimi periodi, che lo hanno visto protagonista della politica, era ormai aduso a dire la prima cosa che gli veniva in mente e spesso bugie spudorate, panzane succulente che però l’onnivoro popolo dei suoi fans digeriva senza alcuna pesantezza di stomaco. Dalla promessa di sconfiggere il cancro, alla famosa foto-ritratto in maglietta rossonera ostentata in tv a reti (mediaset) unificate, tra politica e Milan di burlonate ce ne ha raccontate parecchie.

Ma ultimamente ha iniziato a spararle grosse, forse per una incipiente senilità.  L’ultima è la promessa, o il proposito, non s’è capito bene, di introdurre il “presidenzialismo”. Detta così non vuol dire un cacchio e se sommata a quel “un Presidente eletto dal popolo”, che costringerebbe Mattarella a dimettersi, aumenta solo la confusione.

Qui ci vorrebbe Totò con il più classico dei suoi “mi faccia il piacere!”. E non per partito preso, non perché l’ha detto Berlusconi, ma per profonde ragioni tecniche e di sostanza.

Innanzitutto per fare quello che il “cav.” sogna occorre una riforma costituzionale, per adottare la quale è necessaria una procedura complessa, una maggioranza dei due terzi in entrambi i rami del parlamento oppure un referendum e ammennicoli vari. Considerando che, al di là delle farneticazioni di qualche ultimo sondaggio, il centrodestra non si sa se avrà i numeri in parlamento per formare un governo figuriamoci se avrà quelli per riformare la costituzione.

Poi si tratta di interpretare il Berlusconi pensiero. A quale Presidente si voleva riferire? Dall’accenno a Mattarella sembra che alludesse al sistema di elezione del Presidente della Repubblica, ma detta così è una cosa che non ha senso.

Per gli amanti del maggioritario avrebbe più senso introdurre l’elezione diretta del premier, del capo del governo, lasciando a tale scelta il sistema maggioritario e riportando il proporzionale alla elezione dei membri delle due camere. Un po’ come avviene per la elezione dei sindaci e dei consigli comunali.

Poi Berlusconi ha profferito la parola magica: “presidenzialismo”. Ma questa è un’altra cosa ancora. Per adottare un sistema all’americana si tratterebbe di stravolgere tutta la seconda parte della costituzione (specie i primi tre titoli) per sommare ai poteri del Presidente della Repubblica anche quelli del capo del governo di cui verrebbero ridisegnate tutte le funzioni.

Al di là delle incognite che si nascondono dietro una tale ipotesi, si tratterebbe di un’opera di ingegneria costituzionale talmente complessa e ricca di così tante sfumature che conoscendo gli italiani, specie quelli in politica, per scrivere la prima frase della riforma ci vorranno dieci anni.

Ma dalle sue parole non sembra che Berlusconi abbia fatto tutte queste valutazioni, anzi sembra che sulle stesse sia un po’ confuso, o che siano state proferite con superficialità.

Del resto la dicono lunga anche le espressioni spiazzate dei suoi alleati e quegli occhioni stupiti della Meloni e il ghigno beffardo di Salvini sembrano dire : “ma che ci azzecca!”

Probabilmente l’ha buttata lì solo per coltivare la sua ambizione di essere eletto Presidente della Repubblica, magari aspettandosi una votazione plebiscitaria degli italiani che lo consacri, come lui stesso si è definito, “il più grande statista italiano”.

Poi magari non ci stupiamo però se la prossima proposta sarà quella di ripristinare la monarchia e trasferire la reggia dal Quirinale a Villa San Martino ad Arcore.

A meno che non punti all’abito bianco e alla finestra su piazza San Pietro. Hai visto mai?

Le proposte e le reazioni. Poche idee, molte randellate: con il presidenzialismo Berlusconi accende una campagna elettorale di soli assalti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Agosto 2022 

Ieri mattina Silvio Berlusconi, parlando alla radio, ha rilanciato l’idea di una riforma costituzionale che trasformi la repubblica italiana in repubblica presidenziale. Cosa vuol dire? Provo a sintetizzare in pochissime righe. Non è più il Parlamento ad eleggere il Presidente della repubblica e poi a dare o togliere la fiducia al governo e al Presidente del Consiglio, ma sono gli elettori in modo diretto. Cioè si svolgono (contemporaneamente o in tempi diversi) due elezioni politiche: la prima è per eleggere il Presidente, la seconda è per eleggere il Parlamento. Il Presidente una volta eletto (di solito con un mandato di 4 o 5 anni) forma il governo e questo governo non deve ricevere la fiducia del parlamento. Il governo di volta in volta cercherà una maggioranza in Parlamento per far approvare le leggi che riterrà di presentare. Se una legge cade, cade quella legge, non il governo. Naturalmente per fare una riforma di questo genere bisogna cambiare la Costituzione. Berlusconi ieri si è limitato ad accennare alla volontà del centrodestra di andare verso il presidenzialismo e poi ha detto che se la riforma passerà, Mattarella dovrà dimettersi per poi eventualmente candidarsi alla elezione diretta.

La breve dichiarazione di Berlusconi ha aperto il finimondo. In parte perché in ampi settori della sinistra il presidenzialismo, da sempre, è malvisto. In parte perché la dichiarazione del cavaliere è apparsa come un attacco diretto a Mattarella. Una nota di Forza Italia, qualche ora dopo, ha chiarito che quello di Berlusconi era un ragionamento politico e che non c’era nessun attacco a Mattarella. Ma certo non è bastata la smentita per placare le acque. Anche perché questa campagna elettorale, nella quale le idee non sono moltissime, si sta quasi per intero svolgendo con il metodo di assaltare gli avversari, quando dicono qualcosa, e svelare tutti i loro malvagi retropensieri che li rendono satana.

Era successo anche a Enrico Letta. Che qualche giorno fa propose semplicemente di modificare la tassa di successione, ma solo quella delle persone molto ricche, per avvicinarla agli standard europei e americani. Lo fucilarono. E iniziarono a gridare, e ancora gridano, che Letta vuole una patrimoniale e che farà lacrimare e sanguinare tutti i proprietari di casa, di appartamento, di tugurio. Il povero Letta si era limitato a proporre una tassa assai modesta (del 20 per cento, elevandola dall’attuale 5 per cento) sulle successioni di patrimoni superiori ai 5 milioni di euro per erede. Tenete conto che in Occidente mediamente questa tassa, non solo per i miliardari, va dal 30 al 40 per cento. È probabile che la campagna elettorale andrà avanti così fino alla fine. Coi randelli, con la demagogia e con le esagerazioni. Guardate qui cosa hanno detto i vari esponenti politici – a cominciare dallo stesso Letta – della proposta di Berlusconi.

Letta: “La precisazione di Berlusconi è una conferma: ha detto chiaramente a Mattarella di andarsene. Questa è una destra che vuole sfasciare il sistema perché, dopo aver fatto cadere il governo Draghi, è un preavviso di sfratto per Mattarella. Berlusconi era il candidato del centrodestra a gennaio per il Quirinale, quella candidatura si è fermata come sappiamo. Il messaggio di oggi è quello”. Calenda: “Berlusconi non è in se”. Orlando (ministro del lavoro): “L’attacco al Presidente Mattarella è un attacco all’Italia reso ancora più grave in un momento di incertezza come quello attuale”. Roberto Fico (Presidente della Camera): “Il mandato del presidente dura 7 anni. La nostra è una Repubblica Parlamentare”. Giuseppe Conte (capo dei 5 Stelle ed ex premier): “La destra ha gettato la maschera. C’è un accordo spartitorio: alla Meloni palazzo Chigi a Salvini la vicepresidenza del Consiglio e a Belrusconi il Qurinale”. Vogliamo commentare questi commenti?

Alcuni sono ispirati a una ragionevole demagogia preelettorale. E passi. Altri a profonda ignoranza, o a mancanza di logica. Cosa vuol dire – ad esempio – l’Italia è una Repubblica parlamentare? Certo che lo è, ma Berlusconi propone di modificare la Costituzione. Non lo puoi contestare uno che ti dice “voglio modificare la Costituzione” dicendogli: ma tu allora vuoi modificare la Costituzione! Non parliamo nel povero Conte, che al solito non ha capito niente. Come si fa a usare una pratica spartitoria quando si propone un’elezione diretta? Ovvio che l’elezione diretta è il contrario della spartizione. Oltretutto se passasse la riforma il Presidente del Consiglio non esiste più … Vabbè: Il livello è questo. Certo capisco l’obiezione di chi mi chiede: preferivi quando le armate di de Gasperi e di Togliatti se le davano di santa ragione? Già. Beh, forse sì: lo preferivo …

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

I costituzionalisti sono già divisi "Serve una norma" "No, il presidente può lasciare subito". Le polemiche della sinistra non aiutano il dibattito su questioni così cruciali. Il passaggio di consegne tra sistemi potrebbe avvenire in più modi. Francesco Boezi il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il presidenzialismo, per alcune forze politiche, resta un tabù, ma tra i giuristi italiani sembra tirare un'altra aria. In relazione alla polemica costruita ad arte da sinistra sulle parole che il presidente Silvio Berlusconi ha pronunciato sul futuro istituzionale del Belpaese, Michele Ainis si è espresso così, parlandone con l'Agi: «Nei giorni scorsi ho scritto un articolo I partiti e il presidente nel quale credo di essere stato il primo e l'unico a fare presente ciò che, con tutt'altro effetto politico, ha spiegato Berlusconi, ma è una ovvietà: se si passa a un sistema presidenziale il presidente deve andare via, o perché la legge stabilisce l'immediata decadenza, oppure - come dicevamo ed è l'ipotesi più auspicabile - la riforma dovrebbe entrare in vigore nella prossima legislatura, ma anche in quel caso Mattarella non so se accetterebbe di continuare un interregno, tanto più se questo dovesse passare per un referendum». Insomma, la bufera sollevata da sinistra ha poco senso d'esistere.

Per il professor Giovanni Guzzetta, sentito dal Giornale, dipende tutto dal quadro normativo: «Credo che questa campagna elettorale stia purtroppo affrontando temi delicati quali le riforme istituzionali e costituzionali in maniera polemica. Invece bisognerebbe porre queste questioni in modo serio - premette - . Per quanto riguarda il presidenzialismo, il legislatore che dovesse approvare una riforma così delicata, dovrebbe porsi il problema delle norme che accompagnerebbero la riforma». Poi la spiegazione sull'eventuale passaggio da questo sistema a quello presidenziale: «Tra queste, potrebbe essere prevista una disciplina transitoria. Una riforma così può essere fatta in molti modi. Chiaro che sarà la norma a determinare tempi e modi. Poi ovviamente, se così prevederà la legge, quando la riforma entrasse in vigore e venisse eletto un diverso presidente, il precedente, qualora ancora in carica, cesserebbe dal mandato». Ovvio ma a quanto pare non per tutti. Per il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale che si è più volte soffermato sul presidenzialismo, bisognerebbe guardare al pregresso: «Abbiamo due precedenti di modifiche costituzionali - ha dichiarato al Giornale - che toccavano l'una la durata in carica di titolari di funzioni pubbliche, l'altra il numero dei titolari. Mi riferisco alle leggi costituzionali numero 2 del 1963 e numero 1 del 2020. La prima ha ridotto la durata dei membri del Senato da 6 a 5 anni. La seconda ha ridotto il numero dei parlamentari da 945 a 600. L'una e l'altra norma costituzionale hanno disposto espressamente l'applicazione della modifica alla legislatura successiva». Il giudice emerito ha proseguito: «In materia costituzionale i precedenti hanno un'importanza fondamentale. Quindi si può concludere che una norma che modifichi in qualche modo la disciplina della scelta o dei poteri del presidente della Repubblica debba contenere anche una norma che pospone l'applicazione concreta al termine del mandato del titolare in carica». Alfonso Celotto, altro costituzionalista, ha riconosciuto la natura dicotomica del momento: «La riforma migliorerebbe il nostro sistema - ha annotato - , consegnandoci una forma di governo più stabile. Il punto è capire come procedere, perché il legislatore di riforma costituzionale può operare in più modi. Facciamo il caso della riforma del taglio dei parlamentari: abbiamo concluso la legislatura con il vecchio assetto, pur sapendo che a breve sarebbe cambiato molto. Ripeto: dipende dal legislatore. Ma è campagna elettorale, è normale e non vedo problemi: il presidenzialismo è un argomento che divide». L'approvazione del presidenzialismo modificherebbe nel profondo l'assetto istituzionale che conosciamo. La discussione del legislatore potrebbe anche vertere su tempi e modalità, ma non c'è dubbio sulla portata storica di una riforma che accompagna il centrodestra sin dalla sua nascita.

Da corriere.it il 12 agosto 2022.

«Elezione diretta del presidente della Repubblica». Recita così il primo punto del terzo capitolo di proposte del centrodestra in vista delle Politiche del 25 settembre. I tre leader della coalizione Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi puntano su una riforma della Costituzione che superi la Repubblica parlamentare — «La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Carta, che esprime la sua volontà eleggendo il Parlamento — e preveda invece una Repubblica presidenziale. Una proposta che — complici le parole del leader di Forza Italia (per Berlusconi «con il presidenzialismo Sergio Mattarella dovrebbe dimettersi») — ha già scatenato la polemica politica. Ma che cos’è nello specifico il presidenzialismo e cosa significherebbe per l’Italia? 

La forma di governo

La Repubblica presidenziale, o il presidenzialismo, è una forma di governo in cui il potere esecutivo si concentra nella figura del presidente che è sia il capo dello Stato sia il capo del governo: una figura eletta direttamente dai cittadini che ha il compito di formare il governo. 

Essendo capo di Stato, il presidente non ha bisogno di un voto di fiducia parlamentare perché, avendo già ottenuto il voto della maggioranza dei cittadini non necessita della legittimazione dei loro rappresentanti. 

Tra i Paesi che hanno una Repubblica presidenziale ci sono gli Stati Uniti, l’Argentina, il Cile, il Brasile, il Messico, l’Uruguay, il Costa Rica e la Corea del Sud. La Repubblica italiana, invece, è parlamentare (come ad esempio la Germania, la Grecia, l’Irlanda o la Finlandia): prevede quindi la centralità delle due Camere elette dai cittadini. 

A loro volta, i deputati e i senatori eleggono il presidente della Repubblica che poi attribuisce il compito di formare il governo a un presidente del Consiglio incaricato. Se il premier riesce a formare il governo, deve poi necessariamente ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento. Nella Repubblica parlamentare, a differenza di quella presidenziale, il presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, è una figura di garanzia. 

Il ruolo del presidente

Nella Repubblica presidenziale il presidente è quindi la massima autorità, perché è contemporaneamente capo di stato e di governo ed è anche legittimato dal voto popolare. A differenza del parlamentarismo, nella Repubblica presidenziale il presidente ha grandi poteri e può agire liberamente: può porre il veto alle decisioni delle Camere e svolgere alcuni compiti legislativi, dirige la politica estera dello Stato, nomina gli alti funzionari. La sua rimozione può essere ottenuta solo con un impeachment attraverso il quale il presidente viene rimosso in caso di reato: alla messa in stato d’accusa deve seguire un processo. Il Parlamento non ha la capacità di rimuovere il presidente ma il presidente non può sciogliere il Parlamento a suo piacimento.

L’esempio francese

Per quanto riguarda l’elezione delle cariche, nella Repubblica presidenziale si tengono due elezioni distinte e a suffragio universale: un voto per eleggere il presidente e un voto per eleggere il Parlamento. Di conseguenza, possono verificarsi casi in cui la maggioranza delle Camere non coincide con il partito del presidente, creando così una maggiore separazione dei poteri. Il presidente sceglie liberamente i ministri, i segretari e la denominazione che hanno i membri del suo gabinetto. 

La Francia, ad esempio, è una Repubblica semi-presidenziale: il potere esecutivo è condiviso dal presidente della Repubblica e dal primo ministro. Il primo viene eletto a doppio turno direttamente dal popolo e nomina il secondo sulla base del risultato delle urne. In Francia, appunto, si tengono elezioni separate per eleggere le due cariche ed è possibile, quindi, una coabitazione tra un presidente di un partito e una maggioranza opposta (l’ultimo caso è avvenuto tra il presidente neogollista Jacques Chirac e il primo ministro socialista Lionel Jospin dal 1997 al 2002).

Vantaggi e svantaggi del sistema presidenziale

Tra i punti di forza della Repubblica presidenziale elencati dai costituzionalisti c’è proprio la «massima legittimità» riconosciuta al presidente grazie all’elezione popolare. Altri vantaggi sono il rafforzamento della separazione dei poteri e l’indipendenza del Parlamento: il presidente e le Camere sono scelti in elezioni diverse e nessuno dei due può interferire con l’altro; il Parlamento, inoltre, non dipende dal partito di maggioranza nella Camera legislativa. 

Tra gli svantaggi elencati spesso dai costituzionalisti, invece, al primo posto è segnalata sempre l’instabilità politica, citando come esempio le situazioni di tensione e i colpi di Stato che si sono verificati nei Paesi dell’America Latina. Altro svantaggio segnalato, la mancanza di pluralismo: nelle Repubbliche presidenziali è molto accentuata la tendenza al bipartitismo. 

Da liberoquotidiano.it il 12 agosto 2022.

Le parole di Berlusconi sul presidenzialismo e sulla possibilità che Mattarella si dimetta hanno scatenato una polemica senza fine, soprattutto a sinistra. Adesso prende la parola il costituzionalista Michele Ainis, che all'Agi ha detto: "L’ipotesi più desiderabile sarebbe quella di stabilire per l’eventuale riforma costituzionale sul presidenzialismo l’entrata in vigore nella prossima legislatura, ma non in quella che si formerà dopo il 25 settembre. In quel caso Mattarella sarebbe a fine mandato e quindi sarebbe il prossimo presidente della Repubblica a essere scelto in maniera diversa".

Ainis, poi, ha spiegato di avere detto le stesse cose di Berlusconi in un articolo di qualche giorno fa, senza però suscitare lo stesso effetto: "Se si passa a un sistema presidenziale il presidente deve andare via, o perché la legge stabilisce l’immediata decadenza, oppure - come dicevamo ed è l’ipotesi più auspicabile - la riforma dovrebbe entrare in vigore nella prossima legislatura, ma anche in quel caso Mattarella non so se accetterebbe di continuare un interregno, tanto più se questo dovesse passare per un referendum".

Un altro costituzionalista intervenuto sul tema è Alfonso Celotto, che sempre all'Agi ha detto: "Mattarella non rischia assolutamente nulla: non è referendum su Monarchia o Repubblica, ma un procedimento complesso: serve un’articolata riforma costituzionale per passare a un presidenzialismo all’americana o a un semipresidenzialismo alla francese. Dunque, eventualmente, ci vorrebbe qualche anno".

Un chiarimento sulla questione, poi, è arrivato anche da Berlusconi in persona: "Ho solo detto una cosa ovvia e scontata, e cioè che, una volta approvata la riforma costituzionale sul Presidenzialismo, prima di procedere all’elezione diretta del nuovo Capo Dello Stato, sarebbero necessarie le dimissioni di Mattarella che potrebbe peraltro essere eletto di nuovo. Tutto qui: una semplice spiegazione di come potrebbe funzionare la riforma sul Presidenzialismo proposta nel programma del centro-destra. Come si possa scambiare tutto questo per un attacco a Mattarella rimane un mistero. O forse si può spiegare con la malafede di chi mi attribuisce un’intenzione che non è mai stata la mia".

Filippo Ceccarelli per repubblica.it l'11 agosto 2022.

“Un'immensa vergogna e io non metterò mai più piede in Parlamento. Mai!”. Niente più del passato illumina l'annuncio che Berlusconi si presenta alle elezioni e quasi certamente sarà eletto al Senato, al posto d'onore, nelle liste della coalizione data vincente. 

Ieri, per la verità, lui l'ha messa a suo modo, per cui si sarebbe limitato ad “accettare” la candidatura, “così faremo tutti contenti” ha aggiunto, là dove sia la formula del benestare che la pubblica felicità confermano, al plurale majestatis, che non si tratta tanto di una riabilitazione, dopo la decadenza decretata dal Senato della Repubblica addì 27 novembre 2013, quanto del glorioso ritorno di un sovrano.

E ancora una volta tocca riconoscere, al di là di qualsiasi paturnia monarchica, che il messaggio restituisce alla storia, non solo di Berlusconi, ciò che le spetta, nel bene e nel male; per cui si può ridere, piangere, indignarsi, gioire o rassegnarsi, ma queste elezioni, comunque vadano, sono già e comunque destinate ad accrescere non solo la fama, ma anche la leggenda di Re Silvione. 

Così, con gli occhi dell'oggi, vale la pena di tornare a quell'autunno, significativamente, ma così freddo che la meteorologia l'aveva rubricato sotto il segno di “Attila”.

Tanti lumini cimiteriali deposti dai fedeli accolsero dunque a Palazzo Madama un Berlusconi terreo in volto, triste e un po' intontito (nelle cronache si trova cenno a sedativi); eppure, come voleva e ancora vuole il suo mito, indomito dinanzi alla più grande “ingiustizia” della sua vita. “Oggi sono qui tra voi – esordì alla riunione dei gruppi, poche ore prima del voto – ma da domani i commessi non mi lasceranno più nemmeno entrare...”. Fece una pausa, grande teatro: “Ieri sera avevo a cena da me l'uomo più potente del mondo e tra poco dovrò servire i vassoi alla mensa!”. 

Ecco, quando a proposito di Berlusconi si tira in ballo la storia, non è per farsi belli ornando l'articoletto. Se la questione della mensa era un riferimento ai servizi sociali, perfino pudico considerato che pochi giorni prima don Mazzi s'era offerto di prendersi l'ex presidente del Consiglio in comunità a “pulire i cessi”, l'uomo potente appena ricevuto a Palazzo Grazioli era – guarda guarda - Vladimir Putin, giunto in visita di Stato con 5 aerei, 11 ministri e 50 auto blindate. “Scandalizzato e allibito”, il leader russo non era stato incoraggiante: “Dopo il tuo arresto, la prima settimana scenderà in piazza un milione di persone, la seconda mezzo milione, la terza nessuno”. Per inciso: si scrisse anche di un passaporto diplomatico russo, utile omaggio per tagliare la corda.

E però, di nuovo: tornando per un attimo al passato prossimo e quindi allo stato di prostrazione cui sembrava caduto, vecchio e malato, dopo la turlupinatura dei suoi due alleati sul Quirinale, ecco che il ricordo di quello più remoto assegna maggior spessore al presente. 

Anche perché quello che precedette la cacciata rappresenta una mirabile condensa di atmosfere berlusconiane in purezza. E quindi: l'assoluzione a Verona dell'eccentrico artista autore dell'opera “Berluscane”; l'apertura a Tel Aviv del locale “Berlusconi always a pleasure”; il tradimento, proprio in quei giorni, di Alfano e dei ministri Pdl (governo Letta); la prima patetica uscita dell'”Esercito di Silvio”; fino alla rabbiosa ammissione: “Dudù è molto più intelligente di metà dei miei”.

Al Palazzo dei congressi, poco prima dell'ora X, Berlusconi diede il meglio e il peggio di sè. La barzelletta e la difesa dello stalliere Mangano che “veniva sempre a messa”, la frecciata a Tremonti “dotto ed esperto, ma non sapevamo che era pazzo”, lo sdegno per la mortificazione subìta che domani porterà molti “vergognarsi davanti ai propri figli”. 

A un certo punto si sentì anche male: aggrappato al palco, il dottor Zangrillo gli somministrò il bibitone d'ordinanza e Brunetta gli tenne la mano, che in seguito Francesca Pascale platealmente gli baciò. La cinque stelle Taverna aveva appena espresso il selvaggio progetto di sputargli addosso in aula; mentre a Ruby, in Mexico, era stato concesso di realizzare una fabbrica di pasta asciutta. Così va il mondo del potere. Quello di Berlusconi, rispetto ai protagonisti di oggi, resta molto, ma molto più divertente da raccontare.

Ugo Magri per “la Stampa” l'11 agosto 2022.  

Non è solo per voglia di rivincita, né per esclusiva sete di vendetta che Silvio Berlusconi si candiderà alle elezioni proprio in Senato, cioè da dove venne espulso alle ore 17,43 del 27 novembre 2013.

Quel memorabile giorno in aula lui non c'era; mentre a Palazzo Madama si votava la sua decadenza da rappresentante del popolo, quale effetto della condanna definitiva per frode fiscale, il Cavaliere arringava le folle in un cupo comizio che, per le tetraggini del discorso tarato sulla «morte della democrazia», per gli abiti a lutto degli esponenti berlusconiani (indimenticabile l'allora fidanzata Francesca Pascale tutta fasciata di nero), per lo scoramento dei fan trasportati a migliaia coi pullman in Via del Plebiscito, sembrava un'irripetibile «ultima volta», l'epilogo di una commedia finita tragicamente.

E invece. 

Nove anni da allora sono volati via. Per dieci mesi, fino all'8 marzo 2015, l'ex premier ha scontato il suo debito ai servizi sociali, imboccando col cucchiaio persone fragili nell'Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ha digerito l'onta dell'incandidabilità alle elezioni politiche nonostante il Tribunale nel 2018 l'avesse riabilitato. Si è accontentato di entrare nel Parlamento europeo, che non è nelle sue corde.

Ha barattato la leadership del centrodestra con il ruolo altisonante di «padre nobile» che, confrontando i rispettivi curriculum, né Meloni né Salvini gli possono contestare. E risalendo la china gradino dopo gradino si prepara a chiudere il cerchio, ritornando con tutti gli onori nel Parlamento di cui era stato considerato indegno; se si preferisce, sul luogo del delitto. 

Ieri mattina per radio ha sfoggiato una formula dubitativa («penso che mi candiderò al Senato»); in realtà tutto è già deciso: correrà nel collegio uninominale di casa sua, ad Arcore; inoltre guiderà cinque listini proporzionali di Forza Italia, il massimo consentito dalla legge, spendendo il proprio nome come richiamo per gli indecisi.

Che l'ex Caimano verrà eletto, diamolo per assodato. Dunque, già possiamo immaginarci con quale gusto l'uomo presenzierà la seduta inaugurale del nuovo Parlamento, verso metà ottobre; con quanta avida voluttà Berlusconi tornerà a occupare il suo scranno nella bomboniera di Palazzo Madama, di cui peraltro non era assiduo frequentatore (nella XVI legislatura aveva battuto il record di assenteismo); con che goduria vorrà assaporare il trionfo a scoppio ritardato su quanti a suo dire lo pugnalarono (e la lista dei «traditori» sarebbe quasi infinita).

Il mondo berlusconiano prepara questo grande rientro in Senato come se fosse una piena e definitiva riabilitazione a furor di popolo: quella che sul piano giudiziario Silvio non è riuscito a ottenere nonostante abbia tentato in tutti modi di ribaltare la condanna perfino davanti alla Corte di Strasburgo. Dopo il finto matrimonio con la giovane compagna, Marta Fascina, assisteremo dunque a questo simbolico risarcimento morale. 

Umanamente lo si può capire. Ancora brucia a Berlusconi il modo con cui lo cacciarono quel 27 novembre, obbligando i senatori a esprimersi con voto palese, sotto gli occhi vigili dell'Italia, laddove lui pretendeva un voto segreto confidando in qualche conversione sulla via di Damasco. «In futuro ne proverete vergogna, su di voi resterà una macchia incancellabile», fu la maledizione scagliata nei confronti degli avversari, grillini e no.

Chissà quanto gli piacerebbe incontrarli di nuovo per incrociare gli sguardi tra gli stucchi di Palazzo Madama, dopo esservi rientrato dalla porta principale. Irriderli con qualche sorrisetto dei suoi. O semplicemente fingere di ignorarli. 

Purtroppo per l'ex premier, dei suoi cari vecchi nemici in giro non ce n'è più nessuno.

Quel «plotone d'esecuzione», come il Cav lo definiva, responsabile del proprio «omicidio politico» è irrimediabilmente uscito di scena. Oppure recita particine politicamente trascurabili. Cosicché il rischio per Berlusconi è di sentirsi di nuovo «onorevole» a tutti gli effetti; riabilitato sul piano politico; però spaesato quanto può esserlo un sopravvissuto, come chi ritorna a casa dopo una lunga assenza e non riconosce né i luoghi né le persone, in quanto nulla è più come li ricordava. 

Tutta gente estranea e a lui indifferente. Forse il personaggio ha in mente grandi progetti, ancora sogna di arrivare chissà dove nonostante poco gli manchi a spegnere le ottantasei candeline. Magari non ha rinunciato alla poltrona altissima del Quirinale (quella di presidente del Senato pare che non lo stuzzichi più di tanto) e attende solo il momento buono. Una cosa è certa: ricandidandosi in Parlamento, e per giunta al Senato, l'obiettivo di Berlusconi non può essere il puro gusto della rivincita, la sensazione agrodolce della vendetta. Durerebbe lo spazio di un batter d'ali, di un'increspatura mediatica; il tempo di fare notizia e svanire.

Da corriere.it l'11 agosto 2022.

Un videomessaggio in tre lingue, inglese, francese e spagnolo, per smentire che con la vittoria di Fratelli d’Italia ci sarebbe il rischio di una svolta autoritaria: lo ha realizzato la presidente del partito, Giorgia Meloni, inviandolo ai giornalisti internazionali nel nostro Paese. 

«Salve a tutti, sono Giorgia Meloni, ho 45 anni e sono la Presidente di Fratelli d’Italia, il partito politico dei conservatori italiani. Da giorni leggo articoli della stampa internazionale sulle prossime elezioni che daranno un nuovo governo all’Italia, nei quali vengo descritta come un pericolo per la democrazia, per la stabilità italiana, europea e internazionale.

Ho letto che la vittoria di Fratelli d’Italia alle elezioni di settembre comporterebbe un disastro, che porterebbe a una svolta autoritaria, all’uscita dell’Italia dall’Euro e altre sciocchezze di questo genere. Niente di tutto ciò è vero ma so benissimo che questi articoli vengono ispirati dal potente circuito mediatico della sinistra, che qui in Italia è molto forte nelle redazioni dei giornali e in quelle dei programmi televisivi, ma è in netta minoranza tra il popolo italiano».

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” l'11 agosto 2022.

Con il video alla stampa estera Giorgia Meloni ha fatto quello che avrebbe voluto fare fra qualche mese, se non ci fossero state le elezioni anticipate. Ha trasmesso indirettamente ai partner europei e dell'Occidente un messaggio di rassicurazione sul ruolo e la collocazione dell'Italia, se lei dovesse arrivare a Palazzo Chigi. 

Ha detto quello che avrebbe voluto dire di persona ai suoi interlocutori nei viaggi che stava organizzando a Bruxelles, a Washington e a Londra prima che la crisi le scombinasse i piani. Insomma ha dovuto affrettarsi per affrontare il passaggio più insidioso. Perché c'è una differenza tra vincere e governare.

E c'è una differenza ancor più grande tra governare per 5 anni e governare per 5 mesi. Che poi è la scommessa dei suoi avversari, esterni ed interni.

Meloni ne è consapevole. Metteva in conto l'attacco di Enrico Letta, che non a caso - evocando i fantasmi del passato - ha iniziato la sua campagna elettorale puntando sulla delegittimazione nazionale della destra per amplificare il problema di legittimazione internazionale. 

Certo, il segretario del Partito democratico è entrato in contraddizione con sé stesso, dimenticando il gioco politico di sponda con la leader di FdI andato avanti per un anno e mezzo. Ma se il suo obiettivo era evidenziare quel tallone d'Achille, l'ha fatto con una domanda su un punto solo all'apparenza secondario: «Meloni ha una posizione sulla flat tax? Concorda con Salvini e Berlusconi?».

L'interrogativo si affaccia sul tema della gestione dei conti pubblici, sui rischi di conflittualità con l'Europa e i mercati, dunque sulla credibilità di chi si candida a Palazzo Chigi. E richiama all'altro fronte su cui è impegnata Meloni, quello interno alla coalizione di centrodestra. 

Ogni proposta di Lega e Forza Italia in questi giorni - dalla riduzione del carico fiscale all'aumento delle pensioni - è stata vissuta da FdI come zavorra nello zaino di chi ambisce a guidare il governo. Certo, le urne determineranno gli equilibri tra partiti, ma c'è un motivo se nel programma comune Fratelli d'Italia ha impedito che venissero inseriti progetti faraonici senza copertura finanziaria. Il punto è che ogni forza politica presenterà anche un progetto autonomo. 

Così la sfida, che in principio si è giocata sulle regole per la premiership, ora si sposta sui punti di azione del governo che verrà. E che dovrà varare a stretto giro la legge di Bilancio «in un momento che si prospetta drammatico», spiega un dirigente vicino a Meloni, testimone di una riunione in cui la leader di FdI si è proiettata sugli scenari di autunno e ha spiegato il suo intendimento nel caso toccasse a lei guidare l'esecutivo: «Non si potrà scherzare con il fuoco. La situazione è delicata».

Con un bagno di realtà, frutto anche delle sue (frequenti) conversazioni con Mario Draghi, Meloni ha accennato alla Finanziaria e ha detto che «bisognerà fare molta attenzione. Sappiamo che l'Italia, se si sbagliasse mossa, rischierebbe il default. Noi non potremo consentirci di mettere a rischio il futuro dei cittadini, i loro posti di lavoro, per velleità politiche mie o di altri. Personalmente non lo consentirò». 

Ecco l'altra parte del messaggio ai partner europei e dell'Occidente che non era contenuto nel video per la stampa estera. È chiaro che la credibilità internazionale passerà dalla solidità del rapporto di coalizione. Per evitare qualsiasi polemica con gli alleati, ieri la leader di FdI ha provveduto solo a far sapere che «a fronte di una sinistra delle tasse e delle patrimoniali, lavoreremo a un fisco a misura di famiglia e di impresa». Il resto si vedrà dopo l'apertura delle urne.

In tal caso la parola d'ordine di Meloni «sarà un avverbio», racconta un suo fedelissimo: «Compatibilmente». «Compatibilmente» con la situazione dei conti pubblici, «compatibilmente» con la guerra, «compatibilmente» con l'Europa. Alla quale è dedicato un passaggio nel programma comune, in cui si parla di «piena adesione al processo di integrazione europea». «Perché noi - dice Meloni - lavoreremo per modificare le regole dell'Unione, ma nel frattempo rispetteremo le regole esistenti». C'è una grande differenza tra vincere, governare e durare.

Bambini d’Italia. Meloni è il padre separato che gli elettori bramano perché gli fa fare tutto ciò che vogliono. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 Agosto 2022.

La leader di destra ha compiuto una straordinaria rivoluzione femminista: si è accaparrata un ruolo per tradizione maschile, cioè quello del cialtrone contaballe permissivo, e lascia a Mario Draghi (e a Renzi e Calenda) l’obbligo di fare la madre che sgrida e controlla i compiti

Bisogna ingannare l’attesa. No, non quella per il 25 settembre: qui non si programma oltre i quattro giorni, mica abbiamo pensieri lunghi berlingueriani. L’attesa da ingannare è quella per il primo screzio (scazzo, in romanordico) tra Calenda e Renzi, prevedibile come il secondo atto in una commedia romantica ma non per questo noioso: come dicono i più frasifattisti tra coloro che le commedie romantiche le studiano, non è la mèta ma il viaggio che conta.

Bisogna ingannare l’attesa, e per farlo bisogna studiare l’elettorato italiano. Che farà vincere Giorgia Meloni e la sua coalizione, che farà vincere le dentiere gratuite e la flat tax, nonostante i meme sulle cene in cui gli altri ordinano caviale e tu riso in bianco e poi si paga alla romana.

Come mai il cittadino italiano, già indignato contro una patrimoniale che non lo riguarderebbe non avendo egli sufficiente patrimonio, non è invece terrorizzato dall’ipotesi di pagare il caviale degli altri? (Promemoria per me stessa: scrivere un saggio sulle classi sociali, intitolarlo Il caviale degli altri).

Come mai il cittadino italiano, nonostante sappia di non potersene permettere la poca severità, Giorgia Meloni la voterà comunque? È per la sindrome del figlio di separati, nota a chiunque abbia avuto genitori separati, a chiunque sia un genitore separato, e persino a chiunque abbia mai fatto un giro tra le lamentele delle mamme sui gruppi Facebook.

Accade infatti che la sindrome sia di solito a sessi invertiti, e in questo Giorgia Meloni si accinge a compiere una straordinaria rivoluzione femminista, rivoluzione della quale spero che i gruppi di mamme vorranno renderle merito.

Di solito la madre è il genitore prescrittivo. La figura che si assume l’onere e la scocciatura di educarti e di farti fare le cose che non vuoi: niente gelato se prima non mangi la verdura, non fare il bagno per tre ore dopo mangiato, d’inverno mettiti la maglia della salute e non uscire coi capelli bagnati, d’estate non metterti tutto sudato sotto l’aria condizionata e non bere un litro di roba ghiacciata ché ti viene la congestione.

Per non parlare dei compiti: la madre è quella che ti fa fare i compiti. Che controlla se li hai fatti e se non li ha fatti non ti fai uscire con gli amichetti. Mi vergogno di fare la battuta su Daenerys Targaryen, madre dei draghi nel Trono di spade, e quindi mi limiterò a dire: la madre separata è Mario Draghi.

Il padre separato, invece. Persino quando è Walter Chiari nel Giovedì, una figura tragica di disperato contaballe che tenta di fare buona impressione sul figlio che non vede mai, persino allora il padre separato è molto più simpatico: meglio cialtrone che severo, meglio inaffidabile che prescrittivo. Vale anche fuori dai film di Dino Risi?

È una domanda sbagliata, giacché non esiste Italia che non sia dentro un film di Risi; è una domanda sbagliata, giacché sono passati quasi sessant’anni ma non ci siamo minimamente mossi, abbiamo solo smesso di raccontare gli italiani come sono su schermo cinematografico, essendoci a un qualche punto convinti di non stare al cinema rappresentando la realtà, ma che i film fossero un modello negativo che la gente poi emulava. (Era vero? Faremmo meno schifo se non avessimo visto così tante volte Alberto Sordi nei Bellissimi di Rete 4? Non lo sapremo mai).

Quindi il padre separato – che se non hai fatto i compiti ti fa la giustifica per la prof; che se la mamma ti dà i soldi per la spesa ti chiede di prestarli a lui, poi glieli ridarà; che se vuoi cenare con patatine e un chilo di gelato davanti alla tele ti dice che è un’ottima idea – è quello da cui gli italiani vogliono non solo essere cresciuti ma pure governati.

Sì: il pnrr. Sì: il debito pubblico. Sì: la sanità a rotoli. Sì: l’analfabetismo galoppante. Ma noi non vogliamo qualcuno che ci dica che bisogna rimettersi in riga: noi vogliamo qualcuno che ci dica che certo, possiamo stare alzati fino a tardi a vedere un film vietato, e pazienza se il giorno dopo c’è scuola. Vogliamo più bene a papà separato – cioè: a Giorgia Meloni – che a mamma separata, cioè quel rompicoglioni di Mario Draghi o quegli altri rompicoglioni di Renzi e Calenda, che (ma come gli viene in mente) pensano di avere a che fare con una nazione di persone serie (ma almeno Renzi e Calenda s’instragrammano come noialtri coglioni non candidati; Draghi che neanche fa un balletto su TikTok è da chiamare il Telefono Azzurro).

Le dentiere gratis sono una spesa che non possiamo permetterci? Pazienza, tanto poi torna mamma separata. Che ha sempre quel difetto lì: è una personcina responsabile, che non ci dice «sapete che c’è, avete preferito far avere l’affido esclusivo a un cialtrone, e io me ne lavo le mani e vado a spassarmela a Ibiza».

Le mamme separate sono condannate, dalla loro irredimibile adultità, a tornare ciclicamente a sanare anni di danni fatti da padri permissivi. Che si chiamino Draghi, Monti, Padoa Schioppa, le madri separate non sono mai rievocate con lo struggimento che abbiamo per i cialtroni. Nessuno parlerà mai di Luigi Spaventa con nostalgia; e invece perfino chi non l’avrebbe votato mai considera Silvio una propria madeleine, un pezzo della propria formazione, un parente odioso ma caro: già quella del 1994 non era una campagna per madri separate. Quella del 2022 è solo un eterno ritorno.

Chi è Giorgia Meloni: madre, cristiana e ora anche fine pedagogista…Michele Prospero su Il Riformista l'11 Agosto 2022 

Madre, cristiana, e ora anche navigator. Sotto l’ombrellone di Marina di Pietrasanta, la testa non più calda della signora in nero trova un attimo di refrigerio e, con il necessario sforzo creativo tipico degli statisti in fiore, lancia il “manifesto di Giorgia”, come dice la Stampa. Nel suo programma massimo si segnalano soprattutto le direttive dello Stato materno per incidere subito sulla occupazione dei giovani. Secondo la volontà inflessibile del Palazzo in odor di presidenzialismo, occorre tracciare dall’alto l’orientamento giusto delle nuove leve nella scelta dei corsi di studio. La creatura di Mimmo Parisi, su cui tutti ironizzavano, adesso non è più una invenzione costosa e malata, Giorgia la navigator è la sua formidabile medicina.

Senza neppure mettere mai piede negli atenei, la politica-navigator priva del pezzo di carta in tasca suggerisce di non perdere tempo “nelle lauree di scienze della comunicazione che non danno lavoro”. Lei, che, come un po’ tutta l’élite politica della Seconda Repubblica, ricchezza e potere li ha trovati senza leggere troppi libri inutili, dà una dritta a quanti altrimenti vede destinati irreparabilmente alla perdizione della povertà. Se proprio all’università un giovane decide di trascorrere il proprio tempo ozioso, almeno non si chiuda come uno smidollato in posti neri, anzi grigi, che non garantiscono la certezza della paga. Giorgia esalta le “people free to vote”, ma, per abbattere “la democrazia interloquente”, restringe anche la libertà di scegliere una facoltà perché l’imperativo supremo, per chi ama la patria nei momenti solenni che spalancano il destino, è quello di “aiutare l’economia reale”.

Nel progetto dello Stato sovrano la madre e cristiana con gli anfibi non è però una cattiva maestra, non chiede cioè agli altri di seguire il suo (e di tanti rinomati prodotti delle classi dirigenti) esempio di persona dai pochi studi e dall’incredibile successo nella sfera pubblica. Invita a frequentare una scuola i cui specifici contenuti didattici lei stessa, che si propone quale teorica della “economic freedom”, si preoccupa di progettare con una meticolosa attenzione a ciò che è pratico e, se riduce la libertà, almeno assicura il lavoro. Altro che Giovanni Gentile e le sue ossessioni sui classici del pensiero e sulla filosofia tedesca. Giorgia madre, cristiana, navigator ma anche pedagogista, ha ben altro che le frulla per la testa per dare un pasto sicuro alla bella gioventù.

Da pedagogista con una venatura sperimentale, che ha scoperto anche il credo incrollabile dell’ideologia sovranista, evoca una radicale riforma dell’istruzione che prevede la diffusione in ogni angolo della penisola di “licei del made in Italy”. Con questi fulgidi centri di cultura, con modelli educativi squisitamente peninsulari e ben chiusi rispetto alle contaminazioni esterofile, la scuola assicura il ritrovamento di radici, che sono sempre ben piantate nel culto antico di terra e sangue. La statista che si appresta a trasferirsi a Palazzo Chigi celebra quale progetto educativo, e al contempo risorsa occupazionale, “il modello Masterchef”. Insomma, più che Evola serve Cannavacciuolo, e invece che “il cuoco di Salò” è indispensabile il cuoco gran comunicatore della tv commerciale. Ma non era la scienza della comunicazione la radice di tanta disoccupazione tra i fannulloni?

Meloni madre, navigator, pedagogista, creatura della comunicazione è anche una ideologa dello Stato ristoratore che apprende le arti della postmodernità e mescola il virtuale con il reale. Al vecchiume dello slogan novecentesco che ruotava su “libro e moschetto” Meloni oppone uno slogan nuovissimo, che vale un intero programma di governo conservatore due punto zero: “fornello e spaghetto, patriota perfetto”. Così, la fiamma tricolore ben ostentata nel simbolo di FdI si capisce finalmente a cosa serva: non indica più il richiamo nostalgico al cadavere del duce, bensì la fiammata del gas che scalda la pentola del cuoco, ben educato spiritualmente nel liceo del made in Italy e soprattutto ben temprato al duro sacrificio dell’eroica competizione secondo il modello Masterchef. E tutto ciò veramente rassicura in queste prove di guerra infinita e di annunci di blocchi navali. La novella leader atlantista non si propone di mobilitare carne da macello, ma solo di reperire pezzi di carne per il talent show culinario. Oltre che di eroi, santi, navigatori e trasmigratori, vuole un popolo di cuochi. Quando si dice alta cucina politica. Michele Prospero

Made in Italy non è Masterchef. Redazione su Il Riformista il 12 Agosto 2022

Caro direttore,

comprendo il contrasto politico, anche duro, in questo periodo elettorale ma non comprendo le falsità gratuite su di un giornale che da sempre apprezzo per il coraggio di scrivere verità scomode.

Mi riferisco in particolare all’articolo apparso oggi a firma Michele Prospero dal titolo “Giorgia: Madre, Cristiana e ora anche fine pedagogista.”

Premetto che ovviamente non condivido le offese ingiuste e gratuite nei confronti della Presidente on. Giorgia Meloni.

Nel merito poi delle considerazioni sul “ Liceo del Made in Italy” sono presenti errori grossolani. Questa tipologia di nuovo liceo paragonato nell’articolo ad una scuola di Masterchef è al contrario un percorso liceale che verrebbe istituito proprio per differenziarsi dalle scuole a vocazione più tecnica come gli istituti alberghieri.

L’obiettivo è quello di formare, tramite questo nuovo liceo, una classe dirigente in grado di mettere a sistema opportunità puntando su solide competenze in economia, diritto, marketing , arte, geografia, filosofia e questo costruendo anche collegamenti con il mondo imprenditoriale per valorizzare le nostre eccellenze. Altro compito sarebbe quello di insegnare a promuovere e tutelare il nostro marchio apprezzato in tutto il mondo.

Non un “ modello Masterchef” quindi ma un’opportunità in più per i nostri giovani. Con stima.

On. Paola Frassinetti (responsabile dipartimento istruzione FdI)

Vittorio Malagutti e Carlo Tecce per espresso.repubblica.it il 16 agosto 2022.

«Fatece largo che passamo noi». Ecco la variopinta armata di Antonio Tajani che s’appresta a conquistare il governo d’Italia. Per decenni ha arrancato nelle retrovie oppure si è esercitata nella lontana Europa, adesso il capo Tajani, ufficiale militare figlio di un ufficiale militare, coordinatore nazionale di Forza Italia, da sempre accanto a Silvio Berlusconi finché non è rimasto quasi solo, può condurre sé stesso e i suoi uomini alla vittoria che li consacra per sempre.

Le ambizioni di Antonio oscillano fra la presidenza del Consiglio come mente posata e riposata di una coalizione di centrodestra a ministro di Esteri o di Difesa per rappresentare i moderati nel mondo. Paolo Barelli è il più fido scudiero di Tajani, il rapporto ha origini antiche, è ben ancorato nel presente, pure in famiglia, e si proietta nel futuro. L’ex atleta Barelli è poliedrico o polivalente: come eterno presidente federale del nuoto (in sigla Fin) sta per sfiorare il quarto di secolo; imprenditore e azionista di circoli e piscine sportive; deputato e prima ancora senatore con una coda di capogruppo alla Camera sul finire di legislatura.

Per conto di Tajani, l’amico Paolo garantisce la sorveglianza su Roma e dintorni quando il capo è affaccendato in questioni noiose e però prestigiose che riguardano l’Europa. Più a nord, invece, agisce la colonna etrusca. Il senatore viterbese Francesco Battistoni è un ex assicuratore partito come capo ufficio stampa della Viterbese di Luciano Gaucci, già focoso presidente del Perugia una ventina d’anni fa. 

Le cronache locali narrano l’ascesa del futuro senatore: sindaco di Proceno, un minuscolo paese del Lazio al confine con la Toscana, poi consigliere e assessore provinciale a Viterbo sino al consiglio regionale del Lazio dove nel 2010 si accomoda sulla poltrona di assessore all’Agricoltura. Una carriera sempre al fianco di Tajani, di cui diventa la spalla fissa in tutti gli eventi politici nel Lazio.

In parlamento invece molti lo ricordano guardingo e taciturno mentre si aggira per il salone Garibaldi di Palazzo Madama, con un incarico preciso, quello di sentinella di Tajani presso la capogruppo Anna Maria Bernini. Nel 2021 la ghiotta occasione. Battistoni ha esordito al governo da sottosegretario all’Agricoltura con l’esecutivo di Mario Draghi, non s’è notato al ministero se non per le iniziative con il collega deputato Raffaele Nevi di Terni e per la nomina a consulente all’ortofrutta (che è fra sue le deleghe) di Stefano Bandecchi, patron dell’università telematica Unicusano e della squadra di calcio Ternana.

Bandecchi ha assunto la guida di Alternativa Popolare (discendente di Ncd di Angelino Alfano), frequenta la politica e ne è affascinato, una volta pare destinato a candidarsi al comune di Terni di cui è cittadino onorario e dove ha molteplici interessi tra stadio e una clinica da costruire, un’altra è in procinto di assurgere a senatore. Ha contatti con Nevi, Tajani, Battistoni e anche Barelli, poiché Unicusano è “partner” di Villa Flaminia Sport, il centro sportivo di cui è amministratore Luigi Barelli, il fratello di Paolo, e lo stesso capogruppo di Forza Italia è azionista con una quota del dieci per cento. C’è un simpatico aneddoto che unisce i protagonisti diciamo così “etruschi” dell’armata Tajani. Quando la Ternana passò dai Longarini a Bandecchi (2017), l’allora sindaco Leopoldo Di Girolamo fu costretto a smentire che l’operazione fosse un successo di persuasione della coppia Nevi-Tajani.

L’armata Tajani è venuta su con pazienza. Il governo Draghi l’ha colpita duramente. Dopo la lunga stagione da cervello in fuga coronata con la presidenza del Parlamento europeo, una volta tornato in patria Tajani s’aspettava di scegliersi il ministero più comodo. Mai previsione fu più disattesa. Renato Brunetta, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, i ministri di Draghi li ha suggeriti col suo fare invisibile e discreto Gianni Letta infliggendo una cocente umiliazione a Tajani, che nel frattempo aveva avocato a sé le relazioni - da cui Letta s’è sempre tenuto fuori per congenita diversità da quei toni destrorsi - con la Lega di Matteo Salvini e stretto un patto di reciproca convenienza con Licia Ronzulli, la nuova tuttofare di Berlusconi.

Col tempo, volitivo e tignoso, Tajani ha risalito la corrente: la bandierina Battistoni nel sottogoverno, la rivincita su Gianni Letta nell’indicazione del capogruppo Barelli, le trame per sabotare l’ascesa di Draghi al Quirinale e quel profondo piacere nel vederlo cadere. La sera prima della mancata fiducia al governo, il presidente del Consiglio ospitò a Palazzo Chigi la delegazione di centrodestra composta da Salvini, Tajani, Maurizio Lupi e Lorenzo Cesa. Salvini era seduto alla sinistra di Draghi, Tajani alla sinistra di Salvini.

Il leghista, muto, annuiva con la testa, il coordinatore forzista dirigeva l’incontro e al solito si rivolgeva a Draghi col “tu”, unico tra gli esponenti di partito e pure tra i dipendenti e i collaboratori di Palazzo Chigi (escluso il consigliere e amicissimo Francesco Giavazzi). Dopo la memorabile gaffe che i resoconti giornalistici hanno già consegnato al gran libro della politica («Mario, nessuno di noi ha mai messo in dubbio la tua malafede»), Tajani ha sbattuto sul tavolo l’epitaffio del governo: «Anche se ci dai tutto, se c’è Giuseppe Conte in maggioranza, noi ce ne andiamo».

È stato lo strappo che ha estromesso Ronzulli e che ha saldato il patto fra Tajani e Salvini che mira a diluire Forza Italia nella sua Lega. Tajani ha sfruttato la debolezza emotiva di Salvini, che in pubblico si mostra ancora duro, ruvido, perentorio, ma che nelle trattative private, soprattutto col premier Draghi, è timido, introverso, parecchio involuto. Lo scaltro Antonio, noncurante di Ronzulli ancora impegnata a interpretare le smorfie del Berlusconi e come non mai iperattiva sulla linea telefonica fra le residenze di Silvio e Palazzo Chigi, ha sospinto Matteo al voto con la promessa che soltanto un ribaltone avrebbe tutelato la sua stagione ai vertici del fu Carroccio.

Ansioso di andare alle elezioni e al contempo di ottenere altri trionfi, Tajani s’è occupato di nomine, non ne ha riscosse molte, se non quella rivendicata - e da condividere con Letta - di Augusta Iannini moglie di Bruno Vespa nel consiglio di Snam. Poi dal governo ha reclutato la sottosegretaria Valentina Vezzali, entrata con le stimmate di tecnica e la benedizione leghista e uscita con una candidatura blindata in Forza Italia. 

Chissà se ha inciso il parere di Barelli, che ha iniziato Tajani alla passione per il nuoto: nel 2018 l’allora presidente del Parlamento europeo fu l’ospite d’onore al congresso di Len, la federazione europea all’epoca guidata da Barelli. La riunione si tenne a Budapest per omaggiare Viktor Orban e Barelli si esibì in una eulogia del presidente magiaro: «L’Ungheria è un paese molto fortunato. Viktor è un leader che crede fattivamente nello sport».

Insomma Tajani avrà apprezzato, e Barelli ancora di più, i 77 milioni di euro che gli uffici di Vezzali hanno stanziato a beneficio delle piscine sportive penalizzate dalla pandemia e dalle bollette. Ristori. 30 milioni liberati a gennaio e 47 aggiunti a luglio che sono distribuiti dalla federazione di cui Barelli è il presidente alle singole associazioni e che arrivano fino ai circoli sportivi di cui Barelli è azionista. 

Un bel contorno della portata principale degli Europei di nuoto che si svolgono a Roma a cavallo di Ferragosto e che hanno ricevuto dallo Stato un generoso contributo di 5 milioni di euro. Ogni gruppo ha la sua base. A Roma l’armata Tajani si ritrova al ristorante Lola che ha in affitto i locali nell’aerea di Villa Flaminia Sport. Lì atleti e dirigenti di Fin consumano tanti pasti, lì Tajani e anche Nevi allestiscono eventi politici e Barelli in ogni sua veste ne gode. 

Partito nel lontano 1994 come candidato alle politiche (trombato) nelle liste di Mario Segni, il presidente Fin ora può permettersi di sognare in grande. Il traguardo di una poltrona di governo sembra ormai a portata di mano. Obiettivo massimo: un posto da sottosegretario, o da viceministro, sempre con delega allo sport. Pure la fortuna sta dalla sua parte. A luglio i nuotatori azzurri hanno fatto man bassa di medaglie ai mondiali. Un successo senza precedenti.

Barelli incassa e spera che i successi in piscina facciano da scudo alla raffica di guai che lo inseguono da mesi. La sconfitta che brucia di più è quella subìta nelle stanze della Federazione europea di nuoto, la Len, che a febbraio ha nominato un nuovo presidente in sostituzione di Barelli, al vertice dal 2013. C’è di peggio, perché da mesi la magistratura svizzera indaga su una serie di presunte irregolarità finanziarie attribuite all’ex numero uno. 

Non è neppure da escludere che nelle prossime settimane possa avviarsi un procedimento interno alla Federazione europea. E se l’indagine della giustizia sportiva dovesse concludersi con una sanzione, per Barelli potrebbe diventare molto difficile difendere la poltrona in Federnuoto da una possibile richiesta di commissariamento avanzata dal Coni di Giovanni Malagò, con cui i rapporti sono pessimi almeno dal 2009, dai tempi dei mondiali di nuoto a Roma.

Comincia proprio con una denuncia del Coni un’altra vicenda che macchia l’immagine del candidato azzurro. Con una sentenza emessa il 10 marzo scorso, Barelli è stato infatti condannato in appello dalla Corte dei Conti a pagare 495 mila euro per rimborsare il danno causato alle casse pubbliche. In pratica, il ministero dell’Economia ha pagato per due volte gli stessi lavori di ristrutturazione della piscina del Foro Italico, concessa in uso alla Federnuoto. La sentenza dei giudizi contabili descrive Barelli come «l’unico, reale dominus dell’intreccio di eventi che ha portato (…) al doppio pagamento delle stesse fatture».

Ora al presidente Fin non rimane che sperare di capovolgere la sentenza con un annunciato ricorso in Cassazione oppure promuovendo un giudizio di revocazione davanti alla stessa Corte dei conti. In caso contrario Barelli dovrà metter mano al portafoglio e saldare un conto da quasi mezzo milione di euro. La stangata arriva in un momento non proprio felice per le finanze di famiglia del politico azzurro. Luigi Barelli, fratello e socio di Paolo, si è visto pignorare le quote in svariate società, comprese quelle nel Villa Flaminia sport, per una storia di debiti bancari non saldati. E così Luigi è andato sott’acqua. E pure Paolo non se la passa troppo bene. Ma la storia continua. I Barelli sono campioni di galleggiamento, in piscina e anche fuori. Le elezioni sono vicine. E l’armata Tajani marcia compatta verso il potere.

In corsa per la circoscrizione Sudamerica. Fittipaldi dalla Formula 1 alla politica con Meloni: ma l’ex campione è inseguito da debiti e processi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Agosto 2022 

Doveva essere il nome forte, il volto noto per convincere gli elettori italiani residente in Sudamerica a dare il proprio voto a Giorgia Meloni. La candidatura di Emerson Fittipaldi, ex pilota  di Formula 1 e due volte campione mondiale (nel 1972 e 1974) sta invece provocando più di qualche grattacapo al partito.

Colpa dei recenti trascorsi dell’ex pilota brasiliano di origini italiane, che dalle corse in auto è pronto alla corsa al seggio da senatore. Ad occuparsene oggi è un articolo de La Stampa in cui si ricordano i guai finanziari e giudiziari del 75enne campione di F1, capace in carriera di vincere 14 gran premi. 

Se dal punto di vista politico, in linea con la stessa Meloni e col suo presidente Jair Bolsonaro, Fittipaldi ha promesso il suo impegno nel difendere lo ius sanguinis, ovvero l’acquisizione della cittadinanza nascendo da almeno un genitore in possesso della cittadinanza, o con un ascendente in possesso della cittadinanza.

Ma a far notizia sono in realtà le decine di processi aperti in Brasile contro l’ex pilota per debiti accumulati che supererebbero i 55 milioni di reais, circa 10 milioni di euro. Tutta colpa delle sue doti non esattamente fenomenali come uomo d’affari, a differenza di quando Emerson si sedeva a bordo di una monoposto.

Per potersi candidare con Fratelli d’Italia Fittipaldi nelle scorse settimane ha dovuto anche cambiare la residenza: nel 2016 era volata negli Stati Uniti, in Florida, sistemandosi a Miami. Quindi il ritorno in patria almeno come domicilio, nella sua San Paolo. 

La Stampa cita un sito di ricerca brasiliano, Escavador, che riprende tutti i processi aperti in Brasile. Il dossier su Fittipaldi è particolarmente consistente: “Il Banco do Brasil, principale banca pubblica brasiliana, vuole riscuotere un prestito nel 2014 per l’acquisizione di una fabbrica di alcool etanolo nello Stato di Mato grosso do Sul. La banca Safra ha erogato un prestito per l’avvio di una concessionaria di veicoli, in marzo la giustizia ha preso di mira un contratto siglato dall’ex pilota con la Magnum Tires per una campagna pubblicitaria di una marca di pneumatici”, si legge.

L’ex pilota a proposito dei suoi debiti tenta di minimizzare. Intervistato dal quotidiano ‘Estado de Sao Paulo’, ha sostenuto che il 92% del totale è già stato risolto, con processi chiusi e archiviati. “Ho promesso che avrei pagato tutto e così sto facendo. Mancano solo due giri al traguardo di questo Gran Premio, entro la fine dell’anno sarà tutto risolto”, le parole di Fittipaldi.

Ma al di là della partita giudiziaria, quella politica sembra quella più ostica per Emerson. Il taglio dei parlamentari riguarda infatti anche le circoscrizioni all’estero, col Sudamerica che si vedrà garantiti un senatori e due deputati. Fittipaldi dovrà sgomitare parecchio per il seggio a Palazzo Madama e affrontare il recordman di preferenze Ricardo Merlo, senatore del Maie che è sempre stato eletto in Parlamento da quando esiste il voto per gli italiani all’estero.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

I problemi tra i berlusconiani. Forza Italia, le liste spaccano i berlusconiani: caso Casellati, dalla Basilicata ‘no’ alla presidente del Senato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Agosto 2022 

Forza Italia in fiamme. Il partito di Silvio Berlusconi, alle prese con le liste dei candidati da presentare in vista del voto del 25 settembre, che tra consensi in calo e taglio dei parlamentari porterà le truppe azzurre a Palazzo Madama e Montecitorio in forte calo numerico, è nel caos.

Il caso che desta più clamore riguarda la presidente uscente del Senato, Elisabetta Casellati, che Berlusconi vuole piazzare come candidata ‘blindata’ nel collegio uninominale della Basilicata. Una scelta che al partito lucano non è andata giù, per usare un eufemismo.

Durissimo è infatti il commento del consigliere regionale di Fi Gerardo Bellettieri. “Un senatore che lavora incessantemente per il territorio e che ha portato il partito dal 4% al 12,5%. Il popolo lucano merita rispetto e va rappresentato da gente lucana del territorio. Io sto con Giuseppe Moles”, spiega Bellettieri.  “Massimo rispetto per la seconda carica dello Stato – ha aggiunto – ma Moles merita riconoscimento per il lavoro svolto da anni sul territorio”, aggiunge ancora il consigliere lucano del partito.

La scelta di far traslocare la Casellati dal ‘suo’ Veneto alla Basilicata, con la rinuncia al collegio Veneto 1, deriva dalla scelta di piazzare lì la bolognese Anna Maria Bernini, capogruppo azzurra a Palazzo Madama.

Anche questa scelta, tra l’altro, sta provocando malumori nel partito, anche con scelte drastiche come quella del deputato bellunese Dario Bond, vice coordinatore regionale forzista, che ha annunciato l’addio agli azzurri. “Lo stato di salute del partito in Veneto è pessimo – è lo sfogo di Bond -. Ci sono province dove non si farà nemmeno attivismo per la campagna elettorale. Lascerò il partito. Non ho ancora ufficializzato la mia decisione perché essendo uno dei fondatori non volevo creare problemi. Però così non si può andare avanti…“, ha aggiunto il deputato.

E per un senatore che dopo quasi 25 anni annuncia l’addio all’impegno politico in Parlamento come Francesco Giro, doppia tessera di Forza Italia e Lega, negli azzurri scoppia anche il caso Tartaglione. 

Annaelsa Tartaglione, ex concorrente di Miss Italia che in pochi anni ha scalato il partito in Molise, fino a pochi giorni fa data per certa nel seggio della piccola Regione, resterà fuori dalla corsa. Il suo posto all’uninominale della Camera sarà preso in ‘quota centrista’ dal segretario nazionale dell’Unione di Centro Lorenzo Cesa. Tartaglione dovrebbe essere paracadutata nel listino proporzionale, con minori chance di elezioni.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Una delle fake più diffuse è quella della destra antieuropeista. Non conoscono la storia. Mario Bozzi Sentieri il 22 Ago 2022 su Il Secolo d'Italia.

Quella della destra antieuropeista è una delle fake più diffuse. In realtà Europa e destra politica nel nostro Paese sono sempre andate a braccetto (a differenza del Pci, del quale il Partito democratico è l’erede, che nel 1957 fu l’unico partito italiano a votare contro la ratifica dei trattati che istituivano la CEE e l’Euratom).

Ma quale destra antieuropeista…

A partire dagli   Anni Sessanta del ‘900 “Europa Nazione Rivoluzione” è stato uno degli slogan più diffusi tra la gioventù di orientamento nazionalrivoluzionario. L’unità territoriale e spirituale del Vecchio Continente era un’aspettativa di civiltà, rispetto ai due blocchi politico-ideologici allora dominanti e al Muro, inventato dai comunisti dell’Est ed avvallato da quelli dell’Ovest, che, ignobile, la segnava, ferita di cemento che dalla Porta di Brandeburgo isolava, per centinaia di chilometri, uomini e coscienze.

L’Europa orgogliosa delle proprie radici

Il riferimento- per certa destra – era all’Europa orgogliosa delle sue radici. Europa olimpica e dorica, protesa, da Capo Sounion, per farsi abbracciare dal Mediterraneo, Madre antica che non teme le notti glaciali certa, nell’attesa, che la luce tornerà ad irradiarla. Europa di templi e di dei, romana ed imperiale, audace e guerriera. Cervello socratico e cuore cristiano – come scrisse un grande spagnolo (Salvador de Madariaga).  Capace di specchiarsi nei vetri delle sue cattedrali, segno d’una epoca splendente d’oro, d’argento, d’azzurro, di rossi e di verdi, fiammeggiante sui portali delle chiese, nei saloni dei castelli, nelle case dei borghesi e dei fattori.

Consapevole del proprio ruolo

Europa d’incunaboli e di immaginazioni futuriste, nel lungo rosario di genialità artistiche, scientifiche, drammaturgiche. Europa del lavoro e del diritto, capace di farsi esempio di civiltà, pur nella complessità delle singole storie nazionali. Eravamo/siamo diversi? Certamente, ma – per dirla con Jose Ortega – “perché una Nazione esista è sufficiente che essa abbia coscienza del suo esistere”. Un’Europa, cosciente del proprio ruolo, avrebbe potuto essere diversa, se avesse pensato meno o non solo a farsi strumento burocratico, orizzonte codificato entro cui fare morire d’inedia i suoi cittadini. Avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo geopolitico e mediterraneo.

È una scommessa per il futuro

Avrebbe potuto e dovuto essere un’aspettativa reale.  Purtroppo non è stato così. Ma quell’Europa rimane e non solo nei suoi monumenti e nella sua Storia. È una scommessa per il futuro ed in quanto tale va ripensata nelle sue declinazioni più immediate. A partire anche da quelle che vengono indicate, nel programma del centrodestra, come “mutate condizioni, necessità e priorità”. Il terreno è quello strettamente economico, delle risorse e degli investimenti. Si tratta di un orizzonte più immediato rispetto ai richiami metapolitici del passato, ma proprio per questo delineano modalità d’intervento che possono essere ben declinate con ambizioni e progetti di più ampia prospettiva continentale.

La destra non è antieuropeista, ma c’è una terza via

Tra la stretta ortodossia europeista, così lontana dalle sensibilità dei popoli europei, e l’euroscetticismo, che certamente non appartiene alla destra politica, una “terza via” c’è. Ed è quella che si muove, a partire dai territori, per “rappresentare” e tutelare, il mondo del lavoro e della produzione, i processi di modernizzazione (dalla formazione agli investimenti, dalle infrastrutture alla difesa delle imprese “strategiche”). Tutto questo partendo anche  dal “marchio Italia”, dalla specificità delle nostre produzioni, che – non a caso – si intrecciano con le storie, la qualità, la memoria del nostro essere italiani nel tempo europeo.

In tutto ciò è francamente difficile – a patto di non essere mossi da interessi preconcetti – vedere rischi per i processi d’integrazione europea, che di un nuovo slancio, di nuove visioni hanno piuttosto bisogno, pena una preoccupante perdita di credibilità e di funzioni. Vale per il Pnrr, ma anche in altri ambiti. Un’Europa diversa è possibile. Basta crederci ed impegnarsi di conseguenza. Senza dare nulla per scontato.

DagoFLASH! il 22 agosto 2022.  - L'ANNO NERO DI ANDREA RUGGIERI, IL DEPUTATO DI “FORZA ITALIA” NIPOTE DI BRUNO VESPA. PRIMA ANNA FALCHI LO HA MOLLATO PER UN ALTRO, POI IL SUO PARTITO LO LASCIA A PIEDI E LO ESCLUDE DALLE LISTE. LO SFOGO IN UN POST SU INSTAGRAM: “L’UNICA COSA CHE HO RIFIUTATO SONO LE OFFERTE DI ALTRI PARTITI…A ME DEPUTATO USCENTE SONO STATI PREFERITI ESORDIENTI ANONIMI E SENZA TITOLO. ORA MI RIPOSO, POI…”

Io ho una faccia sola.

Questa.

Sono stato leale, molto leale, fino all’ultimo secondo al Presidente Berlusconi, e alla bandiera di Forza Italia.

E sia chiaro: non ho rifiutato proprio nulla, come scrive il @corriere

Le uniche offerte che ho rifiutato sono state quelle di altri partiti.

Ho avanzato alcune proposte di candidatura a Forza Italia, da cui non ho nemmeno avuto risposta.

La regola d’ingaggio era: “Tutelare anzitutto gli uscenti”.

Ma pur essendo io un deputato uscente, che a Forza Italia ha fatto sempre fare una bella figura, mi sono stati preferiti esordienti anonimi e senza titolo, o persone che si sono loro offerte a destra e manca, senza nemmeno essere stati accettate.

Ora mi prendo un paio di giorni di riposo e di silenzio.

Poi ci rivedremo.

La conduttrice correrà in Puglia. Rita Dalla Chiesa dal Grande Fratello Vip al Parlamento, Berlusconi la piazza in Forza Italia tra le polemiche. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Agosto 2022 

Dal reality al Parlamento. È il triplo salto carpiato di Rita Dalla Chiesa, la giornalista e conduttrice tv passata nel rapido volgere di pochi giorni dalla sicura presenza alla prossima edizione del Grande Fratello Vip, che inizierà il 19 settembre su Canale 5, alla candidatura in un collegio ‘blindato’ in Puglia, capolista al proporzionale nel collegio Molfetta-Bari e all’uninominale di Molfetta, per Forza Italia.

Una decisione, racconta Repubblica, fortemente voluta da Silvio Berlusconi, anche a costo di spiazzare il partito locale, che non si aspettava un candidato paracadutata dall’alto. A farne le spese è stato in particolare Francesco Paolo Sisto, avvocato barese e sottosegretario alla Giustizia nel governo Draghi, costretto a traslocare nel collegio uninominale di Andria per il Senato.

Dunque tra la chiamata di Alfonso Signorini e quella di Silvio Berlusconi, la figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fatto uccidere dal boss mafioso Totò Riiina, la giornalista e conduttrice ha scelto la seconda. Polemiche che tra l’altro l’avevano vista protagonista anche dopo il suo ok alla partecipazione alla settima edizione del reality di Mediaset, con commenti feroci che avevano tirato in ballo proprio la storia familiare.

“Accetto che mi vengano dette certe cose, ma non si devono azzardare a toccare un membro della mia famiglia o la mia dignità… Le mie colleghe sono attaccate al potere e hanno una paura tremenda di perdere il posto al sole, io invece no…Per questo motivo dico sempre quello che penso, le difendo sempre quando viene tolto loro un programma ingiustamente o vengono coinvolte in falsi gossip”, si era sfogata la giornalista al settimanale ‘Nuovo’.

Dietro di lei nel listino proporzionale del collegio Molfetta-Bari ci sarebbero Michele Boccardi, Maria Tiziana Rutigliani e Domenico Damascelli. Una ‘passione’ per la politica non nuova: nel 2016 la giornalista aveva già rifiutato di candidarsi a sindaco di Roma.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

“Una berlusconiana contro la mafia”. Da Rita Dalla Chiesa ad Annarita Patriarca, parte la gogna di “Fatto” e “Domani”: la lista degli impresentabili per gli amanti delle manette. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Agosto 2022 

Sarcasmo: “Una berlusconiana contro la mafia”. Lo schiaffo arriva violento su Rita Dalla Chiesa. La colpisce in pieno, come una mitragliata di Cosa Nostra. Mira a cancellarla come persona, come seria professionista, e anche come donna che ha sofferto nella tragedia che ha colpito lei e la sua famiglia dopo l’assassinio del generale nel 1982. La sua candidatura nelle liste di Forza Italia per le prossime elezioni politiche del 25 settembre annulla tutto, una storia, una vita. È così che Rita diventa un’impresentabile. Indegna del ricordo, persino.

«La Rai trasmetterà in occasione dei 40 anni della strage di Palermo, una nuova serie che racconta il generale, interpretato da Sergio Castellitto, mentre la figlia sarà in campagna elettorale sotto la bandiera di Forza Italia, il partito di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi». Così scrive di lei Nello Trocchia. Se si può dare un voto allo schifo, questa volta sul podio più alto nel festival delle manette non c’è il Fatto di Marco Travaglio ma Stefano Feltri con il suo Domani. È una gara a tre, con il fanalino di coda della Notizia. Il brodo è sempre lo stesso, quello che si presenta come uno stantio ritornello a ogni tornata elettorale. E qualcuno, i famosi più puri, presenta il catalogo di coloro che, a loro sindacabile giudizio, sono gli “impresentabili”.

La base di partenza è naturalmente l’intervento della magistratura, ma ormai non basta più. Tanto che il Fatto quotidiano, il cui direttore è il vero papà dei primi della classe della verginità morale, ha addirittura stilato le tre categorie dei bocciati: condannati, inquisiti e “inopportuni”. Ha però dimenticato i parenti. Ci pensa La Notizia, che ha fatto ieri il vero scoop, denunciando lo scandalo della candidatura al Senato di Antonia Postorivo. Del tutto secondario il fatto che si tratti di un’avvocata costituzionalista e anche magari che in Parlamento in questo momento potrebbe essere molto utile un ruolo professionale come il suo. Quel che conta è una condanna, non definitiva, di suo marito per concorso esterno, il famoso reato che non c’è ma che, soprattutto al Sud, difficilmente viene negato ai politici. «Insomma –scrive il quotidiano, con il solito linguaggio un po’ questurino- per quanto la Postorivo sia estranea alla vicenda e che sia perfettamente abile e arruolabile come candidata, ciò non toglie che…». Eccetera.

Ma ecco che Travaglio rilancia subito e triplica l’impresentabilità di un’altra candidata, che porta non solo sul suo corpo le stimmate del marito ma nel dna le macchie del padre. Annarita Patriarca è una consigliera regionale campana, la più votata con 11.000 preferenze, ma questo i lettori del Fatto non possono saperlo, perché viene raccontato loro chi è suo padre e chi è suo marito. Lei non esiste se non come “figlia di “ e “moglie di”. Inoltre, si suppone sia incensurata e non abbia carichi pendenti, visto che l’articolo non ne parla. In questo caso non conta. Pure è un’altra impresentabile. Certo che questi illustri direttori di quotidiani non scherzano quanto a misoginia! Dobbiamo però a questo punto fare una piccola rettifica. Perché sullo scaffale del Fatto, dove sono messe in bella mostra anche le foto segnaletiche di “condannati, indagati e inopportuni”, almeno una è stata salvata.

È vero che il nome di Chiara Appendino, candidata dal Movimento cinque stelle, in fondo, ma proprio in fondo all’articolo c’è, con la sua condanna in primo grado a un anno e sei mesi per la tragedia di piazza San Carlo a Torino nel 2017. Ma almeno a lei, contrariamente alle altre, è stata risparmiata la gogna dell’immagine, oltre che commento piccante. Bravo Marcolino, almeno una l’hai salvata. Inutile soffermarsi, mentre si sfoglia l’album di famiglia degli impresentabili, sugli amorevoli ritratti dedicati a Silvio Berlusconi, che rientrerà al Senato dopo quel voto che lo cacciò nonostante i tanti costituzionalisti che davano un’interpretazione negativa sulla retroattività della legge Severino. Più che la condanna per frode fiscale, o i ridicoli “processi Ruby”, è la militanza antimafiosa, a farla da padrone. Ed è la stessa Rita Dalla Chiesa, intervistata dal Quotidiano nazionale, la prima a scacciare le insinuazioni come mosche fastidiose.

«Mai creduto alle accuse di mafia», sentenzia sicura, «hanno avuto paura di lui solo quando è entrato in politica». Se “Berlusconi finanziava la mafia”, naturalmente ce ne è anche per Salvini e Renzi, impresentabilissimi, uno per la questione delle navi di immigrati, l’altro per Open e il sospetto di finanziamento occulto al Pd. Ma son rose e fiori –infatti se ne occupano solo i tre quotidiani abbonati al festival delle manette- rispetto a quel che sta succedendo in Sicilia. Dove il Pd è stato l’abbandonato da un Conte che giustamente rivendicava «Non posso candidare Scarpinato e Cafiero de Raho e poi accettare impresentabili in Sicilia». Così, incassato per sua fortuna un “si” a denti stretti da Caterina Schinnici, la figlia del magistrato assassinato dalla mafia, che era stata indicata dalle primarie comuni come candidata a governare la Sicilia, e che non abbandona la corsa, il Pd sta vivendo i tormenti del giovane Werter.

Ha già dovuto rinunciare a correre il capogruppo del partito all’assemblea regionale Giuseppe Lupo, e pare traballi la posizione del segretario regionale Antony Barbagallo. Il quale non trova di meglio, per salvarsi la pelle, che ingaggiare la rincorsa del peggior grillismo, affannandosi a dichiarare: «La decisione di non inserire nelle liste candidati sottoposti a procedimenti penali è da attribuire esclusivamente al Pd. È una linea condivisa da me e dal segretario nazionale». Chissà quale manina aveva prima inserito i nomi che ora sono spariti. Traballano le posizioni. E anche Enrico Letta, tra la Sicilia e il viterbese, non si sente molto bene.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da liberoquotidiano.it il 22 agosto 2022.

Alan Friedman, ospite di Luca Telese e Marianna Aprile a In Onda, su La7, nella puntata del 21 agosto comincia a insultare Giulio Tremonti, l'ex ministro dell'Economia ora candidato nelle liste di Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. "Non capisco questa seconda venuta di Tremonti come se fosse una figura nuova", sbotta il giornalista americano. "È un politico vecchio di 75 anni, screditato all'estero durante la crisi del 2011, che ora si iscrive a Fratelli d'Italia...", prosegue Friedman.

Il quale ripercorre la carriera politica dell'economista, che aveva cominciato da Forza Italia e poi era passato nei gruppi della Lega. "Ora è amico del partito di Giorgia Meloni, che non è fascista ma solo corporativista e statalista...", osserva ancora Alan Friedman che non senza ironia conclude: "Se Giulio Tremonti vuole sposare la politica di Meloni di non gestire bene l'economia nazionalizzando Telecom Italia, bloccando la vendita di Alitalia e facendo una Flat tax che ci porterà in bancarotta" non sarà sicuramente apprezzato dagli elettori. 

Parole durissime che Luca Telese non condivide affatto. Tanto che a un certo punto risponde a Freidman affermando che "uno può avere 75 o 80 anni, l'importante è quello che dice non l'età. Tremonti ha tutto il diritto di parola a prescindere dall'anagrafe ". Zittito.

L’eterno ritorno. Tremonti, l’intramontabile campione del pensiero unico anti-liberista di destra, di centro e di sinistra. Carmelo Palma  su L'Inkiesta il 23 Agosto 2022.

Secondo l’ex (e forse neo) ministro, la colpa di tutti i mali va addossata alla globalizzazione, un fenomeno voluto a suo avviso da un sistema impersonale e misterioso. Tutte tesi che, come è da immaginare, vanno per la maggiore in Italia

Ha scritto qualche giorno fa su Twitter Sandro Brusco: «La Meloni non è pericolosa perché riporterà il fascismo. È pericolosa perché riporterà Tremonti. Le cui pessime idee, comunque, non hanno mai abbandonato le classi dirigenti italiane, di destra, centro, sinistra e di quel guazzabuglio del M5S. Il vero pensiero unico».

Brusco insegna Economia alla Stony Brook University di New York e, come altri suoi colleghi italiani, espatriati professionalmente oltreoceano e confinati politicamente nell’oltremondo dell’attivismo digitale, rappresenta quel pensiero liberista, cui da almeno due decenni l’escatologia tremontiana addebita la Grande Babilonia del mondo, in attesa dell’Apocalisse, cioè della rivelazione, che il poliedrico ex (e forse neo) ministro dell’Economia si impegna a diffondere e propiziare con un intenso magistero pubblicistico-politico.

Dopo l’ufficiale ridiscesa in campo di Tremonti, del post di Brusco la cosa più importante e interessante non è il giudizio che rinnova contro il grande inquisitore della globalizzazione ça va sans dire selvaggia, ma la denuncia, quanto mai veritiera, che la religione dell’anti-libero mercato non è una forma di opposizione eroica al pensiero unico mondiale, ma rappresenta, in Italia, la forma più caratteristica del pensiero unico nazionale.

Qualche tempo fa avevamo evidenziato, scorrendo la piattaforma di una manifestazione della Fiom, come le parole d’ordine del sindacalismo antagonista coincidessero sostanzialmente con quelli della destra brutta sporca e cattiva e non c’è nulla come il Tremonti-pensiero che dia ragione di questa identità.

La tesi di fondo è che l’integrazione economica internazionale non è un fenomeno indotto da profonde e irreversibili trasformazioni tecnologiche e demografiche, ma è stato prodotto dalla rottura traumatica del legame tra economia capitalistica e sovranità politica, cioè dell’unico possibile fattore di equilibrio tra le ragioni dei mercati e quelle dei popoli.

Questa rottura, per Tremonti, non è avvenuta naturalmente, ma è stata determinata dolosamente erodendo la funzione degli stati nazionali e sottraendo ad essi il controllo delle principali leve del potere: la moneta, la disciplina dell’economia e il presidio dei confini.

L’Unione europea, la BCE e gli altri organismi internazionali che esercitano la sovranità sottratta agli stati sono per Tremonti il nuovo Leviatano, e il loro potere arbitrario non è esercitato da un sovrano, ma da un sistema impersonale, altrettanto assoluto e ancora meno controllabile e sospettabile, perché anticristicamente travestito con i panni del garante della pace e della prosperità mondiale, non di un re capriccioso o di un regime ufficialmente asservito agli interessi del grande capitale internazionale.

Il potere reale del mondo – concentrato nel mondo della finanza transnazionale – è dunque anonimo e invisibile, ma pervasivo e implacabile e c’è da pensare che Tremonti solo per ragioni di copyright non lo chiami SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali – intramontabile feticcio della rivoluzione armata proletaria e, con altre denominazioni, degli immaginari fascio-clerico-comunisti in guerra contro il liberismo.

Esattamente come gli antiliberisti di sinistra, anche il maître à penser della destra italiana pensa che la subordinazione della politica all’economia abbia comportato una degradazione etica della società. Non ci sono più i valori di una volta, di cui la politica dettava i fini e a cui l’economia forniva i mezzi. I valori ormai sono proiezioni fantastiche di una libertà irreale o meri prodotti di consumo e la fine delle identità personali, sessuali, familiari, religiose e nazionali è esattamente il fine di questa attività di distruzione di ogni corpo individuale e collettivo in grado di opporsi alla dittatura del mercato.

Da questo punto di vista l’antropologia tremontiana è decisamente più reazionaria di quella di sinistra, ma, viste le premesse, anche più coerente, giacché se ad esempio si ritiene che le migrazioni siano un effetto del disordine del mondo o il cavallo di troia della dominazione super-capitalistica è difficile politicamente salutarle con una generosa indulgenza multiculti. Più logico, a quel punto, credere alle fregnacce del piano Kalergi.

In ogni caso, parlare oggi del ritorno di Tremonti è per lo meno inesatto. Tremonti non se n’era mai andato, la sua egemonia culturale è rimasta per un ventennio intatta e decisamente trasversale.

IL FONDATORE DA 30 ANNI IN PARLAMENTO. Salvini salva di nuovo Bossi e dimentica i 49 milioni della truffa allo Stato. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 23 agosto 2022

La candidatura di Umberto Bossi, il fondatore della Lega Nord, è ormai una consuetudine, non c’è neppure bisogno che qualcuno la chieda o la imponga. Il suo nome fa da collante tra il passato e il presente.

Bossi è stata la causa insieme al tesoriere di un tempo, Francesco Belsito, di uno dei più gravi scandali finanziari che hanno riguardato un partito politico.

Di certo c’è che Salvini non ha mai voluto fare i conti con la stagione degli scandali dei rimborsi. Nel 2014, pochi anni prima dell’inizio del processo per truffa nel capoluogo genovese, ha persino firmato una scrittura privata con Bossi e l’avvocato di quest’ultimo in cui si elencavano alcune clausole nel rapporto tra il vecchio e il nuovo leader. Il quarto punto del documento, per esempio,stabiliva che al presidente della Lega (Bossi) sarebbero andati 450 mila euro l’anno «comprese le spese per lo staff e di propria segreteria per i quali si troverà con l’accordo tra le parti un metodo fiscalmente corretto». 

Giorgia Meloni candida l’ex prefetto Pecoraro che non vedeva la mafia a Roma. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 23 agosto 2022

L'ex vicecapo della Polizia Giuseppe Pecoraro è uno dei candidati di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni lo schiera tra i volti che danno lustro alle liste del partito.

Già prefetto, commissario e capo della procura generale della Ficg (federazione italia giuoco calcio), Pecoraro ha una lunga e luminosa carriera alle spalle, buono per ogni stagione, stimato a destra e difeso anche dal Pd quando scivoloni e passi falsi ne hanno segnato il percorso fino alle dimissioni in polemica con il governo guidato dal professore Mario Monti.

Il governo Berlusconi, ministro Roberto Maroni, lo nomina prefetto di Roma dove resta fino all'aprile 2015. In quel governo Giorgia Meloni è ministra della Gioventù.

Paola Di Caro per corriere.it il 22 agosto 2022.

La prima regola del Fight Club di Forza Italia è la stessa del capolavoro di David Fincher: non parlare mai del Fight Club. E infatti quello che è stato un vero scontro sanguinoso con lividi, ferite e anche qualche metaforico morto sul campo, si è svolto nella quasi totale assenza di comunicazione tra i vertici - Tajani, Ronzulli, Bernini e Barelli prima per tre giorni in Sardegna da Berlusconi, poi riuniti segretamente in una stanza d’hotel a Roma per evitare assalti dei pretendenti al seggio - e i tantissimi parlamentari che premevano per ottenere una ricandidatura sicura.

Molti, ancora ieri pomeriggio, non erano ancora certi della propria sorte, speravano in un cambiamento dell’ultimo minuto, che quasi mai è arrivato. Perché le scelte principali sono state tutte compiute con una logica, assicura Antonio Tajani: «Meritocrazia, capacità di lavoro, impegno, pagamento del contributo di partito e numero di legislature alle spalle». Con una aggiunta: «E’ sempre doloroso non poter accontentare tutti, ma stavolta è stato ancora più difficile, non solo per noi ma per tutti i partiti».

E gli scontenti sono tanti in FI, chi pronto a sbattere la porta, chi di fatto già uscito, chi accetta a denti stretti quello che considera uno sgarbo, come la presidente del Senato Casellati che si aspettava di correre nel suo collegio in Veneto che - raccontano - era stato concesso agli azzurri da FdI, nonostante spettasse al partito, proprio «per rispetto a lei», e che ha lasciato molto sorpresi in via della Scrofa quando è stato invece occupato dalla Bernini.

D’altra parte la pattuglia di quasi sicuri rieletti si è ridotta dai 123 uscenti a 50/70 delle previsioni più o meno ottimistiche, e tra richieste del territorio, fedelissimi del Cavaliere, fedelissimi dei fedelissimi, tanti sono rimasti fuori. Per dirla con un big di un partito alleato, in FI «sono state fatte cose forti... Ed è stata quasi azzerata la pattuglia degli esponenti più vicini a Gianni Letta, area ministeriale e no».

Certamente alcune esclusioni fanno rumore. E’ il caso di parlamentari storici come Simone Baldelli, l’«imitatore» più famoso della politica, che ha rifiutato una candidatura ritenuta impossibile, esattamente come hanno fatto Giuseppe Moles (spodestato dalla Casellati nella sua Basilicata, ha detto no a una candidatura come capolista che non permette di ottenere un seggio), Renata Polverini e Andrea Ruggeri, nipote di Bruno Vespa.

Per loro, è praticamente un addio se è vero che Tajani ha detto chiaro a tutti: «Chi ci mette la faccia, anche se non riuscirà a essere rieletto, sarà tenuto nella massima considerazione per incarichi presenti in futuro. Gli altri no». Apprezzata, per dire, la disponibilità di Elvira Savino, che correrà come capolista in Friuli in una mission pressoché impossibile ma ha promesso massimo impegno. Molto meno sono piaciute alcune proteste: alla fine ad Annagrazia Calabria è stato concesso solo un collegio in Senato a Roma ritenuto molto difficile, a Sestino Giacomoni il terzo posto in lista nel Lazio nel proporzionale dopo Barelli e Maria Spena, che correrà anche a Roma centro: anche qui, molto ardua la rielezione, molta delusione per lui che lo ha appreso a cose fatte.

Se Deborah Bergamini è riuscita ad ottenere la candidatura come capolista in Toscana Nord, considerata sicura, peggio è andata per Gregorio Fontana, altro storico azzurro, capolista in una circoscrizione veneta ma a battersi con il collega Flavio Tosi. Nessun uninominale nemmeno per Valentino Valentini, il suo consigliere e interprete storico: capolista in Emilia sì, ma non blindato.

Francesco Moscatelli per “la Stampa” il 22 agosto 2022.  

La telefonata che nessuno voleva ricevere pare sia arrivata a tutti sabato pomeriggio.

Telefonata seguita da una raccomandazione: anche chi è fuori dalle liste, o in posizione traballante, mantenga uno stile da vero leghista. Ovvero eviti proteste, esternazioni e accuse. Poco consone all'ultimo partito leninista d'Italia. 

E così le scelte dolorosissime «perché non si può dire di sì a tutti», ma soprattutto perché la Lega rischia di passare dagli oltre 190 parlamentari attuali a meno di un terzo, sono state fatte e comunicate. Il risultato? Dentro le chat private dei leghisti si è scatenato l'inferno, con qualche schizzo di fuoco e fiamme finito pure sui social. 

I tre «sacrifici» che più stanno destando scalpore sono quelli dei deputati Raffaele Volpi e Paolo Grimoldi e del responsabile Enti locali del partito Stefano Locatelli. Volpi, bresciano, già sottosegretario alla Difesa e presidente del Copasir, oltre che commissario del partito in varie regioni del Sud, un tempo era considerato vicinissimo a Salvini e spesso lo ospitava pure nella sua casa romana. Salvo ripensamenti dell'ultimo minuto verrà escluso tout-court. 

«A un uomo serio e preparato si sono preferiti gli yes man, gli Angelucci e i Lotito - si sfoga una carissima amica di Volpi, facendo il verso proprio allo slogan scelto dalla Lega per la campagna elettorale - #Credo che molti leghisti si vedano più in Volpi che in Lotito, perché è un uomo che con Giorgetti e Calderoli è stato alla guida degli enti locali in Lombardia». 

Già, Giorgetti e Calderoli. Gli antagonisti di Salvini sostengono che il criterio adottato per stilare le liste sia stato proprio quello di premiare, più che le competenze o il curriculum, la distanza dagli altri big leghisti e la fedeltà al segretario. Solo così si spiegherebbe la decisione di piazzare Grimoldi, ex leader dei Giovani Padani e segretario in Lombardia, e Stefano Locatelli, uomo chiave dell'organizzazione, al terzo posto nei dei listini proporzionali rispettivamente in Brianza e a Bergamo.

Stessa sorte toccata a Cristian Invernizzi, capo-bastone della bassa bergamasca. Mentre il nome di Daniele Belotti, storico capo ultrà dell'Atalanta e altrettanto storico presentatore del raduno di Pontida, non comparirà proprio sulla scheda. Ma è così un po' in tutto il Nord Italia: a Brescia è saltato Toni Iwobi (primo senatore di origine africana), a Udine Mario Pittoni. «Il Capitano ha dovuto far fuori anche le sue seconde linee, ma si è garantito un gruppo di soldati fedelissimi - spiega un ex leghista -. Gente che lo seguirà qualunque piega prenderà la legislatura ».

Da lospiffero.com il 22 agosto 2022.  

Dopo una lunga attesa, anche per la Lega è finalmente arrivato stamattina il momento della presentazione delle liste. Liste in cui compaiono tutti gli esponenti più vicini al segretario regionale e capogruppo a Montecitorio Riccardo Molinari, i cosidetti fedellissimi che compono una sorta di cerchio magico attorno al leader piemontese: i deputati uscenti Flavio Gastaldi, Andrea Giaccone e Alessandro Giglio Vigna, che con una accorta regia di incastri possono dormire sonni tranquilli da qui al 25 settembre perché con altissima probabilità torneranno a sedere in parlamento.

Non altrettanto è capitato a Paolo Tiramani, forse l’escluso più eccellente, che in pochi mesi ha perso la fascia di sindaco di Borgosesia e ora lo scranno alla Camera. Per loro volontà o costretti dalle scelte di Molinari non compaiono negli elenchi gli alessandrini Rossana Boldi e Lino Pettazzi e il novarese Marzio Liuni, mentre a sorpresa resta in gioco il senatore Enrico Montani, a cui molti avevano intonato il de profundis dopo che Roberto Calderoli l’aveva sollevato dalla responsabilità organizzativa del partito: è il lista e, grazie alle pluricandidature di chi lo precede potrebbe pure farcela.

In Piemonte, per la campagna elettorale, è previsto l’arrivo di Matteo Salvini in due occasioni: la prima dovrebbe essere il 31 agosto in uno dei territori della Circoscrizione Piemonte 2, la seconda il 20 settembre a Torino. “Per la scelta dei candidati – spiega Molinari – abbiamo cercato, come abbiamo sempre fatto nella storia della Lega, di utilizzare il criterio territoriale dando rappresentanza ad ogni provincia. 

Con il taglio dei parlamentari è stato necessario fare delle scelte anche dolorose e purtroppo ci sono nostri parlamentari che sono rimasti esclusi, ma ogni provincia avrà un candidato e nelle posizioni di primo piano ci sono tutti parlamentari uscenti”. O quasi.

Ecco le liste. Camera, collegio Torino Elena Maccanti (ex assessore regionale, consigliera comunale di Torino e deputato uscente), Flavio Gastaldi (deputato uscente di Cuneo), Roberta Ferrero (senatrice uscente eletta nel 2018 nel collegio di Torino Collegno), in quello della Provincia di Torino arriva dalla Lombardia a guidare la lista la cremonese Silvana Comaroli (presente anche nell’uninominale di Cremona e in altri plurinominali) che precede Alessandro Benvenuto, quindi Astrid Sento storica militante del Canavese e vice segretaria organizzativa piemontese, a chiudere Carmelo Bruno di Poirino.

Nel Piemonte 2 apre le due liste dei rispettivi collegi Riccardo Molinari. In quello di Alessandria Asti e Cuneo seconda il lista è l’ex azzurra passata un anno fa nella Lega Laura Ravetto che si candida anche a Legnano e quindi dovrebbe lasciare il posto al terzo che è l’astiigiano Andrea Giaccone, A chiudere l’assesssore comunale di Casale Monferrato Gigliola Fracchia. Nel collegio di Vercelli, Novara, Biella e Vco, dopo Molinari c’è Elena Maccanti, candidata anche a Torino e quindi utile in quella posizione per aprore la strada del Parlamento all’uscente (e dato fino a ieri in forse) Enrico Montani, poi la deputata uscente Cristina Patelli. 

Per quanto riguarda il Senato capolista a Torino è l’uscente Marzia Casolati (quella che incassò il bonus Covid per la sua gioielleria), seguita da Cesare Pianasso, Denise Burdet di Pinerolo e Roberto Pilone di San Mauro. Nel Piemonte 2, come annunciato il capolista è il ministro Massimo Garavaglia, dopo di lui ancora la Casolati, Eraldo Botta ex sindaco di Varallo e presidente della Provincia di Vercelli e Giovanna Quaglia, astigiana già assessore regionale con Roberto Cota. 

Francesco Moscatelli e Francesco Olivo per “la Stampa” il 23 agosto 2022.

Chi c'è c'è. Chi non c'è speri in un incarico di sottogoverno oppure se ne faccia una ragione. Dopo settimane di vertici più o meno segreti fra spiagge della Versilia, camere d'albergo romane e ville sarde, anche Lega e Forza Italia hanno messo la parola fine all'elenco di aspiranti deputati e senatori per la prossima legislatura. 

E, come d'uso quando le decisioni sono sofferte, lo hanno comunicato all'ultimo istante. I numeri, del resto, sono implacabili: la Lega potrebbe passare da oltre 190 parlamentari a 70-75, Forza Italia da circa 150 a meno della metà.

I nomi, dunque. Silvio Berlusconi rivendica la scelta di puntare su Rita Dalla Chiesa, «uno dei volti più amati della televisione, che è anche un nome simbolo della lotta alla mafia e del servizio alle istituzioni, per le quali suo padre diede la vita». 

L'ex presentatrice di Forum, che rinuncerà al Grande Fratello Vip per diventare parlamentare, è schierata in un collegio in Puglia e nel plurinominale. Il Cavaliere si prepara al gran ritorno al Senato ed è capolista in Piemonte, Lazio, Campania e in Brianza. Schierata in Lombardia pure la sua compagna Marta Fascina alla Camera, mentre i suoi fedelissimi Antonio Tajani e Licia Ronzulli si dividono il Lazio e la Lombardia.

I due coordinatori di Forza Italia (nazionale e lombardo) sapevano che quello delle liste sarebbe stato un passaggio doloroso, ma i nomi degli esclusi sono tali da non poter destare allarme. Nel prossimo Parlamento non ci sarà Andrea Ruggieri, deputato uscente spesso ospite dei talk show, il quale non ha gradito, non solo l'esclusione ma la modalità: «Sono stato leale, molto leale, fino all'ultimo secondo al presidente Berlusconi, e alla bandiera di Forza Italia - scrive su un post -. Sia chiaro: non ho rifiutato proprio nulla. Le uniche offerte che ho rifiutato sono state quelle di altri partiti».

Molto critica anche Renata Polverini, «mi hanno offerto una candidatura di pura testimonianza - dice - ho rifiutato perché ho una dignità da difendere e quella della Regione che ho governato». Fuori anche Simone Baldelli, vicepresidente della Camera, a lungo delegato d'Aula del gruppo azzurro. Potrebbe non farcela nemmeno Sestino Giacomoni, lettiano, storico collaboratore di Berlusconi. Molto in bilico anche Valentino Valentini «ambasciatore» del Cavaliere, dirottato in posizione assai complicata in Emilia. Fuori il leader dei giovani azzurri Marco Bestetti.

Anche il partito guidato da Matteo Salvini ha completato il puzzle delle candidature con una selezione molto accurata di parlamentari uscenti e con alcune new entry provenienti dalla società civile. Tra i capilista della prima categoria schierati alla Camera ci sono, tra gli altri, Laura Ravetto (Milano), il coordinatore lombardo Fabrizio Cecchetti (Brianza), Alberto Stefani (Padova-Rovigo) e Gian Lorenzo Fontana (Verona). 

Confermati, oltre al ministro Giancarlo Giorgetti che sarà candidato all'uninominale «a Sondrio, dove va in vacanza», anche i super big Umberto Bossi a Varese, sempre per Montecitorio, e Roberto Calderoli in Senato a Bergamo. Via libera anche alla «squadra economica» con il «No euro» Claudio Borghi (capolista per Palazzo Madama in Toscana) e Giulio Centemero (primo in lista a Bergamo per la Camera).

È costretto a un inedito «salto del Ticino», invece, il ministro uscente Massimo Garavaglia, che sarà capolista per il Senato nel collegio Piemonte 2 anziché in Lombardia. Tra gli «esterni» - oltre ai già annunciati Antonio Angelucci (imprenditore della sanità ed editore di Libero), Giuseppe Valditara (docente universitario) e Luigi Mastrangelo (ex pallavolista) - i volti nuovi sono quelli di Salvatore Di Mattina (imprenditore balneare) e Antonio Fellone (sindacalista della polizia penitenziaria).

Confermata anche la presenza di Andrea Paganella, mantovano, socio, nonché compagno di liceo, del creatore della «Bestia» social salviniana Luca Morisi, da tempo una delle voci più ascoltate da Salvini: sarà candidato nel Lazio al Senato. Mentre ha detto no a Roma e alla Lega l'ex presidente della Sicilia Raffaele Lombardo, che preferisce continuare a fare politica nella sua isola. Ma la cosa forse più interessante, che si capirà quando sarà chiaro a chi sono stati assegnati i secondi e terzi posti dei listini, è quanto Salvini sia riuscito a «salvinizzare» ancora di più la Lega. 

«Molti lo criticano perché si è levato di torno chi remava contro e magari non aveva neppure i voti - ragiona un esponente lombardo del partito -. La verità è che il segretario ha mostrato i muscoli dimostrando che i suoi ipotetici avversari non hanno mai toccato davvero palla». Il riferimento, neanche troppo velato, è a Giancarlo Giorgetti e al governatore veneto Luca Zaia. 

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 23 agosto 2022.  

Sarebbe bello ascoltare, almeno una volta, la voce dell'onorevole Marta Fascina, quasi moglie del presidente Berlusconi, che ieri è stata candidata a Marsala, collegio strasicuro - e ci mancherebbe altro! Sarebbe bello poterla sentire, e non lo si dice qui per fissazione gossipivora, schizzinosa ironia o colpevole sessismo; ma per pura curiosità vieppiù alimentata da un aspetto a suo modo ieratico che rende il soggetto pressoché unico in questa nostra politica chiacchierona assai.

Fatto sta che Fascìna (pare che l'accento caschi sulla seconda) non parla, nemmeno in playback o col gobbo, per cui s' immagina che la curiosità sia condivisa dagli elettori di Marsala, molti dei quali certo convinti che le elezioni servirebbero a indicare persone in grado di risolvere problemi collettivi - ma è inutile fare le anime belle, perché non è più così.

E a questo punto tocca ricordare, anche se non è simpatico, che proprio il lungo ciclo di potere berlusconiano ha introdotto o forse, meglio, ha ripristinato segni, simboli, linguaggi, in definitiva un sistema di comando che ha più a che fare con la monarchia che con qualsiasi statuto repubblicano. Per cui il re dispone, i sudditi eseguono, i collegi blindati e il titolo di parlamentare corrispondono alle investiture di un tempo molto lontano cui parecchi, in tutti i partiti per la verità, si sono ben adattati. 

Non è qui il caso di ricordare la vasta casistica di cortigiani per gentile concessione del Signore di Arcore promossi alla Camera, al Senato, nelle regioni o a Strasburgo; né è opportuno soffermarsi sulla particolare predilezione del sovrano nei confronti di giovani donne la cui vita, come in una fiaba, è di colpo mutata grazie a un incontro e a un lampo di chimica con Silvione. Consolatorio, semmai, è che alcune di queste creature erano intelligenti e capaci, tanto da venire oggi indicate come modelli di progresso, emancipazione, differenza e quant' altro va nel senso di un superamento del patriarcato (amen).

Ma Fascina, che da favorita cinque mesi fa è divenuta quasi regina, seguita a non parlare. Sì, certo, qualche tweet, qualche post, di recente uno abbastanza crudele contro il povero Brunetta, ma tutto scritto. La si è vista mano nella mano con l'anziano leader (circa mezzo secolo di differenza), c'è scappato pure un video con un bacio (nel sonoro, se non è un fake, si sente la voce di Cipollino Boldi che schiamazza «la lingua! La lingua!»).

Ma la voce mai; come se questo suo silenzio rispondesse a una prerogativa di status, magari travestita da strategia comunicativa volta ad aumentarne il fascino, il mistero, il potere. Pochissimo, in un mondo ultra pettegolo si continua a sapere di lei. Calabrese, vissuta in Campania, laurea in filosofia, proveniente, via Galliani, dall'universo del Milan. Eletta, adesso, in Sicilia. 

Con scrupolo degno di miglior causa si è cercato qualche precedente di regina silenziosa, ritrovando una celebre pittura di Raffaello, "la Muta", che forse ritrae Giovanna da Feltre, figlia di Federico da Montefeltro, sguardo indecifrabile e labbra sigillate. Ma poi, spulciando la pagina Fascina su Instagram, si vedono un paio di cani che giocano con il sottofondo I will always love you di Whitney Houston, due pizze napoletane con su scritto "Silvio" e "Marta" e uno striscione-omaggio "Marta sei nel cuore di Napoli" - forse a Marsala ci resteranno un po' male.

Chiarelli e Giovanni Gugliotti: i due “trombati” pugliesi dalla politica nazionale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Agosto 2022

Gianfranco Chiarelli è un avvocato di Martina Franca, che alle elezioni regionali in Puglia del 2005 venne eletto consigliere in provincia di Taranto nelle liste de La Puglia Prima di Tutto movimento politico di Raffaele Fitto, a quei tempi affiliato a Forza Italia. Quattro anni dopo, nel 2009, aderisce al Popolo della Libertà. Alle successive regionali del 2010 venne rieletto consigliere nelle liste del Popolo della Libertà conquistando 13.300 preferenze in provincia di Taranto.

Successivamente nelle elezioni politiche del 2013 si candidò alla Camera dei Deputati, nella circoscrizione Puglia, sempre nelle liste del Popolo della Libertà (in ottava posizione), venendo eletto deputato della XVII Legislatura. Nel novembre 2013, con la fine delle attività politiche del Popolo della Libertà, aderisce a Forza Italia. A maggio 2015, in disaccordo con le scelte politiche di Silvio Berlusconi, abbandona Forza Italia per aderire a Conservatori e Riformisti movimento fondato da Raffaele Fitto. A novembre del 2015, assieme agli altri deputati passa al Gruppo misto, aderendo alla componente “Conservatori e Riformisti“. 

Alle elezioni politiche del 2018 Chiarelli si è ricandidato alla Camera dei Deputati, nel collegio uninominale di Martina Franca sostenuto dalla coalizione di centro-destra (in quota “Noi con l’Italia“) non venendo rieletto. Due anni dopo, in occasione delle Europee, fa il “doppio gioco” dichiarando pubblicamente di sostenere la candidatura alle Europee di Raffaele Fitto ( Fratelli d’ Italia), mentre nel frattempo aveva fatto entrare i due suoi più diretti collaboratori, Giacomo Conserva e Pino Pulito, nella Lega a Martina Franca, per farne ingresso lui stesso successivamente ufficialmente all’indomani del successo leghista alle elezioni europee 2019, nella speranza di poter ottenere un posto nel listino “bloccato” del Carroccio alle prossime elezioni Politiche.

Speranza vana in quanto nonostante una “letterina” alla segreteria nazionale della Lega firmata dalla sua nota “compagnia di giro” che lo segue nei vari passaggi di partito, è rimasto appiedato ed incredibilmente vede candidato al suo posto, un suo ex-pupillo, Giacomo Conserva, che aveva sostenuto elettoralmente alle ultime elezioni regionali 2020, il quale subito dopo la sua elezione nel Consiglio Regionale della Puglia, subentrando come primo dei non eletti al posto di Raffaele Fitto (Fratelli d’ Italia) ha “tradito” Chiarelli passando sotto l’ala protettiva del segretario regionale della Lega pugliese Roberto Marti. Ed è stato “premiato” con la candidatura alla Camera, mentre Chiarelli ormai può essere considerato un “rottamato” dalla politica, e può tranquillamente rimuovere quella placca ridicola “Camera dei Deputati” che mostra sul parabrezza della sua nuova AUDI. 

L’altro “trombato” dalla politica è Giovanni Gugliotti, ormai “ex-tutto”. Ex sindaco di Castellaneta (in provincia di Taranto), ex presidente della Provincia di Taranto (da cui è decaduto), ed ormai ex-aspirante candidato al Parlamento, che era il suo punto di arrivo, come lui stesso dichiarava ai suoi compaesani nelle registrazioni che ha depositato nella sua farneticante denuncia sul video-ricatto sessuale. A nulla è servito il suo tentativo di avvicinamento alla Lega, sostenuto dalla solita “sponsorizzazione” del suo amico-mentore Antonio Albanese, titolare della CISA spa di Massafra, e del sostegno mediatico del quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” che a questo punto si potrebbe trasformare in “La Mazzetta del Mezzogiorno” (come titolò anni fa il quotidiano La Repubblica) o “la Gazzetta di Massafra“. Indovinate chi era il giornalista… che indicava Gugliotti come autorevole candidato della Lega !

Gugliotti sarebbe attualmente indagato dalle Procure di Taranto e di Lecce a seguito delle azioni legali avviate nei suoi confronti da una sua ex-amante. Altro piccolo particolare imbarazzante è l’imminente figuraccia che farà, quando la Procura di Taranto gli notificherà a breve la prevedibile richiesta di archiviazione della sua denuncia, in quanto il “fantomatico” video sessuale non è stato mai rinvenuto dagli investigatori della Questura di Taranto, a seguito delle ultrarapide (tanto “miracolose” quanto inutili !) perquisizioni disposte dal procuratore aggiunto di Taranto Maurizio Carbone.

Adesso a Gugliotti toccherà tornare a lavorare dietro qualche scrivania dell’ INPS di Taranto di cui è dipendente. Era anche ora !

Redazione CdG 1947

La spazzatura ed i saltimbanco candidati a Taranto: di tutto e di più…! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Agosto 2022 

Da Gugliotti a Di Lena, da Cassano a Stellato: tutti i saltimbanco della politica pugliese, trombati e candidati.

Nei giorni scorsi il solito giornalista agli “ordini” del proprio co-editore Antonio Albanese (condannato)da Massafra, pubblicava una “non-notizia“, o “fakenews” come è di moda oggi definirle in relazione alla candidatura nella Lega a Taranto di un politicante di campagna, ex-vigile urbano, portaborse e successivamente sindaco per 10 anni a Castellaneta, molto “caro” al co-editore massafrese della Gazzetta del Mezzogiorno. Con tanto di fotografia, raccontando che sulla scrivania di Matteo Salvini erano arrivate delle lamentele sulla composizione della lista da parte del coordinatore regionale Roberto Marti, lasciando presagire un ballottaggio fra tale Giovanni Gugliotti da Gioia del Colle, emigrato in quel di Castellaneta dove per 10 anni ha fatto con danni irreparabili il sindaco, e Rossano Sasso, leghista della prima ora, sottosegretario di Stato del Governo Draghi. Risultato: Sasso regolarmente candidato, e Gugliotti a spasso, senza un partito ed una candidatura. Della serie “trombato & abbandonato“. Anche perchè non è la prima volta cerca di infiltrarsi nella Lega, andando a bussare alle porte “romane” portando in dote la solita generosità finanziaria-elettorale di un imprenditore, il quale però ha una caratteristica: quando sostiene un candidato puntualmente non viene eletto. E così è accaduto con l’ex-sindaco di Castellaneta “Gugliotto” come ormai tutti lo chiamano.

Da Matteo Salvini a Matteo Renzi, senza problemi…

Ma le follie elettorali nella composizione delle liste dei candidati non finiscono mai. Infatti come raccontano gli storici, “se Atene piange, Sparta non ride”. Anche dalle parti di Italia Viva, il partito di Matteo Renzi e Teresa Bellanova si ride poco, contribuendo allo squallore nel collegio di Taranto, dove hanno candidato Angelo Di Lena , consigliere uscente del Comune di Pulsano (provincia di Taranto) – commissariato dalla scorsa primavera, in seguito alle dimissioni del sindaco Francesco Lupoli e dell’assessore Luigi Laterza, esponenti della Lega, entrambi indagati dalla Procura della repubblica di Taranto.

Anche Di Lena nel settembre 2019 aveva aderito alla Lega, giustificando la sua scelta: “un partito che ha saputo modernizzarsi” – scriveva sulla sua pagina Facebook – sostenendo che fosse “innegabile che Salvini come ministro degli Interni ha fatto bene, cambiando per quanto possibile le cose, riportando ordine e legalità nelle strade, ridando all’Italia la dignità persa da tempo senza inginocchiarsi alla oligarchia europea“. Aggiungendo: “Prima gli italiani“, sostenendo che l’Italia è “ormai da tempo precipitata in una crisi profonda, completamente asservita all’Europa e alle sue volontà economiche grazie a Renzi e Gentiloni“

Di Lena però nella Lega ci è rimasto poco, infatti nel maggio 2020 quando l’Italia era colpita dalla prima ondata di Covid-19, si allontanava dal partito di Matteo Salvini, perché “non più in sintonia con il mio modo di fare politica“. In realtà era stato messo in un angolo dalla dirigenza provinciale jonica. Dopo solo tre mesi, a settembre 2020 in occasione delle elezioni regionali in Puglia, Di Lena si candida nella lista a sostegno Ivan Scalfarotto, sostenendo di essere stato il più suffragato di tutti i candidati dei collegi della Puglia. Un’altra “fake news” in quanto la più suffragata in assoluto in realtà è Nunzia Cinone, candidata a Bari. 

Trascorrono altri mesi e Di Lena continua a pubblicare commenti a dire poco equivoci sul Covid-19, salvo precisare di essersi vaccinato tre volte: “Non entro nelle polemiche quotidiane vaccino sì o vaccino no – scriveva lo scorso 31 dicembre 2021 – Chi vi scrive si è fatto tre vaccini, ma questo non fa di me un saggio e chi non si è vaccinato un folle. Quello che sta gettando nel caos l’intera popolazione mondiale è l’incertezza, il dire e non dire“.

A fine gennaio 2022 Di Lena aderisce ufficialmente a Italia Viva, così motivando la sua nuova scelta di campo: “progetto del quale condivido le idee in questo momento storico in cui la politica non offre più punti di riferimento precisi per il cittadino“. Si mette a studiare da politico e si iscrive ad una scuola politica online organizzata da Italia Viva Lombardia, per prepararsi a diventare un “amministratore del futuro”. Adesso è arrivata la candidatura per Azione-Italia Viva: “Qui sono nato e per questo territorio continuerò a lottare”, commenta il consigliere comunale pulsanese uscente, che lo scorso 2 giugno dedicava un post alla festa della Repubblica ricordando che “i valori della costituzione purtroppo sono stati dimenticati in questi mesi di pandemia da molti amministratori locali, sindacati, dirigenti scolastici, che anziché far riflettere la gente sull’abuso di decreti si sono trasformati in semplici burocrati, facendo rispettare in maniera asettica con scrupolo le direttive e le disposizioni del governo“.

Ma il peggio di Di Lena erano queste sue affermazioni: “Le persone che sono purtroppo decedute per questa combinazione di spazzatura metabolica e a causa di questa strage di Stato vengono inoltre usate in maniera strumentale dal governo e dagli organi di propaganda tutti allineati – aggiungeva il politicante di paese – spaventati e agli ordini di questo terrorismo sanitario“

Massimiliano Stellato, 49 anni originario di Capua, Infermiere-sottufficiale presso la Marina Militare, attualmente in aspettativa, fece il suo esordio in politica a Taranto entrando in consiglio comunale nelle liste del PD, mettendosi in mostra nel 2018 con una ridicola e patetica manifestazione nelle vie del centro di Taranto, con una ventina di sostenitori, indossando i gilet gialli, scimmiottando il movimento di protesta francese. 

Successivamente Stellato la lasciato il PD aderendo al movimento pugliese “Puglia Popolare” fondato e guidato dall’ ex- senatore e sottosegretario berlusconiano Massimo Cassano, direttore generale dell’ ARPAL Puglia (l’Agenzia regionale per le politiche attive del lavoro), legato a Michele Emiliano, sino a qualche ore fa prima di saltare fra le braccia di Carlo Calenda, con la “garanzia” di Mara Carfagna. Immediate le reazioni in seno alla maggioranza consiliare nella Regione Puglia dove è stato convocato un Consiglio regionale urgente per far decadere il direttore generale di Arpal Puglia , Massimo Cassano. La presidente del Consiglio regionale, Loredana Capone, ha scritto al governatore Michele Emiliano e ai capigruppo per chiedere l’indicazione di una data utile per convocare i consiglieri e discutere della riforma dell’assetto societario di Arpal, che azzeri l’attuale carica di direttore generale e preveda nuove figure di vertice. La Capone ha raccolto immediatamente la richiesta di convocazione del consiglio regionale presentata dai consiglieri pd Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea con Antonio Tutolo (Gruppo misto).

Era solo il 18 novembre 2021 quando l’ufficio stampa del Consiglio Regionale della Puglia, diffondeva una nota di Stellato: “Le questioni politiche di Taranto vanno tenute distinte dalle dinamiche, per fortuna ben collaudate, del Consiglio regionale. Con il presidente della Regione e con la maggioranza che lo sostiene in Consiglio regionale, tanto io quanto il Gruppo dei Popolari che mi onoro di presiedere, il rapporto è da sempre leale, franco e collaborativo. E continuerà ad essere tale, senza se e senza ma“.

Una dichiarazione conseguente alla firma di Stellato davanti ad un notaio barese molti vicino a Gugliotti, di dimissioni dal consiglio comunale insieme ad altri 16 consiglieri del Comune di Taranto, congiurati contro il sindaco Rinaldo Melucci, per candidare a sindaco del capoluogo jonico l’ex-segretario provinciale del PD di Taranto Walter Musillo sotto l’ala protettiva del centrodestra (Forza Italia, Lega, Fratelli d’ Italia). Un’operazione suicida elettoralmente parlando che ha visto rieleggere Melucci con il 55% dei voti contro il misero 35% di Musillo.

Adesso Stellato ha seguito Cassano, saltando sul “carro” elettorale di Azione-Italia Viva, smentendo se stesso e rimangiandosi alcune dichiarazioni pubblicate sulla sua pagina Facebook sulla vicenda ILVA diametralmente opposte alle note posizioni espresse da Carlo Calenda e Matteo Renzi, salvo poi rimuoverle (tardivamente !) dal socialnetwork. 

Da Azione giustificano il fatto che non potevano controllare i trascorsi dei 600 candidati. Ma una cosa è certa: Stellato avrà vita difficile in campagna elettorale. La gente perdona tutto e tutti, ma non ama i “saltimbanco”, e fra una settimana saranno in molti a capirlo. Qualcuno potrebbe spiegarlo anche a Mara Carfagna: il suo attuale compagno Alessandro Ruben, che si candidò per Futuro e Libertà (Gianfranco Fini) nella Lista Monti a Taranto nel 2013, conquistando l’ 0.1% dei voti….Redazione CdG 1947

Clemente Pistilli per repubblica.it il 24 agosto 2022.

Più che tirare il Carroccio, caricandolo di voti, Antonio Angelucci sembra essercisi accomodato sopra per farsi trasportare nuovamente in Parlamento, dove non mette quasi mai piede ma dove ha un seggio garantito da 14 anni. L’ex portantino dell’ospedale San Camillo di Roma, diventato poi imprenditore della sanità, editore e immobiliarista, dopo tre legislature con Forza Italia è stato candidato nel plurinominale dalla Lega, al primo posto sia in Lazio 1 che in Lazio 2.

Un posto sostanzialmente blindato, su cui a quanto pare non hanno potuto proferire verbo gli esponenti regionali del partito e su cui ha deciso in autonomia Matteo Salvini. I rapporti tra il ras delle cliniche e Denis Verdini sono annosi e sarebbe bastata al “Capitano”, fidanzato con Francesca Verdini, una parola del “suocero” per assicurare altri cinque anni da parlamentare al 77enne di Sante Marie. 

Angelucci da parlamentare ha un record: quello dell’assenteismo. Nella scorsa legislatura si è presentato solo al 3,2% delle sedute a Montecitorio. Non si ricordano suoi particolari interventi in aula. Non presenta atti di sindacato ispettivo e, fatta eccezione per una proposta di legge sull’ippoterapia, non sembra particolarmente interessato neppure al fronte legislativo.

In quattordici anni nel Lazio sicuramente non è stato uno dei portatori di voti per Forza Italia e non si ha memoria di un suo improvviso impegno per quella Lega che da partito del Nord ambisce, o forse ambiva, a diventare il primo partito di centrodestra a livello nazionale. Ma per Salvini ora come per Silvio Berlusconi prima tutto questo non conta e il seggio per Angelucci, editore dei quotidiani Libero e Il Tempo, è garantito. 

Il parlamentare è imputato per tentata corruzione, relativamente a una mazzetta da 250mila euro che nel 2017 avrebbe offerto all’assessore regionale alla sanità Alessio D’Amato, per ottenere il via libera al pagamento dei crediti alla clinica San Raffaele Velletri, alla quale la Regione aveva già revocato l’accreditamento. Sempre per quella clinica è stato processato e poi assolto dall’accusa di una maxi truffa al sistema sanitario.

L’onorevole è stato inoltre condannato in primo grado a un anno e quattro mesi per falso e tentata truffa, relativamente ai finanziamenti pubblici ricevuti nel 2006 e nel 2007 da Libero e dal Riformista, ed è infine in corso una delicata indagine sui tanti morti, durante la prima ondata del Covid, al San Raffaele di Rocca di Papa.

Nel 2011 Angelucci concesse un prestito milionario a Denis Verdini, in difficoltà per i debiti contratti con il Credito Fiorentino. L’ex uomo forte del centrodestra in Toscana sarebbe stato inoltre l’artefice dell’incontro a Montecitorio tra l’onorevole imprenditore e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, per discutere di sanità. Tra una cena da PaStation e una colazione al bar Ciampini, i rapporti tra Angelucci e Verdini sarebbero stati sempre intensi e avrebbero pesato nella candidatura.

Il leghista Angelucci e quei 190 milioni in Lussemburgo. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 17 settembre 2022

Antonio Angelucci, detto Tonino, è uno degli editori più influenti d’Italia. Abruzzese, ex portantino all’ospedale San Camillo di Roma, il proprietario di Libero, Il Tempo e il Corriere dell’Umbria ha costruito nei decenni un colosso della sanità privata.

Matteo Salvini lo ha accolto a braccia aperte candidandolo in un collegio blindato nel Lazio: un editore di peso come Angelucci in parlamento fa sempre comodo. Nonostante l’imprenditore della sanità sia finito in un numero difficilmente calcolabile di inchieste giudiziarie (per la cronaca, nessuna sentenza di condanna è finora stata emessa dalla Cassazione) e soprattutto non sia esattamente il prototipo del parlamentare modello: nella classifica delle presenze, è al 629esimo posto su 630 (fa peggio solo Michela Vittoria Brambilla, candidata in Forza Italia) con una percentuale di presenza al lavoro pari al tre per cento.

Quello che nessuno sa, però, è che Angelucci è stato anche un recordman assoluto di capitali detenuti all’estero. Domani è infatti riuscito a ottenere un recentissimo documento dell’Uif, l’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia, che segnala come il futuro deputato leghista abbia aperto anni fa tre polizze assicurative presso la Swiss Life Luxemburg SA, per una valorizzazione complessiva (a data giugno 2022) di 190 milioni di euro. Il più rilevante dei prodotti finanziari (per un valore di 189,7 milioni) ha come unico asset al proprio interno la partecipazione nella società chiamata Spa di Lantigos Sca, un’altra holding lussemburghese creata dal politico-imprenditore nel 1999 a cui fanno capo proprio le cliniche italiane.

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Corruzione, udienza rinviata, il senatore (e candidato) Angelucci è quasi salvo: il ritorno del legittimo impedimento. Andrea Ossino su La Repubblica il 9 Settembre 2022.  

Nel 2017 secondo i pm avrebbe tentato di corrompere Alessio D'Amato promettendo 250mila euro nella speranza di far riconoscere i crediti vantati nei confronti della Regione alla clinica San Raffaele di Velletri

Un avvocato deve affrontare un intervento chirurgico, un altro è malato e non può essere sostituito. Così l'udienza preliminare a carico dell'onorevole Antonio Angelucci e di altri due indagati è stata rinviata al prossimo 7 dicembre. Dunque, nonostante la richiesta di rinvio a giudizio sia stata formulata il 17 novembre 2020, si potrà sapere solo dopo le elezioni se il giudice ritiene che le accuse a carico del re delle cliniche romane dovranno essere o meno sottoposte al giudizio del tribunale.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 9 settembre 2022.

Il rinvio dell'udienza che avrebbe potuto mandare a giudizio Antonio Angelucci per una vicenda di presunta tentata corruzione riaccende l'attenzione sul 77enne imprenditore e parlamentare di lungo corso con tre legislature in Forza Italia e ora capolista nel Lazio con un seggio sicuro nello schieramento della Lega. 

Angelucci - a capo di un impero di 25 cliniche private ed editore dei quotidiani Libero e Il Tempo (e prima ancora de Il Riformista in una gestione finita col fallimento) - è indagato dal 2017 in seguito alla denuncia dell'assessore regionale alla sanità del Lazio e all'epoca dirigente, che rifiutò l'offerta (ma i modi sarebbero stati più da acquirente che richiedente) di 250mila euro (50mila cash) in cambio del riconoscimento di crediti che una delle cliniche di famiglia, il «San Raffaele Velletri», sosteneva di vantare verso la Regione Lazio e che lo stesso D'Amato aveva sospeso per «gravi irregolarità», tra cui la distrazione dei fondi e la presenza di dipendenti fittizi. 

 L'assenza per ragioni di salute dell'avvocato di uno dei coimputati - Salvatore Ladaga, coordinatore di Forza Italia nel Lazio (e padre della compagna di uno dei fratelli Bianchi, quelli dell'omicidio di WIlly Monteiro Duarte) - ha fatto slittare l'udienza, come riportato da Repubblica, a dicembre, dunque ad elezioni avvenute, seggio in parlamento verosimilmente guadagnato e immunità a metterlo a riparo dal processo. 

Il fatto che Angelucci venga ad ogni tornata elettorale inserito tra primi nomi della lista dei cosiddetti «impresentabili» per pendenze giudiziarie o precedenti penali non sembra però aver condizionato la sua carriera politica, esercitata peraltro in parlamento in modo molto sporadico.

Angelucci ha sulle spalle una condanna ad un anno e 4 mesi di reclusione per falso e tentata truffa nell'ambito di un processo legato ai contributi pubblici percepiti dalle sue società tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani Libero e Il Riformista (nel giugno 2013 i finanzieri del Nucleo Speciale per l'Editoria sequestrarono all'imprenditore 20 milioni di euro), ha una richiesta di processo per associazione a delinquere finalizzata alle omesse dichiarazione al fisco ancorata a società lussemburghesi create, secondo i pm, con questo precipuo scopo (una richiesta di arresto nei suoi confronti era stata rigettata dal gip) e molte ombre sulla commistione tra la sua Fondazione San Raffaele (che nello statuto non ha fini di lucro) e i finanziamenti ai giornali di sua proprietà che avrebbero per questa via ricevuto 5 milioni.

Tornando alla tentata corruzione, dietro il gesto plateale denunciato da D'Amato («Ha strappato un foglio di carta e ha detto che me l'avrebbe fatta pagare»), gli inquirenti sono certi di aver individuato un «sistema Angelucci», ossia «una fitta rete relazionale a carattere trasversale» in grado di «esercitare pressioni su antagonisti amplificate dalle testate giornalistiche riferibili al Gruppo San Raffaele». A questo sistema parteciperebbero ex compagni di schieramento politico, intervenuti anche in questa specifica vicenda.

EMILIANO FITTIPALDI per editorialedomani.it il 17 settembre 2022.

Antonio Angelucci, detto Tonino, è uno degli editori più influenti d’Italia. Abruzzese, ex portantino all’ospedale San Camillo di Roma, il proprietario di Libero, Il Tempo e il Corriere dell’Umbria ha costruito nei decenni un colosso della sanità privata. 

Matteo Salvini lo ha accolto a braccia aperte candidandolo in un collegio blindato nel Lazio: un editore di peso come Angelucci in parlamento fa sempre comodo. Nonostante l’imprenditore della sanità sia finito in un numero difficilmente calcolabile di inchieste giudiziarie (per la cronaca, nessuna sentenza di condanna è finora stata emessa dalla Cassazione) e soprattutto non sia esattamente il prototipo del parlamentare modello: nella classifica delle presenze, è al 629esimo posto su 630 (fa peggio solo Michela Vittoria Brambilla, candidata in Forza Italia) con una percentuale di presenza al lavoro pari al tre per cento.

Quello che nessuno sa, però, è che Angelucci è stato anche un recordman assoluto di capitali detenuti all’estero. Domani è infatti riuscito a ottenere un recentissimo documento dell’Uif, l’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia, che segnala come il futuro deputato leghista abbia aperto anni fa tre polizze assicurative presso la Swiss Life Luxemburg SA, per una valorizzazione complessiva (a data giugno 2022) di 190 milioni di euro. Il più rilevante dei prodotti finanziari (per un valore di 189,7 milioni) ha come unico asset al proprio interno la partecipazione nella società chiamata Spa di Lantigos Sca, un’altra holding lussemburghese creata dal politico-imprenditore nel 1999 a cui fanno capo proprio le cliniche italiane. 

Antonio Angelucci, detto Tonino, è uno degli editori più influenti d’Italia. Abruzzese, ex portantino all’ospedale San Camillo di Roma, il proprietario di Libero, Il Tempo e il Corriere dell’Umbria ha costruito nei decenni un colosso della sanità privata. 

Ventuno cliniche e case di cura in tutta Italia controllate dalla holding Tosinvest. Le cui azioni, è noto, sono detenute da alcune società lussemburghesi.

«Investire dovrebbe essere come guardare la vernice che si asciuga o l’erba che cresce. Se volete invece eccitazione, prendete 800 dollari e andate a Las Vegas», ripeteva l’economista statunitense Paul Samuelson, in un’aforisma che Tonino e suo figlio Giampaolo Angelucci hanno voluto impresso nella presentazione del loro gruppo. Ma in realtà, gli Angelucci sono assai più avventurosi di come li presentano i loro aforismi preferiti. 

Non solo da un punto di vista finanziario, ma anche da uno politico: Tonino, dal 2008 deputato del Pdl e di Forza Italia, quest’anno ha deciso di passare alla Lega. Matteo Salvini lo ha accolto a braccia aperte candidandolo in un collegio blindato nel Lazio: un editore di peso come Angelucci in parlamento fa sempre comodo.

Nonostante l’imprenditore della sanità sia finito in un numero difficilmente calcolabile di inchieste giudiziarie (per la cronaca, nessuna sentenza di condanna è finora stata emessa dalla Cassazione) e soprattutto non sia esattamente il prototipo del parlamentare modello: nella classifica delle presenze, è al 629esimo posto su 630 (fa peggio solo Michela Vittoria Brambilla, candidata in Forza Italia) con una percentuale di presenza al lavoro pari al tre per cento. 

Quello che nessuno sa, però, è che Angelucci è stato anche un recordman assoluto di capitali detenuti all’estero. Domani è infatti riuscito a ottenere un recentissimo documento dell’Uif, l’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia, che segnala come il futuro deputato leghista abbia aperto anni fa tre polizze assicurative presso la Swiss Life Luxemburg SA, per una valorizzazione complessiva (a data giugno 2022) di 190 milioni di euro. Il più rilevante dei prodotti finanziari (per un valore di 189,7 milioni) ha come unico asset al proprio interno la partecipazione nella società chiamata Spa di Lantigos Sca, un’altra holding lussemburghese creata dal politico-imprenditore nel 1999 a cui fanno capo proprio le cliniche italiane. 

Ora, il fisco italiano è venuto a conoscenza di quest’immenso patrimonio detenuto all’estero qualche anno fa, quando nel dicembre del 2009 l’imprenditore ha deciso di approfittare dello scudo fiscale voluto da Tremonti (al tempo ministro dell’Economia e suo compagno di partito nel Pdl, ora candidato con i presunti legalisti di Fratelli d’Italia) per far rientrare e “regolarizzare” i suoi denari detenuti in un paradiso fiscale.

È un fatto che Antonio e il figlio Giampaolo abbiano firmato un mandato fiduciario con l’allora Istifid Spa, oggi Unione Fiduciaria Spa, la società di consulenza a cui si è rivolto anche il governatore della Lombardia Attilio Fontana per far rientrare cinque milioni dalla Svizzera dichiarati eredità della madre dentista. Fontana, per la cronaca, non ha mai riportato quel conto in Italia, continua ad averlo in Svizzera ed è gestito tramite Unione fiduciaria. 

Ma torniamo agli Angelucci: le polizze vita da 190 milioni che controllano la Spa di Lantigos e la gemella Lantigos Sa sono intestate proprio all’Unione, ma l’unico beneficiario è il fondatore del grande gruppo sanitario ed editoriale. 

La struttura societaria è stata creata proprio in concomitanza con lo scudo fiscale del 2009. Come ha segnalato il Sole24Ore, il conferimento delle azioni possedute all’estero in polizze vita intestate a fiduciari «è stato uno degli schemi più utilizzati da chi ha aderito agli scudi fiscali di epoca tremontiana». 

Lo ha fatto anche Tonino, che ha pagato le poche tasse dovute per l’emersione dei capitali e ha chiuso quasi tutti i suoi contenziosi con il fisco italiano nel 2018. 

Finora, però, nessuno conosceva l’enormità del valore della polizza. Né che il mandato con i fiduciari aveva a oggetto il cambio di contraenza delle polizze assicurative: il beneficiario finale doveva passare da Antonio al rampollo Giampaolo.

Leggendo il report dell’antiriciclaggio si capiscono due cose: in primis l’imprenditore non vuole pagare alcuna imposta per il passaggio; in secondo luogo, l’operazione porta di fatto a un cambio nel controllo del gruppo. Dal padre al figlio. «Nel mese di maggio 2022», si legge, «il cliente ha chiesto il riscatto totale della polizza, operazione che sarebbe propedeutica al passaggio della partecipazione all’unico figlio Giampaolo tramite patto di famiglia.

Disponendo che la citata liquidazione sia fatta senza l’applicazione della fiscalità. Il cliente (cioè Antonio, ndr) infatti tramite i suoi consulenti di fiducia sosterrebbe che la polizza sia meramente interposta, e che pertanto non si sarebbero i presupposti impositivi». In pratica, il neoleghista non vuole pagare ulteriori tasse per il passaggio della polizza al rampollo. «La fiduciaria ha rifiutato l’esecuzione dell’operazione così come proposta sa Antonio Angelucci ed è in attesa di eventuali ulteriori determinazioni del cliente stesso».

Abbiamo chiamato l’ufficio stampa del deputato di Matteo Salvini, chiedendo se i capitali del suo gruppo sono stati tutti regolarizzati oppure sono in parte ancora all’estero, se esistono ancora pendenze con l’Agenzia delle entrate, quante tasse alla fine hanno pagato, e nel caso quanto sono riusciti a risparmiare grazie allo scudo.

Come risposta abbiamo ricevuto una lettera dell’avvocato di famiglia: «Mi pare doveroso farle presente che l’onorevole Angelucci e il dottor Giampaolo Angelucci hanno sempre operato nell’assoluto rispetto di quanto previsto dalla normativa italiana ed europea. Per ragioni di riservatezza, non ritengo di dover entrare nello specifico delle questioni. Considerato il tono perentorio utilizzato (nelle domande inviate via email all’ufficio stampa, ndr) non lascia presagire una serena valutazione dei fatti, mio vedo costretto a invitarvi a non pubblicare notizie che possano in qualsiasi modo ledere l’onore e la reputazione dei signori Angelucci e delle loro aziende».

Centrosinistra.

Pd, ma quali progressisti? Dall'energia al lavoro: sono tornati sovietici. Enrico Paoli su Libero Quotidiano il 06 settembre 2022

Appena può Enrico Letta, segretario del Pd in cerca del consenso perduto, parla di lavoro, occupazione, scuola ed energia. Constatando l'inesorabile emorragia nei sondaggi, destinata a trovare conferme nelle urne, il leader dei dem prova ad attaccarsi ai temi storici della sinistra, dai quali aveva preso le distanze, come ammette lui stesso. «Negli anni scorsi abbiamo perso il rapporto col mondo del #lavoro», scrive su Twitter, «il @pdnetwork ha sottovalutato le trasformazioni, la precarietà, la protezione per le persone. Nel nostro programma è tornato al centro: meno tasse sul lavoro, lotta al lavoro nero, basta finti stage». Al di là dei proclami elettorali messi in fila da Letta colpisce, e non poco, quel ricorso al concetto di sottovalutazione, che la dice lunga sullo scollamento del centrosinistra dalla realtà.

Ma non è questo il peggio. In un rigurgito di stalinismo, e non solo di statalismo, c'è chi invoca la nazionalizzazione delle imprese del settore dell'energia. Altro che libero mercato e concorrenza. A lanciare l'idea Monia Monni, assessore della Regione Toscana all'Ambiente, la quale sul proprio profilo Facebook ha illustrato le ragioni della sua proposta, sottolineando l'urgenza della conversione energetica. «Le 3 grandi aziende italiane dell'energia (Enel, Snam ed Eni) tornino ad essere totalmente pubbliche», scrive l'assessore del Pd. Per la Monni, la quale dovrebbe preoccuparsi più di caso Piombino e del dibattito in corso sul rigassificatore (Letta è a favore, come Calenda) l'unica strada per partorire un «poderoso investimento» nelle rinnovabili e arrivare all'autosufficienza e alla sostenibilità. Tipo Stalingrado, insomma. A contestare le logiche della Monni il deputato di Italia Viva, Gabriele Toccafondi, candidato nel collegio uninominale Firenze città metropolitana per il Terzo Polo. Il renziano ha messo in risalto il fatto che la proposta della Monni non fa altro che confermare la vera natura del Partito democratico: «Il Pd ha sposato l'agenda Bertinotti, altro che Draghi». L'esponente di Iv sottolinea come la strada indicata dal Pd «implicherebbe l'uscita dalla borsa di queste tre grandi aziende e un salasso micidiale per le esangui casse dello Stato». Non proprio il massimo, visto i tempi che corrono.

Se Letta sia d'accordo o meno con la deriva stalinista, e statalista, lo scopriremo solo vivendo. Nel frattempo il segretario prova a rispolverare tuta e blu e pugno chiuso, sostenendo come l'attacco della Fiom, secondo la quale il Pd è lontano dalle fabbriche e dai lavoratori, «è una provocazione» da prendere in considerazione. Il leader dei dem, parlando a Festival della Tv di Dogliani, evidenziando come «la campagna elettorale è fatta anche di momenti come questi», ha ribadito di voler dimostrare che «il Pd è il partito del lavoro. Il lavoro sarà la questione sui cui ritorneremo al centro dell'attenzione, anche di quei lavoratori che hanno lasciato il Pd negli anni scorsi». Ai quali Letta ha pure mandato a dire che il Job acts di Matteo Renzi è roba da rottamare.

Pd, addio iniziativa economica privata: il suo modello è il Venezuela. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano l'8 settembre 2022

Non è che provano a farlo di nascosto: lo rivendicano proprio l'ennesimo esperimento di pianificazione venezuelana rivolto all'ulteriore dissuasione dell'iniziativa economica privata. E così, se un'impresa è costretta a smammare di corsa da qui perché perde soldi e vede una prospettiva di tasse bellissime e profitti espropriati, ecco il comunista Orlando, ministro del Lavoro con carriera spianata a Pyongyang, che propone di «costringere le multinazionali a un confronto più serrato, più lungo» (sai quanti ne richiama, di investitori esteri?). Di rincalzo, la versione Erasmus di Rosy Bindi, Debora Serracchiani, che proclama: «Il lavoro si difende così».

Come? Pronti: con un bell'emendamento «per rendere più difficili le localizzazioni», nella noncuranza verso il dettaglio costituzionale secondo cui l'iniziativa economica privata sarebbe libera, il che non pare esattamente garantito quando uno deve fare impresa se, come, dove e fin tanto che lo Stato ne fa la sua concessione ben guarnita di filo spinato, multe e pizzo sindacale. 

L'idea che si tratti di stimolare la produzione, lo sviluppo tecnologico, la libera concorrenza, la competizione di mercato, e che tutto questo non solo non si ottiene, ma è irrimediabilmente pregiudicato, dalle «condizionalità e sanzioni» di cui vagheggiano, non lambisce neppure le cognizioni ossificate di questi pericolosi populisti della giustizia sociale da gabbio latin-declinista, quello che tiene i redditi individuali al livello di trent' anni fa, anzi più basso, e gli operai a godere dei salari più infimi d'Europa grazie a decenni di retorica operaista. E appunto: la rivendicano pure, quella scriteriata perseveranza. 

Voto (e funzione) utile. Il cosiddetto "voto utile" è uno degli argomenti che vengono più utilizzati in campagna elettorale. Augusto Minzolini su Il Giornale il 6 settembre 2022.

Il cosiddetto «voto utile» è uno degli argomenti che vengono più utilizzati in campagna elettorale: l'espressione sta ad indicare il ragionamento con cui si tenta di spiegare all'elettorato, specie quello di opinione, che votare questo o quel partito conta o è del tutto ininfluente ai fini della scelta del governo. In una strana campagna elettorale in cui, per errori nel campo della sinistra, tutti danno per scontata la vittoria del centrodestra di «voti inutili» ce ne sono di diversi tipi. Per l'elettore non militante che senso ha votare Pd, ad esempio, quando lo stesso Enrico Letta contempla come massimo obiettivo non il governo ma quello di diventare partito di maggioranza relativa? Magari, invece, un'utilità la possono trovare i percettori del reddito di cittadinanza ad appoggiare i 5stelle per garantirsi lo stipendio stando in poltrona anche in futuro. E in misura diversa quelli che simpatizzando per il «terzo polo» si illudono che al centrodestra manchi qualche voto in Parlamento per rientrare in gioco: certo visti i sondaggi la loro scommessa equivale a vincere al Superenalotto con una schedina da due euro.

Così, a ben vedere, il «voto utile», cioè il voto che può influenzare profilo, politica e scelte del prossimo governo, ha un senso solo nel campo del centrodestra. Uno schieramento composto anche da forze populiste, sovraniste, con un baricentro sulla carta spostato a destra che sconta, in alcuni suoi soggetti, una certa diffidenza a livello internazionale ed europeo: ad esempio la Meloni aderisce al partito dei conservatori europei e va a braccetto con gli spagnoli di Vox, mentre Salvini si accompagna con la Le Pen. Scelte legittime di partiti che hanno visto naufragare negli anni della pandemia il sogno dell'Italexit ma che mantengono sempre un tasso di euroscetticismo o di tiepido atlantismo. Contenuti che non aiutano i rapporti con le grandi famiglie europee, socialisti e popolari, quelle che davvero contano in Europa, in un momento in cui le scelte importanti - vedi sul gas -si prendono tutte a Bruxelles.

In un quadro del genere ci sono due opzioni che possono caratterizzare il prossimo esecutivo semmai il centrodestra vincesse le elezioni. Chi vuole un governo di destra, con una presenza moderata, di centro di pura testimonianza, animato da un europeismo neofita o poco convinto, può scegliere Fratelli d'Italia o Lega. Chi, invece, preferisce un esecutivo di centrodestra radicato in Europa e nell'alleanza atlantica, in cui ci sia spazio per i valori liberali può prendere in considerazione Forza Italia - magari «turandosi il naso» per citare il fondatore di questo giornale - per renderla determinante nella formazione della maggioranza di governo e in grado di svolgere una funzione di garanzia sul piano della politica economica, nei rapporti con la Nato e con l'Europa. Delle due l'una. Un'alternativa non c'è.

Ora uno può dire ciò che vuole ma la partita delle prossime elezioni si svolge tutta in questo scenario. Se voti a sinistra puoi aiutare Letta a restare in sella al Pd o, invece, disarcionarlo. Se ti fai ammaliare da Conte puoi garantire una legislatura e lo stipendio da parlamentari ad un'altra generazione di 5stelle. Se guardi al terzo Polo puoi dare una prospettiva a Calenda e Renzi ma solo per il futuro. Ma se guardi all'oggi, se devi dare una risposta adesso e non domani alle incognite e alle emergenze del presente devi scegliere tra un governo di destra o di centrodestra. Tertium non datur. E nella seconda opzione c'è il senso del «voto utile» per Forza Italia. E la sua funzione.

All’antifascismo elettorale non ci crede più nessuno. Clemente Sparaco su Cultura identita.it il 7 Settembre 2022

La difficoltà in cui versa la Sinistra nella campagna elettorale per le elezioni in corso suggerisce un intirizzimento ideologico cui fa di riflesso quello che potremmo definire una sclerosi del linguaggio. Da tempo memorabile la sinistra si è insediata in posizioni culturali di vantaggio: presidia Università e scuola, governa giornali, influenza case editrici e condiziona emittenti televisive. Ciò è il portato di una strategia, quella gramsciana della “direzione culturale”, consistente nel perseguire la direzione intellettuale prima del dominio, ossia prima della direzione politica, ma anche di un compromesso, per quanto i democristiani hanno lasciato fare per decenni pur di mantenere il potere. Negli anni questa posizione si è consolidata alimentando il mito della superiorità morale della sinistra, che altro non è se non un risvolto della sua presunta superiorità culturale. E questa condizione è sopravvissuta anche al crollo del mito rivoluzionario, alla fine dell’ideologia, talché i Soloni dell’ideologia post-comunista e libertaria possono ancora oggi ergersi a censori del politically correct.

Tuttavia essa è andata incontro negli anni, come dicevo, ad un irrigidimento, nella misura in cui ha perso sempre più contatto con la base sociale, con quello che in altri termini si dice il “paese reale”, regredito nel linguaggio accreditato a “pancia del Paese”. Di qui viene non solo e tanto l’assenza di progettualità, quanto l’incapacità di rapportarsi alle dinamiche del presente e al “popolo”, su cui hanno invece sempre più presa i “populismi”.

In effetti, di tutto quell’armamentario ideologico oggi resta solo la stretta osservanza della narrazione progressista, dei suoi miti e dei suoi funtori e anche dei suoi perversi oppositori, nella forma di un’anacronistica mitologia manichea. «Ci sarebbero — come scriveva Augusto Del Noce 50 anni fa — due atteggiamenti fondamentali: la volontà di limitare l’avvenire con il passato (che troverebbe la sua conclusione nel fascismo) e la volontà opposta di affermare il primato del futuro sul passato».

In questo quadro, il fascismo è «trasformato in una categoria eterna e in un pericolo permanente», quanto di più avverso al progresso ci possa essere “in nome della tradizione”, una sorta di principio del male, «capace di presentarsi in manifestazioni nuove ed impreviste…».

Questo implica che l’antifascismo non è una “semplice manovra tattica”, ma “una stretta conseguenza” della narrazione progressista, ossia una chiave storiografica esiziale a quella. Il fascismo gioca in quella narrazione un ruolo altrettanto necessario, nella misura in cui è l’antitesi necessaria, l’ingranaggio che muove la dialettica dello scontro, il protagonista negativo senza il quale il protagonista positivo, l’antifascismo, non avrebbe ragione di essere.

Ma l’antifascismo, cementato in un contrasto senza fine e conto da “un avversario che non esiste più” — scriveva sempre Del Noce, non può che «esplicarsi che come fenomeno dissolutivo». «Di qui lo squallore senza pari […] della politica presente»— concludeva.

Elezioni, la sinistra fa di tutto per dividere il Paese: perché non sono "democratici". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 30 agosto 2022

Enrico Letta - forse per la disperazione causata dai sondaggi- ha fatto una scelta controproducente: soffiare sul fuoco della contrapposizione e avvelenare il clima della campagna elettorale, trasformandola in una sorta di tribunale apocalittico del Bene e del Male, come se fosse una guerra civile. Lo si è visto con il manifesto manicheo dove contrappone una metà nera (la destra cattiva) e una metà rossa (il Pd buono), intimando di scegliere tra Putin e l'Europa. Questa contrapposizione metafisica (sommersa dalle battute e dai meme della rete) ha esposto Letta anche all'ironia di Marco Travaglio che gli ha chiesto: «Ma se la destra ti fa così schifo perché continui a rimpiangere il governo» con Lega e Forza Italia? Del resto tutta la campagna elettorale del Pd è basata sulla demonizzazione e punta alla delegittimazione degli avversari, fomentando la divisione del Paese: da una parte il Bene (che ovviamente sarebbe Letta stesso e il Pd) e dall'altra il Male (che sarebbe il centrodestra), da una parte la civiltà (sempre il Pd), dall'altra la barbarie (chi manda il Pd all'opposizione).

IL SENTIRE DEL POPOLO

Questa affannata drammatizzazione del voto è estranea al sentimento degli italiani, perché l'italiano medio non pensa certo di suicidarsi se Fratoianni e Di Maio vanno all'opposizione. Quello che angoscia la nostra gente è tutt' altro e passa dalla questione bollette/energia. Proprio perché le difficoltà sono già tante e per l'autunno si annunciano pesantissime, il Centrodestra sembra voler fare un discorso opposto a quello di Letta. In effetti mai come oggi il Paese ha bisogno di essere unito per affrontare problemi enormi che ci stanno arrivando già addosso. I partiti devono dimostrare serietà, collaborare e dialogare civilmente fra loro per trovare le soluzioni migliori per il Paese. Pare di capire che i leader del Centrodestra, in questi giorni, stiano scegliendo proprio questa linea, non volendo essere trascinati dal Pd in liti da pollaio che sono insopportabili per la gente comune. Probabilmente lo fanno anche perché hanno un grande vantaggio nei sondaggi e non devono rincorrere nessuno. Tale linea costruttiva si nota, per esempio, nella proposta di ieri di Salvini di un «armistizio tra i leader» per chiedere a Draghi di agire subito contro il drammatico aumento del costo del gas. Analogamente la si vede nella scelta di Giorgia Meloni di non sottolineare la situazione disastrosa in cui il governo Draghi ha portato il Paese (il problema del prezzo del gas c'era già prima della guerra in Ucraina, sia per le scelte assurde della Ue, sia per la speculazione, sia per l'aumento della domanda cinese e il nostro esecutivo non ha agito come doveva). La Meloni, invece di puntare il dito, cerca un dialogo con Draghi perché il Paese avrà bisogno della collaborazione di tutti, anzitutto della sua, a livello internazionale. Così fa pure Berlusconi ipotizzando futuri ruoli internazionali per Draghi. Certo, i leader del Centrodestra dovranno guardarsi da chi cerca di avvelenare i rapporti fra di loro e forse devono sopire anche i dissensi veri che i media ogni giorno cercano di amplificare. Ma il senso di responsabilità verso il Paese, in questo momento, dovrebbero averlo tutti. Lo ha dimostrato Draghi, nel suo discorso al Meeting, deludendo chi - come Letta, Renzi o Calenda - sperava che delegittimasse il centrodestra. Che sia per calcolo come ritengono alcuni (ipotizzando ancora sue ambizioni quirinalizie) o sia perché Draghi è pronto a collaborare, di fatto il premier dimissionario ha dato - sia pure con le sue idee - un contributo alla legittimazione reciproca, incoraggiando l'unità e la fiducia («il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà... L'Italia ce la farà»). Non si può dire la stessa cosa, purtroppo, di chi, come Letta, dipinge ai media internazionali il nostro Paese sull'orlo del baratro, dove l'Italia sprofonderebbe - a sentir lui- in caso di vittoria del centrodestra.

LA REPLICA

La Meloni ha ribattuto: «La sinistra va in giro a screditare la Nazione per difendere il proprio tornaconto. Enrico Letta utilizza la sua intervista alla Cnn non per parlare bene della sua Patria, o almeno del suo programma, ma per lanciare allarmi e menzogne... A Letta non importa se così facendo danneggia l'Italia, la sua unica preoccupazione è tutelare il sistema di potere della sinistra italiana». Anche i media dovrebbero evitare di drammatizzare. Ma invece ogni giorno alimentano lo scontro di civiltà. Ieri, poi, il quirinalista del Corriere della sera ha pubblicato un "retroscena" in cui si attribuivano «al Colle» reazioni di «stupore» nei confronti di dichiarazioni della Meloni e si spiegava che Mattarella avrebbe dato l'incarico di Primo Ministro senza «alcun automatismo», ma facendo sue considerazioni su «la cornice geopolitica» (e il voto degli italiani, veniva da chiedersi, conterà qualcosa?). Tempestiva e opportuna è arrivata una nota dell'ufficio stampa del Quirinale: «Sono del tutto privi di fondamento articoli che presumono di interpretare o addirittura di dar notizia di reazioni o "sentimenti" del Quirinale su quanto espresso nel confronto elettorale. Questi articoli riflettono inevitabilmente soltanto le opinioni dell'estensore». Il Presidente vuole (giustamente) essere lasciato fuori dalle polemiche della stampa.

Il Pd vuole ancora più profughi: "Porti aperti e no ai respingimenti". Dario Martini su Il Tempo il 29 agosto 2022.

«Siamo stati, siamo e saremo sempre contro politiche di respingimenti, apparenti "chiusure dei nostri porti" o, addirittura, non meglio precisati "blocchi navali": vale il sacrosanto principio per cui chi è in pericolo in mare va soccorso e salvato sempre». È scritto nero su bianco a pagina 28 del programma elettorale del Partito democratico. È la politica in materia di immigrazione che Enrico Letta e compagni intendono portare avanti nel caso in cui dovessero uscire vincitori dalle urne il 25 settembre. Quindi, nessuna correzione dell’attuale linea portata avanti dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. I porti delle coste siciliane dovranno continuare a restare rigorosamente aperti. Non è un caso che anche ieri i vertici del Pd siano rimasti in silenzio di fronte al record di migranti sbarcati a Lampedusa, a Pantelleria e nelle altre isole del trapanese.

Il Pd riconosce che il fenomeno vada governato. Ma propone una ricetta opposta a quella di Matteo Salvini («Entra chi ha il permesso di entrare») e di Giorgia Meloni, con la leader di FdI che anche ieri ha ribadito la necessità di un «blocco navale», ritenuto «l’unico modo per fermare l’immigrazione clandestina». Perché «uno Stato serio controlla e difende i propri confini. Serve una missione europea in accordo con le autorità nordafricane - ha aggiunto Meloni - Solo in questo modo sarà possibile mettere fine alle partenze illegali verso l’Italia e alla tragedia delle morti in mare». Il partito di Letta ha idee diametralmente opposte. Per conoscerle bisogna far ricorso ancora al programma elettorale.

Il Pd intende dar vita a un’«Agenzia di Coordinamento delle politiche migratorie». Dovrebbe occuparsi del «monitoraggio» e del «rispetto dei criteri d’accoglienza e dell’efficacia delle politiche d’integrazione». Finora siamo nel campo dei diritti dei profughi. Per quanto riguarda invece gli ingressi in Italia, i dem promettono di «abolire la "Bossi-Fini" e approvare una nuova legge sull’immigrazione, che permetta l’ingresso legale per ragioni di lavoro, anche sulla base delle indicazioni che arrivano dal Terzo settore». La «Bossi-Fini», per inciso, è quella legge che prevede le espulsioni degli irregolari e lega il soggiorno in Italia ad un lavoro effettivo. Il Pd vuole cancellare anche i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) per sostituirli con «piccoli centri diffusi sul territorio». Infine, assicura che promuoverà «un’azione in sede europea che spinga al superamento del Regolamento di Dublino e la costruzione di una vera politica europea su migrazione e accoglienza». Un impegno ribadito all’inizio di ogni legislatura ma sempre rimasto sulla carta vista l’indisponibilità dei partner europei ad ospitare i migranti sbarcati in Italia.

Anche gli alleati del Pd condividono la politica dei porti aperti. Anzi, se vogliamo, sono ancora più accoglienti. Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni nel programma di Verdi e Sinistra italiana scrivono che «non esiste alcuna emergenza migrazione». E, oltre all’abolizione della Bossi-Fini, propongono di cancellare l’aggravante di clandestinità.

"Letta e Conte uniti contro un nemico comune: l'iniziativa privata vista come fumo negli occhi". "L'attenzione per i redditi medio-bassi cela il rischio di una patrimoniale". Gian Maria De Francesco il 15 agosto 2022 su Il Giornale.

Il programma del Partito democratico è molto focalizzato sugli investimenti pubblici, ad esempio per l'edilizia popolare, per l'adeguamento degli stipendi degli insegnanti e per il rafforzamento del sistema sanitario nazionale. «Come diceva Margaret Thatcher, non esistono soldi dello Stato ma il denaro dei contribuenti», afferma Riccardo Puglisi, docente di Scienza delle finanze presso l'Università di Pavia. Analogamente, osserva, «c'è poca chiarezza sulle coperture finanziarie delle singole proposte, ma in campagna elettorale questa tendenza accomuna un po' tutti gli schieramenti anche se il centrodestra, in particolare Fratelli d'Italia, ha cercato di essere prudente».

Il retropensiero è che l'attenzione dem verso i redditi medio-bassi (taglio dell'Irpef, erogazioni dirette per spese sanitarie e scolastiche) possano celare l'intenzione di aumentare le imposte patrimoniali. «Come dice il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, si tende a seguire il modello Ocse, cioè spostare la tassazione dal lavoro ai beni anche se non ci sono ancora dimostrazioni inconfutabili che questo modello sia tecnicamente efficace», precisa Puglisi aggiungendo che «oltre all'aumento del debito qualora le spese non fossero coperte, occorrerebbe anche prestare attenzione agli effetti inflattivi delle politiche che tendono a stimolare la domanda», come quelle che vorrebbe mettere in pratica il Pd. Insomma, «dopo un po' i deficit creano inflazione».

Da sottolineare, secondo l'economista, l'assenza di una spending review finalizzata a finanziare istruzione e sanità come si propose il governo Cameron. «Si pensa che tanto più il reddito è intermediato dallo Stato tanto meglio è. C'è una solenne antipatia verso l'iniziativa privata, verso l'autonomia individuale di gestione del proprio reddito», osserva Puglisi. «Non tutta la spesa pubblica è buona», chiosa ricordando che «il Pnrr produce un 3,2% di crescita aggiuntiva del Pil al 2026 e la riforma della Pa vale un +2,3% di Pil, circa il 70% dell'effetto cumulato». Ebbene nei programmi elettorali questo tema non compare. E invece, rimarca Puglisi, «bisogna parlare di riforma della Pa se si vuole intervenire per eliminare gli sprechi».

Anche il programma M5s, secondo Puglisi, è molto simile a quello del Pd. «La linea è la stessa, c'è vicinanza ideologica ma il tema di fondo è che si prevedono bonus e ristori per tamponare tutte le situazioni», rileva puntualizzando che «il welfare state è proprio questo, ma non bisogna garantire l'assicurazione sociale su tutto, ma solo su ciò che è importante. L'esempio classico è il bonus per il monopattino: le tasse sono risorse preziose tolte dalle tasche dei cittadini». Puglisi ritiene che questi partiti fingano «di poter creare moneta ma ciò con cui si mangia è il Pil reale». E l'unico modo per aumentare la torta del Pil «è aumentare la produttività». I Cinque stelle fanno trasparire l'idea della patrimoniale puntando sull'uguaglianza sostanziale. «Il tema di fondo è che se guadagni troppo, sei sospetto. La tassazione degli extraprofitti non è sbagliata ma è sbagliato pensare che tutto sia rendita da tassare. Se proprio si vuole intervenire, c'è l'Antitrust perché le rendite dipendono da problemi di concorrenza», conclude.

Giampiero Mughini per Dagospia il 16 agosto 2022.

Caro Dago, temo che da cittadino della repubblica durante questa campagna elettorale non farò altro che allibire. 

Da una parte quelli del centro-destra, i quali promettono a voce alta una tassa piatta non so se al 15 per cento o poco più sulla buona parte dei redditi anche se consistenti, ovvero su redditi che attualmente pagano un’aliquota due o tre volte superiore. E dunque ne verrebbe al bilancio pubblico il più dissestato dell’Occidente – un bilancio il cui deficit complessivo aumenta paurosamente da un anno all’altro – una perdita di entrate fiscali nell’ordine di decine e decine e decine di milioni.

Dall’altra parte molte voci del centro-sinistra che non la smettono un attimo di indicare al pubblico ludibrio i cosiddetti “ricchi”, ai quali converrebbe spennare qualcosa di più, ad esempio traendola dalla tassa di successione, che in effetti in Italia è molto più generosa che in altri Paesi occidentali. 

A proposito dell’espressione ”ricchi”, logica vorrebbe che questa dizione si applicasse a quell’1 per cento di italiani che denunciano al fisco un reddito lordo di oltre 100mila euro annui. Un italiano su cento avrebbe dunque un reddito netto di almeno 7mila euro netti al mese. Gli altri 99 starebbero tutti sotto quella cifra, almeno stando alle dichiarazioni fiscali. 

Ricchi o piuttosto dei fessi, a usare la celebre antinomia di Giuseppe Prezzolini che divideva gli italiani in “furbi” e “fessi”. E del resto stando alle dichiarazioni fiscali la buona metà degli italiani o non paga le tasse o ne paga briciole dato che denuncia redditi inferiori ai 20mila euro l’anno. Esattamente questa la situazione reale del nostro Paese? Fosse questa, ogni mattina dovremmo calcolare i cadaveri di quelli che nella notte sono morti di fame e di sete, il che non è. 

E comunque, a proposito di “ricchi”, c’è che il 4 per cento degli italiani paga ben oltre il 30 per cento del reddito fiscale complessivo. Per essere “ricchi”, mi pare che siamo delle brave persone. Di certo era una brava persona Leonardo Del Vecchio, che era ricchissimo ma che soprattutto aveva dato lavoro – e un lavoro ben retribuito – a ben oltre che diecimila persone. 

Quanto a me la cosa più di “sinistra” che ho fatto nella mia vita non sono state le insulsaggini retoriche che pronunziavo a voce alta nei miei vent’anni, e bensì il fatto di avere acquistato una casa romana molto costosa che doveva servirmi da studio e da biblioteca e ad apprestare la quale ho fatto lavorare sodo muratori, carpentieri, elettricisti, vetrai, commercialisti, e ho pagato l’Iva su tutte le loro fatture. Su tutte.

Voglio dire con questo che il ricco  – e a meno che non sia un farabutto – non è uno che succhia sangue alla collettività e bensì uno che apporta ricchezza alla collettività. Trattarlo spregiativamente se non addirittura minacciarlo è un’impresa politicamente da quattro soldi, degna di quei quattro minchioni che continuano a dirsi “comunisti” pur dopo tutto quello che sappiamo in materia di comunismo reale. 

Detto altrimenti e per quello che mi riguarda io sono felice di pagare puntualmente tutte le tasse che pago, una cifra che metterei sul biglietto da visita e che so benissimo non sarà mai amputata di un centesimo – nemmeno di un centesimo –, perché le condizioni del nostro debito pubblico non lo permettono.

Al polo opposto, la promessa di portare al 15 per cento le aliquote di chi paga due o tre volte tanto è pura cialtroneria. E’ puro imbroglio. E’ pura sciocchezza come di qualsiasi altra promessa che non tenga conto che due più due fa quattro, che non tenga conto della dura e inesorabile legge dei numeri. Ho sentito pronunziare in tv la sentenza che i soldi per assicurare la flat tax si potrebbero trarre dal ridurre a 50 milioni di euro il miliardo di euro di debiti che gli italiani hanno col fisco.

Quel miliardo è il luogo di una controversia infinita tra Stato e contribuenti destinata a durare decenni, laddove la cifra di 50 milioni effettivamente versati dai contribuenti quella  controversia la chiuderebbe in poco tempo. Ossia regali qualche centinaio di milioni a gente che non ha pagato le tasse, spremi da loro un minimo che è davvero un minimo e subito te lo giochi abbassando le tasse a quei pochi contribuenti che le pagano davvero. Da allibire. Cialtroni cialtroni cialtroni. E meno male che c’è l’Italia del nuoto a contrappesare la miserevole Italia della politica partitante. 

Dai video in tre lingue alle "pillole" quotidiane. La rincorsa di Letta che copia gli avversari. Incalzato dai sondaggi disastrosi, il leader dem sfodera persino il bus come fece Prodi. E si appella all’"Europa della solidarietà". Francesco Boezi il 14 Agosto 2022 su Il Giornale.  

La campagna elettorale di Enrico Letta non ha gli «occhi della tigre»: semmai ha il volto della rincorsa. I sondaggi continuano a raccontare di una Caporetto annunciata del Partito Democratico, mentre le ultime due iniziative messe in campo dal segretario assomigliano più che altro a tentativi d'imitazione e poco a zampate feline. Dalle parti del Nazareno, tra gli annunci più roboanti delle ore appena trascorse, è spuntata la strategia per diffondere il programma: «Nei prossimi giorni presenteremo una proposta al giorno, faremo in modo che diventino il cuore della campagna elettorale stessa». Il presidente Silvio Berlusconi, con le pillole per «levare da torno la sinistra», ha anticipato il leader del centrosinistra di qualche tempo. 

Che dire, poi, del video in tre lingue con cui l'inquilino del Nazareno ha cercato di marcare a zona Giorgia Meloni? Il presidente di Fdi, con il discorso in spagnolo, inglese e francese, ha lanciato più messaggi alla comunità europea ed a quella internazionale, mentre il vertice dem ha utilizzato lo strumento del video in più lingue soltanto per ribadire il suo pensiero sull'avversario. La sensazione è che la Meloni avesse qualcosa da dire, Letta, al limite, qualcosa da osteggiare. Comunque sia, Letta ha provato la carta della sovrapposizione: «Abbiamo bisogno di un'Europa forte, di un'Europa della salute, di un'Europa della solidarietà. Ma tutto questo possiamo farlo soltanto senza nazionalismi nei Paesi europei e se ogni Paese cerca di stare insieme agli altri in modo solidale», ha osservato l'ex presidente del Consiglio. E ancora: «Fratelli d'Italia è alleata di Vox, il partito di estrema destra che considera l'Unione europea una minaccia per la sovranità dei loro Paesi, rappresenta l'ultra conservatorismo, il negazionismo del cambiamento climatico, l'ultranazionalismo ed è contro l'immigrazione, contro la comunità Lgbt». Infine il più classico degli appelli disperati: «Come sempre, la destra italiana sta interpretando il ruolo del capro espiatorio, sta giocando la carta del vittimismo. Ieri la colpa era del sistema finanziario internazionale o dell'establishment, oggi invece è la stampa internazionale ed estera, solo perché stanno facendo il loro lavoro. Continueremo a batterci per convincere gli italiani a votare per noi e non per loro. A votare per un'Italia al centro dell'Europa». Ylenia Lucaselli, parlamentare di Fdi, ha reagito così: «A Enrico Letta va il premio Oscar per miglior copiatore non protagonista. Il video in tre lingue con cui solleva, come oramai avviene quotidianamente, il grande allarme della destra è un'iniziativa alquanto pietosa, che ben definisce la campagna elettorale del Pd: zero proposte e molte polemiche, riflesso dell'allergia al voto dei dem, che danneggiano, queste sì, l'immagine dell'Italia a livello internazionale». 

Dopo il ricalco delle pillole di Berlusconi e quello del video della Meloni, manca il Carroccio. Non ci sarebbe da stupirsi, adesso che la Lega di Matteo Salvini ha reso noto di aver strutturato la sua campagna elettorale attorno al concetto di «Credo», se i dem provassero a fare qualcosa di simile. C'è poi un elemento della campagna elettorale di Enrico Letta che è sempre frutto di un'imitazione ma senza sfociare nel campo avversario: anche Romano Prodi aveva il suo pullman elettorale. L'odierno leader del Pd, che ha annunciato il tour per l'Italia, ha sfoderato un mezzo simile ma elettrico.

Nel programma Pd cannabis, migranti e Ddl Zan: Enrico Letta si dimentica del popolo. Il Tempo il 14 agosto 2022

Cannabis, ius scholae e Ddl Zan. Il segretario del Pd Enrico Letta presenta in direzione nazionale il programma elettorale dei Democratici e riparte dai tre punti sui quali è calato il sipario sul governo Draghi. Tre provvedimenti divisivi che avevano provocato l'irritazione di Lega, FI e centristi e indebolito la maggioranza. Letta riparte da quei tre punti, lasciando sullo sfondo l'agenda Draghi, le ricette per far ripartire l'economia, la politica fiscale e del lavoro. I pilastri dell'agenda Letta sono ben altri e guardano molto più a sinistra, occupandosi solo di una parte del Paese reale. Quella che vota Pd. E neanche tutta.

La relazione di Letta si apre con un corale applauso - richiesto dallo stesso segretario -per il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, garante della Costituzione, e con un nuovo affondo contro Berlusconi: «Un errore drammatico avere chiamato in causa il Quirinale nella campagna elettorale». La seconda citazione con nuovo applauso - arriva in chiusura di relazione ed è per David Sassoli. Letta ripete «le ultime parole» del presidente del Parlamento Ue scomparso all'inizio dell'anno - per introdurre il programma elettorale del Pd: «La speranza siamo noi, quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo contro tutte le ingiustizie». Saranno queste parole, «le ultime parole di David Sassoli», Il segretario sottolinea che si tratta di «una frase che tiene insieme tutto quello che siamo, che pensiamo e che facciamo».

Aprendo la direzione, Letta ribadisce quanto già detto nei giorni scorsi: «Siamo di fronte a una scelta storica, ancora più evidente dopo i fatti di ieri. Osi sta dalla parte della difesa o dello stravolgimento della nostra Costituzione». E sul presidenzialismo è netto: «Non è un'idea di Giorgia Meloni, ma di Almirante e del Msi. È una riforma che vuole postata su tre pilastri»: «Sviluppo sostenibile e transizioni ecologica e digitale», «Lavoro, Conoscenza e giustizia sociale», «Diritti e cittadinanza».

Letta non nasconde che se «gli altri hanno una potenza di fuoco, soldi e media che noi non abbiamo», si punterà ad avanzare «una proposta al giorno, lavorando su un tema al giorno, con la nostra agenda e 100 mila volontari».

Tra i punti-cardine c'è l'approvazione «subito» del ddl Zan e del matrimonio egualitario, perché «un Paese civile non esclude, non emargina, non ghettizza». Ma anche l'abolizione della «Bossi-Fini» da sostituire con «una nuova Legge sull'immigrazione, che permetta l'ingresso legale per ragioni di lavoro, anche sulla base delle indicazioni che arrivano dalle imprese italiane e dal terzo settore». Tra le priorità c'è anche la riforma elettorale, vista «la pessima legge elettorale con la quale andiamo a votare» e «per superare la frammentazione, il trasformismo, per ridurre gli effetti distorsivi sulla rappresentanza legati al taglio dei parlamentari e per favorire la costruzione di forze politiche stabili e dotate di una riconoscibile identità».

«Introdurremo lo Ius Scholae, per superare le ingiustificate discriminazioni che ancora oggi vediamo nelle classi italiane. A settembre, bambine e bambini torneranno nelle scuole. Studieranno insieme, mangeranno insieme, giocheranno insieme. È il momento di introdurre una norma che non è solo civiltà: è prima di tutto buonsenso», rivendica il documento dem peril quale «chi è figlio di genitori stranieri e completa un ciclo di studi in Italia diventa cittadino italiano». Altro tema caldo sul quale si promette l'approvazione di una legge ad hoc, il fine vita «per difendere fino all'ultimo - si legge- dignità e autodeterminazione, in linea con le indicazioni della Corte costituzionale. Tutte le democrazie avanzate discutono del tema, abbiamo il dovere di fare lo stesso». Ma non solo. Sul contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata, «riteniamo sia arrivato il momento di legalizzare l'autoproduzione per uso personale e fare in modo che la cannabis terapeutica sia effettivamente garantita ai pazienti che ne hanno bisogno».

L’AGENDA DEL PD CONTRO LE DESTRE. Salario minimo, ambiente, cannabis: ecco il programma del Pd di Letta. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 13 agosto 2022

Il segretario ha presentato un’agenda in 34 pagine. «Riformeremo la cittadinanza con lo ius scholae»

I diritti civili restano identitari, ma centrali anche le politiche sul lavoro. Omaggio a Sassoli e Mattarella

I tre «pilastri» sono quelli dello sviluppo sostenibile e della transizione ecologica; il lavoro e la giustizia sociale; i diritti e la cittadinanza

Un’agenda piena di diritti civili. Ma anche la volontà di contrastare le disuguaglianze sociali, con l’introduzione del salario minimo, e incentivare la crescita economica con la semplificazione delle regole per le imprese.

Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha presentato in direzione nazionale la bozza di programma, di 34 pagine, che ha come faro una citazione di David Sassoli: «La speranza siamo noi, quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo contro tutte le ingiustizie».

PILASTRI IDENTITARI

Il progetto include messaggi identitari, rivolti all’elettorato di sinistra, che da tempo attende uno sforzo reale del centrosinistra su determinati temi. E così il Pd punta a riprendere quei tentativi, dalla riforma della cittadinanza alla cannabis, interrotti in parlamento a fine giugno a causa dell’ostruzionismo della destra, in particolare della Lega.

«La brusca interruzione della legislatura, a pochi mesi dal suo naturale completamento, ha impedito di portare a termine una serie di proposte legislative», è scritto nel documento. Letta ha dunque presentato un documento solo parziale: alcuni contenuti sono da ampliare, perché presenti solo come titolo, altri sono da inserire.

Per l’elenco definitivo occorre attendere ancora qualche giorno. Di certo ci sono, citando letteralmente il testo, tre «pilastri»: sviluppo sostenibile e transizione ecologica e digitale; lavoro conoscenza e giustizia sociale; diritti e cittadinanza. Al fianco della parte costruttiva non è mancato l’attacco agli avversari: «Meloni nasconde la verità», ha detto in un video, registrato in tre lingue, destinato alla stampa estera.

La risposta diretta alla presidente di Fratelli d’Italia ha scatenato la reazione della deputata di Fdi, Ylenja Lucaselli, che ha definito Letta «copiatore da oscar», in riferimento al filmato realizzato dalla sua leader. 

MATRIMONI LGBTQI+

Al di là delle polemiche, il Pd ha presentato il testo che rappresenta un passo per archiviare la travagliata fase della formazione della coalizione. Così sono state indicate le priorità, con «una proposta al giorno» da descrivere agli italiani, come ha detto Letta in direzione.

Dunque, spazio alla battaglia sullo ius scholae «per superare le ingiustificate discriminazioni che ancora oggi vediamo nelle classi italiane», e una legge sul fine vita. Più determinato è il passaggio sui diritti Lgbtqi+, per cui si punta all’approvazione del ddl Zan, contro la discriminazione, ma soprattutto l’obiettivo è l’introduzione del matrimonio egualitario.

Meno deciso, invece, l’approccio sulla cannabis, in cui c’è il riferimento alla legalizzazione per l’autoproduzione per uso personale, e per garantire la cannabis terapuetica per chi ne ha bisogno.

La prudenza di Letta non sarà gradita molto ad alcuni dei compagni di viaggio: +Europa è schierata a favore della legalizzazione della cannabis, con Riccardo Magi che si è intestato la battaglia a Montecitorio nell’ultima legislatura. E anche Pippo Civati, new entry della coalizione dopo l’accordo sottoscritto da Possibile con l’alleanza Verdi-Sinistra, è da anni in prima linea per legalizzare senza paletti. (ieri l’ex enfant prodige ha comunque smentito di essere stato contattato per una candidatura in parlamento).

AVVERSARI ALL’ATTACCO

La presentazione del programma del Pd ha provocato la replica del leader della Lega, Matteo Salvini, che ha ripreso gli slogan delle ultime settimane: «Per Letta e il Pd le priorità sono droga libera e cittadinanza facile», ha scritto su Twitter.

L’azione politica del Pd, tuttavia, non si ferma al campo dei diritti civili, avendo previsto anche altri pilastri. Nel documento presentato ci sono iniziative mirate ai giovani, dimostrando che Letta sta provando a intercettare consensi in quel bacino elettorale, con apposito «pacchetto» inserito nella bozza, che delinea le misure da realizzare per favorire le nuove generazioni, come le detrazioni per le start-up e «zero contributi per le assunzioni a tempo indeterminato» per le assunzioni degli under 35.

Sui temi più controversi, riguardanti l'ambiente, Letta ha poi lanciato un segnale agli alleati . Sui rigassificatori c’è l’ammissione di un ricorso necessario, «ma a condizione che essi costituiscano soluzioni-ponte». Il leader di Azione, Carlo Calenda, ha così colto l’occasione di polemizzare: «Non c’è una coalizione ma una zattera di salvataggio per ceto politico». E ha annunciato per giovedì il lancio del suo programma, criticando le iniziative altrui: «Letta una proposta al giorno, Berlusconi una pillola al giorno. È uno show privo di serietà».

STEFANO IANNACCONE. Giornalista professionista, è nato ad Avellino, nel 1981. Oggi vive a Roma, collaborando con varie testate nazionali tra cui Huffington Post, La Notizia, Panorama e Tpi. Si occupa principalmente di politica e attualità. Ha scritto cinque libri, l'ultimo è il romanzo Piovono Bombe.

Dire che la destra è omofoba serve solo a screditarla. Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

Ieri sera mi sono confrontata durante la trasmissione Zona Bianca rispetto al tema dei diritti Lgbtq laddove vincesse la destra alle prossime elezioni. È emerso un profondo pregiudizio riguardo questo argomento che tende ad alimentare una narrazione completamente distorta rispetto alla realtà. Mi sono sentita ripetere come un mantra dagli ospiti presenti in studio che l’Italia è un Paese omofobo.

Non è così ho continuato a ripetere. E non ce lo dicono solo i numeri ma anche la storia. L’Italia è stata tra i primi Paesi europei a depenalizzare la condotta omosessuale. Un tempo per il solo fatto di essere omosessuali si rischiava la cella. Ebbene, si è depenalizzata l’omosessualità nel lontano 1866, ben prima dell’anglicana Gran Bretagna (1967), della Germania comunista (1968), della luterana Norvegia (1972) o d’Israele (1988). Perché questo fatto è significativo? Perché prova quale sia la tradizione culturale del nostro Paese, ossia una tradizione di apertura e tolleranza che ha portato ad anticipare di oltre mezzo secolo nazioni che pure oggi hanno fama.

C’è un altro elemento da non trascurare. Da sempre il Sud è ritenuto estremamente retrogrado rispetto all’accettazione dell’omosessualità ma guarda caso proprio nel Sud sono stati eletti, con ampio consenso popolare due presidenti di regione, rispettivamente Nichi Vendola (Puglia) e Rosario Crocetta (Sicilia). E non hanno mai fatto mistero della loro inclinazione sessuale e non sono stati penalizzati per questo.

Poi è indubbio che ci siano ancora troppi episodi di discriminazione nei confronti delle persone omosessuali e va arginato questo fenomeno cercando di lavorare sulla cultura del rispetto. E questa deve partire dalle famiglie non certo da un tribunale. Io sono convinta che non sia un giudice o una pena a trasformare degli idioti in persone rispettose. Implementiamo le pene per chi commette atti di violenza ma non deleghiamo ad un giudice la discrezionalità nello stabilire cosa possa essere o meno offensivo.

Questo è ciò che sostiene e rivendica la destra. Nessuna paura o pregiudizio. I diritti conquistati rimarranno tali. Quindi non fomentiamo paure che già ne sono state sciorinate fin troppe. Pericolo fascismo, razzismo ed omofobia lasciamolo alle penne progressiste per supportare la campagna elettorale di una sinistra che in assenza di programmi e contenuti usa l’unico mezzo a disposizione: il discredito dell’avversario.

Enrico Letta, Vittorio Feltri lo asfalta: "Miniera di gaffe". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 agosto 2022

Coltivano un culto sciocco gli abitanti dello stivale, ossia quello che ha ad oggetto il concittadino che se ne è andato via. E anche in questo si manifesta il provincialismo tutto nostro. Sorge nella loro mente il sospetto che, essendo questi fuggito, valesse molto, dunque lo si esalta, e subentra prepotente il desiderio di ricondurlo in patria affinché faccia del bene alla Nazione e al suo popolo. Enrico Letta è considerato roba nostra, cioè, specifichiamo, non mia, per carità, ma di quella parte del Paese che per moda si definisce progressista.

Dopo anni dal suo improvviso e forse risentito trasferimento a Parigi nella mente di qualcuno è affiorato il dubbio che probabilmente non l'avessimo trattato con riguardo. L'orgoglio soddisfatto da questo nuovo sentire e da pressanti adulazioni e inviti a rincasare ha fatto sì che Enrico, il quale nel 2017 aveva assicurato che non si sarebbe dedicato mai più alla politica attiva, a dispetto degli scettici che ritenevano che egli non avrebbe mai più varcato il confine, è tornato in quel di Roma, ingolosito dall'odore di gloria, per porsi alla direzione del Partito democratico, la cui segreteria era stata appena abbandonata da Nicola Zingaretti. Correva l'anno 2021.

Ci aspettavamo miracoli, proprio in virtù di quella mentalità che ci induce a reputare alla stregua di un salvatore chi rientra. Invece Enrico Letta si è rivelato ancora più inefficace e inconcludente di quando emigrò. La sua maniera di condurre la campagna elettorale non fa che avvantaggiare il centrodestra, che gli è grato. Basti considerare per di più che da quando Letta è stato rimesso alla guida del Pd, i dem sono stati sorpassati dai fratelli d'Italia. Insomma, Enrico realizza autogol clamorosi e le sue aspirazioni di farsi federatore della sinistra si scontrano con l'assenza di carisma e una ormai conclamata incapacità di dare vita ad una compagine tenuta insieme da valori comuni, quindi solida. La sua federazione è una tristissima ammucchiata di riciclati in cerca di una poltrona su cui poggiare il culo.

Dunque, abbiamo sopravvalutato quest' uomo, anti -sessista che attacca Meloni con un linguaggio (il riferimento alla cipria) che chiunque a sinistra definirebbe "misogino" e ghettizzante.

Soprassediamo su altre delle sue gaffe, come quando nel 2013, in visita in una scuola in qualità di premier, spiegò che quando egli era un alunno, negli anni Settanta, "eravamo tutti bianchi, direi quasi ariani". Se queste parole fossero state pronunciate dalla sua principale avversaria, Giorgia Meloni, chissà quali insulti avrebbe ricevuto la leader di Fratelli d'Italia, conditi dalle consuete accuse di razzismo. E come dimenticare di quando su Twitter Enrico si compiaceva del fatto che Claudio fosse stato il primo imperatore romano straniero, lodando la lungimiranza dei romani che non erano mica razzisti come noi, che siamo brutti sporchi e cattivi? Peccato che Claudio fosse romanissimo. Tuttavia, gli scivoloni peggiori di Letta, ultimo premier ad avere aumentato l'IVA, sono le sue proposte politiche, sempre le stesse mentre il mondo muta, segno che questo individuo ha poca fantasia: più balzelli, tassa di successione, ius soli, Ddl Zan, ius scholae, porte sempre aperte agli immigrati irregolari, bonus di migliaia di euro ai maggiorenni, una sorta di regalo di compleanno per il diciottesimo. Il Paese va a puttane e Letta vuole risolvere i problemi con la solita pappetta di sinistra, la quale peraltro non ha mai funzionato. 

Il segretario dem scivola sul trucco. Francesco Maria Del Vigo l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Da queste colonne abbiamo sempre combattuto, senza esclusione di colpi, tutte le storture del politicamente corretto. E non ci smentiremo neppure questa volta. Però ci preme sottolineare come sia un'arma - oramai spuntata - che la sinistra usa solo ed esclusivamente nei confronti del centrodestra. Ci spieghiamo meglio: se sei di destra non puoi dire nulla, altrimenti le vestali del politicamente corretto ti crocifiggono imputandoti tutte le accuse peggiori del mondo. Se sei di sinistra, invece, puoi dire tutto quello che vuoi: insulti personali, razziali e fisici senza che nessuno si scandalizzi, perché lo stai facendo per difendere la democrazia dalle orde di barbari. Ieri, Enrico Letta, ha spostato il confine ancora un po' più in là: le donne di destra, evidentemente, sono un po' meno donne di quelle di sinistra e quindi puoi offenderle con accuse che in altri casi sarebbero state tacciate di misoginia dalla sinistra stessa, senza uscire dai sacri confini del politicamente corretto.

I fatti. Il segretario del Partito Democratico, in trance agonistica da campagna elettorale, è tornato ad attaccare la leader di Fratelli d'Italia per i suoi rapporti con le forze politiche straniere: «Giorgia Meloni sta cercando di riposizionarsi, cambiare immagine, incipriarsi. Mi sembra una operazione abbastanza complicata quando i punti di riferimento sono la Polonia e Orban. Quella intervista mi sembra un modo per rifarsi l'immagine ma è l'esatto contrario del discorso in Spagna per Vox, è un'altra storia». Ecco, «incipriarsi». Non serve più nemmeno fare il solito test «se l'avesse detto qualcuno di destra cosa sarebbe successo?» per capire l'inopportunità di questa boutade lettiana che, ovviamente, è stata bollata come «misogina» dalla diretta interessata. «Incipriarsi» è un modo stupido per abbassare la discussione politica a questioni di maquillage. Con il paradosso che Letta - esponente di un partito che ha fatto delle quote rosa una bandiera, senza mai portare a casa risultati significativi - sta infrangendo le regole del suo politicamente corretto proprio nei confronti della donna più in vista della politica italiana. Ed emerge chiaramente tutta l'ipocrisia e l'impunità di una sinistra che, in crisi di nervi da sondaggi, attacca e insulta dall'alto del suo complesso di superiorità.

E per coprire questo antico vizio non basta la cipria. E probabilmente nemmeno lo stucco.

Letta, Giorgia Meloni si "incipria"? Alle donne di destra si può dire tutto. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 12 agosto 2022

La gaffe di Enrico Letta - l'ennesima - nei riguardi di Giorgia Meloni non ha sanzione femminista. Per l'ennesima volta, un insulto nei confronti della leader di Fratelli d'Italia passa sotto silenzio, le signore della sinistra si voltano dall'altra parte, fischiettano al cielo, non si indignano. Ci sono le liste elettorali al via e non si sa mai. Ah già, le liste. Su web e agenzie di stampa è un fiorire di autocandidature. Le signore Franceschini e Fratoianni si lamentano di essere definite così, ma sono loro che frignano per avere il diritto di accompagnarsi alle Camere con i loro rispettivi coniugi, deputati in carica e senza alcuna volontà di sloggiare per far posto alle consorti. Assieme vogliono andarci. E quindi nessuna delle aspiranti onorevoli si azzarda, almeno prima del deposito delle candidature, a urtare la sensibilità dei capi dei partiti. Critiche zero: eppure un tempo sarebbero insorte contro il sessismo evidente, la misoginia acclarata. Macchè, Letta può dire che la Meloni si «incipria» allo scopo di cancellare inesistenti macchie politiche. Nessun garbo e ci manca solo che il segretario del Pd si senta minacciato a suon di borsettate. Loro, le compagne, stanno zitte. E semmai il maschilismo che contestano è proprio quello che si limita a far notare loro che se davvero hanno la voglia di fare un giro alle Camere, che almeno sia al posto degli uomini della loro vita e non in compagnia degli stessi. Facebook diventa il regno delle giaculatorie per ottenere un posto al sole, ma guai a pronunciare una sola sillaba verso Enrico il Nazareno, l'eroe che può permettersi di offendere la Meloni senza che alcuna gli dica il fatto suo. Tutte ammutolite e senza bisogno di cipria le signore della sinistra. Ad una donna di destra si può dire che si nasconde semplicemente perché la pensa diversamente dal pensiero unico dominante.

I PRECEDENTI

Non è la prima volta che succede alla Meloni. La coincidenza con bordate di maschi di sinistra e silenzio delle "compagne" è ormai quasi una consuetudine e raramente si elevano voci di protesta contro chi esagera. Ma questa volta Letta è andato oltre. Perché ha voluto immiserire il dibattito politico. Se una donna non sta dalla sua parte è per frivolezza, appunto cipria e borsetta sono i suoi requisiti, nella testa non deve albergare alcun pensiero che sia autonomo da lui. A ben pensarci è davvero un atteggiamento macho, quello di Letta, che in altri tempi si sarebbe guadagnato censure a suon di proteste e dichiarazioni. Ma non accade. Anzi, arriva la capogruppo Pd del Senato a metterci una toppa peggio del buco. Dice Simona Malpezzi che la leader di Fdi «fa trasparire delle donne all'interno della società l'immagine di una donna che sta a casa e non deve fare altro». Complimenti davvero, per una che se fa la presidente dei senatori del Pd è perché lo ha voluto un uomo. Così come un altro uomo, Nicola Zingaretti, non riuscì a portare neppure una donna tra i ministri del Pd: ecco, al Nazareno le donne, Malpezzi e Serracchiani, le hanno messe in cucina, al massimo a rassettare i gruppi parlamentari. A comandare, al governo, ci sono solo ministri uomini. E insorgono contro una donna che invece guida un partito. E si capisce perché non ci sia una sola onorevole a dire a Letta di smetterla. Sennò quello non regala più loro cipria e borsetta. 

Meloni amara su Pd e sinistra: «Il loro programma? Dire che sono brutta e cattiva». Ginevra Sorrentino su Il Secolo d'Italia il 12 Agosto 2022

Il Pd trema e il suo segretario Enrico Letta le prova tutte pur di delegittimare l’avversario: specie se il competitor si chiama Giorgia Meloni. Così, raschiando il fondo del barile in cerca di argomentazioni e attacchi al vetriolo, al numero uno del Nazareno – orfano dei grillini e scaricato da Calenda, re dei ripensamenti – non resta che sventolare il vessillo ormai logoro e scolorito dell’allarme fascista. Meglio poi se incorniciato in un quadro che contempla accuse e offese dall’indigesto sapore misogino e sessista. Salvo poi vedersi costretto però a rimangiarsi imbarazzanti gaffes e chiedere venia.

Letta attacca la Meloni, poi fa ammenda e chiede venia

Così, dopo aver evocato lo spettro del pericolo fascista, e aver testualmente affermato che «Giorgia Meloni sta cercando di riposizionarsi, cambiare immagine, incipriarsi. Mi sembra un’operazione abbastanza complicata quando i punti di riferimento sono la Polonia e Orban», Letta non ha potuto far altro che incassare la replica della leader di FdI, e fare retromarcia, con tante scuse.

La Meloni, infatti, incisiva e puntuale, ha risposto al goffo tentativo di affondo del segretario dem chiarendo: Caro Letta – ha replicato la presidente di FdI – al netto della misoginia che questa frase tradisce e dell’idea secondo la quale una donna dovrebbe essere attenta solo a trucchi e borsette, il vostro problema è che non ho bisogno di “incipriarmi” per essere credibile».

«Il programma della sinistra? Meloni è brutta e cattiva. Turati il naso e vota Pd»

Poi, assestata la stoccata al leader del Pd, la numero uno di Fratelli d’Italia – che ha fatto di chiarezza e coerenza il suo vessillo politico – rivolgendosi alla sinistra tutta (e non solo parlando a nuora perché suocera intenda), ha incalzato gli avversari, sottolineando via Twitter: «Il programma della sinistra lo conosciamo bene: “Giorgia Meloni è brutta e cattiva, turati il naso e vota Pd“. La coalizione di centrodestra – prosegue quindi la presidente di FdI – ha invece voluto definire un “Accordo quadro di programma” per il governo della Nazione».

Meloni: «Saranno gli italiani a premiare le proposte più credibili e convincenti»

Definendo e ribadendo dunque quella che è «la cornice essenziale entro la quale vogliamo operare se gli italiani ci affideranno le sorti dell’Italia» – ha aggiunto a stretto giro Giorgia Meloni –. Concludendo poi: «Ogni forza politica dettaglierà le proprie proposte specifiche, e saranno gli italiani, con il loro voto, a premiare quelle più credibili e convincenti. Noi siamo pronti». E stando ai sondaggi e ai commentatori e corsivisti politici, gli elettori pure.

«Stiamo facendo campagna elettorale partendo dai dati reali»

Tanto che, ancora qualche ora fa, la Meloni ospite di Radio Montecarlo, ha tenuto a precisare: «Vediamo finalmente gli italiani esprimersi, dopo governi che sono passati sulla loro testa. Stiamo facendo campagna elettorale senza fare promesse che non possiamo realizzare. È il caso di dire come stanno le cose, partendo dai dati reali». E infine: «Noi – ha ribadito la leader di FdI – ci concentriamo molto sulla questione economica, sui bisogni di aziende e lavoratori. La sinistra ha sostenuto le grandi concentrazioni invece». Sarà questo che fa inciampare Letta nelle gaffes e cadere la sinistra nella solita tentazione di gridare al lupo al lupo? Agli elettori l’ardua sentenza… 

Da repubblica.it il 12 agosto 2022.

"Nella mia vita ho sentito di tutto e di più, le parole pertanto non mi colpiscono più di un tanto. A Giorgia Meloni dico questo: inizi dal togliere la fiamma dal logo del suo partito". 

È il commento che la senatrice a vita Liliana Segre affida a Pagine Ebraiche sull'''abiura' della leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, o comunque sul suo ripensamento all'inizio della campagna elettorale, delle responsabilità storiche del fascismo. 

Segre avverte: "Partiamo dai fatti, non dalle parole e dalle ipotesi".

In un messaggio indirizzato alla stampa internazionale Meloni aveva tra l'altro sostenuto: "La destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche". 

Parole che se non saranno accompagnate da fatti concreti, fa capire Segre a Pagine Ebraiche, non avranno nessuna consistenza reale.

E il primo fatto, secondo la senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz, che negli ultimi anni si è battutta contro l'"indifferenza" - la stessa parola che ha voluto fosse scolpita all'ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, da quel Binario 21 della Stazione Centrale da cui venne deportata ancora bambina - dovrebbe essere proprio quello: togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d'Italia. E' la stessa richiesta che sta arrivando a Meloni da più parti in queste ore. Mai più l'immagine del Movimento sociale italiano fondato da reduci della Rsi come Giorgio Almirante.

Ancora più dura di Segre è stata Edith Bruck: "Non credo a una sola parola: Giorgia Meloni che abiura il fascismo è solo una facciata, una mossa tattica per arrivare alla presidenza del Consiglio", ha detto in un'intervista a Repubblica la scrittrice sopravvissuta ad Auschwitz. 

La Russa a Segre: "La fiamma non è assimilabile al fascismo"

Ma è proprio parlando della fiamma, che arriva la replica del senatore di Fratelli d'Italia, Ignazio La Russa: 

"Con tutto il dovuto rispetto per la signora senatrice Segre che stimo, mi permetto di ricordare a scanso di ogni equivoco che la fiamma presente nel simbolo di Fratelli d'Italia - oltretutto senza la base trapezoidale che conteneva la scritta Msi - non è in alcun modo assimilabile a qualsiasi simbolo del regime fascista e non è mai stata accusata e men che meno condannata, come simbolo apologetico. 

Spero, inoltre, di non essere irriguardoso nel ricordare che il marito della stessa senatrice Segre, che ho personalmente conosciuto e apprezzato, si candidò con Almirante sotto il simbolo della fiamma con la scritta Msi senza ovviamente rinunciare alla sua lontananza dal fascismo".

Alberto Busacca per “Libero quotidiano” il 13 agosto 2022.

La Meloni deve togliere la fiamma dal simbolo di Fdi. Così è deciso, l'udienza è tolta. La sinistra ha trovato la sua nuova battaglia, perfetta per il Ferragosto. 

Ed è partito un pressing asfissiante, come solo i compagni sanno fare. Giovedì, a buttarla lì, sono stati i parlamentari del Pd, subito seguiti da altri esponenti dell'area progressista. «Se la Meloni vuole consegnare il fascismo alla storia», ha detto Andrea Romano, «ha un'occasione d'oro per dimostrarlo: faccia togliere dal simbolo di Fratelli d'Italia la fiamma del Movimento sociale». Poi, tra gli altri, Laura Boldrini: «Meloni dice che abiura il fascismo? 

Ci spieghi perché nel simbolo di Fdi compare la fiamma tricolore, raffigurazione del regime che risorge dalla tomba del dittatore. Non basta dichiararsi non-fascisti». Ed Elly Schlein, che ha fatto pure un'ulteriore richiesta: «Se lasci la fiamma nel simbolo non bastano due minuti di video per smarcarsi dalle ambiguità. Non l'ho sentita dire che non ci saranno fascisti e nostalgici nelle sue liste».

Ieri, come prevedibile, è stata la volta di Repubblica, che in prima pagina, sotto a una grande foto di Giorgia, ha titolato: «La vecchia fiamma». Spiegando: «La Meloni contestata per il simbolo neofascista che evocala tomba di Mussolini». Quindi l'uscita più "pesante", quella di Liliana Segre su Pagine Ebraiche: «Nella mia vita ho sentito di tutto e di più, le parole pertanto non mi colpiscono più di un tanto. A Giorgia Meloni dico questo: inizi dal togliere la fiamma dal logo del suo partito».

La replica, a stretto giro, è arrivata da Ignazio La Russa: «Con tutto il dovuto rispetto per la signora senatrice Segre, che stimo, mi permetto di ricordare che la fiamma presente nel simbolo di Fdi non è in alcun modo assimilabile a qualsiasi simbolo del regime fascista. Spero, inoltre, di non essere irriguardoso nel ricordare che il marito della stessa senatrice Segre, che ho personalmente conosciuto e apprezzato, si candidò con Almirante sotto il simbolo della fiamma con la scritta Msi senza ovviamente rinunciare alla sua lontananza dal fascismo».

Già, Alfredo Belli Paci, avvocato e marito della Segre, si candidò alla Camera nelle liste missine alle elezioni politiche del 3 e 4 giugno 1979. Sesto in lista nella Circoscrizione Milano-Pavia. «Mio marito», ha spiegato lei in passato, «per un certo periodo aderì a una destra in cui c'era anche Almirante. Io ho molto sofferto e ci fu una grande crisi. Per fortuna lui rinunciò per amore a una eventuale carriera politica. E fummo insieme per altri 25 anni». 

Va detto che la fiamma che compare nel logo di Fdi non è esattamente quella del Movimento sociale. La base trapezoidale con la scritta Msi, infatti, non c'è più. Ma la vera domanda da porsi è: perché questo logo continua a fare così paura? In realtà non c'è motivo, visto che sotto la fiamma si sono candidati due vicepremier (Giuseppe Tatarella e Gianfranco Fini), un ministro degli Esteri (ancora Fini) e numerosi altri ministri (da Publio Fiori ad Altero Matteoli, da Francesco Storace a Mirko Tremaglia, noto per le battaglie in difesa degli italiani all'estero), senza contare governatori e sindaci.

 Insomma, si tratta di un simbolo che con le istituzioni ha una certa confidenza. Ma non c'è solo questo... 

Dall'area missina, infatti, provengono diverse persone di cui il nostro Paese dev' essere orgoglioso. Al primo posto, tra questi, c'è naturalmente Paolo Borsellino, in gioventù esponente del Fuan, il movimento degli universitari di destra vicino al Msi. Il giudice non ha mai rinnegato il suo passato. Anzi. «Alcuni suoi veri amici», scriveva nel 1993 il collega Giuseppe Ayala, «erano gli stessi che frequentava negli anni dell'università. Penso a Giuseppe Tricoli, il professore di storia con il quale passò l'ultimo giorno della sua vita. 

O ad Alfio Lo Presti, un bravo ginecologo. A Guido Lo Porto, il deputato del Msi». E concludeva: «Queste amicizie forti di Paolo mi hanno fatto riflettere su un punto, sulla assurda criminalizzazione dei missini, fra i quali ci sono tantissime persone perbene. Perché non dirlo anziché attardarsi nel retaggio delle sciocche generalizzazioni?». Giriamo la domanda a Pd e Repubblica...

Sempre restando in Sicilia, veniva dagli ambienti missini anche Beppe Alfano, giornalista ucciso dalla mafia nel 1993, così come l'avvocato Enzo Fragalà, già parlamentare di An, ammazzato dalle cosche nel 2010 perché cercava di convincere i suoi assistiti a collaborare con la giustizia. 

E va ricordato Beppe Niccolai, deputato del Msi dal 1968 al 1976 e autore di una relazione alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia che fu definita «una cosa seria» da Leonardo Sciascia. Da Palermo a Bari. Dove ancora oggi un busto ricorda Araldo di Crollalanza, al quale si devono i lavori di riqualificazione del lungomare del capoluogo pugliese.

Podestà della città dal 1926 al 1928, poi sottosegretario e ministro dei Lavori pubblici, seguì in particolare i soccorsi e la ricostruzione in occasione del terremoto del Vulture del 1930. Per poi, nel dopoguerra, fare per decenni il senatore del Msi. Sotto la fiamma, infine, sono passati anche parecchi sportivi (come il pugile Nino Benvenuti), cantanti (come Sergio Caputo) e giornalisti (come Almerigo Grilz, inviato di guerra morto in Mozambico, e i direttori del Secolo d'Italia Alberto Giovannini e Giano Accame). E vanno ricordati i tanti giovani militanti uccisi durante gli Annidi Piombo, da Sergio Ramelli a Mikis Mantakas, da Carlo Falvella a Paolo Di Nella, per citarne solo alcuni. Davvero per qualcuno è una storia di cui la destra dovrebbe vergognarsi? 

Critica la Fiamma, ma la Segre tace sugli antisemiti Pd. È davvero difficile rivolgersi, anche per interposto quotidiano e con tutto il dovuto rispetto, a un monumento come la senatrice Liliana Segre. Giannino della Frattina il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.

È davvero difficile rivolgersi, anche per interposto quotidiano e con tutto il dovuto rispetto, a un monumento come la senatrice Liliana Segre che ha fatto della sua vita un esempio di straordinario coraggio e la testimonianza di come non si debba aver paura di sfidare anche il male più grande. Ma proprio per questo stupisce il suo silenzio di fronte all'emergere di quello che si era sempre saputo e cioè che la caccia all'antisemita più che a destra andrebbe fatta a sinistra. È bastato poco, grattare solo un po' di ipocrita apparenza per scoprire quanto odio verso Israele, fino a negarne la legittimità, ci sia nei giovani rampolli del Pd scelti dal segretario Enrico Letta per dare l'assalto al Parlamento. Non bastavano i centri sociali e le manifestazioni delle varie sinistre dove è abitudine bruciare le bandiere con la stella di David o gli assalti alla Brigata ebraica ogni 25 aprile a Milano, qui si tratta della classe dirigente del Pd, un partito che ha scoperto di essere nudo e di aver predicato la caccia all'antisemita senza accorgersi di averli allevati in casa. Tanto da dover cancellare la candidatura del capolista in Basilicata Raffaele La Regina e scoprire che anche la designata in Veneto Rachele Scarpa non è davvero tenera con Israele. E allora perché l'ultima uscita della senatrice Liliana Segre è stata per chiedere a Giorgia Meloni di cancellare la fiamma dal simbolo di Fratelli d'Italia e nulla le si è sentito dire sull'odio verso Israele dei candidati Pd? Anche perché Segre è senatrice a vita nominata e non eletta dal presidente Sergio Mattarella per rappresentare con la sua illustre esistenza ed esperienza il meglio degli italiani. E non una parte di loro. Così vien da pensare cosa sarebbe successo se a dire quelle cose fossero stati candidati di Fratelli d'Italia, di Forza Italia o della Lega. E allora, visto che proprio a Liliana Segre è stata affidata la presidenza della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza, quale migliore occasione per non convocare il segretario Letta e chiedergli ragione dell'antisemitismo del suo partito.

La richiesta di togliere la fiamma tricolore dal simbolo di Fratelli d'Italia. Chi era Alfredo Belli Paci, il marito di Liliana Segre: dalla candidatura col Msi alla polemica con Giorgia Meloni. Redazione su Il Riformista il 13 Agosto 2022

La senatrice a vita Liliana Segre, deportata e internata per oltre un anno nei campi di concentramento nazisti, ha chiesto ieri a Giorgia Meloni di togliere la fiamma tricolore, già simbolo del partito di ispirazione neofascista Movimento Sociale italiano, dal simbolo di Fratelli d’Italia. Il partito traina la coalizione di centrodestra, favoritissima per la vittoria alle elezioni politiche del prossimo 25 settembre, con Meloni che potrebbe diventare la prima donna Presidente del Consiglio della storia della Repubblica italiana. La polemica, dopo la richiesta di Segre, ha messo al centro la figura del marito della senatrice Alfredo Belli Paci, morto nel 2007, che si candidò proprio sotto il simbolo del Movimento Sociale Italiano.

È sempre di fascismo che si parla insomma: di fascismo e neofascismo, di quel lascito, con il centrosinistra ad additare il partito di Meloni per quelle influenze e quei riferimenti. “Nella mia vita ho sentito di tutto e di più, le parole pertanto non mi colpiscono più di un tanto. A Giorgia Meloni dico questo: inizi dal togliere la fiamma dal logo del suo partito. Partiamo dai fatti non dalle parole e dalle ipotesi”, ha scritto su Pagine Ebraiche Segre.

A risponderle un coro di voci dal centrodestra. Per esempio Ignazio La Russa, che ha spiegato come la fiamma non sia un simbolo fascista e che ha ricordato la candidatura di Belli Paci proprio con l’Msi. “Spero, inoltre, di non essere irriguardoso nel ricordare che il marito della stessa senatrice Segre, che ho personalmente conosciuto e apprezzato, si candidò con Almirante sotto il simbolo della fiamma con la scritta Msi senza ovviamente rinunciare alla sua lontananza dal fascismo”.

Il caso della candidatura di Belli Paci viene spesso rispolverato quando si tratta di Liliana Segre, quando la senatrice parla di fascismo, razzismo, antisemitismo, quando attacca la destra. Belli Paci nacque nelle Marche e visse a Milano. Entrò nell’esercito dopo aver frequentato l’accademia militare di Livorno. Fu sottotenente d’artiglieria in Grecia, rinunciò ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana quando fu catturato dai tedeschi. Rimase fedele al re. Fu internato e girò sette campi di prigionia. Poi si laureò in giurisprudenza e intraprese il mestiere di avvocato.

Segre e Belli Paci si incontrarono a Pesaro, lui aveva dieci anni in più di lei, colpita dalla somiglianza di quel giovane con il padre Alberto Segre. “Ci fu uno sguardo complice, pochissime parole. Un paio di giorni dopo notò il mio numero sul braccio. Io so cos’è, mi disse e lui mi raccontò che, avendo scelto di non aderire alla Repubblica Sociale, aveva trascorso due anni in sette campi di prigionia nazisti. Alfredo Belli Paci era uno dei seicentomila militari internati in Germania”, ha raccontato Segre a Che tempo che fa?.

I due si sposarono nel 1951 e fino alla morte di lui, nel 2007, vissero insieme. Hanno avuto tre figli: Alberto, Luciano e Federica. Belli Paci, conservatore di destra e antifascista cattolico, presidente di Unione Popolare nazionale, decise di aderire alla lista del Movimento Sociale Italiano – Destra nazionale guidato dall’ex funzionario dalla Rsi Giorgio Almirante. E si candidò come “indipendente” nel 1979 alle elezioni politiche per la Camera dei deputati. Neanche 700 voti.

“Mio marito, che era stato uno che aveva scelto due anni di internamento pur di non stare nella Repubblica sociale, vedendo molto disordine, per un certo periodo aderì a una destra in cui c’era anche Almirante”, ha raccontato la senatrice alla trasmissione di Fabio Fazio. “Io ho molto sofferto e ci fu una grande crisi. A un certo punto misi mio marito e me sullo stesso piano e dovevamo sceglierci di nuovo. O separarci”. A quel punto Belli Paci cambiò idea. “Per fortuna lui rinunciò per amore nei miei confronti a una eventuale carriera politica. E io aprii le braccia a un amore ritrovato e fummo insieme per altri 25 anni”.

Di quelle tensioni e di quei tormenti in famiglia raccontò anche Luciano Belli Paci in un’intervista a Il Giornale. “Ero il segretario provinciale dei giovani del Psdi, poi ho militato nel Psi, nei Ds, in Sd, Sel e infine Liberi e Uguali. Non mi sono spostato io, che resto sulle posizioni di Saragat”. Il padre aveva lavorato con liberali, monarchici e antifascisti a quel progetto chiamato Costituente di Destra poi diventata Democrazia Nazionale. “Non le nascondo che fu un periodo difficile per lei e che la scelta di mio padre portò a delle lacerazioni nei nostri rapporti. Fin quando poi si decise a mollare tutto e a fare l’avvocato, da solo e poi insieme a me”.

La fiamma delle polemiche, il figlio di Liliana Segre: "Mio padre non era del Msi". Ma spuntano le liste. Il Tempo il 14 agosto 2022

La senatrice a vita Liliana Segre ha chiesto a Giorgia Meloni di rimuovere dal simbolo di Fratelli d'Italia la fiamma tricolore, in continuità con l'eredità di Alleanza Nazionale e prima ancora del Movimento sociale italiano. Una richiesta respinta con decisione da Fratelli d'Italia, che ieri ha depositato il simbolo al ministero dell'Interno con la fiamma al suo posto. In questo contesto Ignazio La Russa ha ricordato, sperando "di non essere irriguardoso", che "il marito della stessa senatrice Segre, che ho personalmente conosciuto e apprezzato, si candidò con Almirante sotto il simbolo della fiamma con la scritta Msi senza ovviamente rinunciare alla sua lontananza dal fascismo", sono le parole del dirigente FdI. 

Il riferimento è ad Alfredo Belli Paci scomparso nel 2008, marito di Segre. Il figlio della coppia, Luciano Belli Paci, è intervenuto sulla vicenda domenica 14 agosto con un'intervista al Fatto in cui afferma: "Questa storia fa ridere, la tirano fuori ciclicamente per colpire mia madre, ma non regge a livello di logica: fu proprio lei a raccontare che quel fatto mise in crisi il matrimonio e le cose tornarono a posto perché mio padre abbandonò la carriera politica”.

Belli Paci dichiara che "mio padre era un antifascista, dopo l’8 settembre 1943, da ufficiale dell’esercito, rifiutò di aderire alla Rsi e si fece due anni di campo di concentramento. Negli Anni 70, ingenuamente secondo me, aderì a un’iniziativa di cui oggi si è persa memoria che si chiamava 'costituente di destra', un’idea di Almirante per coinvolgere ambienti della destra liberale e sdoganare il Msi. Parteciparono liberali, democristiani, monarchici, perfino qualche ex partigiano (...). Un’adesione che non fu senza conseguenze. Lo raccontò mia madre da Fabio Fazio due anni fa, davanti a milioni di telespettatori. Quella scelta mise in crisi il loro matrimonio, la rottura rientrò quando mio padre tornò sui suoi passi scegliendo una volta in più sua moglie. Eppure, due anni dopo, riecco la storia del 'marito missino' usata per zittire Liliana Segre. Una cosa ridicola. Mio padre non lo è mai stato. E se lo fosse diventato, difficilmente sarebbe stato ancora il marito di Liliana". 

Versione che non è sufficiente a placare le polemiche. Il Secolo d'Italia infatti contesta a Belli Paci di "sfumare" il coinvolgimento del padre con il Msi e nel farlo pubblica le liste elettorali dell'epoca sostenendo che il marito di Segre "è stato convintamente almirantiano". Il quotidiano ha pubblicato i candidati del Msi alle elezioni  politiche del 3 e 4 giugno 1979, con Belli Paci sesto in lista nella Circoscrizione Milano-Pavia. Una posizione di rilievo, spiega il Secolo, per "un candidato di prestigio, di assoluto prestigio per la Fiamma tricolore. È il 1979, siamo nel pieno degli 'anni di piombo'. E a Milano, anche solo comprare il Secolo d’Italia all’edicola, è un rischio. Candidarsi, quindi, con il Msi-Dn è una scelta di campo coraggiosa. Né tiepida, né moderata", si legge nell'articolo. 

Da iltempo.it il 14 agosto 2022.

La senatrice a vita Liliana Segre ha chiesto a Giorgia Meloni di rimuovere dal simbolo di Fratelli d'Italia la fiamma tricolore, in continuità con l'eredità di Alleanza Nazionale e prima ancora del Movimento sociale italiano. 

Una richiesta respinta con decisione da Fratelli d'Italia, che ieri ha depositato il simbolo al ministero dell'Interno con la fiamma al suo posto. In questo contesto Ignazio La Russa ha ricordato, sperando "di non essere irriguardoso", che "il marito della stessa senatrice Segre, che ho personalmente conosciuto e apprezzato, si candidò con Almirante sotto il simbolo della fiamma con la scritta Msi senza ovviamente rinunciare alla sua lontananza dal fascismo", sono le parole del dirigente FdI.

Il riferimento è ad Alfredo Belli Paci scomparso nel 2008, marito di Segre. Il figlio della coppia, Luciano Belli Paci, è intervenuto sulla vicenda domenica 14 agosto con un'intervista al Fatto in cui afferma: "Questa storia fa ridere, la tirano fuori ciclicamente per colpire mia madre, ma non regge a livello di logica: fu proprio lei a raccontare che quel fatto mise in crisi il matrimonio e le cose tornarono a posto perché mio padre abbandonò la carriera politica”.

Belli Paci dichiara che "mio padre era un antifascista, dopo l’8 settembre 1943, da ufficiale dell’esercito, rifiutò di aderire alla Rsi e si fece due anni di campo di concentramento. Negli Anni 70, ingenuamente secondo me, aderì a un’iniziativa di cui oggi si è persa memoria che si chiamava 'costituente di destra', un’idea di Almirante per coinvolgere ambienti della destra liberale e sdoganare il Msi. Parteciparono liberali, democristiani, monarchici, perfino qualche ex partigiano (...). Un’adesione che non fu senza conseguenze.

Lo raccontò mia madre da Fabio Fazio due anni fa, davanti a milioni di telespettatori. Quella scelta mise in crisi il loro matrimonio, la rottura rientrò quando mio padre tornò sui suoi passi scegliendo una volta in più sua moglie. Eppure, due anni dopo, riecco la storia del 'marito missino' usata per zittire Liliana Segre. Una cosa ridicola. Mio padre non lo è mai stato. E se lo fosse diventato, difficilmente sarebbe stato ancora il marito di Liliana". 

Versione che non è sufficiente a placare le polemiche. Il Secolo d'Italia infatti contesta a Belli Paci di "sfumare" il coinvolgimento del padre con il Msi e nel farlo pubblica le liste elettorali dell'epoca sostenendo che il marito di Segre "è stato convintamente almirantiano".

Il quotidiano ha pubblicato i candidati del Msi alle elezioni  politiche del 3 e 4 giugno 1979, con Belli Paci sesto in lista nella Circoscrizione Milano-Pavia. Una posizione di rilievo, spiega il Secolo, per "un candidato di prestigio, di assoluto prestigio per la Fiamma tricolore. È il 1979, siamo nel pieno degli 'anni di piombo'. E a Milano, anche solo comprare il Secolo d’Italia all’edicola, è un rischio. Candidarsi, quindi, con il Msi-Dn è una scelta di campo coraggiosa. Né tiepida, né moderata", si legge nell'articolo.

Lu. S. per liberoquotidiano.it il 14 agosto 2022.

Scontro a distanza tra Gad Lerner e Ignazio La Russa. Tema: la Segre e la fiamma del Msi. Puntate precedenti: venerdì la senatrice a vita ha chiesto a Giorgia Meloni di «togliere la fiamma dal logo del suo partito». Ignazio La Russa, a stretto giro, le ha risposto: «Spero di non essere irriguardoso nel ricordare che il marito della senatrice Segre, che ho personalmente conosciuto e apprezzato, si candidò con Almirante sotto il simbolo della fiamma con senza ovviamente rinunciare alla sua lontananza dal fascismo».

 Ieri, su questo, Gad Lerner ha twittato: «La Russa che rinfaccia a Liliana Segre le simpatie di destra del defunto marito, da lei molto amato, è il tipico colpo basso. C'è sempre un incaricato per i mestieri sporchi in quel genere di gruppi dirigenti, e Ignazio La Russa vi si presta benissimo».

Controreplica di La Russa: «Non mi sembra un colpo basso ricordare alla senatrice Segre che il marito era una persona perbene capace di stare in lista con Almirante senza perdere la sua lontananza dal fascismo. Bassissimo, invece, è l'elogio che Gad Lerner continua a fare nei confronti di Adriano Sofri, condannato in via definitiva come mandante dell'omicidio Calabresi e che lui ha dichiarato essere "sempre stato dalla parte giusta". La stessa "parte giusta" di Lerner».

Flavia Amabile per “La Stampa” il 14 agosto 2022.

Togliere la fiamma tricolore dal simbolo di Fratelli d'Italia? «Sarebbe un errore», sostiene Luca Marsella, portavoce di CasaPound. «Il passato non si rinnega, le radici non si spezzano», spiega. Ma quello che poi Giorgia Meloni sceglierà per il suo partito sono affari suoi. Anche se alcuni mesi fa veniva data per certa la presenza di esponenti di CasaPound nelle liste elettorali di Fratelli d'Italia le cose sono andate in modo molto diverso.

Fratelli d'Italia si è alleata con la Lega e Forza Italia e alla sua destra è spuntata una galassia di piccoli partiti che con Giorgia Meloni non vogliono avere nulla a che fare. «Può ripudiare il fascismo in tre lingue diverse, non le darà l'accesso al mondo dei buoni», l'avverte Luca Marsella. Perché, vista dall'estrema destra, Giorgia Meloni appare una traditrice. 

«Non sono di Fratelli d'Italia quindi ognuno è libero di fare quello che vuole ma non si sputa sul passato», sostiene Marsella. E anche se alla fine la fiamma svetta fiera nel simbolo di Fratelli d'Italia, il giudizio resta severo. Meloni rischia di diventare una vittima della sinistra. Oggi si accaniscono con il simbolo e domani che altro le chiederanno di rinnegare?».

Infatti dalle parti di CasaPound sulle schede elettorali i voti difficilmente andranno a Fratelli d'Italia o Giorgia Meloni. I nomi di riferimento sono Carlotta Chiaraluce e Giovanni Frajese, entrambi candidati nelle liste di Italexit di Gianluigi Paragone. Carlotta Chiaraluce, compagna di Marsella, è stata la protagonista del successo ottenuto da CasaPound a Ostia . Nel 2017 il movimento raggiunse il 9% dei voti e lei è stata la candidata più votata del X Municipio di Roma.

Quando è scoppiata la polemica sulla fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia, su Twitter ha scritto parole molto simili a quelle del compagno: «È sempre lo stesso schema: la sinistra che dice alla destra come deve essere e la destra che, per farsi accettare, asseconda i diktat della sinistra. Vi segnalo che gli italiani vogliono un cambiamento e di questi teatrini ne hanno pieni le palle». 

Non è di fiamme o di fascismo che CasaPound vuole parlare nella campagna elettorale che è iniziata. «I problemi sono altri, riguardano la tirannia di Draghi, la necessità di combattere l'obbligo vaccinale», spiega Marsella. Sono temi per cui CasaPound intende battersi senza i compromessi che potrebbero arrivare da una Giorgia Meloni proiettata verso palazzo Chigi.

E che per la prima volta dal 2013 porterà avanti senza avere il proprio simbolo sulle schede elettorali. Non hanno superato lo sbarramento del 3% nel 2018 quando si erano fermati allo 0,95% dei consensi. Sanno di non poter ottenere un risultato migliore il 25 settembre. La strategia seguita quindi è di fornire idee e candidati ad altre organizzazioni politiche con la libertà per i militanti di iscriversi anche ad altri partiti.

Alla fine la scelta è caduta su la lista di Gianluigi Paragone facendo saltare l'alleanza tra Italexit e Alternativa per l'Italia creata da Simone Di Stefano, ex portavoce di CasaPound, e Mario Adinolfi. Non saranno insieme sulla scheda elettorale, quindi, le due formazioni che cercano di attirare il voto dell'estrema destra, ma di fatto alleati comunque contro Giorgia Meloni. Simone Di Stefano, quando gli si chiede della fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia, liquida la questione con un «Me ne frego». Nostalgico. Sempre

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 12 agosto 2022.

Giorgia Meloni vuole davvero consegnare il fascismo alla storia? Allora tolga la fiamma tricolore dal simbolo di Fratelli d'Italia. Il giorno dopo il video (in inglese, francese e spagnolo) con cui la leader di Fdi ha voluto rassicurare la stampa estera sulla sua estraneità da qualsiasi nostalgia del Ventennio, il Pd non si accontenta e torna alla carica. 

Mentre lei, l'aspirante premier, minimizza le sue parole di condanna del fascismo, perché «sono almeno vent' anni che le dico - spiega a RadioRai - La sinistra fa finta che non le abbia dette, perché ha un problema serio a entrare sui contenuti» e «cerca sempre di nascondersi dietro la coperta di Linus dei suoi slogan triti e ritriti».

Ma, secondo Meloni, «il problema di tutto questo non è ovviamente il risultato per Fratelli d'Italia, il problema è che raccontare questo nuoce all'Italia». Tanto che nel centrodestra, in particolare da Lega e Forza Italia, quasi nessuno interviene sull'argomento. Una difesa d'ufficio arriva da Maurizio Lupi (Noi con l'Italia), durante la presentazione della lista unica dei moderati del centrodestra: «Non esiste il problema del fascismo nel nostro Paese, non esiste definire un mostro Giorgia Meloni - dice - attaccarla è discreditare la nostra democrazia».

Dal Partito democratico, però, non si trattengono e insistono. Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, si dice «contento della condanna del fascismo da parte di Meloni, ma se l'avesse fatto qualche settimana prima sarebbe stato più credibile - precisa - che ci siano elementi di nostalgia ancora presenti lo dimostra il fatto che Meloni si è sentita di doverlo fare in più lingue».

Dura anche la vicepresidente dell'Emilia-Romagna Elly Schlein: «Se lasci la fiamma nel simbolo non bastano due minuti di video per smarcarsi dalle ambiguità - avverte - Non l'ho sentita dire che non ci saranno fascisti e nostalgici nelle sue liste». 

La richiesta di "spegnere" la fiamma, proprio alla vigilia della presentazione dei contrassegni al Viminale, ricorre in tutte le dichiarazioni degli esponenti dem. Per l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, quella è una «raffigurazione del regime che risorge dalla tomba del dittatore. Non basta dichiararsi non-fascisti, la nostra Costituzione è antifascista - attacca - Non fate i furbi per un voto in più».

La deputata Cecilia d'Elia, invece, più che al passato guarda al futuro «che Meloni propone e che ci preoccupa: Dio patria e famiglia - naturale chiaramente - quell'idea di società autoritaria e illiberale, che condivide con il suo amico Orban e l'estrema destra spagnola». Mentre il collega Andrea Romano offre un ripasso di storia, ricordando che «quella fiamma è da sempre un riferimento esplicito alla fiammella che arde sulla tomba di Benito Mussolini e per questo è il principale simbolo del neofascismo italiano». 

A fare da scudo a Meloni e alla fiamma è Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di Fratelli d'Italia, che sfida Romano sul suo terreno (la storia): «La fiamma è un simbolo del secondo dopoguerra che nulla a che vedere con i totalitarismi del'900 - spiega - Il simbolo simmetrico alla falce e martello è la croce uncinata nazista e il fascio littorio e tutti e tre sono stati stigmatizzati dal Parlamento europeo da una risoluzione».

Insomma, a tutti quelli che vorrebbero estirpare la fiamma dal cuore di FdI, il messaggio è il seguente: «Non è il Pd a rilasciare patenti di democraticità, esiste una Costituzione e a questa ci atteniamo, come dovrebbero fare loro», chiude Rampelli. Oggi il simbolo del partito verrà depositato al ministero dell'Interno così com' è.

Antonio Scurati insulta la Meloni? Cosa spunta sul conto del "furbetto". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 14 agosto 2022

Che schifo, però. Usare la storia di un giovane innocente ucciso barbaramente per attaccare un leader politico. E disconoscere il diritto di onorare la memoria dei morti - gesto su cui si fonda la nostra civiltà denigrandolo come «eccesso di perbenismo democratico». Non sono degne dell'intelligenza di Antonio Scurati, lo scrittore divenuto celebre col romanzo M. su Mussolini, né della pietas che dovrebbe connotare chiunque faccia il suo mestiere, le dichiarazioni rilasciate ieri a La Repubblica in cui lui, per tenere in vita l'ormai bolso, oltreché del tutto infondato, parallelo tra Meloni e Mussolini, ha mancato di rispetto a Sergio Ramelli, il diciannovenne missino ucciso a Milano nel 1975 a colpi di chiave inglese da belve di estrema sinistra. Ecco, per Scurati, onorare quel martire, come ha fatto la Meloni lo scorso aprile, non è un atto di umana pietà o un nobile gesto simbolico, ma è la testimonianza, va da sé negativa, di «una continuità esistenziale con la storia dalla quale lei proviene», cioè quella del «neo fascismo»; e il fatto che lo abbia commemorato pure il sindaco Sala, di tutt' altra estrazione politica, è un'aggravante: il primo cittadino di Milano, dice Scurati, «ha sbagliato per eccesso di perbenismo democratico».

FURORE IDEOLOGICO

Dietro queste parole disgustose non c'è solo il furore ideologico di una sinistra che si crede ancora in diritto di stabilire quali siano i morti giusti e quali quelli sbagliati da ricordare. C'è anche la furbizia, umana troppo umana, di Scurati che ha capito quanto gli convenga sparlare di ciò che gli garantisce il successo. Lo scrittore ha fatto una fortuna, anche economica, grazie alla sua saga su Mussolini, il cui primo volume, M. Il figlio del secolo (Bompiani), ha venduto oltre 600mila copie, è stato tradotto in 44 Paesi, gli ha permesso di vincere il Premio Strega e presto diventerà una serie su Sky. E, come nelle serie di Rocky col Ritorno e la Vendetta, ha avuto già un seguito, e il prossimo 14 settembre avrà la terza puntata, M. Gli ultimi giorni dell'Europa.

Con questa trilogia Scurati si è accreditato come figura di riferimento negli ambienti dell'antifascismo culturale militante (praticamente il95% dei circoli culturali italiani), è diventato l'intervistato ideale per i giornali di quell'area (che credono di essere depositari del Pensiero), il talismano perfetto per evocare lo spettro del fascismo e insieme per scongiurarne il ritorno. Ingredienti buoni a farsi una carriera in Italia e anche una fraccata di soldi, dopo un percorso da scrittore pieno di alti e bassi. Ma, se dai la caccia alle streghe fasciste, da noi prima o poi vinci il Premio Strega... E così, beneficiato da Benito, Scurati si permette di sputare sul suo benefattore e di dare patenti di neofascismo alle sue presunte eredi, come la Meloni. Torna sull'ormai trito e ritrito mito della continuità di Giorgia con il Duce, «più che sul fronte del fascismo su quello del populismo» in quanto la leader di Fdi avrebbe lo stesso «opportunismo funambolico» e la medesima «prontezza a rinnegare, ad abiurare» che furono di Mussolini. Le sue parole di condanna del regime, dice lo scrittore, sono «un patetico trucco», «abiure insoddisfacenti e parziali». Non se ne esce: se la Meloni rinnega, finge; se non rinnega, sbaglia; se è pronta a rinnegare, è populista; se rinnega a metà, è fascista. L'unica soluzione, per lo scrittore, è che Giorgia faccia piazza pulita di tutto ciò che è stata, della sua identità politica e della simbologia del suo partito, a cominciare dalla fiamma, «il simbolo principale del neo fascismo italiano dal 1946». Ricordiamo sommessamente a Scurati che quel simbolo è il più longevo della storia repubblicana italiana, è stato sempre compatibile con la nostra democrazia e non è mai stato associato a fatti di sangue, a differenza della falce e martello, in nome della quale si sono compiuti orrori in tutto il Novecento. E poi, scusate: la Meloni non può utilizzare un simbolo che fa parte del suo passato e presente politico, e Scurati può usare invece la simbologia cromatica nazista sulla copertina del suo prossimo libro a fini di marketing? 

DISPREZZO SNOB

Aggiungeteci poi il disprezzo snob dell'intellettuale verso il "popolino" che vota a destra: per Scurati la gente sceglie la Meloni perché è triste ed incazzata. «Dalla fine degli anni Novanta», sostiene, «hanno cominciato a prevalere le passioni tristi, la paure, i rancori ed è lì che si sono rafforzati i partiti che guidano le masse seguendole. Proprio come fece Mussolini». Ammazza che analisi politica... Una semplificazione che fa torto al suo titolo di "accademico". E per di più è irriguardosa verso i milioni di cittadini che voteranno per Fratelli d'Italia. Eh già, ora la sinistra non si limita più a insegnare alla Meloni come fare la leader, ma ha anche la pretesa di stabilire come la gente dovrebbe votare. Solo se vota a sinistra, è felice e fiduciosa... Ecco, a quei milioni di cittadini offesi dallo scrittore consigliamo di diventare elettori della Meloni e non lettori di Scurati. Rifiutarsi di comprare i suoi libri sarà il miglior modo per rispedirlo nell'oblio dal quale viene. Ché sono ben altri i personaggi degni di essere ricordati. Come Ramelli. Onore a lui, e disonore per S. Il figlio furbo del Politicamente Corretto. 

Estratto dell'articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Qui si parlerà di donne e politica, donne in politica, della differenza che c'è fra Elly Schlein Mara Carfagna e Giorgia Meloni, si dirà che tutte e tre potrebbero essere Presidente del Consiglio di questo Paese ma una è in leggero vantaggio, diciamo così. (…) 

Una Donna Presidente o La Prima Donna Presidente non significa assolutamente niente, come da anni si ripete qui allo sfinimento, poiché le donne come ogni essere vivente, come i sacrosanti bambini persino, rispondono alle categorie degli umani: ce ne sono di intelligenti e di idiote, di generose e di avide, di corrotte e di integre, di coraggiose e di pavide, per tacere dell'aspetto che non mi pare democratico né sororale. Ci sono, al mondo della politica, Sanna Marin e Sarah Palin: ditemi voi cosa hanno in comune oltre a quel che non si può dire a meno che non sia anche percepito, J. K. Rowling è alla gogna per averlo fatto - oggi vorrei stare tranquilla e lo darò per sottinteso.

Certo, le donne se ballano sono tendenzialmente zoccole e non simpaticamente disinvolte quanto un uomo che balla, se urlano sono isteriche e non volitive, se minacciano di morte sono trattate con psicofarmaci e non diventano capi di gabinetto. Ma questo è un fatto politico, che è appunto ciò di cui si discute qui. Non è una questione di genere, è una questione di cultura diffusa.

Cominciamo dagli indizi, dagli inizi. Meloni (destra) Carfagna (centro) e Schlein (sinistra) sono persone che, per come le conosco, hanno un tratto in comune, anzi due: sono studiosissime, di quelle che quando gli altri vanno a dormire restano sul compito dell'indomani, lavorano ossessivamente, difficile che alla prova tu le trovi impreparate. Sono ambiziose, anche, e ostinate. Nessuna delle tre ha avuto stesi i tappeti rossi, al principio: a nessuna hanno detto prego si accomodi alla leadership. Il tipo di insidie che hanno dovuto affrontare è stato, tuttavia, di segno diverso.

Giorgia Meloni si è affermata in un mondo - dentro un'idea di mondo - dove le donne sono mogli e madri, servono principalmente a riprodursi: a produrre uomini che vadano in battaglia. 

Ancelle, vanto domestico. Ha ribaltato il segno perché era motivata dalla biografia e caparbia per talento, naturalmente, ma anche perché gli altri possibili leader - impresentabili avanzi del Novecento - hanno capito che con lei potevano pensare l'impensabile: vincere. Giovane, donna, nuova, perfetta: una testimonial formidabile, una front-woman, quello che serve. Bravi, perché gli altri non ne sono stati capaci.

Si immagina che a Ignazio Benito La Russa sia costato parecchio dire vai avanti tu, Giorgia, ma persino lui l'ha fatto: conveniva a tutti e la "ragazza" (a lungo e tuttora in privato irrisa, specie tra gli alleati) è, obiettivamente, tostissima.

Anche Mara Carfagna ha passato le forche caudine del sessismo, ma di tipo diverso. Le donne, nell'idea di mondo di Berlusconi, non hanno la funzione di riprodursi (tranne alcune, selezionatissime angelicate e recluse nel castello) ma di intrattenere: sono il ristoro del soldato, il premio di tante fatiche, la gioia per gli occhi e, eventualmente, per il resto del corpo

Carfagna, giovane di strabiliante bellezza, superò facilmente il casting estetico del personale politico ma si trovò presto, grazie alle sue doti di discrezione e serietà, al confine tra le due categorie: avrebbe potuto persino essergli moglie - le disse Lui un giorno, come il maggiore dei complimenti. Solo che la bellezza, incredibilmente, non era la principale delle sue virtù.

(…) Sarebbe stata un'ottima idea - un'ottima avversaria di Meloni - ma sia Renzi che Calenda vengono dal centro del Pd, dalla pancia della misoginia strutturale che, a sinistra, si nasconde a parole e si pratica nei fatti.

E difatti, Elly Schlein. (…)  non è passata dal casting paternalistico, che a sinistra percaritadiddio non esiste, ma ha dovuto forzare la saracinesca del partito col piede di porco e poi, da fuori, mostrare la potenza di fuoco. (…)  Generazioni di giovani donne bravissime, tuttavia non al punto di ribaltare il tavolo e denunciare l'andazzo. Non conveniva, del resto. 

Restare buone, al proprio posto, mettersi in fila in corrente prima o dopo avrebbe dato i suoi frutti: ti avrebbero scelta, chiamata. Ma nessuno ha mai fatto la rivoluzione prendendo il numero d'ordine alle poste, prego è il suo turno. Nessuno ha mai cambiato le regole adattandosi alle regole.

Chi ti porta, di chi sei? - è sempre la domanda declinata al femminile.

Se ti porta qualcuno, trattiamo. Vediamo di trovarti un posto in cambio del virile consenso. Se non ti porta nessuno, ti eliminiamo.

E' costellata di salme muliebri la superiorità etica della sinistra. E certo che disturba, adesso, vedere la Prima Donna a destra. Ma lì qualcosa di semplice ha funzionato, e non è meritocrazia né eguaglianza di genere: è convenienza. Di qua, maschi alla decima legislatura non mollano l'osso e giovani donne entrano, ma solo se sono state portavoci, se sono certamente valide ma almeno mogli, se hanno proceduto come da consegne. Non Elly Schlein, direi. E nel suo modo neppure Mara Carfagna. Sarebbe stato bello oggi vederle contendere a Giorgia Meloni il primato -persino in un dibattito tv. Io lo guarderei, le ascolterei. Ma in questo la destra, semplicemente, è stata come sovente accade più svelta e più spiccia.

Non sarà un bene per le donne in generale, avere una donna di destra Presidente. Ma sarà certo una lezione per la sinistra in particolare. Speriamo che serva, speriamo che ci sia più d'una, tra le ragazze del futuro della canzone popolare, che impari a dire ora basta, ora no. (Aggiungo, in margine all'ultimo dibattito parafemminista, che anziché mettere l'asterisco dichiaro di usare "presidente" come fosse di genere neutro, genere che nel passaggio dal latino l'italiano ha perduto. Ripristinare il neutro, ecco una battaglia lessicale interessante per le Femen dottorate in filologia romanza).

Poi, volendo, si può passare alla battaglia al patriarcato e fotterlo, come direbbero loro, coi fatti. Prendersi la scena da sole, perché lasciare non te la lasciano. Sarebbe ottimo già questa volta, ma se non si fa in tempo va bene anche cominciare a lavorarci per la prossima.  

Estratto dell’articolo di Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano” il 22 agosto 2022.

[…] Professoressa Eva Cantarella, lei è contro le quote rosa, contro l'idea.

Io sono contro la formalizzazione di genere. Una donna può essere dichiaratamente antifemminista. Prenda Giorgia Meloni, le sue idee non sono mie e la sua retorica oratoria suggestiona la realtà e la descrive in senso regressivo: sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana eccetera. […] Legare la persona, legare l'identità di donna alla condizione di madre è già un giudizio fondativo dell'esistenza […]

[…] Ma secondo lei non tutte le donne concorrono alla conquista di una effettiva parità tra sessi.

Contano le idee non il sesso. Le battaglie femministe della metà del secolo scorso, a cui anch' io ho concorso, adesso sembrano affievolite. […] 

La conquista dei grandi temi dei diritti civili.

Dell'aborto per esempio. La vita si tutela alla nascita o al concepimento? Una scelta che manda avanti o indietro le lancette del tempo. Temo che la Meloni sul punto non la pensi come me. 

Oggi le cose come stanno?

Un po' peggio di ieri. I diritti civili, tra cui l'aborto, sono rimessi - timidamente o meno - in discussione. E così anche gli altri diritti subiscono il clima del tempo. 

[…] Una donna al Quirinale?

Espressione orribile, non voterei mai una donna solo perché donna.

Siamo vicini a una donna a Palazzo Chigi.

Se è di destra il suo discorso pubblico ha i caratteri marcatamente antifemministi, mi sembra chiaro. Le sue idee sono legittime ma lontane dalle mie. Non la voterei mai, ecco.

La favola del fascino immaginario del fascismo. Gli italiani che erano stati giovani durante il Ventennio, evitavano di parlare della guerra, ma rimpiangevano servizi sociali e welfare. Paolo Guzzanti il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Germogliano inaspettati filoni di nuovo dibattito sulla destra non per sapere che cosa pensi di fare Giorgia Meloni se conquisterà il campanello di Presidente del consiglio, ma per la solita storia del fascismo di cui quasi nessuno dei viventi ricorda granché. Io, che avrei anni sufficienti non ricordo nulla di memorabile del fascismo, ma molto degli italiani che erano stati giovani quando lo avevano attraversato. Tutti evitavano di parlare della guerra, ma tutti rimpiangevano i servizi sociali, il welfare che aveva procurato molti fan all'estero del sistema italiano. E poi il rimpianto dei contadini per le colonie estive per i figli, i treni popolari, una molto allusa ed ovvia libertà sessuale.

Fino ai miei trent'anni da giornalista socialista ho scazzottato come era d'uso con fascisti e fascistelli intorno e dentro l'università. Un paio di volte ci scappò il morto. La storia di cui parliamo è nata da un articolo di Corrado Augias su Repubblica e di cui ha ieri scritto Alessandro Gnocchi a commento di un intellettuale pacato e intelligente secondo cui essere fascisti a quell'epoca era qualcosa di simile a uno stato d'animo. Uno diceva secondo questa interpretazione come ti senti? E l'altro: un po' fascista. Sarà vero? Certo che no, però sono tempi in cui ci si contenta molto. Quando un paio di anni fa incontrai Eugenio Scalfari nella piccola libreria antiquaria di via di Piè di Marmo, mi chiese cosa stessi cercando. Risposi che stavo cercando alcuni libri sul 1943 per un mio studio storico. Gli si illuminarono gli occhi e battendo su col bastone sulle piastrelle della libreria gridò: «Il 1943! Un anno indimenticabile». E fu davvero un anno indimenticabile perché il 19 luglio gli americani bombardarono Roma, il re fece un complotto con i gerarchi dissidenti convocando il Gran Consiglio del fascismo che era un organo costituzionale inserito nello statuto albertino, per la sera del 24 luglio.

A tarda notte dopo ampio e approfondito dibattito, fu tenuta una regolare votazione parlamentare in cui Benito Mussolini - capo di un governo costituzionale che era cominciato con un incarico nel 1922 per mettere in piedi una coalizione e che soltanto dal 1926 con la crisi dell'omicidio Matteotti si trasformò in una dittatura a causa dell'abbandono per due anni di deputati e senatori dalle loro aule - fu messo in minoranza, spogliato del ruolo di duce. Fu preso a male parole dalla moglie Rachele quando tornò a casa e lei disse «va là ben sei proprio un gran testardo, il tuo amico Hitler con quattro dei suoi gli avrebbe sparato a tutti», cercò di rabbonirlo mentre si toglieva le scarpe dicendo «domani vado dal re e calmo tutte le acque». L'indomani quando andò dal re a villa Torlonia il piccolo monarca non gli fece aprir bocca e disse: «Ho già nominato il maresciallo Pietro Badoglio capo del governo». Mussolini si sedette in stato di choc e il re aggiunse: «Tutte le misure sono prese e un'ambulanza vi porterà al sicuro».

Il resto lo sappiamo: Mussolini fu fucilato due anni. Dopo qualche mese più tardi la bara fu trafugata sicché nacque la leggenda di un fuoco fatuo tricolore e che generò il simbolo della fiamma tricolore del Msi. Corrado Augias e alcuni arditi intellettuali dibattono ora su un nuovo tema troppo a lungo trascurato: se il fascismo, fosse stato, al di là della politica anche uno stato d'animo sintetizzato dalla battuta «Oggi mi sento un po' fascista». Tra quelle di casa mia, di emozioni ricordo quella di mio padre, ingegnere delle Ferrovie che quando Hitler venne a Roma con la capitale in ghingheri e piena di svastiche, ricevette dal gerarca l'ordine di salire sul treno di Hitler, copiare tutto per rifarne uno identico al Duce. Mio padre lo visitò, misurò e poi disse semplicemente: «Non si può fare una copia di questo treno in Italia». Un pugno lo stese a terra da dove mio padre spiegò i motivi per cui il treno tedesco non poteva essere riprodotto.

Eugenio Scalfari, quando ci incontrammo due anni fa in libreria proseguì: «Nel 1943 io non ero fascista». Si fermò guardandomi con una lunga pausa: «Io nel 1943 ero fascistissimo!». Quando dette alle stampe la sua autobiografia dettata a due colleghi, iniziò con una descrizione dei sentimenti di disarmante entusiasmo fascista, pur avendo l'età in cui Piero Gobetti fu ammazzato dai fascisti.

Ruggero Zangrandi nel suo «Lungo viaggio attraverso il fascismo» raccontò moltissime storie di giornalisti, scrittori e intellettuali fascisti fra satira e cinematografia come Fellini, tutti professionisti, pittori modernissimi della scuola romana e man mano tutta quella intellighenzia che passò al Partito comunista del geniale Palmiro Togliatti, oggi celebrato in piazze, strade e cavalcavia come un patriota; ma sarebbe utile ascoltare le parole che Togliatti pronunciò al sedicesimo Congresso del partito comunista del 1930: «É motivo di particolare orgoglio per me aver abbandonato la cittadinanza italiana per quella sovietica. Io non mi sento legato al d'Italia come alla patria ma mi considero cittadino del mondo, di quel mondo che noi vogliamo unito a Mosca agli ordini del compagno Stalin. È motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista. Come cittadino sovietico sento di valere diecimila volta volte di più del migliore cittadino italiano».

Estratto dell’articolo di Claudio Reale per “la Repubblica” il 30 Agosto 2022.

[…] Meloni se la prende con le artiste, da Levante a Elodie, che si sono schierate contro di lei («Oggi - dice - il mood degli artisti è "mi alzo e insulto Giorgia Meloni". Secondo me quelli che la pensano in maniera diversa non hanno il coraggio di dirlo. Non è che lo fanno perché pensano che questa sinistra democratica poi non li fa più lavorare? »). […]Da repubblica.it il 30 Agosto 2022.

In quanto donna che non le rappresenta, Giorgia Meloni subisce la rabbia e lo scherno delle transfemministe di Olbia. Così un manifesto elettorale di FdI è stato strappato da attiviste Infogau durante il Pride celebrato nella località sarda, lo scorso venerdì 26 agosto. 

L'azione, immortalata in un video diventato virale, oltre a trovare la disapprovazione sui social - c'è chi l'ha definito un gesto "fascista" - ha provocato le proteste dei vertici locali di Fratelli d'Italia. 

Nelle immagini si vede un gruppo di attiviste attorno al manifesto - Meloni in primo piano, lo slogan "Pronti a risollevare l'Italia" - che viene poi strappato in più punti, gettato a terra e calpestato, mentre i giovani applaudono e saltano gridando "chi non salta fascista è". 

"Quel manifesto è stato affisso in uno spazio, quello spazio assegnato da un privato, previo pagamento, ad un altro privato. È questo l'esempio della civiltà che siamo/siete? È questo il modo di agire? Il non rispetto degli altri?", la denuncia della coordinatrice regionale di FdI, Antonella Zedda, e del presidente del partito a Olbia, Marco Piro, che hanno condannato l'episodio.

Il gruppo Infogau è nato nell'estate del 2001, mentre nella regione imperversavano gli incendi, di qui l'etimo del nome: "Abbiamo pensato che anche noi ci stavamo infuocando e che dovevamo ribellarci", hanno dichiarate le attiviste ai giornali locali. Le polemiche potrebbero essere destinate a continuare nei prossimi giorni. 

Venerdì 2 settembre è attesa a Cagliari la leader Giorgia Meloni, che terrà un comizio alle 18 in piazza del Carmine.

DAGONOTA il 17 settembre 2022.

Per essere una femminista di ultima generazione, meglio se scrittrice femminista con finestra su un qualche giornale, è opportuno dichiarare due mitologie: “tutte quelle che conosco, me compresa, hanno subito almeno una aggressione” e “ho sofferto di problemi alimentari”, cioè anoressia (ndr di anoressia, quella vera, si muore: questa è l’altra, quella solo dichiarata perché fa gattamorta). Il resto lo fa l’autoreferenzialità di gruppo sorellanza-chic (“ho da consigliarvi un libro splendido di una mia amica…”) e il sostegno, o l’appartenenza, a una declinazione Lgbtq+ e assimilabili.

Chiara Tagliaferri è moglie dell’organizzatore del Salone del libro di Torino Nicola Lagioia e quindi, per vincolo matrimoniale, scrittrice anche lei. Con Michela Murgia ha scritto i libri “Morgana” ispirati agli omonimi podcast di culto della piattaforma Storielibere.fm. 

Se fosse scritto solo con la schwa il suo libro sulle “streghe viventi” sarebbe più leggibile; ciononostante è piaciuto a Teresa Ciabatti che, guarda te, lo recensisce entusiasta su “7” che, guarda te, è diretto dalla femminista in borsetta Barbara Stefanelli che, guarda te, organizza la kermesse femminista “La 27ma ora” dove, guarda te, invita Ciabatti, Gamberale, Avallone che, essendo mamme per loro “la gioia più grande adesso è essere mamme”.  Speriamo che i pargoli le tengano impegnate a scrivere di meno.

A parte la Tagliaferri, griffata collaboratrice del Festival “L’Eredità delle donne” (Serena Dandini direttrice) e autrice del podcast “Love stories” con quella spazzolona di Melissa P., Simonetta Sciandivasci, nuova penna di tacco e punta della “Stampa” di Giannini ha dalla sua un racconto pubblicato in “Brave con la lingua”, antologia al femminile sul linguaggio che determina la vita delle donne: ma perché l’allusione? Per vendere di più?

Ha scritto un brano pure nell’antologia “Di cosa stiamo parlando?” e, sfogliandolo, anche noi ci siamo chiesti: di cosa stanno parlando? Il suo romanzo “La domenica lasciami sola” fa il controcanto a Rita Pavone, che chiedeva di portarla a “vedere la partita di pallone”: Sciandivasci vuol stare a casa a vedere Grace Kelly ma non osate tirare in ballo l’attore Timothèe Chalamet.

Sulla “Stampa” di domenica scorsa l’ha conciato per le feste, manco fosse Johnny Depp in preda all’Aderall e senza un motivo: “un gran paraculo e figlio di puttana”; “il più immorale amorale ambiguo attore e forse il primo sfacciato stronzo platealmente arrivista della sua generazione”. 

Sulla “Stampa” discetta su Carla Lonzi “icona del femminismo” (in lei bisogno di autonomia, bisogno di amore, bisogno di collaborazione all’emancipazione… anche noi avremmo bisogno di tante cose), della Sanna tutta panna e di come cercare l’amore su Tinder  (“Tinder però declina sul serio, e non perché arrechi burnout, ma perché chi l’ha creato non poteva immaginare che avremmo mandato all’aria non la carnalità dell’amore ma la carnalità del corpo”: che vorrà di?).

Lei recensisce Rumiz e, nell’attesa che Rumiz recensisca lei, Chiara Valerio viene intervistata da Tersa Ciabatti (fanno tutto in casa) per “7” e, oltre a rivelare l’ossessione “per la crema Oil of Olaz” ricorda che fino dalla “prima adolescenza nella mia testa convivevano Vanna Marchi e Fleur Jaeggy, Woolf e l’elenco del telefono”: cosa c’entra la povera Virginia Woolf con gli altri? Lei appartiene a Lgbt: ha fatto coming out? “Mai dovuto. Un giorno ho detto: mi sono fidanzata con Elisabetta”.

Membro di “Nuovi Argomenti” e di “Nazione Indiana”, fu chiamata a guidare l’antisalone del libro di Torino, ovvero il Salone del Libro di Milano, naufragatissimo. È diventata editor della Marsilio e la sua collana Passaparola è la palestra per le Michela Murgia, Simona Vinci, Teresa Ciabatti e dintorni (tipo Claudia Durastanti, Beatrice Masini…). 

Coinvolte dalla “afro”-femminista Cecilia Alemani a scrivere per il catalogo sulla Biennale d’arte, sono tutte scrittrici tra di loro, insomma: non possono scriversi senza impegnare le case editrici? Dalla “27ma ora” Rcs, infine, viene la portabandiera di ogni rivendicazione Lgbtq+ Elena Tebano, che scrive sul “Corriere della sera”.

Qui è perennemente impegnata a rompere (ancora?) il soffitto di cristallo, con un occhio ad attaccare la Meloni ma senza “un’occhio” (sic!) per la grammatica italiana, almeno a giudicare dal suo ultimo intervento. Ma la lingua delle donne sarà pur più importante della lingua italiana!

Perché il femminismo non voterà Meloni. Rosi Braidotti su La Repubblica il 20 Agosto 2022.

Quello europeo è un movimento di massa senza capi e senza tessere di partito: attiviste/i lottano per trasformare i rapporti di potere, non solo per parificarli. E ha una matrice anti fascista

Nelle ultime 48 ore abbiamo letto di tutto sul femminismo. Bisogna ringraziare due grandi donne, che, a suon di botta e risposta, stanno riportando in auge una parola dimenticata, sia a destra che a sinistra, ma soprattutto nelle case degli italiani, nei quotidiani, nei libri, nella nostra cultura estremamente patriarcale, impossibile da abbattere.

Sono sforzi, quelli della Terragni e della Aspesi, degni di nota e stima perché dietro le loro parole, c'è un obiettivo, uno sforzo immane, un grido disperato: il femminismo sta cercando una collocazione politica. Che venga poi attribuito alla Meloni, questa è senz'altro una provocazione alla quale vorrei rispondere.

Evitando di confondere tutto, che di confusione sotto il cielo non tanto stellato di questo Ferragosto preelettorale ce n'è già abbastanza, procedo con ordine e lasciatemi dire chiaramente che Giorgia Meloni sta al femminismo come un pesce su una bicicletta: affannata, in bilico e fuori luogo.

L'affaire Terragni-Aspesi nasce dal nesso che collega Terragni, "milanese, anima vagante, femminista, madre, giornalista, scrittrice", a Meloni - un'affinità forse più elettorale che elettiva, ma comunque significativa: come la leader di FdI, anche la Terragni pone la maternità al centro della stessa identità femminile come rapporto fondante dell'umanità. Questa visione quasi metafisica della madre simbolica come colonna della civiltà fa parte della storia e della cultura del femminismo italiano, ma non è né la sola voce di questo movimento né, a mio avviso, la più utile nel momento che stiamo attraversando.  E non è utile proprio perché collude con la visione tradizionale, discriminatoria ed eterosessista della destra, che, come dimostrato da Sallusti, passa rapidamente agli insulti e le minacce contro le femministe e le donne dell'opposizione.

La visione esistenzialista ed universalizzante del potere materno come forza costituente del femminismo non è di certo condivisa da tutte le femministe. Io la critico da decenni, ricordando che non esiste solo UNA differenza unica e di stampo metafisico tra uomini e donne, che colloca le donne in pole position per la liberazione dell'umanità: una visione settecentesca che non si applica al mondo d'oggi. Siamo tutti soggetti nomadi e complessi, in divenire.

Esistono molteplici differenze fra donne e Lgbtq+, che convergono su alcuni punti fondamentali di critica femminista. Primo fra tutti, che il fascismo ha fatto della madre un monumento simbolico e reale (sussidi in base al numero di figli, i premi per le famiglie numerose, ecc.).  E, secondo, che dopo Simone de Beauvoir e le sorelle Lonzi, la maternità è stata criticata duramente dal femminismo proprio come uno strumento di potere patriarcale.

Molte di noi femministe, che lavorano sull'intersezionalità, la diversità all'interno della galassia complessa che sono le donne nelle loro molteplici differenze, sono consapevoli di non esserlo tutte allo stesso modo, o nelle stesse collocazioni sociali e simboliche. Per noi il 'simbolico' non è certo fuori dalla storia, ma radicato pienamente nel sociale. Ciò che ci accomuna sono i valori condivisi, non l'anatomia o la somiglianza biologica. Sappiamo di non essere né Una, né la stessa - ma di differire tra di noi in mille modi. Allo stesso tempo condividiamo le esperienze del nostro vissuto, fatto di discriminazioni sociali ed esclusioni, ma anche di grande ricchezza e diversità femminile e Lgbtq+.

Forse l'aspetto più problematico di come il dibattito è stato posto finora in questa strumentalizzazione del femminismo dei fratelli (senza sorelle?) d'Italia a scopo elettorale è come si colloca nel contesto attuale, nel terreno di scontro internazionale fra idee sulla famiglia, la sessualità, l'uguaglianza e il genere. 

Nel tentativo di forgiare un'immagine pubblica più "moderna" e rivolgersi a un'audience più ampio al di là del loro tradizionale collegio elettorale maschile, i partiti di destra hanno infatti mobilitato sempre più le questioni di genere: in tutte le elezioni in corso nel mondo la destra quest' anno metterà in gioco la cosiddetta "ideologia di genere" contro le rivendicazioni femministe e Lgbtq+, in difesa dei valori patriarcali, considerati come l'essenza della civiltà occidentale.

Il femminismo è un movimento di massa senza capi e senza tessere di partito, ma soprattutto che appartiene ai/alle attiviste/i che lottano per trasformare i rapporti di potere, non solo per parificarli. Il femminismo è un movimento trasformativo, non solo egalitario. Si basa su principi fondamentali, che sono etici ancor prima di diventare politici: la solidarietà, per esempio, tra donne, ma anche con il popolo Lgbtq+. E anche solidarietà intersezionale cioè tra classi, razza, etnicità, religione, generazioni ecc. Molteplici strati di differenze che si arricchiscono e si rinforzano a vicenda.

Quindi, come tante femministe tutt'altro che illuse rivendico la matrice anti-fascista del femminismo europeo e pertanto non voterò di certo la Meloni.

Ha collaborato al testo Allegra Salvadori

Meloni e l'ipocrisia del "sistema donne". Valeria Braghieri il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.

E adesso che c'è Giorgia Meloni? Alla vigilia del secondo mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, il vuotissimo slogan che girava a invocazione era "o una donna, o Mattarella"

E adesso che c'è Giorgia Meloni? Alla vigilia del secondo mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, il vuotissimo slogan che girava a invocazione era «o una donna, o Mattarella». Non ci avevano neppure appiccicato un nome a quel «o una donna». Ma era giusto dirlo, doveroso pronunciarlo, e poi indispensabile passare ad altro, il più in fretta possibile. Perché in fin dei conti, a nessuno interessava davvero giocare quella partita. Tanto che anche quando i nomi erano stati individuati, ed erano i «loro» nomi, «quelli giusti» perché seduti dalla parte corretta del mondo (Marta Cartabia, Anna Finocchiaro, Elisabetta Belloni) comunque non se n'era fatto alcunché. Però lo spauracchio-donna era stato esposto e soprattutto ritirato al momento esatto. Le femministe avevano potuto crogiolarsi nella rassicurante «potenza» di ciò che tanto non sarebbe mai diventato insidioso «atto»: una donna al Quirinale. Pericolo scampato, tormentone intatto: «Le alte cariche dello Stato ci sono inibite».

Poi arriva Giorgia Meloni. E questo è un giorno che apre gli occhi tagliandoli. Perché, come spiega Natalia Aspesi su Repubblica, si è costretti a prendere atto che anche quando una donna c'è, comunque non basta. O non va bene. O non rappresenta tutte. O non è compresa nel ruolo di «Sorella» (tanto che chiama il suo partito «Fratelli» d'Italia»). O non cita abbastanza la parola «donna» nel suo programma. La Aspesi parte dal documento firmato da un gruppo di associazioni femminili che auspicano «un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti», e le mette in guardia dal rischio di illudersi: «La candidata premier ragiona al maschile». Con la Meloni, la causa non fa passi avanti.

Da sempre fanno finta di volere una donna al Quirinale, e adesso che la Meloni può diventare la prima premier donna, non c'è nulla per cui gioire. È molto meglio quando un desiderio rimane sempre fermo nel palato. Perché i conti con la realtà non tornano quasi mai. Tanto per cominciare Giorgia è di destra, poi non è «cipriosamente» concettuale, non veste di lino d'estate e velluto d'inverno, è più sedotta dai fatti che dalle parole. Giorgia è giovane ma gonfia di certezze, ha un ego fin troppo sazio, secondo alcuni ha pretenziosamente chiamato sua figlia Ginevra mostrando un'imperdonabile fragilità nei confronti dei salotti «a numero chiuso». Insomma, è (quasi) arrivata dove nessuna prima di lei, ma i detrattori non mancano. E le donne, quelle che contano, l'hanno già ampiamente avvisata: not in my name. Tutte, ma non tu. O la Santanchè. O qualunque altra di destra

Niente male come dimostrazione del saper far «sistema», come «orizzonte unico». La Meloni sta per accomodarsi nella Storia, sta per mettersi alla guida di un Paese più straziato che abitato e sa già su chi non può contare. Ma visto che il pragmatismo non le fa difetto, ci auguriamo che saprà ottimizzare anche le defezioni.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 17 agosto 2022.

Ho ricevuto da Marina Terragni un lungo documento firmato da una ventina di associazioni di donne italiane (credo su un centinaio che non la pensano così), sostenute da altrettante straniere: titolo pacificante e bellicoso insieme "Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti". Segue, 1) citazione di Olympe de Gauges, 1791: "Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?" Segue, 2) proposta elettorale, "Nel segno di Carla Lonzi a quarant' anni dalla scomparsa: elettrici e attiviste di tutti i partiti si uniscono nel dono di un 'programma imprevisto' comune, orizzonti per un cambio di civiltà".

Commenti miei, 1), la protofemminista girondina dai rivoluzionari maschi fu ghigliottinata in quanto fastidiosa con le sue lamentele donnesche; 2), quando nel 1970 proposi a Italo Pietra, direttore del Giorno, un articolo sull'epocale "Sputiamo su Hegel" della Lonzi, quell'uomo fascinosissimo e di gran classe si mise a urlare come un pazzo in piena redazione e non mi licenziò perché ex partigiano e quindi molto democratico. E adesso ragazze come la mettiamo? 

Finalmente una di noi, cioè una donna- donna, presidente di un partito, tra l'altro quello attualmente più votato, potrebbe diventare (i menagrami e pure lei lo danno per sicuro) la protagonista di un evento storico che il femminismo persegue da quando c'è: finalmente una donna a capo del governo italiano, cioè un primo ministro che essendo femmina rappresenti il massimo della democrazia, della parità, dei diritti, delle inclusioni, degli aiuti, di ogni forma di libertà verso un sol dell'avvenire che neanche ti immagini.

Eccola Giorgia Meloni, 45 anni di oggi, cioè tipo ragazzina eppure mamma, vestita classico e seducente, mai un capello fuori posto, in politica da 30 anni, da quando aveva 15 anni e già non aveva dubbi da che parte stare; la sua carriera è stata fulminea, perseguita con una volontà stupefacente, tutti i gradini superati velocemente per sua sola volontà, fondando con Crosetto e La Russa 'Fratelli d'Italia' a 35 anni e diventandone presidente due anni dopo, nel 2014, a 37 anni, un volto da Madonna vendicativa ma fresco, rispetto a quello inquietante del suo predecessore Ignazio.

A 8 anni di distanza e senza chiedere l'aiuto di nessuno, ignorando camerati e camerate e puntando solo su se stessa, ha portato il suo partito dal 3 % a essere il primo, fregando soprattutto i due alleati di destra- destra, sottraendo loro parecchi simpatizzanti. Si è proclamata da sola prossima prima ministra con tale fermezza che neppure i suoi due sodali Salvini e Berlusconi, non parliamo dei suoi oppositori, hanno aperto bocca, le hanno detto, si calmi, aspetti un momento, vediamo come va.

Nello spavento di una classe politica dormiente, o vociante, o fuori di testa, c'è poco da fare gli altezzosi, i colti, gli eleganti, gli antifascisti: solo il finimondo, temo, potrebbe scongiurare il luttuoso evento. A questo punto mi rivolgo a voi, donne di valore che avete composto e sottoscritto questo documento davvero importante per contenuto e per un modo di raccontare che ricorda i testi femministi meravigliosi e perduti degli anni '70, e vi chiedo: lo avete proposto anche a Giorgia Meloni che è donna come noi, e che però ha fondato un partito di Fratelli, dimenticando le Sorelle?

E che nei 15 punti del documento integrale del programma di governo del centro destra (che a leggerlo tutto altro che Mussolini, un bel fascismo XXI secolo, molto più ardito, checché ne dica la signora), non c'è una sola volta la parola 'donna', al massimo l'aggettivo 'femminile', quasi sempre collegato con i sostantivi 'infanzia', 'famiglia', e anche 'giovani' e 'disabili'. In centinaia di righe non una sola volta la parola 'diritti', che, è vero, forse da noi, dalla parte opposta, è stata abusata cancellando i 'doveri'.

E avete pensato prima di tutto se in questo momento di massima pressione Meloni, o chiunque altro, avrà il tempo e la pazienza di leggerlo tutto, perché nella sua intensità e verità è di una lunghezza a cui non siamo più abituati, e infatti io non ho ancora superato la prima intensissima pagina e me ne mancano ancora quattro, intensissime pure loro. 

Temo che il vostro 'Orizzonte Politico' si riveli oggi ingenuo, come del resto lo fu in passato, perché certo non è la prima volta che le donne si illudono di costituire un solo popolo: no, non credo che essere donna sia più importante della visione ideologica personale e dei compagni che per quanto maschi, la dividono con noi: io so che mai potrei sentirmi compagna e complice, mettiamo della Santanché o della stessa Meloni, che pure non posso fare a meno di ammirare per la sua implacabile sicurezza, mentre con cautela lo sarei di Veltroni e soprattutto di un Pisapia, se si facesse vivo e se i suoi compagni non se ne fossero dimenticati in quanto non del loro giro.

Ma poi cerchiamo di essere realisti: voi tra mille cose molto belle dite, "Non si può più tenere nascosta la verità. La verità sotto gli occhi di tutti è che troppi uomini stolti governano il mondo e la vita è diventata invivibile. Li stiamo vedendo trattare per il potere, sempre e solo loro, e siamo sgomente. Si permane nella cultura patriarcale che è la cultura della presa di potere". Se adesso il potere se lo prendesse una donna, una giovane donna, la cultura patriarcale sarebbe sconfitta oppure semplicemente sostituita da un matriarcato altrettanto violento? Le vostre parole, forse perché creatrici di visioni, mi hanno fatto pensare a una Gilead al contrario, a un luogo dove sono le donne, le ancelle, a condurre un potere armonioso e rispettoso del mondo eppure altrettanto dispotico.

È giusto, voi chiedete che la maternità torni "al centro delle comunità umane" per "orientare il programma politico , per il bene di tutte e di tutti". Questo credo non ve lo concederebbe non dico la Meloni ma neppure un Gilead femminista. Mentre su un paio di punti il centrodestra potrebbe essere d'accordo con voi, quando definite l'identità di genere "ideologia misogina e mercantile la nuova faccia glitterata del patriarcato che non vuole morire e che per sopravvivere ha bisogno di cancellare le donne persino nel linguaggio di genere". 

E quando definite "l'aspetto più straziante della gender ideologyla farmacologizzazione e la manipolazione chirurgica dei corpi di bambini e bambine dal comportamento non conforme agli stereotipi di genere - nuova lobotomia". Concludendo con l'unica cosa che conta: votereste la Meloni perché donna o per carità neanche morta, per due possibili ragioni; è chiaro che per lei le donne in quanto tali non esistono, ma anche perché alla fine si tenta di fare massa, gruppo, ma come sempre viene fuori che ci detestiamo tra noi, quindi in tutti i casi, fortunatamente, siamo costrette proprio dall'essere donna e detestare anche lei.

Natalia Aspesi al delirio: “La Meloni ragiona al maschile. Femministe, non votatela”. Adriana De Conto il 17 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.

Femministe, non cantate vittoria se la Meloni diventerà la prima donna premier. Anzi. Lei “pensa al maschile”. Il suo partito è fatto di Fratelli d’Italia e ha dimenticato le  “Sorelle d’Italia”, avverte allarmata su Repubblica Natalia Aspesi in un articolo lunare e pieno di notazioni infondate.   Scrive l’anziana editorialista: no, la Meloni non è “la protagonista di un evento storico che il femminismo persegue da quando c’è: finalmente una donna a capo del governo italiano”. Niente di tutto questo. Dando per scontata l’ascesa della leader di FdI a palazzo Chigi (”Solo il finimondo, temo, potrebbe scongiurare il luttuoso evento”), si rivolge a un gruppo di donne  e femministe che le ha inviato un documento dal titolo: “Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti”. Un documento che invita a non avere pregiudizi.

Aspesi su Repubblica: “Meloni non pensa alle Sorelle d’Italia”

La Aspesi dà loro – e a tutte le donne- delle ingenue, le tratta da idiote. Perché? Perché nei 15 punti del programma di governo del centro destra “non c’è una sola volta la parola ‘donna’. Al massimo – scrive- l’aggettivo ‘femminile’, quasi sempre collegato con i sostantivi ‘infanzia’, ‘famiglia’, e anche ‘giovani’ e ‘disabili’”. Insomma, declinare il femminile in questi ambiti così delicati e dimenticati dalla cultura dei governi sarebbe per le contro le donne. Sarebbe “pensare come un uomo”. Stendiamo un velo pietoso e andiamo avanti.

“Non potrei sentirmi complice di Meloni o Santanchè…”

Scrive che ammira la Meloni per il suo coraggio, determinazione e autostima, ma poi le rinfaccia di tutto. Ne sottolinea in un passaggio il “volto da Madonna vendicativa ma fresco, rispetto a quello inquietante del suo predecessore Ignazio”. Ne rievoca la carriera rapida, conseguita confidando solo nelle sue forze e nel suo carattere. Eppure neanche il “merito” va bene per la Aspesi nell’ascesa di una donna in politica. Perché la Meloni ha il difetto di essere di destra. E infatti esce fuori il livore, la condanna: “Non credo che essere donna sia più importante della visione ideologica personale e dei compagni che per quanto maschi, la dividono con noi: io so che mai potrei sentirmi compagna e complice, mettiamo della Santanché o della stessa Meloni (…). Mentre con cautela lo sarei di Veltroni e soprattutto di un Pisapia, se si facesse vivo”.

Meloni premier, Aspesi: “Matriarcato altrettanto violento del patriarcato”

Alt, qui non capiamo più niente del discorso. Il filo si perde del tutto. La Aspesi per rivendicare il femminismo doc sogna un Veltroni o un Pisapia? Due uomini? Prima si dice atterrita perché la politica è tutt’ora scolpita “nella cultura patriarcale”. E poi sogna Veltroni? Pisapia?Si contorce la Aspesi: “Se adesso il potere se lo prendesse una donna, una giovane donna, la cultura patriarcale sarebbe sconfitta oppure semplicemente sostituita da un matriarcato altrettanto violento?”. Inutile dire che per lei, con la Meloni, si invererebbe la seconda ipotesi. Termina infatti con una professione di inimicizia:  “E chiaro che per lei le donne in quanto tali non esistono, ma anche perché alla fine si tenta di fare massa, gruppo. Ma, come sempre, viene fuori che ci detestiamo tra noi, quindi in tutti i casi, fortunatamente, siamo costrette proprio dall’essere donna e detestare anche lei”. Assurdo, la conclusione è: “volemose male”.

Consiglio non richiesto alla Aspesi: guardi le donne di sinistra

La Aspesi farebbe meglio a guardare in casa sua: è la famiglia di sinistra che ha qualche problema col “femminile”. Dove una Cirinnà evoca per se stessa la figura mashile del Gladiatore per definire la sua battaglia politica in un collegio ostico. Come nota argutamente sui social Annalisa Terranova, collega e storica. Dove per avere due donne capogruppo di Camera e Senato si è dovuta attendere l’“imposizione” dall’alto di Letta per segnare la distanza dal suo predecessore Zingaretti. Suggeriamo pertanto  all’anziana editorialista di fare le pulci nel suo ambito politico; di leggere con attenzione  un’analisi del sociologo Luca Ricolfi del gennaio di quest’anno, certo uno studioso che non ha la tessera di FdI. Il quale scrisse in soldoni: altro che patriarcato, è la sinistra che  esclude le donne dai luoghi di potere.

Le analisi di Ricolfi smentiscono la Aspesi

“Nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia». Ancora Ricolfi: «Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi; mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo». Parole che calzano a pennello, per prendere un esempio attuale, l’atteggiamento della dem Alessia Morano, che ha rifiutato un collegio difficile. Vincere facile tra le donne del Pd sembra essere la scelta migliore. E con tutto questo, con buona pace di Natalai Aspesi, la Meloni non c’entra nulla, anzi rappresenta l’esatto contrario.

La risposta della Meloni: “Ecco perché mi detestano”

E infatti la sua risposta dai suoi canali social non si fa attendere: “La Repubblica scrive che “ragiono al maschile”. Perché a loro non va giù che, come tante altre donne, non accetto di essere rinchiusa nel recinto delle cose “da femmina”. Mi detestano perché ho la pretesa di competere con i maschi al loro livello invece di aspettare che gli uomini mi concedano qualcosa: mi nominino, mi impongano, come accade alle donne a sinistra. Perché non mi interessa la loro benevolenza- incalza la leader di FdI. Perchè penso che le donne si debbano prendere il loro spazio e non pietirlo. Repubblica oggi ci dice che una che ragiona così è nemica delle donne, e conferma l’idea che la sinistra ha del ruolo delle donne in politica. Sempre subalterne, sempre seconde. Noi no, noi siamo per il merito sempre e comunque. Chi vale emerge, uomo o donna che sia. Fatevene una ragione”.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 18 agosto 2022.  

Natalia Aspesi, femminista firma de La Repubblica, esperta di questioni di cuore e di sesso oltre che icona del femminismo radical chic ieri è giunta a una conclusione storica: donne d'Italia non fidatevi, Giorgia Meloni è un uomo. Questa davvero ci mancava: per essere donna oggi bisogna passare il test Aspesi, che non misura il quoziente intellettivo bensì il livello di testosterone del soggetto sotto esame.

Secondo la Aspesi il problema di Giorgia non è che è un po' fascista come sostiene il suo giornale, no quello è un dettaglio. È che ragiona e si comporta come un uomo e quindi le donne, di destra e di sinistra che siano, non devono cadere nella trappola delle tette e dei lineamenti: non va votata, è una nemica come lo è chi è dotato di pisello. Siamo alla piena riabilitazione della canzone più ostracizzata proprio dalle donne di sinistra, quella «Voglio una donna con la gonna» incisa trent' anni fa da Roberto Vecchioni e caduta poi nel dimenticatoio - l'autore stesso ha raccontato di Libero vergognarsene perché ritenuta politicamente scorretta. La ricordate?

«Prendila te la signorina Rambo / Che s' innamori di te 'sta specie di canguro / Che fa la corsa all'oro veloce come il lampo, tenera come un muro, padrona del futuro / Prendila te quella che fa il "leasing" / Quella che va al "briefing" perché lei è del ramo / E viene via dal meeting stronza come un uomo, sola come un uomo». 

Già, sono passati trent' anni e il femminismo non ha ancora deciso se la donna è, come diceva Vecchioni nella stessa canzone, quella che serve per «pulire il culo ai figli» o viceversa quella che può e deve guidare un paese, ammesso e non concesso che non si possano fare entrambe le cose contemporaneamente. È che la Aspesi non vuole ammettere che il potere non ha sesso, è quella cosa lì indipendentemente se chi lo esercita porti o meno la gonna.

Giorgia Meloni è sicuramente donna e madre, su questo non si può discutere, è il potere che lei esercita ed eserciterà in futuro a essere, per dirla alla Vecchioni, "stronzo" e quindi cara Aspesi esci dalle tue contorsioni genetiche e arrenditi all'idea che non siete superiori a noi ometti né più pure né più etiche, se volete il potere, e se ne siete capaci, prendetelo e noi potremmo finalmente cantare "stronza come una donna", con licenza poetica "stronza come la Aspesi".

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 26 agosto 2022.

Se lo dice la Ferragni vale 20 volte Conte, 10 volte Calenda, 7 volte la Bonino ma anche almeno 5 volte Letta: lei sa vendere con eleganza di tutto, anche cose bruttine come le sue borse col disegnino delle ciglia, o democratiche come i suoi pensieri (si tratta di eleganza, quindi di sinistra), o sorridenti come i suoi piccini, per di più anche in inglese, così capita che pure la stampa straniera, annoiata sempre dalle curiose gesta degli italiani, venga a sapere qualcosa di noi.

Adesso nelle Marche governata dai Fratelli e neanche da una vera Sorella (semmai c'è una figlia, la Rauti) pare che molte donne così poco avvedute da ritrovarsi gravide senza volerlo (cosa voglia il complice mai responsabile resta sempre un mistero), non possano usufruire della pillola del giorno dopo e siano quasi impossibilitate a trovare un ospedale con ginecologo disponibile, che poi magari è più generoso nel suo studio se sei generosa pure tu; tanto che, dicono i menagramo, già c'è chi per interrompere la gravidanza torna ai secolari metodi un po' assassini, tipo ferro da calza o infuso di prezzemolo (siamo sinceri, non è che nelle regioni governate dalla sinistra ci sia la coda di ginecologi a disposizione).

Cose da donne, e infatti nella campagna elettorale che non se ne era mai vista una meno colpevole di negligenza, il tema non è venuto in mente a nessuno, (nemmeno alle poche donne ammutolite che i partiti si sono ricordati di candidare), tutti impegnati a darsi del fascista, del ladro, del traditore, del pirla e, massimo insulto da parte dei ragazzi rimasti nel M5S, in omaggio al loro capo che non perdona, draghiano!. 

Ma poi per fortuna ecco la soluzione cui sempre si ricorre quando si è alla frutta: una guerra tra dame (esempio impolverato Callas-Tebaldi, ma anche Elisabetta II-Thatcher, silenziato), ancor meglio una guerra tra bionde, cose da cinema, vedi "Gli uomini preferiscono le bionde", "La rivincita delle bionde", "Bionda atomica", "Odio le bionde".

La bionda Chiara (anche il nome conta, fa luce e fa santa) può vantarsi di avere poco meno di 28 milioni di consumatori (follower), che non sono pochi, mentre la bionda Giorgia continua a strappare preferenze ai suoi due alleati che standole a lato come i carabinieri di Pinocchio, paiono, senza offesa, i fratelli De Rege: tanto che oggi, domani non si sa, roteando i suoi occhioni azzurri che mettono in riga grandi e piccini, raccoglie nei sondaggi il 24% delle preferenze (dei sudditi); che (però non so far di conto) su 47 milioni di italiani con diritto al voto, ammesso che vada al seggio anche l'ultimo pastore sperduto nelle Murgie e tutti i brontoloni che si danno delle arie sui social bacchettando ogni singolo politico, corrisponderebbero a una ventina di milioni di voti: davvero tutti suoi, non certo dei suoi seguaci Fdl di cui non ci si ricorda una sola faccia; quindi meno del partito Ferragni ma, non si può negare, molto più pesanti.

Della Ferragni sono una fan più che una follower, non avendo occasione di comprare da lei alcunché, e seguo con piacere Leone, Vittoria e pure il cane, meno Fedez perché tutti quei tatuaggi mi fanno impressione, come i draghi di, appunto, House of the Dragon.

Per questo mi permetto di fare una osservazione di merito: qualsiasi rettifica chiedano alla bionda di destra, tipo togliere la Fiamma dal simbolo o chiedere scusa per usare come propaganda il video di una stupro, lei risponde sempre marameo: è cioè una vera dura.

Mentre la bionda di sinistra ha ascoltato forse i suoi ragionieri che alla fine del mese contano i milioni incassati e, come registra la nostra straordinaria Oriana Liso nella sua rubrica "Scusi lei", si è subito corretta: pettinatura da bambina e maglietta con la scritta " we should all be feminists ", prima ha scritto su Instagram «Facciamoci sentire a queste elezioni», poi si è sfumata in «Ora è il nostro tempo di agire e far si che queste cose non accadano». 

Metti il caso che le diciottenni che adorano il suo modo di truccarsi piaccia anche la Meloni perché così vuole il nonno, secondo voi non avendo alcuna nozione di quel che stanno facendo, disubbidiranno all'adorato vecchio o smetteranno di comprare succhi di frutta vegani targati C.F.?

È un brutto pensiero e per quanto la Patria con aborto certo chiami, meglio andare cauti, al massimo si potrebbe mettere sul mercato che la ditta depreca l'horror dei manifesti con embrioni che gli manca la parola. 

È immaginabile un vero duello per la conquista del governo tra due donne, mettiamo appunto Meloni e Ferragni? E chi vincerebbe? Intanto bisognerebbe che Chiara sacrificasse la sua splendida vita nella sua stolta casa milanese e rinunciasse, come nei post più recenti, a presentarsi col suo corpicino quasi del tutto nudo (ci sono i bambini! No, i parlamentari, che si spaventano di più), per passare giorni e giorni a discutere con colleghi italiani e stranieri anche cheap, anzi, a oggi molto cheap, smettendo di accumulare ricchezze e di spegnere candeline coi suoi bambini davvero meravigliosi; soprattutto sarebbe necessario che alla sempre più variegata sinistra impegnata in suoi oscuri, sanguinosi duelli, venisse in mente che le donne esistono e se ne potrebbe candidare una, non una qualsiasi, ma una brava in grado di salvarli, compito eterno delle femmine.

Come ha fatto la destra affidandosi a una giovane donna fornita di righello da battere sulle dita dei disubbidienti, che in quanto donna disprezza i maschi e li comanda come una vera mamma italiana, cui chiede ubbidienza e silenzio mentre lei rimette ordine, spazza via ciò che disturba la loro fragilità, gli ridà l'illusione di contare, rimette al loro posto le donne (in casa, ovvio) e le zittisce, non parliamo dei "deviati" cui saranno negate le famose inclusioni che immagino subito cancellate. Io non ho ancora capito cosa sia successo in poche settimane, perché tutti i maschi leader degli altri partiti si siano lasciati fregare da una persona, una donna poi, cui stupidamente non davano alcun credito. 

Visione macabra ma forse di fantasia: perché con tutte le sue vere doti di leader, che a essere sinceri non si vedono in nessun altro, osservando Giorgia muoversi con imperio tra la folla di uomini della politica, piccina, carina, svelta e mai zitta, sfida secondo lei già vinta, già primo ministro fai da te, non un dubbio, non un momento di stanchezza, non una cedimento, di una presunzione e sicurezza impressionanti; non so, forse, limitandoci soltanto a chiedere ai Ferragnez, intesi come famiglia, di dire ogni tanto la loro che qualsiasi cosa sia, fa impazzire la destra invidiosissima, consiglierei ai nostri amici di tentare la rimonta facendosi sentire col silenzio, visto che ogni volta che aprono bocca a noi che forse, ma forse, li voteremo, fanno cadere le braccia.

 Dolenze e acrilico. Meloni è la gran maestra del secolo della fragilità. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Agosto 2022

A differenza dei suoi colleghi, Giorgia ha capito come si ottengono i consensi: con le cose di cui ci si vergogna. La cosa più divertente è che le militanti dei cuoricini, essendo intellettualmente inattrezzate, non si sono ancora rese conto di quanto lei somigli a loro

Io cerco di non scrivere tutti i giorni di Giorgia Meloni, ma la strada di questo buon proposito vede riproporsi quasi ogni giorno lo stesso ostacolo: che Giorgia Meloni è l’unica, tra coloro che si agitano sul palcoscenico politico in questo momento, che non sembri al disperato inseguimento della modernità.

È l’unica che assomigli al tempo sbandato in cui si muove – in cui ci muoviamo – e non so se gli assomigli per vocazione o perché s’è messa a studiarlo per tempo, ma insomma non fa l’effetto disperato che ottengono le mie coetanee che mandano a memoria le canzoni che piacciono alle figlie quindicenni.

Se posso usare esempi che stanno dalle parti di Thomas Bernhard e Robert Musil: Giorgia Meloni gioca nel campionato delle influencer che vendono dolenze e acrilico; gli altri candidati, in quello delle cinquantenni che, per sentirsi più vicine a figli dodicenni cui piacciono i Måneskin, mettono i cuoricini all’Instagram della fidanzata – venditrice di dolenze e acrilico – di Coso dei Måneskin.

Giovedì sera, quando la Meloni ha fatto il colpo da gran maestra del secolo della fragilità di dire come vi permettete di dirmi che discrimino gli obesi, io ho la mamma obesa, mi sono alzata in piedi ad applaudire. Poi ho pensato: ma non l’avevo previsto? Certo che l’avevo previsto, dopo aver letto la sua biografia, quindici mesi fa. (Voi non sapete la noia d’aver sempre già scritto tutto: avrei diritto a un risarcimento da parte di ogni politico di sinistra che ci arrivi tardi. Il che, considerato che tutti i politici di sinistra arrivano strutturalmente tardi su tutto, potrebbe rendermi ricca).

Sempre giovedì, Daniela Santanchè ha postato la schermata d’un augurio di morte alla Meloni, ovviamente spacciandolo per gravissima minaccia. L’ha potuto fare perché sono anni che la sinistra presentabile ci vende la clamorosa stronzata dell’odio on line come prologo di chissà quale violenza.

Invece di ringraziare le multinazionali che hanno creato uno sfogatoio sul quale ogni carneade s’accontenti di dirmi che merito lo stupro nonché di morire di fame e che nessuno al mondo ha mai fatto schifo quanto me, uno sfogatoio che evita al carneade di aspettarmi sotto casa con una rivoltella; invece di ammettere che il tizio che on line ci dice quanto facciamo schifo poi, se c’incontra al bar, ci chiede un video in cui facciamo gli auguri di compleanno a sua nonna; invece d’essere razionali, abbiamo deciso di drammatizzare.

Siccome sfogarsi on line è un fenomeno di massa, eccoci qua: che naturalmente a sinistra ci saranno tanti carneadi che notificano a Giorgia Meloni la loro repulsione quanti a destra ne accumula Laura Boldrini, e la campagna elettorale potrebbe essere ancora più noiosa di così, potrebbe essere una gigantesca gara a chi è più fragile vittima d’insulti. Grande sarebbe l’orchite sotto il cielo di questo spirito del tempo, ma le militanti dei cuoricini sarebbero in brodo di giuggiole.

Militanti dei cuoricini che, essendo intellettualmente inattrezzate, non si sono ancora rese conto di quanto la Meloni somigli a loro. Sì, proprio a loro, che hanno a cuore i profughi e l’aborto e tutte le giuste cause e mai mai mai penserebbero di avere qualcosa in comune con quella fascista.

Proprio a loro, che come Giorgia fanno d’ogni fragilità valuta, ma di Giorgia non hanno il catalogo perfetto: la mamma obesa, l’adolescenza col metabolismo lento, il papà che l’ha abbandonata, il cane zoppo, la maternità col senso di colpa delle donne che lavorano. Tutte, le ha. Voialtre che vi vendete ogni endometriosi e tassista scorbutico e fidanzato malmostoso (in neolingua: abusante) e maestra che non vi capiva e capi che vi hanno sottovalutate, voialtre ne avreste da imparare, da Giorgia, sull’influencing della dolenza.

Si capiva, leggendo il suo libro, da quella scena in cui Giorgia rievocava la sé stessa povera, figlia di madre sola nonché esaurita, unica bambina senza maschera a una festa di Carnevale. Certo che era Amy March. Certo che non aveva il vestito buono per stare in società. Voialtre eravate troppo impegnate a cercare di sentirvi Jo, che in Piccole donne era la fintissima sorella contenutista che vendeva i capelli per beneficenza, per sapere in che parte di quel romanzo risiedeva l’immedesimabilità. Troppo occupate a rappresentarvi come quella buona e giusta, per sapere come si ottengono i consensi: con le cose di cui ci si vergogna.

Sono un po’ stupita che Giorgia Meloni non si sia ancora appropriata del tema dell’odio on line. Foss’in lei, farei un vero colpo da maestra. Giorgia, dai retta, ti faccio da spin doctor gratis. Sfrutta tutta l’attenzione catalizzata da «io sono stata grassa, come potete pensare consideri deviati i grassi, io ho la mamma obesa, come potete pensare non voglia bene agli obesi» (bravissima, nessuno ti batte in spirito e neppure in tempo); poi, appena quell’attenzione lì cala, prendi una manciata di schermate d’insulti e buttati su una dichiarazione tipo: Vedete, vomitano veleno anche su di me, ma sono comunque per la libertà d’espressione.

Daresti modo alla sinistra presentabile di dire lo vedete, ve l’abbiamo sempre detto che la libertà d’espressione era una priorità da fascisti (sì, siamo arrivati a questi paradossi: Rushdie non può ridere perché gli si stanno rimarginando le coltellate e gli tira tutto e insomma ci prega di smetterla; di Orwell invece si sentono le risate dalla tomba); e a Enrico Letta di fare un bel cancelletto «Viva la censura».

Giorgia Meloni, Michela Murgia: "La vera domanda da farsi", un altro caso. Libero Quotidiano il 18 agosto 2022

Dopo Natalia Aspesi, non poteva mancare la voce di Michela Murgia al coro di donne di sinistra contro Giorgia Meloni. Il tema è noto: quanto è pericolosa la leader di Fratelli d'Italia? O meglio: è più pericolosa per l'Italia o per le italiane? Il tedio post-ferragostano genera mostri e la scrittrice sarda, sempre in prima fila nelle sue (a volte balzane) battaglie politiche e linguistiche contro la destra cattiva e gli uomini padri-padroni mette subito le cose in chiaro: "Se esistano o meno femministe di destra è una domanda che non porta da nessuna parte. Il giorno in cui mi metterò a dare patenti di femminismo alle altre donne deve ancora sorgere", spiega su Instagram. Il sospiro di sollievo è relativo.

"So però per certo che esiste un modo femminista di esercitare la propria forza e uno che femminista non lo è per niente. Ogni volta che incontro una donna potente, quello che mi chiedo è: che modello di potere sta esercitando? Se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista. Che sia di destra o di sinistra, se chiama meritocrazia il sistema che salvaguarda il suo privilegio di partenza e nega i diritti di altre persone, questo non è molto femminista. Che sia di destra o di sinistra, se il suo modello di organizzazione dei rapporti è la scala e non la rete, nemmeno questo è particolarmente femminista".

 "Che sia di destra o di sinistra, se la sua visione della fragilità altrui è paternalista e l’unica soluzione che le viene in mente è una protezione che crea dipendenza, questo è il contrario del femminismo. Che sia di destra o di sinistra, se per lei le funzioni patriarcali sono più importanti delle persone che le svolgono, questo senz’altro non è femminista. È quindi inutile chiedersi se Giorgia Meloni sia femminista o non lo sia solo perché è a capo di un partito. Fatevi domande sul suo modo di esercitare il potere e vedrete che il dubbio neanche vi viene". La risposta, insomma, lei la conosce già. E per mettere le mani avanti di fronte a possibili appunti, conclude: "Sì, conosco anche donne di sinistra che usano il potere così, ma nessuna corre il rischio di diventare presidente del consiglio". Forse solo perché, stando ai sondaggi, non ne hanno la possibilità. 

Mirella Serri per “la Repubblica” il 18 agosto 2022.

Il termine "donna" è da tempo per Giorgia Meloni un vero tormentone dei suoi comizi. Ma la pasionaria della destra è davvero una paladina a tutto tondo delle ragioni femminili? 

Oppure dietro alla parola magica "donna" c'è un trucco, si tratta di un modo per mascherare una concezione dell'altra metà del cielo assai conservatrice, per non dire reazionaria? 

Meloni, per esempio, sottolinea ripetutamente qualità delle donne come "serietà, responsabilità e pragmatismo". 

Ma contemporaneamente assicura che a loro non riconoscerà mai nessun percorso preferenziale: con lei al potere pari opportunità e quote rosa finiranno alle ortiche poiché trasformano il gentil sesso in panda, in una specie tutelata. 

Con l'uso e l'abuso della parola "donna" Meloni addolcisce e mitiga molte delle sue più note e meno presentabili immagini: da quella di Giorgia militante "dura e pura" all'interno della sua "seconda famiglia" (così chiama la squadra della sua adolescenza, il Fronte della Gioventù schierato contro le istituzioni e i valori democratici) all'immagine della leader che si riconosce in "Dio, patria e famiglia", imperativo di conio fascista attraverso il quale mantiene il legame con la "sua" destra, missina e tradizionale.

Sempre facendosi forte della sua identità femminile. Giorgia cerca di fronteggiare conciliazioni difficili, come le polemiche sull'aborto: "Fratelli d'Italia non vuole l'abolizione della legge 194", ripete spesso. 

Poi però opta per "il potenziamento dei centri di aiuto alla vita", ribadisce il suo "sì alla cultura della vita e no all'abisso della morte". 

In generale disegna per le donne un ruolo molto simile a quello propagandato e praticato nel Ventennio, tutto centrato sulla cura della famiglia e sulla procreazione. 

Altro che investimenti per la parità di genere in luoghi di lavoro inclusivi, altro che la creazione di sistemi di assistenza più equi, altro che la promozione dell'ascesa delle donne a posizioni di leadership! Meloni predica l'importanza dell'occupazione femminile, ma lo fa in termini generici, non adatti a tempi di grave crisi come gli attuali, e non considera le soluzioni che potrebbero davvero aiutare le donne a non essere discriminate sul lavoro, né tiene conto dell'aumento del gap salariale tra i sessi.

Sulla questione delle quote la leader di FdI aggiunge: "Da capo di un partito voglio poter scegliere le persone migliori, indipendentemente dal genere. Ma non ditelo a certe sedicenti femministe". 

E aggiunge: "Non è importante quante siano le donne al comando, ma quale sia il grado di comando". Qui casca l'asino: proprio il suo partito è largamente dominato dai maschi a tutti i livelli. 

L'obiettivo di Giorgia è "un welfare a misura di famiglia". Beninteso, una famiglia che non è contemplata per i soggetti lgbtq: "No a genitore uno e genitore due, noi difendiamo i nostri nomi perché non siamo codici". 

Anche sugli abusi nei confronti delle donne Meloni si dimostra assai reticente: la Turchia e la Polonia sono fuoriuscite dalla Convenzione di Istanbul (per la prevenzione e l'eliminazione della violenza di genere) e il premier sovranista Viktor Orbàn, a cui la leader romana ha sempre fatto riferimento, si è rifiutato di ratificarla.

La punta di diamante della destra italiana dà segni che potrebbe seguire la medesima strada in un futuro non lontano. In Fratelli d'Italia i comportamenti beceri, offensivi nei confronti delle donne sono diffusi. 

Si possono cogliere perle come "Chiamate qualcuno che le tappi la bocca con qualcosa di lungo e duro", "Povera scema", "Vomitevole", "Demente", "Posso dire du palle con 'ste propagande sulla violenza verso la donna?". 

Non risulta che questi "fratelli" fallocrati siano stati espulsi dalla "famiglia" di Giorgia la quale nega che esista un maschilismo diffuso nella destra: eppure storici autorevoli, come Giuseppe Parlato e Piero Ignazi, documentano la notevole influenza che ha tra i giovani, per esempio, il pensiero di Julius Evola, feroce contro le donne-ostacolo alla piena espressione del virilismo e dell'eroismo maschile. Adesso la leader accusa di misoginia i suoi nemici politici. Ma lei adopera l'amato slogan "sono una donna", "sono una madre" per riportarci verso il Ventennio.

L’ultima cretinata della sinistra: “Per Giorgia Meloni le donne esistono solo se sono madri”. Riccardo Angelini 3 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.

Patriarcale. Antifemminista. Fascista. Così Nadia Urbinati ha di recente bollato la proposta di Fratelli d’Italia di sostenere la natalità. Una proposta desunta da un programma elettorale che è del 2018 e non di oggi. Ma queste sono “sottigliezze” che alla sinistra non interessano. Pur di colpire l’avversario si inventano, come fa la Urbinati, che per Giorgia Meloni la donna esiste solo in quanto esercita la sua funzione riproduttiva. Come Mussolini e il fascismo, fa notare la studiosa femminista e di sinistra. Che proprio lì voleva andare a parare.

Urbinati: per Meloni la donna esiste solo se è madre

Ecco il succo del ragionamento di Nadia Urbinati, in un articolo pubblicato sul quotidiano “Domani”, uno dei più aggressivi contro Giorgia Meloni. “Si dice al primo punto che questo programma elettorale destina «il più grande sostegno alle famiglie e alla natalità della storia d’Italia». Certo! Tutto ruota intorno alla donna-madre. Non ci si faccia ingannare – e probabilmente molti/e si faranno ingannare: questa attenzione assistenziale presume che la famiglia e i figli siano l’orizzonte di vita della donna, e soprattutto che siano a suo carico. La donna, come donna, non è presente: lo è come madre e come italiana. In linea con la fotografia che Giorgia Meloni ha voluto dare di sé in questi anni: una madre italiana che lavora. La donna ha una funzione produttiva perché prima ha una funzione riproduttiva. Non serve molta immaginazione per riandare alla tradizione fascista…“.

Pregiudizi radicati a sinistra

Invece di fantasia ne occorre molta. E soprattutto ci vogliono pregiudizi molto radicati per avventurarsi in queste arrampicate dialettiche. Che tra l’altro – ripetiamo – prendono spunto da un programma del 2018.  Ecco, in ogni caso, il punto commentato da Urbinati: “Asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di negozi e uffici e con un sistema di apertura a rotazione nel periodo estivo per le madri lavoratrici. Reddito infanzia con assegno familiare di 400 € al mese per i primi sei anni di vita di ogni minore a carico. Quoziente familiare in ambito fiscale. Deducibilità del lavoro domestico. Congedo parentale coperto fino all’80% ed equiparazione delle tutele per le lavoratrici autonome. Incentivo alle aziende che assumono neomamme e donne in età fertile. Tutela delle madri lavoratrici e incentivi alle aziende per gli asili nido aziendali. Deducibilità del costo ed eliminazione dell’IVA sui prodotti per la prima infanzia. Intervento sul costo del latte artificiale. Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita“.

La libertà di scelta è sostenuta dalle politiche family friendly

Si può comprendere che Urbinati, seguendo le dotte elucubrazioni di Elodie, sia spaventata da queste istanze ma in che modo esse possano interpretarsi come nemiche delle donne è davvero difficile da dimostrare visto che la libertà di una donna di essere madre o no si misura anche col grado di sostegno che le istituzioni sono in grado di darle. Con la sostanza di politiche che oggi chiamano “family friendly” e che sono proprio quelle auspicate da FdI.  Altrimenti la strada è obbligata: si sceglie di non essere madre non per libera scelta ma per necessità. E’ questo che vuole la sinistra? 

Meloni: “L’ideologia gender mira alla scomparsa delle madri. Noi difenderemo l’identità femminile”. Augusta Cesari il 29 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.  

“L’ Occidente ha rinunciato alla sua anima, ha svenduto i suoi valori al miglior offerente”: un passaggio lungamente applaudito. Giorgia Meloni ha parlato di famiglia, di donne, di maternità, di bambini  alla Conferenza programmatica di Fdi a Milano. Il discorso non potava non toccare una battaglia che FdI ha combattuto e vinto. “I bambini non sono prodotti da banco, non si comprano. Eppure è quello che esattamente  accade ogni giorni grazie alla pratica mostruosa dell’utero in affitto. Vi rendete conto? – interroga la platea- . Uomini ricchi che pagano donne povere per portare in grembo un bambino che poi le verrà tolto. Questo, signori, non è non è sintomo di modernità. E’ una pratica infame. significa  confondere i desideri con i diritti. E’ sostituire Dio con il denaro”.

Utero in affitto e ideologia gender

Già, se la pratica che mercifica il  corpo delle donne diventerà reato punibile in Italia anche se commesso all’estero, lo dobbiamo a FdI. La Commissione Giustizia della Camera ha adottato  come testo base la proposta di legge di Fratelli d’Italia per rendere l’utero in affitto reato universale. Una vittoria su cui si cui Giorgia Meloni si è soffermata con parole vibranti che hanno infiammato la platea.

“La famiglia è sotto attacco”

La famiglia è l’architrave della società. E “‘architrave della famiglia sono le donne in quanto madri. Se andiamo oltre gli slogan, ci renderemo conto che il  vero obiettivo non dichiarato dell’ideologia gender è la la scomparsa della donna in quanto madre. Lo ha spiegato con lucidità Eugenia Roccella, in un convegno al quale ho partecipato”, ha ricordato.  “L’individuo indifferenziato di cui parlano i paladini dell’ideologia gender  non è poi tanto indifferenziato. E’ maschio. Fateci caso. L’uomo può essere tutto, madre, padre, in un’infinita gamma che va dal maschile al femminile. Se ci fate caso- ha scandito-  le parole più censurate dal politicamente corretto sono donna e madre. Perché? Perché si vuole distruggere la straordinaria forza simbolica della maternità”.

“Questo è il tempo delle donne”

Ha proseguito Giorgia Meloni: “E’ nel rapporto madre figlio che si fa esperienza dell’amore gratuito, della cura, dell’acccettazione delle imperfezioni: ecco perché quell”architrave’ è un nemico. E noi – avvisa le vestali del mainstream dominante – difenderemo non solo l’identità delle donne. Di più. Noi anzi pensiamo che questo  è il tempo delle donne. Dentro e fuori le mura domestiche“. C’è tanto lavoro da fare – ammette-. “L’unica ragione per cui vogliamo arrivare in vetta è che da lì sapremo guardare più lontano”.

L’ossessione di Repubblica per Giorgia la nera…Diventa virale quel video del lontano 1996 in cui Giorgia Meloni sostiene che Benito Mussolini sia stato un buon politico. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 18 agosto 2022.

Da ieri nella rete circola un video del lontano 1996 in cui Giorgia Meloni, in un apprezzabile francese, sostiene che Benito Mussolini è stato un buon politico perché amava il suo paese. La leader di Fratelli d’Italia all’epoca aveva 19 anni ed era una giovanissima militante di Azione studentesca, il movimento giovanile di Alleanza Nazionale.

A 19 anni si dicono tante sciocchezze, alzi la mano chi non lo ha fatto; anche ( e soprattutto) nella nostra classe politica, quanti tra deputati, senatori, sindaci governatori e ministri, in gioventù sono scesi in piazza gonfi di ormoni gridando slogan violenti e ultra- radicali, alcuni anche commettendo reati gravi e subendo persino condanne penali. A destra come a sinistra. Rimproverare a Giorgia Meloni la breve intervista rilasciata a France 3 26 anni fa vuol dire non avere più argomenti seri per contrastarla se non l’allarme farlocco al “pericolo fascista”, una cantilena che ormai sembra svuotata di senso tanto suona a sproposito. E significa costruire la campagna elettorale per demolire il nemico, con il morboso rimestare nel passato, nella speranza di sollevare un po’ di fanghiglia e magari di scoprire imbarazzanti scheletri nell’armadietto di famiglia. Una campagna a tema, vuota di contenuti, che sconfina nel dossieraggio.

Come l’ “Inchiesta su M” che la Repubblica consacra alla nostra eroina ; da notare la finezza, M come il Mussolini di Antonio Scurati, o come il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, tanto per alimentare la narrazione ansiogena attorno alla candidata del centrodestra che starebbe calando su Palazzo Chigi assieme con la sua orda fascio- barbarica.

Decine di articoli scritti dalle firme di punta del giornale ( naturalmente tutti uomini) racchiusi in un unico lunghissimo file presentato con il pedante occhiello “Longform” ( una specie di versione giornalistica dell’urticante slow food), inchiestone definitive sulle allarmanti “anime nere” che ruotano intorno alla galassia di Giorgia, sui nostalgici del Duce, sulle fantasie “orbaniane”, sulla cerchia degli amici ristretti che ancora oggi si chiamano con i nomignoli e soprannomi di quando erano giovani e forti, roba da teppaglia romana di periferia, un po’ come i protagonisti di Romanzo criminale.

Oltre al sarcasmo classista sulla ragazzotta di borgata, non potevano mancare le esaltanti incursioni nel gossip e nel bodyshaming, vera specialità della ditta di Largo Fochetti, che raccontano quanto da adolescente Giorgia fosse sovrappeso ( 65 chili ma per i nostri aspiranti al premio Pulitzer era una ragazzina «obesa» ) e quanto venisse bullizzata dai coetanei ( sarà per questo che è diventata cattiva come i villain dei film), poi l’amore sconsiderato per la Nutella che addirittura «mangiava con le mani».

Ormai è un filone letterario. Animato da autori intrepidi che non temono il senso del ridicolo. A pensarci bene il racconto potrebbe arricchirsi di altre clamorose rivelazioni, come Giorgia a 8 anni che schiaccia una lucertola, Giorgia a 10 anni che fa il saluto romano ai gabbiani, oppure Giorgia a 12 anni che entra al cinema senza pagare il biglietto, o Giorgia a 16 anni che risponde male ai professori.

In compenso sempre Repubblica ci ha lasciati senza parole con un altro sensazionale scoop: in gioventù Giorgia era una tifosa della Lazio. Capito? Lei che si professa romanista da sette generazioni in realtà sarebbe di fede calcistica biancoceleste, ulteriore prova di opportunismo e doppiezza. Lo hanno scoperto andando a ficcanasare in un vecchio sito web della fine degli anni 90, Undernet, in cui si faceva chiamare “draghetta”. Con avversari del genere è logico che la destra non abbia nemmeno bisogno di fare campagna elettorale, basta sedersi e aspettare il cadavere del nemico sul ciglio del fiume cosa che avverrà immancabilmente il prossimo 25 settembre.

Enrico Franceschini per repubblica.it il 18 agosto 2022.

Il titolo di copertina dello Spectator è "Prima donna", ma l'articolo spiega fin dalle prime righe il doppio senso: Giorgia Meloni non è solo una protagonista nel teatro della politica italiana, ma potrebbe presto diventare la prima donna a Palazzo Chigi nella storia italiana. 

L'autore del pezzo, Nicholas Farrell, è un noto giornalista inglese che conosce bene il nostro Paese: ha sposato un'italiana, vive in Italia, ha scritto un libro giudicato "revisionista" su Benito Mussolini (apprezzando il "carisma" e il "fenomenale machiavellismo" del duce), collabora al quotidiano Libero.

Ma è anche il corrispondente da Roma dello Spectator, storico settimanale conservatore britannico, una rivista raffinata, letta per le sue rubriche culturali anche da chi non ne condivide le opinioni politiche (…). Proprio per lo Spectator, Farrell ha firmato anni fa la sua intervista più celebre, a Silvio Berlusconi. Quella alla leader di Fratelli d'Italia aspira a fare non meno rumore. 

"Giorgia Meloni è la donna più pericolosa d'Europa?" è il titolo del servizio. La risposta è lasciata a lei stessa, che smentisce le accuse nei suoi confronti. Farrell osserva: "Minuta e amichevole, Meloni certamente non corrisponde alla mia idea di un fascista". Ma questo non lo trattiene dall'incalzarla con le sue domande. Perché viene sempre definita "di estrema destra", un modo moderno di dire fascista? "Una campagna diffamatoria da parte dei miei oppositori politici che sono ben addentrati nei centri nevralgici del potere", replica la leader di FdI. "Gli attacchi contro di me in rapida successione possono solo avere un singolo agente. La sinistra controlla la cultura, non soltanto in Italia".

Sul minacciato blocco navale per fermare i migranti, Meloni nega ogni intento discriminatorio dal punto di vista razziale: "I razzisti sono dei cretini, okay? Ma questo non significa che l'Italia non debba coordinare i suoi flussi migratori". La sua soluzione preferita, dice a Farrell, è che l'Unione Europea paghi la Libia per fermare gli imbarchi e si riprenda quelli che sono sbarcati in Italia. "I confini esistono solo se vengono difesi. L'Italia ha bisogno di una quota di migranti, ma la prima regola è che nessuno deve entrare in Italia illegalmente".

Ma l'Italia, domanda l'intervistatore, non avrebbe bisogno di migranti per risolvere il suo spaventoso calo demografico? "Bisogna risolvere il problema a casa nostra, mettendo gli italiani in una posizione che li spinga ad avere più figli. Le donne non vogliono avere bambini perché vivono in una società che fa pagare loro un prezzo se ne hanno. Bisogna invece premiarle per essere madri". 

Un'altra domanda è sui legami storici con il fascismo: Fratelli d'Italia non è forse l'erede di Alleanza Nazionale, che è l'erede del Movimento Sociale Italiano, che fu fondato dagli ex-fascisti nel 1946? "Quando abbiamo fondato Fratelli d'Italia, l'abbiamo fondato a testa alta come partito di centro-destra. 

Quando sono qualcosa, io lo dichiaro. Non lo nascondo mai. Se fossi fascista, direi che sono fascista. Invece non ho mai parlato di fascismo perché non sono fascista". Poi Meloni ricorda una frase che disse a un giornalista "di sinistra" una ventina d'anni or sono: "Mussolini fece vari errori, le leggi razziali contro gli ebrei, la dichiarazione di guerra, un regime autoritario. Storicamente fece anche altre cose che erano buone, ma questo non lo salva". 

Farrell cita il recente video in tre lingue in cui la leader di Fratelli d'Italia afferma di non avere alcuna nostalgia per il fascismo, poi le chiede: e allora che dice dei membri del suo partito che fanno il saluto fascista? 

"Sono una piccola minoranza", risponde Meloni. "Ho sempre detto ai miei dirigenti di partito di esercitare massima severità contro ogni manifestazione di una nostalgia da imbecilli, perché non siamo noi quelli che hanno nostalgia del fascismo. Lo sono soltanto gli utili idioti della sinistra". E perché rifiuta di togliere la fiamma come simbolo del suo partito? "Non ha nulla a che vedere con il fascismo, bensì è il riconoscimento del viaggio fatto dalla destra democratica nel corso della storia della nostra repubblica. Ne siamo orgogliosi".

Alla fine dell'intervista, la donna che potrebbe diventare la prima premier d'Italia, o la più pericolosa d'Europa, rivela due delle sue fonti di ispirazione. Una è Roger Scruton, filosofo conservatore inglese: "Credo che la grande sfida globale di oggi, non solo in Italia, sia tra coloro che difendono un'identità e coloro che non la difendono. Scruton diceva che, se distruggi qualcosa, non costruisci necessariamente qualcosa di nuovo e di meglio. Se fossi britannica, probabilmente voterei per i Tories". E l'altro suo punto di riferimento politico culturale è J.R.R. Tolkien: "Il Signore degli anelli non è un libro che ti insegna qualcosa. È un libro che ti insegna a scoprire chi sei". Dopo le elezioni del 25 settembre potrebbe toccare agli italiani, sembra concludere Farrell, scoprire chi è Giorgia Meloni.

Fratelli d'Italia e lo scoglio della storia. Giorgia Meloni è antifascista, lo dica chiaramente! Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

Credo che abbia fatto molto male Enrico Letta a farsi sfuggire quella frase su Giorgia Meloni e la cipria. Non penso che la sua battuta fosse sessista, nelle intenzioni, oggettivamente però sessista è risultata. E ha finito per fare da contrappeso alle ignominie qualunquiste del Fatto e dei giornali di destra contro Elisabetta Piccolotti e Michela de Biase, dirigenti di Sinistra Italiana e del Pd. Sarebbe ora che i politici italiani maschi la smettessero di considerare l’esser donna un handicap da sottolineare o qualcosa di buffo da sbeffeggiare. O almeno cercassero di levare questa convinzione dai loro automatismi retorici. Che sono un po’ come il braccio teso che il dottor Stranamore non riesce a trattenere.

Detto questo, e dopo aver ascoltato il discorso alla stampa estera di Giorgia Meloni, secondo me un problema che la riguarda, in questa campagna elettorale, è sul tappeto. La vecchia questione del fascismo. Che è stata sempre presente nelle polemiche politiche italiane, ma di solito come fattore laterale alla battaglia politica. Stavolta assume un valore particolarissimo per due ragioni, Una casuale, ma simbolicamente di grande peso, e cioè la coincidenza delle elezioni con il centenario dei giorni tragici nei quali fu preparata e poi realizzata la marcia su Roma di Mussolini. L’altra, molto più stringente, che consiste nella altissima probabilità che per la prima volta nella storia della repubblica un’erede del Msi, che fu erede del fascismo, possa assumere la guida del governo.

Qual è il problema, che Meloni è fascista? La conosco abbastanza bene: non è fascista.

Il problema è che il fascismo in Italia è stato al potere, ha provocato inauditi disastri, ha facilitato lo sterminio degli ebrei, ha portato il paese alla rovina, e alla fine è stato fortunatamente sconfitto dagli eserciti alleati con l’aiuto valoroso, e in molti casi eroico, della resistenza, cioè dei partigiani comunisti, socialisti, liberali e cattolici. E che di conseguenza l’antifascismo è diventato un valore fondante della repubblica, ed è stato per decenni il baluardo contro ogni tentazione autoritaria. Giorgia Meloni è stata chiara, nella dichiarazione alla stampa estera: Il fascismo per noi è il passato. Chiara, ma non chiarissima. Trascrivo qui di seguito il passaggio decisivo della sua dichiarazione: “La Destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche. E senza ambiguità è ovviamente anche la nostra condanna del nazismo e del comunismo, l’unica delle ideologie totalitarie del XX secolo che è ancora al potere in alcune nazioni, sopravvivendo ai suoi tragici fallimenti, che la sinistra fatica a condannare, forse anche perché dall’Unione Sovietica ha ricevuto per decenni generosi finanziamenti”.

Ci sono due punti deboli in questa dichiarazione. Il primo è che Giorgia Meloni inizia condannando alcune infamie del fascismo ma poi trasforma la sua polemica in polemica anticomunista. Non funziona. Il problema dell’Italia non è stato quello di essere stata governata per vent’anni (o per dieci, cinque, uno solo…) da una dittatura comunista, ma di essere stata governato per vent’anni da una dittatura fascista. Non è un dettaglio. Se io fossi ungherese credo che mi dichiarerai sicuramente anticomunista, perché il mio paese – l’Ungheria – è stato oppresso dal comunismo russo e ungherese. Ma l’Italia è stata oppressa dal fascismo, e il comunismo italiano è sempre stato perfettamente democratico. E se poi vogliamo andare a vedere perché, al fondo, il Pci (e anche il Msi), sono stati partiti democratici, torniamo al punto di partenza: non potevano fare altrimenti perché in Italia dominava il valore dell’antifascismo. Inteso come difesa dei valori della democrazia, della libertà, della tolleranza, dello stato di diritto, della lotta alla sopraffazione e alla repressione. E io oggi aggiungo: del garantismo. Cara Meloni, la chiave di tutto è lì: nella definizione dell’antifascismo, che è una grande idea liberale e libertaria e non è solo la condanna per la storia del mussolinismo. Non basta condannare Mussolini, o alcune sue scelte, per essere antifascisti.

Possibile che la destra italiana, ciclicamente, debba tornare al punto di partenza? Almirante sicuramente guidò un partito democratico, e inventò quella formula del “né restaurare né rinnegare” che ebbe successo, ma certo non fu una rottura col fascismo. Era molto ambigua. Fini andò oltre, prima divise in due la storia del fascismo, disse che c’era una storia buona fino all’entrata in guerra (in quel periodo Mussolini fece uccidere Matteotti, arrestare Gramsci e Terracini, spedire in esilio Sturzo, Nenni, Rosselli, Saragat, De Gasperi, e alcune altre migliaia di esponenti democratici) e poi una storia cattiva con le leggi razziali e la guerra. Qualche anno dopo andò oltre e parlò di “male assoluto”: ma si riferiva ad Hitler e non a Mussolini. Ecco, onorevole Meloni, ora tocca a lei. Ha l’occasione per fare chiarezza assoluta. Pronunciare quella frase che assomiglia al Rubicone: “Sono Giorgia e sono antifascista”. Perderà il 2 per cento dei voti? Può darsi. Però avrà trasferito in modo definitivo e irreversibile la destra italiana nel campo della democrazia. Non le sembra che valga la pena? 

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La storia d’Italia e le ombre del passato. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.

Non si può guidare la Repubblica italiana se non si accetta il fatto che essa ha le sue radici nell’antifascismo. Chi non intende accettare i verdetti della storia è difficile che possa avere un grande avvenire in politica. In nessun altro Paese dell’Europa occidentale come da noi, tra fascismo prima e comunismo poi, si è avuta una così grande diffusione di culture politiche ostili alla democrazia liberale

Non si governa la Gran Bretagna se chi la governa non si riconosce nella monarchia, né la Francia se si rifiuta l’eredità della Rivoluzione. Allo stesso modo non si può guidare la Repubblica italiana se non si accetta il fatto che essa ha le sue radici nell’antifascismo. Un fatto stabilito innanzi tutto dalla storia: e chi non intende accettare i verdetti della storia è difficile che possa avere un grande avvenire in politica. Ma ciò detto — dunque con relativo invito alla destra perché si disfi senza se e senza ma di ogni rimasuglio nostalgico (perché alla fine di questo si tratta a me pare: di rimasugli) — ciò detto, esiste un altro ordine di considerazioni egualmente importanti che riguarda il passato italiano. Si tratta del fatto che in nessun altro Paese dell’Europa occidentale come da noi, tra fascismo prima e comunismo poi, si è avuta una così grande diffusione di culture politiche ostili alla democrazia liberale. Alle spalle dell’Italia che oggi va a votare ci sono insomma due lunghi passati antidemocratici, milioni di italiani che li hanno condivisi, tradizioni tenaci che da lì sono nate.

Di fronte a questi passati è possibile, per chi ne ha voglia, dividere gli antidemocratici buoni da quelli cattivi e naturalmente stare dalla parte dei buoni e della loro storia, qualunque cosa ciò possa oggi significare. Per 80 anni è stato abbastanza inevitabile che fosse così. Ma oggi? Oggi è forse possibile un atteggiamento diverso, più corrispondente alla realtà delle cose. Vale a dire considerare questi due passati apparentemente opposti come un tutto unico peculiarissimo della vicenda nazionale italiana, che va compreso per ciò che esso è realmente stato. Quel tutto unico — la presenza così centrale di fascismo e comunismo nella nostra storia — non è stato un caso. Esso ha significato un momento decisivo del lungo travaglio dell’Italia del popolo, delle enormi masse povere e sfruttate, perlopiù racchiuse nel buio della più cupa ignoranza, quali esse erano agli albori dello Stato unitario, per giungere alla moderna cittadinanza. Ha insieme rappresentato anche lo sbocco di un disagio morale e politico che tale condizione non aveva mancato di produrre fin dall’inizio in alcuni settori dell’élite del Paese.

Ma la miseria e l’analfabetismo si accordano male con la democrazia liberale, con le sue procedure, con la libertà di stampa e le elezioni. Suggeriscono altre strade per raggiungere l’emancipazione. Per una parte importante la nostra storia è stata per l’appunto la storia di queste «altre strade», che si sono chiamate fascismo e comunismo. Nell’un caso e nell’altro - nel ’19 e nel ’43, non a caso in coincidenza con due guerre sconvolgenti - proprio tali strade furono imboccate da minoranze guidate da giovani intellettuali perlopiù di estrazione piccolo borghese i quali, sprezzanti dell’antico ordine liberale e confidenti nell’uso della forza, erano intenzionati ad aprire la via a un’Italia nuova: declinata secondo gli uni nella prospettiva della potenza della «nazione proletaria», secondo gli altri nella prospettiva del rovesciamento dell’ordine capitalistico-borghese. Usando entrambi la violenza, certo: dal momento che la violenza era nell’aria dei tempi e era la via più radicale e per dei giovani anche quella più carica di fascino. Una violenza che dai fascisti fu impiegata a piene mani e con ferocia, conseguendo il successo che si sa. Dagli altri invece, dai comunisti, fu solo sporadicamente praticata nel ’45, per poi essere esclusivamente teorizzata ed evocata, ma a lungo ammirata e politicamente condivisa, nelle innumerevoli forme di brutalità e di crudeltà efferata che fin dall’inizio avevano caratterizzato la rivoluzione bolscevica e la Russia sovietica dalla quale il loro partito traeva origine, prestigio e denaro.

Chi guarda con lo sguardo lungo e profondo della storia sa che l’Italia moderna è nata per una parte significativa così, da questo succedersi e sovrapporsi di culture antidemocratiche. Sa che essa ha preso le mosse dal fascismo grazie a non pochi istituti pubblici e alcune decisive esperienze industriali da esso varati, grazie ai primi interventi del suo Stato a favore delle masse, alle sue aperture al nuovo nel campo delle arti e delle idee. Così come sa quanto è stata importante nell’Italia repubblicana l’azione e la pressione del partito comunista e delle sue organizzazioni, in specie quelle sindacali – e forse ancor più l’azione spontanea di tanti suoi militanti- per arginare ingiustizie, garantire diritti, per aprire spazi di libertà e per lo svecchiamento del Paese. Ma non solo: anche per suscitare e organizzare, ad esempio, tante vocazioni imprenditoriali di piccola e media portata, talora di grande successo, nelle regioni dove più forte era la presenza dei «rossi».

Il fascismo e il comunismo sono stati entrambi qualcosa di profondamente italiano e nazionale, profondamente nostro e familiare (e forse proprio perciò destinati a suscitare quell’odio che solo nelle famiglie può durare in eterno). Sono stati entrambi l’espressione di un tratto di fondo della storia italiana novecentesca che è stato il populismo (un aspetto assai diverso del quale è stato pure il popolarismo cattolico). Un populismo che non c’entra nulla con quello di cui si parla oggi perché esso ha voluto dire la centralità assegnata all’elemento popolare e al suo riscatto storico debitamente trasfigurato nell’ideologia della Nazione in un caso e della Rivoluzione nell’altro.

L’Italia deve ancora compiere un’opera di autocomprensione di sé in relazione a questo suo passato così complesso che ha visto la contrapposizione feroce tra due estremi, in qualche modo provenienti tuttavia da una medesima radice e con più di un aspetto in comune. Oggi che tutto è finito, tenere in vita e alimentare tra di essi ( o meglio tra i loro presunti e pallidissimi epigoni) le ostilità di un tempo serve solo a rinviare l’inevitabile momento di una tale presa di coscienza. Serve soprattutto a distorcere e inquinare perennemente il confronto politico all’interno del nostro Paese, rinchiudendo tale confronto in uno schema sempre eguale, in un recinto senza vie d’uscita che condanna l’Italia a un virtuale immobilismo maledettamente simile alla paralisi. Farsi consapevoli del passato italiano non significa un banale embrassons nous, non significa l’oblio. I torti e le ragioni stanno ormai scritti nella storia, che registra tutto e aiuta a non dimenticare. Ma la storia non è una prigione, non può essere la prigione del nostro futuro. 

QUEI RIPETUTI ALLARMI CONTRO LE DITTATURE CHE RISCHIANO DI UCCIDERE L'ANTIFASCISMO. Giovanni Orsina per “la Stampa” il 18 agosto 2022.

Son parecchi anni, ormai, che l'antifascismo non se la passa troppo bene. A giudicare da com' è cominciata, non è impossibile che questa campagna elettorale finisca per ucciderlo definitivamente. Con un'aggravante: che a vibrargli il colpo di grazia saranno stati proprio gli antifascisti. Come quella della patria per Salvatore Satta, la morte dell'antifascismo potrebbe rivelarsi «l'avvenimento più grandioso», se non delle nostre vite, quanto meno di questa stagione della nostra storia. 

La Repubblica italiana sorge sulle macerie del fascismo dandosi valori diametralmente opposti a quelli del regime e proponendosi di scongiurarne per sempre il ripresentarsi.

È indiscutibile, perciò, che il nostro ordine costituzionale sia antifascista e che il fascismo non possa trovare cittadinanza al suo interno. Una volta detto questo, tuttavia, non è che abbiamo risolto poi molto. 

Le etichette politiche sono elastiche, infatti, e l'attribuirle è esso stesso un esercizio politico. Che cosa dobbiamo intendere per fascismo, allora? Quand'è che siamo in presenza di un pericolo fascista e dobbiamo perciò mobilitarci a difesa della democrazia antifascista? E soprattutto: a chi spetta il diritto di rispondere a queste due domande? 

Storicamente, la cultura e le forze politiche di orientamento progressista hanno arrogato a se stesse quel diritto, nel nome della propria purezza antifascista e appoggiandosi al proprio predominio nel mondo intellettuale. E hanno dato alle prime due domande delle risposte «larghe», dilatando la nozione di fascismo ben al di là dei confini storici del fenomeno e, di conseguenza, moltiplicando i pericoli fascisti e le chiamate alla difesa della democrazia. 

Fin quando è durata la Guerra Fredda, quest' antifascismo «largo» è servito soprattutto al Partito comunista per contrastare la retorica anticomunista che lo delegittimava e, a sua volta, delegittimare le forze politiche che adoperavano quella retorica.

Una volta caduto il Muro di Berlino, l'antifascismo - fattosi nel frattempo ancora più largo - è in buona misura confluito nell'antiberlusconismo. Più in quanto potenziale autocrate mediatico da terzo millennio che a motivo dei suoi alleati post-missini, Berlusconi è diventato la nuova incarnazione del pericolo fascista. 

Per le elezioni del 2001, così, Umberto Eco promosse un noto appello che definiva il voto nientemeno che un «Referendum Morale», con tanto di maiuscole, «contro l'instaurazione di un regime di fatto». Qualche tempo dopo, ironicamente ma non troppo, lo storico Paul Ginsborg si chiedeva se fosse «del tutto fantasioso immaginare che nel 2013 i "piccoli forzisti" vadano a letto stringendo nella manina il medaglione di Silvio B., come facevano i piccoli Balilla con quello del duce nel 1935».

L'obiettivo politico in questo caso era duplice: da un lato indebolire Berlusconi, delegittimandolo in Italia e all'estero (Berlusconi, dal canto suo, contraccambiava generosamente con l'anticomunismo), dall'altro restituire un po' di tono e compattezza a una sinistra esangue e divisa. 

Dilatare l'antifascismo per ragioni politiche è un'operazione comprensibile e legittima. Gli effetti collaterali negativi, tuttavia, sono legione. Suonare a martello l'allarme antifascista e chiamare alla difesa della democrazia è un'arma da fine del mondo, una risorsa di ultimissima istanza. Se la si usa in continuazione la si banalizza e rende inefficace, un po' come il pastorello che gridava al lupo per scherzo ed ebbe infine le pecore divorate quando il lupo arrivò davvero, e nessuno rispose ai suoi richiami.

Tanto più se, come nella favola di Esopo, i primi allarmi si sono dimostrati infondati: dal «Referendum Morale» del 2001, che Berlusconi stravinse, sono passati ventun anni, e pure se ne abbiamo viste davvero di tutti i colori, abbiamo tuttavia continuato a votare in elezioni libere e il paventato «regime di fatto» proprio non s' è visto. Semmai, il governo Berlusconi del 2008-2011 resta l'ultimo che gli italiani si siano potuti scegliere nelle urne: piuttosto bizzarro come segno di fascismo.

Se poi, come accadde appunto nel 2001, la parte politica accusata di fascismo o parafascismo vince pure, l'antifascismo (o meglio: quel tipo «largo» di antifascismo) ne riceve un danno ulteriore. Di fatto, la maggioranza degli elettori dimostra di non riconoscervisi, di non considerarlo il fondamento comune della convivenza repubblicana, ma il frutto indigesto di una drammatizzazione a uso politico, di una strumentalizzazione a fini elettorali. 

Torniamo così alla terza delle domande che facevo in apertura: a chi spetta il diritto di decidere se ci si trova in presenza di un pericolo fascista? In una democrazia, è difficile che la risposta a questa domanda non passi almeno in parte - e una parte rilevante, direi - per gli elettori.

Per mancanza di concorrenti più qualificati, se non altro. Ma tanto più se la stragrande maggioranza di quegli elettori non ha dato segni rilevanti - negli studi demoscopici, nelle piazze, nel tasso pressoché nullo di violenza politica - di aver rifiutato i valori democratici e di vagheggiare derive autoritarie. Veniamo così a quest' estate del 2022. Quel che non cesserà mai di sbalordirmi del progressismo italiano, politico e culturale, è la coazione ossessiva a ripetere, l'incapacità d'imparare dai propri errori. Ci risiamo, quindi: l'uso politico dell'antifascismo, l'allarme democratico, la fine del mondo, gli strumenti di ultimissima istanza.

Tutto questo di fronte a un Paese disincantato, stanco e distratto che pare crederci ancora meno che nel 2001, alla fine del mondo. Anzi, che non pare crederci affatto, se non altro perché, in una forma magari istintiva e confusa, conserva memoria degli allarmi rivelatisi infondati vent' anni fa. 

E se alla fine la coalizione di destra vincerà le elezioni, com' è probabile, l'antifascismo «largo» si sarà dimostrato ancora una volta lo strumento politico di una parte minoritaria che non sa più parlare altrimenti agli elettori. 

E quando, fra cinque anni al massimo, torneremo a votare in un sistema politico probabilmente altrettanto scombinato ma non meno democratico e liberale dell'attuale - esito sul quale, come la stragrande maggioranza degli italiani, non nutro il benché minimo dubbio - il Paese ricorderà che per l'ennesima volta il pastorello ha gridato al lupo, ma il lupo non c'era. E dovremo allora pregare che il lupo non abbia ad arrivare davvero, prima o poi. Perché a quel punto, se arrivasse, sbranerebbe indisturbato fino all'ultima pecora.

"BELLA CIAO" DIVENTA UN JINGLE. DI FASCISMO E ANTIFASCISMO NON FREGA DAVVERO PIÙ A NESSUNO. Antonio Gurrado per ilfoglio.it il 18 agosto 2022.  

Questa mattina mi son svegliato e ho acceso la tivù. E c’era uno spot il cui slogan veniva scandito sulla musica di “Bella ciao”: credevo fosse campagna elettorale, invece era la pubblicità di una ditta di arredamenti. Ne ho tratto un dilemma insolubile, che mi tormenta tuttora. 

O gli autori dello spot, i musicanti, i parolieri, l’ufficio marketing, l’amministratore delegato, gli operatori e il canale televisivo – poiché non si può stare a controllare ogni dettaglio – non si sono accorti che quel motivetto era “Bella ciao”. O, camuffato da endorsement a una ditta di arredamenti, quello spot vuole in realtà sottintendere un messaggio partigiano, che si conficca subliminale nella mente di chi osserva divani e piantane, poiché ogni contesto è opportuno per mostrarsi antifascisti.

Oppure, infine, di fascismo e antifascismo non frega davvero più a nessuno e sono diventati un sostrato pop, usitato e innocuo come una canzoncina che ti frulla in testa, quindi entro fine estate ci sarà da aspettarsi la réclame di un compro oro che ci proporrà di versargli i nostri preziosi sulle note di “Faccetta nera”.

Giorgia Meloni, tutte le volte che ha chiarito sul fascismo ma la sinistra fa finta di non sentire. Il Tempo il 12 agosto 2022

Non basta mai, neanche l'intervento in tre lingue per la stampa estera ha impedito alla sinistra di continuare a chiedere "parole chiare" sul fascismo da parte di Giorgia Meloni e, ultima trovata, di togliere la fiamma tricolore dal simbolo. Ma la leader di Fratelli d'Italia, come ricorda spesso lei stessa, quelle parole le ripete da vent'anni. Ecco allora qualche esempio di una lunga rassegna che parte dal lontano 2006, anno in cui l'Italia vinceva i Mondiali di calcio a Berlino, veniva lanciato Twitter e nasceva Wikileaks. Un'era geologica fa, insomma. A ricordare le parole di Meloni è Libero con un articolo che raccoglie alcune delle sue dichiarazioni sul "pericolo nero" usato come uno spauracchio dalla sinistra. 

Il 7 dicembre 2006 a Claudio Sabelli Fioretti per il Corriere Magazine, la leader di FdI aveva detto: "Ho un rapporto sereno con il fascismo. Lo considero un passaggio della nostra storia nazionale. Mussolini ha fatto diversi errori, le leggi razziali, l'ingresso in guerra, e comunque il suo era un sistema autoritario. Storicamente ha anche prodotto tanto, ma questo non lo salva. La libertà e i diritti civili valgono di più della bonifica delle paludi pontine, tanto per intenderci". Parole nette. Il 17 settembre 2008 aveva scritto agli attivisti di Azione giovani. "Siamo stati e restiamo gente che crede nella libertà, nella democrazia, nell'uguaglianza e nella giustizia. Sono i valori sui quali si fonda la nostra Costituzione e che sono propri anche di chi ha combattuto il fascismo. Noi rifiutiamo ogni forma di violenza, oppressione e intolleranza".

Nel 2016 a Lucia Annunziata, nel corso di In mezz' ora, aveva chiarito: "Io sono di destra. Sono nata nel 1977, non sono mai stata fascista". Ancora? Nel 2021 per il Giorno della Memoria Meloni aveva ribadito: "Ricordare per onorare. Ricordare per contrastare l'antisemitismo in ogni sua forma, affinché gli orrori del passato non tornino mai più. Nel Giorno della Memoria un pensiero commosso a tutte le vittime della Shoah e a chi ancora oggi porta nell'anima i segni indelebili di quelle atrocità".

Un anno fa replicando a un intervento di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera, la leader di Fdi aveva ricordato all'editorialista  quanto trattato a suo tempo nelle "tesi di Fiuggi", nel 1995, quando "si condannarono l'infamia delle leggi razziali e la sciagurata alleanza bellica dell'Italia mussoliniana con la Germania nazista e si riconobbe il ruolo storico della vittoria alleata a guida anglosassone per la costruzione della nostra democrazia". E sempre al Corriere, qualche mese dopo, aveva ribadito "Nel dna di Fratelli d'Italia non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c'è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c'è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro". Ma alla sinistra non basta ancora.  

Simbolo Fratelli d'Italia, qual è il significato. Continua la guerra sinistra contro Giorgia Meloni. Il Tempo il 12 agosto 2022

Come al solito, grande specialità della sinistra è voler disegnare il centrodestra a proprio piacimento. E così Repubblica impronta un mini congresso sulla fiamma nel simbolo di Fratelli d’Italia, tenuto, ovviamente, da esponenti del centrosinistra. Punto di partenza sono le dichiarazioni con cui Giorgia Meloni ha definitivamente e inequivocabilmente (perché a quanto pare il fattore anagrafico non era sufficiente) escluso qualsiasi legame  con l’eredità storica del fascismo. Ovviamente, l’areopago progressista sentenzia un 5 in pagella. “Se fosse stato fatto qualche settimana prima sarebbe stato più credibile”, pontifica Andrea Orlando, “e se si superasse la fiamma tricolore sarebbe meglio”.

Elly Schlein, vice presidente della giunta regionale in Emilia Romagna, ragiona: “se parli di Dio, patria e famiglia, lasci la fiamma nel simbolo, e difendi i manifesti pro-vita, onestamente non bastano due minuti di videomessaggio per smarcarsi dalle ambiguità”. Non poteva mancare Laura Boldrini: “Meloni dovrebbe spiegare perché nel simbolo di Fratelli d’Italia compare la fiamma tricolore, raffigurazione del regime che risorge dalla tomba del dittatore”.

Insomma, votata all’unanimità la cancellazione del simbolo. Come se non bastasse, viene interpellato anche un esponente dell’area totalmente opposta, Roberto Jonghi Lavarini, esponente della destra radicale: “Meloni ha cambiato idea, diventando molto velocemente liberale, conservatrice, europeista, atlantista? Legittimo, ci mancherebbe, allora tolga definitivamente la fiamma tricolore del suo nuovo partitone sistemico moderato”. Insomma, una mozione bipartisan. Che sconvolgerà, c’è da credere, le impressioni degli italiani in questa campagna elettorale. 

"Vi spiego perché la Fiamma non c'entra con il fascismo". Davanti alle insistenze della sinistra su un fantomatico riferimento del simbolo di FdI al fascismo, Giorgia Meloni tira dritto e lo deposita al Viminale. Francesca Galici il 14 agosto 2022 su Il Giornale.  

Con il centrodestra che cavalca verso una vittoria molto probabile, con Fratelli d'Italia primo partito e Giorgia Meloni possibile presidente del Consiglio, a sinistra non sanno più come fare per tentare una delegittimazione della coalizione. Nel mirino è finito pure il simbolo che da anni accompagna la compagine di Giorgia Meloni, la fiamma, un'eredità storica che a distanza di quasi un secolo si vuole a tutti i costi collegare al fascismo, pur di confermare la tesi che in caso di vittoria del centrodestra e di Fratelli d'Italia, il Paese corre un reale rischio dittatoriale. Anche Liliana Segre, dalle Pagine ebraiche, ha mosso alla Meloni l'invito a eliminare la fiamma dal suo logo: "Nella mia vita ho sentito di tutto e di più, le parole pertanto non mi colpiscono più di un tanto. A Giorgia Meloni dico questo: inizi dal togliere la fiamma dal logo del suo partito".

"Meloni tolga la fiamma da simbolo". Ma La Russa gela la Segre

A smontare le tesi dei troppi che in questi giorni si riempiono la bocca di ipotesi e richieste di eliminazione della fiamma per un possibile legame al fascismo sono stati numerosi esponenti di Fratelli d'Italia, ma non solo. "I cantori della libertà a condizione che decidano loro di che cosa si tratta, dovrebbero sapere che i partiti autenticamente democratici stabiliscono i loro simboli nei congressi. Ed è solo lì che si possono modificare. A meno che non si abbia un'altra pretesa: leva la fiamma e presentati con una specie di lista civica. Che sarebbe cinica, semmai. Ovviamente la Meloni è andata avanti e ha presentato la sua lista con tanto di Fiamma", scrive oggi Francesco Storace sul quotidiano Libero.

Perché solo adesso la fiamma brucia la sinistra

E sulla domanda che in tanti insinuano da settimane, chiedendosi se la fiamma nel simbolo di FdI sia legata al fascismo, Storace mette un punto: "No, o almeno non più. Il richiamo è al Msi, ce l'aveva anche Alleanza nazionale". Anche Giorgia Meloni, assalita da chi le chiede con insistenza di eliminare la fiamma dal simbolo di Fratelli d'Italia, ormai depositato al Viminale, ha voluto fare chiarezza. In particolare, ha risposto alla senatrice Liliana Segre che le aveva consigliato di far seguire alle parole i fatti in merito all'antifascismo. "La fiamma nel simbolo di FdI nulla ha a che fare con il fascismo, ma è il riconoscimento del percorso fatto da una destra democratica nella nostra storia repubblicana. Ne andiamo fieri", ha detto Giorgia Meloni al Corriere della sera. 

Maria Pia Mazza per open.online il 20 agosto 2022.

I simboli dei partiti in vista delle elezioni del 25 settembre sono stati depositati e accettati dal Viminale. Tra questi c’è anche quello di Fratelli d’Italia, con la discussa fiamma tricolore e che, nelle scorse settimane, ha creato numerose polemiche. Ma anche appelli. Come quello della senatrice a vita Liliana Segre che ha chiesto di rimuovere la fiamma dal simbolo elettorale del partito di Giorgia Meloni. 

La richiesta della senatrice Segre, nel frattempo, è caduta nel vuoto. Ma la polemica continua. E c’è chi, come Loredana Bertè che, in un video su Instagram, si rivolge alla leader di FdI e dice: «Signora Meloni, quando una senatrice come Liliana Segre chiede che sia cancellata dal suo logo quella fiamma che ricorda il fascismo e le sue conseguenze, lei la rimuove e basta, senza arrampicarsi sugli specchi con scuse improbabili. Lei la rimuove, ha capito?».

E Bertè, nel suo breve discorso, aggiunge: «Mi sembra il minimo per il rispetto che si deve a una signora che ha passato quello che ha passato (riferendosi alla senatrice Segre, ndr), oltre a noi cittadini che siamo veramente stufi e alla memoria di quelli che non ci sono più perché per quel simbolo sono stati uccisi». 

E il “pettirosso da combattimento” (soprannome dato a Bertè da Fabrizio De André, ndr) incalza ancora la leader di Fratelli d’Italia e conclude: «Lei si deve vergognare, signora Meloni. Non l’ho chiamata “onorevole” perché di onorevole lei non ha niente, come la maggior parte dei politici italiani». Al momento Giorgia Meloni non ha replicato alle parole dell’artista, ma non si esclude possa farlo nelle prossime ore o giorni.

Estratto dell’articolo di Francesco Olivo per “La Stampa” l'8 settembre 2022.  

[…]  Nel mirino finiscono persino cantanti e attori di sinistra che l'attaccano di continuo: «Tutti questi artisti li avete visti, secondo voi è possibile che in tutto il mondo dello spettacolo non ce ne sia uno che la pensa come noi, se c'è allora perché non parla, forse perché sa che parlando le sue possibilità di crescita in quel mondo potrebbero ridursi».

Antonio Bravetti per “La Stampa” l'8 settembre 2022.   

Giorgia Meloni presidente del Consiglio? «Aiuto, che paura». Ornella Muti allunga l'elenco delle donne dello spettacolo che hanno apertamente criticato la leader di Fratelli d'Italia.

Dopo Elodie, Levante, Giorgia, Loredana Bertè e la giovane Ariete, è la popolare attrice romana a dirsi spaventata dall'idea che la prima premier donna d'Italia possa essere l'ex ministra della Gioventù. 

Una «Aiuto, che paura», dice intervistata dall'Adnkronos. Dello stesso avviso la figlia Naike Rivelli, più loquace: «Meloni mi inquieta per il suo modo di parlare così violento che serve solo ad aizzare la folla». Il riferimento è al celebre comizio a Marbella per l'ultradestra spagnola di Vox: «Anche questa cosa del cristianesimo mi spaventa. Tu non fai parte di un partito cristiano, che c'entra la religione? », chiede Naike.

«Già abbiamo il Vaticano - prosegue - che me ne frega di sapere che Meloni è cristiana? Proponesse qualcosa di più importante come ad esempio come facciamo a pagare le bollette a fine mese. Meloni non mi rappresenta come donna in nessun modo». Chi voterà quindi? «Sicuramente non la destra e mi spaventa molto il fatto che possa vincere, eravamo andati avanti e stiamo tornando indietro».

A febbraio, in occasione del festival di Sanremo, Ornella Muti era finita sotto il fuoco di FdI per aver pubblicato una foto in cui esibiva un ciondolo a forma di foglia di marijuana. «Un'esternazione impropria» per Federico Mollicone, arrivato a chiedere «il test tossicologico per conduttori e artisti». Sempre ieri, dalle pagine del Corriere della Sera, Vanessa Incontrada ha usato gli stessi argomenti per bocciare Meloni: «Mi fa molta paura, non amo e non condivido il suo tipo di politica. 

La manifestazione a cui ha partecipato in Spagna con Vox mi ha scosso molto, perché conosco bene Vox, portavoce di un estremismo di destra per me inconcepibile. Da una donna io mi aspetto libertà, apertura mentale, invece sento discorsi che me la fanno sembrare un politico del 1920».

Enrico Spaccini per open.online il 12 settembre 2022.

«I politici italiani io li chiamo infami, tutti quei figli di cani, tu come li chiami. Carabinieri e militari io li chiamo infami, tutti quei figli di cani». Per chi non la conoscesse, questa è Tu come li chiami. Una canzone pubblicata da Fedez nel 2010: «L’ho scritta quando avevo 18 anni», spiega dal suo profilo Instagram, «oggi non rispecchia il mio pensiero». Se si prova a cercarla su Spotify, non si trova. Si può, invece, ascoltare da YouTube, caricata da canali non ufficiali, e su una vecchia pagina di MySpace del rapper. Questo particolare brano non è tra i più amati di Fedez, tuttavia è tornato alla ribalta dopo il concertone del Primo Maggio del 2021 e tra le associazioni di ex militari. 

I versi sui carabinieri

Infatti, dopo quel discorso polemico, Fedez è stato il bersaglio primario di alcuni esponenti della politica. In particolare della Lega, che lo hanno attaccato per alcuni suoi testi discutibili, ad esempio proprio Tu come li chiami. Al punto, che l’associazione Pro territorio e cittadini onlus ha deciso di denunciarlo «per istigazione a delinquere per aver realizzato e diffuso in tempi diversi sulla rete internet» una canzone che «invita pubblicamente i suoi ascoltatori a vilipendere le forze armate della Repubblica italiana chiamandoli infami e definendoli figli di cani». 

Qualche giorno fa, però, la Procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento in quanto non sarebbe vilipendio ma solo «critica aspra, provocazione, ricerca spasmodica della notorietà». Una richiesta che non è piaciuta all’associazione. Roberto Colasanti, colonnello in congedo dei carabinieri e firmatario della denuncia contro il rapper, ha dichiarato come questa decisione «desta enorme preoccupazione». Poiché, dice, «significherebbe riconoscere delle aree di impunità che non appaiono tollerabili in uno stato di diritto». 

La risposta di Fedez e l’attacco a Meloni

Di opinione opposta è l’accusato, Fedez, che sostiene che «se dovessero mai condannarmi sarebbe un guaio», riferendosi al fatto che i Tribunali sarebbero intasati dai testi dei rapper «che bene o male dicono le medesime cose sia qui che oltre oceano». Il cantante milanese, però, si spinge oltre. Criticando l’attenzione che gli è stata riservata per questa questione, ci tiene a ricordare che «viviamo in Italia».

Portando, poi, l’esempio di Giorgia Meloni e di quel video in cui «nelle trincee del Movimento sociale italiano» diceva che «Mussolini ha fatto anche cose buone». Alla fine, Fedez invita i suoi follower ad accettare quel testo così criticato e di prenderlo come espressione di un 18enne: «Se potete accettare senza indignazione le sue dichiarazioni, potrete accettare che anche io a 18 anni sparavo stronzate. E io non ricoprirò nessun ruolo istituzionale in questo Paese, per fortuna per voi». 

Estratto dell'articolo di Andrea Bulleri per “il Messaggero” il 12 settembre 2022. 

[...] A ogni elezione il tormentone si ripete: per chi vota il partito dei vip?  Artisti, cantanti, attori, volti del piccolo e del grande schermo. In bilico tra la voglia di schierarsi e il pericolo di esporsi, con il rischio di inimicarsi una fetta del proprio pubblico. [...]

IN DIFESA DI GIORGIA 

Oggi, a due settimane dalle urne, gli artisti che hanno scelto di schierarsi a favore di uno dei front-runner in corsa si contano sulle dita di una mano. Al punto che ieri, dal palco di Trento, Giorgia Meloni è sbottata: «È possibile che un partito stimato al 27% non abbia nemmeno un sostenitore nel mondo dello spettacolo? Possibile si è risposta la leader di FdI perché dichiarare simpatie di destra impedirebbe loro di lavorare». In realtà qualcuno che negli ultimi giorni ha preso le sue difese c'è. Anche se in modo discreto. 

AL BANO 

«Ho lavorato per 60 anni e sono sempre stato lontano dalle forze politiche si è lanciato ad esempio Albano Carrisi C'è stato un periodo in cui chi abbracciava una certa ideologia aveva le porte della carriera spalancate: io non l'ho mai fatto». Il cantautore di Cellino San Marco però ha voluto spezzare una lancia in favore di Meloni: «È sbagliato insultarla perché, anche se si hanno idee diverse, non è così che si discute». Lo stesso ha fatto la showgirl Valeria Marini, protagonista di un botta e risposta social tutto politico con Selvaggia Lucarelli. 

VALERIA MARINI AL SENATO

«Cara Selvaggia ha risposto piccata Marini a una critica della giornalista hai tanto da imparare da Giorgia Meloni... Per esempio il rispetto che ha per gli altri e soprattutto per le donne». [...] 

Spostando indietro le lancette dell'orologio, ecco che dagli archivi spuntano altre prese di posizione a favore di Meloni: quella del cantante Enrico Ruggeri, ad esempio. «Giorgia al governo? La vedrei bene, finalmente avremmo una donna premier», dichiarò un anno fa a Libero. 

Chi invece della destra al governo dice di aver «paura» è Ornella Muti. Ma pure Vanessa Incontrada: «Meloni mi spaventa molto ammette l'ex conduttrice di Zelig, citando il comizio di Vox («soy una madre...») Non amo e non condivido il suo tipo di politica». Ma la carica dei vip antimeloniani è nutrita. E comprende anche le cantanti Elodie («è una donna, ma parla come un uomo del 1922») e Giorgia. 

E pure Loredana Bertè. Che sulla fiamma nel simbolo di FdI affonda: «Signora Meloni, si vergogni. E la chiamo signora perché lei di onorevole non ha nulla». Qualche giorno prima, da Instagram, aveva detto la sua Chiara Ferragni (che sul social vanta un seguito da 27 milioni di follower). L'influencer aveva tuonato contro Fratelli d'Italia, che «ha reso impossibile abortire nelle Marche: dobbiamo far sì che queste cose non accadano», l'appello.

IL RAPPER 

E se una storica pasionaria della sinistra come Alba Parietti (che nel 2008 lanciò la sua candidatura alle primarie del Pd) stavolta si smarca, affermando di «sperare nella figura di Meloni» (anche se «non condivido nulla del suo pensiero», precisa), la palma di endorsement che non ti aspetti va al rapper ventunenne Baby Gang. Che su Instagram esordisce così: «Gira e rigira il capo rimane sempre lui»: Silvio Berlusconi. «Quando c'era lui l'Italia era la vera Italia, non si può dire nulla a sto uomo. Forza Italia». [...]

Stefano Iannaccone per tag43.it il 7 ottobre 2022.

Una galassia variegata pronta a prendersi la scena acquisendo una maggiore visibilità. Con il tentativo di ribaltare il luogo comune secondo cui solo gli intellettuali di sinistra hanno spazio in tv e nel dibattito pubblico. Forse qualcosa in più di un luogo comune visto che la stessa Giorgia Meloni, in un comizio a Catania, si era chiesta come fosse possibile «che un partito stimato al 27 per cento» non avesse «nemmeno un sostenitore nel mondo dello spettacolo».

Domanda retorica, evidentemente. «È perché dichiarare simpatie di destra gli impedirebbe di lavorare nel mondo dello spettacolo? È questa la democrazia?», si era risposta con un filo di vittimismo la leader di FdI. Ora che Giorgia sta davvero per entrare a Palazzo Chigi le cose cambiano. Qualche vip e cantante si è già riposizionato, mentre scalpitano gli intellò, i giornalisti, gli artisti e gli storici che da sempre sono ascrivibili alla galassia della destra.

Uno dei volti più noti è Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore battitore libero che più volte ha avuto esperienze da conduttore in programmi tv tra cui la versione estiva di Otto e mezzo su La7. Nella sua carriera ha collaborato con varie testate, da Il Giornale a Panorama, ma nella lista figurano anche Il Fatto quotidiano e Il Foglio. Da sempre ha un legame con la sua regione natia, la Sicilia, a cui ha spesso dedicato riflessioni e anche qualche pubblicazione, come Buttanissima Sicilia.

Altro profilo mediatico è Vittorio Sgarbi, aspirante ministro della Cultura, noto per i suoi accessi d’ira durante le ospitate nei programmi tv. In più occasioni è arrivato anche alle mani con alcuni interlocutori: la lite con Giampiero Mughini è solo l’ultimo atto di una lunga lista. Di professione critico d’arte, è stato più a lungo parlamentare, anche grazie a una solida amicizia con Silvio Berlusconi. 

Decisamente molto meno irruente è Angelo Crespi, critico d’arte e giornalista che vanta una parentesi come sottosegretario al ministero dei Beni culturali con Sandro Bondi. Uno dei punti di riferimento del pensiero di destra, in Italia, resta comunque il filosofo e scrittore Marcello Veneziani, che ha firmato articoli per le testate d’area, da Libero a Il Giornale, ma anche al Tempo e La Verità.

All’universo intellettuale conservatore appartiene Edoardo Sylos Labini, attore, regista, consulente artistico del teatro Manzoni di Milano, con un passato vicino a Forza Italia. Ex marito di Luna Berlusconi, figlia del fratello del Cav, Paolo, nei mesi scorsi ha lanciato un nuovo progetto editoriale: il mensile Cultura e identità, dopo aver già diretto, in passato, il GiornaleOFF. 

Dal mondo accademico proviene Luigi Mascheroni, docente all’Università Cattolica di Milano, firma delle pagine culturali de Il Giornale con esperienze al Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra i suoi saggi più discussi c’è il recente I libri non danno la felicità. Lo storico Giordano Bruno Guerri è un esponente a tutto tondo del mondo culturale di destra: studioso del ventennio fascista, ha spesso assunto posizioni libertarie, come ha sottolineato lui stesso. Per questo motivo è stato spesso vicino ai Radicali in alcune battaglie, soprattutto quella per l’abolizione della pena di morte.

Tra le sue ricerche, poi, figurano alcune pubblicazioni sul rapporto tra l’Italia e la Chiesa, a cui è molto vicino. Anche lui vanta una collaborazione con Il Giornale. Per quanto riguarda l’attività editoriale, va menzionata pure l’iniziativa del periodico culturale Italiani Liberi, con un’ispirazione dichiaratamente «antieuropeista». Dal 2008 è presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, la casa di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera. 

Un altro intellettuale di primo piano è Umberto Croppi, già assessore a Roma nella Giunta Alemanno. Fino al 1991, era stato nel Movimento sociale italiano, con cui tuttavia ha intrattenuto un rapporto critico che lo ha portato all’abbandono. Nel 2011, in seguito all’azzeramento della squadra al Campidoglio, ha seguito Gianfranco Fini nel partito Futuro e libertà, diventandone responsabile Cultura fino allo scioglimento. Il partito, come è noto, è stato bocciato dagli elettori.

Da allora è rimasto per lo più dietro le quinte, concentrandosi principalmente sulla scrittura di libri, fino a quando nel 2020 non è stato nominato presidente di Federculture. Altro intellettuale prestato alla politica è Massimilano Finazzer Flory, assessore alla Cultura al Comune di Milano nella Giunta Moratti (subentrò a Sgarbi). Di professione drammaturgo e regista, ha conquistato vari riconoscimenti anche negli Stati Uniti. 

Il regista Renzo Martinelli rappresenta poi una sorta di idolo per i leghisti, specie quelli della prima ora, avendo concesso un cameo a Umberto Bossi nel suo film Barbarossa. Nel 2016, Martinelli si è pure cimentato nella narrazione dei fatti di Ustica. Sempre dal mondo dello spettacolo, in particolare della recitazione, arriva Luca Barbareschi, figura eclettica, passato dal ruolo di attore a quello di regista: il titolo più famoso è stato il Trasformista, realizzato nel 2002. Ma nel suo percorso ci sono tante esperienze in televisione e la (fallimentare) gestione del teatro Eliseo, affidatagli nel 2001.

Lo storico teatro romano ora è chiuso e in vendita. È stato anche parlamentare del Popolo delle libertà nella legislatura iniziata nel 2008 e finita il 2013. Come Barbareschi, anche Pino Insegno è un personaggio televisivo, di estrazione più leggera, essendo principalmente un comico. Tuttavia, è anche un doppiatore e presentatore. Di recente ha consacrato la sua appartenenza alla galassia del mondo culturale di destra, annunciando Giorgia Meloni sul palco di Piazza del Popolo, nel giorno della chiusura della campagna elettorale.

Andrea Roncato è un profilo affine, grazie alla fama conquistata in varie commedie italiane e al duo con Gigi e Andrea con Gigi Samamarchi. Nella sua carriera è stato spesso legato a Silvio Berlusconi, per cui ha simpatizzato anche in politica. Alle ultime elezioni si è poi speso per Sgarbi candidato a Bologna contro Pierferdinando Casini. E infine dalla musica arriva Beatrice Venezi, direttrice d’orchestra, che addirittura era stata indicata come possibile candidata al Parlamento per Fratelli d’Italia. Tanto per ribadire il proprio credo politico ha detto che «Dio, patria e famiglia sono i miei valori».

"Gridiamo insieme: siamo tutti antifascisti". Lo scivolone rosso a Venezia. Il regista brasiliano Pedro Harres arringa la platea della Sala Grande del Palazzo del Cinema: piovono applausi per la sua denuncia antifa. Massimo Balsamo l'11 settembre 2022 su Il Giornale.

Si chiude oggi la settantanovesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Un'edizione ricca di film, di star ma non solo. A pochi giorni dalle elezioni politiche, non sono mancate le prese di posizione di attori e attrici, registi e registe, e così via. Non sono mancati i richiami antifascisti, e l'ultimo appello è arrivato direttamente nel corso della cerimonia di premiazione.

A "infiammare" la platea della Sala Grande del Palazzo del Cinema ci ha pensato il regista Pedro Harres. Ritirando il Gran Premio della Giuria Venice Immersive per "From the main square", il cineasta brasiliano ha voluto lanciare un messaggio:"In Brasile non solo il cinema è in pericolo ma la democrazia. Noi dobbiamo gridare più forte possibile contro questo pericolo. Insieme gridiamo: siamo tutti antifascisti".

La Mostra di Venezia in campagna elettorale

L'accorato intervento di Harres ha riscosso grande successo. Tanti applausi per l'artista, che però non è stato l'unico a puntare sui temi antifascisti. Il primo episodio è stato registrato già nel giorno dell'apertura del Festival "grazie" al documentario "Marcia su Roma", diretto da Mark Cousins. L'americano, infatti, ha puntato forte sul parallelismo tra l'ascesa del fascismo e l'ascesa di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia e "favorita" per la vittoria al voto del 25 settembre.

"Oggi ci sono molti più governi di destra di quanti io non ne ricordi in tutta la mia vita, e io ho 56 anni. Ungheria, Polonia, India, Brasile, l'America con Trump e adesso anche in Italia il pendolo sta oscillando verso destra. Questa è una condizione molto pericolosa", il giudizio di Cousins ai microfoni di Adnkronos. Oppure come dimenticare l'attacco frontale di Elodie, protagonista al Lido di un film nella sezione Orizzonti, sempre contro la Meloni. E ancora: da Loredana Bertè a Ficarra e Picone, l'elenco è folto. 

Laura Pausini non canta “Bella ciao” in tv: travolta dagli insulti della sinistra. Il Tempo il 13 settembre 2022

Laura Pausini, ospite nel programma tv spagnolo El Hormiguero, ha scatenato una polemica, soprattutto sui social, per aver rifiutato di intonare “Bella ciao”, molto nota in Spagna anche per la serie tv La Casa di Carta, spiegando di non voler cantare «canzoni politiche». Nel video si vede Laura Pausini con gli altri protagonisti dello show mentre prova a cantare con loro “Cuore matto”. Quando i suoi colleghi spagnoli iniziano a intonare “Bella ciao”, lei li blocca immediatamente spiegando di non voler cantare canzoni politiche, «e questa è una canzone molto politica». Centinaia i commenti sulla pagina Facebook dell’artista, la maggioranza di critica per il rifiuto.

«Bella ciao è un inno contro le tirannie, quale politica?», scrive un utente. Un altro rincara: «Bella ciao non è un canto politico! È un canto di libertà, o dovresti tornare alle elementari oppure sei anche tu dalla parte dei fascistelli. È un canto di liberazione dalla guerra e dai nazifascisti, non capisco perché non si debba esser d’accordo con i contenuti di questo canto». Oltre alle accuse di essere fascista ci sono anche commenti di sostegno alla cantante: «Ammiro la sua scelta di non fare politica come fanno tanti suoi colleghi, ma di rimanere fedele al suo ruolo di artista pura», scrive una fan. «Da oggi l’ammiro come non ho mai fatto prima... ha scelto di essere libera di scegliere», commenta un altro.

Pausini è stata costretta a replicare pubblicamente: «Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Canto quello che penso della vita da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta mi sembra ovvio per. Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica. Non si inventino ciò che non sono».

 Elisabetta Murina per fanpage.it il 13 settembre 2022.

Ospite della tv spagnola, Laura Pausini fa scoppiare la polemica. La cantante si è rifiutata di cantare Bella Ciao, simbolo della Resistenza Partigiana, durante un popolare quiz show. "E’ una canzone molto politica e io non voglio cantare canzoni politiche", ha replicato quando le è stato chiesto di intonare il ritornello. Immediati i commenti e le critiche sui social dopo la sua decisione. 

Laura Pausini si rifiuta di cantare "Bella Ciao"

Laura Pausini è stata ospite del popolare programma spagnolo El Hormiguero e, durante la puntata, ha preso parte a un gioco in cui i concorrenti dovevano intonare un brano che contenesse la parola Corazon, il cui significato è Cuore. Dopo aver scelto alcune canzoni in spagnolo, lingua che conosce molto bene, l'artista è passata all'italiano cantando il ritornello di Cuore Matto di Little Tony. 

Nessuno dei presenti però sembrava riconoscerlo, così il conduttore Pablo Motos ha intonato Bella Ciao, coinvolgendo il pubblico e quasi aspettandosi che la sua ospite facesse altrettanto. 

Ma cos' non è stato: "E’ una canzone molto politica e io non voglio cantare canzoni politiche", ha detto la Pausini rifiutandosi di canticchiare il brano, simbolo della Resistenza Partigiana, inno della lotta al fascismo e di recente associato alla popolare serie spagnola La Casa di Carta. Il padrone di casa non ha insistito e il gioco è poi andato avanti. Il momento però non è di certo passato inosservato sui social.

La polemica immediata sui social

Sui social è scoppiata subito la polemica e sono diversi coloro che si sono schierati duramente nei confronti di Laura Pausini. Adriana Lastra, deputata socialista, ha scritto via Twitter: “Rifiutarsi di cantare una canzone antifascista dice molto della Signora Pausini e niente di positivo”. Anche il deputato socialista del Parlamento Europeo, Ibán García, non ha risparmiato critiche: “Nè con i democratici, nè con i nazisti. Uguale”.

Non canta "Bella ciao": Laura fascista. C'è da scommetterci che avrebbe risposto uguale anche se le avessero chiesto di cantare Faccetta nera oppure El Pueblo Unido Jamas Sera Vencido. Paolo Giordano il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

C'è da scommetterci che avrebbe risposto uguale anche se le avessero chiesto di cantare Faccetta nera oppure El Pueblo Unido Jamas Sera Vencido oppure qualsiasi altro brano dal forte connotato politico. Invece ha scelto di non cantare Bella ciao ed è finita nel tritacarne dei social. Riassunto. L'altro giorno Laura Pausini ha partecipato al programma tv spagnolo El Hormiguero, nel quale si è ritrovata a dover cantare un brano con la parola «corazon». Lei ha intonato Cuore matto di Little Tony ma nessuno sembrava riconoscerla e allora il conduttore ha intonato Bella ciao, famosa in Spagna anche perché compresa nella serie Netflix La casa di carta. Laura Pausini ha risposto come avrebbe risposto per qualsiasi altra canzone a chiaro contenuto politico: «Troppo politica, non mi piace cantare canzoni troppo politiche». Apriti cielo. Il conduttore è andato avanti come se niente fosse. Ma i social, si sa, non perdonano. E hanno iniziato a mitragliare accuse totalmente campate per aria fino alla classica «sei una fascista». Su Facebook un fan ha scritto: «Mi ha fatto vergognare, con il suo rifiuto a cantare Bella Ciao. Vuol dire non conoscere le radici della sua terra. La canzone ha una storia e una prima versione che era il canto delle mondine, sfruttate e maltrattate. Bella Ciao è il canto che da la voce agli oppressi. Ha perso una buona occasione peccato». Tanto rumore per nulla. Dopo poco Laura Pausini ha scritto sui suoi social ciò che era già ovvio a chiunque la conosca, ossia che «non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Canto quello che penso della vita da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta sembra ovvio a tutti. Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica. Non inventate ciò che non sono». Il caso è chiuso, ma rimane aperto quello legato ai pregiudizi, ai riflessi condizionati di chi valuta tutto con un unico metro, quello della propria appartenenza politica. Come già accadeva negli anni Settanta, chi non si schiera è automaticamente un «nemico». Non importa che un artista popolare scelga di non avere riflessi politici in pubblico, la sua neutralità equivale a una dichiarazione, a una scelta di campo. È uno dei controsensi del Novecento che ancora non si sono appianati nonostante generazioni di artisti li abbiano denunciati. E, nonostante la vorace tendenza a guardare il futuro, sembra che su questo i social restino implacabilmente legati al passato. Dopotutto, le piaghe ideologiche sono le più difficili da rimarginare.

Da il Messaggero il 14 settembre 2022.  

«Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra». Stop. Così Laura Pausini spiega il suo no a chi, durante un programma sulla tv spagnola (El Hormiguero, il formicaio), le chiede di interpretare Bella ciao. «Niente politica» risponde l'artista romagnola, che sceglie invece di intonare Cuore matto (il gioco consisteva nel cantare un testo che contenesse la parola corazòn, cuore appunto). 

Un rifiuto che ha scatenato polemiche sui social, con alcuni utenti che hanno dato alla cantante della «fascista». «Canto quello che penso della vita da 30 anni replica lei Che il fascismo sia una vergogna assoluta mi sembra ovvio». Ma, precisa, «non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica. Non si inventino ciò che non sono».

Ivan Rota per Dagospia il 14 settembre 2022.  

“Ciao Pausini, la tazza della Pausini, ma infilatela nel culo la tazza. Ah bella ti sei messa a vendere le tazze anche quando fai i concerti, ma non ne hai abbastanza dei miliardi Ma v*** va” . Non solo le polemiche per il rifiuto di cantare “Bella Ciao”, la cantante deve fare i conti con l’invettiva di Maurizia Paradiso che in un video lancia e spacca la tazza con l’effigie della cantante. Ma sarà vero che la Pausini vende tazze durante i suoi concerti? La Paradiso ne è convinta e le sue espressioni sono molto colorite. Un’altra domanda? Ma la Pausini ha fatto qualcosa alla ex diva di programmi e film hard? Pare che a un concerto non l’abbia salutata 

Riccardo Canaletti per mowmag.com il 14 settembre 2022.  

Laura Pausini è in Spagna, a El Horminguero, un quiz show televisivo spagnolo. Forse esaltati dalla fama del tributo a Bella Ciao nella serie TV targata Netflix La Casa di Carta, le chiedono di cantare la canzone simbolo della Resistenza, almeno nell’immaginario comune. Ma lei preferisce evitare, “è una canzone molto politica e non voglio cantare canzoni politiche”.

Pioggia di critiche e polemiche nei social, tra le tante: “"Se considera Bella Ciao come una canzone politica, intesa come di parte, essendo esclusivamente antifascista e antinazista ma di tutte le parti politiche che presero parte alla Resistenza dai comunisti ai cattolici ai liberali, le consiglio un ripasso delle basi della Costituzione italiana", anche se non abbiamo individuato il collegamento tra il rifiuto della cantante e l’ignoranza della Costituzione italiana (anzi, semmai è il contrario).

In seguito alla bufera precisa: “Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica”.  Saverio Tommasi, su «Fanpage», prova a rimproverarla: “Laura Pausini, ti spiego perché di Bella Ciao non hai capito niente”. Tra i tanti motivi (“Bella Ciao è una canzone d’amore”, “Bella Ciao è la canzone su cui si fonda la nostra Costituzione”, cose così), anche bambini lanciati in aria dai nazisti per evitare che sparandogli il proiettile, trapassando la carne, rimbalzasse contro il soldato. Bella Ciao simboleggia la resistenza contro tutto questo, secondo Tommasi. 

Noi abbiamo pensato di chiedere un parere a uno storico di professione, così da evitare articoli lanciati per la tangente, pieni di informazioni sensazionalistiche e colorate sulla guerra, a cui poi aggiungere un po’ di sentimentalismo, q.b., per criticare chiunque non voglia cantare una canzone. Cosa si sta provando a dire, che chi non canta Bella Ciao non condanna i crimini nazifascisti?

Magari che è fascista a sua volta, perché Bella Ciao non è di parte? Non la pensa così Giordano Bruno Guerri, storico esperto del periodo fascista, a cui ha dedicato svariati libri. “Io trovo che ognuno fa secondo il proprio criterio liberamente. La Pausini la ritiene un segno politico, e in parte lo è. Quindi non mi sentirei di accusare nessuno per non averla cantata.” 

Allora chiediamo della presunta neutralità di Bella Ciao. Non è solo una canzone antifascista? “Direi proprio di no. Bella Ciao è sempre stata un simbolo di sinistra. È stata prima una canzone della Resistenza, ma ora è una canzone di sinistra. Se la signora non si sente di sinistra ha tutto il diritto di non cantarla, come avrebbe il diritto di non cantare l’inno nazionale se non si sentisse italiana”.

Con buona pace per i piagnistei di molti, sembra che anche stavolta non si possa dare a qualcuno del fascista solo per aver rifiutato di cantare un canto popolare fortemente ideologizzato. Senza contare, poi, che la richiesta è arrivata nel contesto di uno show televisivo, dove Bella Ciao non è molto differente da Azzurro o Che sarà. Forse gli apologhi del canto partigiano dovrebbero imparare a scegliere meglio le loro battaglie, anche perché non dovrebbe sembrar loro di buon gusto vedere che la canzone simbolo dell’antifascismo viene usata come motivetto italico per far cantare in coro i cugini iberici, senza pensare al significato.  

DAGOSELEZIONE il 14 settembre 2022.  TWEET SULLA PAUSINI CHE RIFIUTA DI CANTARE BELLA CIAO

O'Cardinal@OCardinal17

Senza la Resistenza e lo spirito di canzoni come #BellaCiao la signora #LauraPausini cantava co cazz 

LauraV.@Vatuttobene_

Vabbè, l'importante è che si rifiuti di cantare. #LauraPausini 

ApocaFede@DrApocalypse

Come volevasi dimostrare, #Salvini ha applaudito #LauraPausini per essersi rifiutata di cantare #BellaCiao. “Stima”, ha scritto. Non voleva “essere strumentalizzata” e ha chiaramente finito per servirsi su un piatto d’argento. D’altronde Bella Ciao NON è mai divisiva, a meno che.

dott. Meco & mr. Joni@mr_meco

Nel frattempo il neurone nel cervello di Laura Pausini canta “La solitudine” #LauraPausini #BellaCiao 

tiù@CatiaMamone

#laurapausini non legge la Costituzione perché è troppo antifascista. 

BufalaNews@Labbufala

Vediamo il lato positivo del fattaccio, almeno non ha stonato anche con Bella Ciao. #LauraPausini 

Il Grande Flagello@grande_flagello

Basta accanirsi su #LauraPausini. Ricevere la sima di Salvini è una punizione più che sufficiente #BellaCiao

Frances C. @Frances51070652

La cosa divertente è che ha ottenuto esattamente l'effetto contrario. Genio!!! #LauraPausini 

Giuseppe Candela@GiusCandela

Jovanotti, Incontrada e Pausini hanno lo stesso ufficio stampa. Tre su tre. Ora potrebbero unire tutto: mettere un Fratino che canta Bella Ciao su Vanity. 

Davide Maggio@davidemaggio

Ehi, sono preoccupato per quei colleghi che se #BellaCiao non l’avesse cantata qualcun altro al posto della Pausini avrebbero sprecato fiumi di inchiostro. Invece adesso cos’è?! Hanno paura di essere rimproverati?! Di perdere l’invito al prossimo evento? Sul prossimo volo?! 

Madame A. @MadameA02

"Bella Ciao" non è una canzone politica ma è una canzone Antifascista. Le basi! #laurapausini 

Pietro Raffa@pietroraffa

"Bella ciao" è un pezzo della Resistenza.

Un brano che dovrebbe appartenere a tutti gli italiani. I

l fatto che per una star internazionale come #LauraPausini sia considerato di parte lascia molta amarezza.

p.s. E comunque Marco era palesemente antifascista

giuly_viola84@Giuly_Viola84

#LauraPausini si è rifiutata di cantare #BellaCiao perché è una canzone politica.

Vorrei dire alla Pausini che Bella Ciao è una canzone antifascista e per noi italiani dovrebbe essere motivo di orgoglio e unità perchè l'antifascismo è il valore fondante della nostra Costituzione. 

giovanni mercadante @giuvannuzzo

Ricordiamolo sempre: #bellaciao è una canzone divisiva solo se sei fascista. #LauraPausini 

Monica Napoli@Monicanpl

Pessima figura di Laura Pausini. Non ha cantato Bella Ciao perché troppo “politica”.

Ha mostrato solo tanta ma tanta ignoranza. Che vergogna! #laurapausini 

BufalaNews@Labbufala

#LauraPausini rifiuta di cantare la sigla di Peppa Pig.

tiù@CatiaMamone

#LauraPausini non usa le frecce della macchina perché dovrebbe scegliere tra destra e sinistra. 

Marco Noel@MarcoNoel19

Una mattina mi son svegliata e Marco ciao Marco ciao Marco ciao ciao ciao. #LauraPausini 

Matteo Capponi@pirata_21

Quando c'era LVI il treno delle 7:30 senza Marco arrivava in orario. #LauraPausini 

M49@M49liberorso

Ha fatto bene Marco ad andarsene e non tornare più #LauraPausini 

Luca Fois@foisluca84

Alla fine il Marco della canzone era Marco Rizzo. #LauraPausini 

Il Grande Flagello@grande_flagello

Non posso più dividermi tra te il partigiano #LauraPausini #BellaCiao 

gigi@gigi52335676

Un'unica nota di Bella Ciao vale più di tutta la discografia di #LauraPausini 

Mangino Brioches@manginobrioches

Anche non cantare è politico. Spiegateglielo. #BellaCiao #Pausini 

Mariase@MariaServidio2

Laura Pausini non preoccuparti ché "Bella Ciao" la cantiamo noi! Tu canta "Faccetta nera" #LauraPausini 

Lucillola@LucillaMasini

Laura Pausini si rifiuta di cantare Bella Ciao perché è “Troppo politica”. Quando invece scriveva "Parlateci di Bibbiano" non voleva attaccare il PD, giusto? #LauraPausini #BellaCiao #Bibbiano #elezioni #13settembre #fascismo 

Cerini Stefania@cerini_stefania

#LauraPausini mi ricorda quelli che dicono che non sono né di destra, né di sinistra e, in genere, sono di destra. 

FakeNews24@FakeNews_24

+++ #LauraPausini cantera "Bella Faccetta Nera" per par condicio +++

 Fiodor@Fiodor1976

laura pausini rifiuta di cantare "bocca di rosa" di fabrizio de andrè: "sono allergica ai fiori". #LauraPausini #bellaciao #ammuzzo 

RitaMiscuglio#facciamorete@ritarimix

#LauraPausini ha detto quello che direbbe un fascio di #BellaCiao , la sola cosa "politica" è stata la sua presa di posizione..

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

Se alla tv spagnola Laura Pausini avesse cantato «Bella Ciao», oltretutto a meno di due settimane dal voto, i politici e i commentatori di destra le avrebbero dato della comunista e oggi tirerebbero fuori le foto di lei che serve i tortellini a qualche festa dell'Unità o i ritagli di giornale del maggio scorso in cui i profughi cubani la definivano filocastrista. 

Poiché invece si è rifiutata di farlo per evitare strumentalizzazioni di parte, è stata strumentalizzata da entrambe le parti, con la destra che adesso la considera Giovanna D'Arco e la sinistra Claretta Petacci.

Con maggiore prontezza di spirito, ma non è facile averla in certi momenti, forse avrebbe potuto intonare quella meravigliosa canzone dedicandola al popolo ucraino invaso da Putin. Avrebbe sparigliato le carte e spostato un po' il tiro, mentre la decisione di non cantarla le ha tirato addosso accuse di vigliaccheria e di fascismo che francamente appaiono esagerate.

«Bella ciao» inneggia all'amore e alla libertà, e chi ne ha fatto la colonna sonora della propria esistenza dovrebbe riconoscere a tutti la libertà di cantarla o di non cantarla, senza sottoporre l'una o l'altra scelta al verdetto di un autoconvocato tribunale della Storia intento a misurare il tasso di ideologia degli interlocutori. È davvero un peccato che la canzone italiana più conosciuta al mondo dopo «Volare» venga percepita solo in Italia per ciò che non è: un canto di parte. Vado a sentirmi «Bella ciao». In cuffia, così non disturbo nessuno.

Cesare Zapperi per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

«Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra. Canto quello che penso della vita da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta sembra ovvio a tutti.

Non voglio che nessuno mi usi per propaganda politica.

Non inventassero ciò che non sono». Con queste parole, in risposta a un post del profilo twitter del sito spagnolo 20minutos, Laura Pausini replica alle polemiche che l'hanno investita dopo il rifiuto di intonare Bella ciao («perché è una canzone politica», la sua spiegazione a caldo) nel corso di una trasmissione televisiva spagnola. 

Il mondo dei social è esploso, fra favorevoli e contrari alla scelta della cantante emiliana, mentre dal mondo della politica italiana si sono levate poche voci. Tra chi apprezza il «gran rifiuto» c'è Matteo Salvini. «Io adoro Laura Pausini, e ha diritto di cantare quello che preferisce - ha detto il leader leghista a L'aria che tira su La7 - Non è che se uno non canta Bella ciao è un reietto. Semplicemente l'ha ritenuta una canzone politicamente strumentalizzata, sbagliando, da una parte politica perché la liberazione del Paese dall'oppressione nazi-fascista è una conquista di tutti.

C'erano bianchi, verdi, rossi...». Salvini si erge a difensore dell'artista emiliana e ne fa una questione di principio: «A me piacciono coloro che non si allineano al politicamente corretto, lei fa la cantante, non è che deve schierarsi, deve essere ammirata per la sua voce». 

Non è dello stesso avviso Nicola Fratoianni. Il leader di Sinistra italiana si rivolge direttamente a Pausini su Facebook: «È vero, Bella ciao è anche una canzone politica, ma è soprattutto una canzone d'amore. Amore per la libertà e per il nostro Paese, un amore tanto forte da dedicargli la vita fino all'estremo sacrificio. 

L'unico elemento su cui può essere divisiva Bella ciao è tra chi scelse la libertà e chi avrebbe preferito il nazifascismo. Una scelta su cui immagino e spero che siamo tutte e tutti d'accordo». 

Dal mondo dello spettacolo arriva la stroncatura del conduttore e autore televisivo Pif: «Pensare di non cantare Bella ciao , per non voler prendere posizione, è una gran minchiata. Quando ti rifiuti di cantarla hai già preso posizione». Più comprensivo il cantante Simone Cristicchi: «Posso capire la scelta della Pausini, ci sono cantanti che non vogliono dichiararsi politicamente e Bella ciao è una canzone che è stata spesso demonizzata e messa al centro di numerose polemiche. Questo però non significa che la Pausini sia per forza di destra».

La cantautrice Silvia Salemi concorda: «Un'artista come Laura Pausini non può identificarsi in alcun colore politico e forse fa anche bene a non volersi identificare con una canzone che ha una storia ed è un monumento della musica che tutti rispettiamo».

Sui social, invece, i toni sono più accesi. «Laura Pausini mi ricorda quelli che dicono che non sono né di destra, né di sinistra e, in genere, sono di destra» scrive un'internauta. Qualcuno cita un precedente intervento dell'artista: «Laura Pausini si rifiuta di cantare Bella ciao perché è "troppo politica".

Quando invece scriveva "Parlateci di Bibbiano" non voleva attaccare il Pd, giusto?». Ma un altro caso potrebbe aprirsi sul nome di Chiara Ferragni che tra le storie di Instagram ha condiviso il post di «apriteilcervello», profilo che si definisce «antifascista, antirazzista e support Lgbt+». L'influencer si limita a scrivere «da leggere tutto», ma il contenuto non piacerà a tutti visto che è molto critico nei confronti del centrodestra: «Le elezioni, che per molti porteranno alla formazione di un nuovo "governo corrotto" per milioni di noi sono l'inizio di tutt' altro». 

Dura la replica del senatore di FdI Ignazio La Russa: «Nel "vecchio governo corrotto" di sicuro Fratelli d'Italia non c'era mentre da 10 anni nei governi ci sono sempre stati, senza aver mai vinto, tutti gli amici politici della Ferragni».

Da adnkronos.com il 16 settembre 2022.

"La canterei? No, è una canzone troppo politica". Così Eros Ramazzotti risponde ai giornalisti che, alla fine del concerto in Plaza de Toros, a Siviglia, lo stuzzicano su 'Bella ciao'. Eros scherza, commentando l’invito declinato, durante una trasmissione tv spagnola, dalla ‘collega’ Pausini a cantare la canzone simbolo della Resistenza. E da qui, in Spagna, dove 'Bella ciao' è diventata una hit per 'La Casa di Carta', aggiunge tornando serio: "No dai, non è che ‘Bella ciao’ sia troppo politica. Secondo me Laura ha fatto bene - sottolinea - in questo periodo non dobbiamo cantare canzoni né di destra né di sinistra né di centro. Non facciamo politica, facciamo musica". 

Michela Morsa per open.online.it il 16 settembre 2022. 

Laura Pausini torna sul suo discusso rifiuto di cantare Bella Ciao, bollata come «canzone politica» durante la sua partecipazione a un programma televisivo spagnolo. Con un post su Twitter, in italiano e in spagnolo, la cantante tenta di spegnere le polemiche esponendo il suo punto di vista.

«In una situazione televisiva estemporanea, leggera e di puro intrattenimento, ho scelto di non cantare un brano inno di libertà ma più volte strumentalizzato nel corso degli anni in contesti politici diversi tra loro. Come donna, prima che come artista, sono sempre stata per la libertà e i valori ad essa legati. 

Aborro il fascismo e ogni forma di dittatura. La mia musica e la mia carriera hanno dimostrato i valori in cui credo da sempre», scrive Pausini. «Volevo evitare – aggiunge – di essere trascinata e strumentalizzata in un momento di campagna elettorale così acceso e sgradevole. Purtroppo non è stato così. Rispetto il mio pubblico e continuerò a farlo, con la libertà di scegliere come esprimermi».

Mirella Serri per lastampa.it il 16 settembre 2022. 

«Non canto canzoni politiche, né di destra né di sinistra». È stata categorica Laura Pausini quando si è rifiutata di intonare "Bella Ciao" dopo un'intervista alla tv spagnola. 

La richiesta di cantare quello che si può considerare l'inno della Resistenza sarebbe stata, secondo la cantautrice di Faenza, una richiesta di parte. E così ha scatenato un vespaio, infinite le polemiche (Pif è stato categorico: che «gran minchiata!»).

Poi però, proprio dopo aver sollevato un polverone, Laura ci ha ripensato e ha twittato di non aver voluto eseguire un «brano inno di libertà ma più volte strumentalizzato in contesti politici diversi Aborro il fascismo e ogni tipo di dittatura». 

Parole sante, ma forse arrivate con troppo ritardo. E non cancellano il dubbio che per la cantante "Bella Ciao" sia un inno di parte piuttosto che partigiano. 

 A condividere il fatto che Laura si era sottratta a una "strumentalizzazione", infatti, è stata ieri su questo giornale Flavia Perina. La libertà per la Perina è quella di non cantare.

Secondo lei, a sostenere la legittimità della pretesa di esibirsi nel canto resistenziale sarebbero gli amanti degli «ordini da caserma», di un mondo che apprezza le «canzoni obbligatorie, gli alzabandiera obbligatori, il credere-e-obbedire». No, cara Flavia, non è così. "Bella Ciao" è "di sinistra"? Di sicuro questa non può essere considerata la sua connotazione principale: la lotta partigiana non è stata un'esclusiva della sinistra e si tratta di un canto che inneggia alla lotta per la libertà.

"Bella Ciao" è divisiva? Sì, lo è. Fin dall'inizio quel motivo ha diviso il popolo della resistenza al nazifascismo dalle camicie nere e brune. Ha diviso gli italiani che si sono battuti o hanno approvato la nascita della Repubblica e della Costituzione antifascista dai nostalgici del Ventennio e dai criptofascisti odierni. Ma non si tratta di due "parti" con uguale dignità, impegnate in una contesa al fioretto. 

Dopo la sconfitta del fascismo, le idee dei suoi adepti non hanno più diritto di cittadinanza, non si possono mettere sullo stesso piano i combattenti per la libertà e coloro che andavano «a cercar la bella morte» a Salò, i repubblichini e i partigiani. "Bella Ciao", molto amata in Spagna perché rilanciata dalla serie di successo "La casa di carta", rappresenta la nuova Italia nata dalla guerra partigiana la quale, tra l'altro, ci ha liberato dall'invasione straniera.

«Da qualche tempo va diffondendosi una tesi revisionistica...secondo cui è ora di finirla con la contrapposizione troppo netta fra fascismo e antifascismo questo vuol dire metterli sullo stesso piano»: una considerazione molto attuale scritta anni fa dal grande filosofo e politologo Norberto Bobbio. Un'analisi che ha qualcosa da dirci anche rispetto all'attuale polemica su "Bella Ciao". 

Come mai in tutto il mondo questa canzone è diventata simbolo di opposizione alle dittature, alla violenza, alle sopraffazioni, mentre proprio in Italia, dov' è nato, c'è ancora chi può ritenerlo un canto fazioso? 

Forse più che a quelle strofe dobbiamo guardare a cos' è l'Italia di oggi: un Paese, questo sì, ancora diviso, un paese dove quasi otto decenni dopo il varo della Costituzione democratica, il suo ripudio della dittatura in qualsiasi forma non è stato ancora introiettato da tutti.

Perfino tutt' oggi c'è chi mette in "contrapposizione" quanti si riconoscono nella Resistenza e nella Costituzione e quanti non ne accettano i valori fondamentali. Ma parlare di destra e di sinistra, in questo senso, è una colossale mistificazione. 

La libertà politica è uno dei massimi principi della Carta. Invece prendere le distanze dalla Resistenza, dalla festa del 25 aprile, dal rifiuto del fascismo quale sia la forma in cui si presenta, dai principi della convivenza civile, tutto ciò non è legittima destra, cara Pausini e cara Perina, è porsi fuori dal contesto democratico e non ha alcuna dignità "paritaria". Non si può rimanere neutrali fra la democrazia e la dittatura.

La prima rappresenta una frattura con il passato fascista e l'inizio di un nuovo corso, irreversibile (si spera). La seconda, con la privazione delle libertà politiche, con le leggi razziali, con il mito della guerra sola igiene del mondo, è una pagina nera e chiusa, senza alcun diritto di tribuna nell'Italia di oggi. Ma da qualcuno, e di questi tempi anche da qualcuno di troppo, questo concetto elementare ancora non è stato digerito.

Esiste ancora la libertà di dire di NO senza essere messi alla gogna? Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 15 Settembre 2022 

Laura Pausini in questi giorni è al centro delle polemiche per il suo no deciso a intonare, durante un’ospitata a El Hormiguero, un popolare quiz della tv spagnola, Bella Ciao. Per questo No libero all’inno partigiano, la cantante italiana più famosa nel mondo, è entrata all’interno di una violenta spirale di critiche ed insulti. “E’ una canzone molto politica e io non voglio cantare canzoni politiche”, ha obiettato la cantante che per questo è stata sommersa dalle polemiche sui social.

Una tempesta mediatica che ha costretto la stessa Pausini a intervenire sulla vicenda con un Tweet : “Non canto canzoni politiche né di destra né di sinistra. Quello che penso della vita lo canto da 30 anni. Che il fascismo sia una vergogna assoluta mi pare una cosa ovvia. Non voglio che qualcuno mi usi per fare propaganda politica. Non inventate ciò che sono”. Invece di calmare le acque ha innescato uno tsunami.

Io personalmente mi chiedo se sia ancora lecito poter fare scelte senza dovere necessariamente salire sul banco degli imputati a doversi giustificare . Uno dei pochi colleghi che ha sostenuto la Pausini è stato Simone Cristicchi che ha scritto : “Ma se la Pausini l’avesse cantata probabilmente si sarebbero scatenate altre polemiche, come è successo a me con ‘Magazzino 18’, quando fui attaccato dall’estrema sinistra perché ho raccontato i crimini commessi sul confine orientale nel dopoguerra dai partigiani di Tito. A me hanno dato del fascista per anni non solo sui social, ma anche nei teatri”.

Se c’è una cosa in cui l’Italia riesce benissimo è la strumentalizzazione politica che deriva da ogni scelta personale. Ogni azione diventa oggetto di critica se non si incasella nella posizione giusta del pensiero unico dominante. Se pensavamo che il caos ridondante di un cartone con dei maialini avesse lasciato spazio a programmi e temi importanti da campagna elettorale, il caso Pausini ci smentisce . Una boulevard di attacchi e rimandi al fascismo e comunismo, in una storia in cui la stessa Laura non ci sarebbe voluta entrare.

Mi fa sorridere che gli stessi che stanno bollando la Pausini come fascista ,siano gli gli stessi che fino a ieri la esaltavano come artista arcobaleno, femminista, paladina delle donne, dei diritti. La sinistra ti loda se non esci dal recinto che viene tracciato. Come sconfini ti linciano.

Tra tutti gli ambasciatori di odio democratico verso Laura quello che mi ha suscitato più sdegno è stato il cantautore Pierpaolo Capovilla, quello che in un’intervista rilasciata a Rolling Stone si è definito: “Sai, io sono un compagno, un comunista, un vetero-marxista”. Partiamo da qui che dovrebbe essere la fine. Il compagno Capovilla scrive sui suoi social: “La vergogna della canzone italiana nel mondo, che possa sparire per sempre. Non c’è più dignità, né orgoglio, nella nostra storia. Che schifo che fai, canzone italiana. Sprofonda nel tuo bel mare. Libera il mondo.”

Come se non bastasse ha rincarato la dose nei commenti sulla sua pagina Facebook:”Che vada a farsi fottere la canzone Italiana. Oggigiorno non serve a nessuno, se non a chi la canta. Che si vergogni, Laura Pausini, e tutte e tutti quelli come lei. Gente senza storia, senza dignità, senza niente di niente se non il conto in banca. Voglia di bestemmiare”. Parole di una violenza inaudita. Capovilla si è poi scusato e ha scritto :” sto esagerando, troppa rabbia addosso, troppo risentimento, basta così”.

"Se avesse cantato Bella Ciao l'avrebbero strumentalizzata": Cristicchi sta con la Pausini. Ignazio Riccio il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il cantautore romano si schiera a favore della collega e ricorda quando fu attaccato dalla sinistra perché racconto i crimini dei partigiani di Tito

Non si placano le polemiche per la scelta della cantante Laura Pausini di non esguire il brano Bella ciao in uno show andato in onda su una tv spagnola. “È una canzone politica – si è giustificata la famosa interprete italiana – e io non mi schiero a favore di nessuno”. Una decisione che ha attirato l’attenzione di diversi artisti, molti dei quali hanno pubblicamente criticato il suo gesto. Non tutti, però, la pensano allo stesso modo; c’è chi l’ha difesa in maniera netta. “Posso capire la scelta della Pausini – ha dichiarato all’agenzia Adnkronos il cantautore romano Simone Cristicchi – ci sono cantanti che non vogliono dichiararsi politicamente e Bella ciao è una canzone che è stata spesso demonizzata e messa al centro di numerose polemiche. Questo però non significa che la Pausini sia per forza di destra”.

Sui social media si è alimentata la solita caccia alle streghe, ma Cristicchi non ci sta, seppure ha evidenziato qual è il suo pensiero completo.“Bella ciao – ha continuato – è una canzone che appartiene a tutti, quindi non ha un colore politico. Se la gente studiasse la storia saprebbe che quella canzone rappresenta non soltanto la fazione dei partigiani di sinistra ma anche una serie di altre formazioni partigiane che non erano necessariamente di sinistra”. E, poi, ha aggiunto:“Ma se la Pausini l'avesse cantata probabilmente si sarebbero scatenate altre polemiche, come è successo a me con 'Magazzino 18', quando fui attaccato dall'estrema sinistra perché ho raccontato i crimini commessi sul confine orientale nel dopoguerra dai partigiani di Tito. A me hanno dato del fascista per anni non solo sui social, ma anche nei teatri”.

Cristicchi ha ricordato di aver cantato tante volte Bella ciao, “il primo maggio insieme al coro dei Minatori di Santafiora e in tante altre occasioni dove si ricordava il sacrificio dei partigiani italiani nella lotta di liberazione dal nazifascismo. Io non avrei avuto problemi a cantarla”.

Ramazzotti, Pausini: gli artisti iniziano a ribellarsi. Guido Igliori su culturaidentita.it il 17 Settembre 2022

“Cenni di rivolta anticonformista”. Così, secco ed efficace come un titolo perfettissimo. Il post con cui Maria Giovanna Maglie ha ripreso il tweet di Edoardo Sylos Labini direttore e fondatore di CulturaIdentità è più che un buon auspicio, rappresenta il fatto che non tutto è perso. Ricorderete il canaio social sollevato dal rifiuto di Laura Pausini di cantare “Bella ciao” (ne abbiamo parlato QUI). Che tutti gli artisti siano di sinistra è un luogo comune, anzi un luogocomunista: lo dimostra il sostegno di Eros Ramazzotti alla Pausini in un’intervista a Repubblica, riportato da Sylos Labini in un tweet sul suo profilo. Per citare le celebri parole di Neil Armostrong, “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”: sono i segnali tangibili del fatto che gli artisti che pensano con la propria testa non mancano, in Italia. Artisti liberi, senza il paraocchi e che non hanno paura di sottrarsi al conformismo dilagante che vuol mettere la mordacchia a chi osa esprimersi senza condizionamenti e controcorrente.

Da ilsussidiario.net il 17 settembre 2022.

Quindi Francesco Guccini ha svelato un invito ricevuto tramite telefono proprio da Giorgia Meloni, quando la stessa politica era una giovane in ascesa: “Anni fa – ha spiegato Guccini – mi era arrivata una telefonata, ‘pronto sono Giorgia Meloni’. E ancora: “Io non sapevo neanche chi fosse, era la responsabile dei giovani di Alleanza nazionale e voleva che partecipassi ad un incontro privato, io cortesemente rifiutati”. 

I rapporti si sono definitivamente incrinati qualche anno fa: “Quando qualche anno fa ho fatto la goliardata di cambiare Bella Ciao cambiando le parole e introducendo Salvini, Berlusconi e Meloni, mi ha infamato. Io non pensavo a piazzale Loreto… non ci siamo più chiariti dopo questa cosa, non mi ha più invitato”. In conclusione Francesco Guccini ha spiegato: “Chi voto lo so già? Sì, a sinistra”.

Massimo Balsamo per ilgiornale.it il 23 settembre 2022.  

“Che delusione”, “Vergognati”, “Uno schifo”. Questi solo alcuni dei messaggi comparsi sui profili social di Pino Insegno. La sua colpa? Aver introdotto il comizio di Giorgia Meloni. Una decisione inaccettabile per tanti presunti democratici, pronti a celebrare le icone della sinistra ma anche a biasimare (e insultare pesantamente) chi osa difendere o sostenere le cause degli altri. Ma gli attacchi ricevuti nelle ultime ore non hanno minimamente scalfito l’attore: “Mi criticano perché ho introdotto il comizio della Meloni? Sti ca…”.

“Dobbiamo essere tutti uguali?”

Intervenuto ai microfoni dell’Adnkronos, Pino Insegno ha spiegato di non essere un influencer ma un attore, doppiatore e formatore molto bravo “che vive nel rispetto degli altri perciò non ho problemi a dichiarare le mie preferenze politiche”. “Dobbiamo essere tutti uguali?", il quesito posto dall’artista dopo la folata di critiche, insulti e improperi. 

L’interprete capitolino ha ricordato di essere Commendatore della Repubblica per meriti sociali. Una proposta arrivata da Napolitano e non da Almirante: “Questo vuol dire che nella mia vita ho fatto, faccio e farò sempre cose per aiutare gli altri. Non è che se io saluto la mia amica Giorgia faccio del male a qualcuno eppure sono stato attaccato dappertutto”. 

Pino Insegno e l’esclusione dalla tv

E non sono mancati i momenti difficili per Pino Insegno, emarginato dal mondo televisivo senza un motivo: “Perché sono stato in un angolo senza motivo visto che ho fatto più di 1.600 puntate in tv di grande successo?". Qualcosa deve essere successo, considerando le qualità indiscutibili: “La meritocrazia esiste nel doppiaggio e nel teatro ma non nella televisione”. 

Tornando sulla Meloni, Pino Insegno ha rivelato che la leader di Fratelli d’Italia è emozionata quanto basta per il possibile approdo a Palazzo Chigi. Il doppiatore ha speso parole al miele: “È una donna perbene e non è un'estremista. Non è una persona che vuole proibire agli omosessuali di vivere e o ai neri di non esistere”.  

Il comizio a Piazza del Popolo. Pino Insegno presenta Giorgia Meloni, riapre la cloaca social: “Mi criticano? E sti****i”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

Pino Insegno non doveva, non poteva esporsi, che cosa ci faceva sul palco di Piazza del Popolo a Roma durante il comizio dei leader del centrodestra a soli tre giorni dal voto? Perché? Perché mai si sono chiesti per neanche troppo tempo gli internauti, i navigatori di social, e subito dopo sono partiti gli insulti e le offese. Pino Insegno che presenta Giorgia Meloni proprio no, non doveva farlo. E lui: lui fa spallucce, francamente se ne infischia, è un attore e non un influencer.

È l’ennesimo, si spera l’ultimo ma purtroppo c’è ancora tempo, episodio di una campagna elettorale estenuante, balneare sì ma anche di livello basso basso. L’artista, il personaggio noto che si espone bersagliato. Era successo anche a Laura Pausini che si era rifiutata di cantare Bella Ciao – che non è una canzone che appartiene a un partito: è una canzone sulla Liberazione dal nazifascismo, che appartiene a chiunque creda e pratichi la democrazia, ricordiamolo. E se certo a esprimersi ci si espone a critiche, l’insulto è un’altra storia.

L’attore, doppiatore e conduttore ha introdotto Meloni, la leader di Fratelli d’Italia data in vantaggio in tutte le proiezioni di voto. Con la stessa voce che ha prestato ad Aragorn ha citato proprio Il Signore degli Anelli: “Verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo”. Anche il New York Times recentemente aveva parlato della passione della leader di Fdi per l’opera di Tolkien e per il mondo fantasy in generale citato anche nella convention Atreju, ispirata al protagonista della storia infinita. “Non considero Il Signore degli Anelli un libro fantasy”, aveva detto tempo fa la politica.

Quello di Insegno è stato una specie di regalo insomma, che però chi non è d’accordo, chi abita altre parti politiche non ha apprezzato, anzi non ha gradito proprio la presenza dell’attore. Il nome dell’attore è volato in tendenza sui social. “Mi criticano perché ho introdotto il comizio della Meloni? Sti ca … lo fanno anche perché sono della Lazio. Io non sono un influencer sono un attore, doppiatore e formatore molto bravo, che vive nel rispetto degli altri perciò non ho problemi a dichiarare le mie preferenze politiche. Dobbiamo essere tutti uguali?”, ha detto all’AdnKronos l’attore.

“Sono Commendatore della Repubblica per meriti sociali, proposto dal presidente Napolitano e non da Almirante questo vuol dire che nella mia vita ho fatto, faccio e farò sempre cose per aiutare gli altri. Non è che se io saluto la mia amica Giorgia faccio del male a qualcuno eppure sono stato attaccato dappertutto”, ha aggiunto l’attore approfittando dell’occasione anche per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. “Io dalla televisione sono sparito perché? Non sono bravo? Perché Pino Insegno è stato messo in un angolo senza motivo visto che ho fatto più di 1.600 puntate in tv di grande successo?. Quello che posso dire è che se è successo qualcosa non è perché io non sia bravo ma per altri motivi. La meritocrazia esiste nel doppiaggio e nel teatro ma non nella televisione”. E chi vuole capire capisca insomma.

Se Fdi si appresta a diventare il primo partito italiano ci sarà pure qualcuno disposto a votarlo, se Meloni diventerà la prima donna Presidente del Consiglio da qualche parte dovrà pur esserci qualcuno pronto a darle fiducia? Come Pino Insegno, per esempio, che neanche si è lanciato in particolari esternazioni, non ha cantato Faccetta Nera, non ha salutato alla romana. Ha solo presentato un’amica, “una donna perbene e non è un’estremista” e che secondo lui “non è una persona che vuole proibire agli omosessuali di vivere e o ai neri di non esistere”. Certo continua a esserci gente preoccupata, per certe dichiarazioni e certe personalità nella galassia Fdi, ma l’impulso che spinge a scagliarsi in offese gratuite sui social resta ancora oggetto di ricerche classificate. Ma alla fine pure “sti****i”, come dice Pino Insegno. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da repubblica.it il 23 settembre 2022.  

''A chiunque usa la mia musica io dico grazie, perché la musica è di tutti, come l'arte'''. Così Pupo, ovvero Enzo Ghinazzi, commenta la scelta di usare il suo brano Su di noi per la chiusura del comizio elettorale di Giorgia Meloni a piazza del Popolo a Roma. 

Per Pupo la musica appartiene a tutti e non ha colori, sia ''che siano di destra o di sinistra - dice nel video che il cantante intitola proprio Che siano - che siano atei o credenti, che siano rossi o che siano neri, che siano Guelfi o che siano Ghibellini, che siano conservatori o progressisti che siano juventini o fiorentini, che siano russi o ucraini'', conclude Pupo.

Sessantasette anni, una lunga carriera iniziata a metà anni Settanta, quando aveva vent'anni, il cantante ha portato al successo alcuni dei brani più longevi del pop italiano, da Gelato al cioccolato a Su di noi, e autore di canzoni celebri come Sarà perché ti amo che i Ricchi e Poveri portarono a Sanremo nel 1981 

Dagospia il 22 settembre 2022. Da "La Zanzara" 

“Sono conservatrice, mi piace la Meloni e la famiglia tradizionale. E guadagno con foto nude su Only Fans. Io adesso vivo di questo, è un lavoro, una moda che può far guadagnare anche molto bene. Quando passerà farò altro”. Ecco Paola Saulino, fotomodella e showgirl napoletana, a La Zanzara su Radio 24. “Non faccio nessuna chat – dice – ma solo foto, sia delle mie tette che della figa. Guadagno circa un milione all’anno, come un giocatore di serie A”.

Cosa pubblichi esattamente?: “Nella mia vita ho studiato e ho imparato molto da Immanuel Kant, lo dico a quelli che criticano questo lavoro. Era uno molto rigettato dai professoroni della scuola tedesco. Il problema del genio, spesso, è quello di essere compreso. E non mi aspetto di essere compresa, nemmeno da Parenzo. Ma torniamo alla domanda: che mi avevi chiesto”, dice a Cruciani. 

Cosa c’è nel tuo profilo Only Fans?: “Ho un abbonamento vip dove faccio vedere anche le parti intime, in napoletano di può dire la fessa, la pucchiaccha, ma anche la sciuscia, che è molto carino. C’è il nudo che va dal seno al nudo integrale. Faccio pochissimi video, nessuna trombata, è una forma di arte. Voglio lavorare molto poco”. Ma come fai a dire che sei tradizionalista?: “Sono tendenzialmente di centrodestra, mi piace la famiglia e la patria. Vorrei innamorarmi e formare un nucleo familiare. 

Però quelli che parlano di patria e famiglia predicano bene e razzolano male, tutti divorziati e puttanieri. Tutti sono contro la droga e poi si drogano come degli ossessi. Io posso dire di essere contro la droga, non mi drogo e non mi scoperei mai un drogato!!! Se uno si fa di cocaina io non lo scopo, la droga non mi piace”. “Se trovo uno di cui mi innamoro – dice ancora – potrei essere monogama. Non mi piace lo scambismo, la promiscuità. Ma a 32 anni non ho mai avuto una relazione vera, mai”.

“Sono più affascinata dal potere che dal sesso – dice la Saulino – però i soldi non possono comprare gli affetti e l’amore, ma migliorano la tua posizione contrattuale. A me la povertà non piace, perché vengo dalla fogna e nella fogna non ci voglio tornare. Guadagnare per una donna è il vero femminismo”. E l’aborto?: “Io non sono contro l’aborto, ma non abortirei mai. 

Ecco il mio tradizionalismo”. Lei è napoletana, molti campani e napoletani prendono il reddito di cittadinanza, lei è d’accordo?: “A me non piace, è uno scambio di voti che è una cosa illegale. Qui nessuno produce, chi lo prende dovrebbe andare a lavorare e spesso fanno anche lavori in nero”. Ecco il video superhot di Paola Saulino negli studi della Zanzara

"A molti artisti fa gioco essere di sinistra". Giorgio Pasotti difende la Meloni. L'attore prende le difese della leader di Fratelli d'Italia: "Contro di lei c'è un accanimento barbaro e poco elegante. Poi ci lamentiamo perché le donne non vengono rispettate..." Luca Sablone il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Sembrava un evento impossibile, ma ecco che Giorgio Pasotti smentisce l'imprevedibilità e si schiera a difesa di Giorgia Meloni. Dopo i continui attacchi rivolti dal mondo dello spettacolo nei confronti della presidente di Fratelli d'Italia, l'attore ha preso posizione e ha confermato quanto sostenuto dall'aspirante presidente del Consiglio: tra gli artisti c'è la tendenza a dichiararsi di sinistra, magari anche per tentare di avere la strada spianata nel proprio lavoro.

Il passatempo dei vip di sinistra? Offendere il centrodestra

Gli artisti virano a sinistra

Nei giorni scorsi la Meloni ha fatto notare che tra i volti noti della televisione non spiccano figure che si professano di centrodestra, mentre c'è un esercito di personaggi influenti che non perde occasione per inveire contro il centrodestra e usare un linguaggio anche duro. La numero uno di FdI sospetta che più di qualcuno non si esponga a suo favore per timore di ricevere uno sgarbo nella sua carriera professionale.

Pasotti all'Adnkronos ha confermato che la tesi della Meloni contiene un fondo di verità: "La maggior parte dei miei colleghi si dichiara di sinistra ma onestamente non so se questo sia vero o no". Allora per quale motivo in molti si affrettano a far sapere di aver sposato la causa rossa? "Forse dire di essere di sinistra gli fa gioco. Spero non sia così perché sarebbe un po' squallido", ha dichiarato l'attore. L'auspicio è che ovviamente nessuno si pieghi a un meccanismo del genere: in effetti "se circoscriviamo l'arte in un recinto perde la sua funzione, cioè quella di creare libertà di pensiero".

"Accanimento barbaro contro Meloni"

La campagna elettorale sta per arrivare al capolinea: domenica 25 settembre gli italiani saranno chiamati a esprimere il proprio voto e tra pochi giorni verrà posta la parola fine sui continui dissidi e sulle costanti risse a distanza. Queste settimane sono state contrassegnate da uno scarsissimo livello di civiltà sul piano personale e dalla demonizzazione dell'avversario. Scaraventarsi contro i leader di centrodestra ormai è un esercizio diffuso tra i vip.

Pasotti ha osservato che nei confronti di Giorgia Meloni è in atto "un accanimento non solo poco galante ma addirittura barbaro". L'attore ha inoltre denunciato un doppiopesismo e una certa incoerenza che puntualmente si manifesta (a sinistra) quando si trattano le tematiche relative alla questione femminile: "Spesso ci lamentiamo perché le donne non vengono rispettate se non addirittura peggio. Questo deve valere anche per la Meloni che è innanzitutto un essere umano, a prescindere dalle proprie idee politiche".

Quella di Pasotti è una bella lezione di buonsenso al folto schieramento contro la Meloni. Palesare il proprio dissenso è ovviamente lecito e fa parte della democrazia; sfoderare insulti e falsi miti è invece la dimostrazione di pregiudizi e terrore politico.

Da fanpage.it il 17 settembre 2022.

Paolo Virzì ospite di Diego Bianchi a Propaganda Live nella puntata di venerdì 16 settembre. Il noto regista, reduce dal Festival del cinema di Venezia 79, dove ha presentato il film Siccità, ha parlato della situazione politica attuale. L'Italia sempre più vicina al voto del 25 settembre, l'ipotesi Meloni a capo del Governo che si fa sempre più concreta e Virzì che apre al discorso sul fascismo, con un link alla fine del mondo, scenario apocalittico della sua pellicola in uscita al cinema dal 29 settembre.

Assistiamo alla fine del mondo. C’è un problema gravissimo perché le elezioni sono diventate un mercato di scommesse. La leadership politica dà il peggio di sé, è un gioco isterico, non è in connessione con il bene di tutti noi. Il problema non è la Meloni in sé, lei fa il suo lavoro ed è stata una fascetta della Garbatella ma non lo è più. È una donna divorziata, che ora sta con un uomo di sinistra, però è una professionista della politica di questi anni e quindi intercetta umori e ha la giusta spregiudicatezza. 

Anche Salvini, penso che di notte sogni delle orge erotiche con le nere, non gli importi nulla in fondo. È che usano questa voglia di nazifascismo, è la democrazia che sta scricchiolando, anche se sento che la Meloni non ha le idee giuste né il tono per governare questo Paese. È pericolosa per tanti motivi, dice cose autolesioniste in una disconnessione con la realtà, a tal punto da farmi pensare che forse ce la meritiamo sta fine del mondo.

Paolo Virzì si era già espresso con l'ANSA sul clima politico attuale, partendo dalle campagne elettorali: "Sono momenti difficili per il nostro Paese e questo film è pazzo, ambizioso e apocalittico allo stesso tempo. Volevamo raccontare quello che stava succedendo tra chi diceva che ci saremmo abituati a tutto e chi diceva che sarebbe stato sempre peggio.

È un film anche di solitudine che ti fa capire, è stato uno degli insegnamenti della pandemia, che in certi casi la redenzione viene dall'essere connessi e che alla fine è stupido ragionare nei termini dei confini nazionali. Questa è la visione che dovrebbero avere i nostri politici. Colpisce di questa campagna elettorale che i politici parlino solo di loro stessi, delle loro alleanze, dei punti percentuale: perché non fanno finalmente due passi indietro invece di parlare di bonus scaldabagno mentre il mondo si estingue e sprofonda?".

Giorgia Meloni, Renato Zero fuori controllo: "Votate la m... che siete". Libero Quotidiano il 26 settembre 2022.

Renato Zero non deve aver preso bene il risultato elettorale di queste Politiche 2022. Come è noto i dati parlano chiaro, il centrodestra ha vinto le elezioni con un grosso margine sul centrosinistra. E a trionfare in queste elezioni è stata di certo Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia aveva il suo comitato elettorale in un famoso hotel di Roma dove ha parlato intorno alle 2.30 di notte per ringraziare gli italiani che le hanno dato fiducia.

Ma a quanto pare l'hotel in cui si è tenuta l'attesa elettorale per i risultati di Fratelli d'Italia è lo stesso in cui è ospite Renato Zero. Proprio nei minuti concitati che hanno preceduto l'arrivo della Meloni per il suo intervento è rientrato in hotel il cantante.

Una volta sceso dalla sua auto, come riporta ilCorriere, ha inveito con i giornalisti presenti: "Non si può manco entrare in hotel, questo è un regime". Poi il durissimo attacco: "Votate la m... che siete". Una serata "no" per Renato Zero che è apparso piuttosto nervoso... 

Anche Guccini nella schiera dei "vip contro Giorgia Meloni". Daniele Dell'Orco il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il cantautore si unisce al coro dei vip per attaccare la leader di FdI e parla a ruota libera: "Mi invitò ad Atreju, ma rifiutai. Credo che dovrebbe riconoscere il 25 aprile"

Non poteva mancare nella schiera dei "vip contro Giorgia Meloni" il cantautore preferito dalla sinistra militante: Francesco Guccini. In una conversazione a tu per tu con Diego Bianchi di Propaganda Live, Guccini si unisce al coro degli "spaventati" dei consensi sempre crescenti riscossi dalla leader di FdI, che man mano che il 25 settembre si avvicina fanno perdere alla sinistra tutte le speranze di ribaltone.

Ma, se non altro, lo fa con la vena sarcastica di chi, in fin dei conti, a 82 anni può prendere l'eventuale vittoria del centrodestra con filosofia. Pensando di essere simpatico, Guccini offre una lettura ironica della continua associazione tra la Meloni e il fascismo: "Lei dice che quando è nata il fascismo non c’era più. Però si definisce cristiana e quando è nata lei, Cristo era già morto. Ora ha voluto tenere la fiamma nel simbolo del suo partito. Ma il problema è che la gente si dimentica spesso delle cose".

Guccini, poi, non si poteva esimere dal riferimento ai capisaldi dell'antifascismo facendo eco all'appello di Pier Luigi Bersani, tra comunisti si intendono, che chiedeva alla Meloni di "riconoscere" il 25 aprile: "Dicesse che è la festa di tutti gli italiani e dicesse che la Costituzione italiana è nata dal 25 aprile. Ma come Bersani, credo che la Meloni non riuscirà mai a dire queste cose".

Poi racconta un aneddoto, dei tempi in cui la Meloni era probabilmente poco più che ventenne: "Negli anni ’90 mi arrivò una telefonata di Giorgia Meloni, io non sapevo neanche chi fosse. All’epoca lei era la segretaria dei giovani di An e voleva che io partecipassi a un loro incontro ad Atreju. Io cortesemente rifiutai". Un gesto non così onorevole, per la verità, visto che il festival che all'epoca veniva organizzato da Azione Giovani altro non era, e non è, che un momento di confronto trasversale e di incontro oltre gli steccati ideologici. Ma a Guccini, a quanto pare, il suo steccato piace troppo, e si comprende bene che non possa né voglia accettare che altre correnti di pensiero possano ricevere apprezzamento.

Infine, dopo quel "gran rifiuto", i due sono tornati a confrontarsi in tempi più recenti, quando Guccini ebbe la grande idea di far scadere il suo incredibile talento da compositore per elaborare un ritornello davvero infantile: "Nel 2020 ho fatto una goliardata: cantare 'Bella Ciao', cambiando leggermente le parole. Lei mi ha infamato per un passaggio del testo: 'C’era Salvini con Berlusconi, (…)con i fasci della Meloni che vorrebbero ritornar. Ma noi faremo la resistenza, (…)noi faremo la resistenza come fecero i partigian. O partigiano portali via, come il 25 april'. Meloni – puntualizza Guccini – pensava che io mi riferissi a piazzale Loreto, ma io non pensavo assolutamente a piazzale Loreto. Io pensavo alle feste eleganti di Berlusconi, a Salvini del Papeete e del mojito, alla Meloni e allo spezzare le reni alla Grecia. E invece lei m'ha infamato. Dopo questo episodio non ci siamo più chiariti".

In realtà, oltre al fatto che i riferimenti di Guccini, sia quelli voluti che non voluti, fossero comunque tutt'altro che brillanti, la Meloni non lo infamò affatto. Scrisse sui suoi social: "Cosa intende esattamente Francesco Guccini quando dice che con Meloni, Salvini, Berlusconi faranno la 'resistenza come hanno fatto i partigiani'? Che dovrebbero farci i processi sommari, appenderci a testa in giù, rasarci i capelli ed esporci alla pubblica gogna? Cosa intende quando dice 'oh partigiano portali via'? Dove dovrebbero portarci questi partigiani? Al confino, in galera, dove? Questa si chiama istigazione all’odio, cari compagni. Ma noi non ci faremo intimorire, mai. Dovete batterci nelle urne, se ne siete capaci".

Ora, quel momento è arrivato. Tra una settimana si scoprirà che la sinistra, di vincere il confronto dal punto di vista elettorale com'è proprio delle democrazie, ne è capace o no.

Otto e Mezzo, fango di Severgnini sulla Meloni: "Il tono, lo sguardo... non sono tranquillo". Libero Quotidiano il 16 settembre 2022

Ecco che a Otto e Mezzo si parla di Giorgia Meloni. Nella puntata di giovedì 15 settembre Lilli Gruber ha definito "l'ipernazionalismo" un'idea che "mal si concilia" con l'Unione europea "aperta e inclusiva". Un'affermazione che trova d'accordo Beppe Severgnini, suo ospite su La7: "Dio patria famiglia? Io sono credente, amo il mio Paese e sono sposato da 36 anni. Allora io potrei dire 'Dio, patria e famiglia mi vanno bene', ma se urlo 'Dio' puntando il dito contro qualcuno che non crede. Se urlo 'famiglia' dicendo che l'unica famiglia è quella che io ho costruito e se dico 'patria', ossia la mia mentre le altre non vanno bene... Dipende come si dicono le cose". 

Il giornalista fa riferimento al discorso della leader di Fratelli d'Italia all'evento di Vox: "Eravamo qui in studio, eravamo tutti basiti. Non sono quelle tre parole che vanno bene. Dipende come le traduci, con che sguardo e come le dici". Da qui la frecciata: "Quelli della Meloni erano toni e sguardi sbagliati, se l'ha cambiato bene, io non sono del tutto tranquillo". 

Tornando sulla politica e approfittando della presenza di Letizia Moratti in collegamento, Severgnini snocciola un retroscena. Subito smentito. "So che le hanno proposto il ministero della Salute" alla vicepresidente della regione Lombardia, afferma mentre la diretta interessata smentisce: "Non è vero". Sull'argomento la firma del Corriere della Sera si definisce "convinto che glielo abbiano offerto, ma la dottoressa Moratti è una donna di mondo e sa che certe promesse vanno prese con le pinze… Certo che se dopo le elezioni la deludessero e il prossimo anno si candidasse alla regionali con il Terzo Polo in Lombardia, la cosa si farebbe improvvisamente interessante. Ci sarebbero la destra, il Terzo Polo con Moratti che diventa forte e il centrosinistra, quindi tutto aperto per la presidenza della Regione".

Monica Guerritore si unisce al coro vip anti-Meloni: "Incapace e irresponsabile". La regista romana si iscrive al fronte dei personaggi famosi impegnati nella campagna elettorale contro FdI, dando il suo endorsement pubblico al Partito democratico, quello che elesse suo marito. Daniele Dell'Orco il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Non sarà la "Hollywood contro Donald Trump" del 2016 ma anche il Italia c'è un impressionante coretto dei vip che si sta coalizzando contro la principale candidata alla vittoria elettorale del 25 settembre: Giorgia Meloni.

Personaggi pubblici come Elodie, Chiara Ferragni, Loredana Bertè, Levante, La Rappresentante di Lista, Giorgia, Vanessa Incontrada hanno mostrato il pollice verso alla leader di FdI nel pieno della campagna elettorale, gettando la maschera e mostrando la loro natura di "artisti militanti". Al coro si è aggiunto un nuovo soprano: Monica Guerritore.

Mentre partecipa al Festival Internazionale di Capri, l'attrice e scrittrice romana, o meglio, di quell'enclave romana rinchiusa nella ZTL che si emoziona ogni volta che vede il simbolo del Partito democratico, ha rilasciato un'intervista a La Stampa bocciando la Meloni come possibile nuovo premier. Anzi, bocciandola in toto. Ma nella sua disamina politica la poco radical e molto chic Guerritore non lesina contraddizioni anche comiche.

Dice: "Il fatto che sia donna o uomo è ininfluente rispetto al dato gravissimo che questa persona abbia contribuito, in un momento storico drammatico, a buttare giù un governo sei mesi prima della sua fine naturale. Un governo che stava lavorando bene in uno scacchiere geopolitico molto complesso. Una grave complicità in un'azione che ha fatto un gran male al nostro Paese. Io credo che per diventare premier si debba innanzitutto essere responsabili".

"Questa persona", come la chiama lei, si è da subito posizionata all'opposizione rispetto al governo Draghi, e FdI è stato l'unico partito a permettere che le componenti di maggioranza e opposizione previste costituzionalmente in ogni Paese che non sia la Corea del Nord venissero salvaguardate. Per quanto si possa appoggiare l'operato di un premier, è davvero esilarante lamentarsi del fatto che la sua opposizione lavori alla critica e che faccia, cioè, il suo lavoro. Piuttosto, la Guerritore dovrebbe prendersela con chi, dall'interno, a Draghi ha tolto il supporto. Come il Movimento 5 Stelle che, a proposito di "responsabili", è guidato da un ex premier: Giuseppe Conte. A quanto pare, quindi, per entrare a Palazzo Chigi la responsabilità non è un requisito nemmeno ora.

Bellissima poi la sottesa bocciatura alle "quote rosa": "Il fatto che sia uomo o donna è ininfluente". Certo, quando bisogna spingere in alto le donne progressiste bisogna prevedere norme femministe, quando una donna emersa senza le quote rosa è di destra il genere non conta più e deve essere abbattuta proprio come fosse un uomo di destra.

Ma chi sarebbero, secondo la Guerritore, i responsabili? "C'è il Pd, ha dato sostegno a un progetto che ci aveva tirato fuori da una situazione drammatica. Non butterei a mare equipaggio e capitano di una nave in piena tempesta". Il Pd, ovviamente. Lo stesso Pd che con cui il suo attuale marito, l'ex presidente Rai Roberto Zaccaria, è stato eletto alla Camera dal 2004 al 2013 (prima con la Magherita e poi col Pd). Alla faccia del conflitto di interessi, ogni scarrafone è bell'a mamma soja.

Immancabile poi l'attacco a Matteo Salvini: "Un signore che ha un contratto firmato con Putin e questo signore è nell'alleanza di destra". Ma la cosa straordinaria è che Guerritore denunciando le presunte ingerenze russe che definisce "un fatto reale" in pratica confessa l'esistenza di pressioni internazionali sull'Italia, seppur di altra provenienza: "In fondo lei [la Meloni, NdR] è stata solo un cattivo ministro della gioventù in un governo terribile. Quando non sarà più all'opposizione le arriveranno mazzate da ogni parte. Con gli speculatori e lo spread impazzito finiremo in serie C".

Siano benedette, allora, le ingerenze di carattere finanziario che intendono rovesciare i governi democraticamente eletti. Se sono di destra. E sulle ricadute sull'Ue della guerra in Ucraina dice: "Metteremo calze di lana e piumoni sul letto. Abbiamo vissuto per troppo tempo con i caloriferi al massimo e le finestre aperte inquinando il mondo. E la storia ci ha detto di calmarci. E sono anche contenta che così ci libereremo da una dipendenza".

Ringraziandola per la seconda persona, è davvero poco probabile che a casa Zaccaria-Guerritore si indosseranno calze di lana. Al contrario di ciò che rischia di accadere dentro le stanze da letto di centinaia di migliaia di famiglie che il freddo lo patiranno sul serio e che sono le stesse che, da un bel pezzo, hanno smesso di votare Pd.

Bertè invita la Meloni a vergognarsi: ma perché? Da Loredana Bertè l'ennesimo attacco strumentale contro il centrodestra e Giorgia Meloni: la sinistra scomposta che non sopporta di perdere. Francesca Galici il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Così, de botto, da Loredana Bertè è arrivata la fiammata contro Giorgia Meloni. No, scusate, non si può dire. Diciamo che, d'improvviso, la cantante è andata su Instagram e ha pubblicato una storia in cui attacca Giorgia Meloni per la fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia. Che uno si chieda se sia accaduto dell'altro dopo le polemiche dei giorni che hanno preceduto ferragosto, se ci sia stato qualche altro politico che ha avanzato testi forzate pur di screditare quello che i sondaggi danno come primo partito del Paese. Niente, zero, silenzio assoluto. Ed è pure comprensibile che sia così, visto che il termine massimo per la presentazione dei simboli era il 14 agosto agosto. E considerando anche il fatto che il Viminale, a seguito dei controlli, non ha ravvisato alcuna irregolarità nel simbolo di Fratelli d'Italia, qualunque polemica su fascismo et simili può considerarsi meramente strumentale.

"Si vergogni, lei non ha nulla di onorevole": Bertè attacca la Meloni

Ma niente, Loredana Bertè probabilmente non vedeva l'ora di entrare a far parte del club degli artisti che, a caso, scelgono uno dei leader del centrodestra (o tutti, dipende dai momenti) e si inventano qualunque cosa pur di contribuire alla scomposta campagna elettorale del Partito democratico. O forse è il Partito democratico che copia gli artisti che, senza argomenti e conoscenza politica, imboccano la via dell'odio verso chi la pensa diversamente? In ogni caso, sono tutti imbarazzanti.

Il passatempo dei vip di sinistra? Offendere il centrodestra

"Quando una senatrice come Liliana Segre chiede che sia cancellata dal suo logo quella fiamma che ricorda chiaramente il fascismo e le sue conseguenze, lei la rimuove e basta, senza arrampicarsi sugli specchi con scuse improbabili. Lei la rimuove, ha capito?", dice con arroganza la cantante nel video. Ancora una volta, i sedicenti democratici cercano di imporre il proprio pensiero. Non dovrebbe più stupire, e invece... E poi, non è nemmeno ben chiaro perché Loredana Bertè inviti Giorgia Meloni a vergognarsi. Non è mica lei che ha inserito nelle sue liste dei candidati che negano l'esistenza di Israele, che verso questo Paese esprimono un rancore atavico e che inneggiano alle rivoluzioni bolsceviche. O no?

Che poi, alla fine, al di là dei discorsi politici, basterebbe dare uno sguardo al profilo di Loredana Bertè per capire il perché di questo attacco, anche se ormai fuori tempo massimo. Gli ultimi 5 reel pubblicati da Loredana Bertè non hanno superato le 50mila visualizzazioni. Quello su Giorgia Meloni è quasi a 800mila. A voi le conclusioni.

Levante: “Nauseata da Giorgia Meloni”. Alice Coppa il 29/08/2022 su Notizie.it.

Levante ha scritto un lungo post via social con cui si è scagliata contro Giorgia Meloni. 

Con un lungo sfogo via social, Levante si è scagliata contro la leader di Fratelli D’Italia, Giorgia Meloni.

Levante contro Giorgia Meloni

Come altri personaggi pubblici nei giorni scorsi, anche Levante ha preso le distanze dall’operato e dalle dichiarazioni fatte da Giorgia Meloni. 

“Presentandomi a voi dicendo a gran voce “sono una donna, sono una madre, sono cristiana”- senza un lontanissimo cenno di umiltà (soprattutto sul tema della fede) – chi potrebbe sentirsi escluso dal mio urlo orgoglioso che suona come una verità assoluta? Unica visione possibile”, ha scritto la cantante nel suo post, e ancora:

“Mi vengono in mente le donne che non sono madri, le donne che non sono cristiane (ma certo, anche tutti gli uomini).

Se poi facessi un distinguo tra gli immigrati di serie A (“i Venezuelani cristiani di origine italiana”) e quelli di serie B (i poveri Cristi di tutte le religioni? Chissà!) starei forse continuando un discorso di esclusione? (…) Se poi elogiassi Mussolini dicendo che “è stato un grande politico” (e utilizzassi un simbolo fascista per l’immagine del mio partito) starei calpestando la dignità, la sofferenza e la storia di quante persone? Se parlassi di “devianze” per riferirmi a disturbi alimentari che affliggono migliaia di giovani e non, quanta gente ferirei? Se mi schierassi contro l’aborto senza difendere il diritto delle donne a disporre del proprio corpo? Non proseguirò questo elenco, ho un po’ di nausea.

Fortunatamente nulla di cui sopra somiglia al mio modo di vivere e di rapportarmi agli altri. Ma visto che sono una donna, sono una madre e provo ad essere un’umana degna di essere tale, vorrei riportare un pensiero puntuale di Elly Schlein: “C’è molta differenza tra leadership femminili e leadership femministe”.

Nei giorni scorsi oltre a Levante anche Chiara Ferragni ha scritto un post via social appoggiando una campagna contro Fratelli D’Italia.

Bertè invita la Meloni a vergognarsi: ma perché? Da Loredana Bertè l'ennesimo attacco strumentale contro il centrodestra e Giorgia Meloni: la sinistra scomposta che non sopporta di perdere. Francesca Galici il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Così, de botto, da Loredana Bertè è arrivata la fiammata contro Giorgia Meloni. No, scusate, non si può dire. Diciamo che, d'improvviso, la cantante è andata su Instagram e ha pubblicato una storia in cui attacca Giorgia Meloni per la fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia. Che uno si chieda se sia accaduto dell'altro dopo le polemiche dei giorni che hanno preceduto ferragosto, se ci sia stato qualche altro politico che ha avanzato testi forzate pur di screditare quello che i sondaggi danno come primo partito del Paese. Niente, zero, silenzio assoluto. Ed è pure comprensibile che sia così, visto che il termine massimo per la presentazione dei simboli era il 14 agosto agosto. E considerando anche il fatto che il Viminale, a seguito dei controlli, non ha ravvisato alcuna irregolarità nel simbolo di Fratelli d'Italia, qualunque polemica su fascismo et simili può considerarsi meramente strumentale.

"Si vergogni, lei non ha nulla di onorevole": Bertè attacca la Meloni

Ma niente, Loredana Bertè probabilmente non vedeva l'ora di entrare a far parte del club degli artisti che, a caso, scelgono uno dei leader del centrodestra (o tutti, dipende dai momenti) e si inventano qualunque cosa pur di contribuire alla scomposta campagna elettorale del Partito democratico. O forse è il Partito democratico che copia gli artisti che, senza argomenti e conoscenza politica, imboccano la via dell'odio verso chi la pensa diversamente? In ogni caso, sono tutti imbarazzanti.

Il passatempo dei vip di sinistra? Offendere il centrodestra

"Quando una senatrice come Liliana Segre chiede che sia cancellata dal suo logo quella fiamma che ricorda chiaramente il fascismo e le sue conseguenze, lei la rimuove e basta, senza arrampicarsi sugli specchi con scuse improbabili. Lei la rimuove, ha capito?", dice con arroganza la cantante nel video. Ancora una volta, i sedicenti democratici cercano di imporre il proprio pensiero. Non dovrebbe più stupire, e invece... E poi, non è nemmeno ben chiaro perché Loredana Bertè inviti Giorgia Meloni a vergognarsi. Non è mica lei che ha inserito nelle sue liste dei candidati che negano l'esistenza di Israele, che verso questo Paese esprimono un rancore atavico e che inneggiano alle rivoluzioni bolsceviche. O no?

Che poi, alla fine, al di là dei discorsi politici, basterebbe dare uno sguardo al profilo di Loredana Bertè per capire il perché di questo attacco, anche se ormai fuori tempo massimo. Gli ultimi 5 reel pubblicati da Loredana Bertè non hanno superato le 50mila visualizzazioni. Quello su Giorgia Meloni è quasi a 800mila. A voi le conclusioni.

“Giorgia ci fai paura”. Le donne della musica in campo contro Meloni. Maria Novella De Luca il 30 Agosto 2022 su La Repubblica.

Dopo Elodie e Levante anche la ventenne Ariete ha invitato i giovani a non votare la destra

No, Giorgia, con te mai. Anzi, dice Elodie, "il tuo programma mi fa paura". E Giorgia (artista) pochi giorni dopo, versus Meloni: "Anche io sono Giorgia ma non rompo i coglioni a nessuno". Chiaro riferimento allo slogan della leader di Fratelli d'Italia: "Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana".

La (solita) campagna elettorale dei vip rossi contro Giorgia Meloni. Non hanno argomenti validi ma solo slogan, eppure se la credono tantissimo: sono gli artisti e gli influencer rossi che provano a parlare di politica. Francesca Galici il 29 Agosto 2022 su Il Giornale.

Quando la politica diventa strumento di consenso social, non per i politici ma per chi nella vita si occupa di intrattenimento, vuol dire che si è rotto qualcosa. Ormai la questione è diventata anche monotona, anche perché le cose sono due: o i cantanti che in questi giorni affilano i coltelli contro i leader politici e del centrodestra, guarda caso, lo fanno in particolare contro Giorgia Meloni, lo fanno perché sanno che così guadagnano qualche like, oppure sono manovrati da qualcuno. Togliendo pochi, che in realtà usano da sempre l'attacco politico per slogan, buttando nella mischia qualche accusa di fascismo a caso per raggranellare qualche "mi piace", tutti gli altri si sono svegliati giusto giusto a ridosso delle elezioni.

È come se, ma magari non è così, gli artisti e gli ingluencer siano stati arruolati per sponsorizzare la battaglia dei kompagni. C'è chi sponsorizza borse, chi sponsorizza scarpe e abiti e chi sponsorizza il Pd. Forse pensando sia più onorevole e più "alto" come tema, ma a volte gli utenti preferiscono vedere una onesta pubblicità di qualche barretta energetica piuttosto che un'occulta sponsorizzazione politica. Anche perché i temi che vengono portati per attaccare il centrodestra sono piuttosto scarsi, a tratti perfino ridicoli. Ma non c'è da dare la responsabilità agli artisti per questo, perché utilizzano gli stessi argomenti degli stessi politici del Pd in campagna elettorale. Se a sinistra, chi la politica la fa di professione, non riesce a creare un dibattito sul merito e si limita a insultare gli opponenti, come si può pretendere che siano gli artisti e gli influencer a farlo? Non si può.

Tuttavia, quel che fa tenerezza dei cantanti simil-impegnati e delle varie influencer di City Life, è che loro credono davvero in quel che dicono e non si rendono conto che invece di apparire dotti ed elevati con i loro interventi, suscitano un senso di fremdschämen. È una parola tedesca che indica la sensazione di imbarazzo per qualcosa che hanno fatto terzi. Ed è comprensibile la confusione di questi personaggi nel non capire perché questo accade, visto che fremdschämen non ha una traduzione letterale in italiano. E così, tra un "hi guys" e un altro cadono nella fake news a buon mercato oppure si sforzano nel creare un post social paraculi, meno furbi di chi si limita a pubblicare storie che durano 24 ore, senza però mai menzionare i partiti e i leader di riferimento e utilizzando argomenti che in 10 minuti verrebbero smontati. Tempo che noi che lavoriamo tutti i giorni seriamente per informare (senza fake news) i lettori preferiamo dedicare ad altro.

Ps: abbiamo volontariamente scelto di non fare nomi e cognomi in questo articolo perché, tanto, cambiano i personaggi ma non cambiano i contenuti. Che non esistono. Dei falsi rivoluzionari radical chic che vogliono irretire qualche povero stolto con argomenti di lotta rossa intrisi di una stantia e inensistente superiorità morali dall'alto dei loro attici di City Life a Milano o dalle loro ville con piscina sul mare in qualche località amena ma cool, ci piacerebbe iniziare a fare a meno.

Giorgia Meloni, De Benedetti la attacca, lei lo smonta: "Riversa astio su di me". Libero Quotidiano il 06 settembre 2022

Giorgia Meloni non le manda a dire. Dopo avre ascoltato le parole durissime di Carlo De Benedetti a Otto e Mezzo, il talk show di Lilli Gruber su La7, la leader di Fratelli d'Italia ha risposto per le rime. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro e sottolineare le parole usate da De Benedetti per descrivere la Meloni: "Meloni è una persona camaleontica, oggi sembra una scolaretta che ha rinnegato tutte le cose in cui credeva. Vogliamo credere alla Meloni del comizio dei camerati di Vox o a quella di questo nuovo incipriamento? La sua storia è molto chiara e delineata". Insomma l'Ingegnere non usa giri di parole e va dritto all'attacco della leder di Fratelli d'Italia. La paura per una sconfitta epocale del centrosinistra alle urne con la conseguente vittoria del centrodestra non fa dormire sonno tranquilli a De Bendetti che ora cerca anche lo spazio in tv per ataccare senza se e senza ma il nemico di turno della sinistra, Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia non si lascia certo intimidire e così su Facebook replica in modo duro: "Anche oggi su tele L7, a Otto e Mezzo dalla Gruber, Carlo De Bendetti riversa tutto il suo astio contro di me e Fratelli d'Italia. Benissimo! Vuol dire che stiamo facendo un ottimo lavoro. Avanti così!". Lo scontro di certo sarà destinato a durare a lungo e da qui al 25 settembre non sono esclusi nuovi duelli che accenderanno questa campagna elettorale. 

La fiamma fascista di Meloni e FdI come la Z di Zorro: impossibile rinunciarci. Fulvio Abbate su Il Riformista il  28 Agosto 2022 

Facendo le veci, in questo caso addirittura incredibilmente filiali, del fascio littorio, la fiamma tricolore ha brillato campeggiante nel paesaggio politico murale italiano, sui facsimili delle schede elettorali e perfino sui portachiavi orgogliosamente in possesso dei suoi militanti, per decenni e ancora decenni. Lì a testimonianza “ardente” di un pensiero sopravvissuto alla disfatta, allo scempio di piazzale Loreto stesso.

“Sempre di quell’idea!”, così, cercandosi con gli sguardi, come congiurati, dopo i giorni terminali di Salò si salutavano, riconoscendosi, coloro che già erano stati fedeli fascisti, poco importa se balilla, centurioni, capimanipolo, militi della “Decima” o semplice “zona grigia”.

In ogni caso, proprio “quella” fiamma rimandava alla tradizione della Repubblica sociale italiana, posta su un trapezio dove era inscritto l’acronimo Msi. In verità, leggenda funerea o meno, secondo altri, la fiamma stava sempre lassù a rappresentare il sacello, la “bara”, già trafugata nottetempo da un “camerata” fedele di nome Domenico Leccisi, il sepolcro di Mussolini, dal quale appunto si sprigionava la luce calda della persistenza di un’idea.

Pier Paolo Pasolini, ragionando di orgoglio nero a quel simulacro afferente, racconta un ragazzo, possibile attivista della Giovane Italia, che a mo’ di sfida solleva dal passante dei calzoni proprio il portachiavi-distintivo missino, mostrandolo come segno identitario, possibile kriptonite della mai doma presenza fascista. Lo stesso poeta “onorerà” in negativo la fiamma in alcuni versi d’atmosfera: “Un palco sta su di essa, coperto di bandiere, del cui bianco il bruno lume fa un sudario, il verde acceca, annera il rosso come di vecchio sangue. Arista o tetro vegetale guizza cerea nel mezzo la fiammella fascista”.

C’è ora da ricordarla sui manifesti su sfondo blu, piuttosto che nero, accompagnata, al tempo di Almirante, primi anni ’70, giorni del referendum per il divorzio, da parole simili a una sentenza: “L’ultima speranza l’unica certezza”. Nel tempo del postfascismo, tramontata la Destra nazionale, frutto della fusione con i monarchici, declinata perfino l’esperienza finiana di Alleanza nazionale, la stessa fiamma mostrata un tempo dal ragazzo a Pasolini, trasmigra periferica sul simbolo di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, così dopo un breve interregno nel quale il luogo dell’icona originaria appariva invece una corda annodata non meno tricolore; sapore troppo sabaudo, forse. Svanito infine il trapezio funerario, sostituito da una semplice retta, la fiamma è ancora lì nel simbolo del partito che si immagina adesso prossimo al Palazzo.

Sempre a Giorgia Meloni, viene chiesto di cancellarla, accantonando così, nonostante i retropensieri incancellabili, ogni memoria simbolica che possa far rimembrare comunque il latente neo o postfascismo, ora dei Volontari nazionali e ancora del “Boia chi molla!”, se è vero che lo stesso Almirante, in un discorso parallelo, impose che non fosse invece usata la celtica. La stessa immagine, sia pure in forma di fiaccola, dunque non mossa dal vento, figurava sul simbolo del Fronte della Gioventù, l’ex Giovane Italia, implicito furto ai repubblicani e perfino agli anarchici che proprio la fiaccola da sempre reputano un proprio simbolo, come assicurato perfino da una canzone di Guccini.

Nella commedia politica ed elettorale all’italiana, se per un semplice istante facciamo caso ai filmati in bianco e nero, accanto a scudo crociato, falce e martello, sole nascente, edera, rosa nel pugno, troviamo la fiamma, icona-contrassegno estraneo all’antico “arco costituzionale” antifascista, segno identitario, riferibile perfino alla “fogna” marginale cui vennero relegati i missini per lungo tempo, quindi idealmente carica di una valenza da “setta”, dunque supportata da un plusvalore affettivo, di irrinunciabilità, quasi si chiedesse al mascherato Zorro di rinunciare alla sua iniziale.

Forse anche muovendo da questo dato sentimentale si può comprendere, molto al di là della questione iconica e perfino identitaria che rimanda al neofascismo il perché di una così grande riluttanza ad abrogarla dal simbolo di un partito, sì, erede di una certa tradizione, ma anche intenzionato, lo si è detto, ad accreditarsi come attendibile e non esattamente erede del “bunker” di Colle Oppio dove risiedevano mazzieri pronti a innalzare per se stessi soprannomi impresentabili quali “Er Nerchia”. Si legga in questo senso la straordinaria Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno, già militante missino Romano pervenuto infine alla Sinistra.

Bomba o non bomba, fiamma o non fiamma, resta, e va detto, che il sentire fascista è da molti ritenuto un bene rifugio subculturale genetico, qualcosa che restituisce comunque calore, certezze, paesaggi identitari rionali e familiari, soluzioni pronte per dare voce a una pulsione autoritaria e semplificatoria. Proprio in questo senso appaiono spuntate, se non risibili, le giustificazioni di coloro, residenti di casa Meloni, che per tirarsi fuori dall’impiccio della memoria della trincea fascista, neofascista o postfascista sollevano come argomento, ai loro occhi convincente, il dato d’essere nati, metti, nel 1977 quando la fiamma, sebbene sempre lì sui suoi manifesti, era già postuma di se stessa.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Giorgia Meloni, ecco perché la fiamma non c'entra col fascismo: la lezione di Storace. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 15 agosto 2022

Questa polemica sulla Fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia è davvero patetica. E stavolta ritorna sui media perché il Centrodestra può vincere le elezioni del 25 settembre e il partito di Giorgia Meloni vanta buone prospettive nel sondaggi. Altrimenti non se ne parlerebbe. Intimazioni senza senso: toglietela! Ora! Subito! Pretese insostenibili. Proprio perché elettoralistiche, insincere, fasulle. I cantori della libertà a condizione che decidano loro di che cosa si tratta, dovrebbero sapere che i partiti autenticamente democratici stabiliscono i loro simboli nei congressi. Ed è solo lì che si possono modificare. A meno che non si abbia un'altra pretesa: leva la fiamma e presentati con una specie di lista civica. Che sarebbe cinica, semmai. Ovviamente la Meloni è andata avanti e ha presentato la sua lista con tanto di Fiamma.

Ma quel simbolo significa Fascismo? No, o almeno non più. Il richiamo è al Msi, ce l'aveva anche Alleanza nazionale che la mantenne nel simbolo nello stesso congresso in cui rivendicava il diritto alla libertà "conculcata dal Fascismo", come si scrisse nelle tesi di Fiuggi. 

TRE MINISTRI Al Msi appartenevano tre ministri, Pinuccio Tatarella addirittura vicepresidente del Consiglio- Adriana Poli Bortone e Altero Matteoli. E più in là- con An - Mirko Tremaglia, che militò nella Rsi. Il presidente Ciampi, al contrario di Scalfaro, non obiettò alcunché alla sua nomina, proposta da Fini a Berlusconi. Il partito da cui anche Tremaglia proveniva - il Msi - fu parte della democrazia italiana. E il suo simbolo ha più un valore storico che elettorale, va detto con chiarezza. Tanto è vero che milioni di elettori che furono missini votarono poi per partiti che la fiamma non l'avevano: Forza Italia, il Pdl, la Lega di Salvini. E continuano a farlo. Anche perché per la Meloni votano e sono candidati cittadini che per la fiamma non votarono mai nella loro vita.

Elettoralmente quel simbolo non fa più la differenza. Resta il suo valore storico e non a caso c'è la fondazione An chiamata a preservarne il valore. Probabilmente la Meloni potrebbe anche toglierla dal logo di Fdi senza perdere o guadagnare un solo voto. A condizione di non farlo per cedimento culturale alle pretese della sinistra, ma per scelta del suo partito. Altrimenti sarebbe sì una sconfitta ideologica ed è il motivo per cui non si deve abiurare persino alla simbologia.

Altra cosa - e ben più grave - sarebbe l'inevitabile pretesa successiva: ora dicci di essere antifascista. Vorrebbe dire passare come un carro armato sui corpi di tanti ragazzi di destra assassinati negli anni di piombo nel nome dell'antifascismo militante: sarebbe davvero insopportabile, irrispettoso, cinico. Ed è grave che si continui ad insistere sull'argomento. Questo sì è elettoralismo da parte della sinistra e di chi ci casca: a destra nessuno sogna dittature e probabilmente si è molto più democratici che altrove. Ma il sangue versato va rispettato.

Da tutti. 

È il motivo per cui dalla notte dei tempi a destra si insegue il mito della pacificazione nazionale: che significa basta alla discriminazione dei vinti di ieri nel nome della faziosità ideologica.

La Patria è la Terra dei padri, che fu popolata anche da chi non scelse il carro del vincitore.

Niccolò Carratelli per La Stampa il 15 agosto 2022.

La fiamma non è stata spenta e nemmeno le polemiche, alimentate dalla campagna elettorale. E arrivate fino a Londra, dove il quotidiano britannico The Guardian dedica a Giorgia Meloni e alla sua possibile vittoria alle elezioni un lungo e preoccupato articolo.

Intanto, però, Fratelli d'Italia ha regolarmente depositato al Viminale il proprio simbolo in vista del 25 settembre, compresa la fiammella tricolore, eredità del Movimento sociale. «Non ha nulla a che fare con il fascismo - continua a rassicurare Meloni - ma è il riconoscimento del percorso fatto da una destra democratica nella nostra storia repubblicana. Ne andiamo fieri». 

La senatrice a vita Liliana Segre e tutti quelli che con lei hanno chiesto la rimozione della fiamma, si mettano pure l'anima in pace. Tra gli ultimi interventi quello del neocandidato di Pd e +Europa, Carlo Cottarelli, convinto che FdI «non sia un partito fascista e non sia un pericolo per la democrazia italiana. Però essere "fieri" della fiamma del Msi, come dice Meloni - aggiunge - vuol dire essere fieri dei nostalgici del fascismo. È un grave errore». Da Fratelli d'Italia arriva la replica del deputato Federico Mollicone, secondo cui «gli isterismi della sinistra sulla fiamma nel simbolo di FdI sono fuori dalla Storia: il Movimento sociale italiano è stato un pezzo rilevante della storia repubblicana». Ma anche Carlo Calenda, che per primo (e unico) ha salutato con soddisfazione la presa di distanza dal fascismo di Meloni, sul simbolo non fa sconti all'avversaria: «È un grave errore tenere il simbolo di un partito fascista come l'Msi nel simbolo.

È chiaro che Meloni non ha dimestichezza con le relazioni internazionali - attacca il leader di Azione - All'estero l'ostentata matrice missina di Fratelli d'Italia renderà impossibile avere normali relazioni con i partner internazionali. Il rischio non è il fascismo in Italia, ma l'isolamento». 

Parole che richiamano il duro articolo che The Guardianha dedicato a Giorgia Meloni e alla sua possibile vittoria alle elezioni. «Non sarà fascista. Ma evoca ricordi cupi del passato dell'Italia - si legge - una sua vittoria alle elezioni sarebbe una minaccia per la democrazia in tutta Europa». Poi un rapido identikit a beneficio dei lettori inglesi, spiegando che Meloni è «a capo del partito di estrema destra e populista Fratelli d'Italia, l'erede politico diretto del neofascista Movimento sociale Italiano (con cui condivide parte del suo simbolo, una bandiera-fiamma)». E, ricordano dal Guardian, è troppo semplice pensare di poter recidere certi legami a parole: «Mentre Meloni nega ufficialmente qualsiasi legame con il fascismo, la base del suo partito contiene molte persone spesso definite in modo pittoresco come "nostalgici" del regime di Mussolini - scrive il quotidiano britannico -

I consiglieri del partito della Meloni sono stati spesso visti fare il "saluto romano", lodare Mussolini e indulgere in un aperto razzismo». Quindi, è il ragionamento che fanno oltremanica, «è chiaro che l'idea che "Mussolini ha fatto un sacco di cose buone", guadagnerà ulteriore credito con Meloni come primo ministro». Insomma, vista da Londra, la fiamma è il problema minore, perché il rischio è che «una delle nazioni centrali dell'Eurozona sarà governata da una coalizione di centrodestra largamente euroscettica e anti-immigrati».

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 15 agosto 2022. 

Qualcuno però perfino nel suo partito ne avrebbe fatto a meno, stavolta. Tra questi, a sorpresa, Rachele Mussolini, nipote del duce e stra-votata consigliera comunale a Roma, con 6.522 preferenze personali alle elezioni dell’ottobre scorso. «Fosse per me, l’avrei tolta, la fiamma – confida a Repubblica – Capisco che per molti militanti ci sia un’affezione. Per me, sinceramente, no».

Da soldato di uno dei partiti più disciplinati dell’arco parlamentare, comunque rispetta gli ordini di scuderia: «Sono molto discreta, a Giorgia della fiamma nemmeno ne ho parlato, anche se ho il suo numero di cellulare. Capisco che la maggioranza dei militanti, anche giovani, che non hanno nulla a che fare con certi retaggi del passato, ci siano affezionati e dicano: non si tocca. I problemi degli italiani in ogni caso sono altri. E Meloni ha un programma serio, lo dimostrerà al governo». Un’altra nipote di Mussolini, Alessandra, invece si smarca dalle polemiche. Le commenta con una risata, al telefono: «La fiamma nel simbolo di FdI? Ha ha ha, mamma mia...». Clic.

Ecco perché sulla fiamma di Fdi raccontano solo balle. Un Pd, privo di argomenti, chiede a Giorgia Meloni di togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d'Italia. L'ennesimo, inutile esame di antifascismo del tutto pretestuoso. Francesco Curridori il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.  

"Vuole consegnare il fascismo alla storia? Allora tolga la fiamma del Movimento Sociale Italiano dal simbolo", è il disco rotto che da giorni imperversa in casa del Pd, utile solo per continuare a dipingere Giorgia Meloni come una pericolosa eversiva di destra.

Poco importa che lei, negli scorsi giorni abbia diffuso un video in cui condanna esplicitamente (e non è nemmeno la prima volta) il fascismo. Poco importa che lei sia diventata presidente del partito dei Conservatori e dei Riformisti europei a cui, tra l'altro, non aderisce né il movimento di Vitkor Orbàn né quello di Marine Le Pen e nemmeno i tedeschi dell'Afd. Ma non solo. La Meloni è spesso ospite della convention del Gop, il partito Repubblicano americano che fu di Ronald Reagan e dei Bush e che certamente non può essere tacciato di fascismo solo perché ora è guidato da Donald Trump. Insomma, vista l'impossibilità di criticare la Meloni a livello internazionale se non con accuse che rasentano il sessismo come quella dell' “incipriarsi” per apparire gradevole alle cancellerei europee, al Pd non resta che attaccarsi a un logo. Ma, a sinistra, qualcuno si prendesse la briga di approfondire la storia del Movimento Sociale Italiano, scoprirebbe che tante leggende che ruotano attorno alla fiamma sono solo leggende, appunto. Cesco Giulio Baghino, fondatore del MSI insieme a Giorgio Almirante, intervistato dal giornalista Nicola Rao, nel libro 'La fiamma e la celtica' che ripercorre gli inizi dei post-fascisti italiani, spiega così l’origine del simbolo del partito:“L’idea della fiamma tricolore come simbolo fu di Almirante. Inizialmente il simbolo del MSI era soltanto la fiamma tricolore, senza il trapezio sottostante. L’idea del trapezio ci venne dopo, per poter trovare uno spazio alla dicitura 'Msi'. La storia che il trapezio rappresenti la bara del Duce si diffuse dopo, ma non era nelle nostre intenzioni iniziali. Anche la diceria per la quale la sigla del Msi volesse dire 'Mussolini sei immortale' è una delle tante leggende nate nell’ambiente, ma non risponde al vero”.

Perché solo adesso la fiamma brucia la sinistra. Quando Fini era leader di An la sinistra taceva e non si lamentava della fiamma. Adesso la musica è cambiata. Ma c'è un motivo. Domenico Ferrara il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Ma dov'era prima la fiamma? E perché non bruciava come brucia oggi? Grazie alla Meloni, si potrebbe dire che adesso il simbolo ardente e tricolore viva (anzi, bruci) una seconda vita. Perché c'era un tempo in cui la fiamma non scaldava i cuori dei detrattori. La sinistra infatti taceva, quasi non dando peso al "fardello", al contrario quando faceva discutere era quasi sempre all'interno di dibattiti e liti confinati nell'alveo della destra. Insomma, prima la fiamma era come se fosse spenta. E le volte in cui dall'altro lato della barricata si puntava il dito contro chi presideva il partito nel cui simbolo era presente la fiamma si contano sulle dita di una mano. Infatti basta fare una ricerca d'archivio nei giornali e nelle cronache del passato per accorgersi della scarsità di titoli e di agenzie sul tema.

"La fiamma tricolore non è mica il fascio littorio. È il simbolo di un partito, il Msi, votato democraticamente dai cittadini''. A dirlo, nel 1998, fu Gianfranco Fini, all'epoca leader di An. Pensate che le sue parole abbiano scatenato il putiferio che si sta scatenando in queste ore contro la Meloni? Ma quando mai. Zero. Niente di niente.

Quando nel 2003 lo stesso Fini si recò a Gerusalemme dove marcò la famosa distanza dal fascismo, si levò qualche sparuto scudo. Rutelli, allora leader della Margherita, gli chiese di togliere la fiamma dal simbolo di An, ma Fini fu tranchant: "Questo non c'entra assolutamente nulla con il viaggio in Israele. Risponderemo a Rutelli quando saremo in Italia''. Ma la polemica durò quanto un giro di orologio. E continuò ad andare così anche anni dopo, quando nel 2006 per esempio Fini rimproverò Renato Mannheimer reo di aver proposto un sondaggio il cui risultato vedeva i simpatizzanti di An al 50% favorevoli al mantenimento della fiamma, mentre l'altro 50% sarebbe contrario. "È una questione che interessa solo i politologi...", chiosò Fini.

A parte questo, il nulla. Nessun coro di protesta degno di nota, nessun attacco frontale, nessuna richiesta perentoria di eliminazione della fiamma. Nemmeno nel 2017 quando la stessa Meloni svelò il nuovo simbolo di Fdi con la fiamma si alzò un polverone. Era come se non ci fosse il carbone o - se preferite- gli attizzatori. Oggi invece è tutta un'altra storia. Ma la fiamma è sempre lì almeno da 28 anni.

Controcorrente, Federico Rampini: "La fiamma non interessa". Libero Quotidiano il 17 agosto 2022

Federico Rampini ha le idee molto chiare e a Controcorrente non usa giri di parole: "La polemica sulla fiamma di Fratelli d'Italia non appassiona gli italiani". Con una frase sola, il giornalista del Corriere ha abbattuto la propaganda del centrosinistra e del Pd in testa. Da qualche settimana infatti i dem attaccano costantemente Giorgia Meloni proprio sul simbolo del partito e lo fanno con quella malizia tipica della sinistra che sfocia nell'odio sistematico per l'avversario politico. Su questo fronte sono prima linea tutti i leader di partito della sinistra, da Letta a Fratoianni e anche il centrino di Azione con Calenda che non perde occasione per attaccare la Meloni proprio sulla "fiamma".

Insomma Federico Rampini ha voluto esprime un'opinione che è abbastanza comune: agli italiani interessano i programmi elettorali e le risposte concrete dei partiti soprattutto sul fronte economico, non certo i dibattiti sui simboli che appassionano solo la sinistra.

"Il tema di un governo forte è stato affrontato da uomini di destra e da uomini di sinistra come Craxi o Matteo Renzi. Il tema di un premierato forte non c'entra nulla col fascismo e quindi credo anche che parlare della fiamma non sia d'interesse per gli elettori". Nulla da aggiungere. 

Sinistra dipendente. Con Cottarelli, il Pd usa la vecchia strategia del Pci contro socialisti e radicali (stavolta con i radicali complici). Carmelo Palma su L'Inkiesta il 12 Agosto 2022.

Il piano, oggi come allora, è di reclutare personalità eminenti con il pretesto di rendere più aperto e progressista il fronte democratico, ammodernando il pensiero economico. Ma lo scopo reale è scompaginare il Terzo Polo

Probabilmente Carlo Cottarelli, che nella vita ha fatto altro e ha poca dimestichezza con le vicende del pleistocene partitocratico, non sa che la sua candidatura nel PD, insieme a quelle di altre personalità, che presumibilmente vedremo fioccare in funzione anti Renzi-Calenda nei prossimi giorni, risponde allo stesso schema utilizzato dal PCI ormai più di mezzo secolo fa con l’operazione della Sinistra Indipendente.

Riassunto per i più giovani e per gli immemori. Nel 1967 – nume tutelare il monumentale Ferruccio Parri – da Botteghe Oscure fu promossa una campagna di reclutamento di eminenti personalità, che rispondevano al tipo ideale del progressismo democratico, senza compromissioni con la storia stalinista e che nel 1968 furono traghettate, attraverso le liste comuniste, nel Senato della Repubblica, dove costituirono un gruppo parlamentare autonomo, denominato, per l’appunto, Sinistra Indipendente.

Si trattava di figure di altissimo prestigio morale e intellettuale (Luigi Anderlini, Carlo Galante Garrone, Carlo Levi, Adriano Ossicini, Tullia Carrettoni, Franco Antonicelli…) che, come scrisse Parri nel suo appello pubblicato dall’Unità, dovevano servire per allargare il fronte democratico e inaugurare un’alleanza di sinistra all’insegna “di una nuova Lotta di liberazione” e vennero invece utilizzate dal PCI come specchietti per le allodole e per manovre di più bassa cucina politica.

La nascita della Sinistra Indipendente aveva essenzialmente tre obiettivi: isolare e spaccare il Partito socialista, alle prese con gli esiti insoddisfacenti della complicata stagione del centrosinistra; avvicinare e integrare pezzi del mondo cattolico post-conciliare a disagio nella Dc di destra e clericale e neutralizzare la spinta e l’attrattività che il nuovo Partito Radicale di Marco Pannella esercitava trasversalmente sia sul tradizionale retroterra laico, azionista e socialista, sia in direzione delle istanze libertarie, che il PCI non sapeva come maneggiare e tantomeno rappresentare.

Fino alle soglie della Seconda Repubblica i gruppi parlamentari della Sinistra Indipendente, trapiantati anche alla Camera, svolsero questa funzione di legittimazione culturale e di interdizione politica per conto del PCI, ma non favorirono affatto la sua modernizzazione, anzi contribuirono in modo determinante alla propaganda antisocialista e a quella particolare regressione rappresentata dal culto della diversità berlingueriana.

Mutatis mutandis la candidatura di Cottarelli e quelle che seguiranno servono in primo luogo a scompaginare il Terzo Polo e ad accreditarne l’irrilevanza, certo non a raddrizzare la barra del pensiero economico del PD, che gli uomini ideologicamente forti della Ditta hanno da tempo ricondotto al perepepè antiliberista, su cui, fino all’incidente della sfiducia a Draghi, hanno pure costruito la giustificazione del campo largo con il M5S, come ritorno alla unità della sinistra.

Faceva quasi tenerezza l’altro giorno l’ex direttore del FMI quando, in collegamento dagli Usa, per motivare la sua discesa in campo ripercorreva didascalicamente i principi di un progressismo mercatista che nel PD e nei suoi paraggi continua a puzzare di zolfo, ma per cui adesso ci si può pure turare il naso, se il sacrificio è ripagato dall’affondamento della scialuppa terzopolista.

Si può pensare che Cottarelli non subirà il destino di molti indipendenti di sinistra, i quali, anziché migliorare il PCI, ne uscirono peggiorati e pure di molto, come l’ex candidato al Quirinale del M5S, Stefano Rodotà. Ma il meglio che politicamente gli potrà capitare, al netto del seggio sicuro, che non fa mai male, è qualcosa di simile a ciò che visse Altiero Spinelli – un altro illustre indipendente di sinistra – alla Camera dei Deputati nel 1978, quando assistette sgomento ed attonito al voto contrario del PCI sull’ingresso dell’Italia nello Sme, dopo essere stato pregato due anni prima di candidarsi tra i comunisti proprio per dimostrare che sull’Europa e non solo sull’Europa i comunisti erano davvero cambiati.

Allora, come avvenne ancora spessissimo fino alla sua morte, a Spinelli toccò dare ragione a Marco Pannella, che gli indipendenti (per lui: “dipendenti”) di sinistra aveva, ricambiato, in gran dispetto. Ora, per ironia della storia, è toccato proprio a un rivolo della storia radicale, quello di +Europa, offrire al PD l’occasione e la sponda per la campagna Sinistra Indipendente new edition.

Altro che giovani, Letta riparte dallo zoccolo duro: gli insegnanti. Il segretario Pd promette di aumentargli lo stipendio nel 2027. La risposta dei docenti: "E noi ti voteremo nel 2028". Annarita Digiorgio il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Enrico Letta aveva promesso per questa campagna elettorale di partire dai giovani, poi dall’ambiente, poi dai diritti civili,… e invece riparte dallo zoccolo duro: gli insegnanti. O almeno quello che una volta lo era.

“Mi prendo l’impegno: se vinciamo, a fine legislatura, gli insegnanti saranno pagati con una retribuzione che sarà la media di quella degli altri insegnanti europei”. È la prima promessa fatta dal segretario Pd in questa campagna elettorale, dopo quella di aumentare le tasse con un’altra patrimoniale.

Ma stavolta gli insegnati, quelli che per anni sono stati non solo l’elettorato forte ma anche la vera cinghia di trasmissione dell’egemonia culturale della sinistra inculcata agli studenti, non l’hanno presa bene.

“Sul tema dell’aumento degli stipendi degli insegnanti c’è da dire che Enrico Letta è stato già a Palazzo Chigi come Presidente del Consiglio e, nonostante il contratto della scuola fosse scaduto da più di 4 anni, non ha pensato a rinnovare il CCNL scuola scaduto nel 2009” si legge in un post pubblicato sul sito specializzato tecnichedellascuola.it “Per avere un rinnovo contrattuale di soli 85 euro lordi mensili si è dovuto attendere il 2018 con il Governo Gentiloni. Adesso il film si ripete, con un contratto scuola già scaduto da 44 mesi, Enrico Letta, come Segretario del PD, promette in campagna elettorale un aumento stipendiale, nell’arco dei prossimi 5 anni, a livello degli stipendi europei”.

Dello stesso avviso il sito professioneinsègnante.it : “Caro Letta, il rinnovo del contratto è un DOVERE del governo, non una concessione che va data alla fine di una legislatura nel caso in cui si ha l’appoggio dei docenti. La cosa che fa arrabbiare più i docenti è il fatto che il suo partito è stato nella compagine di governo negli ultimi 3 anni e lo è tutt’ora ma Letta non ha mai sospeso una parola sui docenti, pur avendo piazzato un suo ministro di fiducia al Governo. Mi chiedo se Letta comunichi con Bianchi o se lo abbia scelto solo per fare ciò che vuole senza dar conto al partito di riferimento. Se lo farai in questa fine legislatura, potrà sperare nel voto del 25 settembre, se invece lo farà nel 2027, noi prenderemo in considerazione l’idea di votarla nel 2028!!!”.

E pensare che prima di Letta era stato Giuseppe Conte a intervenire con la stessa proposta in un post su Facebook: “Mentre tutti gli altri rimarranno ancorati al loro destino, fra stipendi inadeguati e precarietà. Non è questa la nostra idea di Paese: in Italia abbiamo gli insegnanti con gli stipendi fra i più bassi in Europa. Oltre 800mila docenti fondamentali per i nostri ragazzi, per le nostre scuole. Solo il Movimento può proporre un futuro diverso per la nostra scuola. Da una parte abbiamo la destra che al Governo ha distrutto il mondo della scuola, dall’altra il campo largo di Letta e Calenda che accoglie la Gelmini, che ha tagliato 8 miliardi all’istruzione e alla ricerca”.

E ancora Conte: “Dalla parte giusta ci siamo noi, che al Governo abbiamo potenziato la scuola con 80mila assunzioni, realizzando il più grande investimento degli ultimi 30 anni nel campo dell’istruzione: oltre 10 miliardi. Non bastano. C’è ancora tanto da fare, proprio a partire dal tema degli stipendi. È certo però che abbiamo invertito una tendenza consolidata della politica: riempirsi la bocca di scuola tagliandole puntualmente investimenti e risorse”.

Eppure sempre tecnichedellascuola.it ricorda come “Nella campagna elettorale del 2018, fu Di Maio del M5S a promettere stipendi europei nella legislatura che si sta per chiudere. Nonostante il M5S è stato al Governo per 4 anni, i docenti italiani non solo non hanno visto aumenti stipendiali ma hanno ricevuto carichi di lavoro aggiuntivi e obbligatori. Sulla riforma della Buona Scuola l’ex leader del M5S così si era espresso Dimaio: ”La riforma Renzi non ha nulla di buono. La smantelleremo partendo proprio da quelle misure che hanno trasformato la scuola in un’azienda: i super-poteri ai presidi, la chiamata diretta dei docenti, il bonus premiale e la card formazione per i docenti che è più una mancetta elettorale”. Quelle del M5S sono state tutte promesse tradite per buona parte del mondo della scuola. Adesso Di Maio è di fatto candidato con il PD e le stesse sue promesse vengono avanzate da Enrico Letta”.

Non solo. Tutti i partiti si erano impegnati a non emendare il decreto aiuti bis, per non intralciare l’ultimo decreto di Draghi.

E invece oggi il Pd si rimangia la parola, annunciando di presentare emendamenti per stralciare l’articolo sull’insegnate esperto.

Una riforma che finalmente inserisce nella formazione dei docenti competenza e competitività. Con l’ultimo tassello approvato, la norma consente di istituire, a regime, un contingente di 32mila docenti esperti (8.000 l’anno dal 2032/33 al 2035/36), creando così, all’interno di ciascuna istituzione scolastica, un nucleo di insegnanti (in media 4 per ogni scuola) che possono contribuire a migliorare l’offerta formativa complessiva.

come ha spiegato il Ministro Bianchi "I docenti di ruolo che abbiano conseguito una valutazione positiva per tre percorsi formativi consecutivi possono maturare il diritto ad un assegno ad personam di importo pari a 5.650 euro annui che si sommano al trattamento stipendiale. Si tratta di risorse pari a un incremento del 15% dello stipendio medio. A questi insegnanti viene attribuita la qualifica di “esperto” e saranno un valore aggiunto per tutta la loro comunità scolastica, supportandola nel miglioramento dell’offerta formativa complessiva".

Ma dopo averlo votato in consiglio dei ministri e in parlamento, il Pd difronte alla protesta dei sindacati si rimangia tutto alla vigilia delle elezioni. “È profondamente sbagliata la qualifica professionale di docente esperto che introduce una forma di carriera senza alcun confronto con le forze sociali, le associazioni dei docenti e al di fuori della sua sede naturale che è la contrattazione collettiva. Per questo - ha promesso la capogruppo pd al Senato Simona Malpezzi-ne chiederemo lo stralcio dal decreto Aiuti bis”.

Poi quelli contrari all’agenda Draghi per il Pd sono sempre gli altri… Mentre loro continuano a condividere la stessa linea politica dei grillini con cui ancora fingono di essersi divisi.

Estratto dell’articolo di Dario Di Vico per “il Foglio” l'11 agosto 2022.

[…] Quel che sembra però assodato è che l’operaio sindacalizzato e tutelato dalla Cig se ha il figlio cameriere e senza tutele si orienta a destra […] Ciò che terrorizza i ceti produttivi che votano a destra è un tratto caratteristico dell’agenda liberal ovvero la concorrenza, sia essa quella di Uber o delle catene alberghiere che vogliono gestire le spiagge sia quella più palpabile dei minimarket bengalesi o dei superstore cinesi. 

Questa non-piazza chiede protezione e l’istanza ha preso dei tratti identitari, si è fatta antropologia e porta le partite Iva ad apprezzare l’ambiguità della destra italiana, la sua capacità di stare al di qua e al di là del “sistema”. […]

Del tutto differente è invece quella che per comodità chiameremo “l’area Fratoianni”, ovvero la galassia delle formazioni politiche e dei circoli intellettuali che contestano da sinistra il Pd di Palazzo […] questa posizione è che ha pochissimo pescaggio sociale, persino tra gli operai le formazioni a sinistra del Pd messe tutte assieme – secondo gli studi di Nando Pagnoncelli – racimolano circa 4 punti di consenso. Un quinto dei consensi della sola Lega e un sesto della sola Meloni.

Se un operaio contesta il sindacato per la chiusura della sua fabbrica o per la scarsa attenzione agli appalti si sposta a destra e non verso “l’area Fratoianni”, che appare incapace di fare proseliti persino tra i Cobas. Come mai? Probabilmente perché la sinistra del disagio è legata allo schema ideologico della centralità del conflitto redistributivo e però le manca un retroterra antropologico. Quindi trova più spazio tra gli intellettuali gauchisti e tra i docenti universitari expat negli atenei di mezzo mondo che tra gli operai in carne e ossa.

Potrà sembrare paradossale ma “l’area Fratoianni” contesta il Pd per gli scarsi legami sociali e poi alla prova dei fatti ne vanta ancora di meno. Non è mai piazza, è tutt’al più tinello. […] Scommette su una redistribuzione contabile e comunque non è presente nei luoghi della vera marginalità. Resta di conseguenza al di qua della dimensione identitaria che anima i conflitti centrali di quest’epoca come il divario città-campagna che caratterizza e determina, dalla Brexit in poi, le prove elettorali di tutti i paesi dell’occidente.

Una variante della politicizzazione delle diseguaglianze è stata sicuramente rappresentata dai Cinque stelle che avevano la prerogativa e il vantaggio rispetto all’“area Fratoianni” di non provenire dal marxismo, pur nelle sue infinite varianti. E quindi di essere mentalmente sgombri rispetto alla necessità di operare una radicale discontinuità. I grillini si sono imposti sulla scena politica italiana grazie al successo del movimento della critica della politica (“la casta”) e solo successivamente si sono aperti alle questioni sociali realizzando di fatto un’Opa sulla diseguaglianza e chiudendo il ciclo dell’egemonia rossa.

Da qui la battaglia sul Reddito di cittadinanza, i provvedimenti contro i contratti a termine (il decreto “Dignità”) e la teoria dell’Inps del popolo sostenuta da Pasquale Tridico. 

Questo mix di antipolitica e di attenzione alle basse frequenze della società ha funzionato nell’occasione delle elezioni del 2018 ma poi la sua spinta propulsiva si è esaurita e il consenso che i 5s avevano accumulato è stato progressivamente cannibalizzato dalla protesta di destra, rivelatasi più coriacea e dotata di un maggiore retroterra antropologico. Ovvero di un’idea di protezione più antica, più incardinata nelle debolezze del carattere nazionale e quindi decisamente più efficace della retorica comunisteggiante dell’uno vale uno. [...] 

Francesco Giovannetti per repubblica.it l'11 Agosto 2022.

“La strategia di Conte è di eleggere Conte”. È quanto ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio nel corso di una conferenza stampa alla Camera insieme a Bruno Tabacci e al responsabile di Rete Nazionale Civica Alessio Pascucci. 

"Il M5s noi continuiamo a chiamarlo partito di Conte perché è rimasto solo lui. Ormai non c'è più nessuno, ci sono persone con cui abbiamo fondato il Movimento 5 stelle tanti anni fa con cui siamo agli antipodi, non la pensiamo più allo stesso modo su nulla eppure anche loro sono stati messi alla porta da Conte", ha detto Di Maio. 

"Ci sarà un motivo per cui quel partito continua a perdere consensi. Conte I, Conte II e Conte nel Governo Draghi? Sono diversi Conte che ruotano sempre attorno a Conte", ha aggiunto. 

Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 12 Agosto 2022.

«Noi saremo la sorpresa di queste elezioni». I sondaggi ad oggi non sono generosi, ministro Luigi Di Maio. E decine di parlamentari che hanno lasciato il M5S per seguire la sua scissione resteranno fuori. 

«È impossibile sondare una forza politica nata da dieci giorni. Impegno civico andrà oltre il 3% e ci sarà spazio per tutti quelli che vorranno correre nelle liste. Ci poniamo come coloro che intercettano il voto moderato, con un partito fatto di proposte, pragmatismo e concretezza». 

Non sarà il terzo polo a intercettare il voto moderato?

«Non è un polo, è una lista solitaria. Ci sono due coalizioni, progressista e di destra e poi ci sono due solisti, Conte da una parte e Calenda e Renzi dall'altra, che non fanno altro che denigrare le persone e avvantaggiare la destra». 

Non si avvantaggia la destra dando del «bullo» a Calenda?

«Che sia un bullo gli italiani lo hanno capito prima di me. Siccome era disperato, perché avrebbe dovuto raccogliere le firme, si è messo con uno che gli fa orrore».

Renzi gli fa orrore?

«Calenda che dà lezioni di coerenza non è credibile. A novembre, a l'Aria che tira, diceva "mi sono rotto di Renzi, il suo modo di far politica mi fa orrore". Sono due estremisti». 

L'ipotesi di una sua candidatura blindata a Modena ha sollevato polemiche in casa Pd. Alla fine correrà nella sua Pomigliano?

«Nei prossimi giorni decideremo. Stiamo allargando la base di Impegno civico, abbiamo fatto un patto con l'Agenda nazionale civica e con loro stiamo dando protagonismo a 200 amministratori locali. Apriamo le nostre liste a tutti quelli che vogliono dare un contributo alla coalizione progressista di cui siamo orgogliosi di fare parte».

I dem, dopo gli scontri di questi anni, dovranno turarsi il naso per votarla?

«Sono due anni e mezzo che portiamo avanti un percorso di responsabilità e massima sinergia con il Pd, che ci ha consentito di varare alcune politiche che hanno salvato l'Italia dopo la pandemia». 

È realistica l'idea di allearsi con i 5 Stelle dopo il voto del 25 settembre?

«Non credo ci possa essere compatibilità tra la coalizione progressista e il partito di Conte, che ha scelto l'autodistruzione. Letta è stato generoso. Ha provato fino all'ultimo a convincere Conte a non far cadere Draghi e gli ha detto con chiarezza che dopo lo strappo non ci sarebbero stati più rapporti con loro». 

Ha fatto bene Conte a non candidare Di Battista?

«Conte sta coronando il suo sogno, distruggere quel che era rimasto del M5S. Lui e Grillo passano il tempo a litigare sul secondo mandato, sul simbolo, sulle Parlamentarie. Con colpevole ritardo Grillo si è accorto che Conte gli sta distruggendo il M5S».

Giorgia Meloni ha abiurato il fascismo in francese, inglese e spagnolo. L'ha convinta?

«Ha rinnegato il fascismo, ne prendo atto. Lo puoi dire in due, tre, quattro lingue, ma se ogni settimana devi rassicurare il mondo che non vuoi sfasciare l'Italia, è già un problema. Rischiamo di passare da Draghi, che rassicura con la sua sola presenza a Palazzo Chigi, a una aspirante prima ministra che non ha ancora iniziato e già deve rassicurare il mondo». 

Ha messo nel conto la sconfitta?

«Niente affatto. Eleggere un governo di destra significa farlo durare pochi mesi, perché Salvini farebbe la guerra a Meloni dal primo giorno per buttarla giù. In una settimana hanno già proposto 100 miliardi di spesa tra pensioni e fisco e litigheranno sulle ricette economiche. La flat tax è un costo insostenibile e fuori controllo, solo annunciarlo il primo giorno di governo farebbe salire lo spread e scappare gli investitori». 

Se vincerà il centrodestra, la linea dell'Italia sulla guerra in Ucraina cambierà?

«Conte e Forza Italia hanno mostrato una certa ritrosia verso la nostra proposta di una commissione di inchiesta sui legami tra la Russia e la politica italiana. Io non accuso nessuno, ma è chiaro che a far cadere Draghi sono stati i partiti che strizzavano l'occhio a Putin». 

M5S, Lega, Forza Italia?

«Dovranno spiegarci perché non vogliono la commissione di inchiesta. E spero arrivi qualche risposta pubblica alla mia lettera alla Commissione Ue in cui mi appello a tutti i leader italiani perché sostengano il governo Draghi ai tavoli delle prossime settimane. Si deciderà se imporre il tetto massimo al prezzo del gas per ridurre l'ammontare dei fondi che mandiamo a Mosca. Il tema è capire chi sta con gli italiani e chi sta con i russi».

Lotti, Ceccanti e Cirinnà esclusi dalle liste Pd: «Scelte politiche, niente scuse vigliacche». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

L’affondo di Luca Lotti: ma resto nel Pd. Cirinnà: mi hanno offerto un collegio impossibile. E anche il costituzionalista Ceccanti rinuncia. 

L’esclusione di Luca Lotti, accanto a un altro nome dell’area riformista del Pd fuori dai giochi, quello di Stefano Ceccanti. E la rinuncia di Monica Cirinnà, simbolo delle lotte per i diritti, alla corsa in un collegio giudicato impossibile. 

Il risveglio, dopo la «notte delle liste» in casa Pd, con la proposta del segretario Enrico Letta approvata alla mezzanotte di Ferragosto con tre voti contrari e cinque astensioni, è sì caratterizzata dai «nuovi volti» under 35 del partito: ma è anche, indiscutibilmente, all’insegna dell’amarezza degli esclusi.

Luca Lotti

«La scelta è politica, non si nasconda nessuno dietro a scuse vigliacche». È duro Luca Lotti, ex fedelissimo di Matteo Renzi, che non ha seguito però l’ex premier nella scissione che ha dato origine a Italia viva diventando uno degli uomini di riferimento di Base riformista insieme al ministro Lorenzo Guerini. 

«Il segretario del mio partito ha deciso di escludermi dalle liste per le prossime elezioni politiche — chiarisce Lotti —. Mi ha comunicato la sua scelta spiegando che ci sono nomi di calibro superiore al mio. Confesso di non avere ben capito se si riferiva a quelli che fino a pochi mesi fa sputavano veleno contro il Pd e che oggi si ritrovano quasi per magia un posto sicuro nelle nostre liste. Non lo so. Ma così è». 

Il parlamentare ritorna sulla sua scelta di non aderire alla scissione renziana: «Non ho condiviso la scelta di tanti amici nel 2019 di uscire dal Pd e anche grazie a quella decisione (mia e di Lorenzo Guerini che ringrazio per il lavoro da Ministro e per aver guidato con me i riformisti) il Partito democratico è rimasto presente in Parlamento dove, lo dicono i numeri, rischiava invece di sparire. Ecco perché fa male in queste ore ascoltare inutili polemiche e fake news sulle motivazioni della mia mancata ricandidatura». 

E afferma di voler restare nel Pd: «Anche quando alcune scelte sembrano più dettate dal rancore che dalla coerenza politica, mi troverete sempre dalla stessa parte. Dalla parte del Pd. Il Pd è casa mia. Lo sarà anche in futuro».

Monica Cirinnà

Non sarà della partita, il 25 settembre, anche Monica Cirinnà: «La mia avventura parlamentare finisce qui — spiega —. Mi hanno proposto un collegio elettorale perdente in due sondaggi, sono territori inidonei ai miei temi e con un forte radicamento della destra. Evidentemente per il Pd si può andare in Parlamento senza di me, è una scelta legittima. Resto nel partito, sono una donna di sinistra ma per fortuna ho altri lavori». 

A difesa della senatrice, protagonista delle battaglie per i diritti, è intervenuta la comunità Lgbt. «Non averla nel prossimo Parlamento sarebbe un danno gravissimo per i diritti e le libertà di tutti. La destra sarà contenta», denuncia Franco Grillini. È di Cirinnà uno dei tre voti contrari in direzione alla proposta di Letta.Stefano Ceccanti

Un caso anche quello di Stefano Ceccanti, capogruppo uscente in commissione Affari costituzionali. Fonti del Nazareno lo avevano indicato come quarto candidato nel listino proporzionale in Toscana. 

«Leggo con stupore dalle agenzie che sarei candidato numero 4 al proporzionale a Firenze Pisa — è la sua replica —. La notizia è destituita di qualsiasi fondamento come ben sa il segretario Letta», ha detto, annunciando ulteriori spiegazioni. 

Le voci della sua esclusione avevano già sollevato le polemiche dei cattolici democratici: «Stupisce che le competenze di Ceccanti non siano riconosciute e valorizzate dal Pd - l’intervento del gesuita e politologo Francesco Occhetta -, così si mette a rischio anche il voto del cattolicesimo democratico e riformista».

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera”

«Ma che, davvero?», si sente dire ai piani alti del Partito democratico in piena notte, quando la presa di posizione di Monica Cirinnà sul rifiuto a correre in «territori inidonei ai miei temi» rimbalza tra un sito web e l'altro. Passi per la lamentela sul «collegio perdente», passi la rabbia per essere stata candidata in territori con «un forte radicamento del centrodestra», ma come si fa a definire «inidonei ai miei temi» - che s' immaginano essere i diritti civili e le campagne in difesa del mondo Lgbtq+, che l'hanno giustamente resa celebre ovunque per l'approvazione della legge sulle unioni di fatto - dei luoghi popolati da persone che si apprestano a votare? 

«Non ci posso credere. Neanche un avversario della ludopatia candidato a Las Vegas si sarebbe espresso in questi termini», lamenta ad alta voce un dirigente del partito. L'incredulità aumenta poche ore dopo: ci ha ripensato. «Non per interesse - giura lei -, ma per amore e rispetto di una comunità. Letta chiacchiera di occhi di tigre, io li tiro fuori». Si dice pronta a «combattere come l'ultimo dei gladiatori. È l'unico modo per non sottrarmi alla battaglia». Anche in «territori - insiste - per i quali non sono adatta». 

Più che la direzione del Pd - la sua forza politica, dalla quale, lamenta Cirinnà, «ho ricevuto uno schiaffo» - sembra che sia il mese di agosto ad avercela con la senatrice uscente (e molto difficilmente rientrante).

Un anno fa, proprio di questi tempi, il più sfortunato ritrovamento di banconote della storia del denaro contante si era abbattuto proprio sulla sua villa di Capalbio, innescando una serie di colpi di scena imprevisti e decisamente imprevedibili: dalle forze dell'ordine che circondavano il luogo del ritrovamento, la cuccia del cane; a quello stesso cane considerato tutt' altro che di compagnia per la cameriera «strapagata, messa in regola e con i contributi Inps» che di punto in bianco - aveva confessato la senatrice al Corriere della Sera - aveva alzato il telefono per dire che se ne andava. «Sto facendo la lavandaia, l'ortolana e la cuoca», Cirinnà dixit.

Chissà quanto quei sacrifici, ricordati oggi a un anno di distanza, di fronte alla prospettiva concreta di perdere il posto al Senato, vengano visti adesso come ricordi quasi dolci. E chissà se le dolenti note della canzone di Bruno Martino, «odio l'estate», eterna colonna sonora di quella porzione significativa di italiani per cui la bella stagione si è trasformata in una specie di fobia sentimentale, risuonano oggi nel perimetro della villa di Capalbio, che la senatrice Cirinnà condivide col marito Esterino Montino. 

Le foto del loro matrimonio, parecchi anni addietro, li hanno identificati, nell'immaginario degli amanti di cose politiche, come una specie di riedizione in chiave progressista del sodalizio amoroso tra Sue Ellen e J.R., la coppia per eccellenza della soap opera Dallas. Entrambi «pezzi da novanta» del Pd del Lazio, entrambi appassionati di agricoltura rigorosamente biologica, entrambi decisamente inclini a indossare più del lino che del cotone, e più dei cappelli alla texana che nella versione da pescatore, oggi sono l'oggetto delle riflessioni di chi pensa che la politica, come la vita, dà e poi toglie, regala ma poi si riprende indietro.

I soldi della cuccia del cane, ventiquattromila euro, quelli no, non sono mai più stati restituiti: Cirinnà avrebbe voluto darli in beneficienza ma un Tribunale ha negato l'operazione. E in certi casi non sono ammessi ripensamenti, come quello che ha fatto lei con il «collegio inidoneo» offertole dal Pd: «No, grazie», anzi, «sì, combatterò come l'ultimo dei gladiatori». 

DAGONEWS il 17 agosto 2022.

Sotto la cenere del caso Lotti, escluso dalle liste del Pd, si agita molto più del semplice rancore di Enrico Letta verso le “scorie” renziane. Il siluramento di “Lampadina” rientra nell’attenzione con cui il Nazareno valuta le storie personali e giudiziarie dei suoi candidati. 

Lotti è a processo nel caso Consip con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Il 9 febbraio 2022 la Procura di Firenze ha chiesto per lui e altre 10 persone (tra cui Renzi, Boschi, Carrai) il rinvio a giudizio per l’inchiesta sulle presunte irregolarità nei finanziamenti alla Fondazione Open.

Non è tutto. In zona Csm, presieduto dal presidente della Repubblica Mattarella, nessuno ha dimenticato che Luca Lotti incontrava all’hotel Champagne di Roma, Luca Palamara e Cosimo Ferri con cui discuteva di nomine nella magistratura. 

Ovviamente nella notte in cui sono state decise le candidature, nel Pd è iniziata la resa dei conti che si consumerà subito dopo il voto: se i dem a guida Letta vanno sotto il 22%, il Congresso sarà un Vietnam. Nella notte dei lunghi coltelli, in cui si è deciso il destino delle candidature, Guerini si è speso in un accorato quanto inutile elogio di Lotti. Capita l’antifona, i venti esponenti di Base riformista, la corrente di Guerini, Marcucci e Lotti, non hanno neanche partecipato al voto sulla definizione delle liste.

Ai mal di pancia dei “riformisti” ex renziani del Pd, ha risposto la prodiana Sandra Zampa su twitter: “Sono sbalordita da una dichiarazione tra le tante allucinanti di oggi. Renzi che parla di liste e critica Enrico Letta. Nessuno che abbia vissuto la “sua” notte delle “lunghe liste” ha dimenticato cosa è stata. Uno choc, io c’ero. I suoi fedelissimi pluricandidati. Indimenticabile. Quella notte del 2018 resta la cosa più squallida e volgare che ricordi. Anche perchè il taglio del numero dei parlamentari non era stato fatto. Vogliamo parlare delle 5 candidature come capolista di Maria Elena Boschi e un collegio uninominale a Bolzano?”.

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 17 agosto 2022.  

Era inevitabile che, dopo la fine del "campo largo", la definizione delle liste si lasciasse dietro una scia di polemiche, personali e politiche. Nel Pd le esclusioni, o semi, di Lotti, Ceccanti e Cirinnà sono i tre casi che stanno facendo più discutere. Lotti, che non aveva aderito alla scissione di Italia viva, per l'evidente collegamento a Renzi. Ceccanti, costituzionalista che avrebbe potuto dare un contributo strategico nel dibattito sul presidenzialismo e le autonomie locali, anche perché gli elettori di Pisa dovranno passare da un cattolico moderato a un esponente della sinistra radicale, Fratoianni.

Cirinnà per l'incoerenza di un Pd che ha forti obiettivi in materia di diritti civili (ius scholae, matrimoni gay) e fa fuori la senatrice che ne è stata la paladina nella legislatura appena conclusa. Che Letta abbia agito con la bussola anti-renziana, in risposta, non solo alla fine del suo governo, ma con l'obiettivo della cancellazione o quasi dei renziani, è sicuro. E lo dimostra anche l'incerta candidatura di Marcucci, già giubilato da capogruppo al Senato, a Livorno. Per Lotti e Cirinnà avranno pesato pure gli strascichi giudiziari che li riguardano. Per Ceccanti la necessità di far posto ai nuovi alleati in liste necessariamente più corte dopo il taglio dei seggi di senatori e deputati.

Politicamente però è indubbio, come sottolinea l'ex ministro Fioroni, che la nuova collocazione del Pd risulti incerta: era contestata quella impropriamente giudicata sbilanciata al centro dopo l'accordo (fallito) con Calenda, lo è altrettanto quella delle intese con Sinistra Italiana e Europa Verde, sorretta anche da alcuni aspetti del programma come il no al nucleare e la scelta del sostegno a diritti civili poco digeribili per l'anima cattolica più moderata.

Quanto ai 5 stelle, spiccano le candidature, perfettamente legittime ma altrettanto opinabili, dei due ex magistrati, da poco andati in pensione, Cafiero de Raho e Scarpinato: ex procuratore nazionale antimafia il primo, ex procuratore generale nonché iniziatore dell'inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia finita in un diluvio di assoluzioni, il secondo. Quando si sentirà ripetere che una parte della magistratura è politicizzata, sarà difficile non ricordarsi di loro.

I candidati del Pd: dentro Crisanti, Cottarelli e Franceschini. Escluso Lotti, Cirinnà rifiuta la candidatura. YOUSSEF HASSAN HOLGADO il Domani il 16 agosto 2022

Le liste elettorali chiuse in una riunione a notte fonda. Letta: «Ho chiesto sacrifici. Mi è pesato tantissimo»

Un’intera giornata e tre rinvii. È stato il tempo necessario al Partito democratico per trovare l’intesa sulle candidature da presentare alle prossime elezioni del 25 settembre. La direzione del partito si sarebbe dovuta riunire in mattinata alle 11, ma era ancora troppo presto per stilare la lista dei nomi rinviata quindi alle 15, poi alle 20 e infine alle 21:30.

«Nessuna tensione, ma fisiologiche discussioni. Siamo un partito», avevano detto alcuni fonti del Pd alle agenzie stampa verso l’ora di pranzo. Alle 23 di ieri sera il segretario Enrico Letta è arrivato al Nazareno, con lui in riunione c’erano, tra gli altri, il ministro Dario Franceschini l’ex segretario Piero Fassino, e i sindaci di Roma e Firenze, Roberto Gualtieri e Dario Nardella.

In polemica Monica Cirinnà uscendo dalla sede del partito: «Non ho votato queste liste ma credo che anche altri rinunceranno». Attacca invece l’ex ministro dello Sport Luca Lotti, escluso tra i candidati: «La scelta è politica, non si nasconda nessuno dietro a scuse vigliacche», ha scritto in un post Facebook Lotti. «Il segretario del mio partito - continua - ha deciso di escludermi dalle liste per le prossime elezioni politiche. Mi ha comunicato la sua scelta spiegando che ci sono nomi di calibro superiore al mio. Confesso di non avere ben capito se si riferiva a quelli che fino a pochi mesi fa sputavano veleno contro il Pd e che oggi si ritrovano quasi per magia un posto sicuro nelle nostre liste. Non lo so. Ma così è».

I SACRIFICI DI LETTA

«Avrei voluto ricandidare tutti i parlamentari uscenti. Impossibile per il taglio dei parlamentari ma anche per esigenza di rinnovamento», ha detto Enrico Letta alla direzione del partito. «Ho chiesto personalmente sacrifici ad alcuni. Mi è pesato tantissimo. Quattro anni fa il metodo di chi faceva le liste era: faccio tutto da solo. Io ho cercato di comporre un equilibrio. Rispetto dei territori tra i criteri fondanti delle scelte», ha detto Letta che sarà candidato come capolista alla Camera in Lombardia e in Veneto. La delibera del partito alla fine è stata approvata con 3 voti contrari e 5 astenuti, ma secondo l’Ansa che cita fonti parlamentari gli esponenti della corrente di base riformista del Pd, una ventina circa, non hanno partecipato al voto e non rientrano neanche tra gli astenuti.

GLI ALTRI NOMI

L'economista Carlo Cottarelli, candidato con +Europa, sarà capolista al Senato a Milano, mentre il virologo Andrea Crisanti è capolista nella circoscrizione Europa. Tra i nomi letti dal coordinatore della segreteria Marco Meloni durante la riunione ci sono anche quelli di quattro giovani under 35. Due uomini e due donne. Sono i nomi di Rachele Scarpa, Cristina Cerroni, Raffaele La Regina e Marco Sarracino. Il ministro Dario Franceschini ha invece annunciato che sarà candidato come capolista del Pd a Napoli. «Cercherò di essere la voce al Senato di questa terra straordinaria, di questa città unica al mondo, da sempre e per sempre Capitale della Cultura».

LE DIFFICOLTÀ

Non è stata una riunione facile e i continui rinvii che hanno portato a chiudere la direzione verso la mezzanotte sono il segno esplicito di come per Letta non sia stato facile mediare tra le correnti. Tra i nomi in bilico c’erano quelli di Monica Cirinnà e Stefano Ceccanti. In serata Cirinnà aveva detto: «Non ho novità e non ho nulla di chiaro sul mio futuro. Io sono a disposizione del mio partito. Se i diritti sono un punto fondante del programma elettorale, senza di me mi pare complicato, ma per ora non ho novità». In serata invece la conferma: «La mia avventura parlamentare finisce qui, domani comunicherò la mia non accettazione della candidatura. Mi hanno proposto un collegio elettorale perdente in due sondaggi, sono territori inidonei ai miei temi e con un forte radicamento della destra. Evidentemente per il Pd si puo' andare in Parlamento senza di me, è una scelta legittima. Resto nel partito, sono una donna di sinistra ma per fortuna ho altri lavori». ha detto la senatrice Pd uscendo dalla direzione del partito.

Per il costituzionalista Stefano Ceccanti la questione appare simile, prima delle riunione aveva detto che il suo futuro era incerto. Ieri sera le agenzie avevano riportato la notizia che alla fine il suo nome comparirà tra i candidati nel proporzionale in Toscana, al quarto posto della lista. Ma poi è arrivata la smentita: «Leggo con stupore dalle agenzie che sarei candidato numero 4 al proporzionale a Firenze Pisa. La notizia è destituita di qualsiasi fondamento come ben sa il segretario Letta. Domani spiegherò nel dettaglio», ha detto Ceccanti.

UN FINE SETTIMANA INTENSO

Sabato mattina si era riunita la direzione del Pd per approvare il programma elettorale. Un programma che ruota attorno a tre pilastri: sviluppo sostenibile e transizione ecologica e digitale; lavoro conoscenza e giustizia sociale; diritti e cittadinanza.

Si tratta di una prima bozza e bisognerà attendere per il programma definitivo, che invece è già stato presentato dal centrodestra la scorsa settimana e dal Movimento Cinque stelle il 14 agosto.  

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Nomi, collegi e curiosità: ecco tutti i candidati in campo nel Pd. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Agosto 2022

Lotti e Ceccanti fuori dalle liste Pd: «Scelte politiche, niente scuse vigliacche». La Cirinnà ci ripensa, Un lungo audio in cui vengono letti tutti i nomi dei candidati del Partito Democratico per le prossime elezioni. Al termine della riunione di ieri sera, il PD ha reso note le candidature per la tornata elettorale del 25 settembre. Tra la rosa di nomi spiccano quelli di Fassino, di Michela Di Biase (moglie di Franceschini), Laura Boldrini, Pier Ferdinando Casini.

“Volevo ricandidare tutti gli uscenti ma era impossibile, quattro anni fa il metodo di chi faceva le liste era: ‘faccio tutto da solo’. Potevo imporre i miei, ma ho cercato di comporre un equilibrio, perché il partito è comunità”. L’annuncio del segretario dem Enrico Letta è arrivato al termine di una lunghissima giornata di confronto al Nazareno: la riunione della direzione del Partito Democratico, inizialmente convocata per le 11 di mattina di ieri, è slittata alle 21.30. Infine, iniziata dopo le 23, ha approvato la Delibera per votazione le liste per le elezioni politiche 2022 con 3 contrari e 5 astenuti.

I candidati del Pd

Il segretario dem, Enrico Letta, correrà da capolista alla Camera in Lombardia e Veneto. Carlo Cottarelli sarà invece capolista al Senato a Milano, mentre il virologo Andrea Crisanti sarà candidato capolista nella circoscrizione Europa. Quattro under 35 correranno da capolista: si tratta di Rachele Scarpa, Cristina Cerroni, Raffaele La Regina, Marco Sarracino. Nel plurinominale di Torino la capolista sarà l’esponente del Pd nazionale e parlamentare uscente, Deborah Serracchiani, seguita in seconda posizione dall’uscente deputato torinese Mauro Laus e in terza posizione dalla modenese Maria Cecilia Guerra, sottosegretario al Mef del governo Draghi e dirigente nazionale di Articolo 1. A seguire, in quarta posizione l’uscente Stefano Lepri.

Un lungo audio in cui vengono letti tutti i nomi dei candidati del Partito Democratico per le prossime elezioni. Al termine della riunione di ieri sera, il PD ha reso note le candidature per la tornata elettorale del 25 settembre. Tra la rosa di nomi spiccano quelli di Piero Fassino, di Michela Di Biase (moglie di Dario Franceschini), Laura Boldrini, Pier Ferdinando Casini.

 Tra i big “dem” esclusi Luca Lotti, che ha parlato di scelta “politica, non si nasconda nessuno dietro a scuse vigliacche“. Letta “mi ha comunicato la sua scelta spiegando che ci sono nomi di calibro superiore al mio – aggiunge –. Confesso di non avere ben capito se si riferiva a quelli che fino a pochi mesi fa sputavano veleno contro il Pd e che oggi si ritrovano quasi per magia un posto sicuro nelle nostre liste. Non lo so. Ma così è“.

Il senatore Luca Lotti grande “escluso” nelle liste del PD

Il parlamentare ritorna sulla sua scelta di non aderire alla scissione renziana: “Non ho condiviso la scelta di tanti amici nel 2019 di uscire dal Pd e anche grazie a quella decisione (mia e di Lorenzo Guerini che ringrazio per il lavoro da Ministro e per aver guidato con me i riformisti) il Partito democratico è rimasto presente in Parlamento dove, lo dicono i numeri, rischiava invece di sparire. Ecco perché fa male in queste ore ascoltare inutili polemiche e fake news sulle motivazioni della mia mancata ricandidatura“. E dichiara di voler restare nel Pd: “Anche quando alcune scelte sembrano più dettate dal rancore che dalla coerenza politica, mi troverete sempre dalla stessa parte. Dalla parte del Pd. Il Pd è casa mia. Lo sarà anche in futuro”.

La senatrice Monica Cirinnà ha invece annunciato il rifiuto della candidatura: “Mi hanno proposto un collegio elettorale perdente in due sondaggi, sono territori inidonei ai miei temi e con un forte radicamento della destra. Evidentemente per il Pd si può andare in Parlamento senza di me, è una scelta legittima. Resto nel partito, sono una donna di sinistra ma per fortuna ho altri lavori“. E ha concluso: “Non ho votato queste liste ma credo che anche altri rinunceranno“.

Alessia Morani, deputata del Pd, ha comunicato di aver “saputo quale fosse la mia posizione in lista solo al momento della lettura da parte di Marco Meloni dell’elenco dei candidati. Nei posti eleggibili per le Marche sono stati designati Alberto Losacco, commissario del Pd Marche, Irene Manzi e Augusto Curti. A mia insaputa, il mio partito ha deciso di assegnarmi il collegio uninominale di Pesaro e un terzo posto nel proporzionale”. Da qui, la decisione di non accettare la candidatura. “Ho comunicato al mio partito – annuncia – che non intendo accettare queste candidature. Avrò modo in seguito di spiegare le motivazioni che mi hanno convinta della bontà di questa scelta“.

Alessia Morani

Anche il segretario del Pd del Piemonte, Paolo Furia, ha fatto sapere che non sarà candidato “principalmente a causa del taglio dei parlamentari, che ha ridotto oggettivamente gli spazi di rappresentanza senza produrre alcun miglioramento nel funzionamento della democrazia“. “Non era semplice mettere in campo operazioni di rinnovamento in questa circostanza, anche se qualche bella eccezione c’è e andrà sostenuta con forza – ha sottolineato –. Per quanto mi riguarda, posso ritenermi soddisfatto e felice del grande sostegno territoriale che la mia ipotesi di candidatura ha suscitato“. 

 Camilla Sgambato, componente della direzione nazionale del Pd e già responsabile nazionale Scuola del partito ha dichiarato “Ho rifiutato la candidatura al secondo posto nella lista Pd, collegio proporzionale di Caserta/Benevento. Per la seconda volta, come avvenne già nel 2018, mi è stata proposta una candidatura in posizione non utile“. Lo dice . “Non mi sono mai sottratta alle battaglie politiche e al senso di responsabilità di chi vive in una comunità e ne rispetta regole e obiettivi – premette – ma a tutto c’è un limite“.

“Come avrete visto, non sono candidata al prossimo Parlamento. Proseguirò il mio impegno politico sul territorio, per continuare a cercare soluzioni che migliorino la vita delle persone, in particolare delle donne e dei giovani”. Così la senatrice Pd, Valeria Fedeli, in una nota. “E’ quello che ho sempre fatto, prima come sindacalista, poi nell’attività parlamentare e di governo. Ho trascorso quasi tutta la mia esperienza lavorativa in Cgil, iniziando a Milano in rappresentanza delle maestre d’asilo, poi nella funzione pubblica, a Roma, fino ad occuparmi di tessile e made in Italy anche a livello europeo“.

Enrico Gasbarra escluso dalle liste PD

Le candidature nel Lazio

Anche nelle circoscrizioni del Lazio saltano all’occhio alcuni esclusi eccellenti: il nome che spicca è quello di Enrico Gasbarra, dato in pole position nelle liste plurinominali, ma ad oggi escluso dalla formazione. Grandi assenti dalle liste anche egli assessori  uscenti della Regione Lazio, come Massimiliano Valeriani e Alessio D’Amato (quest’ultimo avrebbe però ritirato lui stesso la disponibilità). Nella circoscrizione Lazio 1 per la Camera, al plurinominale 01, il nome dato da settimane per certo era quello di Nicola Zingaretti capolista, e così è stato. La deputata Marianna Madia sarà  capolista nella Circoscrizione Lazio2, al plurinominale 01. Un’altra donna “dem” a guidare un plurinominale:  nella circoscrizione Lazio1,  capolista del collegio 02, ci sarà Michela Di Biase. Nel collegio plurinominale 03, per la Camera, troviamo capolista il deputato Claudio Mancini, esponente vicinissimo al sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Mentre nella circoscrizione Lazio 2 al plurinominale 02,  a guidare il listino dem, Matteo Orfini.

Per quanto riguarda il Senato la prima sorpresa, o delusione per alcuni, arriva dal collegio plurinominale 01 del Senato. Un collegio che infatti inizialmente era stato dato per certo, secondo fonti territoriali, alla senatrice Monica Cirinnà, Ci ripensa, invece, Monica Cirinnà, simbolo delle lotte per i diritti, la quale dopo avere annunciato la sua rinuncia in un primo momento ha accettato di correre in un collegio che lei stessa giudica molto difficile . Nessun colpo di scena per il collegio plurinominale 2 per il Senato: capolista infatti il segretario regionale del Partito, Bruno Astorre. La sorpresa arriva invece nel collegio uninominale 04, ambito e quasi dato per certo all’assessore della Regione Lazio Massimiliano Valeriani, è stato invece assegnato al deputato Roberto Morassut.

Claudio Stefanazzi e Michele Emiliano

Le candidature in Puglia

“La volontà di Letta e Boccia di ‘trasformare questo partito tradizionalmente maschilista in un partito femminista che dia spazio alle donne’ si è arenata con la sostituzione dei capigruppo Pd a Camera e Senato nel 2021. In Puglia, nessuna donna capolista. Nessuna vergogna?“. Lo scrive su Twitter il senatore Dario Stefano che alla vigilia di ferragosto ha annunciato il suo abbandono riconsegnando anche la tessera del Partito Democratico.

Il Pd in Puglia ha ceduto a Michele Emiliano. Quattro uomini, e nessuna donna a capo dei listini del plurinominale alla Camera. Salta la candidatura di Loredana Capone nel collegio di Lecce per far posto al braccio destro di Emiliano, e capo di gabinetto della Regione, Claudio Stefanazzi, dopo di lui c’è il nome dell’ex parlamentare brindisina Elisa Mariano ( Brindisi e Lecce sono un unico collegio). Nel collegio di Bari capolista il segretario regionale e il parlamentare uscente Marco Lacarra, a Taranto riconfermata la candidatura di Ubaldo Pagano (ex segretario provinciale del Pd a Bari) , a Foggia ha vinto il posto l’assessore regionale al Bilancio Raffaele Piemontese, che ha avuto la meglio sull’onorevole Michele Bordo. Alla presidente del consiglio regionale Loredana Capone è toccato il quarto posto al Senato, dove è capolista Francesco Boccia, commissario del Pd Puglia e responsabile nazionale Enti locali del Pd.

Nel listino del Senato dopo Boccia compare la napoletana Valeria Valente, segue Antonio Misiani, responsabile Economico del Pd e commissario di Taranto.  Valente e Misiani sono comunque candidati anche in altri collegi. La prima è schierata al plurinominale di Campania e al collegio uninominale di Napoli centro, considerato dal Pd “contendibile”, mentre Misiani è nell’uninominale di Milano Centro. Una battaglia piuttosto difficile per la democratica salentina, nonostante i buoni auspici del partito nazionale.

Nei prossimi quattro giorni saranno definite anche le candidature per i 15 collegi uninominali: 10 per la Camera e 5 per il Senato. Questi posti saranno divisi con gli alleati. Secondo un primo schema nell’uninominale di Lecce sarà schierato l’assessore regionale al Lavoro Sebastiano Leo, anche lui esponente “civico” che fa riferimento a Emiliano, nel collegio di Molfetta l’ex sindaco di Bitonto Michele Abbaticchio, sostenuto dal sindaco di Bari Antonio Decaro, che ha proposto anche la scienziata Luisa Torsi per il collegio di Bari,  sull’uninominale di Brindisi si sta discutendo della candidatura di Antonella Vincenti.

Gli alleati di Verdi e Sinistra italiana, puntano invece sull’assessora regionale all’Ambiente Anna Grazia Maraschio, che finirà anche lei in un collegio uninominale. Resta l’interrogativo sul collegio per Articolo Uno, che ha schierato l’epidemiologo, ex assessore regionale alla Salute Pierluigi Lopalco. Interrogativi che saranno sciolti nei prossimi giorni, infatti entro il 22 agosto dovranno essere consegnate le liste.

Zingaretti, Letta e Gualtieri alla Direzione nazionale del PD

“Ho chiesto personalmente sacrifici ad alcuni – dice il segretario Dem Enrico Letta – mi è pesato tantissimo. Quattro anni fa il metodo di chi faceva le liste era: faccio tutto da solo, io ho cercato di comporre un equilibrio e il rispetto dei territori è stato tra i criteri fondanti delle scelte. Termino questo esercizio con un profondo peso sul cuore per i tanti no che ho dovuto dire. Peso politico e umano. Ma la politica e’ questo: assumersi la responsabilità“. Redazione CdG 1947

Pd, il laboratorio Puglia tra veti su Tap, trivelle e alleanze con i grillini. Annarita Digiorgio il 20 Agosto 2022 su Il Giornale. Il "modello" Emiliano conquista il partito nazionale: spazio ai fedelissimi e decrescita

C'è un problema sulle liste Pd in Puglia. E non è solo il ricorso presentato da due consiglieri regionali dem, che lamentano l'assenza di parità di genere. Il problema è di linea politica, e riguarda tutto il Paese. Perché parte dalla regione approdo delle più importanti infrastrutture che in questi anni hanno lacerato letteralmente l'Italia.

Fosse stato per il Presidente Emiliano, i suoi consiglieri regionali, i sindaci del Pd, i suoi uomini disseminati in tutte le coalizioni e in tutte le partecipate, la Tap non si sarebbe mai fatta, e oggi avremmo 8 miliardi di metri cubi di gas in meno. È stato lui a boicottare le trivellazioni nel mar Adriatico e Ionio, che sono pieni di idrocarburi. È lui che ha presentato il ricorso contro il piano ambientale Ilva che, se accolto, la farebbe chiudere per sempre. È lui che ha festeggiato come una liberazione lo stop imposto dalla procura di Lecce all'eradicazione degli ulivi infetti da Xylella che ha causato la diffusione dell'epidemia e la distruzione di tutto il paesaggio, l'ambiente, la cultura e l'economia del Salento. Ma soprattutto è lui che prima di tutti ha aperto ai 5 stelle, non solo come alleanza politica ed elettorale, ma tematica, abbracciando, fomentando e cavalcando tutti i loro temi e le loro posizioni che in Puglia erano rappresentati da personaggi come Barbara Lezzi che voleva mettere gli asciugamani sul tap e Ciampolillo che abbracciava gli ulivi. E così quelle posizioni complottiste sono diventate patrimonio comune del Pd. Ma se finora dal governo centrale hanno fatto da argine alla deriva pugliese, da Renzi a Gentiloni a Draghi, impugnando sempre tutti i ricorsi di Emiliano, sbloccando per decreto i pareri negativi regionali persino alle rinnovabili, o decretando Ilva sito di interesse strategico nazionale cosi da togliere tutti i poteri alla regione, oggi invece Letta ha deciso di dare pieni poteri a Michele Emiliano. E infatti qualche giorno prima di chiudere le liste, Letta ha incontrato in una riunione di 4 ore al Nazareno la corrente pugliese del Pd: Emiliano e i suoi delfini Francesco Boccia e Antonio Decaro. In quella riunione Letta ha deciso di appaltare tutte le liste in Puglia al governatore pm, nonostante sia il Csm che la Corte Costituzionale gli abbiano vietato di prendere parte attiva in maniera continuata alla vita di partito (a proposito di chi attacca la Costituzione). E quindi Emiliano ha messo capolista tutti i suoi uomini, compreso il suo capo di gabinetto.

La cosa è ancora più grave considerando che in Puglia per i 5 stelle saranno capolista Giuseppe Conte alla Camera e il suo vice Mario Turco al Senato. Non ci sarà nessuno quindi a fare da contraltare alle politiche populiste e «decresciste».

Del resto lo stesso Emiliano, unico in tutta Italia a ringraziare Letta per le liste, ha subito commentato: «Grazie a Francesco Boccia abbiamo costruito pazientemente l'alleanza con il Movimento 5 stelle e il cambio di rotta del Pd sulle politiche di transizione ecologica, partecipando al referendum contro le trivelle e alla costruzione del progetto di decarbonizzazione dell'Ilva. Spero che il cammino al fianco dei 5 stelle possa ricominciare al più presto, anche grazie all'esperienza che stiamo vivendo insieme nel Governo della Puglia».

A questo punto l'unica speranza è che Emiliano dopo aver fatto le liste del Pd, non faccia anche quelle per il terzo polo. Proprio Renzi che ha deciso di iniziare la campagna elettorale a Melendugno, come simbolo della campagna anti tap condotta da Emiliano e i 5 stelle, si trova capolista Massimo Cassano, l'uomo messo da Emiliano a guida dei navigator regionali.

La mano pesante di Enrico Letta nelle liste Pd: correnti ridimensionate, fuori molti ex Ds. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 16 Agosto 2022. 

Il segretario punta ad aprire il partito e rischia di creare crepe all’interno: tra i volti esterni Cottarelli, Crisanti e l’eterno Casini. Fuori gli ex renziani, decapitata la corrente Orfini

Il segretario del Partito democratico, dopo la notte di scontri e tensioni per la composizione delle liste, mette le mani avanti: «Non ho fatto tutto io da solo». Ma è, appunto, un mettere le mani avanti rispetto a decisioni sofferte e alla scelta di ridurre il peso di alcune correnti: quella di Orfini è quasi scomparsa e tra gli ex Ds resistono una manciata di orlandiani e zingarettiani, con il rischio di esclusioni di peso come quella del sottosegretario Enzo Amendola candidato in Campania in una posizione per nulla sicura, anzi. In Campania saranno capolista i ministri Dario Franceschini al Senato e Roberto Speranza alla Camera, ma anche l’ex segretaria della Cgil Susanna Camusso (capolista nell’altro collegio Senato). Amendola è candidato dietro a Franceschini e la Valente, quindi terzo e in posizione molto in bilico.

I conti della serva li fa un vecchio volpone ex democristiano: dunque, su circa 100-110 eletti quasi sicuri (sondaggi alla mano chiaramente), «l’area del ministro Lorenzo Guerini, Base riformista, ne conferma 20, l’area Orlando una quindicina, l’area Franceschini una decina, più cinque zingarettiani, il totale fa 50». Il resto è tutto di area Letta o comunque scelto dal segretario per allargare il campo del partito, come ha sempre sostenuto: da qui i collegi blindati per l’eterno Pier Ferdinando Casini, oppure per la new entry, il virologo Andrea Crisanti, o l’ex segretaria della Cisl Annamaria Furlan.

Ma restano ferite aperte che sarà difficile rimarginare: l’area Base riformista non ha partecipato al voto in direzione per protesta contro l’esclusione dell’ex renziano Luca Lotti e di Alessia Morani. «Su Lotti siamo andati allo scontro, ma la Morani è stata un colpo basso, lo abbiamo appreso dalla lettura in direzione delle liste», dice un fedelissimo di Guerini. L’area di Matteo Orfini è stata di fatto decapitata: lui è stato candidato in un collegio secondario, anche se capolista, nel Lazio. Fuori invece i suoi due riferimenti in questi anni in Parlamento: Fausto Raciti, escluso in Sicilia, e Francesco Verducci. In Sicilia a esempio Raciti è stato messo alla porta anche per far posto ad Antonio Nicita, che non vive nell’Isola ma è uno dei riferimenti di Letta nella sua organizzazione politica: si candida al Senato dove era dato in pole il segretario regionale Anthony Barbagallo, che quindi ha tolto il posto a Raciti. Al Senato nel collegio Palermo candidata invece Annamaria Furlan, ex segretaria Cisl. Al Sud comunque Letta ha dato ampio spazio ai governatori Vincenzo De Luca (il figlio confermato capolista a Salerno) e Michele Emiliano, che piazza il suo capo di gabinetto (in questa regione, poi, non ci sono donne capolista).

Letta alla fine è andato dritto come un treno mettendo alla porta molti ex renziani comunque. Fuori anche chi si era costruito un certo appeal, come il costituzionalista Stefano Ceccanti o la deputata Giuditta Pini. Nei fatti ha messo quasi fuori anche la senatrice Monica Cirinnà (che comunque ha accettato la candidatura anche se non certa di elezione). Ma tutte le aree ne escono ridimensionate. Anche quella di Zingaretti, l’unica insieme a quella del ministro Andrea Orlando che raccoglie ancora l’anima degli ex Ds. Nel Lazio è saltata la candidatura di Enrico Gasbarra, insieme a quella degli assessori uscenti della Regione, come Massimiliano Valeriani e Alessio D’Amato. Saranno capolista alla Camera nei collegi del Lazio Nicola Zingaretti, Marianna Madia e Michela Di Biase, ma anche Claudio Mancini, esponente vicinissimo al sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Mentre nella circoscrizione Lazio 2 capolista sarà Matteo Orfini. Al Senato al posto della Cirinnà va Cecilia D’Elia, nell’altro collegio il segretario regionale del Partito, Bruno Astorre. Nell’uninominale contenibile va poi Roberto Morassut.

Per il resto non ci sono grandi novità, tra i nomi nuovi in gran parte vicini a Letta o scelti direttamente da lui, senza consultarsi molto con le altre correnti: come quello di Carlo Cottarelli, ex dirigente del Fondo monetario internazionale che lui definisce oggi un volto simbolo del Pd al Nord. Il problema, forse, è che mancano altri volti simbolo che parlino anche alla sinistra, ormai sempre più minoritaria dentro il Partito. 

Da liberoquotidiano.it il 16 Agosto 2022.

Cesare Damiano non le manda a dire. Ospite di Coffe Break su La7, l'ex ministro del Lavoro commenta le liste varate dal Pd. Le sue parole cercano di spiegare come sono andate le cose questa notte. La direzione dem è stata di fuoco. Proteste, veleni e accuse hanno accompagnato la lunga nottata di Letta. Alla fine è arrivata la candidatura di Andrea Crisanti, la rinuncia della Cirinnà e soprattutto l'esclusione di Luca Lotti.

L'ex fedelissimo di Renzi in un lungo sfogo ha puntato il dito contro Letta accusandolo di aver usato scuse vigliacche per comunicargli l'esclusione. E Cesare Damiamo ha voluto puntualizzare un aspetto: "Letta ha usato lo stesso metodo portato avanti da Renzi quando preparò le liste nel 2018. Io ad esempio in quella occasione rientravo tra gli esclusi. Ora è toccato a Lotti". 

Insomma tra le righe Damiano lascia intendere che è giunto il momento della vendetta. Insomma Lotti avrebbe ricevuto lo stesso trattamento che Damiano aveva avuto sotto la segreteria Renzi. Insomma a sinistra ormai è tutti contro tutti. 

Il taglio dei parlamentari per la prossima legislatura ha certamente acceso la corsa a un posto in lista. Ma nel Pd la guerra va avanti ormai da anni e il partito rischia di entrare in una fase di alta instabilità dopo il prevedibile flop del 25 settembre.

Attenti al partito dei pm. Riformare lo Stato è impossibile, da 30 anni i siluri dei Pm sulla politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Se il prossimo Parlamento e la maggioranza che governerà il Paese dopo le elezioni pensano a una riforma costituzionale, specie se radicale come l’introduzione del presidenzialismo, facciano attenzione al partito dei pubblici ministeri. Non tanto se pensano di ricorrere a un’assemblea costituente, come ha proposto l’ex pm Carlo Nordio e come ha sempre e invano sollecitato nel passato il presidente Francesco Cossiga. Ma se hanno in mente una Commissione Bicamerale.

Perché in questo caso bisognerebbe non aver più paura dei pubblici ministeri, e per la politica non è facile, neppure nel momento in cui il gradimento dei cittadini nei confronti dell’amministrazione della giustizia è sotto lo zero. Certo, la storia delle Bicamerali e delle loro tristi fini non conforta. Il paradosso è che pare quasi irrilevante quel che di volta in volta le commissioni hanno proposto al Parlamento. Tanto che si ha poca memoria delle modifiche di 44 articoli della Costituzione proposte dai quaranta membri della prima Bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi nel 1983. Perché quel che successe dopo, negli anni novanta, coincide con i giorni in cui il partito dei pm conquistò la propria Bastiglia. E allora cambiò tutto.

La seconda Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione era presieduta da un democristiano tosto, Ciriaco De Mita, uno che non abbandonerà più la politica fino ai suoi ultimi giorni, a 94 anni ancora sindaco della sua cittadina, Nusco. Siamo nel 1992, e non occorre aggiungere altro, per ricordare quel che stava succedendo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, e a cascata nelle procure di tutta Italia. I “dipietrini” crescevano come i funghi dopo la pioggia e i principali partiti di governo erano già in rotta. La Bicamerale lavorava con i suoi sessanta membri. Arriverà a 60 sedute complessive e proporrà, alla fine, la modifica di 22 articoli della Costituzione. Ma a lavoro terminato la presidente si chiamerà Nilde Iotti. Che cosa era successo? Il primo tempo ha l’immagine delle manette, quelle con cui fu portato in carcere Michele, fratello del più noto Ciriaco, arrestato all’interno di un’inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto in Irpinia. Ordinaria amministrazione, di quei tempi. Così come repentine furono le dimissioni di De Mita dalla presidenza della Bicamerale. Andava così, allora.

È istruttivo, oggi, a trent’anni da quei fatti, rileggere i verbali stenografici delle sedute della commissione, dopo quelle dimissioni e dopo che Mino Martinazzoli, segretario della Dc, propose che venissero respinte. L’ipocrisia si tagliava col coltello, in quella seduta del 3 marzo 1993. Tutti virtuosamente a dichiarare che se i figli non devono pagare le colpe dei padri, figuriamoci quelle dei fratelli. Però una vera difesa dell’innocentissimo Ciriaco che non era Michele, non ci fu, anche se alla fine le dimissioni furono respinte con grande maggioranza. Ma con l’assenza di Occhetto, La Malfa, Bossi, Segni, Pannella, Craxi. Cioè i principali leader. Ma il colpo di scena arriva alle otto di sera quando, con una telefonata al vicepresidente Augusto Barbera, De Mita confermerà le proprie dimissioni. “Irrevocabili”. Da quel momento su quella commissione che avrebbe dovuto traghettare verso la seconda repubblica, calerà un silenzio tombale.

Che cosa era successo in realtà in quei giorni lo racconterà De Mita stesso quattro anni dopo, rivelando di aver ricevuto un fax con le firme dei componenti il pool di Milano in cui il presidente veniva diffidato dal procedere alla separazione delle carriere dei magistrati, che in quei giorni si stava discutendo e che poi sparì dall’ordine del giorno insieme al presidente della commissione. Ricapitolando, dunque. Fase uno, arresto del fratello. Fase due, minaccia sulle riforme. Se non è ancora chiara la pericolosità delle Commissioni Bicamerali per la riforma della Costituzione, sarà bene ripassare il capitolo di quella che, pochi anni dopo, nel 1997 sarà presieduta da Massimo D’Alema. Provvederà il pubblico ministero del pool milanese Gherardo Colombo, con un’intervista al Corriere della sera, nella domenica 22 febbraio 1998, a lanciare il suo petardo: “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. La conclusione fu lapidaria: “La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto”.

Le inchieste di Mani Pulite erano teoricamente ormai alle spalle con la loro scia di suicidi. C’era il governo Prodi e il Pci-Pds era stato miracolato dalle procure. Ma penserà quell’intervista a ricordare “noi abbiamo appena inciso la superficie della crosta”, e che “La società del ricatto trova la sua forza, appunto, su ciò che non è stato scoperto”. Così finì che, dopo un iniziale sostegno anche da parte della stampa al guardasigilli Flick che iniziava l’azione disciplinare contro Colombo, alla fine sarà proprio il ministro la vittima sacrificale, il quinto su iniziativa degli uomini di Borrelli. E anche la terza Bicamerale perì, poco dopo. Attenzione, dunque. Non sarà un caso se da quel giorno di Bicamerali per la riforma costituzionale non si parlerà più fino ai giorni nostri.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

 

Le incostituzionali proposte di Fratelli d'Italia. Il programma della Meloni per la giustizia: in galera e via la chiave. Salvatore Curreri su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

«Vorrei una campagna elettorale nella quale le forze politiche si confrontano su idee, progetti e visioni del mondo». Così Giorgia Meloni. Giusto: anziché demonizzarla, prospettando veri o presunti pericoli fascisti, occorre analizzarne le proposte. E allora esaminiamoli i progetti di Fratelli d’Italia sul tema della giustizia. Ce ne offre il destro quanto ha dichiarato durante il confronto con il segretario del Pd: «In Italia da indagato sei colpevole, se sei condannato cominciano gli sconti. Sono garantista in fase di celebrazione del processo e giustizialista in fase di esecuzione. Per risolvere il sovraffollamento si sono cancellati i reati e diminuite le pene, invece di costruire carceri».

Tralasciando altre osservazioni (il sovraffollamento è anche la conseguenza di nuovi reati e maggiori pene), invero nulla di nuovo sotto il sole. L’8 giugno 2021 Fratelli d’Italia (prima firmataria la stessa Meloni) ha infatti depositato alla Camera un progetto di legge (n. 3154) per modificare l’art. 27 della Costituzione sulla funzione della pena, affinché la sua “esecuzione (…) tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. Si tratta di una proposta di legge costituzionale…incostituzionale perché se approvata, pur lasciando (furbescamente) intatto il principio per cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, gli toglierebbe l’attuale preminenza, affiancandogli, e quindi ponendo sullo stesso piano, l’esigenza di difendere la sicurezza dei cittadini dalla pericolosità sociale del condannato con cui andrebbe dunque contemperato ed equilibrato.

Quando i costituenti – alcuni dei quali avevano conosciuto il carcere – discussero della finalità della pena, convennero sulla cosiddetta teoria rieducativa. La pena, cioè, non deve avere una funzione prevalentemente vendicativa, perché “per il male dell’azione va inflitto il male della sofferenza” (Grozio), né intimidatoria, così da dissuadere il colpevole, e in generale l’intera comunità, dal commettere il reato, ma emendativa, nel senso che deve mirare non tanto alla conversione interiore o al riscatto morale del condannato quanto alla sua trasformazione da delinquente a soggetto pienamente reinserito nella società civile. Tali tre finalità della pena, dunque, non sono equivalenti (cosiddetta concezione polifunzionale) perché quella rieducativa non può mai essere sacrificata “sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (Corte cost. 149/2018) e la deve sempre caratterizzare “da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”, senza essere “ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario”. Tale conclusione non è contraddetta dall’uso del verbo “tendere” che vuole solo significare “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”, che quindi non può essere imposto (Corte cost. 313/1990).

Per avere un “volto costituzionale” la pena deve dunque essere: proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa; flessibile nel corso dell’esecuzione, anziché immodificabile. Non sconti per tutti, dunque, ma premi per chi dimostra la volontà di cambiare vita e reinserirsi nella società. Una pena, invece, che non riesce a promuovere e a valorizzare gli sforzi di riconciliazione e risocializzazione del condannato – quale quella che la proposta di Fratelli d’Italia prefigurerebbe in nome della difesa della sicurezza dei cittadini – non adempie alla sua funzione costituzionale. Ciò nella convinzione, sottesa all’art. 27 della Costituzione, che «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società» (C cost. 149/2018).

Sono principi di civiltà giuridica affermati anche a livello internazionale, ad esempio dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, secondo cui «anche gli individui responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e quindi la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società aderendo al sistema di valori condiviso [per cui] se si impedisse a costoro di coltivare la speranza di un riscatto dall’esperienza criminale che li ha consegnati alla pena perpetua, si finirebbe col negare un aspetto fondamentale della loro umanità, si violerebbe il principio della dignità umana e quindi li si sottoporrebbe ad un trattamento degradante» (9.7.2013 Vinter e altri c. Regno Unito). Affermare dunque nel testo della proposta che essa non sarebbe in contrasto con la Cedu è quantomeno temerario e azzardato.

In definitiva, nessuno è perduto per sempre perché «nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo» (H. Hesse). Per Costituzione, ogni condannato, nello scontare la pena, deve avere una speranza, un orizzonte, il diritto ad una seconda possibilità grazie a percorsi rieducativi individuali in grado di recuperarlo alla società. La pena, allora, «non è il male per il male, ma la limitazione della personalità è finalizzata ad una ragione superiore, che è la cancellazione del male stesso» (Aldo Moro). Conosco l’obiezione e la prevengo: il solito buonismo, infarcito di perdonismo da parte di chi vive nelle ZTL e sconosce le condizioni d’insicurezza delle periferie della città. Ora, a parte che i dati dimostrano che da dieci anni i reati più comuni (rapine, furti, borseggi, omicidi…) sono in calo (il che dimostra come qualcuno strumentalmente soffi sulla paura delle persone…), rieducare il condannato e favorirne il reinserimento sociale non è solo un obbligo morale (oserei ricordare “cristiano” a chi ama circondarsi di madonne…) ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento per assicurare la sicurezza sociale.

Difatti, è statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non tendono a fuggire (con conseguenti minori costi di gestione) e, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa un minore tasso di recidività, che vuol dire più (vera) sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Al contrario, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. In tempi di “populismo penale” (Fiandaca) è facile raccogliere i consensi per chi considera il carcere come una “discarica sociale”, anziché comunità di rieducazione, un “cimitero dei vivi” (Turati), popolato da condannati per i quali si deve “buttare la chiave” perché devono “marcire sino all’ultimo giorno in galera” giustappunto in nome della sicurezza dei cittadini. Peccato che si tratti di soluzioni semplici e alla lunga contraddittorie (la stessa contraddittorietà di chi in nome della sicurezza dei cittadini vietava l’iscrizione anagrafica degli stranieri, impedendone così il controllo da parte dell’autorità pubblica).

Una settimana fa, nel silenzio quasi generale, un uomo di 44 anni, segnalato più volte per disturbi psichici, si è suicidato nel carcere di Caltagirone dove era stato rinchiuso per aver rubato un portafogli subito restituito. Nel mese di agosto i suicidi sono stati 15. Nel 2022 (finora) 59, cui vanno aggiunti 1078 tentativi, già superiori ai 57 nel 2021, di cui 5 agenti di polizia penitenziaria (v. il dossier curato dall’associazione Antigone). E da tempo ci si uccide molto di più in carcere che fuori. Allora, parafrasando Voltaire, se vogliamo capire che idea di giustizia (e forse della dignità umana) ha Fratelli d’Italia e, temo, l’intero centrodestra, chiediamoci che idea abbiano delle carceri, di come secondo loro ci debba vivere (e morire) la gente in nome di una pretesa asserita tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Solo così potremmo non lasciarci convincere da chi punta per calcoli elettorali sul rumore dell’albero quando cade, approfittando del silenzio quando invece cresce. Salvatore Curreri

Dai 5Stelle a Fdi, quando il carcere è feroce giustizialismo. Nei programmi elettorali è diversa l’attenzione all’universo carcerario: per la Lega servono più agenti e carceri. Terzo polo, Pd, Europa verde-Si e +Europa hanno proposte differenziate ma con una matrice progressista. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 13 settembre 2022.

L’ex magistrato Roberto Scarpinato, candidato del Movimento Cinque Stelle, recentemente ha affermato: «Il carcere in Italia non sarà mai civile fino a quando i colletti bianchi non cominceranno a esserne ospiti». Dire che il grave problema penitenziario che attanaglia il nostro Paese è dovuto dalla poca presenza dei “colletti bianchi” ristretti, è sicuramente funzionale agli slogan elettorali, ma non è utile alla risoluzione del problema. Purtroppo non possiamo sapere quale sia la soluzione proposta dai grillini, anche perché – a differenza di tanti altri partiti – nel programma elettorale non se ne fa alcun cenno. Così come per il tema della riforma della giustizia, anche per quanto riguarda il carcere bisogna applicare un rigore scientifico. Troppo spesso – basti pensare alle rivolte carcerarie dove si è tirato fuori il teorema (sconfessato dalla commissione istituita dal Dap) della regia occulta – emergono visioni paranoiche della Storia che causano arretramenti culturali, non offrono soluzioni ai problemi e si rischia di essere funzionali allo Stato di polizia.

Fake news e teorie del complotto possono avere facile presa

Senza uno scrupolo scientifico dei fatti, inevitabilmente fa presa il “fantasma della memoria” che viene evocato attraverso suggestioni, immagini, suoni, parole. All’interno di spazi televisivi e convegni, come di consueto, avviene un’alchimia insieme modernissima e arcaica dove si evoca il passato per ottenere lumi sull’attualità e vaticini sul futuro, accostando – senza rigore alcuno – situazioni, personaggi, ipotesi stralunate, affermazioni presentate come fatti ma non verificate, “fake news”, leggende metropolitane, miti ingannevoli, post verità, teorie del complotto. Tutto ciò annulla il pensiero, il livello del dibattito pubblico si abbassa sempre di più e inevitabilmente ne risente anche la classe politica che teme di portare avanti qualsiasi riforma innovatrice. Lo abbiamo visto con la Riforma Orlando sull’ordinamento penitenziario, quando non si è avuto coraggio di approvare i vari punti innovativi come la modifica del 4 bis (l’ostatività ai benefici per alcuni reati) e renderci più vicini al dettato costituzionale. E infatti appare singolare evocare la Costituzione italiana, ma quando si vuole apporre riforme che seguono il solco tracciato dai padri costituenti, si fa una acerrima opposizione.

2022: l’annus horribilis delle carceri italiane

Ma ritorniamo al problema penitenziario. Questo 2022 è un anno caratterizzato dai numerosi suicidi, sovraffollamento, problemi sanitari, detenzioni degradanti. Tante, troppe morti potevano essere evitate. C’è un numero altissimo di detenuti reclusi per una pena breve. L’ultima relazione annuale del Garante Nazionale parla di ben 1319 presenze per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni. La risposta sarebbe quella di sbattere in galera più “colletti bianchi” possibili, oppure dare strumenti maggiori a quei detenuti, magari della fascia più debole della società, per ottenere misure alternative alla detenzione? Quando si è provato a farlo, i titoli di taluni giornali come il Fatto Quotidiano o La Verità, sono stati: “Vogliono scarcerare i delinquenti!”. E puntualmente, per ricevere ancora più consenso dalla fascia più giustizialista, parlano di leggi che rendono impuniti i colletti bianchi. La retorica della giustizia classista, di fatto, rende ancora più feroce il classismo. E in nome dell’impunità dei colletti bianchi, sono state varate riforme come “lo spazzacorrotti” che per un mini peculato, trattano come se fossero dei boss, i dipendenti della pubblica amministrazione. Sì, perché per fare una legge ancora più feroce, alla fine sono sempre gli ultimi della catena a pagarne le conseguenze.

Da un mese Rita Bernardini è in sciopero della fame

Da quasi un mese è in sciopero della fame Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, per chiedere un intervento da parte del ministero della Giustizia. Ci sono state adesioni trasversali, ma oggi più che mai, ritorna a fare da padrone la lotta all’ “impunitismo”, ovvero quel populismo giudiziario che ha creato e sta tuttora creando una profonda ingiustizia. In nome di quella lotta, ci rimettono gli ultimi che affollano le nostre patrie galere. Com’è detto, il Movimento Cinque Stelle non fa alcun cenno al carcere nel suo programma elettorale, così come Fratelli d’Italia. Parliamo, secondo i sondaggi, del primo partito e quindi sarebbe utile capire la loro posizione. Un indizio però l’abbiamo avuto recentemente quando Giorgia Meloni ha addirittura proposto di modificare l’articolo 27 della nostra Costituzione. Nel centrodestra solo la Lega ha menzionato il problema nel programma, ma promettendo «una riforma dell’ordinamento penitenziario che garantisca piena dignità al detenuto e sicurezza nelle carceri». Come? Attraverso assunzioni tra le fila della Polizia penitenziaria e la costruzione di nuovi istituti penitenziari, moderni e vivibili. La classica risposta di destra, che è molto simile al vecchio programma grillino. Non è un caso che durante il governo Conte 1, il tema penitenziario è stato quello dove trovarono più sintonia.

Per il Terzo polo serve una riforma nel rispetto della Costituzione

Il programma del Terzo polo, quello redatto da Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi, ha invece affrontato il problema con un indirizzo progressista: ovvero la promozione di una riforma del sistema penitenziario che garantisca «il rispetto del principio della finalità educativa della pena, coerentemente con quanto previsto dalla Costituzione». Tra le misure proposte c’è un intervento sulla normativa della custodia cautelare, per evitare un abuso del sistema dal momento che oggi un terzo dei detenuti si trova in carcere pur senza condanna definitiva. Inoltre viene prospettata un’incentivazione nel ricorso alle pene alternative, così da ridurre la pressione sulle carceri, interventi di edilizia carceraria e una nuova legge sulle detenute madri che fermi la pratica dei bambini in carcere.

Giustizia riparativa e misure deflattive da valorizzare per il Pd

Nel centrosinistra primeggia il Partito Democratico che ha dedicato un capitolo sostanzioso sul tema carcere, proponendo di valorizzare (e va dato atto che la guardasigilli Marta Cartabia ne ha fatto un cavallo di battaglia) gli strumenti di giustizia riparativa anche per «superare l’impostazione di un sistema penale incentrato prevalentemente sul carcere». Parla anche di rendere strutturali le misure emergenziali applicate durante l’emergenza Covid-19, quelle che hanno contribuito a una – seppur minima – deflazione della popolazione carceraria. Importante anche il tema della valorizzazione del lavoro, coinvolgendo imprenditori responsabili nei percorsi formativi e alleggerire la burocrazia penitenziaria.

+Europa dedica ampio spazio alla questione penitenziaria

Anche Europa verde-Sinistra italiana affronta il tema penitenziario nel suo programma elettorale, recependo le indicazioni elaborate dall’associazione Antigone. Si punta molto sulla modifica della legge sulla droga e la cancellazione della Bossi-Fini, la norma che criminalizza e produce la cosiddetta “clandestinità” con la conseguenza di creare “devianze” e quindi più incarcerazioni. Inoltre chiedono la riduzione della custodia cautelare e la possibilità di avere un telefono per ogni cella. Questione importate, ben evidenziata da Antigone per ridurre l’isolamento del detenuto dai propri affetti: fondamentale per evitare malesseri esistenziali che portano anche al suicidio. Ovviamente anche il partito di +Europa dedica ampio spazio alla questione penitenziaria, attraverso proposte simili a quelle appena elencate. In più dedica attenzione sul trattamento psichico (ricordiamo la proposta di legge a firma di Riccardo Magi sull’abolizione del cosiddetto doppio binario) e il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Temi tutti volti all’affermazione della Costituzione Italiana. Sì perché non basta evocarla strumentalmente, ma bisogna poi passare a proposte concrete.

Processo inquisitorio e manette facili: criminale è questa politica giustizialista. Giovanni Varriale su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Pochi giorni fa il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame preliminare, un decreto legislativo di attuazione della Legge delega di riforma del processo penale che ha l’arduo obiettivo di ridurre i tempi dei processi penali e tentare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Infatti, come emerso chiaramente dai dati del 2021 e dell’inizio del 2022, il numero di detenuti in carcere ancora in attesa di giudizio è sempre in aumento.

Tale dato è assolutamente in contrasto non solo con i principi costituzionali ma anche con le stesse disposizioni del codice di procedura penale che stabilisce come la custodia cautelare in carcere vada applicata quale extrema ratio. Ebbene, risulta singolare, analizzando attentamente i dati forniti, non solo come spesso e volentieri tali misure vengano applicate per reati di minore allarme sociale ma anche come vengano applicate a soggetti in attesa di giudizio e quindi, in ossequio al principio di non colpevolezza, potenzialmente innocenti. Tale modus agendi è evidentemente frutto di una politica criminale sempre più giustizialista ma assolutamente contro producente per lo Stato che vede, per altro, sempre in aumento i risarcimenti per ingiusta detenzione.

È evidente come tale politica criminale sia figlia di un retaggio cultural – popolare secondo cui un indagato è sicuramente colpevole prima ancora che sia fissata la prima udienza dibattimentale. Siamo tornati, quindi, secondo quanto riportato dai mass media, ad un processo penale di tipo inquisitorio. Ebbene è chiaro come ciò sia in completa antitesi con il modello accusatorio del processo penale che si fonda sul principio di non colpevolezza e sul rispetto dei diritti umani sanciti non solo dalla carta costituzionale ma anche dal Legislatore sovranazionale. In quest’ottica ed in applicazione di tale malsana politica, si innesca quale naturale conseguenza, il sovraffollamento delle carceri che si trovano ad ospitare un numero eccessivo di detenuti rispetto alla capienza massima prevista, per altro, in strutture fatiscenti, gelate d’inverno e roventi d’estate.

Ebbene, i detenuti sono costretti a condividere anche in nove celle adibite ad un massimo di cinque o sei persone; gli educatori sono pochi rispetto al numero di detenuti; gli spazi comuni non sono sufficienti, o addirittura inesistenti; in alcuni casi le docce possono essere utilizzate solo due volte a settimana. Appare chiaro come in un contesto del genere non solo il detenuto in custodia cautelare dichiarato innocente e scarcerato perderà fiducia nelle istituzioni, ma quello dichiarato colpevole non riuscirà ad intraprendere un percorso rieducativo così come richiesto dalla nostra carta costituzionale.

In tale contesto applicare la misura cautelare in carcere per un soggetto in attesa di giudizio per un reato di non particolare allarme sociale, nei casi in cui le esigenze cautelare potrebbero essere soddisfatti con, ad esempio, la misura degli arresti domiciliari, non solo viola le norme costituzionali e del codice di procedura penale, ma è sintomo di non conoscenza del contesto carcerario che può in questi casi soltanto peggiorare le cose. Sarebbe quindi auspicabile una riforma integrale dell’ordinamento penitenziario, una riforma strutturale delle case circondariali ed un utilizzo più moderato della misura cautelare in carcere.

Certamente il percorso intrapreso con la riforma Cartabia è promettente, ma è necessario ed assolutamente urgente che si intervenga sia sul tema dell’eccesivo utilizzo delle misure carcerarie sia, soprattutto, sulle condizioni di vita dei detenuti. Infatti, già la sola privazione della libertà rappresenta di per sé una grandissima limitazione ma se tale restrizione diventa inumana, se il detenuto viene privato dei propri affetti e della propria privacy, così come spesso accade nelle carceri italiane, significa privare i detenuti della speranza per un futuro migliore e quindi neutralizzare definitivamente lo scopo rieducativo della pena che verrebbe ad essere nuovamente una mera punizione. Giovanni Varriale

DAGONEWS il 19 agosto 2022.

Chiamatelo Fattore DR, dove D e R sono le iniziali di David Rossi. I due deputati che più si sono spesi nella scorsa legislatura per indagare sulla misteriosa morte del manager di MPS, sono stati fatti fuori dai loro partiti.

Si tratta di Luca Migliorino, deputato del Movimento 5 Stelle, vicepresidente della Commissione d’inchiesta ad hoc sulla vicenda, e Carmelo Miceli, onorevole del PD e avvocato della famiglia di David Rossi.

Migliorino è risultato il più votato alle parlamentarie farlocche indette da Conte, ma poi Peppiniello l’ha fatto fuori per far posto al suo “pulcino” Riccardo Ricciardi, nel collegio Toscana 2 (Ricciardi è capolista anche nella circoscrizione Toscana 1). Migliorino è slittato al terzo posto, praticamente ineleggibile: prima di lui l’ex avvocato del popolo ha messo anche la consigliera comunale di Livorno, Stella Sorgente.

E Miceli? Enrico Letta, eletto a Siena, non avrebbe gradito il suo ruolo come avvocato: del resto, ha contribuito a sbugiardare i misteri e le magagne del sistema di potere del “Babbo Monte”. E quindi, ha deciso di mettere prima di lui, anche nel suo collegio (Palermo), il prode Beppe Provenzano, e Teresa Piccione, che alle amministrative di un mese fa ha preso meno voti di Miceli

Estratto dell’articolo di Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2022.

[…] Carmelo Miceli dsciplinatamente aveva risposto all’invito di Letta e si era candidato alle Comunali di Palermo risultando il primo degli eletti. Ora niente riconoscenza. Al suo posto entreranno Antonio Nicita (solida famiglia andreottiana, cugino della Prestigiacomo) e Annamaria Furlan, ex Cisl, altra “parà”. La colpa di Miceli? Per esempio, sussurrano maliziosamente nel Pd, quella di essere l’avvocato dei familiari di David Rossi e, quindi, di aver messo il naso dove non doveva: fatti dem-senesi (collegio Letta). In Puglia non ci sono donne capolista. L’unica in corsa (Loredana Capone) ha dovuto cedere il posto a Claudio Stefanazzi, che è il capo di gabinetto di Raffaele Emiliano, il presidente della Regione.

Entrambi candidati in posizioni ineleggibili. Morte David Rossi, Pd e 5 Stelle ‘fanno fuori’ Miceli e Migliorino: i 2 deputati che cercano la verità su Mps. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

A insinuare il dubbio è il sempre ben informato Dagospia. Dietro due candidature di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle c’è il fattore DR? Lettere che stanno per le iniziali di David Rossi, capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena morto in circostanze misteriose il 6 marzo 2013 e che ad oggi è ufficialmente trattato come suicidio tra i dubbi dei familiari, e non solo.

Guardando infatti alla composizione delle liste dei partiti guidati da Enrico Letta e Giuseppe Conte, si nota come i due deputati che nella scorsa legislatura si sono mossi maggiormente per indagare sulla morte misteriosa del manager Mps sono stati piazzati in posizioni che impediscono di fatto una rielezione. 

Da una parte c’è Luca Migliorino, deputato del Movimento 5 Stelle, vicepresidente della Commissione d’inchiesta ad hoc sulla vicenda, dall’altra il siciliano Carmelo Miceli, onorevole del PD e avvocato della famiglia di David Rossi.

Il primo è stato il più votato nelle Parlamentarie in Toscana, eppure è stato scavalcato non solo dal fedelissimo di Conte Riccardo Ricciardi, piazzato come capolista nei collegi plurinominali Toscana 1 e Toscana 2 della Camera, ma anche da Stella Sorgente, consigliera comunale di Livorno che aveva ottenuto 489 voti nella consultazione online sulla piattaforma SkyVote. Per Migliorino le chance di essere eletto sono pari a zero, in pratica. 

Ancora più ‘delicata’ la questione riguardante Miceli. Il sospetto avanzato da Dagospia è che l’attivismo del deputato siciliano, anche in virtù del suo ruolo di avvocato della famiglia Rossi, non sia piaciuto al Nazareno, col Partito Democratico ‘erede’ di quel Pci e Ds poi da sempre dentro il sistema di potere di Mps. Miceli dunque si è dovuto accontentare del terzo posto nel collegio di Palermo, dietro all’ex ministro Peppe Provenzano e a Teresa Piccione, che alle amministrative di Palermo di un mese fa ha preso meno voti di Miceli, risultato il primo degli eletti.

Lo stesso Miceli ha commentato con amarezza la decisione presa dalla direzione nazionale del partito: “Come capitato a tanti altri colleghi parlamentari e non, ho appreso della mia posizione in lista durante la direzione. Per chi ancora non lo sapesse, è una posizione ‘non eleggibile’. Leggendo i giornali, coloro che si trovano nella mia stessa condizione stanno comunicando la loro volontà di non accettare Io, invece, accetterò la candidatura, anche se ‘di servizio’”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

La purga dei dem radicali su garantisti e renziani.  Fuori Lotti, Morani, Pittella, in bilico Marcucci. In campo Gentiloni per "salvare" Amendola. Pasquale Napolitano il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni sta provando con tutte le armi a ripescare in posizione utile l'ex sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola. Il sottosegretario che ha seguito il dossier Pnrr è stato piazzato al numero tre al Senato in Campania (collegio di Napoli) dietro Dario Franceschini, che guiderà la lista, e Valeria Valente, senatrice uscente che sarà candidata anche nell'uninominale di Napoli città.

Per Amendola la sfida è proibitiva: si profila una trombatura bis dopo quella del 2018. Gentiloni è al lavoro per far salire di posizione Amendola, nome molto gradito anche dalle parti del Colle. Nelle liste del Pd, votata dalla direzione nazionale nella notte di Ferragosto, emerge il nuovo corso lettiano: fuori i garantisti. Dentro la sinistra radicale, che va da Laura Boldrini ad Alessandro Zan. A liste chiuse, il segretario versa le lacrime di coccodrillo: «Avrei voluto candidarvi tutti». Il nome che fa più rumore è sicuramente quello del napoletano Amendola che sta valutando la rinuncia. L'elenco dei trombati e semi-trombati è lunghissimo. Sul Nazareno piomba la rabbia degli esclusi. Ma soprattutto sono in tanti a sfilarsi comunicando ai vertici dem le rinunce. La capogruppo in commissione Cultura della Camera Rosa Maria Di Giorgi, esclusa dalle liste, medita l'addio. Nel Lazio la notte dei lunghi coltelli lascia sul tappeto Monica Cirinnà, la senatrice dell'unioni civili (all'epoca di Matteo Renzi) travasa bile: «Mi hanno proposto un collegio elettorale perdente in due sondaggi, sono territori inidonei ai miei temi e con un forte radicamento della destra. Evidentemente per il Pd si può andare in Parlamento senza di me, è una scelta legittima. Resto nel partito, sono una donna di sinistra ma per fortuna ho altri lavori». La senatrice uscente si infuria e annuncia il ritiro. Nel pomeriggio ci ripensa e accetta la candidatura nell'uninominale Roma 4: «Ho ricevuto uno schiaffo. Solo grazie ai tanti messaggi ricevuti ho deciso di correre lo stesso, anche se le possibilità di vittoria saranno minime». Il leader del Pd candida capolista in Veneto Alessandro Zan. Altri due big dem sono a rischio rielezione nel Lazio: Filippo Sensi, ex portavoce di Matteo Renzi, piazzato nel listino al proporzionale in posizione non utile, e Roberto Morassut. Scatta la tagliola per due parlamentari garantisti che hanno sposato la battaglia sui referendum: il senatore Gianni Pittella e il collega Salvatore Margiotta.

Marcello Pittella, fratello del senatore trombato ed ex presidente della Regione Basilicata, in un tweet, attacca: «Un delitto perfetto, sono calpestati i diritti, principi, territorio, storia e democrazia. Nella vita ci vuol dignità». Tra i garantisti salta anche la testa di Stefano Ceccanti, fuori dalle liste. In Toscana, Letta premia Laura Boldrini e mette fuori Luca Lotti che protesta: «Il segretario del mio partito ha deciso di escludermi dalle liste per le prossime elezioni politiche. Mi ha comunicato la sua scelta spiegando che ci sono nomi di calibro superiore al mio. La scelta è politica, non si nasconda nessuno dietro a scuse vigliacche». Sempre in Toscana è in bilico la rielezione di Andrea Marcucci, ex capogruppo dem al Senato: «Sarò candidato del Pd nel collegio uninominale del Senato Viareggio-Pisa-Livorno. Inizierò la mia campagna elettorale con spirito di servizio, per un'Italia capace, coraggiosa, libera e solidale. La sfida che mi attende è complessa ed entusiasmante». Alla Camera nello stesso collegio correrà Andrea Romano. Emanuele Fiano correrà a Milano nell'uninominale. «Collegio difficile ma accetto sfida», commenta il dem. Mentre Alessia Morani, piazzata in posizione non utile nelle Marche, si tira fuori: «Rinuncio». E se ne va anche Federico Conte, parlamentare uscente di Leu candidato al numero due al Senato in Campania dietro Susanna Camusso. Letta dovrà ora rimettere mano alle liste. 

Il solito vizio della sinistra: arruola toghe e tifa manette. Della questione giustizia, e della sua anomalia, dopo il fallimento del referendum di qualche mese fa, nessuno vuole parlare. Marco Gervasoni il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

Della questione giustizia, e della sua anomalia, dopo il fallimento del referendum di qualche mese fa, nessuno vuole parlare. Eppure, come il convitato di pietra, essa si ripresenta. Tanto per cambiare nella sinistra. Conte, infatti, candida alle parlamentarie un gran numero di magistrati. In quanto cittadini, essi detengono il diritto all'elettorato passivo, ma in nessun paese democratico, salvo forse qualche Stato sudamericano, risulta un così elevato numero di giudici attivi in politica, come in Italia. Quando una categoria importante di funzionari è così presente nella sfera pubblica, il problema si deve porre, almeno da un punto di vista di sociologia politica. E se non è una grande novità (alzi la mano chi non ha mai candidato magistrati), lo è ora per i 5 stelle. Che sono sempre stati iper giustizialisti, anzi diremmo ferocemente manettari, ma mai avevano candidato dei pubblici ministeri. Benché ora siano diventati più pacati, le loro posizioni sulla giustizia sono rimaste conservatrici. Se non possiamo più definirli manettari, come ai tempi di Di Battista, certo ora i grillini sembrano un partito dei giudici, o almeno di una loro parte. Il Pd, stavolta, non ne ha candidati. Ma che sia animato da una visione profondamente giustizialista, lo vediamo da alcune esclusioni eccellenti: Luca Lotti, espulso dalle liste non tanto in quanto renziano, quanto perché rinviato a giudizio per l'inchiesta Open, come indirettamente ha ammesso lui stesso. E, crediamo la stessa ragione vi sia dietro l'esclusione dell'ex presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella. Il quale, dopo tre anni di calvario giudiziario, che lo costrinse a dimettersi, lo scorso anno è stato prosciolto da tutte le accuse. Prosciolto uguale innocente? Sì, esattamente come un rinviato a giudizio. Innocente fino a prova contraria. Ma nel Pd sembrano ragionare al contrario: il rinviato a giudizio sembra essere un presunto colpevole e il prosciolto un reo che l'ha fatta franca. Da un lato i 5 stelle, un partito carico di pm, dall'altro un Pd ritornato pienamente giustizialista: non sarà che, dovessero perdere le elezioni, invece di condurre un'opposizione nel merito, essi cominceranno ad agitare eventuali vicende giudiziarie contro il governo? La favola di Esopo ci spiega che la natura dello scorpione non cambia: punge a morte la rana. Aspettiamoci perciò di assistere ancora a lungo all'anomalia della giustizia. A meno che un governo di centrodestra non voglia finalmente risolverla.

Le toghe rosse e gialle di nuovo nelle liste, FdI: «Serve una commissione d’inchiesta». Redazione il 18 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia. 

Le toghe rosse (e gialle) tornano inesorabilmente nelle liste. Negli ultimi anni sono stati candidati dalla sinistra due ex magistrati di peso come Pietro Grasso e Franco Roberti. Entrambi prima al vertice della Dna e poi andati in pensione. Grasso era già stato giudice estensore della sentenza del maxi processo a Cosa Nostra, poi parlamentare del Pd e poi presidente del Senato, infine fu eletto cinque anni fa con Leu. Non compare, almeno per il momento, nelle liste del Pd. Anche Roberti era stato procuratore nazionale prima di essere, nel 2019, eletto europarlamentare del Pd. Ora è il Movimento cinquestelle a puntare sui magistrati, candidando nel listino bloccato di Conte, Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato. Ex procuratori Antimafia, in passato alla guida uno della Procura di Napoli prima e della Dna poi, e l’altro della Procura generale di Palermo.

Toghe, FdI: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio»

«Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ed ecco che la sinistra ripropone nelle proprie liste i nomi di importanti magistrati in pensione. Altro che terzietà della giustizia. Il M5S, in particolare, ha una vera e propria passione. Nel loro listino, infatti, ci sono due importanti ex magistrati, Roberto Scarpinato e Cafiero De Raho. Ho già proposto una commissione d’inchiesta che verificasse il ruolo di potenti magistrati poi passati nelle file del Pd. Dopo questa ulteriore vicenda, sarà assolutamente necessaria». Lo dichiara il Questore della Camera e deputato di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli.

Magistrati che entrano nelle liste, sì alla commissione  d’inchiesta

«Circa un mese fa», chiarisce Cirielli, «ho proposto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle indagini contro il Pdl avvenute nel periodo in cui ero presidente della Provincia di Salerno e Franco Roberti, ex assessore regionale di De Luca e ora eurodeputato del Pd, era procuratore del tribunale di Salerno. Indagini che hanno portato decine di persone a essere indagate, perquisite e perfino arrestate. Tutte inchieste per lo più finite archiviate in istruttoria o comunque nel nulla, con assoluzioni in tutti i gradi di giudizio. Ma che hanno indirettamente e oggettivamente avvantaggiato De Luca alla conquista della Regione nel 2015,perché disarticolarono e delegittimarono in quegli anni, nel salernitano, dove l’attuale governatore sbancò, il centrodestra».

Il “salto evolutivo” dei 5Stelle: portano i pm in Parlamento. Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato sono i frontman non ufficiali del Movimento di Conte: il mito fondatore del grillismo rimane il legalitarismo esasperato. Davide Varì su Il Dubbio il 17 agosto 2022.

L’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho e l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, due fior di magistrati, sono i simboli, i frontman non ufficiali del Movimento 5Stelle di Conte. Insomma, chi immaginava, si augurava, sperava in una svolta post Di Maio, Taverna e Dibba, deve essere rimasto assai deluso.

Ancora una volta i grillini si presentano come i campioni del populismo penale condito con la solita spruzzatina di temi sociali e qualche citazione di Mao buttata lì da Conte tanto per provare a vedere l’effetto che fa: hai visto mai che qualcuno a sinistra ci casca e magari dimentica il piccolo particolare che Conte, proprio lui, da ex premier firmò i decreti sicurezza di Salvini, quelli dei respingimenti in mare? Insomma, il mito fondatore del grillismo rimane il legalitarismo esasperato che diventa sempre più visione punitiva della giustizia.

E per far ciò ora il Movimento si affida per la prima volta direttamente ai magistrati ai quali consegna, senza più alcuna mediazione, le chiavi del Parlamento, e prepara il banchetto da consumare sulla lapide della separazione dei poteri…

Estratto dall'articolo di Liana Milella per “la Repubblica” il 20 agosto 2022.

E alla fine ne restò solo uno. Un solo magistrato, potenzialmente ancora attivo, candidato alle politiche. E si tratta di un caso assai particolare visto che il renzianissimo Cosimo Maria Ferri, che correrà capolista in Liguria, ma anche nel maggioritario a Massa Carrara e Viareggio, non veste la toga dal 2013, quando diventò sottosegretario alla Giustizia. Ma tant' è. 

Se non fosse per via della legge Cartabia sul Csm, sul punto fotocopia della Bonafede, Ferri potrebbe rimettersi a fare il giudice. Ma quella legge ha estinto la razza dei magistrati in servizio che si candidano.

«Mai più casi Maresca» disse l'8 dicembre Cartabia parlando alla festa di Atreju. Detto fatto. Perché le toghe che correranno saranno solo quelle già in pensione, Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato con il M5S, Carlo Nordio con FdI, Simonetta Matone con la Lega. Mentre al Csm non è giunta neppure una richiesta di magistrati "attivi". […] 

Ferri non aveva bisogno di chiedere nulla, perché la sua aspettativa vale fino al 13 ottobre, quando si riuniranno le nuove Camere. Ma l'eventualità è del tutto ipotetica. Perché in realtà la razza dei "magistrati in politica" è stata estinta da una duplice pressione.

La prima è tecnica: la legge Cartabia-Bonafede vieta per sempre il ritorno "attivo" in magistratura una volta che l'incarico è terminato. E anche chi corre, ma non viene eletto, deve restare in freezer per tre anni. La seconda pressione è tutta politica: si è dissolto il mito del magistrato che appende temporaneamente al chiodo la toga per tuffarsi nella politica. Tant' è che vanno bene i magistrati in pensione.

Nel 2008 i giudici in Parlamento erano diciotto. Nel 2013 si ridussero a nove. Nel 2018 ne sopravvissero due. Ferri adesso rilancia. Giusi Bartolozzi, ex Forza Italia poi nel Misto, rinuncia. Il Pd, che in Europa conta su Franco Roberti, non candida Piero Grasso. E si spegne la suggestione che aveva fatto proprio del Pd il partito delle toghe. Da Giuseppe Ayala a Gerardo D'Ambrosio, a Gianrico Carofiglio, ad Anna Finocchiaro, ad Elvio Fassone, ad Alberto Maritati, a Felice Casson e Donatella Ferranti. Ma quelle erano tutt' altre stagioni.

Palamara ricostruisce i rapporti vischiosi fra il Pd e la magistratura: ecco come funziona. Paolo Lami il 20 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.

Rapporti fra magistratura e Pd, relazioni tossiche fra giornalisti e potere politico-giudiziario, messaggi trasversali spediti alla controparte attraverso convegni dove sono piu le toghe che il pubblico in sala: Luca Palamara racconta in una imbarazzante (per il Pd) intervista i trattamenti in guanti bianchi che le Procure hanno riservato agli uomini del Nazareno.

L’ex-presidente dell’Anm può ragionevolmente essere definito, come fa La Verità, “uno dei massimi esperti” in materia di rapporti con la politica, di sinistra e del Pd  particolare.

Palamara, la cui moglie lavora alla Regione Lazio, aveva rapporti strettissimi con Zingaretti. Indimenticabili i suoi affettuosi messaggi Whatsapp scambiati con il presidente della Regione.

“Siamo tutti con te, un abbraccio”, scriveva con entusiasmo contagioso il pm al piddino. E, poi, ancora più coinvolto emotivamente, rincarava: “Grande Nicola, grande vittoria! Ripartiamo da questo!”

In queste ore in giro per presentare il suo secondo libro sul Sistema e in corsa per una candidatura in Parlamento Palamara rispolvera le faccende giudiziarie imbarazzanti del Pd quando, per esempio, venne travolto – prima di tutti gli altri – nello scandalo soprannominato con incauta fantasia dall’Espresso, “Roma Capitale”.

Un’etichetta che finì via via appiccicata come un bollino di garanzia sui vari esponenti del Pd romano che finirono travolti da quell’inchiesta. Che, letteralmente, decapitò il Pd romano e i suoi ras.

Incalzato da La Verità, Palamara ricorda l’incontro notturno con Zingaretti per parlare di Venafro e dell’inchiesta Mafia capitale.

«Posso confermarle che in quella occasione l’incontro aveva a oggetto le dimissioni di Venafro, ma, come ho già detto, parlerò di questi fatti davanti all’autorità giudiziaria».

“Lei consigliò quelle dimissioni a Zingaretti?” chiede incuriosito il cronista.

«Più che consigliarle, mi sembravano a quel punto inevitabili».

E qui, inevitabilmente, arriva la domanda delle cinque pistole: “Prima di dare quel suggerimento si era consultato con l’allora procuratore Giuseppe Pignatone o con qualcun altro?”

“Diciamo – risponde cauto Palamara – che ne avevo parlato in Procura».

Zingaretti e Palamara si erano visti pochi giorni prima al Csm. “L’argomento era lo stesso?”

“Sì – ammette Palamara. – L’inchiesta Mafia capitale, che coinvolgeva anche alcuni dem, aveva creato fibrillazione nei rapporti tra una parte del Pd, quella che comandava, e i vertici della Procura di Roma.

E io ho avuto modo di discutere di questi aspetti sia con il presidente Zingaretti sia con Pignatone anche nei giorni precedenti alla partecipazione di quest’ultimo a una conferenza del Pd”.

Una conferenza che fece scalpore proprio per la presenza del capo della Procura della Capitale. In molti rimasero allibiti per quella scesa in campo ufficiale di Pignatone. E per i tempi della vicenda visto che, poche ore dopo, sarebbe deflagrata  l’inchiesta che vedeva indagati anche uomini del Pd.

“In quel caso l’invito” a partecipare al convegno “fu rivolto direttamente a Pignatone – ricostruisce Palamara – da qualcuno del partito di Roma. Io rimasi colpito da quella partecipazione visto che il procuratore era restio a prendere parte a eventi pubblici di questo tipo a cui era più facile trovare esponenti della sinistra giudiziaria adusi ad esporsi”.

Sembrava quasi un segnale da mandare all’esterno a favore del partito che stava per essere travolto con accuse gravissime di mafia. Era così?

«Io lo percepii in quel modo».

Ma nella storia dei rapporti vischiosi fra magistratura e Pd questo non è certo l’unico caso. E forse neanche il più eclatante.

La Verità ricorda un’altra vicenda spinosa e imbarazzante per il Pd, l’inchiesta della Procura di Perugia che costrinse alle dimissioni l’ex-presidente (Pd) della Regione Umbria Catiuscia Marini.

Anche in quel caso si parlò di pressioni di Zingaretti e del tesoriere Walter Verini.

E qui Palamara si addentra nei “meccanismi del Sistema”. L’ex-pm romano, già segretario dell’Anm ed ex-consigliere del Csm la spiega così: “Arriva un uccellino che ti consiglia su come muoverti. Però direi: occhio, perché c’è sempre in agguato un cecchino che può colpirti alle spalle”.

Cosa vuol dire Palamara? “Se si porta la magistratura in un campo di contrapposizione politica tutti rischiano, nessuno escluso”.

L’ex-magistrato romano che ha messo a nudo le porcate delle toghe svela anche la data del big bang del buco nero magistratura-Pd romano.

“Ricordo che all’inizio della mia esperienza come presidente dell’Anm partecipai a un convegno organizzato dal Partito democratico di cui era segretario Walter Veltroni in via di Ripetta a Roma. Nel comitato organizzatore formato da parlamentari del Pd c’erano più magistrati che pubblico in aula. Ricordo un Veltroni visibilmente imbarazzato”.

Ma la Capitale così vicina ai luoghi del potere politico è un caso a parte? Secondo Palamara no: “Nel capoluogo lombardo e anche a Roma procuratori di peso come Edmondo Bruti Liberati o Pignatone gestissero l’azione penale anche politicamente».

Palamara è testimone degli incontri di Pignatone con Matteo Renzi e l’ex sottosegretario Luca Lotti alla vigilia dell’inchiesta Consip. Ma non solo.

“Sono anche testimone -ricorda l’ex-pm – di un incontro sulla terrazza dell’hotel Bernini di Roma in concomitanza con l’inchiesta Mafia capitale in cui l’allora neonominato direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana incontrò Pignatone, l’aggiunto Michele Prestipino e il sottoscritto. Quel pranzo fu organizzato da Sergio Crippa, manager di Italcementi e durante l’incontro vennero illustrati ai giornalisti gli sviluppi dell’indagine”.

Palamara affronta anche la questione dei magistrati che andranno in Parlamento, come il procuratore uscente dell’Antimafia Federico Cafiero de Raho o Roberto Scarpinato.

“De Raho la attese per due ore con la scorta in piazza Esedra. Di che cosa dovevate discutere?”, chiede La Verità.

“In quel periodo era in ballo un incarico a presidente di sezione al Tribunale di Napoli per cui era in corsa la moglie”.

E Scarpinato?

“Mi farebbe piacere – lascia cadere Palamara – che chiarisse la storia della documentazione trovata a casa di Antonello Montante (l’ex-paladino dell’Antimafia condannato dalla Corte di appello di Caltanissetta ad otto anni per corruzione e associazione per delinquere, ndr), al quale all’epoca moltissimi magistrati, compreso lui, si rivolgevano per fare carriera”.

Quanto all’ex-collega Carlo Nordio che dovrebbe essere candidato da Fratelli d’Italia, Palamara riconosce e ammette, senza difficoltà che “è sempre stato attaccato dalla sinistra giudiziaria, ma è uno di quei magistrati che oggi devo riconoscere, più di tanti altri, è titolato a parlare non avendo mai fatto parte del sistema di spartizione correntizia e non ha mai fatto il questuante per questa o quella nomina”.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 20 agosto 2022.

La nostra inchiesta sulle presunte pressioni esercitate dall'ex segretario del Pd Nicola Zingaretti per far dimettere il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro e l'ex presidente dell'Umbria Catiuscia Marini, pur trascurata dai siti o dagli altri giornali, non è sfuggita alle rassegne stampa e così il supposto patto occulto tra Pd e Procure è diventato tema di discussione tra politici e magistrati. 

Uno dei massimi esperti in materia è l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, in queste ore in giro per l'Italia a presentare il suo secondo libro sul Sistema e in corsa per una candidatura in Parlamento. Nel nostro caso è anche un testimone diretto.

Palamara, che cosa ci dice dell'incontro notturno con Zingaretti per parlare di Venafro e dell'inchiesta Mafia capitale?

«Posso confermarle che in quella occasione l'incontro aveva a oggetto le dimissioni di Venafro, ma, come ho già detto, parlerò di questi fatti davanti all'autorità giudiziaria». 

Lei consigliò quelle dimissioni a Zingaretti?

«Più che consigliarle, mi sembravano a quel punto inevitabili». 

Prima di dare quel suggerimento si era consultato con l'allora procuratore Giuseppe Pignatone o con qualcun altro?

«Diciamo che ne avevo parlato in Procura». 

Lei aveva visto il governatore del Lazio pochi giorni prima al Csm. L'argomento era lo stesso?

«Sì. L'inchiesta Mafia capitale, che coinvolgeva anche alcuni dem, aveva creato fibrillazione nei rapporti tra una parte del Pd, quella che comandava, e i vertici della Procura di Roma.

E io ho avuto modo di discutere di questi aspetti sia con il presidente Zingaretti sia con Pignatone anche nei giorni precedenti alla partecipazione di quest' ultimo a una conferenza del Pd». 

Fece lei da trait d'union per quel discusso intervento, tenuto poche ore prima dell'esplosione di un'inchiesta che vedeva indagati anche uomini del Pd?

«In quel caso l'invito fu rivolto direttamente a Pignatone da qualcuno del partito di Roma. Io rimasi colpito da quella partecipazione visto che il procuratore era restio a prendere parte a eventi pubblici di questo tipo a cui era più facile trovare esponenti della sinistra giudiziaria adusi ad esporsi».

Era un segnale da mandare all'esterno a favore del partito che stava per finire nella bufera?

«Io lo percepii in quel modo». 

Un'inchiesta della Procura di Perugia ha costretto alle dimissioni l'ex presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. Anche in quel caso sembra ci siano state pressioni di Zingaretti e del tesoriere Walter Verini. La sorprende?

«Normalmente i meccanismi del Sistema sono piuttosto simili. Arriva un uccellino che ti consiglia su come muoverti. Però direi: occhio, perché c'è sempre in agguato un cecchino che può colpirti alle spalle». 

Vuol dire che non si può mai essere sicuri sino fondo dei rapporti costruiti con il mondo giudiziario?

«Se si porta la magistratura in un campo di contrapposizione politica tutti rischiano, nessuno escluso».

Che cos' altro ci può dire dei legami tra Pd e Procure? Quando sono cominciati?

«Ricordo che all'inizio della mia esperienza come Presidente dell'Anm partecipai a un convegno organizzato dal Partito democratico di cui era segretario Walter Veltroni in via di Ripetta a Roma. Nel comitato organizzatore formato da parlamentari del Pd c'erano più magistrati che pubblico in aula. 

Ricordo un Veltroni visibilmente imbarazzato. Questa costanza di rapporti si riflette inevitabilmente sulle indagini. Matteo Renzi ha spiegato bene questo cortocircuito nel libro Il mostro a proposito della gestione politica dell'inchiesta Expo con Beppe Sala sindaco di Milano. È stata una vicenda emblematica di come nel capoluogo lombardo e anche a Roma procuratori di peso come Edmondo Bruti Liberati o Pignatone gestissero l'azione penale anche politicamente».

Lei è testimone degli incontri di Pignatone con Matteo Renzi e l'ex sottosegretario Luca Lotti alla vigilia dell'inchiesta Consip e di come sia stata gestita, in seguito, quella situazione

«Sì, ho vissuto direttamente quella stagione sia per quanto riguarda le indagini giudiziarie, sia per quanto riguarda le notizie che vennero pubblicate in prima battuta da alcuni organi di informazione». 

A che «scoop» si riferisce?

«I due grandi giornali che criticavano l'operato del pm Henry John Woodcock e dei carabinieri del Noe guidati dal colonnello Sergio De Caprio e dal capitano Giampaolo Scafarto chiesero il verbale dell'audizione della procuratrice Lucia Musti, molto critica con i militari». 

La procuratrice li descriveva, almeno così scrissero giornali, come in caccia di Renzi. E lei diede loro quel documento riservato?

«Venne pubblicato il giorno dopo. Non aggiungo altro».

Sta raccontando per la prima volta, con un esempio concreto, come funzioni il rapporto tra i vertici delle Procure e i giornaloni sempre pronti ad attaccare i leader di destra e a difendere quelli di sinistra.

«È per questo che voglio dare il mio contributo in politica. Io sono anche testimone di un incontro sulla terrazza dell'hotel Bernini di Roma in concomitanza con l'inchiesta Mafia capitale in cui l'allora neonominato direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana incontrò Pignatone, l'aggiunto Michele Prestipino e il sottoscritto. Quel pranzo fu organizzato da Sergio Crippa, manager di Italcementi e durante l'incontro vennero illustrati ai giornalisti gli sviluppi dell'indagine». 

Ha vissuto in prima linea il periodo del renzismo.

«Mi ricordo più di una cena con Pignatone e Lotti. L'ex sottosegretario non era ancora indagato per Consip. Quegli incontri servivano a creare un clima di collaborazione tra Palazzo Chigi e la Procura di Roma». 

Ma poi Lotti è stato iscritto sul registro degli indagati: perché lei in un'intercettazione si lamenta di essere rimasto con il cerino in mano?

«Perché negli appuntamenti conviviali si era creata una fiducia che poi è stata tradita con la richiesta di rinvio a giudizio. Se io avessi capito la piega che stava prendendo l'inchiesta Consip avrei certamente evitato di far incontrare Pignatone con Lotti o con il piddino Giovanni Legnini, che nel suo ruolo istituzionale di vicepresidente del Csm, era interessato a comprendere quanto accadeva nella Procura di Roma.

A Pignatone, con il quale ho sempre avuto un rapporto di stima, indubbiamente deve essere riconosciuta una spiccata capacità di interlocuzione anche politica che abilmente ha messo in campo durante la sua esperienza romana. Ma ci sono state delle indagini che hanno creato grande imbarazzo all'interno dell'ufficio». 

Torniamo alle cene...

«Certamente in tali serate si affrontavano tematiche molto sentite in ambito politico e giudiziario». 

Per esempio?

«Si discutevano questioni come l'età pensionabile dei magistrati che è la grande merce di scambio tra giudici e politici». 

Che cosa intende?

«Che normalmente quando si arriva all'età pensionabile a nessuno piace lasciare il proprio posto e le strade sono due: o ottenere una proroga e rimanere in servizio oppure ottenere un incarico politico». 

Mi fa un esempio?

«Quello che è accaduto con gli ultimi procuratori Antimafia che sono andati in pensione. Sembra quasi che quella carica abbia inglobato anche un futuro in politica, quasi sempre nel Pd». 

Come fa la magistratura a entrare nella stanza dei bottoni della politica?

«Lo fa sia nel momento delle candidature che quando vengono formate le strutture ministeriali. La gag del ministro Alfonso Bonafede che propone un posto al Dap a Nino Di Matteo e poi ci ripensa è emblematica. Esemplare è anche il caso di Giovanni Melillo, valoroso magistrato della Procura di Napoli, oggi a capo della Dna: venne chiamato al ministero della Giustizia a fare da capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando, che era stato commissario del Pd a Napoli». 

In questi giorni si leggono nomi di magistrati che andranno in Parlamento, come il procuratore uscente dell'Antimafia Federico Cafiero de Raho. Con lui condivise una discussa chat.

«Sono contento che persino tra i 5 stelle finalmente abbiano compreso il bluff di quelle conversazioni che evidentemente non intralciano più le carriere, dopo che al Csm sono state utilizzate solo per colpire alcuni». 

De Raho la attese per due ore con la scorta in piazza Esedra. Di che cosa dovevate discutere?

«In quel periodo era in ballo un incarico a presidente di sezione al Tribunale di Napoli per cui era in corsa la moglie». 

In una cena parlaste anche del ruolo di Di Matteo dentro alla Dna?

«In quel momento Di Matteo era considerato ingombrante perché poteva oscurare il ruolo di De Raho. Non voglio pensare che i grillini abbiano rinnegato con questa candidatura Di Matteo, nei confronti del quale, a iniziare da me, c'è stato un pregiudizio che lui, con il suo ottimo lavoro al Csm, devo ammetterlo, ha smentito». 

E di Roberto Scarpinato che cosa ci dice?

«Mi farebbe piacere che chiarisse la storia della documentazione trovata a casa di Antonello Montante (l'ex paladino dell'Antimafia condannato dalla Corte di appello di Caltanissetta ad otto anni per corruzione e associazione per delinquere, ndr), al quale all'epoca moltissimi magistrati, compreso lui, si rivolgevano per fare carriera». 

In corsa c'è anche Carlo Nordio.

«È sempre stato attaccato dalla sinistra giudiziaria, ma è uno di quei magistrati che oggi devo riconoscere, più di tanti altri, è titolato a parlare non avendo mai fatto parte del sistema di spartizione correntizia e non ha mai fatto il questuante per questa o quella nomina». 

E lei resterà al palo o verrà candidato? I partiti sembrano avere dubbi sul suo nome perché è imputato a Perugia.

«Oggi ho ritirato il certificato del casellario giudiziale e c'è scritto "nulla". Questa è la mia risposta a chi mi sta inserendo negli elenchi degli impresentabili sui giornali e poi fa scrivere magistrati sottoposti a procedimento penale come Piercamillo Davigo. In tutte le liste ci sono degli imputati, anche perché ormai tutti i partiti si professano garantisti, ma l'unico per cui non vale questo principio rischio di essere io sebbene non abbia neppure una condanna in primo grado».

Focus sui candidati con la toga. Il caso De Raho e la tristezza della politica che rincorre i pm: non è invasione di poteri dello Stato? Riccardo Polidoro su Il Riformista il 21 Agosto 2022 

A circa un mese dalle elezioni, i partiti stanno presentando le liste dei candidati. Nonostante la riduzione del numero dei parlamentari eleggibili, resta la consuetudine d’indicare personalità della società civile all’apice di notorietà. La politica rinnega se stessa e preferisce lasciare fuori iscritti di rilievo, pur di attirare l’attenzione dell’elettore.

Non potevano mancare, dopo l’emergenza sanitaria, medici e virologi, che costituiscono quest’anno la vera novità. Resta la tradizione d’inserire nomi di magistrati, ancora in servizio ovvero in pensione per raggiunti limiti di età. Sui primi, abbiamo, già in passato, manifestato ampio dissenso alle così dette “porte girevoli””, per innumerevoli ragioni. Tra queste la primaria esigenza di non apparire mai schierati con l’una o l’altra parte politica; l’importanza e l’unicità del lavoro svolto, che richiederebbe ampia concentrazione perché in gioco c’è la vita di persone e, spesso, il futuro di città, regioni e dello stesso Paese.

La città di Napoli, ne è un esempio chiarissimo. Il peso di tale responsabilità dovrebbe allontanare da altre attività, per quanto ritenute nobili, anche perché la coperta del processo penale è sempre più corta e nelle aule si rabbrividisce dalla vergogna per quanto accade. Allo stesso tempo, non si abbandona la nave in tempesta, per comode collocazioni in ministeri, ritenendo con le proprie competenze di salvare il Paese, perché si fa solo un’invasione di campo e ciò che ancora più grave si entra a far parte di un altro potere dello Stato, passando da quello giudiziario a quello legislativo o esecutivo. Un salto doppio o triplo, con rientro nella precedente posizione, che non dovrebbe essere consentito. La separazione di tali poteri è un principio giuridico essenziale in uno Stato democratico.

La politica parcheggio dei procuratori nazionali antimafia, da Grasso a Roberti a Cafiero de Raho: adesso basta!

Poiché tutto ciò non è chiaro alla magistratura, ci auguriamo che presto quelle porte girevoli si blocchino del tutto, come da tempo chiedono le Camere Penali. Discorso del tutto diverso va fatto per i togati che, per raggiunti limiti di età, vanno in pensione ed aspirano ad altri ruoli. Non vi è dubbio che la loro esclusione da una possibile seconda vita, da svolgere in politica, rispetto ad altre categorie, sarebbe profondamente ingiusta. L’analisi, pertanto, va fatta non da tale punto di vista, ma da quello di coloro che offrono tali possibilità. Perché scegliere un magistrato settantenne, o ancora più anziano, per una competizione elettorale? Escludendo, tra l’altro, forze interne al proprio partito, che hanno lavorato per raggiungere gli obiettivi prefissati?

La risposta è una sola, le altre che vengono date sono alibi di copertura. Con l’inserimento del nome del magistrato si vuole garantire all’elettore inesperto la verginità di una lista, pura e proiettata verso una sicura governabilità del Paese. Il movimento 5 stelle ha ritenuto di candidare, inserendoli in posti di eleggibilità certa, ben due magistrati da pochissimo in pensione e provenienti dagli Uffici di Procura: l’ex Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e l’ex Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho. Quest’ultima candidatura ripercorre una strada già tracciata in passato, in quanto i due precedenti procuratori antimafia, Franco Roberti e Pietro Grasso, sono stati eletti rispettivamente nelle liste del Partito Democratico e di Liberi e Uguali.

Il primo è tutt’ora europarlamentare, il secondo è senatore, e, dal 2013 al 2018, addirittura è stato presidente del Senato. Federico Cafiero de Raho, ha concluso la sua attività di Procuratore Antimafia, lo scorso febbraio. Dopo un mese, nel marzo scorso, il ministro della cultura Dario Franceschini lo ha indicato come proprio rappresentante nel Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Teatro Stabile della Città di Napoli, organismo di governo del Teatro Nazionale che gestisce il Teatro Mercadante e il Teatro San Ferdinando. Il mese successivo, in aprile, l’assemblea dei soci lo ha nominato Presidente. Egli, dunque, aveva scelto una seconda vita. Dalle indagini antimafia, alle problematiche organizzative e contabili di un Consiglio di Amministrazione in campo culturale. Dopo solo quattro mesi, all’ex magistrato viene offerta la poltrona, praticamente sicura in Parlamento, ed egli accetta, preparandosi ad una terza vita, quella politica. Non sappiamo se abbandonerà la seconda, offertagli, tra l’altro, da un partito oggi (ma chissà domani) diretto concorrente del suo.

Ora si potrà criticare tale scelta sotto molti punti di vista. In materia di competenze: prima investigatore, coordinatore nazionale antimafia, poi presidente di un Consiglio di Amministrazione di un teatro Stabile, poi aspirante senatore della Repubblica. In materia di conoscenze: per il ruolo ricoperto, ha avuto certamente accesso a dati e notizie che altri non conoscono ed inoltre ha coltivato una serie di rapporti interpersonali ad altri non consentiti. In materia di opportunità: il passaggio quasi senza interruzione da una poltrona ad un’altra. Tutte osservazioni più che corrette. Ma se l’uomo ritiene di non volersi fermare, di avere un enorme bagaglio culturale da poter ancora mettere al servizio del Paese, di volerlo fare non da cittadino, ma da protagonista, nella convinzione che le sue idee troveranno ampio consenso in Parlamento, nulla, al momento, possiamo fare se non indicare al medesimo alcuni punti che, riteniamo egli abbia valutato.

Il partito – ex movimento dell’apriscatole di tonno – che lo ha scelto, non è favorevole ai termovalorizzatori, mentre egli in più occasioni ha dichiarato che tali opere sono utili e sono uno dei mezzi per combattere la mafia. Oltre a questo palese e, certamente, non indifferente contrasto, molte delle affermazioni sulla materia di sua stretta competenza – la Giustizia – con cui dovrà confrontarsi con la dirigenza del partito, sono in palese contrasto con principi costituzionali: come l’idea che “certezza della pena” equivalga a “certezza del carcere”, ignorando che nella nostra Carta, la parola “carcere” non c’è e l’articolo 27 usa il plurale, quando si riferisce alle modalità di scontare la condanna.

Ed ancora, come non ricordare che, nel semplificare le fasi dei procedimenti penali, fu riferito che vi erano le indagini, poi il dibattimento ed infine la condanna. Si potrebbero evidenziare tanti altri temi, come il dolo che si trasforma in colpa, ma lo ribadiamo non è l’ex magistrato in pensione che va criticato, ma il sistema che, come in passato, consente questi immediati pericolosi passaggi di ruolo, senza mettere indispensabili limiti, almeno temporali, che garantirebbero alla comunità gli essenziali percorsi trasparenti, di cui il Paese ha sempre più bisogno. Riccardo Polidoro

Il procuratore capo di Catanzaro resta in panchina

Gratteri ‘panchinato’ dalla politica, a Scarpinato seggio e gloria: la beffa del ritorno in Calabria di Cafiero de Raho. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Agosto 2022 

Sprizza soddisfazione, immaginiamo, il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, alla notizia di questi due arrivi così prestigiosi e importanti proprio nella sua terra, a casa sua quasi, con la veste di rappresentanti del popolo in Parlamento. Roberto Scarpinato nella camera alta, il Senato della repubblica, e Federico Cafiero de Raho alla Camera. Tutti e due candidati come capolista dal Movimento cinque stelle in Calabria, tutti e due sicuramente eletti visto che, come si conviene per personaggi di peso, i due ex alti magistrati hanno anche il loro sacrosanto paracadute, uno nell’Emilia rossa, l’altro nella Sicilia dal cui Palazzo di giustizia e dal ruolo di procuratore della corte d’appello è da poco uscito.

Immaginiamo il povero Gratteri solitario nel suo ufficio a domandarsi “dove ho sbagliato? Perché loro sì e io no?”. Con la magra consolazione che tra sei anni, quando anche lui avrà compiuto i settanta e sarà maturo per la pensione, potrà percorrere la via della politica. Ammesso che la cosa gli interessi. Certo, fare il ministro di Giustizia sarebbe stato ben altro, cari Federico e Roberto! E poi, diciamo la verità, come storia, intelligenza e preparazione, quel Matteo Renzi che l’avrebbe voluto nel suo governo come Guardasigilli nel 2014, quando Gratteri era un semplice aggiunto di quel procuratore capo di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho che si accinge a tornare in Calabria da deputato, ne vale mille rispetto all’avvocato del popolo Giuseppe Conte. Questo lo pensano in tanti.

Anche se, e pure questo lo pensano in tanti, il Renzi di allora era presidente del Consiglio e leader di un partito che alle europee aveva raggiunto oltre undici milioni di voti, con due milioni di gradimenti in più rispetto al passato, proprio nelle stesse consultazioni in cui il movimento di Grillo ne aveva persi tre milioni. E altro conto è essere capo di un partitino costretto a mettersi con l’odiato leader di un altro piccolino per raggiungere il quorum alle elezioni. Resta il fatto che oggi la candidatura per Nicola Gratteri non c’è. Ed è difficile che, qualora il procuratore avesse rifiutato un’offerta, non lo si sarebbe saputo. Non dalla sua bocca, ne conosciamo la proverbiale riservatezza. Ma dai numerosi ambienti dei suoi laudatores, soprattutto nel mondo dell’informazione, qualche spiffero sarebbe uscito. E magari qualcuno dei vari comitati che periodicamente organizzano manifestazioni, pur con scarso successo di presenze numeriche, da Milano a Catanzaro, avrebbe potuto cogliere l’occasione per esibire in positivo il suo gran rifiuto.

Che poi vorrebbe anche dire rispetto della divisione tra i poteri, cioè quella specie di araba fenice di cui non ci si ricorda neppure l’esistenza. Basterebbe contare il numero di toghe che si annidano nei vari ministeri, dove contribuiscono all’attività dell’esecutivo come a quella del potere legislativo. Ma il problema è che questi alti magistrati, e Nicola Gratteri certo non si sottrarrebbe a una orgogliosa declaratoria in questo stile, non appena annusano il profumo di un nuovo potere, si sentono in dovere di chiarire che entrano in Parlamento con la toga addosso, per continuare il lavoro iniziato. Quindi facevano politica anche prima? La domanda non è così strana, anche se sarebbe respinta con sdegno, qualora qualcuno osasse porla.

Poi ci sono le questioni di carattere. Gratteri pare sempre un cavallo imbizzarrito e indomabile. E ora si ritrova anche con la carriera un po’ bruciacchiata, perché gli ritorna in patria quel Cafiero de Raho che fu il suo capo a Reggio Calabria tra il 2013 e il 2016, quando lui era l’aggiunto e l’altro il suo dirigente. E oltre a tutto senza neanche aver avuto la soddisfazione di succedergli alla Direzione Nazionale antimafia, dopo il suo pensionamento. Luogo di mille desideri, quello, infatti era andata frustrata anche l’ambizione dell’altro candidato in Calabria, Roberto Scarpinato che, nel 2017 era stato costretto a ritirare la propria candidatura un attimo prima che il plenum del Csm votasse all’unanimità proprio Cafiero de Raho.

Oggi i due candidati piombano come falchi, con i loro vestiti da parlamentari, laddove il procuratore di Catanzaro ritiene di essere il detentore incontrastato del potere di combattere la ‘ndrangheta, in pratica l’ultima forma di mafia esistente. E le dichiarazioni dei due candidati non promettono niente di buono. Sono destinati ambedue all’opposizione, lontani dal potere del governo e sulla sponda opposta di un possibile ministro di Giustizia come Carlo Nordio. Ma come parlamentari il naso in quel di Calabria potrebbero andarlo a mettere. Più morbido l’approccio del futuro deputato Cafiero de Raho, che ha già scoperto la propria anima militante del movimento di Grillo, pronto persino a rinnegare le proprie dichiarazioni favorevoli ai termovalorizzatori.

Ma altrettanto pronto a scattare sull’attenti nel dichiarare a Repubblica di voler, anche da deputato “continuare a battere criminalità e corruzione”. Strano che ignori come quello non sia compito del Parlamento, così come non lo è della magistratura. Più aggressivo Scarpinato, che non riesce ad abbandonare quel processo clamorosamente perso in quel di Palermo. E all’edizione di Repubblica di quella città spiega “Mi candido contro il ritorno dei patti tra Stato e mafia”. Tempi duri, caro Nicola Gratteri. In fondo lei è il più simpatico.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Questione di opportunità. La politica parcheggio dei procuratori nazionali antimafia, da Grasso a Roberti a Cafiero de Raho: adesso basta! Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Agosto 2022 

In principio fu Pietro Grasso, poi Franco Roberti ed ora Federico Cafiero De Raho. Il salto dalla Procura nazionale antimafia alla politica nazionale sembra essere diventato la prassi. Tutto normale? No, se si pensa che il procuratore nazionale antimafia è il capo di un ufficio che coordina indagini e informazioni a livello nazionale, che fornisce al Parlamento le informative, che viene audito nelle Commissioni sulle varie proposte di riforma.

No, se si vuole che agli occhi dell’opinione pubblica la Procura nazionale antimafia non perda (se non l’ha già persa) l’immagine di terzietà e indipendenza che deve avere. No, se diventa lo specchio di una politica che per apparire credibile sceglie di puntare su ex magistrati. È un dubbio che avremmo voluto evitare di avere quello che spinge a domandarsi se l’Antimafia serva solo a combattere la criminalità organizzata o anche, indirettamente, a fare carriera politica. È una questione di opportunità quella che si pone adesso e riguarda i magistrati ex fuori ruolo. È una questione che si ripropone ora che il nome di Federico Cafiero De Raho, capo della Procura nazionale antimafia in pensione da maggio, è nel “listino” del Movimento Cinque Stelle.

«Una nomina che potrebbe presupporre rapporti pregressi, a meno che Giuseppe Conte non abbia chiesto in giro il numero di telefono di De Raho. Siamo al terzo procuratore su tre che, terminato il proprio ruolo, entra in politica», commenta l’avvocato Giorgio Varano, penalista e responsabile della comunicazione dell’Unione Camere Penali italiane. «Sui magistrati fuori ruolo facciamo riflessioni da anni, adesso si pone anche una questione relativa ai magistrati ex fuori ruolo – spiega Varano – Il procuratore nazionale antimafia ha accesso a tutte le indagini e le informative. Prescindendo dalla singola persona, è legittimo pensare anche, in un’ipotesi inversa, che difficilmente si potrebbe dire di no a un magistrato che ha avuto accesso a tante informazioni e poi chiede di essere candidato, si potrebbe verificare un condizionamento involontario. Penso che se un direttore dei servizi segreti si candidasse la cosa non verrebbe fatta passare sotto silenzio».

«Roberti e De Raho sono stati magistrati integerrimi ma qui la valutazione è politica – precisa Varano – , qui non si critica la persona né quello che un tempo è stato il magistrato, ma un meccanismo che tende, anche involontariamente, a costruire una candidatura. Ciò crea un grave danno di immagine della Procura nazionale». La questione è seria. Andrebbe valutata anche sul piano normativo. «Quella del procuratore nazionale antimafia è una carica delicatissima. Forse, per queste cariche così importanti, andrebbe introdotta una modifica normativa. Per cinque anni, per esempio, non dovrebbero poter ricoprire determinate cariche pubbliche – aggiunge Varano – . Sull’opportunità di elettorato passivo immediatamente dopo aver cessato la carica, andrebbe previsto un periodo di decantazione altrimenti si potrebbe pensare che la Procura nazionale antimafia faccia anche politica, cosa che non è e che non deve essere».

Nel caso di De Raho, scelto da Conte per far parte del famoso “listino”, non si preannuncia poi una competizione elettorale. In tal caso l’elettore non potrà dire la sua. «Una scelta politica del leader dei Cinque Stelle quantomeno inopportuna», commenta Varano. Grasso, Roberti e ora De Raho: una prassi ormai. «Per non parlare della grande sconfitta della politica che se deve ricorrere a ex magistrati per rendersi appetibile e spendibile manifesta seri problemi di credibilità. Ricorre a nomi che sono specchi per allodole, che non sono candidature ma nomine per fini elettorali, anche legittimi, perché è legittimo tentare di prendere più voti e coinvolgere la società civile ma un conto è coinvolgere l’economista, la campionessa sportiva, il virologo, e un conto è coinvolgere un ex magistrato che ha avuto accesso a indagini e informazioni riservate, che è stato audito in Commissione giustizia su leggi restrittive in materia penale. È un tema che si pone in maniera prepotente. È un tema che non dovrebbe passare sotto silenzio».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Dai grandi segreti della procura antimafia ai seggi di sinistra. Tutte le "toghe rosse" entrate in politica. Ad aprire la strada verso la militanza partitica sono stati Grasso e Roberti con il Pd. Ora è il M5s a intestarsi la bandiera della legalità attingendo dalla Dna, l'ufficio creato da Falcone. Lodovica Bulian il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.

Dai vertici dell'antimafia, alla pensione, alle elezioni. Continua la fascinazione della politica verso la magistratura e viceversa. Soprattutto per quella che ha sede in via Giulia, alla Direzione nazionale antimafia, il tempio voluto da Giovanni Falcone che coordina le indagini condotte dalle singole Direzioni distrettuali e dove si trova la banca dati di tutte le inchieste sulla criminalità organizzata. Ufficio apicale con funzione delicatissima e conoscenza di un patrimonio informativo unico. Eppure da un decennio, chi ne è a capo transita, dopo la pensione, in politica.

Ad aprire la strada dalla super-procura al Parlamento sono stati, con la sinistra, Pietro Grasso e Franco Roberti. Ex magistrati di peso, entrambi al vertice della Dna, andati in quiescenza e poi candidati. Grasso era già stato giudice estensore della sentenza del maxi processo a Cosa Nostra, parlamentare del Pd e poi presidente del Senato, ed eletto cinque anni fa con Leu. Questa volta escluso, almeno per ora, dalle liste di Letta. Anche Roberti era stato procuratore nazionale prima di essere, nel 2019, eletto europarlamentare del Pd. Ora è il Movimento cinque stelle a intestarsi la bandiera della legalità e dell'antimafia mettendo in campo Federico Cafiero De Raho, che al vertice della Dna ci è stato fino a sette mesi fa. Ora è candidato nel listino bloccato di Giuseppe Conte. Così come Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo andato in pensione a gennaio. Per lui si parla di un collegio in Sicilia, dove ha svolto tutta la sua carriera. Scarpinato è sempre stato vicino alla corrente di sinistra di Magistratura democratica, ha condotto inchieste sulle stragi dalle procure di Palermo e Caltanissetta. Per De Raho sarebbe possibile la candidatura in Calabria, dove è stato procuratore (a Reggio Calabria) prima di arrivare alla Direzione nazionale antimafia, oppure nella stessa Napoli, dove era già stato procuratore aggiunto, seguendo tutte le più importanti inchieste di camorra. Il Movimento punta sulle due toghe che hanno legato il loro percorso alla lotta contro la criminalità organizzata e ai processi sulle stragi di mafia guardando anche al loro consenso nel meridione. A costo di mettere a rischio polemica profili che fino a pochi mesi fa erano super partes e che ora vengono prestati alla competizione elettorale senza un periodo di decantazione.

E del resto la contesa rischia di essere anche quella tra ex colleghi, visto che in campo ci sono magistrati già scesi in politica come Luigi De Magistris e Antonio Ingroia, dimessosi dalla procura di Palermo già nel 2012, dopo aver avviato le indagini sulla trattativa. Era in politica da tempo e il 25 settembre correrà con Italia sovrana e popolare.

Attacca Fratelli d'Italia: «La sinistra propone nelle liste i nomi di importanti magistrati in pensione, altro che terzietà della giustizia. Il M5s ha una passione per i magistrati antimafia. Ho già proposto una commissione di inchiesta che verificasse il ruoto di potenti magistrati passati nelle file del Pd». Ribattono i grillini: «Mentre nei Palazzi si compongono liste piene di impresentabili o di vecchi dinosauri della politica, il Movimento schiera il meglio della società civile candidando chi ha combattuto la mafia in prima linea».

Nel centrodestra circola il nome di Carlo Nordio, già procuratore aggiunto a Venezia, corteggiato da Fratelli d'Italia, che lo volevano per il Quirinale. Sono comunque lontani i tempi in cui in Parlamento sedevano tante toghe. Un'era iniziata sulla scia di Mani Pulite. Ora gli uscenti sono solo tre. Oltre a Grasso, già in pensione, Cosimo Ferri, finito nello scandalo Palamara, già sottosegretario alla Giustizia in tre governi (Letta, Renzi e Gentiloni), eletto nel 2018 alla Camera con il Pd e poi passato con Italia viva, e Giusi Bartolozzi, Forza Italia.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 25 agosto 2022.

Carlo Nordio, che è stato un magistrato di lungo corso, è da anni un commentatore severo nei confronti della giustizia e dei giudici italiani. La sua discesa in politica con il partito di Giorgia Meloni è una delle poche novità di queste elezioni e anche una sorpresa. Che ci fa un giurista dal garantismo e liberalismo adamantino con una compagnia sovranista e post-fascista? Nordio si aspettava la domanda e la sua risposta è asciutta: «Non credo affatto che se vincesse il centrodestra cadremmo nel sovranismo trumpiano o ungherese». Detto questo, è considerato un possibile ministro della Giustizia, ove il centrodestra vincesse le elezioni.

Dottor Nordio, lei sostiene che la giustizia in Italia necessità di una «rivoluzione copernicana». In che senso?

«Nell'ambito penale comincerei dai due codici, che sono emblematici della confusione e delle contraddizioni della nostra giustizia. Quello penale è del 1930, ed è firmato da Mussolini e dal Re. Nella sua relazione di accompagnamento, si legge che esso rappresenta la sacralità dell'ideologia fascista.

Questo codice, benché privato dei reati più odiosi, come ad esempio quello contro l'integrità della stirpe, mantiene la struttura ideologica dello stato etico hegeliano, recepita dal fascismo. Ebbene, esso gode di buona salute. Al contrario il codice di procedura penale, firmato dal professor Vassalli, partigiano decorato della Resistenza, è stato demolito dalla Corte Costituzionale. Io credo che si debba sostituire il primo con un codice liberale, e che il secondo vada rifatto secondo gli originari intendimenti di Vassalli, se del caso cambiando la Costituzione». 

Lei è a favore della separazione delle carriere. Lasciare un unico passaggio di funzione nella carriera di un magistrato, non è sufficiente?

«In effetti la riforma Cartabia ha fatto il massimo, compatibilmente con la Costituzione. Ma nel'48 nessuno pensava che quaranta anni dopo sarebbe stato introdotto un codice di procedura di tipo anglosassone, che funziona solo con principi totalmente diversi, come appunto la separazione delle carriere, la discrezionalità dell'azione penale, una revisione totale delle funzioni e dei poteri del pm e molto altro». 

In origine fu Tangentopoli, lei sostiene. Ossia una confusione che è ben altro dalla separazione dei poteri, cardine di uno Stato liberale. Come riavvolgere il filo della storia? Occorre ripristinare anche la indennità parlamentare?

«Da magistrato ho sempre sostenuto che l'unico rimedio è che la politica si riappropri il suo ruolo primario, legittimato dal voto popolare, e che la smetta di essere, com' è da 30 anni, subalterna alla magistratura. I nostri padri costituenti avevano voluto l'immunità parlamentare proprio come garanzia dalle interferenze, talvolta erronee, talvolta faziose della magistratura. Sapevano benissimo che qualcuno se ne sarebbe servito in modo improprio, ma hanno accettato il rischio, perché quello della sovrapposizione di poteri era enormemente maggiore, come poi si è dimostrato». 

Lei si è espresso anche contro l'appellabilità delle assoluzioni da parte del pm. Pare di capire che non manterrebbe nemmeno l'obbligo di azione penale.

«Il principio della inappellabilità della sentenza di proscioglimento deriva da quello che una condanna può intervenire solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Da noi un imputato viene assolto dopo mesi di udienze, dove i giudici hanno ascoltato gli investigatori, i consulenti, i testimoni. Ebbene quello stesso imputato può esser condannato in appello senza nuove prove a suo carico, solo sulla base dei verbali del dibattimento dove è stato assolto. È un sistema demenziale».

Scusi, ma come si conciliano queste riforme della giustizia con l'altra grande riforma su cui Giorgia Meloni punta molto, ovvero il semipresidenzialismo alla francese? L'esito finale non sarebbe, appunto alla francese, di un pubblico ministero sottoposto all'Esecutivo?

«Non c'è nessuna relazione tra semipresidenzialismo e soggezione del pm all'esecutivo. È vero invece che il pm italiano è l'unico organo al mondo che abbia un enorme potere senza responsabilità. Io preferisco il sistema britannico, dove il pm è l'avvocato dell'accusa e le indagini le fa Scotland Yard».

Il video dello stupro di Piacenza rilanciato a fini elettorali. Oppure la polemica sulle Marche, dove FdI ostacola l'applicazione della legge sull'aborto. Non avverte un certo disinteresse per i diritti della persona?

«Con l'avvento dei telefonini la diffusione dei video, anche i più raccapriccianti, è diventata quasi normale. Si può condividere o meno questa situazione, ma ormai è cosa fatta. Come la bomba atomica, non si torna indietro.

 Quanto alla disciplina dell'interruzione della gravidanza, credo che nessuno voglia cambiare una legge a suo tempo approvata da un referendum popolare. La decrescita di natalità è un problema enorme, e sarà affrontato con incentivi alle coppie e strutture efficienti, non certo con una revisione normativa».

Pene certe e semplificare le norme: il piano di Nordio sulla giustizia. L'ex magistrato, candidato con Fratelli d'Italia, traccia le priorità: "Eliminare le norme che rallentano i processi. Le pene devono essere certe e devono essere eseguite". Luca Sablone il 29 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Quello della giustizia sarà uno dei tanti temi principali su cui il prossimo governo dovrà intervenire. Il centrodestra sperava di muovere i primi passi già con i referendum di giugno, che però non hanno raggiunto il quorum. Si tratta di una delle urgenze non più procrastinabili. Non a caso Carlo Nordio ha deciso di candidarsi con Fratelli d'Italia, proprio per porre fine alle criticità della giustizia italiana e apportare rimedi in senso garantista e liberale.

Alcune indiscrezioni di diversi quotidiani indicano l'ex magistrato come possibile prossimo ministro della Giustizia. Lui al momento non si espone in tal senso e si limita a far notare che, oltre agli esiti elettorali, bisogna tener conto che comunque la squadra dei ministri viene nominata dal presidente della Repubblica.

Il piano di Nordio

Nordio, nel corso dell'intervista rilasciata a Libero, ha indicato le riforme che reputa più urgenti. Ovvero quelle della giustizia che hanno un impatto sull'economia, che allo stato attuale rappresenta l'emergenza più grave: "Secondo studi accurati e indipendenti, la lentezza della giustizia civile e penale ci costa circa un 2% di prodotto interno lordo". Che fanno circa 36 miliardi di euro l'anno.

Per il candidato di FdI occorre innanzitutto procedere verso una "radicale eliminazione e semplificazione di una serie di norme sostanziali e procedurali complesse e contraddittorie, che rallentano i processi e paralizzano l'amministrazione". E su questo fronte ha citato l'esempio emblematico del reato di abuso di ufficio. "Ha creato la cosiddetta amministrazione difensiva, per cui nessun sindaco o assessore firma più con tranquillità, o non firma affatto", ha fatto notare.

In un'ottica di riforma Nordio sarebbe favorevole alla diminuzione delle pene, oltre che alla depenalizzazione dei reati minori. Il che sembra essere in contrasto con le tesi di Fratelli d'Italia (che invece vuole aumentare e inasprire le pene), ma in realtà alla base c'è un comune denominatore: "Le pene devono esser diminuite perché devono esser rese certe e devono essere eseguite. E per i reati più piccoli e non depenalizzabili le pene possono esser convertite, ma anch'esse devono essere eseguite".

In tal senso ha rispolverato la filosofia della pena nel progetto della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale da lui presieduta anni fa: "Oggi se uno imbratta i muri dei palazzi rischia sei mesi, ma anche qui il giudice gli dà la condizionale e tutto finisce lì. Io dico: quel condannato non deve andare in prigione, ma deve pulire le strade per un anno. E se non lo fa, allora scattano le manette".

L'inappellabilità delle assoluzioni

L'ex magistrato si è espresso anche per l'inappellabilità delle assoluzioni in primo grado, un'idea rilanciata di recente da Silvio Berlusconi. Sostiene che difesa e accusa non devono essere sullo stesso piano e quindi avere identica possibilità di ricorso in appello: "La prova della colpevolezza grava sull'accusa, e deve sussistere al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma".

Le droghe leggere

Nordio infine è stato interpellato sul consumo e il possesso di droghe leggere, da lui giudicate dannose al cervello e il primo passo verso l'assunzione di quelle pesanti. Dunque niente sconti, visto che la depenalizzazione verrebbe vista come un incentivo allo spaccio. Bocciata inoltre l'ipotesi della liberalizzazione: "Comporterebbe l'arrivo in Italia di tutti i tossicodipendenti che vivono in Paesi dove la droga è illegale".

Nordio: «Il primo passo? Via l’abuso d’ufficio e tutte le norme che rallentano la giustizia». L'ex pm di Venezia candidato con FdI: «Il mio piano per la Giustizia fa risparmiare 36 miliardi». Il Dubbio il 29 agosto 2022.

Le riforme più urgenti? «Quelle della giustizia che impatta sull’economia, che oggi è l’emergenza più grave. Secondo studi accurati e indipendenti, la lentezza della giustizia civile e penale ci costa circa un due per cento di prodotto interno lordo». Così Carlo Nordio, magistrato in pensione e candidato nelle liste di Fratelli d’Italia, in un’intervista a Libero.

«Quindi la prima cosa da fare è la radicale eliminazione e semplificazione di una serie di norme sostanziali e procedurali complesse e contraddittorie, che rallentano i processi e paralizzano l’amministrazione», aggiunge. «L’esempio più emblematico è il reato di abuso di ufficio, che ha creato la cosiddetta amministrazione difensiva, per cui nessun sindaco o assessore firma più con tranquillità, non firma affatto. E gli investitori italiani e stranieri preferiscono produrre in altri Paesi». Sulla proposta di Berlusconi di abolire l’appello del pm, Nordio spiega: «La prova della colpevolezza grava sull’accusa, e deve sussistere al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Facciamo un esempio: un imputato viene assolto dopo mesi di udienze, dove i giudici hanno ascoltato gli investigatori, i consulenti, i testimoni. Ebbene, oggi quello stesso imputato può esser condannato in appello dopo poche ore di discussione senza nuove prove a suo carico, solo sulla base dei verbali del dibattimento nel quale è stato assolto. Non mi pare ragionevole».

In questa fase il dibattito sulla riforma della Costituzione riguarda soprattutto l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Crede che sia possibile una riforma come quella voluta in Francia da Charles De Gaulle, che segnò la fine dei governi deboli e l’inizio del «semipresidenzialismo»? «Credo che il nostro sistema – risponde Nordio – abbia mostrato tali e tante criticità da dover essere mutato. Tanti governi, alcuni pessimi come il Conte 2, altri buoni come quello di Draghi, non hanno avuto una legittimazione elettorale. Da dieci anni si vive nell’emergenza situazionale, il cittadino pensa che il suo voto sia ormai inutile e se ne disaffeziona. In più c’è bisogno di stabilità. La Francia ha adottato una costituzione semipresidenziale nella grave crisi innestata dalla guerra in Algeria e sotto l’impulso di uno statista come De Gaulle. Da noi la situazione è un pò diversa, ma credo che dovremmo adottare le stesse misure. E poiché non mi pare che la Francia sia una dittatura, le obiezioni sul punto mi sembrano “betises”, schiocchezze».

Variabile Nordio, il garantista che può sconvolgere Meloni. L’ex magistrato, candidato da FdI in Parlamento, è agli antipodi rispetto al partito di Giorgia su molti aspetti del programma giustizia. Potrà creare contrasti, ma anche apportare una benefica ventata di novità nel partito che aspira alla maggioranza relativa. Errico Novi su Il Dubbio il 23 agosto 2022.

Chiamatela variabile Nordio. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, editorialista del Messaggero sulla giustizia, censore delle derive più solipsistiche della magistratura, è una figura chiave del dibattito politico-giudiziario italiano. Ora è tra i più accreditati per la carica di futuro guardasigilli, e intanto è in lizza come candidato al Parlamento sotto le insegne di Fratelli d’Italia.

Direte: un’altra toga che, dismessa l’attività di pm, entrato “in quiescenza”, sceglie la politica per continuare a far sentire il proprio peso e assumere nuovo potere. E no, perché Nordio non è mai entrato davvero “in quiescenza”: da anni è un protagonista, a prescindere dalle cariche istituzionali, del dibattito sulla giustizia, e ha continuato a esserlo anche dopo che 5 anni fa ha dismesso le funzioni per raggiunti limiti di età. Non solo. Perché oltre alle sue attività di impietoso divulgatore dei mali della giustizia, ha anche assunto nei mesi scorsi la presidenza del comitato per il Sì ai referendum garantisti.

Non è stato un successo, lo sappiamo, ma già in quella occasione Nordio ha dato prova di essere pronto a fare la propria parte se chiamato a “sporcarsi le mani” (le previsioni negative sul quorum erano ampiamente note ben prima che l’ex pm di Venezia scendesse in campo). Ora, proprio lo snodo referendario dell’esperienza recente di Nordio è appunto il motivo per cui lo si può considerare una variabile molto interessante del futuro scenario politico, in particolare sulla giustizia. Nordio sostenne ovviamente la bontà e l’opportunità di tutti e cinque i quesiti garantisti. Fratelli d’Italia remò contro, cioè fece apertamente campagna per il No, sui due che riguardavano non la magistratura ma  la sicurezza e in generale la lotta al crimine, ossia il referendum sulla legge Severino e quello sulla custodia cautelare.

Adesso Giorgia Meloni candida un giurista ed ex magistrato molto più garantista di lei, rispetto al quale si è trovato, almeno per quei due quesiti, su posizioni contrapposte. Meloni è anche la più accreditata aspirante futura presidente del Consiglio (a voler considerare come indicativi i sondaggi e gli accordi di coalizione). Potrebbe indicare Nordio come guardasigilli. Ma anche se i giochi di maggioranza (sempre che il centrodestra esca vincitore) imponessero soluzioni differenti per via Arenula, Nordio farà certamente sentire, dagli scranni del Parlamento, il proprio preso di figura garantista e innovatrice. Non vuol dire che Meloni si è convertita al garantismo. Ma che le dinamiche di quello che sembra essere oggi il partito destinato a conquistare la maggioranza relativa saranno complicate. Anche contrastate. Perché già immaginiamo le figure “titolari” della giustizia in FdI, come Andrea Delmastro, trovarsi come minimo in disaccordo, per non dire in aperto conflitto, con Nordio su carcere e anticorruzione hard.  Vedremo se sarà un balsamo, per FdI, o un detonatore di contraddizioni.

Ma per tornare al discorso di partenza, bisogna riconoscere all’ex procuratore aggiunto di Venezia il merito di impegnarsi per dare un contributo, e soprattutto di volersi appunto sporcare le mani. Appostato non più solo sulla relativamente comoda tribuna degli editoriali sul Messaggero ma tra i banchi di Montecitorio. Non è l’unico ex magistrato che può dare qualità alla nostra politica. Anche se rispetto ad altri, nel merito, può incidere nella direzione che, almeno da queste pagine, è auspicata da sempre. 

INTERVENTO DI CARLO NORDIO. Da liberoquotidiano.it il 24 agosto 2022.  

"Nel cassetto c'è il mio piano per una giustizia garantista, Giorgia Meloni lo conosce e condivide", spiega Carlo Nordio a Huffingtonpost.it. E dalle pagine del Corriere del Veneto il neo-candidato di Fratelli d'Italia spiega i dettagli: una riforma della Giustizia che preveda la "non appellabilità delle sentenze di assoluzione". Musica per le orecchie di Silvio Berlusconi, che qualche giorno fa aveva rilanciato lo stesso tema sollevando un polverone a sinistra.

"La sostengo da sempre - dice Nordio -, a maggior ragione da quando è stato introdotto il principio che una condanna può intervenire solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma". Nordio è uno dei favoriti per il ruolo di ministro della Giustizia in caso di vittoria della Meloni il 25 settembre e anche per questo, oltre che per la sua autorevolezza, le sue parole valgono doppio. 

"Facciamo un esempio: da noi un imputato viene assolto dopo mesi di udienze, dove i giudici hanno ascoltato gli investigatori, i consulenti, i testimoni. Ebbene quello stesso imputato può essere condannato in appello senza nuove prove a suo carico, solo sulla base dei verbali del dibattimento dove è stato assolto. E' un sistema demenziale".

Secondo l'ex magistrato, "con una formulazione adeguata, la riforma passerebbe anche l'esame della Corte Costituzionale". Nordio si era già speso durante l'ultima campagna per i tre referendum sulla Giustizia. Alla domanda se si possa iniziare dalla revisione del codice firmato da Mussolini Nordio risponde secco: "Beh sì. In fondo ho presieduto la Commissione per la riforma del codice penale, che giace ancora nel cassetto. Ecco, riprenderla e magari aggiornarla sarebbe una grande emozione".

Nordio: «Certezza della pena? Mi occupo delle vittime di errori giudiziari…». INTERVISTA. Carlo Nordio a tutto campo: «Divisioni sulla giustizia dentro FdI? Diciamo che ci sono sensibilità diverse». Simona Musco su Il Dubbio l'8 settembre 2022.

Sul garantismo non c’è nessuna contraddizione interna a Fratelli d’Italia. Parola di Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia e ministro della Giustizia ideale della leader Giorgia Meloni, che nonostante le parole del responsabile giustizia Andrea Delmastro, secondo cui «bisogna smetterla con il garantismo» rassicura gli elettori sull’unità di intenti della coalizione di centrodestra. «Lo scopo del diritto penale è non lasciare impunito il delitto e non condannare l’innocente – spiega -. Nel programma di governo la concordia è totale sulle priorità».

L’eventuale vittoria della destra aprirebbe una stagione di nuove riforme della Giustizia, a partire da quanto seminato dalla ministra Cartabia. Quali sono le priorità e perché?

La priorità assoluta è la lentezza dei processi penali e civili, madre dell’incertezza del diritto, della sfiducia dei cittadini e di un rallentamento dell’economia che ci costa un due per cento di Pil. A questa si rimedia con una semplificazione delle procedure e con un adeguato aumento di risorse, non solo di magistrati ma soprattutto di collaboratori amministrativi. La seconda urgenza è la piena attuazione del codice Vassalli, un codice liberale voluto da un socialista decorato dalla Resistenza, che è stato progressivamente demolito. La terza è la risoluzione della nostra contraddizione più perniciosa: in Italia è tanto facile entrare in galera prima della condanna, da presunti innocenti, quanto è facile uscirne dopo, da colpevoli conclamati.

Il dottor Scarpinato, sul Fatto Quotidiano, ha sostenuto che le sue proposte in tema di giustizia siano contrarie alla Costituzione, in quanto eliminerebbero i capisaldi posti a garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. Come risponde a queste accuse?

Ogni volta che si propone una riforma seria, arriva un predicatore apocalittico che ci prospetta una dittatura. Invece si tratta proprio di risolvere quelle antinomie tra codice e Costituzione che paralizzano la Giustizia. Mi spiego: la Costituzione, nata dalla Resistenza, ha paradossalmente recepito i princìpi del processo penale del 1930 firmato Mussolini, che i padri costituenti avevano davanti: unità delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, privilegio della prova scritta e un ruolo del Pm che era la brutta copia del Giudice Istruttore. Nel 1989 Giuliano Vassalli, ripeto un socialista ed eroe partigiano, ha invece introdotto il codice cosiddetto anglosassone, che funziona con principi radicalmente opposti, a cominciare dalle carriere separate. Lo stesso Vassalli ammise all’epoca che si sarebbe dovuto adattare la Costituzione. Possiamo farlo ora. Non è un sacrilegio, perché i tempi mutano. Soltanto la “Veritas Domini”, come recita il salmista, “manet in aeternum”.

Le sue proposte garantiste stridono con alcuni aspetti della propaganda politica di Fratelli d’Italia, che è invece un partito che invoca più pene e manette facili. Il responsabile giustizia, Andrea Delmastro, ha addirittura affermato: «Bisogna smetterla con il garantismo». Come spiega agli elettori questa contraddizione? E come si concilierebbe con la sua eventuale nomina a ministro della Giustizia, così come pare essere nelle intenzioni di Meloni?

Prima di tutto non sappiamo chi sarà il ministro della Giustizia, la cui nomina, prerogativa del Capo dello Stato, dipende da una serie di variabili. Per quanto riguarda il garantismo, ho sempre detto che esso ha due volti: la presunzione di innocenza e la certezza della pena dopo la condanna definitiva. Non c’è alcun contrasto con Delmastro: lui non dice basta con il garantismo, ma basta con il garantismo in fase esecutiva, che è poi la contraddizione perniciosa di cui parlavo prima. Ci siamo divisi i compiti: lo scopo del diritto penale è non lasciare impunito il delitto e non condannare l’innocente. Lui interpreta le sacrosante esigenze delle vittime del reato, io quelle delle vittime degli errori giudiziari. Oggi nessuna delle due è tutelata.

Alcune sue proposte hanno anche suscitato le reazioni degli altri partiti della coalizione. Crede che questo possa essere un problema per la futura compagine governativa, in caso di vittoria del centrodestra?

In una coalizione ci sono sensibilità differenti, e lo si è visto anche durante il referendum, ma nel programma di governo la concordia è totale sulle tre priorità che ho elencato prima. Quanto all’immunità parlamentare ho già detto e ripetuto che non è affatto un’urgenza: semplicemente ritengo che i nostri padri costituenti, che non erano degli ingenui, avessero fatto bene ad introdurla, e che negli anni ‘90 fosse stato un errore abolirla.

Nella sua carriera da magistrato ci sono stati momenti in cui ha difeso lo strumento della custodia cautelare, sottoscrivendo un documento assieme ai suoi colleghi contro le norme che riducevano le possibilità di disporla. Cosa le ha fatto cambiare idea?

È vero: quando nel 1992 indagai sulla tangentopoli veneta, vidi una tale estensione di illegalità e di sperperi che usai anch’io la custodia cautelare in modo severo. Mi fecero cambiare idea alcuni eccessi che provocarono sofferenze, e persino suicidi, di persone magari colpevoli ma incarcerate senza necessità, e feci autocritica. Nel 1996 lo dissi a Cernobbio, e alcuni quotidiani scrissero in prima pagina: “Il giudice Nordio si pente”. Non mi ritenni affatto offeso, era così. Quello che mi irritò furono le reazioni delle solite anime belle della magistratura, che mi consigliarono di autodenunciarmi. Loro non avevano mai sbagliato: beate loro.

Le riforme Cartabia hanno tentato di porre un argine alle porte girevoli. Come giudica la presenza delle toghe in politica e qual è la soluzione migliore?

Ho sempre detto che un magistrato in servizio non dovrebbe mai candidarsi, soprattutto se ha indagato su politici, per non suscitare due sospetti: di aver strumentalizzato le sue indagini per far carriera in Parlamento, e di utilizzare in modo improprio le informazioni sensibili di cui potrebbe essere in possesso. Io stesso ho accettato la candidatura dopo quasi sei anni dal pensionamento, e ancora con molte esitazioni. In ogni caso chi entra in politica non può poi rivestire la toga.

Gli ultimi tre procuratori nazionali antimafia sono entrati in politica un minuto dopo aver appeso la toga al chiodo. La Dna serve solo come trampolino?

Non serve come trampolino, ma secondo me occorrerebbe un congruo intervallo tra le dimissioni e la candidatura, non solo per le ragioni che ho detto prima, ma anche per evitare il sospetto che gli approcci con i partiti siano avvenuti mentre il magistrato era in servizio.

Qual è la sua ricetta contro il correntismo?

Il correntismo in sé non è un male, è giusto che all’interno di un sindacato vi sia un dibattito tra chi ha idee differenti. È la correntocrazia, o “correntopatia”, che va sradicata. Io credo nel sorteggio dei membri del Csm, da effettuarsi nell’ambito di un canestro composto di magistrati anziani, docenti universitari e presidenti di ordini forensi. È vero che c’è il rischio che anche i sorteggiati diventino una corrente. In fondo è sempre questione di educazione, indipendenza e sensibilità istituzionale. Ma quella è come il coraggio: se non ce l’hai, non te la puoi dare…

Un magistrato a via Arenula è un tabù?

No, ma non è detto che, pur essendo un buon giurista, sia anche un buon politico e un buon organizzatore. Lo stesso accade negli uffici giudiziari: presidenti di tribunali bravissimi nello scrivere sentenze si rivelano pessimi manager. Il ministro dev’essere essenzialmente un coraggioso politico e un abile diplomatico. Poi le leggi le fa il Parlamento.

La sua proposta sui tagli alle intercettazioni è stata giudicata in maniera negativa dal presidente della Commissione Giustizia alla Camera Mario Perantoni, secondo cui «la destra fa l’occhiolino a mafie e delinquenti alla ricerca del loro sostegno». Come incide la sua idea sulla lotta alle mafie?

Bisogna avere della mafia una concezione infantile per credere che i mafiosi parlino al telefono. Un vero criminale parte dal presupposto di esser intercettato anche se parla in aperta campagna: se lo fa al cellulare è perché vuole che si ascolti quello che dice, per depistare le indagini. E in effetti molte inchieste fondate sulle sole intercettazioni sono finite male, con errori colossali, e costi altissimi in termini di denaro e di sofferenze. Noi intercettiamo il quadruplo, e forse più, della media europea, dieci volte la media americana e trenta volte quella britannica. La grandissima parte delle intercettazioni è inutile, costosa e dannosa. Con quei soldi potremmo assumere molto personale, e creare centinaia di pattuglie aggiuntive per il controllo territoriale, il miglior mezzo per garantire la sicurezza dei cittadini.

«Basta garantismo, serve il taser!», FdI già rinnega Nordio. Il magistrato ipotizza un diritto penale innovativo. Ma allora qual è il vero volto della destra? di Errico Novi su Il Dubbio l'1 settembre 2022.

Un po’ dissonanti. Come minimo. Prendete Carlo Nordio. Confrontatelo con Andrea Delmastro, responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia. Parlano lingue diverse. Il primo basa la propria ricetta non solo sul ripristino dell’immunità parlamentare, ma anche su un sistema penale più agile, per esempio sulla riparazione dei danni connessi al reato: «Oggi se uno imbratta i muri rischia sei mesi, ma il giudice gli dà la condizionale e tutto finisce lì, invece», dice Nordio, «quel condannato non deve andare in prigione, ma pulire le strade per un anno». Molto americano. Delmastro viceversa dichiara al Corriere della Sera edizione Torino di oggi quanto segue: «Bisogna smetterla con il garantismo!». Come se in Italia non fossimo stati travolti negli ultimi anni da leggi assurde sulla prescrizione e continui insensati innalzamenti di pena. L’avvocato e parlamentare di FdI prosegue: «Non ci devono essere più fughe dai processi e pene con misure alternative», bisognerebbe piuttosto «costruire nuove carceri». Perché appunto chi è condannato deve andare in galera e basta. Dulcis in fundo: «Gli agenti penitenziari devono avere il taser».

Vengono spontanee molte domande. La prima: qual è il vero volto di FdI nel campo della giustizia? Il garantismo innovatore di Nordio o l’oscurantismo penale di Delmastro? Sembra un doppio binario, proprio nel senso delle rette parallele che non possono incontrarsi. Altro interrogativo: Delmastro intende buttare a mare quel poco che Marta Cartabia, assediata da una maggioranza poliforme, è riuscita a far passare in materia di misure alternative, pene pecuniarie e giustizia riparativa? La riforma penale e il successivo decreto costituiscono piccoli passi avanti, persino controversi in qualche venatura ritenuta un po’ “paternalistica” da alcuni studiosi e avvocati, come è stato sostenuto sul Dubbio. E però, un dietrofront su quel minimo di apertura sarebbe devastante, anche come segnale ai detenuti pigiati nelle carceri pollaio. Delmastro descrive una controriforma cupa, un po’ inquietante. Nordio cosa c’entra con tutto questo?

Ecco, c’è un’ulteriore domanda suggerita dalle parole di Delmastro. E cioè, se per caso l’ex procuratore aggiunto di Venezia che Giorgia Meloni ha voluto candidare alla Camera non rischi di diventare un uomo-immagine rassicurante ma un po’ ingannevole, rispetto agli obiettivi reali del partito. Con parole più crude dovremmo dire: Nordio rischia di essere una foglia di fico, per Fratelli d’Italia. Una figura autorevole che impreziosisce la superficie ma non cambia la sostanza. Non sarebbe il massimo. E non solo in termini di correttezza nei confronti degli elettori, ma anche sul piano degli equilibri interni alla coalizione. Forza Italia è un partito schiettamente garantista. Sarà minoritario, ormai, ma non è immaginabile governarci insieme e farle passare sopra la testa una giustizia legge, ordine, manette e restaurazione. Persino la Lega rischia di essere messa a disagio da un programma sulla giustizia incorniciato con il mantra «basta garantismo», come fa Delmastro. Si tratterebbe di assurdi passi indietro rispetto a quanto la stessa Lega ha contribuito a fare nella legislatura giunta al capolinea. E oltretutto proprio in un settore, quello dell’esecuzione penale e del carcere, in cui di fatto molti dei progetti di Cartabia sono rimasti nel cassetto, a cominciare dalle soluzioni per la vivibilità proposte dalla commissione Ruotolo.

Nordio propone l’inappellabilità delle assoluzioni. Delmastro dice che per tutelare gli agenti bisogna dar loro il taser. Come se fosse uno strumento ordinario di gestione dei detenuti. Anche Cartabia, è vero, ha avviato una sperimentazione di quello strumento. E anche Delmastro parla di «protocolli chiari» che dovrebbero suggerire alla polizia penitenziaria se e quando ricorrere alla scossa elettrica. Ma è il tono spiccio, sbrigativo, che colpisce, nel responsabile Giustizia di FdI. È chiaro che tutto il centrodestra dovrà fare i conti con una certa ambivalenza, sulla giustizia. Vale per il dualismo fra Nordio e la leghista Giulia Bongiorno, così distanti sull’ipotesi dell’immunità parlamentare ma anche sulla depenalizzazione, che emoziona poco il Carroccio. C’è, nella stessa Lega che sul referendum è sembrata smarcarsi dal modello legge e ordine riproposto da Delmastro, la pretesa di una sintesi fra garantismo e ansie securitarie che continua a convincere poco. Jacopo Morrone, sottosegretario leghista alla Giustizia con Alfonso Bonafede, dice per esempio: «Siamo garantisti fino in fondo e sosteniamo la certezza della pena, due posizioni assolutamente complementari: è la stragrande maggioranza degli italiani a chiedere che la pena sia certa e che serva effettivamente a rieducare chi si sia macchiato di un delitto al di là di ogni dubbio».

A lasciare perplessi è l’impressione che dietro quella «certezza della pena» si nasconda una visione ancora un po’ carcerocentrica, diffidente nei confronti delle misure alternative che, come dice Delmastro, rappresenterebbero una «fuga» dall’unica pena ritenuta credibile, evidentemente, cioè la reclusone in cella. Se davvero dovesse prevalere uno spirito così claustrofobico, Nordio finirà per ridursi davvero a un ingannevole paravento. Ma è giusto credere che, invece, il pm illuminato e innovatore aiuti Fratelli d’Italia ad aprirsi a un orizzonte diverso. Forse più consono a una forza politica che aspira a rappresentare almeno un quarto della popolazione italiana.

La candidatura e le polemiche. Carlo Nordio, l’ex pm senza macchia contro il tabù giustizia: il programma ‘americano’ ha convinto Meloni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Agosto 2022 

Nessuno oserebbe mai dargli dell’impresentabile, o attaccare la sua persona. Carlo Nordio, ex magistrato senza macchia, senza sgomitamenti per carriera e senza chat con Palamara, appare veramente come uno che sta qualche spanna sopra gli altri, in questa campagna elettorale in cui il tema-giustizia pare scomparso dagli schermi e dai programmi. Lui non si sottrae alle interviste, con un punto di vista chiaro, deciso, coraggioso. Riesce persino a toccare il tabù più innominabile, quello del ripristino totale dell’immunità parlamentare.

Sono in tanti a pensarla come lui, non solo deputati e senatori. Sarebbe una riforma sacrosanta, e non è questione di privilegio ma di giustizia, come ben sapevano Calamandrei come Togliatti. Nessun esponente politico osa quindi contraddire l’ex procuratore veneto, al massimo si sussurra che il tema “non è un’urgenza”. Ci pensa il solito Travaglio, i cui insulti ormai non fanno più neppure il solletico, a spiegare che quel provvedimento è il sogno di “tutti i farabutti con il colletto bianco”. E anche Eugenio Albamonte, ex presidente della Anm e ora pm a Roma e segretario di Area, la coalizione di sinistra dei magistrati. Il vero obiettivo sarebbe secondo lui quello di “normalizzare la giustizia e renderla inoffensiva nei confronti della classe politica”. Sarebbe la realizzazione del progetto berlusconiano per riportare il Paese “alla fase pre-tangentopoli”.

Ma, a parte queste due sgrammaticature, sul programma di Carlo Nordio sulla giustizia nessuno osa pronunciarsi. E allora proviamo a immaginare quali sarebbero le sue riforme, se davvero dovesse diventare il ministro guardasigilli. Il suo primo punto fermo è la necessità di sbrogliare quella matassa che, a cavallo tra il civile e il penale, avvelena la nostra economia e ci costa circa il due per cento del prodotto interno lordo. È quella malattia che tiene lontane le aziende, italiane e straniere, dagli investimenti. Difficile non essere d’accordo sulla diagnosi, ma la terapia? L’abolizione dell’abuso d’ufficio, il reato che uccide soprattutto gli amministratori locali e li rende supini in posizione difensiva. Una riforma robusta su questo tema, insieme a un bel falò di leggi obsolete e farraginose, come quello che fece Calderoli un bel po’ di anni fa, potrebbe trovare il consenso, per quanto timido, persino dei tremebondi del Pd, che non portarono neanche a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario firmata dal ministro Orlando. Se questi sono i primi passi, e sarebbero i benvenuti, il nucleo centrale del programma di Carlo Nordio è la riforma costituzionale del processo penale.

Riportare il processo al 1989, a un pieno sistema accusatorio, sfrondandolo di tutti gli interventi inquinatori della Corte costituzionale. In questo l’ex pm Nordio è pienamente “americano”. Discrezionalità dell’azione penale, dunque, separazione delle carriere tra giudici e avvocati dell’accusa, distinzione tra giudici del fatto (giuria popolare) e quello del diritto, nomina governativa dei giudici ed elezione dei pubblici ministeri. È soprattutto su questi ultimi che Nordio pone l’attenzione, non solo per ridefinire il loro rapporto con la polizia giudiziaria. Ma anche per proporre che la figura venga ridimensionata, visto che l’Italia (lo abbiamo scritto tante volte) è l’unico Paese del mondo occidentale in cui l’organo dell’accusa è così potente e così privo di responsabilità.

C’è un altro piccolo “scandalo” nelle proposte di Carlo Nordio, ed è quello della necessità di “diminuire le pene”. Lo dice esplicitamente anche in un’intervista a Libero di due giorni fa. Un punto che potrebbe essere un piccolo inciampo, visto che Giorgia Meloni è sempre stata favorevole all’inasprimento delle pene. Ma forse Nordio le avrà spiegato che la prospettiva di condanne più alte non ha mai fatto diminuire i reati. Neanche la pena capitale. Depenalizzare quindi, e anche applicare le misure alternative, come quella per esempio di far ripulire i muri agli imbrattatori. Una prassi molto usata per esempio negli Stati Uniti, una pena cui furono condannati anni fa anche Emma Bonino e Marco Taradash, che avevano distribuito volantini nel métro di New York. E strutture assistenziali, propone ancora l’ex magistrato, per i consumatori di sostanze psicotrope. Basterebbe sottrarli al carcere, in effetti, per smaltire un bel po’ di affollamento. Non occorre essere antiproibizionisti, per capirlo. Sicuramente il dottor Nordio non lo è. Ma possiamo anche perdonarlo, a un grande giurista. E magari cercare di convincerlo a diventarlo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Per questi motivi. Perché sarebbe sbagliato avere Carlo Nordio ministro della Giustizia. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 23 agosto 2022.

Nonostante abbia lasciato la toga da qualche anno, e sia di fatto l’autore del programma di politica giudiziaria del centrodestra (che non è molto liberale), avere in quel ruolo un ex magistrato, con tutto il suo passato di rapporti, amicizie e inimicizie, non sarebbe opportuno

Roberto Monaldo / LaPresse

È stata la settimana delle liste e dei programmi elettorali: la stampa si è “appassionata” al primo aspetto giacché la riduzione del numero dei parlamentari ha creato una lotta senza esclusione di colpi in ogni partito.

Tuttavia anche sul fronte delle idee politiche che le coalizioni offrono all’elettorato non mancano elementi di interesse che possono aiutare a capire le differenze e le prospettive per il dopo-voto.

Una delle novità più significative viene dai rispettivi piani sulla giustizia penale: ad esempio per la prima volta, dopo molto tempo e salvo colpi di scena dell’ultima ora (piuttosto improbabili), non ci saranno nelle liste magistrati in servizio.

Ad oggi le uniche toghe che hanno annunciato la loro candidatura sono quattro ex pubblici ministeri, felicemente ma non rassegnatamente pensionati: l’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho, l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato (entrambi nei Cinquestelle), l’ex sostituto procuratore generale romano Simonetta Matone e l’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, in Fdi.

Se queste fossero le sole presenze “togate” ciò dimostrerebbe che la riforma dell’ordinamento giudiziario del governo Draghi sulle cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica ha avuto un forte effetto.

Ponendo una serie di limiti al ritorno alla professione per chi viene eletto o che intenda solamente candidarsi, la legge firmata dal guardasigilli Marta Cartabia ha dissuaso i magistrati attivi dal diretto impegno politico, e ciò è certamente un segnale positivo per chi ha denunciato il rischio della strumentalizzazione della attività giudiziaria in funzione di una possibile candidatura politica.

Il secondo punto in comune che desta attenzione è il fatto che gli ex magistrati sono tutti ex pubblici ministeri e sono candidati nelle fila di partiti populisti. Ha sollevato polemiche il caso di Cafiero e Scarpinato perché entrambi sono passati direttamente dall’impegno sul campo a quello politico, essendo pensionati da pochi mesi – al pari peraltro di Matone, che si candida con la Lega – mentre Nordio aveva appeso la toga cinque anni fa.

Nel caso dei primi due ci si interroga fondatamente sulla vicinanza ideologica tra alcuni settori della magistratura e i Cinquestelle, già evidenziata ai tempi dei governi Conte della attuale legislatura. Nondimeno ha destato sorpresa la discesa in campo di Nordio nella formazione di Giorgia Meloni. Il magistrato veneziano aveva sempre tenuto ad accreditare un suo profilo di moderato liberale (tradito solo una volta alle elezioni del ’76 allorché seguendo l’invito di Montanelli votò Democrazia Cristiana, come rivela nel suo libro “Giustizia ultimo atto”), del tutto lontano dai partiti, di esclusivo profilo tecnico e senza dubbi di parzialità (con l’eccezione, come sempre ricorda lui nel suo libro, delle polemiche suscitate dalla sua presenza a una cena in un ristorante romano dove insieme ad altri fu fotografato l’allora senatore Cesare Previti, all’epoca in cui egli, ancora magistrato, presiedeva una commissione ministeriale per la riforma del codice penale, durante il secondo governo Berlusconi).

Non sono polemiche meramente faziose: è opinione comune che il settore giustizia sarà ancora uno dei temi caldi della prossima legislatura, come lo è stato in quella che sta finendo. È in questa direzione che si sono sviluppati l’intervento di Silvio Berlusconi sul tema dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, il dettagliato programma di Azione ed Italia Viva, che pone il delicatissimo tema della separazione delle carriere tra pm e giudici nonché quello del ripristino della prescrizione soppressa da Bonafede in una delle poche (pessime) riforme che i populisti sono riusciti ad attuare.

Su questi punti i programmi della coalizione di destra e del Pd latitano, ci sono solo generici accenni, se non – come nel caso della sinistra – assoluto e ostile silenzio.

Chi ne scrive invece nel suo libro è Carlo Nordio, anzi si può ben dire che nell’ultima parte sia presentato il programma di politica giudiziaria del centro-destra (oltre ai famosi disegni di legge di riforma costituzionale di FdI mai abiurati da Meloni e di cui questo giornale ha scritto, su cui Nordio in una recente intervista a il Dubbio ha sorvolato ).

Lo stesso neo-candidato ha motivato il proprio ingresso in politica nonostante lo avesse escluso più volte proprio perché era più opportuno poter applicare le sue idee esposte nel libro e nei numerosissimi editoriali su Il Gazzettino e Il Messagero. Ebbene, con un occhio di doverosa attenzione a ciò che Nordio scrive, essendo indicato come uno dei possibili futuri guardasigilli nel caso di governo di centro-destra, si può ben dire che il suo programma di riforma solo apparentemente ha tratti in comune con quello di Calenda e Renzi.

Quest’ultimo espressamente recepisce le osservazioni e le proposte dell’Unione delle camere penali italiane e, dunque, una visione espressamente garantista, mentre certi silenzi e dimenticanze di Nordio celano la feroce avversione di fondo di FdI a temi fondamentali come le condizioni carcerarie e la tutela dei diritti fondamentali delle minoranze.

Poi sul tema delle separazione delle carriere ci sono diverse considerazioni. Prima di tutto bisogna capire cosa si intenda con questa formula. Nell’attuale ordinamento è già prevista una pressoché totale separazione delle funzioni di inquirente e giudicante, ma il punto cruciale è la reale divaricazione delle carriere, degli organi disciplinari e di assegnazione degli incarichi direttivi, funzione che oggi è affidata a un unico Consiglio Superiore della Magistratura, con tutti i rischi di commistione e condizionamento che la vicenda Palamara ha svelato.

Un progetto di legge redatto dalle camere penali, in particolare, suggerisce che, ferma restando la permanenza dei pm nell’ordinamento giudiziario, si debbano istituire due CSM dedicati a ciascuna funzione e totalmente autonomi l’uno dall’altro.

Al contrario, non si comprende invece quale sia il modello di separazione che hanno in testa i meloniani (il presunto garantismo di Berlusconi conterà nulla, diciamo la verità, pura testimonianza). Nordio, poi, non lo scrive, e sarebbe necessario, perché – è evidente – oltre alla proposta delle camere penali c’è solo un altro modello, quello che prevede la fuoriuscita dei pm dall’ordinamento giudiziario per sottoporli all’esecutivo. È il modello di stato autoritario che prevede il controllo del governo direttamente sulle procure e sulla polizia giudiziaria, con tutti i gravi rischi del caso.

Sarebbe necessario che Fdi esplicitasse cosa intenda davvero quando parla di “separazione delle carriere”. Nordio fa riferimento esclusivamente al modello anglosassone americano, in cui i public attorney sono sotto controllo dell’esecutivo. Un modello non consigliabile per l’Italia.

Ma non è il suo unico silenzio: altrettanto grave è quello sul carcere e sulla sua riforma, con cui si possa consentire l’espiazione delle pene con misure alternative, evitando la vergogna di condizioni disumane di detenzione. Anche qui, si tace perché non si vuole una riforma e non è questa l’idea di funzione della pena che piace a Meloni. Basta una rapida lettura delle sue pagine social per trovare i soliti sgangherati e sguaiati appelli al carcere, quelli contro le “folli sentenze” garantiste delle Corti europee e le affermazioni che presuppongono una politica discriminatoria verso le minoranze etniche e di genere.

Bisognerebbe che sul punto l’avvocatura italiana fosse netta: il garantismo non è un cavillo per vincere le cause, ma una visione politica rigorosa e irriducibile a tutela dei diritti dell’imputato. È di conseguenza inutile mercanteggiare con i partiti che la ripudiano. C’è poca chiarezza e molta timidezza sul punto anche dei vertici dell’Unione Camere Penali, ma i tempi attuali non suggeriscono mediocri furbizie ed ambiguità.

Personalmente auguro a Nordio le migliori fortune: è uomo colto, di vaste letture, penna fertile e fantasiosa come i suoi romanzi di fantasia testimoniano ma forse è opportuno stia lontano dal posto di Guardasigilli e faccia valere l’expertise professionale altrove, in una commissione e nei disegni di legge, dove potrà servire lo Stato senza tentazioni e compromessi di potere.

Nell’ultima sorprendente parte del suo libro racconta con grande efficacia i suoi difficili rapporti con certi settori della sua categoria ed in particolare con l’allora potente procura di Milano e alcuni suoi celebri esponenti che a suo dire, non proprio correttamente pubblicarono intercettazioni tra un indagato e un difensore che a lui facevano riferimento. Informa i lettori di custodire gelosamente alcune cordiali lettere dell’ex procuratore capo Borrelli, con cui ebbe modo di chiarirsi.

Con ripete spesso Giuliano Ferrara, in Italia una rivoluzione non è possibile perché ci conosciamo tutti. Ecco, i magistrati in particolare si conoscono benissimo tra di loro e come scrive Nordio non dimenticano, al massimo “fanno finta”, i torti subiti. Dunque non è il caso che si occupino di governare il paese né durante ma anche dopo la carriera, specie quando sia stata prestigiosa, carica di gloria e degna di ogni stima.

Crisanti: «Io candidato? Ora servono i tecnici per uscire dall’emergenza. Bassetti? Deve mettersi in gioco se vuole fare il ministro». Margherita Montanari su Il Corriere della Sera il 16 agosto 2022.

È stato tra i virologi-star protagonisti della pandemia, una delle voci più critiche sulla gestione della seconda ondata di Covid-19. Cambia settore, ma il campo in cui si muoverà, garantisce, rimarrà quello della scienza. Andrea Crisanti, 67 anni, microbiologo e direttore del dipartimento di microbiologia molecolare dell’Università di Padova, già ricercatore all’Imperial College di Londra, .

Professor Crisanti, nel 2020, Pd e Movimento 5 Stelle le chiesero di candidarsi nel collegio suppletivo Verona Nord. Lei rifiutò, dicendo che si sentiva più utile come ricercatore. Cosa le ha fatto cambiare idea? «In una situazione come quella che sta vivendo l’Italia — di emergenza economica, sanitaria e sociale — penso che ci sia bisogno dell’impegno dei tecnici in politica. Nessuna decisione basata sui dati è neutrale, serve una sensibilità sociale per poterla applicare. Il parere della scienza non è stato ascoltato a sufficienza, pur in una fase in cui il suo contributo è fondamentale. È questo il motivo della mia candidatura».

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«È il risultato di una reciproca stima e fiducia. Dopo tre settimane di confronto, ho accettato di candidarmi perché mi riconosco nei valori di questa formazione politica. Sono iscritto al circolo di Londra da 6 anni».

La sua è stata una voce di riferimento, e al contempo tra le più critiche, durante la pandemia, in particolare nella seconda ondata. «Questo perché le scelte di contenimento erano fondamentalmente sbagliate, prese senza tenere in considerazione i dati. Basti pensare che la Regione Veneto ha acquistato centinaia di migliaia di tamponi sulla base di una valutazione scientifica falsa».

Resta centrato sul Veneto, di cui ha criticato il governatore Luca Zaia, ma scende in campo in Europa. «L’attenzione rimane anche a livello locale. Mi sento onorato dal collocamento in Europa, perché racconta molto della mia storia familiare. Ho vissuto per 30 anni all’estero e non sarei chi sono oggi senza il contributo che mio zio, partito per l’America, mi diede, permettendomi di studiare».

Ha contestato anche le decisioni del Ministero guidato da Speranza, che ora fa parte del suo stesso campo. «Sull’operato di Speranza non ho mai fatto polemica. Penso che sia stato vittima di un sistema fatto di tecnici scelti prima del suo arrivo sulla base di appartenenze politiche e lottizzazioni».

Quale giudizio dà alla riforma sanitaria che ha avviato? «Penso che l’Italia abbia bisogno di una riforma sanitaria strutturale. Le università e gli istituti di ricerca scientifica dovrebbero essere dissociati dal sistema sanitario nazionale. Perseguono obiettivi diversi: il sistema sanitario nazionale deve fornire a tutti i cittadini assistenza tempestiva, efficace e in linea con linee guida nazionali e internazionali; l’università investigare e sperimentare nuovi approcci terapeutici. In Italia ancora non si fa ricerca clinica all’avanguardia».

L’infettivologo Matteo Bassetti si è detto disponibile a fare il Ministro, ma non a candidarsi. Che cosa ne pensa? «Bassetti è una brava persona, non commento le sue scelte. Penso però che debba mettersi in gioco e cercare i voti».

C’è chi l’accusa di sfruttare la visibilità acquisita con la pandemia. Matteo Salvini ha commentato la sua candidatura con un tweet in cui la chiama «tele-virologo». «Penso che Salvini sia un tele-mistificatore, con tutte le bugie che ha detto agli italiani. Coloro che lo votano sono come galline che vanno a pranzo con la volpe. Io non ho sfruttato nulla. Ho preso sempre posizioni che riflettevano personali convinzioni, avendo come unico punto di riferimento la mia integrità professionale».

Per quali battaglie si mette a disposizione? «Penso di poter dare un contributo importante con l’esperienza maturata in campo sanitario, scientifico e nella ricerca. Ci sono poi tematiche che riguardano il livello di rappresentanza degli italiani residenti all’estero, davvero ridicolo. È un dato a cui va posto rimedio. Ma la vera sfida è il recupero delle persone che si sentono emarginate e non hanno speranza nel futuro».

Alle comunali, a Padova, suo figlio si è candidato con una lista civica di centrosinistra. Anche lui l’ha spinta a scendere in campo ora? «In questa scelta convinta sono supportato da mia moglie Nicoletta e naturalmente da mio figlio Giulio. A loro mi unisce un profondo sentimento di solidarietà e di valore verso la cosa più giusta». 

AGI il 16 agosto 2022. Oltre che essere uno dei virologi ‘protagonisti’ della pandemia, il candidato del Pd Andrea Crisanti è anche l’autore di una perizia di novanta pagine, con altre diecimila di allegati, che potrebbe risultare decisiva negli esiti dell’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione delle prime fasi del virus ed, eventualmente, indurre i pm a iscrivere nel registro degli indagati alcuni esponenti del Pd. 

“Ma non ritengo ci sia alcuna inopportunità in questo senso nella mia scelta di candidarmi. La mia è una perizia solo tecnica, durante questi anni ho polemizzato spesso con qualsiasi partito. Non ho mai derogato né mai derogherò alla mia integrità e trasparenza” dice  il microbiologo all’AGI. 

Lo studio, che ha richiesto un lavoro di un anno e mezzo, ha evidenziato, aveva spiegato Crisanti quando, nel gennaio scorso, è stato depositato in Procura, “delle criticità sulla ‘zona rossa’ in Val Seriana, sia sulla tempistica che sulle modalità”.

"La candidatura va oltre i disaccordi contingenti"

Una delle ipotesi dei magistrati guidati dal procuratore Antonio Chiappani è che la mancata ‘chiusura’ da parte del governo e della Regione Lombardia del territorio devastato dal Covid  abbia potuto aggravare il bilancio delle vittime. 

“L’attestato di stima da parte del Pd va al di là dei disaccordi contingenti e riconosce la mia integrità. Le valutazioni della scienza sono indipendenti dalla politica” aggiunge, spiegando che “Dio solo sa quanto ci sia bisogno del contributo di tecnici nel governo del Paese”.

La Procura di Bergamo chiuderà la sua lunga inchiesta in autunno, probabilmente dopo il voto. Tra i reati ipotizzati ci sono epidemia colposa e falso. Sul tavolo anche il tema del piano pandemico non aggiornato.

La risposta a Bassetti 

Lo scienziato risponde anche al collega Matteo Bassetti che ha ipotizzato un collegamento tra la sua candidatura e la pensione imminente. “Veramente mi avevano chiesto anche 5 anni fa di candidarmi, prima della pandemia  - ribatte -. In ogni caso la pensione non è un limite per chi ha una reputazione scientifica internazionale come la mia, sia in Italia che all’estero. Non avrei problemi a lavorare in un’università inglese o americana”.   

Da adnkronos.com il 16 agosto 2022.

"Sono onoratissimo di essere stato candidato dal Partito democratico". Così all'Adnkronos Salute Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'università di Padova, commenta la sua candidatura alle elezioni politiche. Il microbiologo sarà capolista in Europa per i dem. 

"Mi rivolgo agli elettori di Salvini e voglio dirgli che gli errori che ha fatto, le valutazioni, in politica estera, in sanità, in economia, sono la garanzia degli errori che potrà fare se avrà la possibilità di governare", ha poi aggiunto a 'Coffee Break' su La7 Crisanti, replicando a quanto scritto da Matteo Salvini su Twitter: "Il televirologo Crisanti candidato col Pd. Credo che ora si capiscano tante cose".

"Ad Andrea Crisanti auguro ogni successo. E qui mi fermo". Così all'Adnkronos Salute Massimo Galli, già direttore Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, commenta con una battuta la candidatura del virologo. "Io sono tranquillamente sul lago a scrivere il mio libro sull'influenza", aggiunge Galli 

"Ho visto che Andrea Crisanti e Pier Luigi Lopalco si sono candidati. E' una scelta rispettabile e anche utile per la comunità. Per loro c'è un problema anagrafico, entrambi credo che siano vicini alla pensione e fanno una scelta per il futuro. Hanno fatto tanto per la scienza e ora potranno portare quello che hanno fatto in Parlamento", il commento all'Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova.

"Sono sempre contento quando un collega scende in politica, indipendentemente dallo schieramento. Credo che sia sempre un valore aggiunto. Crisanti ha dato molto in questi due anni e mezzo, senz'altro può rappresentare un valore aggiunto e ne beneficerà indirettamente la sanità. E' un professore universitario, ha una larga esperienza clinica: è un esponente della società civile che aggiungerà qualcosa in futuro, indipendentemente dallo schieramento politico". Così il sottosegretario alla Salute Perpaolo Sileri commenta a 'Coffee Break' su La 7.

Da liberoquotidiano.it il 16 agosto 2022.  

Matteo Bassetti dà una lezione al collega Andrea Crisanti che correrà alle prossime elezioni con il Pd. "Ho visto che Crisanti e Pier Luigi Lopalco si sono candidati. È una scelta rispettabile e anche utile per la comunità. Per loro c’è un problema anagrafico, entrambi credo che siano vicini alla pensione e fanno una scelta per il futuro.

Hanno fatto tanto per la scienza e ora potranno portare quello che hanno fatto in Parlamento", commenta il direttore della Clinica di malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova che chiude la porta alla sua candidatura alle elezioni politiche ma lascia aperta forse quella per essere chiamato eventualmente al ministero della Salute. 

"Sono contento di fare il medico e il professore universitario. Non mi candido, appeno ho detto che avrei dato la disponibilità per fare il tecnico mi hanno sparato addosso", aggiunge infatti il professore. Che sull’ipotesi per fare il ministro della Salute resta vago: "Vedremo cosa succederà dopo il 25 settembre, chi sarà il premier. La politica qualche volta ha paura dei professionisti e dei tecnici, io sono contento di fare il mio lavoro".

Poi tira una frecciata: "Il fatto poi che gli unici due candidati virologi siano a sinistra, fa pensare che la destra abbia paura a toccare questo argomento", conclude Matteo Bassetti. "Questa è la sensazione. Aver cancellato la pandemia, la campagna vaccinale, dalle agende del centrodestra non farà sparire il Covid".

Pd, Monica Cirinnà si candida. Ma sgancia un siluro su Letta. Libero Quotidiano il 16 agosto 2022

Alla fine Monica Cirinnà accetta la sfida. Dopo aver annunciato in mattinata il rifiuto della candidatura, nel pomeriggio il cambiamento di idea: sarà candidata alle elezioni del 25 settembre. "Penso che sarà una battaglia difficile, complicata ma che forse vale la pena di fare, per salvare l’Italia dall’oscurantismo e dai fascisti. E nonostante tutti gli errori fatti, credo che valga ancora la pena votare Pd. Essere rieletti al collegio di Roma 4 sarà una battaglia difficilissima. Farò la mia battaglia e lo faccio perché tantissime persone mi hanno chiesto di ripensarci", ha affermato la senatrice del Pd. 

Ma dopo aver annunciato di voler restare in pista per una poltrona, la Cirinnà ha sganciato qualche siluro contro Enrico Letta: "Siamo di fronte a una gestione degli accordi, delle liste e delle candidature a dir poco pessima. Quelli che erano alleati sono diventati nemici, mentre ora abbiamo alleati che poco portano come valore aggiunto al centrosinistra. La partita degli alleati e delle liste è stata gestita malissimo". Parole di fuoco che fanno alzare la tensione all'interno del Pd. Letta è accerchiato dai delusi delle liste. Lotti lo ha attaccato con un lunghissimo post sui social, la Cirinnà ha chiesto una conferenza stampa. Insomma nel Pd è il caos. Senza fine...

Purghe democratiche. A volte più che i programmi sono i nomi che dovrebbero realizzarli a dare il segno di dove sta andando un partito. Augusto Minzolini il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

A volte più che i programmi sono i nomi che dovrebbero realizzarli a dare il segno di dove sta andando un partito. Ebbene, a parte foglie di fico come Carlo Cottarelli e Pier Ferdinando Casini, il vascello del Pd nel suo perenne navigare nell'oceano della politica fa di nuovo rotta verso un passaggio a sinistra. C'è la logica del rancore, come la definisce Matteo Renzi, cioè il massacro degli ex seguaci dell'ex segretario, spietato quanto quello degli ugonotti, e c'è la legge dei capibastone, cioè il tentativo di Letta di accontentare i boss del partito nella speranza di creare una catena di solidarietà in caso di sconfitta: ma il vero dato che emerge dagli inserimenti a sorpresa e dalle esclusioni eccellenti nelle liste dei candidati è che il baricentro del partito di Enrico Letta si è spostato sensibilmente verso i mondi che piacciono a Orlando, Provenzano, Bersani e Fratoianni.

Già solo la scelta di aver escluso o comunque collocato in uno di quei posti in cui essere eletti equivale a vincere una lotteria un personaggio come Vincenzo Amendola, che ha curato per il Pd i rapporti con l'Europa e il Pnrr, dà l'idea di quale futuro l'attuale segretario immagina. E in questo quadro, duole dirlo, l'agenda Draghi o il draghismo professato urbi et orbi è solo fuffa elettorale. In realtà con queste liste e questa impostazione Letta tenta di rubare spazio ai grillini e in ogni caso a tessere una tela che punta a riallacciare un'alleanza con Giuseppe Conte dopo le elezioni.

È la sola chiave di lettura che riesce a spiegare l'inspiegabile, cioè le decisioni prese dal vertice del Pd nella scelta dei nomi. Preferire Fratoianni ad un costituzionalista del calibro di Stefano Ceccanti è il segnale di una precisa scelta di campo. Come pure dare mano libera a Michele Emiliano nella scelta dei candidati in Puglia. O ancora blindare l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. La verità è che Letta - a parte appunto le foglie di fico - ha deciso di non guardare più verso l'area moderata ma insegue sotto sotto di nuovo il populismo di sinistra. L'ennesimo ritorno alle origini. Del resto c'è una regola in natura: quando il Pd è in difficoltà, per un preciso meccanismo antropologico, subisce il richiamo della foresta. Una scommessa che può anche avere una sua ratio elettorale: riprendersi, cioè, il voto attratto negli ultimi anni dal grillismo imperante. Ma che nel contempo prevede un costo pesante perché ipoteca la linea del Pd dopo il 25 settembre.

Con il personale politico che Letta si porta in Parlamento, infatti, è difficile immaginare scelte lontanamente liberali in economia: si regala un seggio a Cottarelli, ma con i gruppi parlamentari zeppi di sindacalisti alla fine il vertice del Pd sarà costretto a seguire la bussola economica e i diktat di Maurizio Landini. Stesso discorso vale per la giustizia: è evidente che con la presenza tra le fila di deputati e senatori di personaggi che si ispirano ad una nuova edizione, riveduta e corretta, del giustizialismo, lo spirito garantista, già debole di suo nel Pd, andrà a farsi benedire. Non parliamo poi della politica fiscale: le prime avvisaglie della svolta statalista e assistenzialista si sono viste in questo scorcio di campagna elettorale. E in fondo anche la solita tecnica di delegittimare se non criminalizzare l'avversario è il ritorno ad una tattica che è l'emblema culturale (si fa per dire) del populismo di sinistra.

Una politica regressiva con la quale Letta mira a traguardi più modesti: non punta a vincere le elezioni, obiettivo che presupporrebbe la scelta di candidature di qualità coniugabili con un'ipotesi di governo tipo l'agenda Draghi; ma ad accasare tutte le tribù di sinistra nel tentativo complicato di diventare il primo partito. In fondo solo una polizza per assicurarsi la sopravvivenza.

Letta fa fuori Lopalco. Il virologo iscritto al partito di Speranza è stato escluso dalle liste del Partito Democratico. Annarita Digiorgio il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

Pierluigi Lopalco era stato il primo tra le virostar della pandemia a scendere in politica, chiamato a candidarsi alle regionali nella lista civica di Michele Emiliano. Oggi, pur avendo offerto la sua disponibilità, resta fuori dalle liste del Partito Democratico. Segato proprio dal suo talent scout della politica, il governatore della Puglia.

“Avevamo proposto candidature che sono state totalmente ignorate in nome di una arroganza senza limiti, di una concezione padronale della lista” è cosi che il partito di Speranza annuncia che il Pd ha fatto fuori Lopalco.

Il virologo infatti era stato inserito in quota Articolo Uno nelle liste della Puglia. Pierluigi Lopalco, professore a Pisa, da tre anni è tornato nella regione d’origine chiamato direttamente da Emiliano per fargli da scudo durante la pandemia. E per avere la possibilità di inserire il logo Regione Puglia a ogni ospitata tv.

I problemi tra Lopalco e la Giunta della Puglia

Ma la liaison con il governatore pm è durata poco, e alla luce di una importante inchiesta giudiziaria che ha portato all’arresto del capo della protezione civile nominato da Emiliano per gli appalti dell’ospedale Covid in Fiera del levante, Lopalco si è dimesso ed è passato nel partito di Speranza. Accusando Emiliano di trasformismo, furberie, e spregiudicate manovre di palazzo.

Articolo Uno invece da tempo in Puglia è critico verso la maggioranza non avendo neanche un rappresentante in giunta a dispetto delle numerose postazioni elargite da Emiliano a uomini di destra. Ma dopo l’accordo nazionale con il Pd che ha previsto la candidatura degli esponenti della ditta nelle liste del Partito Democratico, pensavano di poter tornare in auge.

E invece Enrico Letta ha deciso di appaltare tutta la lista in Puglia a Michele Emiliano che ha inserito tutti i suoi capolista maschi, compreso il suo capo di gabinetto, e fatto fuori lo scienziato Lopalco. Che oggi, dopo l’annuncio della candidatura di Crisanti, avverte il silenzio intorno a sè: "Non ho notizie sulla mia candidatura alle elezioni politiche - dice il virologo all’adnkronos- quando si è aperta la crisi, la segreteria regionale di Art 1 ha fatto il mio nome come proposta di candidatura. Tutto qui. Da allora non ho sentito più nessuno".

Quindi il partito di Speranza è intervenuto con un duro comunicato contro Emiliano: "Articolo Uno è cofondatore della lista Italia democratica e progressista insieme a Demos, Psi e Pd. In tale veste abbiamo chiesto ripetutamente di compartecipare alla stesura del programma e alla scelta delle candidature, pur nel rispetto dei ruoli e delle proporzioni. In Puglia a parole ci è stato assicurato che ciò sarebbe accaduto, nei fatti è successo esattamente il contrario. Ne prendiamo atto".

A questo punto Lopalco, consapevole dell’insormontabilità dei paletti messi da Emiliano, prova a farsi notare direttamente dall’ex ministro con la speranza di essere inserito all’ultimo minuto in qualcuno dei collegi rimasti ancora vacanti: "Articolo Uno è cofondatore della lista Italia democratica e progressista insieme a Demos, Psi e Pd. In tale veste abbiamo chiesto ripetutamente di compartecipare alla stesura del programma e alla scelta delle candidature, pur nel rispetto dei ruoli e delle proporzioni. In Puglia a parole ci è stato assicurato che ciò sarebbe accaduto, nei fatti è successo esattamente il contrario. Ne prendiamo atto".

E a questo punto giocandosi il tutto per tutto il virologo non esita nello sciorinare il mantra tipico del perfetto candidato del Pd, ovvero l’appello contro le destre: "Mi spaventa una ipotetica vittoria della destra. Le ricette che stanno mettendo in campo e il taglio della spesa pubblica spalancheranno le porte alla sanità privata. Addio sistema universalistico".

Candidate il virologo Lopalco, altrimenti arrivano le destre.

Elezioni: Lopalco candidato in Puglia, uninominale al Senato. Articolo Uno esulta: «La nostra richiesta è stata accettata». Redazione online il 18 Agosto 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

«Qualche ora fa ci è stato comunicato che la richiesta di Articolo Uno Puglia di candidare il professore Pierluigi Lopalco (ex assessore regionale alla Sanità, ndr) è stata accettata. Correrà per il Senato della Repubblica nel collegio uninominale di Lecce». Lo comunica la segreteria di Articolo Uno Puglia.

«Riteniamo - dicono - che questo sia un fatto importante che, oltre che premiare le qualità di una persona di caratura internazionale, riconosce la giusta dignità al nostro partito. A questo punto chiediamo a Francesca Irpinia, altra nostra candidata nel collegio di Taranto, di rimuovere ogni perplessità e di accettare la candidatura. Ringraziamo allo stesso tempo Adalisa Campanelli e Adriano Merico per la loro dichiarata disponibilità e chiamiamo tutti all’impegno e alla lotta».

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 18 agosto 2022.

Dai territori non solo malumori, ora anche i ricorsi agli organi interni per chiedere l’annullamento delle liste. Succede in Puglia, dove il Partito democratico locale è in rivolta (o almeno una parte) per le scelte fatte e per l’assenza tra i capilista di esponenti donne. 

Ecco che allora due consiglieri regionali dem, Ruggiero Mennea e Fabiano Amati, hanno presentato un ricorso urgente “alla Commissione nazionale di garanzia per annullare le liste del Pd Puglia e modificarle”.

Secondo i due esponenti del Pd infatti, i candidati sono stati “nominati con atti illegali e modalità sessiste“. E hanno violato una serie di regole interne: “Parità di genere perché composte con soli capilista uomini; mancanza di elezioni primarie o sistema di ampia consultazione (contendibilità); uguaglianza di tutti gli iscritti; designazioni collegiali; rappresentatività politica e territoriale; pubblicità della procedura di selezione; modalità democratica di approvazione delle candidature attraverso organi rappresentativi; rinunce e sostituzioni senza riconvocare la direzione nazionale”. Secondo i due consiglieri regionali, quindi, sarebbero “numerose le violazioni”.

E non ci sono solo i ricorsi. La presidente del Consiglio regionale, Loredana Capone, solo al quarto posto nel plurinominale al Senato, “sta riflettendo” se accettare o meno la candidatura. Al suo posto è finito il braccio destro di Michele Emiliano: il capo gabinetto Claudio Stefanazzi. Poi c’è chi chiede di modificare le liste perché violerebbero “gli statuti nazionali e regionali”. 

[…] A fare scalpore, al di là delle scelte politiche, è il fatto che non ci sia neanche una donna capolista. Questi i nomi che sono stati scelti dalla direzione e da Enrico Letta: l’assessore regionale Raffaele Piemontese a Foggia; il segretario del Pd Puglia, Marco Lacarra a Bari; a Taranto il deputato uscente Ubaldo Pagano; a Lecce il capo Gabinetto della Regione Puglia, Stefanazzi. Al Senato il capolista sarà l’ex ministro Francesco Boccia.

Califfato Emiliano: piazza i fedelissimi e "oscura" le donne. La Puglia in rivolta. Proteste per il metodo del governatore. Cestinate le promesse dem sulle quote rosa. Massimo Malpica il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.

Da sceriffo a califfo. A dar retta ai (tanti) scontenti del Pd pugliese, il governatore Michele Emiliano ha completato la sua parabola con l'operazione-liste compiuta sull'asse Bari-Roma a Ferragosto: in corsa ci sono tutti i suoi fedelissimi, e sono uomini. Quattro, per dire, sono quelli scelti come capilista del plurinominale alla Camera: il segretario regionale e parlamentare uscente Marco Lacarra a Bari, il capo di gabinetto di Emiliano, Claudio Stefanazzi (che non ha nemmeno la tessera del Pd), a Lecce, il parlamentare barese Ubaldo Pagano a Taranto, mentre a Foggia corre da capolista Raffaele Piemontese, assessore al Bilancio nella giunta di Emiliano.

E a scatenare i malumori interni è anche il listino per il Senato, dove capolista è Francesco Boccia e al numero due, che dovrebbe essere l'ultimo utile, trova posto Valeria Valente, senatrice napoletana uscente, che precede il commissario dem a Taranto e responsabile economico della segreteria di Letta, il bergamasco Antonio Misiani. Solo quarta, praticamente non eleggibile, la presidente del Consiglio regionale Loredana Capone, salentina, tra i motivi che hanno fatto dissotterrare l'ascia di guerra al Pd leccese. Alla Capone non resta che sperare che la Valente e Misiani, candidati anche in altri collegi, la spuntino lontano dalla Puglia. Ma resta il dato di fatto: nemmeno un mese fa, Enrico Letta ringhiava severo ricordando che «la legge uomo-donna si applica, non venite a chiedermi cose che non si possono fare». Ma, almeno in Puglia, la parità di genere e i bei principi dello statuto dem sembrano essere andati a farsi benedire.

Come detto, però, le reazioni non si sono fatte attendere. «Letta si era impegnato nella formazione delle liste a garantire il principio della parità di genere (come previsto dal nostro Statuto che riserviamo di impugnare) e della territorialità», ringhia una nota della Conferenza regionale Donne democratiche, rimarcando come «l'approvazione delle liste pugliesi» ha «completamente dimenticato tali principi», tanto che «le donne perdono quota e cosi ci ritroviamo con ben 5 capilista uomini e nessuna donna candidata in posizione utile ed eleggibile», concludono le rappresentanti Dem, ricordando poi l'assenza di candidati «eleggibili» espressione del territorio salentino, conclamata anche dalle dimissioni, per protesta, del segretario provinciale Ippazio Morciano. Durissimo anche Fabiano Amati, consigliere regionale e avversario di Emiliano, che definisce «invotabili» e «pure illegali» le liste Pd pugliesi. «Non era stato il segretario Letta a dire che vogliamo un partito femminista? Non era stato il presidente Emiliano a dire che la violazione della parità di genere ci rende impresentabili?», chiosa Amati, chiedendo al suo partito «l'immediata modifica delle liste», invertendo «il genere dei capilista in almeno due collegi proporzionali della Camera», per concludere ironizzando sull'attenzione che Emiliano riserva al genere femminile: «Considera le donne ostriche imperiali se il conto lo devono pagare gli altri e cozze patelle se il conto deve pagarlo lui».

Netto anche il giudizio, su Twitter, del senatore uscente e componente della direzione del Pd Dario Stefano, che ha lasciato i dem dopo non essere stato ricandidato: La volontà di Letta e Boccia di trasformare questo partito tradizionalmente maschilista in un partito femminista che dia spazio alle donne si è arenata con la sostituzione capigruppo Pd Camera e Senato nel 2021. In Puglia, nessuna donna capolista. Nessuna vergogna?».

Vincenzo De Luca piazza i fedelissimi, il figlio sotto processo e il Pd tace. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 17 agosto 2022

La presentazione delle liste del Pd ha aperto uno scontro all’interno del partito, un tutti contro tutti che il segretario Enrico Letta ha stoppato chiarendo che la riduzione dei parlamentari ha imposto queste scelte, «impossibile ricandidare tutti, ho chiesto dei sacrifici», ha detto l’ex primo ministro. 

Tra le conferme una appariva scontata visto il nome, ma soprattutto il cognome: quella di Piero De Luca, vice-capogruppo uscente dei democratici alla camera dei Deputati. 

Lo scorso marzo diversi intellettuali avevano scritto a Enrico Letta, segretario del Pd. «Sotto De Luca il Partito è a pezzi, parvenze di segretari dirigono le segreterie locali, alle elezioni il simbolo non c’è, a Salerno è una segreteria personale di Piero De Luca», scrivevano. Un appello rimasto inascoltato.

Bernardo Basilici Menini per “La Stampa” il 22 agosto 2022

Il Partito democratico nazionale alla fine è dovuto correre ai ripari e scegliere la soluzione più drastica: togliere Laura Castelli dalle liste elettorali per evitare la deflagrazione completa del Pd torinese e piemontese. Alla notizia che la viceministra - ex del M5S ora tra le fila di Di Maio da quando quest' ultimo è fuoriuscito dai pentastellati - era stata paracadutata nell'uninominale di Novara per la coalizione di centro-sinistra nella base subalpina dei Dem è scoppiata la rivolta. 

Castelli per i militanti e gli iscritti è come il fumo negli occhi. Le cause risalgono al 2016, quando l'allora parlamentare grillina aveva insinuato un legame tra l'ex sindaco Piero Fassino e una giovane candidata alle amministrative. L'ex M5S è stata condannata per diffamazione aggravata. Una vicenda mai perdonata.

La prima a prendere la parola è stata proprio la vittima di quei fatti, Lidia Roscaneanu, che ieri ha annunciato di voler restituire la tessera del partito a causa di una scelta definita «ripugnante non solo per me, ma per tutta la comunità del Pd piemontese, che per anni ha subito costantemente i suoi insulti ingiustificati e privi di fondamento».

Ma la gravità della situazione è stata chiara solo a metà mattinata, quando è arrivato l'annuncio dell'auto sospensione dal partito di Saverio Mazza, in polemica con l'ingerenza romana. Mazza nel Pd non è uno qualunque: membro della direzione provinciale, è di quei militanti che «per la maglia» si è spaccato la schiena più volte, rischiando di pagarne le conseguenze. Se n'è uscito dicendo che «in politica ci si sta non solo con i numeri, ma anche con la dignità». 

Il segretario metropolitano Marcello Mazzù, eletto alla carica da poco e quindi solitamente attento alle uscite, è stato laconico: «Ne abbiamo già digerite tante, con grande difficoltà e con una buone dose di Maalox, ma questa è dura da mandare giù». Insomma, come si diceva, la base torinese è esplosa.

 Per capire quanto pericolosa fosse la circostanza a un mese dalle elezioni bisogna tradurre il messaggio che il segretario e la vicesegretaria Dem piemontesi Paolo Furia e Monica Canalis hanno mandato direttamente a Enrico Letta, parlando della «forte preoccupazione dei militanti del territorio nei riguardi dell'ipotesi di sacrificare candidature territorialmente forti per fare spazio a figure alleate particolarmente divisive»: «Scelte di questo tipo - hanno avvertito - rischierebbero di compromettere l'entusiasmo e la partecipazione di molti militanti». 

Dietro ai toni pacati si legge in controluce un messaggio chiaro: a queste condizioni sarà dura trovare militanti disposti a impegnarsi nella campagna elettorale per le strade. I due, d'altronde, erano i primi a essere irritati, visto che Roma gli aveva già imposto una lunga serie di candidati paracadutati. Così, hanno spiegato chiaramente che quella di Castelli era la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso.

Alla fine, si diceva, è arrivato il dietrofront. A farlo la stessa viceministra, vuoi per uscire da sola prima che qualcuno la buttasse fuori, vuoi per risentimento. «Scopro dai giornali che sarei candidata all'uninominale di Novara. No grazie, "casa mia" è Collegno (Comune alle porte di Torino, ndr). Se la coalizione ha fatto altre scelte, ne prendo atto e in pieno spirito di squadra darò il mio contributo nei plurinominali di Impegno Civico». Insomma, formalmente Castelli rinuncia a una candidatura in un territorio che non è il suo. 

Come leggere queste dichiarazioni? Lei non sapeva di essere stata candidata? Oppure c'era un accordo, che in teoria doveva rimanere nascosto fino a che le liste non fossero state depositate ufficialmente, e che è saltato quando tutto è finito alla luce del sole? Non si sa.

Qualcuno arriva a ipotizzare che la notizia sia stata fatta filtrare apposta dalla segreteria nazionale del Pd per «bruciare» la viceministra prima che fosse troppo tardi. A rassicurare che la vicenda era chiusa ci ha pensato Furia nel pomeriggio: «L'esito della discussione è stato il ritiro di Laura Castelli dal collegio del Pd. Ringrazio il partito nazionale per aver compreso le nostre ragioni e aver operato in questa direzione, preservando la dignità del nostro gruppo dirigente».

Come non si fanno le liste. Il pasticciaccio su Laura Castelli e lo strano vizio del Pd di regalare seggi a chi li insulta. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 22 agosto 2022

La viceministra dell’Economia, condannata in passato per diffamazione nei confronti di una giovane candidata rumena del Partito Democratico, era stata messa all’uninominale a Novara, suscitando l’ira dei vertici locali. La storia era stata raccontata da Linkiesta

Non ci sono solo i casi dei candidati anti Israele Raffaele La Regina e Rachele Scarpa o quello di Marco Sarracino che esalta l’Unione Sovietica. Ancora più grave, se possibile, è quanto è accaduto in Piemonte, con una ex Cinquestelle che stava per essere imposta in un collegio uninominale piemontese malgrado sia stata condannata per diffamazione di una candidata locale del Pd. Linkiesta se ne era occupata proprio in occasione della condanna.

La candidata è la viceministro dell’Economia Laura Castelli, ora passata con Di Maio, e quindi alleata in quel che rimane del “campo largo” di Letta. Chi l’ha fatta condannare per diffamazione aggravata e adesso ha detto di voler restituire la tessera del Pd è invece Lidia Roscaneanu.

All’origine, un post Facebook con una foto di una giovane ragazza assieme a Piero Fassino, nel 2016 candidato a sindaco di Torino contro Chiara Appendino. Accanto alla foto, un bigliettino di campagna elettorale sempre con la foto della ragazza: «PER LA CIRCOSCRIZIONE 3 scrivi ROSCANEANU accanto al simbolo PD». Sopra a tutte e due questo commento: «Che legami ci sono fra i due? Fassino dà un appalto per il bar del Tribunale di Torino a una azienda fallita tre volte, che si occupa di aree verdi, con un ribasso sospetto. LA PROCURA INDAGA. Fassino candida la barista nelle sue liste. Quanto meno inopportuno… che dite?».

Per questo post, Laura Castelli è stata condannata a 1.032 euro di multa più 5.000 euro alla parte civile. Lidia Roscaneanu, di origine romena, ci aveva raccontato di aver pianto due volte durante il processo. «La seconda volta alla sentenza, e la prima quando ho dovuto ripetere le cose che mi avevano scritto dopo quel post. Io non sono una ragazza che dice parolacce, mi fa male ripetere certe cose. Non solo, hanno fatto anche riferimenti a certi tipi di attività sessuali. La cosa è finita sui giornali romeni, e mia madre mi ha chiamato. Lidia, mi ha detto, tu vivi in Italia da sola, certe cose ce le devi dire. È vero che hai una relazione con quell’uomo politico?».

Nata in Romania il 20 marzo del 1983, laureata in Economia, in Italia dal 2004 al seguito di un fidanzato italiano con cui ha avuto una storia di nove anni ma con cui all’epoca si era già lasciata, Lidia Roscaneanu non ha mai preso la cittadinanza italiana, ma in quanto cittadina comunitaria alle amministrative si poteva candidare. Nel 2016 le viene dunque proposto di presentarsi per intercettare un voto romeno che può essere interessante, e va a un evento elettorale in cui le fanno una foto con il candidato sindaco Fassino, come tutti gli altri candidati in circoscrizione.

«Lì lo ho conosciuto», assieme al candidato sindaco e a quello in Consiglio comunale. Mette la foto su Facebook. «Nella mia ingenuità, pensavo che farmi ritrarre con il candidato sindaco fosse un onore. Sono una ragazza semplice, non è che pensavo seriamente di potere essere eletta». Proprio quella foto appare però ritagliata nella pagina “Laura Castelli – Cittadina in Parlamento”.

Cosa tipica dell’arte del manganello digitale dei Cinquestelle: nel castello costruito dalla Castelli i dati artefatti sono sapientemente mescolati a qualcosa di vero. Su quell’appalto, in effetti, sarebbe arrivata davvero una sentenza. Lidia conferma che «alcuni membri della società sono stati condannati, e con loro un dipendente del Comune di Torino che aveva preso soldi». Ma né lei né Fassino sono mai stati neanche interrogati per quella storia.

È vero che Lidia in quella società lavorava: non come barista, ma come cassiera. Ma il post della Castelli lascia intendere che ne fosse un pezzo grosso. Invece, non solo era una semplice dipendente, ma al momento della foto e del commento (il 25 febbraio 2016) si era già rivolta alla Procura perché non le venivano pagati gli stipendi. Sabato 7 maggio, invece, la Castelli insinua che Lidia avrebbe offerto favori sessuali a Fassino per far avere un appalto alla società che non la paga e che ha portato in Procura. «Al lavoro c’erano militanti dei Cinquestelle: qualcuno di loro deve aver detto alla Castelli che io lavoravo in quella società».

Il post viene subito ripreso dai Cinquestelle di Torino, da tutti i candidati Cinquestelle, dal blog di Grillo e da quello dei Cinquestelle nazionali, da cui subito sulla ignara Lidia parte una valanga di post che si soffermano sul suo essere romena e giovane donna, e i cui concetti principali sono che il Partito democratico è un partito di mafiosi e che lei si guadagna il pane praticando mercimonio sessuale.

La Castelli, dopo la presentazione della querela, fa sparire la pagina incriminata, che però è stata ormai screenshottata. Ma non chiede scusa. «E neanche si è mai presentata in tribunale. Però ha espresso solidarietà alla Meloni, e mi ha fatto chiamare dall’onorevole del Pd Paola Bragantini per chiedermi se volevo rimettere la querela. Ho detto di no. Comunque gli insulti via social continuano ad arrivarmi.

Una volta che la macchina dei Cinquestelle parte, non è che poi si ferma più. Ero una ragazza normale, non ero un personaggio, non contavo niente, ho la fedina penale punita, lavoro per mantenermi da quando ho 18 anni. Per colpa di quella vicenda ho perso un fidanzato, ho perso amici, sono entrata in un profondo stato di depressione. Possibile che per una campagna elettorale bisogna fare tutto questo male a una povera ragazza straniera? Ma la macchina dei Cinquestelle funziona così. Prendono una persona qualsiasi di cui a livello umano non gliene importa nulla, e ne distruggono l’immagine per ottenere il loro obiettivo politico».

La Castelli non sarà più nei Cinquestelle, ma non ha mai chiesto scusa. E quando salta fuori la notizia che sarebbe candidata nell’uninominale di Novara, il segretario del Pd Regionale Paolo Furia – riferiscono – sarebbe diventato appunto una furia. E sì che il 2 di agosto il Pd di Torino aveva chiuso con decisione alla possibilità di sostenere gli ex-Cinque Stelle. «Pronti a sacrificarci per la coalizione sull’uninominale ma non alla viceministra Laura Castelli che ci ha dato dei mafiosi», aveva detto il segretario di Torino Marcello Mazzù. Ma 18 giorni dopo con un blitz, senza sentire i vertici locali, la Direzione nazionale del Pd cancella il nome della segretaria cittadina di Novara Emanuela Allegra dal collegio uninominale Piemonte 2, anche se resta nel plurinominale, per dare il seggio alla Castelli.

«Sono sconvolta, scioccata», ci ha detto Lidia, dopo aver reso nota la sua intenzione di restituire la tessera del Pd. «Io ho avuto problemi di salute e me ne sono stata fuori, però comunque a prescindere da questo mettersi con i grillini significa suicidio».

Lidia Roscaneanu a parte, e a parte i mal di pancia del Pd torinese, alla fine deve essere risultata insormontabile la resistenza del Pd novarese, contro una candidata oltretutto non locale. Alla fine la Castelli si è tirata indietro. «Scopro dai giornali, e da qualche simpatico tweet, che sarei candidata all’uninominale di Novara. No grazie, “casa mia” è Collegno, se la coalizione ha fatto altre scelte ne prendo atto e in pieno spirito di squadra darò il mio contributo nei plurinominali di Impegno Civico, sperando però che questa campagna elettorale sia caratterizzata da proposte per i cittadini e no da attacchi, insulti e odio. Con Impegno Civico abbiamo una proposta chiara, la sfida è andare oltre il 3%, daremo il massimo per raggiungere l’obiettivo».

Questo lo dice lei, per ripetere un intercalare che l’ha resa famosa. Dall’esterno, sembra la storia della volpe e dell’uva.

«Questo lo dice lei» Il manganello digitale dei Cinquestelle spiegato bene (da Laura Castelli). Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 30 giugno 2021

La viceministra dell’Economia è stata condannata dal Tribunale di Torino per diffamazione aggravata. Il motivo è da ricercare in un post su Facebook, che aveva usato per azionare la macchina del fango del partito

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«Questo lo dice lei!»: era diventata un meme, la famosa battuta di Laura Castelli. Adesso si è fatta nemesi. «Questo lo dice lei!», è in pratica quanto il Tribunale di Torino ha ripetuto al viceministro dell’Economia, nel condannarla per diffamazione aggravata. Motivo: un post su Facebook in cui aveva scatenato il manganello digitale dei Cinquestelle contro Lidia Roscaneanu.

All’origine, una foto di una giovane ragazza assieme a Piero Fassino, nel 2016 candidato a sindaco di Torino contro Chiara Appendino. Accanto alla foto un bigliettino di campagna elettorale sempre con la foto della ragazza: «PER LA CIRCOSCRIZIONE 3 scrivi ROSCANEANU accanto al simbolo PD».

Sopra a tutte e due questo commento: «Che legami ci sono fra i due? Fassino da un appalto per il bar del Tribunale di Torino a una azienda fallita 3 volte, che si occupa di aree verdi, con un ribasso sospetto. LA PROCURA INDAGA. Fassino candida la barista nelle sue liste. Quanto meno inopportuno… che dite?».

«Per questo post Laura Castelli è stata condannata a 1.032 euro di multa più 5.000 euro alla parte civile». Non è Lidia Roscaneanu a dirlo all’intervistatore, ma l’intervistatore a dirlo a Lidia. «Sì, l’avvocato mi ha detto qualcosa del genere, ma io non ho sentito. Dopo la sentenza che condannava la Castelli mi sono messa a piangere, e non ci ho capito più niente», ha detto.

«Due volte – ha aggiunto Roscaneanu – ho pianto durante il processo. La seconda volta alla sentenza, e la prima quando ho dovuto ripetere le cose che mi avevano scritto dopo quel post. Io non sono una ragazza che dice parolacce, mi fa male ripetere certe cose». Cerco di darti una mano. Ti hanno dato della prostituta, con termini volgari. «Non solo, hanno fatto anche riferimenti a certi tipi di attività sessuali. La cosa è finita sui giornali romeni, e mia madre mi ha chiamato. Lidia, mi ha detto, tu vivi in Italia da sola, certe cose ce le devi dire. È vero che hai una relazione con quell’uomo politico?».

Nata in Romania il 20 marzo del 1983, laureata in Economia, in Italia dal 2004 al seguito di un fidanzato italiano con cui ha avuto una storia di nove anni ma con cui all’epoca si erano già lasciati, Lidia Roscaneanu non ha mai preso la cittadinanza italiana, ma in quanto cittadina comunitaria alle amministrative si può candidare. Sua amica è Federica Scanderebech: discendente dell’eroe nazionale albanese, e allora consigliera comunale nel Partito democratico, anche se suo padre è stato esponente di Forza Italia, e se ora è tornata anche lei al partito di Berlusconi. «I nostri percorsi politici si sono separati, ma restiamo grandi amiche. Ed è lei che soprattutto mi ha aiuto nella causa», spiega Roscaneanu.

Nel 2016 è lei a convincerla a candidarsi in circoscrizione, per intercettare un voto romeno che può essere interessante. Tutte e due vanno a un evento elettorale con Fassino – «Lì lo ho conosciuto» – e nell’occasione vengono fatte foto a tutti i candidati in circoscrizione, assieme al candidato sindaco e a quello in Consiglio Comunale.

Anche Lidia si fa ritrarre con Fassino e con Federica, e sia Federica che lei mettono la foto nelle loro pagine Facebook. «Nella mia ingenuità, pensavo che farmi ritrarre con il candidato sindaco fosse un onore. Io correvo per correre, sono una ragazza semplice, non è che pensavo seriamente di potere essere eletta».

Proprio quella foto appare però ritagliata nella pagina «Laura Castelli – Cittadina in Parlamento». Ovvio che se non si sa che era la prima volta che i due si vedevano, se non si sa che c’era nella foto anche una seconda donna, se non si sa che la stessa foto a tre era stata fatta per molti altri candidati, si può avere della relazione tra Lidia e Fassino una certa impressione negativa: sbagliata, ha attestato il Tribunale.

Ovvio che se si sa che la foto è stata presa da una pagina Facebook altrui e ritagliata apposta si può avere dell’etica politica della Castelli una certa impressione negativa: giusta, ha attestato il Tribunale.

Cosa tipica dell’arte del manganello digitale dei Cinquestelle, nel castello costruito dalla Castelli i dati artefatti sono sapientemente mescolati a qualcosa di vero. Su quell’appalto, in effetti, sarebbe arrivata davvero una sentenza.

È la stessa Lidia a raccontarci che «alcuni membri della società sono stati condannati, e con loro un dipendente del Comune di Torino che aveva preso soldi». Ma né lei, né Fassino sono mai stati neanche interrogati per quella storia.

È vero che Lidia in quella società lavorava: non come barista, ma come cassiera. Ma il post della Castelli lascia intendere che ne fosse un pezzo grosso. Invece, non solo era una semplice dipendente, ma al momento della foto e del commento si era già rivolta alla Procura, perché non pagava gli stipendi. «Ho lavorato alla cassa del Bar del Tribunale dal novembre del 2015 al giugno 2016, quando è stato chiuso. Ma mi hanno pagato uno stipendio solo a febbraio, dopo che ci avevano offerto di saldarci novembre, dicembre e gennaio in ticket pasto da sette euro l’uno. Cosa che abbiamo ovviamente rifiutato».

Insomma, il 25 febbraio 2016 Lidia porta la società in Procura perché non paga. Sabato 7 maggio la Castelli insinua che Lidia avrebbe offerto favori sessuali a Fassino per far avere un appalto alla società che non la paga e che ha portato in Procura. «Al lavoro c’erano militanti dei Cinquestelle: qualcuno di loro deve aver detto alla Castelli che io lavoravo in quella società».

Post subito ripreso dai Cinquestelle di Torino, da tutti i candidati Cinquestelle, dal blog di Grillo e da quello dei Cinque Stelle nazionali, da cui subito sulla ignara Lidia una valanga di post che si soffermano sul suo essere romena e giovane donna, e i cui concetti principali sono che il Partito democratico è un partito di mafiosi e che lei si guadagna il pane praticando mercimonio sessuale.

Con l’aiuto di Federica, domenica 8 Lidia lo passa a fare screenshot di tutto. «Io non mi intendevo di queste cose. Lei mi ha consigliato».

Precauzione importante perché, un po’ dopo che lunedì 9 maggio Lidia ha presentato la sua querela, la Castelli fa sparire del tutto la pagina. Per distruggere le prove? Dopo un altro po’ Lidia fa causa anche alla società. La vince, ma non ottiene i 13mila euro di stipendi e straordinari che le spetterebbero. Né lei, né nessuno, e poiché nessun contributo è stato versato non ottengono neanche la disoccupazione. «E c’era pure una ragazza incinta di quattro mesi».

Ma la Castelli ha mai chiesto scusa? «Mai, e neanche si è mai presentata in tribunale. Però ha espresso solidarietà alla Meloni, e mi ha fatto chiamare dall’onorevole del Pd Paola Bragantini per chiedermi se volevo rimettere la querela. Ho detto di no. Comunque insulti via social continuano ad arrivarmi. Una volta che la macchina dei Cinquestelle parte, non è che poi si ferma più. Ero una ragazza normale, non ero un personaggio, non contavo niente, ho la fedina penale punita, lavoro per mantenermi da quanto ho 18 anni. Per colpa di quella vicenda ho perso un fidanzato, ho perso amici, sono entrata in un profondo stato di depressione. Possibile che per una campagna elettorale bisogna fare tutto questo male a una povera ragazza straniera? Ma la macchina dei Cinquestelle funziona così. Prendono una persona qualsiasi di cui a livello umano non gliene importa nulla, e ne distruggono l’immagine per ottenere il loro obiettivo politico».

Ma qual è stata la tesi difensiva degli avvocati della Castelli? «Che il Partito democratico avrebbe dovuto fare screening sui suoi candidati e non lavorare per una che lavora in una azienda che ha vinto un appalto irregolare».

Come dire che siccome l’ex-Ilva è stata condannata nessuno degli operai che ci ha lavorato dovrà più essere candidato. «Quello che so è che secondo lo statuto dei Cinquestelle loro non dovrebbero avere candidati che siano stati condannati, e anzi se qualcuno di loro viene condannato si dovrebbe dimettere da tutte le cariche che ha. Visto che nel processo con me è stata condannata, mi aspetto che Laura Castelli ne tragga le logiche conseguenze».

Carlo Bertini per “La Stampa” il 22 agosto 2022.

Caso della ex grillina Laura Castelli in Piemonte, ferita aperta. Caso Ceccanti in Toscana, risolto. Caso Pittella in Basilicata, un problema e tanti voti in meno al Pd. Caso Sarracino, chiuso. Come? Beh, scatenando la contraerea contro la destra. Quando stasera alle venti si chiuderanno i cancelli e si metterà la parola fine alla lunga e tormentata prima stagione “Il tormento delle liste”, Enrico Letta andrà a brindare con tutta la sua troupe. 

Per il regista Dem di questo infernale plot scritto e diretto nel giro di un mese, sarà la fine di uno strazio. Stasera infatti la coalizione Pd, Verdi, Sinistra italiana, Impegno civico di Tabacci e Di Maio, Socialisti, dovrà depositare le liste dei candidati comuni nei collegi uninominali. Eccoli.

L’ex sindacalista Cisl Marco Bentivogli candidato in un collegio uninominale delle Marche per la coalizione di centrosinistra, Emma Bonino in un collegio del Lazio, dove il listino proporzionale vede candidati Nicola Zingaretti, Matteo Orfini, Marianna Madia, Michela Di Biase. 

In Sicilia, a Palermo, Bobo Craxi. In Toscana, Ilaria Cucchi e Stefano Ceccanti, candidati di coalizione. E in Lombardia Bruno Tabacci, Benedetto Della Vedova e Carlo Cottarelli. In Emilia Romagna, il leader dei Verdi Angelo Bonelli e Pierferdinando Casini. E in Campania Luigi Di Maio a Fuorigrotta e Vincenzo Spadafora a Casoria, nelle sfide uninominali. Queste le collocazioni delle liste anche per i candidati di coalizione diffuse ieri sera.

L’allungo di Orlando

Ma per il Pd, già tormentato da giorni, gli ultimi fuochi, tanto per restare su metafore cinematografiche, sono andati in scena ieri. E alla fine di questa partita, sul piano politico, cosa resta sul campo? 

Nei giochi interni del Pd, un rafforzamento della sinistra di Orlando e Provenzano, che, a detta dei suoi stessi avversari, ne esce meglio della corrente di Lorenzo Guerini e di quella di Dario Franceschini, aumentando le sue candidature, dopo esser stata falcidiata nel 2018, in era Renzi.

Ma per il resto, poco o nulla, se non una selva di grane da gestire per Letta, che vede i suoi giovani capilista colpiti uno ad uno dal gioco dei social. Dopo Raffaele La Regina, che ha dovuto rinunciare alla candidatura, dopo Rachele Scarpa e le sue vecchie uscite censurate dalla comunità ebraica, è pure scoppiato il caso di Marco Sarracino, reo di aver festeggiato due anni fa con un tweet l’anniversario della rivoluzione di ottobre.

Le rimostranze della destra scatenano però la razione di tutto il Partito. Matteo Orfini difende Sarracino «ora basta, loro hanno parlamentari che si vestono da nazisti e fanno gli indignati contro vecchi tweet dei ragazzini. Non perdiamo tempo con queste scemenze, è chiaro che quello di Sarracino è un gioco». 

Dalle parti di Letta, la difesa del giovane candidato è totale. «Ci rifiutiamo di penalizzarlo, proprio mentre ci arrivano post con i saluti romani dei candidati della destra...». E si punta l’indice su Claudio Durigon, potente esponente della Lega laziale, che un anno fa voleva intitolare il Parco di Latina, oggi dedicato a Falcone e Borsellino, ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce: « Durigon per questa storia si è dimesso un anno fa da sottosegretario all'Economia, ma eccolo ora rispuntare in un seggio blindato».

Castelli infiamma i dem

Diverso il caso Castelli, la viceministro all’Economia che, nonostante gli attacchi del passato ai Dem, stava per ricevere in dono un collegio uninominale di Novara a nome della neo coalizione di centrosinistra, di cui fa parte Impegno civico di Luigi Di Maio. 

Peccato che i Dem torinesi non la volessero al punto che lei ha finito per sfilarsi. Il Nazareno la liquida come un’ipotesi archiviata: «Da parte del Pd c’è sempre stato apprezzamento per il buon lavoro fatto da viceministro sia nel Conte 2, spesso in tandem con Antonio Misiani, sia nel governo Draghi. Le difficoltà originano da dinamiche locali pregresse».

Detto ciò, Matteo Renzi intinge il pane nella polemica: «Noi candidavamo Padoan e loro la Castelli», postando un video in cui l’allora ministro dell’Economia la rimbeccava su alcune affermazioni. 

«Renzi è entrato a gamba tesa - reagiscono i Dem - fingendo di non sapere che la soluzione verso cui si andava fosse già chiarita. Quanto a Padoan, la sua vicenda parlamentare – eletto col Pd a Siena,dopo aver legiferato su Mps, e poi dimessosi per fare il presidente di Unicredit che proprio su Mps aveva mire di acquisizione – non è esattamente esemplare ed edificante». 

La dote dei Pittella

Se a questo si aggiunge il caso Pittella, con i due fratelli Marcello e Gianni che lasciano il Pd perché il primo non ha ottenuto una candidatura e mettono il loro cospicuo pacchetto di voti in Basilicata a disposizione di Azione di Calenda, si vede come la frittata in una piccola regione rossa del sud è fatta. 

Unico tocco positivo, la soluzione del caso Ceccanti. Il costituzionalista pisano accetta di buon grado il collegio uninominale nella sua città, cui rinuncia Nicola Fratoianni, leader di sinistra italiana, che si tiene il posto nel listino proporzionale. «È stata una scelta sua - commentano perfidi i Dem - perché quel collegio è complesso e necessita di impegno totale. E Fratoianni in quanto leader di partito ha deciso legittimamente di impegnarsi in tutta Italia (e gli siamo grati)».

Cinquestelle.

Tommaso Labate per corriere.it il 19 settembre 2022.

«È ufficiale. Ha appeso la pochette al chiodo», è la fulminante sintesi di un esponente dei Cinque Stelle della prima ora, di quelli finiti fuori dalle liste per via dei due mandati ma rimasti comunque all’interno del Movimento. A osservare, da dentro, la metamorfosi di Giuseppe Conte: la pochette svanita, la giacca scomparsa, la cravatta dismessa, i bottoni della camicia che saltano via dall’asola uno dopo l’altro. 

E quindi, più in generale, la rapida trasformazione dell’«avvocato del popolo» nel popolo stesso, del garbato statista che sussurrava alla Merkel nel leader descamisado che fa vibrare le folle del Sud, dell’uomo che parlava pacatamente a un Paese messo in ginocchio dalla pandemia nel forzuto arci-italiano del Secondo dopoguerra reso celebre dalla macchietta di Alberto Sordi, che ce l’aveva col mondo intero ma finiva a fare Tarzan nell’acqua del Tevere e a prendere di petto giusto un piatto di maccheroni.

Il numero è diventato una costante nelle piazze di quel Mezzogiorno che sembra ricambiarlo nei sondaggi. Partendo dal 110 per cento per le ristrutturazioni e proseguendo per tutta una serie indefinita di altri contributi — praticamente un’impossibile estensione terra-cielo del sistema di welfare che, persino più modestamente, Lord Beveridge aveva immaginato «dalla culla alla bara» — Conte dispensa citazioni sul «bonus mare» e sul «bonus sisma», «bonus ristrutturazione abitativa condivisa» e «bonus solidarietà».

Tutto quello che è già possibile, «l’ho fatto io, l’abbiamo fatto noi»; per quello che è di là da venire, ecco, «lo farò io, lo faremo noi». E visto che, come insegna la sceneggiata napoletana, i pregi di isso (lui, l’eroe positivo) non si vedono bene senza che entri in scena ‘o malamente (l’antagonista, il cattivo), ecco che di volta in volta l’ex presidente del Consiglio lascia che sul palco si manifesti un convitato di pietra, da dare (politicamente, s’intende) in pasto alla folla.

L’altra sera ad Agrigento è toccato a Matteo Renzi («Non si vergogna lui che si è fatto pagare dagli arabi, che ha fatto una marchetta sul rinascimento saudita. Venga qui senza scorta a esporre le sue idee»), a Enna a Mario Draghi («Invece di parlare di fallimento della strategia del gas, si è tolto qualche sassolino dalle scarpe»), prima ancora a Enrico Letta («Enrico, che succede? Demonizzi la Meloni e poi ti siedi allo stesso tavolo»). E quando la girandola dei nemici è finita, ecco che se la prende col se stesso che era: l’uomo dei dpcm all’ora di cena oggi sostiene che sia stato un errore rendere obbligatori i vaccini per gli over 50; l’uomo della pace contrario all’invio di armi all’Ucraina, oggi si intesta la riscossa sul campo di Zelensky.

Se «l’erba voglio non cresce neanche nei giardini del re», come si insegnava un tempo ai bambini, per «l’erba regalo» basta ascoltare i comizi di Conte, che pronuncia la parola «gratuitamente» con la stessa disinvoltura con cui il Berlusconi degli anni Duemila diceva «aboliremo».

Ma se il secondo si concentrava su quel sistema di cose piccole e un po’ meno piccole che gli italiani scambiavano per una perfida vessazione del fisco (su tutte il bollo auto), il primo — adesso — fa sognare un po’ più in grande, senza per questo dimenticare le cose un po’ più piccole (nel programma del M5S sono gratuiti anche i contraccettivi per gli adolescenti e l’ingresso nei musei). Riscatto degli anni di laurea ai fini della pensione? «Gratuitamente». Villetta da ristrutturare? «Gratuitamente». La casa s’è fatta troppo piccola perché in famiglia c’è un terzo figlio in arrivo? «Bonus auto». Hai una struttura ricettiva o termale che ha un disperato bisogno di ammodernamento? «Estensione del Superbonus».

Le malelingue scambierebbero il quadretto per una specie di televendita e l’ultima versione di Conte per una sorta di imbonitore, anche se nelle televendite poco o tanto le cose si pagano mentre qua sembra tutto a costo zero. In realtà, l’indefinita sequenza di «bonus» e «gratuitamente» — che si alternano senza soluzione di continuità nel road show di Conte nel Sud Italia — fa sì che il tutto assomigli a quel vecchio giochino televisivo in cui l’abbonato Rai, parlando al telefono con Giancarlo Magalli, era chiamato a scegliere tra una busta a sorpresa o dei premi offerti. «Bonus e gratuitamente» come «la busta o i premi?». Che sembrava un gioco win-win. Anche se, molto spesso, nascosto nei rivoli del gioco, alla fine spuntava un vaso cinese che sapeva di fregatura.

L’eutanasia del sud. Il programma meridionalista di Conte è il suicidio assistito del Mezzogiorno. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 10 Settembre 2022.

Mentre l’Italia si trova al centro di uno dei più straordinari programmi di investimento di cui abbia mai beneficiato, il Movimento 5 stelle continua a crescere al Sud anche grazie al reddito di cittadinanza, richiamando alla memoria tristi precedenti, esempi del più becero assistenzialismo 

Giuseppe Conte, l’ex fortissimo riferimento progressista e unico nome meritevole di succedere a se stesso (ovviamente in nome del “cambiamento”) prima che Renzi inventasse il Governo Draghi, negli scorsi giorni ha ammonito gli ex compagni di strada di destra e di sinistra a «non dire che Putin non vuole la pace».

Cioè a non dire la verità, lasciando che la guerra all’Ucraina e all’Occidente dell’ex beniamino degli uomini di mondo della politica italiana – in primis: Berlusconi e Prodi – sia normalizzata dalle contro-verità moscovite ed esorcizzata dalle recitazioni pacifiste degli ex complici, clienti e attendenti del Cremlino.

Per primi, ovviamente, l’indefesso pacifista di Volturara Appula, per cui agli ucraini aggrediti abbiamo già dato troppe armi e il Capitano del team Savoini, che ben dopo l’annessione della Crimea e malgrado la mattanza degli oppositori politici non si vergognava di dire che la Russia è più democratica dell’Ue.

Rubandogli le parole di bocca, qualcuno dei suoi sodali potrebbe dire: «Nessuno dica che Conte non vuole il bene del Sud», proprio nel momento in cui sta perfezionando – con discreto successo, dicono i sondaggi – la trasformazione del M5S in una Lega Sud neo-borbonica, piangendo la miseria, promettendo l’elemosina e minacciando la rivolta in nome di un meridionalismo opposto a quello delle élite cattoliche, liberali e socialiste del primo Novecento e a immagine e somiglianza di quello dei cacicchi e dei masanielli che, da ben prima dell’Unità d’Italia e fino a questi ultimi anni di Repubblica, hanno reso la fame una rendita, le plebi una massa di manovra, e l’assistenzialismo la vera forma dell’identità politica meridionale.

Il meridionalismo di Conte non ha nessuna parentela con quello di Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini o Antonio De Viti de Marco, discende al contrario da quello dei viceré della partitocrazia vincente, che sulla divisione dell’Italia costruirono l’occupazione e la spartizione dello Stato o, ancora più mediocremente, da quello di Achille Lauro, di Ciccio Franco, di Pino Aprile e dei cacicchi e masanielli che da decenni campano politicamente a sbafo sul rimbambimento dei disperati e sulla loro ingenua devozione per gli innumerevoli epigoni del Re Lazzarone.

Conte sta ideologicamente sulla loro linea, per cui il divario tra Nord e Sud è il prodotto di un’arretratezza sostanzialmente imposta da scelte politiche punitive, quando invece, poggiando purtroppo su solide basi storico-sociali, è andato crescendo proprio per il fallimento di prodighe e insensate politiche assistenzialistiche, cioè proprio per effetto del meridionalismo di potere.

Non può stupire quindi che il capo dei 5 Stelle additi non il lavoro, ma il reddito di cittadinanza come nuovo sole dell’avvenire, che peraltro come tutti i miti ideologici non ha bisogno di funzionare nella pratica per funzionare nelle urne. Anzi, come insegna proprio la storia meridionale, i poveri devono rimare poveri ed espropriati della speranza di un cambiamento reale, per potersi ogni volta votare alla carità del nuovo salvatore.

Infatti il reddito di cittadinanza non funziona, perché la sua rete di protezione esclude la maggior parte di quanti versano in condizioni povertà assoluta, oltre a essere deliberatamente discriminatorio (marchio di fabbrica giallo-verde) prevedendo l’esclusione di chi ha meno di dieci anni di residenza in Italia. Sul fronte del lavoro, poi, l’effetto più rilevante prodotto dal RdC è stato la procurata disoccupazione degli ex navigator.

Eppure il reddito di cittadinanza è diventato il sine qua non del solidarismo perbene, oltre che il crisma necessario del meridionalismo corretto, proprio perché non rappresenta un mero strumento di sostegno, come in precedenza il reddito di inclusione (di cui ora il PD si vergogna alla pari del Jobs Act, pur essendo anche questa farina del suo sacco), ma è diventato un ideale sociale, un vero sogno di giustizia.

Non può sorprendere che in aree a rischio concreto di desertificazione economica e demografica, avviluppate in un circolo vizioso di rinunce e frustrazioni, di servitù politiche dolorose e di accattonaggi elettorali umilianti, un programma di suicidio sociale assistito possa apparire agli occhi di molti una garanzia di sollievo. Il reddito di cittadinanza come alternativa al lavoro – com’era nella originale predicazione grillina, com’è rimasto nel subconscio politico della nazione, in particolare al Sud – è qualcosa di mostruoso, come il diritto all’eutanasia come alternativa al diritto alla salute.

Può apparire paradossale che questa mostruosità torni a riproporsi in modo così seducente mentre il Sud è al centro del più straordinario – e grazie a Dio vincolato e sorvegliato dall’Ue – programma di investimento di cui abbia mai beneficiato in così pochi anni (complessivamente 82 miliardi), quello del PNRR, che prospetta al Mezzogiorno italiano uno scenario alternativo a quello di diventare un hospice di massa e un esperimento di socialismo palliativo.

Però, visto che tutte le idee, anche le più cattive, hanno serie conseguenze, decenni di assistenzialismo e secoli di sudditanza rendono paradossalmente attrattiva, anche in questo scenario eccezionale, la triste normalità dell’ennesimo mestierante del meridionalismo peggiore.

CHI PAGA IL CONTO DELL'ASSISTENZIALISMO. VERSO IL VOTO, LA CATENA A STROZZO DEL POPULISMO CHE TOGLIE IL FUTURO A GIOVANI E SUD. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 14 Settembre 2022.

Andando avanti sulla strada dell’assistenzialismo, passate le elezioni, ci ritroveremo obbligatoriamente di fronte al bivio strettissimo della legge di bilancio. Quando devi fare una legge di bilancio e ci devi mettere dentro un deficit aumentato per accontentare il conto elettorale dell’assistenzialismo, dai inevitabilmente un messaggio molto preciso ai mercati, a tutti gli investitori esteri e italiani. Quando fai il bilancio pubblico di un Paese ti misuri con questo tipo di problemi, aggravati ora da una congiuntura internazionale geopolitica, economica e monetaria senza precedenti. Dovrai dare delle risposte che non sono quelle delle parole a vanvera urlate nella più pazza delle campagne elettorali italiane. Se farai il contrario verremo giudicati. Perché chi sa leggere il bilancio queste cose le vede e le capisce. Chi sa leggere il bilancio è anche chi ha in mano il nostro debito – sono investitori e banche stranieri e italiani – e sarebbe bene preoccuparsi fin da ora del loro giudizio. Siamo tutti noi a doverci preoccupar

Ogni assistenzialismo richiama altro assistenzialismo. Non chiude la partita, ma ne apre molte altre perché a questo punto tutti legittimamente chiedono: aiutateci. Con questo metodo in piena pandemia il governo della Repubblica italiana, nella versione giallo rosso, guidato da Giuseppe Conte ha assunto impegni pluriennali di spesa per 588 miliardi. Almeno la metà erano necessari, gli altri sono stati regali a chi i regali se li poteva fare da solo o, in genere, spreco. Questi interventi di secondo tipo sono “pugnalate” nella schiena dei nostri giovani perché ne piegano metaforicamente i corpi e cancellano ogni disegno di sviluppo in casa loro. L’assistenzialismo è da sempre la malattia italiana e ha la sua sintesi algebrica nel debito pubblico che non è nient’altro che l’altra faccia della somma algebrica di tante ricchezze private. Quando la malattia storica italiana si incrocia con il populismo i volumi di spesa assistita si impennano naturalmente, i fondamentali a posto dell’economia italiana vanno a farsi benedire e, con la velocità della luce, il Paese rischia puntualmente il suo default sovrano. La domanda è: fino a che punto si può andare avanti con questo tipo di scelte? O meglio: fino a che punto possiamo continuare a sproloquiare tutti ignorando il nostro debito pubblico e cancellandolo come problema, ovviamente solo a parole? Andando avanti sulla strada dell’assistenzialismo, passate le elezioni, ci ritroveremo obbligatoriamente di fronte al bivio strettissimo della legge di bilancio. Quando parli di scostamento di bilancio parli di qualcosa di nebuloso che molti neppure capiscono. Quando devi fare una legge di bilancio e ci devi mettere dentro un deficit aumentato per accontentare il conto elettorale dell’assistenzialismo, dai inevitabilmente un messaggio molto preciso ai mercati, a tutti gli investitori esteri e italiani, e al Paese stesso nella sua interezza. Allora, mi chiedo, come fai a gestire questa bomba sociale a orologeria dopo la campagna elettorale che abbiamo avuto? Chi si ricorderà più di tutelare gli investimenti produttivi diretti al Mezzogiorno e chi la smetterà di giocare con numeri fantasmagorici di assunzioni nella pubblica amministrazione senza porsi molto più concretamente il problema di trovare ingegneri e informatici bravi che servono per fare funzionare davvero le amministrazioni territoriali che gestiscono i progetti del Pnrr? Chi si preoccuperà più di dare un’occasione di lavoro serio a tutti quelli di valore che se non trovano un impiego soddisfacente al Sud se lo cercano nel mondo? Riusciremo mai, in questo al Sud come in tutta Italia, a uscire dal modello clientelare di gestione della spesa pubblica?

Il dibattito elettorale di questi giorni depone malissimo. Delinea il rischio reale di una situazione politica nuova in cui si mettono in fila una serie di cifre per il bilancio dello Stato che si traducono in una dichiarazione pubblica terribile verso il mondo. Se non fosse ridotto così male il quadro chiacchierologico italiano che incide sulla reputazione della sua classe politica, dall’esterno sarebbe anche meno difficile leggere con minore pregiudizio la finanza pubblica italiana discernendo il “dovuto da stato di necessità” con l’assistenzialismo di sempre, ma come diceva Totò “è la somma che fa il totale” e quando vai a fare il totale di tutti questi interventi svieni. Almeno questo è lo scenario più probabile. Per capire il circuito perverso dell’assistenzialismo italiano basti pensare che se non avessimo il debito pubblico che abbiamo, avremmo, ad esempio, molto più margine di intervento contro il caro bollette. Il fatto che non possiamo farlo è un sintomo evidentissimo, particolarmente attuale, dei danni prodotti da questa malattia storica. Perché sono l’assistenzialismo e il problema che esso ha generato a non metterci nelle condizioni di adottare misure compensative proporzionali alla dimensione del problema energetico attuale. Pur avendo fatto fino a oggi il governo Draghi il miracolo di tirare fuori 50 e passa miliardi di aiuti senza un euro di scostamento e volendo ancora intervenire agendo sul surplus di entrate dello Stato da caro energia e migliorando la mira sugli extra utili da piccoli e grandi profittatori delle distorsioni del mercato energetico di origine bellica. Anche se tutti sanno che il Draghi che ci serviva di più era quello che con la sua leadership politica europea avrebbe dovuto costringere tedeschi e olandesi a fare i conti con la realtà del ricatto di Putin sul gas così come era già riuscito a farlo soprattutto con la Germania nella scelta di campo a favore di Zelensky. Perché un Paese super indebitato come l’Italia ha bisogno di decisioni europee che blocchino la speculazione, non di fare nuovo debito interno. Ma perché, scusate, nessuno dice mai che se spostiamo risorse per continuare a pagare i superbonus dovremo inevitabilmente togliere un po’ di spesa sanitaria o scolastica o tagliare la formazione della pubblica amministrazione? Oppure, addirittura, come è già avvenuto in passato, saremo costretti a tagliare a destra e manca un po’ alla carlona producendo ovunque disastri terribili e bloccando la fiducia di consumatori e investitori? Ma davvero siamo convinti che il Paese può sopportare che per garantire un po’ di privilegi, elettorali e non, o per fare erogazione anche a favore di cose comprensibili, si possano tagliare all’infinito spese obbligatorie di manutenzione in tutti i campi? Visto che non la si fa più da nessuna parte, o quasi, negli ospedali come nella scuola dove tutto ciò avviene da decenni, visto che viviamo in un Paese dove si aprono voragini nelle strade e crollano ponti? Ci rendiamo conto che, procedendo di questo passo, non potremmo neppure più gestire le opere del Pnrr ammesso che si riescano davvero a fare le nuove scuole e i nuovi ospedali perché poi a gestirli dovrà essere la spesa pubblica corrente? Quando fai il bilancio pubblico di un Paese ti misuri con questo tipo di problemi, aggravati in questo autunno da una congiuntura internazionale geopolitica, economica e monetaria senza precedenti.

Dovrai dare delle risposte che non sono quelle delle parole a vanvera urlate nella più pazza delle campagne elettorali italiane. Se farai il contrario verremo giudicati. Perché chi sa leggere il bilancio queste cose le vede e le capisce. Chi sa leggere il bilancio è anche chi ha in mano il nostro debito – sono investitori e banche stranieri e italiani – e sarebbe bene preoccuparsi fin da ora del loro giudizio. Siamo tutti noi a doverci preoccupare.

Avversari strategici. La campagna di Conte contro Draghi fa giustizia di tanta retorica sull’evoluzione del grillismo. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 12 Agosto 2022.

In questa posizione politica e in questo atteggiamento psicologico non c’è nulla di sorprendente, beninteso, se non per i fessi che si erano bevuti la favola della conversione liberaldemocratica del populismo grillino

I primi interventi di Giuseppe Conte in questo inizio di campagna elettorale hanno fatto finalmente giustizia di molti equivoci. Chiunque abbia visto anche solo cinque minuti della sua intervista di mercoledì sera su La7, ad esempio, non può non avere colto immediatamente quale fosse il suo principale obiettivo polemico: Mario Draghi, il suo governo e soprattutto il trattamento da lui riservato, con parole e azioni, ai provvedimenti ereditati dal governo precedente, guidato da Conte, a cominciare dal famigerato super Bonus.

Non è solo questione di tattica o di posizionamento elettorale. Dal punto di vista di Conte, non c’è solo l’ovvia necessità di giustificare la scelta di far cadere l’esecutivo (sempre più blandamente negata e sempre più vivacemente, ancorché indirettamente, rivendicata). Parole, toni, espressione del viso: tutto in lui mostra chiaramente che non si tratta solo di calcoli e convenienze, ma anche e forse soprattutto di principi e di identità, oltre che di sentimenti e ovviamente pure di risentimenti.

In questa posizione politica e in questo atteggiamento psicologico non c’è nulla di sorprendente e tanto meno di illogico, beninteso, se non per i fessi che si erano bevuti la favola della conversione liberaldemocratica del populismo grillino e della trasformazione di Conte in punto di riferimento dei progressisti. Il tentativo di spacciare il governo Draghi per la naturale continuazione del governo Conte – alimentata, con diversi moventi, tanto dal Pd quanto, almeno in una prima fase, da alcuni sostenitori di Conte – non poteva reggere a lungo, e infatti ha retto pochissimo, essendo in verità l’uno l’esatto opposto dell’altro, come lo stesso Draghi ha reso evidente nel discorso della fiducia.

Nella sua intervista di ieri al Corriere della Sera, lo stesso Goffredo Bettini si è lasciato sfuggire un’osservazione su cui avrebbe dovuto forse ragionare più a lungo, quando ha detto di non essere riuscito a convincere Conte a sostenere l’esecutivo perché ormai il leader dei Cinquestelle «si era convinto che il M5s, continuando a stare nel governo Draghi, sarebbe pressoché sparito». Convinzione più che fondata.

È esattamente il motivo per cui da tre anni, su queste pagine, ripetiamo che la linea bettiniana dell’alleanza strategica con i grillini avrebbe portato il Pd in un vicolo cieco, perché quella è la loro natura e non è mai cambiata: un partito populista capace di far cadere un governo per fermare il termovalorizzatore di Roma, città sepolta dai rifiuti, e per impedire la costruzione di rigassificatori, tanto più essenziali nel pieno di una crisi energetica. Per non parlare delle sue spregiudicate giravolte sulla politica internazionale. Il fatto che nonostante tutto questo Bettini insista nel dire che dopo il voto il rapporto con i grillini potrebbe essere ripreso dimostra che anche qui non si tratta di tattica o convenienza, ma di un’affinità elettiva.

Aggiungo una facile previsione: proprio come nel 2018, anche nel prossimo Parlamento, quando si tratterà di scegliere le cariche istituzionali e le autorità di garanzia, i Cinquestelle saranno i primi a fare asse con il centrodestra (a meno che non siano battuti sul tempo da Luigi Di Maio e dai suoi pochi seguaci di Impegno civico, s’intende), riconfigurando così quella maggioranza costituzionale populista che già cinque anni fa ci fece intravedere lo scivolamento dell’Italia verso la democrazia illiberale di tipo ungherese.

Continuo a pensare, checché ne dica Carlo Calenda, che allora fu giusto tentare di mettere un cuneo nella tenaglia del bipopulismo. Solo che il tempo così guadagnato avrebbe dovuto essere impiegato per mettere in sicurezza il sistema sul piano istituzionale (con una legge elettorale proporzionale) e per combatterlo, il populismo, sul piano politico e culturale, anziché corteggiarlo. Si è fatto l’esatto contrario e adesso toccherà pagare il conto.

Bonus e sussidi. Nei programmi di Pd e M5S c'è il solito assistenzialismo. Superbonus, salario minimo e reddito di cittadinanza da rafforzare per il M5s. E poi c'è il Pd che corteggia il suo storico elettorato di riferimento. Domenico Di Sanzo il 15 agosto 2022 su Il Giornale.

Superbonus, salario minimo e reddito di cittadinanza da rafforzare per il M5s. E poi c'è il Pd che corteggia il suo storico elettorato di riferimento, con la proposta di aumentare gli stipendi a insegnanti e lavoratori dipendenti e la discussa idea dei 10mila euro di dote da regalare ai diciottenni. Gli esponenti grillini e di centrosinistra si chiedono da settimane dove siano le coperture per alcuni punti programmatici del centrodestra, in testa flat tax e aumento delle pensioni minime, ma più che altro è il programma dei vecchi giallorossi che sembra tutto improntato all'aumento della spesa pubblica.

Sono soprattutto i grillini a non badare a spese. Oltre al limite di due mandati esteso ai parlamentari degli altri partiti e allo stop ai cambi di casacca, proposto dal partito che ne ha subiti più di tutti dall'inizio della legislatura, il Movimento riparte dai soliti cavalli di battaglia. Tra assistenzialismo e decrescita felice, bonus e riduzione dell'orario di lavoro. È il ritorno a quel «lavorare meno, lavorare tutti» che è il mantra del sociologo Domenico De Masi, tra gli ideologi del grillismo e amico di Giuseppe Conte e Beppe Grillo. Le ricette economiche sono sempre le stesse. E allora via con il ritorno del cashback di Stato, una misura costata ai contribuenti circa 1,75 miliardi di euro e sospesa dal governo di Mario Draghi. E così nel programma dei Cinque Stelle di Conte si legge: «Introduzione di un meccanismo che permetta l'immediato accredito su conto corrente delle spese detraibili sostenute con strumenti elettronici». Poi c'è il capitolo Superbonus, un altro provvedimento criticato a più riprese da Draghi, di fatto una delle misure su cui il M5s ha impostato la sua campagna di logoramento del governo di unità nazionale. Sulla cessione dei crediti i grillini propongono di «stabilizzare l'innovativo meccanismo che ha decretato il successo del Superbonus, che è in grado di mettere a disposizione di famiglie e imprese ingente liquidità e che può essere esteso ad altre agevolazioni per investire a costi ridotti nella transizione ecologica». Ne deriva la conferma e la stabilizzazione del Superbonus a cui si andrebbe ad aggiungere «un nuovo superbonus energia imprese, sempre basato sulla circolazione dei crediti fiscali». Bis per un provvedimento che è costato allo Stato circa sei miliardi di euro più altri sei miliardi di euro di truffe ai danni delle casse pubbliche, secondo quanto dichiarato dal ministro dell'Economia Daniele Franco.

A proposito di truffe, il pensiero va subito al reddito di cittadinanza. Conte addirittura pensa a un «rafforzamento» del sussidio, ma anche il segretario dem Enrico Letta lo ha inserito nel suo programma, seppure facendo riferimento a «interventi migliorativi» sulla legge bandiera dei pentastellati. Non è un caso che il ministro del Lavoro del Pd Andrea Orlando non abbia escluso un ritorno di fiamma con il M5s, anche perché non mancano i punti di contatto tra i due partiti. Non solo il reddito di cittadinanza, al Nazareno pensano di confermare pure il Superbonus, ma con una differenziazione in base all'Isee delle famiglie. Stesso discorso vale per il salario minimo, che è una delle punte di diamante anche delle proposte dell'Alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana. Grillini e rossoverdi puntano a portarlo a nove euro lordi all'ora, il Pd prevede l'introduzione del salario minimo ma in questa legislatura non è stato d'accordo con i Cinque Stelle sull'importo della paga oraria.

Il M5s nel programma pubblicato ieri va oltre. E propone la «sperimentazione di una riduzione dell'orario di lavoro soprattutto nei settori a più alta intensità tecnologica», la «riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario». Un vecchio cruccio di Grillo, oltre che del sociologo del lavoro De Masi. Ricchi premi e cotillons non mancano nemmeno nel libro dei sogni del Pd. Dall'aumento degli stipendi dei docenti per un costo che va dai sei agli otto miliardi di euro, a una mensilità in più per i lavoratori dipendenti. E poi la realizzazione di «500mila alloggi popolari nei prossimi dieci anni», «trasporti pubblici gratuiti per studenti e anziani» e un «contratto energetico sociale per famiglie a reddito medio-basso». Altro che coperture.

TUTTI I NOMI DEL PRESIDENTE. Elezioni, al via le parlamentarie del M5s. Conte presenta il suo listino: De Raho, Scarpinato e tanti ex. Il Domani il 16 agosto 2022

Dalle 10 alle 22 gli iscritti sono chiamati a scegliere tra oltre duemila autocandidature e tra i nomi proposti dal leader del Movimento Giuseppe Conte.

Oggi si svolgeranno sulla piattaforma SkyVote le parlamentarie del Movimento cinque stelle come annunciato dal presidente Giuseppe Conte nel fine settimane dopo aver depositato il programma e il simbolo del Movimento presso il ministero dell’Interno.

I NOMI DI CONTE

Ogni iscritto può esprimere da una a tre preferenze per gli oltre duemila autocandidati che hanno presentato il loro nome per correre alla Camera e al Senato. Gli elettori saranno chiamati anche a esprimere il loro voto per un listino di 18 nomi proposto da Giuseppe Conte che ha scelto grandi nomi della magistratura come quello dell’ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho e dell’ex magistrato Roberto Scarpinato.

Tra i nomi anche quello del professore esperto di energia Livio De Santoli, e quello di diversi ex come: Sergio Costa (ex ministro all’ambiente), Chiara Appendino (ex sindaca di Torino), Stefano Patuannelli (ministro uscente dell’Agricoltura). Figurano anche i vicepresidenti del Movimmento Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco, oltre al notaio Alfonso Colucci, scelto da Conte l’anno scorso per certificare il voto sul suo statuto contestato dagli attivisti napoletani.

I PARENTI D’ARTE

Non ci sono alcuni grandi nomi che parteciperanno alle parlamentarie come Alessandro Di Battista e Virginia Raggi, ma tanti sono invece tanti “parenti d’arte”.

Tra gli autocandidati non ci saranno esponenti politici come Alessandro Di Battista e Virginia Raggi, mentre sono presenti molti “parenti d’arte”. C’è il nome di Davide Buffagni, fratello di Stefano, deputato ed ex viceministro allo Sviluppo economico. Samuel Sorial, fratello di Giorgio, ex deputato e vice capogabinetto del Mise. Ergys Haxhiu, compagno dell’attuale ministra delle Politiche giovanili, Fabiana Dadone e Paolo Trenta, fratello di Elisabetta Trenta, ex ministra della Difesa.

Presente anche l’ex deputato Paolo Bernini, celebre per le sue tesi complottiste sui microchip sottocutanei.

Parlamentarie M5S, l’assalto dei parenti: dal compagno della Dadone ai fratelli di Buffagni e Trenta. Redazione su Il Secolo d'Italia il 15 Agosto 2022.

Mariti di, mogli di, fratelli di. Le parlamentarie a 5 Stelle per la scelta dei candidati alle prossime elezioni politiche sono anche un ‘affare’ di famiglia. Scorrendo l’elenco degli aspiranti deputati e senatori grillini, pubblicato sul sito del Movimento 5 Stelle in vista del voto online di domani, non è difficile incappare in una serie di “parenti d’arte” di esponenti politici che hanno ricoperto anche ruoli importanti nel Movimento 5 Stelle e nelle istituzioni, e che in alcuni casi non hanno potuto ripresentarsi a causa della regola del doppio mandato. Candidato alla Camera nel collegio Lombardia 1 troviamo Davide Buffagni, 32 anni, fratello di Stefano, deputato ed ex viceministro allo Sviluppo economico.

Si candida anche il compagno dell’ex ministra Dadone

Nel collegio Lombardia 3 si candida invece Samuel Sorial, fratello dell’ex deputato Giorgio. “Ho trent’anni, sono dottore in giurisprudenza e attualmente collaboro con uno studio legale della mia città, Brescia, occupandomi principalmente di diritto civile, commerciale e internazionale”, scrive l’aspirante onorevole nella sua bio. Ergys Haxhiu, programmatore e compagno della ministra delle Politiche giovanili Fabiana Dadone, si presenta invece nel collegio Piemonte 2: “Ho oltre 21 anni di contributi versati nei mestieri più disparati, non mi sono mai fermato”, dice di sé l’attivista, laureato alla Sapienza con master in creazione e gestione di startup innovative: “Mi candido perché credo ci sia bisogno di persone determinate, di metodo e perché sono stanco dei voltagabbana”.

Ci prova il fratello di Elisabetta Trenta

Ma la ‘famiglia’ delle parlamentarie non finisce qui. Arriva da Velletri Paolo Trenta, fratello di Elisabetta, ex ministro della Difesa nel primo governo Conte: il consigliere comunale aspira al Senato. In Calabria invece spunta la coppia di sposi-candidati: si tratta di Giuseppe Varano e Tiziana Costa. Lui, esperto in materia di trasparenza bancaria, corre per Palazzo Madama; lei, commercialista e consulente finanziario, non disdegnerebbe uno scranno a Montecitorio.

In corsa anche l’ex ministro Sergio Costa

Tra le centinaia di candidati alle parlamentarie spiccano anche vecchie conoscenze del Movimento. Come gli ex deputati della XVII legislatura Paolo Bernini (celebri le sue dichiarazioni complottiste sui microchip sottocutanei, rilasciate nell’ormai lontano 2013) e Michele Dell’Orco, che è stato anche sottosegretario ai Trasporti nel governo Conte I. O Bruno Marton, senatore dal 2013 al 2018 e poi collaboratore di Vito Crimi prima alla Presidenza del Consiglio, poi al Viminale. L’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa correrà per il Senato in Campania, mentre nella sua Sicilia si presenta l’ex sindaca di Porto Empedocle Ida Carmina.

Il listino blindato di Conte

C’è attesa inoltre per i nomi che il leader pentastellato Giuseppe Conte inserirà nel suo listino blindato, 12 alla Camera e 6 al Senato. Nell’elenco dovrebbero figurare quattro vice (Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco), più altri big come Stefano Patuanelli e l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, entrambi candidati alla Camera. Nella lista potrebbero essere inserite anche personalità della società civile: si parla con insistenza dell’ex Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e di Dario Vassallo, fratello del sindaco antimafia di Pollica Angelo, ucciso nel 2010; mentre non sarà della partita il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che in un tweet ha smentito i rumors su una sua possibile candidatura. E chissà che alla fine nel listino di Conte non entri anche un suo fedelissimo come il notaio Alfonso Colucci, candidato alla Camera, il quale compare nell’organigramma del M5S in qualità di “organo di controllo” con il compito di vigilare, tra le altre cose, sulle “deliberazioni degli Organi associativi”.

Parlamentarie di famiglia: la carica mogli, mariti e fratelli "d'arte" in corsa per le liste M5s. Il Tempo il 15 agosto 2022

Le parlamentarie a 5 Stelle per la scelta dei candidati alle prossime elezioni politiche sono anche un ’affare di famiglia. Scorrendo l’elenco degli aspiranti deputati e senatori grillini, pubblicato sul sito del Movimento 5 Stelle in vista del voto online di martedì 16 agosto, non è difficile incappare in una serie di «parenti d’arte» di esponenti politici che hanno ricoperto anche ruoli importanti nel Movimento 5 Stelle e nelle istituzioni, e che in alcuni casi non hanno potuto ripresentarsi a causa della regola del doppio mandato. Mariti, mogli, fratelli: la lista è lunga. 

Candidato alla Camera nel collegio Lombardia 1 troviamo Davide Buffagni, 32 anni, fratello di Stefano, deputato ed ex viceministro allo Sviluppo economico. Nella scheda che accompagna la sua candidatura sul portale  M5S, Buffagni - diploma di perito informatico - si presenta come «imprenditore» e «restaurant manager». La sua dichiarazione di intenti è preceduta da una citazione del compianto Piero Angela: «Penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese».

Nel collegio Lombardia 3 si candida invece Samuel Sorial, fratello dell’ex deputato Giorgio. «Ho trent’anni, sono dottore in giurisprudenza e attualmente collaboro con uno studio legale della mia città, Brescia, occupandomi principalmente di diritto civile, commerciale e internazionale», scrive l’aspirante onorevole nella sua bio. Ergys Haxhiu, programmatore e compagno della ministra delle Politiche giovanili Fabiana Dadone, si presenta invece nel collegio Piemonte 2: «Ho oltre 21 anni di contributi versati nei mestieri più disparati, non mi sono mai fermato», dice di sé l’attivista, laureato alla Sapienza con master in creazione e gestione di startup innovative: «Mi candido perché credo ci sia bisogno di persone determinate, di metodo e perché sono stanco dei voltagabbana».

Ma la ’famiglia' delle parlamentarie non finisce qui. Arriva da Velletri Paolo Trenta, fratello di Elisabetta, ex ministro della Difesa nel primo governo Conte: il consigliere comunale aspira al Senato. In Calabria invece spunta la coppia di sposi-candidati: si tratta di Giuseppe Varano e Tiziana Costa. Lui, esperto in materia di trasparenza bancaria, corre per Palazzo Madama; lei, commercialista e consulente finanziario, non disdegnerebbe uno scranno a Montecitorio.

Proprio la Calabria è stata teatro di un feroce scontro interno al M5S negli ultimi giorni a causa della contestata norma che consente, per la prima volta nella storia del Movimento, la candidatura anche in un collegio diverso da quello di residenza, purché in esso il candidato abbia «il centro principale dei propri interessi». Una regola di cui ha beneficiato, tra mille polemiche, la deputata uscente Vittoria Baldino, eletta nel Lazio alle passate politiche e candidata in Calabria per questa tornata. La candidatura di Baldino, apprende l’Adnkronos, è stata addirittura oggetto di un esposto inviato a Giuseppe Conte e al Comitato di garanzia pentastellato da Alessia Bausone, iscritta M5S ed ex candidata alle regionali, la quale chiede di valutare «l’eventuale violazione dell’art. 3 del Codice Etico» da parte di Baldino «in quanto - scrive Bausone nell’esposto - beneficiaria» di una presunta «attività clientelare del Dott. Davide Tavernise», capogruppo M5S in Regione Calabria, il quale, accusa l’attivista, avrebbe mobilitato i suoi portaborse per sostenere la candidatura di Baldino. Interpellata dall’Adnkronos, Baldino non ha voluto rilasciare alcun commento in merito.

Tra le centinaia di candidati alle parlamentarie spiccano anche vecchie conoscenze del Movimento. Come gli ex deputati della XVII legislatura Paolo Bernini (celebri le sue dichiarazioni complottiste sui microchip sottocutanei, rilasciate nell’ormai lontano 2013) e Michele Dell’Orco, che è stato anche sottosegretario ai Trasporti nel governo Conte I. O Bruno Marton, senatore dal 2013 al 2018 e poi collaboratore di Vito Crimi prima alla Presidenza del Consiglio, poi al Viminale. L’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa correrà per il Senato in Campania, mentre nella sua Sicilia si presenta l’ex sindaca di Porto Empedocle Ida Carmina. L’economista Andrea Mazzillo - per un anno assessore al Bilancio nella giunta capitolina di Virginia Raggi - è in lizza per un seggio alla Camera nel collegio Lazio 1; punta al Senato invece Andrea Venuto, ex delegato della sindaca Raggi all’Accessibilità Universale (Disability Manager).

C’è attesa inoltre per i nomi che il leader pentastellato Giuseppe Conte inserirà nel suo listino blindato, 12 alla Camera e 6 al Senato. Nell’elenco dovrebbero figurare quattro vice (Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco), più altri big come Stefano Patuanelli e l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, entrambi candidati alla Camera. Nella lista potrebbero essere inserite anche personalità della società civile: si parla con insistenza dell’ex Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e di Dario Vassallo, fratello del sindaco antimafia di Pollica Angelo, ucciso nel 2010; mentre non sarà della partita il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che in un tweet ha smentito i rumors su una sua possibile candidatura. E chissà che alla fine nel listino di Conte non entri anche un suo fedelissimo come il notaio Alfonso Colucci, candidato alla Camera, il quale compare nell’organigramma del M5S in qualità di «organo di controllo» con il compito di vigilare, tra le altre cose, sulle «deliberazioni degli Organi associativi». 

"Ha già fatto 2 mandati". Il M5s ferma la Dadone ma candida suo marito. Toccherà all'ex ministro (insieme a Conte e ai probiviri Toninelli e Floridia) a dedicere il posto in lista del marito. Annarita Digiorgio il 15 Agosto 2022 su Il Giornale.

Fabiana Dadone, ex ministro alla Pubblica Istruzione del governo Conte bis, e poi alle Politiche Giovanili del Governo Draghi, non può ricandidarsi nei Cinque Stelle avendo superato il limite dei due mandati. E allora candida il marito. Nello stesso collegio, Piemonte 2.

Ergys Haxhiu, con cui ha due figlie, è un cittadino italiano di origini albanesi di 37 anni. L’anno scorso passò alle cronache per aver vinto il concorso per la Pulizia Municipale a Brà e ora, da imprenditore della comunicazione, laureato in tecnologie digitali con master in creazione e gestione di Startup innovative, fa il vigile urbano a Dogliani vicino Cuneo.

Ma la vera notorietà l’ha avuta il mese scorso quando il giorno della caduta del governo Draghi ha diffuso sulle chat dei Cinque Stelle un fotomontaggio da lui realizzato con la faccia della moglie nei panni della contestatrice che, nel 2015, era salita sul podio della conferenza stampa del direttivo dell'Eurotower lanciando coriandoli e fogli a Mario Draghi, allora presidente della Bce, al grido di “Fine alla dittatura!”. Nel fotomontaggio di Haxhiu il messaggio è: “Consiglio dei ministri come lo immagino io”.

La decisione di candidare Ergys Haxhiu è stata comunicata durante la riunione del meetup di Cuneo. Che non l'ha presa benissimo. La cosa singolare è che questa volta le liste non verranno composte in ordine dei voti presi alle parlamentarie, ma i posti saranno decisi da Conte insieme al collegio dei provibiri. E quindi, a decidere se Haxhiu sarà capolista sarà la moglie insieme a Danilo Toninelli e Barbara Floridia.

Nel curriculum pubblicato sul sito per le parlamentarie il marito della Dadone si presenta cosi: “Sono Ergys Haxhiu, papà, compagno, figlio, fratello, amico, agente di polizia locale, programmatore, marketer, volontario e attivista del M5S cuneese dal 2009. Presidente dell'associazione "Generazione Comune", ideatore del forum Cuneo5stelle nel 2013 ho predisposto le basi di discussione e ideazione del programma per le elezioni regionali del 2014. Ho oltre 21 anni di contributi versati nei mestieri più disparati, non mi sono mai fermato. Laurea in comunicazione alla Sapienza, Master in creazione e gestione di Startup innovative all'Unitelma Sapienza dove attualmente frequento un corso di Laurea magistrale in Management delle organizzazioni pubbliche e sanitarie, percorso e-governement. Diploma in elettronica e telecomunicazioni, sono un agente di polizia locale, già consulente informatico e mi sono occupato di comunicazione online per piccole imprese. Ovviamente ho fatto tanta tanta comunicazione politica. Ho ideato parte dei format dei corsi di comunicazione politica dell'associazione Professione Parlamento. Ho insegnato nei corsi di Change Management: promuovere e gestire il cambiamento e Web Marketing 2.0 per vendere nel mercato globale per il CFP. Tanta gavetta e tanta fabbrica mi hanno dato il passo veloce. Attivo politicamente dal 2009 col M5S ho organizzato moltissimi eventi con Grillo e gli eletti a tutti i livelli”.

Poi parla anche della moglie, senza citarne la parentela “Nel 2012 abbiamo portato a casa il primo consigliere comunale nella mia Mondovì, l'anno dopo la parlamentare ora ministro Dadone (l'unica a non aver tradito al secondo mandato e al governo). Ideatore di M5sParlamento su YouTube poi ceduto al gruppo parlamentare, ideatore di diverse campagne politiche di deputati e ministri 5 stelle. Non credo nella critica se questa non è accompagnata da proposta e sono sempre stato al fianco di chi lavora nel silenzio invece di tifare chi ha cercato soltanto visibilità. Mi candido perché credo ci sia bisogno di persone determinate, di metodo e perché sono stanco dei voltagabbana. Eventi Rousseau e Italia 5 stelle praticamente ad ogni occasione, da buon nerd grillino. Smartworking e altre chicche targate 5 stelle hanno anche il mio zampino. Tante esperienze politiche , dai banchetti al Parlamento e ai Ministeri. Continuo ad attaccare manifesti ed aiutare nelle campagne elettorali da oltre 12 anni. Leggete i curriculum sul sito del Movimento 5 stelle, leggete le storie dei candidati, immaginate il loro impegno, il loro cuore, chiedetevi se potete fidarvi, se ci saranno nel momento del bisogno. E poi votate sapendo che siamo gli unici a farlo perché nessuno farà primarie, parlamentarie o votazioni di sorta. Quindi con un grande vaffa a chi ci parla di democrazia e click, buon voto a noi!”.

Tanto poi sul suo posto in lista decide la moglie!

Lorenzo Nicolao per corriere.it il 16 agosto 2022.

La consultazione in rete degli iscritti del Movimento 5 Stelle si apre alle 10, ma le parlamentarie che raccoglieranno le preferenze online degli iscritti per la composizione delle liste nei collegi plurinominali sono già un caso «di famiglia». 

Tra le autocandidature degli aspiranti deputati e senatori impossibile non notare una serie di «parenti d’arte» di esponenti politici già eletti in passato tra le fila pentastellate e che hanno ricoperto ruoli anche rilevanti all’interno del partito. Alcuni di questi non avevano potuto ripresentarsi per via della regola del doppio mandato, ma in vista del voto online alcuni cognomi, pur con nome diverso, sono apparsi subito familiari.

Candidato alla Camera nel collegio Lombardia 1 c’è Davide Buffagni, 32enne fratello di Stefano, deputato ed ex viceministro allo Sviluppo economico. Ergys Haxhiu, compagno della ministra delle Politiche giovanili Fabiana Dadone, invece si candida nel collegio Piemonte 2, mentre Paolo Trenta, non è altri che il fratello di Elisabetta, ministro della Difesa nel primo governo Conte. Poi ci sono Samuel Sorial, fratello dell’ex deputato Giorgio, e una serie di collaboratori e vecchie conoscenze del Movimento nella XVII legislatura. 

Vecchie conoscenze

Non solo parenti. Tra le centinaia di candidati presenti, gli ex deputati Paolo Bernini, Michele dell’Orco (sottosegretario ai Trasporti del primo governo Conte) e Bruno Marton, senatore fino al 2018 e poi collaboratore di Vito Crimi. 

In lizza per la Camera anche Andrea Mazzillo, per un anno assessore al Bilancio nella giunta capitolina di Virginia Raggi. Al Senato guarda invece Andrea Venuto, ex delegato della sindaca all’Accessibilità Universale. 

Nel listino blindato di Conte, già oggetto di polemiche, ci si aspetta la presenza di quattro vice come Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco, ma non mancheranno big come Stefano Patuanelli e l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino. Poi personalità della società civile come l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e Dario Vassallo, fratello del sindaco antimafia ucciso nel 2010 Pollica, Angelo. Pasquale Tridico ha invece smentito via Twitter una sua possibile candidatura. 

Caso Calabria

Polemiche in Calabria per la norma che consente di candidarsi in un collegio diverso da quello di residenza, per via di Vittoria Baldino, che era già stata eletta nel Lazio. Per questo motivo è stata addirittura oggetto di un esposto inviato a Giuseppe Conte e al comitato di garanzia pentastellato da Alessia Bausone, «perché beneficiata da una presunta attività clientelare che avrebbe favorito la candidatura di Baldino.

Parola agli iscritti

La consultazione degli iscritti sulle autocandidature delle parlamentarie durerà fino alle 22. Ciascun iscritto potrà esprimere da una a tre preferenze. In ogni caso, all’esito delle votazioni, nell’ambito di ciascuna lista nei collegi plurinominali, i candidati saranno elencati in ordine alternato di genere e, nel complesso delle liste nei collegi plurinominali (per il Senato a livello regionale e per la Camera a livello nazionale). «Nessuno dei due generi potrà essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60%», si legge sul sito del Movimento 5 Stelle.

Da repubblica.it il 16 agosto 2022.

L'ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, l'ex pm e componente del pool antimafia di Palermo Roberto Scarpinato, l'ex sindaca di Torino Chiara Appendino e l'ex ministro Stefano Patuanelli. 

Sono alcuni dei nomi che figurano nel 'listino' M5S, ovvero nella "lista di 15 nominativi che, in ragione dell'esperienza maturata e dei ruoli che hanno ricoperto o ricoprono, assicureranno quella continuità di azione e di esperienza necessaria per affrontare la nuova legislatura". 

Nell'elenco figurano anche gli attuali vicepresidenti del M5S: Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco. 

C'è anche il notaio del Movimento 5 stelle Alfonso Colucci nel listino: si tratta del notaio, scelto da Conte, che ha certificato il voto dello scorso anno, poi contestato dal tribunale di Napoli. Al momento Colucci ricopre le funzioni di Organo di Controllo del Movimento 5 Stelle e di Coordinatore del settore legale del Movimento.

Completano il 'listino' M5S la capogruppo al Senato Mariolina Castellone, l'ex ministro dell'Ambiente Sergio Costa, il professor Livio De Santoli (esperto di transizione ecologica ed energetica), la senatrice e sottosegretaria all'Istruzione Barbara Floridia, il senatore Ettore Licheri e il capogruppo alla Camera Francesco Silvestri. 

Il listino di Conte: i nomi nei collegi plurinominali

"La proposta - si legge sul sito del Movimento - sarà sottoposta alla consultazione in rete degli iscritti, che potranno esprimere un parere favorevole o contrario, affinché possano essere inseriti, con criterio di priorità, nelle liste di candidati in uno o più collegi plurinominali".

La novità è la presenza di esponenti della società civile. Novità annunciata dallo stesso Conte: "Avevamo detto che il nuovo corso sarebbe stato caratterizzato da una grande apertura. Esponenti della società civile, soprattutto nel campo giuridico, nella lotta alla mafia, nel contrasto a tutte le forme di infiltrazioni mafiose. Grande professionalità e grande dedizione, per continuare le nostre battaglie". 

"Con questi innesti - prosegue Conte - siamo sicuri che i principi di legalità, di lotta alla mafia, di etica pubblica, continueranno a essere obiettivi essenziali, fondamentali. Troverete anche personalità esperte nella transizione ecologica energetica. Abbiamo bisogno del loro contributo di idee, di programmi anche nel'attività parlamentare, per consentire al m5s di essere in prima fila, protagonista nella battaglia contro i cambiamenti climatici, e per la neutralità climatica". 

Conte assicura: "Sostegno dei parlamentari non ricandidati"

"Molti dei parlamentari uscenti - continua Conte - per la regola doppio mandato non sono più ricandidabili. Hanno maturato 10 anni di esperienza nelle aule e nelle commissioni, ma ci hanno assicurato la continuità del loro sostegno e del loro apporto, ma non con incarichi elettivi". 

"Li ringraziamo ancora una volta per i grandi risultati che hanno raggiunto, la comunità del m5s è loro grata. Però adesso dobbiamo avvalerci di una iniezione di competenze e professionalità. 

Domani ci sarà questa possibilità, in linea con le regole sulla partecipazione e sulla trasparenza che sono nostri tratti distintivi e di cui siamo orgogliosi", aggiunge Conte, riferendosi al voto sulle parlamentarie, che comprendono le autocandidature, e il sì o no alla lista ristretta con nomi della società civile, che non sono ancora stati svelati.

Quando il grillino Cafiero de Raho sosteneva che contro la mafia servono i termovalorizzatori. Da magistrato invocò nuovi impianti di smaltimento. Il suo partito li osteggia. Laura Cesaretti il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.

Uno, il capo partito che lo ha pregato di farsi mettere in lista in un posto blindato (preghiera subito esaudita), pensa che i termovalorizzatori siano opera del demonio. Al punto che, proprio contro l'impianto che dovrebbe finalmente smaltire l'immondizia romana, ha fatto cadere il governo Draghi, aprendo gentilmente la strada al centrodestra per correre al voto (che lui non voleva manco morto, ma sono gli incerti del mestiere, soprattutto quando non lo si sa fare).

L'altro, il pm in - dignitosa - pensione, che alla classica panchina ai giardinetti preferisce i divanetti in pelle rossa del Transatlantico, pensa invece che i termovalorizzatori siano strumento indispensabile per chiudere il ciclo dei rifiuti e eliminare una gigantesca occasione di business per la criminalità organizzata.

A quanto pare, nella fretta di chiedere e accettare un seggio blindato, il capo dei Cinque stelle Giuseppe Conte e l'ex capo della Direzione nazionale antimafia ora pronto a scendere in politica Federico Cafiero De Raho non si sono confrontati sull'agenda politica. Neppure sui suoi capitoli prioritari, evidentemente, visto che il «no al termovalorizzatore» sta talmente a cuore ai grillini da aver privato l'Italia di una guida come quella di Mario Draghi per fermarne uno.

Ora, a liste quasi chiuse, il povero Giuseppi scoprirà che il suo candidato di punta, invece, è convinto che «la carenza di strutture idonee a ricevere e trattare i rifiuti crea le condizioni per l'emergenza, che a sua volta procura ai clan il terreno più adatto per infiltrarsi», come spiegò sul Mattino di Napoli nel gennaio 2019. Aggiungendo: «Bisognerebbe capire se non si decide (sulla costruzione dei termovalorizzatori, ndr) perché si perde consenso, o perché i malavitosi siano riusciti ad infiltrarsi anche tra chi si oppone ai nuovi impianti». Ahi ahi ahi, Giuseppi.

Un anno dopo, la Direzione investigativa antimafia (che dipende dalla Dna, allora presieduta da De Raho) pubblicava il suo rapporto semestrale al Parlamento sul tema. Vi si leggeva tra l'altro: «La perdurante emergenza che in alcune aree del paese condiziona e ostacola la corretta ed efficace gestione del ciclo dei rifiuti, vede tra le sue cause certamente l'assenza di una idonea impiantistica, primi tra tutti i termovalorizzatori che (...) avrebbero potuto consentire l'autosufficienza e la prossimità». A scovare il testo e rilanciarlo sui social è stato ieri Chicco Testa, già Legambiente, parlamentare del centrosinistra e presidente di Enel: «Domandona: è più incoerente De Raho, procuratore antimafia sostenitore dei termovalorizzatori a candidarsi con M5s, o M5s a candidarlo?». Silenzio di tomba in casa Conte, anche se i troll grillini vengono scatenati sui social a sostenere che il testo di De Raho era falso, o che il procuratore voleva dire tutt'altro. A rilanciare la polemica ci pensa il capogruppo di Italia viva Davide Faraone: «Un candidato di punta dei 5s, auspica correttamente la realizzazione dei termovalorizzatori, anche per stanare le mafie. Mi chiedo: i 5s lo sanno o fanno finta di non sapere?».

Resta da vedere se ora De Raho e Conte si chiariranno e quale dei due cambierà idea. L'ex procuratore sembra intanto averla cambiata sulle «porte girevoli» tra politica e magistratura: «Vanno escluse», diceva pochi mesi fa. «Quel che connota il magistrato è la sua imparzialità e equidistanza di fronte a tutti. Una cosa è il convincimento interiore, altra fare una scelta pubblica che presuppone un inserimento in una certa parte, facendo venir meno l'imparzialità». Tranne, si immagina, che l'inserimento sia in un listino bloccato.

Cafiero De Raho: “Io in politica perché nessun partito parla più delle mafie”. Conchita Sannino il 17 Agosto 2022 su La Repubblica.

Intervista all'ex procuratore antimafia e candidato 5S: "Combatterò anche le disuguaglianze e le marginalità, che non insistono solo nel Sud del Paese"

"Perché ho detto sì? Perché da esponente della società civile potrò continuare a lavorare per il Paese per battere criminalità e corruzione: che restano il primo ostacolo allo sviluppo sociale, economico, politico e culturale della nazione". Federico Cafiero de Raho, 70 anni, nome simbolo della lotta alle potenti cosche, dai boss dei casalesi alla 'ndrangheta fino a guidare la Direzione nazionale antimafia (lasciata sei mesi fa), ha incassato anche l'ok del voto on line, si candida con il M5S. È il terzo vertice della Dna reclutato dalla politica.

Dottor Cafiero, su cosa punta la sua campagna?

"Sugli obiettivi fondanti della politica: la effettiva parità dei diritti, garantire a tutti l'accesso ad un lavoro dignitoso, stabile ed equamente retribuito, fuori dai circuiti clientelari. La politica oggi deve impegnarsi anche in interventi innovativi che moltiplichino le occasioni per giovani e meno giovani. E deve dedicarsi fino in fondo alla "Rivoluzione verde" e alla "Transizione ecologica", migliorando sostenibiità e resilienza del sistema economico. I ragazzi da strappare alla marginalità sono tanti".

Ma lei condivide questa forma di Reddito di Cittadinanza voluta dal M5S visto che, stando a decine di inchieste, era finito anche in mano ai mafiosi?

"La lotta alla povertà è un principio sacrosanto, credo sia alla base di qualunque politica inclusiva e democratica. Chiaro che ciò che le indagini hanno scoperto sugli abusi e i gravi illeciti relativi al Reddito di cittadinanza debba essere scongiurato. E si deve operare poi con maggiore e concreta progettualità per attuare il reinserimento, in tempi brevi, dei beneficiari nel mondo del lavoro. Perché quello è il vero approdo, e l'obiettivo giusto di una politica che ha salvato, specie nel periodo del Covid, migliaia di persone dalla totale indigenza".

In una relazione del 2019, lei scriveva che "l'emergenza rifiuti" era dovuta anche all'assenza di termovalorizzatori. Come la mette con il loro No agli impianti?

"Il Movimento 5 Stelle mira a valorizzare l'economia circolare in materia di rifiuti scomponendoli e riciclandoli ciascuno secondo la propria destinazione. È evidente che l'attuazione di una maggiore riutilizzazione del rifiuto comporta una riduzione della quantità di rifiuti non trattabili".

Dei 5S condivide tutto il percorso?

"Non guardo con sfavore all'esistenza di una pluralità di linee ed orientamenti, che, anzi, sono il motore di un dibattito costruttivo. Credo resti nel Movimento il dato costitutivo del contrasto ad un certo mondo politico opaco, in cui entra chi vuole servirsi delle istituzioni anziché servirle. E per questo ho accettato: nel loro dna, resta il tema della lotta alle mafie e alla corruzione".

Tre procuratori nazionali antimafia, Grasso, Roberti e lei: tutti in politica, subito dopo la pensione. Fisiologia o patologia?

"Guardi, la politica vissuta con spirito di servizio è un modo per mettersi a disposizione del Paese, e in questo ritengo che possa, addirittura, ravvisarsi una continuità per chi, da magistrato, ha dedicato tutta la vita a lavorare per il Paese. Anzi, forse tutti i partiti dovrebbero avvalersi di competenze e di specifiche esperienze che hanno operato concretamente nel contrasto alle mafie, al terrorismo e al sistema della corruzione. Un giudice, o una persona in altro ambito, può dare una mano nell'individuare e superare problemi, nel proporre norme. Certo, a patto che il magistrato non torni a svolgere funzioni giurisdizionali".

Lei più volte aveva lamentato, da procuratore, l'afasia della politica sulle urgenze dell'antimafia. E ora?

"Anche in questa campagna elettorale, non mi sembra si stia parlando molto di criminalità organizzata e di capitali mafiosi. Eppure le mafie continuano ad esistere, in tutta Italia, e si proiettano con forza in Europa e nel mondo da tempo. Soprattutto ora con l'arrivo dei fondi del Pnrr e con l'emergenza "guerra" lo considero un tema non trascurabile da parte della politica".

C'è stata una lotta all'altezza dei rischi?

"Non vi è stata una strategia politico-legislativa adeguata. E è questo che va fatto. E se in alcune aree del nostro Paese non ci sono grandi investimenti e non c'è grande partecipazione è proprio perché le mafie lo impediscono".

Ora che non indossa più la toga, può spiegare. Non condivise quel referendum sulla giustizia?

"No. Perché questi temi devono essere approfonditi e decisi in Parlamento, con una legittimazione popolare e con la capacità di confrontarsi, di aggregare idee e di portare avanti le soluzioni che si ritengono indispensabili per un buon funzionamento della giustizia. Anche per questo servono dei 'tecnici' nei luoghi della politica".

Il pm in pensione candidato dai 5 stelle. Dalla trattativa flop al Parlamento, il pm Roberto Scarpinato nel listino bloccato di Conte: esulta Travaglio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Agosto 2022. 

È iniziata ieri la nuova Trattativa di Roberto Scarpinato, entrato per meriti, insieme a Federico Cafiero de Raho, tra i 15 candidati prediletti dell’avvocato Giuseppe Conte per le prossime elezioni del 25 settembre. Nel listino bloccato entrano solo coloro che, “in ragione dell’esperienza maturata e dei ruoli che hanno ricoperto o ricoprono, assicureranno quella continuità di azione e di esperienza necessaria per affrontare la nuova legislatura”.

Il che è interessante anche a prescindere dal fatto -ma non è una novità nel mondo in cui di stelle non ne brilla neppure una- che ormai il concetto di uno vale uno è stato asfaltato. È invece affascinante, e preoccupante, il riferimento alla continuità di azione cui dovrebbero dedicarsi, in Parlamento, due ex procuratori “antimafia” che hanno lasciato, con il pensionamento di pochi mesi orsono, due poltrone calde come il vertice della Procura nazionale antimafia e la Procura generale di Palermo. Ah, ci fossero ancora Leonardo Sciascia e Pierpaolo Pasolini, a commentare il fatto! Così ci dobbiamo accontentare di Marco Travaglio, che nella sua tessitura di lodi di uno dei suoi principali collaboratori al Fatto quotidiano, Roberto Scarpinato, dimentica i giorni in cui l’ex procuratore generale fu costretto ad andare in pensione con le orecchie basse dopo le assoluzioni del “Processo trattativa” e non nomina neppure per sbaglio l’inchiesta “Mafia appalti”.

Quella che stava a cuore a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che fu archiviata tre giorni dopo la strage di Capaci e che è stata di recente riaperta dalla Procura di Caltanissetta. Così, essendo scontato il responso degli iscritti del Movimento cinque stelle, che ieri votavano sui candidati fino alle ore 22, vedremo più o meno tra un mese i due alti magistrati alla Camera o al Senato. Sembra un po’ la storia dei dirigenti sindacali, che vanno a chiudere le loro carriere in Parlamento, quasi ci andassero a morire (politicamente) come fanno gli elefanti. E in genere, con poche eccezioni come quella di Fausto Bertinotti, lasciando scarsa traccia di sé. Sembrava ormai finita la stagione delle toghe in Parlamento, ma si sa che il mondo grillino arriva sempre in ritardo, e malamente, su tutto. Ed è un peccato che a ricevere i due illustri personaggi non ci sia più il loro ex collega Luciano Violante. Che potrebbe accoglierli leggendo loro la prima pagina del suo bellissimo giallopolitico (Notizie della signora Marthensen?, Marsilio), in cui il vecchio procuratore fa la lezione al giovane, che non a caso arriva dalla Sicilia dove ha svolto un ruolo importante nell’antimafia.

Prima gli spiega che «Non siamo gli angeli della Repubblica, né i custodi delle virtù dei cittadini. Siamo incaricati di scoprire i responsabili di reati sulla base di notizie non manifestamente infondate. Non attraverso libere iniziative. Ma attraverso regole che per noi sono vincoli insuperabili». E poi ancora, e sembra echeggiare le parole di Giovanni Falcone, «Non si parte dal teorema per poi cercare il fatto; noi dobbiamo partire dai fatti e stare sempre sui fatti, senza teoremi. Le classi dirigenti sono immorali? Ci penseranno i confessori. Sono inadeguate? Ci devono pensare i cittadini al momento del voto. I singoli commettono reati? Deve pensarci la magistratura. Questa è la democrazia e questa è la Costituzione, mio caro collega». Poiché la storia politico-giudiziaria degli ultimi trent’anni si è diretta nel versante opposto alla lezione del procuratore Tommasi, non vorremmo che l’ossessione di dover riscrivere la storia italiana come pura storia criminale, e di vedere quella delle regioni del Sud solo con gli occhi giudiziari, trasmigrasse tout court dalle Procure al Parlamento, attraverso quel sogno di continuità che pare farina del sacco di Travaglio più che di Conte.

Lo scorso gennaio, pochi giorni dopo il pensionamento, Roberto Scarpinato, un po’ ammaccato per quella sentenza d’appello che con le assoluzioni del generale Mori e gli uomini del ros insieme a Marcello Dell’Utri, aveva messo in ginocchio l’intera antimafia siciliana con le sue ossessioni, aveva affidato alle colonne del Fatto una sorta di testamento, dal titolo “Stragi, depistaggi ancor oggi: li accerti chi viene dopo di me”. Seguiva, dopo un malinconico “chiudendo la porta alle mie spalle”, un agghiacciante elenco di fatti sconfitti dalla storia, ma ricostruiti come se fossero state vittorie. Si va dall’orgoglio di aver “sottoposto a giudizio Presidenti del consiglio, ministri e vertici dei servizi segreti” (ma senza dire come sono finiti i processi), fino a fallimenti storici dell’antimafia siciliana. Come quel polpettone chiamato “Sistemi criminali” archiviato nel 1998, fino all’imbroglio del “papello” di Totò Riina archiviato due anni dopo, e alla condanna per calunnia di Massimo Ciancimino che lo aveva inventato.

E poi la difesa strenua, contro la Corte Costituzionale che lo vuole abolire, dell’ergastolo ostativo. Con un bizzarro argomento, perché quella quindicina di boss mafiosi che conoscono la verità ”sui mandanti occulti delle stragi” non parlerebbero più. Come se Riina e Badalamenti si fossero mai fatti intimidire da un articolo di codice. Beh, tanti auguri, onorevoli Cafiero de Raho e Scarpinato. Speriamo che il soggiorno in Parlamento vi sia utile come lo è stato a Luciano Violante e Fausto Bertinotti.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il bluff delle parlamentarie M5S, Conte piazza i suoi e scarta i più votati. Dario Martini su Il Tempo il 20 agosto 2022

Più che Movimento 5 Stelle dovrebbe chiamarsi Partito di Giuseppe Conte. I risultati delle «parlamentarie», tenutesi quattro giorni fa, svelano che la votazione della base grillina è stata un grande bluff. I posti da capolista, quelli che hanno la quasi certezza di finire in Parlamento, vanno tutti ai fedelissimi del capo politico, che erano stati inseriti nel famoso «listino». Le preferenze espresse dai 50.014 iscritti al M5S vengono subordinate al volere del leader. I più votati vengono relegati al secondo posto, se non addirittura al terzo. È accaduto alla deputata Francesca Flati, la più votata per un posto alla Camera (1.695 preferenze) che deve lasciare il passo come capolista nel terzo collegio Lazio 1 a Francesco Silvestri, capogruppo pentastellato a Montecitorio, uno dei quindici componenti del listino di Conte. Due giorni fa lo stesso Silvestri spiegava che «buona parte delle liste» sarebbe stata composta grazie al voto degli iscritti. Avrebbe dovuto aggiungere che quella parte sarebbe stata anche la meno importante.

Finisce addirittura terza, nel collegio Lazio 1 per il Senato, Giulia Lupo, nonostante sia la seconda più votata in assoluto (2.364 preferenze) dietro ad Alessandra Maiorino (2.738). Prima del suo nome, infatti, c’è quello di Roberto Monaldi, che almeno non fa parte del listino ma si guadagna la seconda posizione grazie all’obbligo dell’alternanza di genere.

I "raccomandati" di Conte fanno man bassa ovunque. L’ex sindaca Chiara Appendino è super blindata, capolista in tutti e quattro i collegi per la Camera del Piemonte. Lo stesso Conte è primo in lista in cinque collegi: Campania, Puglia, Sicilia e due in Lombardia. Sono sicuri di un posto anche gli altri componenti del listino: dai vice Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco ad altri big come Mariolina Castellone e Stefano Patuanelli, passando per i magistrati Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato. Intanto affiorano già le prime tensioni. In Calabria - secondo quanto apprende l’Adnkronos - c’è chi rinuncia alla candidatura, mentre nel Lazio non mancano i mugugni per la presenza come capolista del professore universitario Livio De Santoli, già preside della facoltà di Architettura alla Sapienza. In queste ore stanno facendo il giro di alcune chat dei parlamentari vecchi articoli risalenti al 2010, dove il nome di De Santoli compare in alcune intercettazioni del 2009 legate all’inchiesta sulla famosa "cricca" degli appalti. De Santoli - che, va sottolineato, non è mai stato indagato né sentito come persona informata dei fatti - spiegò in un’intervista a Il Tempo di essersi limitato a dare dei consigli ai ragazzi in vista degli esami.

Nei giorni scorsi aveva tenuto banco la polemica sui parenti dei parlamentari uscenti. Samuel Sorial, fratello dell’ex deputato Giorgio, ce l’ha fatta, ed è capolista per la Camera nel collegio Lombardia 3-02. È riuscito nell’impresa con la bellezza di 225 voti. Solo terzo si è piazzato Davide Buffagni (747 voti), fratello di Stefano, deputato ed ex ministro allo Sviluppo. Prima di lui, nel collegio Lombardia 1-02, c’è Sara Montrasio con 324 voti, seconda grazie all’alternanza di genere. Capolista del loro collegio è Giuseppe Conte. È andata male, invece, a Ergys Haxhiu, marito della ministra Fabiana Dadone, e a Paolo Trenta, fratello dell’ex ministra Elisabetta. Entrambi sono finiti tra i candidati supplenti.

Salta all’occhio la facilità con cui alcuni candidati si sono ritrovati primi in lista. Eclatante il caso Molise. Nell’unico collegio per la Camera, è prima Annamaria Belmonte, con soli 137 voti. Ne sono bastati 163 a Maria Del Mirto per correre per il Senato. Monica Ferraris, invece, è capolista nel collegio Lombardia 3-01 per la Camera con 387 voti.

C’è anche un altro aspetto da sottolineare. Oltre ai big del listino di Conte, gli altri primi in lista, o secondi, sono tutti deputati e senatori uscenti. A tornare in Parlamento, quindi, saranno i politici, con buona pace della società civile. Corrono in posizione privilegiate per la Camera i deputati Luca Carabetta e Stefania Mammì in Piemonte; Giovanni Currò e Valentina Barzotti in Lombardia; Angela Raffa, Luciano Cantone e Filippo Scerra in Sicilia; Luca Sut in Friuli; Roberto Travesi in Liguria; Davide Zanichelli e Stefania Ascari in Emilia Romagna; Chiara Bartalini in Toscana; Ilaria Fontana nel Lazio; Daniela Torto in Abruzzo; Gilda Sportiello in Campania; Carla Giuliano e Leonardo Donno in Puglia; Vittoria Baldino in Calabria. Lunga anche la lista dei senatori ben posizionati per essere confermati: da Gabriella Di Girolamo (Abruzzo) a Marco Croatti (Emilia Romagna), da Elisa Pirro e Bruno Marton in Lombardia fino a Barbara Guidolin in Veneto. Alla faccia della diversità del M5S per cui la politica non è una professione.

Gli ex M5s si imbucano alle parlamentarie. La denuncia: "Ecco come abbiamo votato". Il Tempo il 17 agosto 2022

Giuseppe Conte ha vinto la sua piccola battaglia interna e ha ricevuto il via libera degli iscritti al M5s per i suoi fedelissimi alle parlamentarie. "I candidati che ho proposto per lavorare alla nostra idea di Paese hanno ottenuto un ampio consenso, sfiorando il 90%", ha affermato, soddisfatto, il leader M5S. Dai dati pubblicati si legge come alle parlamentarie stellate hanno partecipato 50.014 votanti su 133.664 aventi diritto: "Il dato più alto di sempre", sottolineano dal Movimento. Ma in realtà non è andata proprio così.

"Alla festa della democrazia digitale grillina non sono mancati gli imbucati" rivela una fonte anonima all'Adnkronos. "Sono riuscito con mia grande sorpresa a votare alle parlamentarie. E come me, anche altri colleghi ex M5S" svela un deputato che oggi milita in Impegno Civico di Luigi Di Maio, ma che vuole restare anonimo. Alla consultazione online, infatti, avrebbero votato anche diversi ex: ovvero quei parlamentari che, tra scissioni ed espulsioni, non fanno più parte della famiglia pentastellata. A metterci la faccia e a denunciare l'accaduto è invece Lucia Scanu, ex 5 Stelle confluita in Coraggio Italia: "Anche io sono riuscita a votare, ma la cosa non mi ha sorpreso. Il M5S per anni è stata la mia casa, secondo me era giusto consentire anche agli ex di votare. Almeno una decina di persone ex M5S con cui ho parlato sono riuscite a votare" ha spiegato la parlamentare sarda.  

Oltre agli ex 'votanti' si segnalano anche gli ex 'abilitati al voto' che però hanno deciso di non partecipare alla votazione.  Una situazione che riguarda, ad esempio, l'esponente di Alternativa Emanuela Corda, espulsa l'anno scorso per non aver votato la fiducia al governo Draghi: "Mi è arrivata la mail con il link per votare ma non l'ho fatto, non mi interessava" ha rivelato la ex grillina. "Anche a me è arrivata la mail", le fa eco il dimaiano Francesco Berti. "Io ho voltato pagina, ma sì, ho ricevuto quella mail", afferma Maria Soave Alemanno, che oggi fa parte del gruppo di Italia Viva. Nella stessa situazione si è ritrovato anche Alessio Villarosa del Gruppo Misto che sorride: "In pratica non ci hanno mai espulso dal Movimento. Io non ho votato alle parlamentarie ma avrei potuto, rimango sempre iscritto al Movimento nazionale, mi hanno 'trasferito' sul nuovo blog senza chiedermi nulla. E immagino che altri colleghi come me, pur essendo fuori dal M5S, siano ancora iscritti al Movimento nazionale. Per questo hanno votato", rimarca il parlamentare espulso dal gruppo pentastellato alla Camera nel 2021. Ma i responsabili della piattaforma Sky Vote rispondono declinando ogni responsabilità: "Noi ci limitiamo a inviare il link di abilitazione al voto via mail a un elenco di contatti che ci viene fornito dal Movimento 5 Stelle. Di quell'elenco è responsabile il M5S" precisano.  

"Parlamentarie 5s? Sono comparsarie per piazzare amici": da Rousseau veleno contro Conte. L'associazione Rousseau ha previsto in maniera scientifica la composizione dei seggi elettorali nel caso in cui il M5s raccolga il 3,5 o 10% alle elezioni. Francesca Galici il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'associazione Rousseau è entrata a gamba tesa contro Giuseppe Conte e contro la sua impostazione del Movimento 5 stelle: "Più che Parlamentarie quelle del partito di Conte dovrebbero essere definite le 'Comparsarie'. Scegliendo i capilista e usando il giochino delle pluricandidature Conte ha, infatti, nominato direttamente tutti coloro che entreranno in parlamento rendendo il voto degli iscritti un esercizio di stile utile solo a individuare le persone che faranno da comparse per comunicare una democrazia interna che, in realtà, non esiste".

Un appunto reale quello di Rousseau a Giuseppe Conte, che per il momento non ha ancora replicato. Ma l'associazione ha rincarato la dose, svelando il trucchetto utilizzato da Giuseppe Conte per avere ampio margine decisionale nelle liste: "Dandosi non solo il potere di stabilire chi mettere nei seggi sicuri, ma anche quello di sostituire chi non è di suo gradimento attraverso il sistema delle pluricandidature, Conte di fatto piazzerà amici e fedelissimi in parlamento". Sicuramente, tra l'associazione Rousseau di Casaleggio e il M5s c'è dell'attrito, visto che da tempo il Movimento ha scelto di non utilizzare più. Ma al di là del rancore, pare che Rousseau abbia realizzato una simulazione, prevedendo con una certa precisione i nomi degli eletti, in base a quanti voti prenderà il Movimento 5 stelle a livello nazionale, 3, 5 o 10%.

Da Rousseau, per esempio, spiegano: "Nel caso in cui il movimento raggiunga a livello nazionale il 3% Conte deciderà tutti gli eletti che entreranno ossia 5/6 persone. Tre di queste le avrà nominate direttamente come capolista in seggi sicuri (ossia se stesso, Scarpinato e uno tra Castellone o Patuanelli) mentre le altre 2/3 persone potrà stabilirle scegliendo in quale seggio farsi eleggere e decidendo così a chi non scatterà il seggio tra Sportiello, Mammì, D'Orso, Giuliano o Nave". Quindi, Rousseau spiega: "A questi si aggiungerà un eletto in Lazio tra 5 persone: De Santoli, Colucci e Silvestri (tutti e tre nominati da Conte) e Fontana e Sassara (votate dagli iscritti). In questo caso Conte potrà favorire il suo notaio Colucci e gli altri due da lui nominati mettendosi all'uninominale di Lazio 1 e impedendo di fatto di entrare alle altre due candidate donne votate dagli iscritti".

L'analisi dell'associazione è molto precisa ma bisognerà attendere per capire se corrisponde al vero. Rousseau ha fatto le simulazioni in maniera matematica, con tanto di nomi e cognomi. E gli esclusi: "A tutti gli altri 2 mila candidati di cui 1500 messi al voto rimarrà il ruolo di comparse nel teatro di finta democrazia interna del partito di Giuseppe Conte".

L’ (anti)democrazia interna del M5S a guida di Giuseppe Conte. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Agosto 2022 

I più votati alle Parlamentarie rischiano quindi di vedere gli scanni della Camera e del Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste a cause della «comparsa» imposta dei prescelti di Giuseppe Conte o per la sua stessa candidatura in lista in ben 4 regioni.

Nelle chat romane gira uno “schemino” che spiega come chi ha preso ben oltre le mille preferenze sia stato scalzato: Angela Salafia (1.402 voti) dal docente De Santoli, Marco Bella (1139) dal notaio Colucci. I più votati alle Parlamentarie rischiano quindi di vedere gli scanni della Camera e del Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste a cause della «comparsa» imposta dei prescelti di Giuseppe Conte o per la sua stessa candidatura in lista in ben 4 regioni. 

In quelle stesse chat si leggono le contestazioni dei fedeli di Virginia Raggi finiti supplenti o addirittura fuori, anche se per ora nessuno di loro intende ritirarsi. Decisione questa invece adottata da Nicolino Di Michele, molisano slittato al secondo posto per l’alternanza di genere: «Non ho più lo spirito per affrontare la campagna elettorale».

La deputata uscente Francesca Flati, con quasi 1.695 clic, è risultata la più votata del Lazio, ma si troverà davanti in lista il neo capogruppo Francesco Silvestri: “Certo, mi spiace. Sarebbe stato bello essere capolista. Il listino di Conte è una novità, ma è stato votato. Ora è il momento di lavorare ascoltando i cittadini”.

Luca Migliorino, vice presidente della commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi al MPS

Luca Migliorino, vice presidente della commissione d’inchiesta che si occupa della morte di David Rossi ( ex direttore relazioni esterne del MPS), è risultato il più votato nella seconda circoscrizione toscana, ma è stato collocato al terzo posto per la parità a causa della presenza in lista di Ricciardi «paracadutato» da Conte. Certamente non può dirsi soddisfatto ma, contattato, ci tiene a rispondere: «Non rilascio dichiarazioni sul tema».

In molti si stanno chiedendo se, considerata anche l’impostazione dei 5 Stelle, a proposito di legalità…l’ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho non sia imbarazzato a vedersi in lista insieme a Riccardo Tucci, imputato per frode fiscale. Ma quello che in realtà si chiedono, quale sia il senso di queste liste: «Dal secondo posto in poi bisogna prendere percentuali davvero alte per far scattare i seggi», è la consapevolezza dei più. Ad avere reali chance alla fine restano solo i quindici “fedelissini” cortigiani di Conte. Chissà se adesso Beppe Grillo avrà ancora il coraggio di ripetere il suo mantra grillino : “uno vale uno”. Redazione CdG 1947

Giulia Ricci per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.

I più votati alle Parlamentarie rischiano di vedere Camera e Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste per la «comparsa» dei prescelti di Giuseppe Conte (o per la sua stessa presenza in 4 regioni). Nelle chat romane gira uno schemino che mostra come chi ha preso ben oltre le mille preferenze sia stato scalzato: Angela Salafia (1.402 voti) dal docente De Santoli, Marco Bella (1139) dal notaio Colucci.

L'uscente Francesca Flati, con quasi 1.695 clic, è la più votata del Lazio, ma avrà davanti il neo capogruppo Francesco Silvestri: «Certo, mi spiace. Sarebbe stato bello essere capolista. Il listino di Conte è una novità, ma è stato votato. Ora è il momento di lavorare ascoltando i cittadini». 

In quelle stesse chat si sentono i malumori dei fedeli di Virginia Raggi finiti supplenti o addirittura fuori, anche se nessuno (per ora) intende ritirarsi. Lo farà invece Nicolino Di Michele, molisano slittato al secondo posto per l'alternanza di genere: «Non ho più lo spirito per affrontare la campagna elettorale».

Luca Migliorino, vice della commissione d'inchiesta che si occupa della morte di David Rossi, è risultato il più votato nella seconda circoscrizione toscana, ma sarà al terzo posto per la parità e il «paracadutato» Ricciardi. Non può dirsi soddisfatto ma, contattato, ci tiene a rispondere: «Non rilascio dichiarazioni sul tema». 

A proposito di legalità, in molti si stanno chiedendo se, considerata anche l'impostazione dei 5 Stelle, l'ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho non provi disagio a essere in lista con Riccardo Tucci, imputato per frode fiscale. Ma quello che in più si chiedono è il senso di queste liste: «Dal secondo posto in poi bisogna prendere percentuali davvero alte per far scattare i seggi», è la consapevolezza dei più. Ad avere reali chance finiscono per essere solo i quindici fedeli di Conte.

(Adnkronos il 21 agosto 2022) - Costano caro a una candidata grillina i  suoi vecchi post a sostegno di Silvio Berlusconi. A quanto apprende l'Adnkronos, CLAUDIA MAJOLO, inserita in un primo momento nel plurinominale Campania 1 - 01 dopo aver superato le parlamentarie, sarebbe stata esclusa dalla lista a causa del suo 'scomodo' passato di fervente berlusconiana. "Non mi fate incazzare e votate Berlusconi", scriveva per esempio su Facebook nel 2018 la giovane presidente di Upa, l'Unione praticanti e giovani avvocati. In altri post Majolo dichiarava il suo "amore" per il leader di Forza Italia, con tanto di hashtag #BerlusconiAmoreMio. 

Uno dei messaggi considerati più controversi risale però al 2013, anno dell'ingresso del M5S in Parlamento. Partito all'epoca mal visto dall'avvocato: "Allora siete felici???? Eh capreeeeeeeeeeeeeee??!?! Vi voglio tra un paio di mesi a voi e a quei 4 grillini... Che sanno solo mettere il culo sulla sedia... Tempo al tempo... Ora fate festa da buoni ignoranti... Poi festeggeremo NOI... però mentre festeggiate ricordatevi che O NAN (riferimento a Berlusconi, ndr) ha chiavato più di voi... Con le femmine più belle.. Oltre ad essere stato un grande politico!!!!! Silvio Berlusconi sei e sarai un pezzo di storia per questa Italia popolata e governata da CAPRE", scriveva Majolo, *che nel frattempo ha  oscurato i suoi profili social*. 

Scriveva “Berlusconi amore mio” e il M5s la esclude dalla candidatura. Giampiero Casoni il 21/08/2022 su Notizie.it.

Scriveva “Berlusconi amore mio” e cinque anni prima aveva definito gli iscritti al Movimento delle "capre" ed oggi il M5s la esclude dalla candidatura 

Nel 2018 scriveva “Berlusconi amore mio” e nel 2013 definì gli iscritti del Movimento Cinque Stelle “capre”, oggi si era proposta alle parlamentarie e le aveva vinte ma il M5s la esclude dalla candidatura in virtù di quei trascorsi belluini pro Cav e decisamente non proprio a favore del movimento fondato da Beppe Grillo.

La vicenda ha come protagonista Claudia Majolo, ex fan del leader di Forza Italia, candidata M5s inserita in un primo momento nel plurinominale Campania 1 – 01. 

Scriveva “Berlusconi amore mio”

l post più “compromettente “ è stato però quello del 2013, quando i pentastellati approdarono in Parlamento: “Allora siete felici???? Eh capreeeeeeeeeeeeeee??!?! Vi voglio tra un paio di mesi a voi e a quei 4 grillini… Che sanno solo mettere il culo sulla sedia… Tempo al tempo… Ora fate festa da buoni ignoranti… Poi festeggeremo NOI… però mentre festeggiate ricordatevi che O NAN (uno dei tanti nomignoli di Berlusconi declinato in vernacolo partenopeo) ha chiavato più di voi e con le femmine più belle.

Oltre ad essere stato un grande politico!!!!! Silvio Berlusconi sei e sarai un pezzo di storia per questa Italia popolata e governata da CAPRE”. 

“Post di 10 anni fa, sono amareggiata”

Ecco, la Majolo dal canto suo e secondo il Fatto Quotidiano si definisce “attonita e amareggiata” per quella che ritiene essere una “clamorosa esclusione” e avrebbe detto: “Ci tengo a sottolineare che si tratta di post di 10 anni fa, pubblicati quando avevo 22 anni.

Lo dico con grande franchezza: sono anni che pubblico post a sostegno di Conte. Mi stupisco della tempistica”. E ancora: “Mi è arrivata una e-mail, dove vengo informata che la mia candidatura è stata scartata. Non lo trovo giusto, ho fatto tanto per il comparto avvocati e praticanti. Dei post di 10 anni fa non possono pregiudicare tutto questo”. Oggi “sono vicina al presidente Conte come lo sono stata in questi ultimi anni, mi rivedo nel suo ideale: sia come neo-avvocato sia come iscritta al M5S.

Il Terzo Polo.

 Il programma del “Terzo Polo” di Renzi e Calenda. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Agosto 2022.

Matteo Renzi e Carlo Calenda si accomoderebbero ad un tavolo col centrodestra per discutere dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. Soprattutto Renzi, che attacca il segretario dem, Enrico Letta disposto alle barricate pur di stoppare il presidenzialismo, caro soprattutto a Giorgia Meloni

Al debutto davanti alla stampa della coalizione che aspira a fare da ago della bilancia della prossima legislatura, nonostante i sondaggi le accreditino una percentuale oscillante tra il 4 e il 5, assente l’altro protagonista di questa novità politica: Matteo Renzi, leader di Italia Viva. Ma Carlo Calenda tranquilizza tutti e spiega: “Con Renzi faremo una grande iniziativa insieme a Milano, stiamo fissando la data. I nostri rapporti sono stati molto difficili – ammette Calenda – però lui ha fatto un gesto di grandissima generosità mettendosi di lato e dicendo “corri tu”, non è una cosa banale“.

Il leader di Azione non nega le differenze che continuano ad esserci: “Io ho un pensiero sulle sue conferenze in Arabia Saudita, lui ne ha un altro“, ma immagina un partito con il senatore fiorentino: “Dopo le elezioni partirà un processo costitutivo di una forza politica che a un certo punto deve superare me e lui, perciò stiamo costruendo una classe dirigente che ha tutte le caratteristiche per farlo“. I precedenti scontri durissimi con Renzi sono superati, Carlo Calenda non parla più con “orrore” del leader di Italia Viva, e diffonde pace sulle aspre polemiche passate: “Ho lavorato al governo con Renzi come ministro: non c’è un giorno in cui non abbiamo litigato, eppure non ho mai disconosciuto il fatto di considerarlo uno dei migliori presidenti del Consiglio che il Paese abbia avuto“.

L’obiettivo è semplice e delineato: andare avanti con l’agenda e il metodo Draghi, e continuare ad avere Mario Draghi presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Calenda si è presenta in sala stampa al Senato per illustrare il programma del Terzo polo, parlando senza prendere fiato per 32 minuti, ma il messaggio più importante è la volontà di proseguire sul sentiero delle riforme avviate con il governo dell’ex banchiere della Banca Centrale Europea: “O cerchiamo di ripartire da un governo Draghi con un polo liberale più forte, recuperando, com’è stato per la coalizione Ursula, un pezzo della destra e il Partito democratico, o il Paese è andato. E questo è quello che succederà se il centrodestra non vince – ha detto Carlo Calenda – perché si odiano talmente che Salvini governerebbe con Rifondazione comunista piuttosto che stare con Meloni”. Calenda non resiste e lancia una stoccata a Enrico Letta: “A persone come Carlo Cottarelli, Emma Bonino e Marco Bentivogli voglio dire che le nostre porte continuano a essere aperte perché il Pd dopo le elezioni tornerà dai 5 stelle”.

Accanto a Calenda alla presentazione del programma del Terzo Polo, da sinistra, Boschi, Bonetti, Gelmini, Carfagna e Marattin 

Il programma è un concentrato di 68 pagine dei cavalli di battaglia di Azione e Italia viva: basta con l’ambientalismo dei no, Ius scholae, salario minimo a 9 euro, il sindaco d’Italia, sgravi sui premi di produttività, una mensilità di stipendio in più detassata. Ma su alcuni temi come la giustizia, le priorità appaiono diverse, ma non contrastanti. Accanto a Calenda ci sono le ex berlusconiane Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, e un pezzo importante del mondo renziano: Maria Elena Boschi, Elena Bonetti e Luigi Marattin. La Boschi ha avanzato una proposta che nel programma non emerge in maniera così chiara: “Siamo per l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione“, che richiama la misura proposta in questi ultimi giorni a gran voce da Silvio Berlusconi , anche se già respinta dalla Corte Costituzionale nel 2006. Nel programma del Terzo polo si parla in modo più soft “di norme finalizzate a ridurre i casi di appello da parte del pubblico ministero della sentenza di assoluzione in primo grado“.

Mara Carfagna e Maria Elena Boschi

Sul reddito di cittadinanza argomento sul quale Matteo Renzi è “più tranchant“, al punto che voleva fare un referendum per abolirlo il programma prevede di togliere il sussidio al beneficiario che rifiuta la prima offerta di lavoro, e la riduzione di un terzo dell’assegno dopo due anni. Nel programma: una mensilità in più detassata. Sì al salario minimo di 9 euro l’ora. Di certo no Flat tax, ma un necessario ammodernamento delle imposte. No quota 41 cara a Salvini, che significherebbe un capitombolo per i conti con una spesa di 63 miliardi («Irrealizzabile»).

Calenda ha confermato la sua candidatura nel collegio di Roma 1, e si dice soddisfatto delle liste che verranno chiuse nelle prossime ore: “Non presentiamo persone senza esperienza nel pubblico o nel privato, basta coi Toninelli e coi Di Maio“. Per il voto del prossimo 25 settembre il leader di Azione Il voto è il primo passo di quello che Calenda immagina: un grande partito liberale con Renzi, e prevede una partita aperta: “Non esiste il voto utile perché ci sono in campo quattro coalizioni, non due. Ce la giochiamo sul proporzionale al Senato e possiamo vincere rivolgendoci a tutti gli italiani”.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 19 agosto 2022.

Sì al progetto di legge delle Camere penali sulla separazione delle carriere tra pm e giudici; ulteriore rafforzamento della valutazione dei magistrati; riforma della riforma del Csm che ancora deve essere applicata; formazione manageriale dei capi degli uffici; 

ulteriore riduzione dei magistrati fuori ruolo; ulteriore limitazione della custodia cautelare; ripristino della prescrizione sostanziale, pare accanto all'improcedibilità made in Cartabia; ulteriore incentivo ai patteggiamenti; inappellabilità delle assoluzioni; ulteriore stretta sulla cronaca giudiziaria.

Renzi ha anche parlato di responsabilità civile diretta dei magistrati. Altro che il laconico ed etereo programma del centrodestra. Sulla giustizia quello del Terzo Polo ha più stellette berlusconiane di quello di Berlusconi.

M. Esp. per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2022. 

ROMA «Per noi il giustizialismo è un'aberrazione». Maria Elena Boschi non usa mezzi termini. Durante la conferenza stampa di presentazione del programma del terzo polo, insieme al leader di Azione Carlo Calenda, l'ex ministra presenta le proposte sulla giustizia, un tema che le sta particolarmente a cuore.

Ascolta Maria Stella Gelmini parlare di riforme istituzionali, suo vecchio cavallo di battaglia. Poi tocca a lei. Snocciola un programma ambizioso: inappellabilità delle sentenze di assoluzione, separazione delle carriere, riforma del Csm e della prescrizione, valutazione dei magistrati, riduzione dei tempi dei processi e dell'uso della carcerazione preventiva. «Deve essere un'eccezione, e non la regola», spiega. 

«Noi siamo garantisti. Vogliamo farci carico della richiesta di cambiamento che è arrivata da milioni di italiani che hanno partecipato ai referendum sulla giustizia». Per la Boschi alcune riforme di questa legislatura sono state troppo timide: «Per noi è importante riformare con più coraggio il nuovo Csm. Chiediamo una valutazione vera ed effettiva dei magistrati a cui possano prendere parte gli esponenti del mondo dell'avvocatura e dell'università».

Altro obiettivo fondamentale è la riduzione dei tempi dei processi, uno dei pilastri del Pnrr, secondo il quale vanno diminuiti almeno del 25%: «È necessario ridurre i tempi della giustizia - spiega Boschi - per garantire i diritti dei cittadini, innanzitutto per le famiglie delle vittime dei reati, ma anche per chi è innocente. Mediamente - prosegue - tra le indagini preliminari e la sentenza di primo grado possono passare anche sette anni. Lo dico per esperienza personale» aggiunge, facendo riferimento alla vicenda che ha visto il padre coinvolto nelle inchieste su Banca Etruria. Ma non si ferma, Boschi.

Svela che anche il terzo polo, così come Silvio Berlusconi, è favorevole «all'inappellabilità delle sentenze di assoluzione». Altra questione delicata, la prescrizione. «Vogliamo tornare alla prescrizione sostanziale, perché la mediazione al ribasso che si è dovuta fare in una maggioranza così ampia non ci ha consentito di fare una norma che funzioni bene». Poi il delicatissimo tema del carcere.

Sono più di cinquanta nel solo 2022 i detenuti che si sono tolti la vita: «Abbiamo bisogno di un sistema carcerario che non diventi una condizione di inappellabilità per le migliaia di persone oggi detenute. Bisogna lavorare non solo sull'edilizia ma anche sull'ordinamento penitenziario, incentivando l'esecuzione penale alternativa e garantendo un supporto psicologico vero per evitare il dramma dei suicidi». «Portare avanti queste battaglie con Iv e Azione è semplice perché sono parte del Dna di tutte le persone candidate da queste forze politiche» conclude Boschi, probabilmente lanciando una frecciatina agli ex colleghi del Pd.

"Letta ha sbagliato tutto sulle candidature. Anche con mio fratello": le accuse del senatore Pittella dopo la fuoriuscita dal Pd. Cenzio Di Zanni su La Repubblica il 21 agosto 2022.

Intervista all'ex eurodeputato, candidato alle primarie per la segreteria del Pd nel 2013, che ha abbandonato i dem per Renzi e Calenda

Gianni Pittella è stato fra i fondatori del Pd, e anche candidato alle primarie del 2013, quelle vinte da Matteo Renzi. Una vita nei Democratici di sinistra, vicinissimo all’ex premier Massimo D'Alema. Ora però il senatore lucano ed ex europarlamentare coi dem ha chiuso. La decisione in un lungo post su Facebook in occasione della mancata candidatura del fratello Marcello, già governatore della Basilicata. “Ma non è stata un decisione repentina, la mia sofferenza nel Pd ha radici antiche”.

Eppure quando è nata Italia Viva lei scelse di restare fra i dem.

“Perché volevo battermi all’interno del partito per i temi cari alla cultura riformista. Ho sperato che con la nuova segreteria di Enrico Letta, che è un riformista cattolico, ci fosse un ripensamento”.

E invece?

“E invece ha proseguito sostanzialmente la linea politica di Zingaretti. Intanto non siamo alleati con i Cinquestelle perché loro hanno fatto la scelta sciagurata di far cadere il governo Draghi. Ho sperato in Letta. Un annetto fa gli scrissi una lettera aperta nella quale chiedevo una svolta riformista. E di dialogare con Renzi e Calenda: per me è l’area di riferimento, invece è stata scelta un’altra strada”.

Che cosa non ha mandato giù?

“Vedevo nella segreteria di Zingaretti prima e in quella di Letta poi un atteggiamento ondivago, un ammiccamento al M5S che snaturava la cultura e l’impianto riformista sui grandi temi. Da quello dell’ambiente e dell’energia a quello dei diritti e della giustizia. Per arrivare alla difesa delle istituzioni quando il parlamento è stato dileggiato”.

Dileggiato?

“Sì, in occasione del taglio dei parlamentari. È stata una scelta errata: ho anche firmato per il referendum. Ormai la spinta socialista e riformista che doveva trovare spazio nel Pd non c’è più”.

Ora lei dice che il Terzo polo di Renzi e Calenda è una speranza.

“L’ho scritto sui social. Voglio augurarmi che il nascente Terzo polo possa rispecchiare le attese di tanti. Voglio sperare che possa raccogliere un’ansia diffusa di cambiamento dopo questo bipolarismo innaturale fra una sinistra radicale e una destra-tutta-destra, senza un centro moderato: lì decidono Meloni e Salvini”.

Che cosa rimprovera a Letta? Facciamo un esempio concreto.

“La gestione delle candidature. Però dopo la linea politica impostata, che per me è la cosa principale”.

Ma…

“C’è la scelta dei candidati, fatta senza criterio. Senza né capo né coda. Senza rispettare i territori. Ma come si fa a calare dall’alto i candidati? Questo è un modo per allontanare ulteriormente i cittadini dalla politica. E questo è successo in tante parti d’Italia”.

In Basilicata è accaduto con suo fratello Marcello.

“Ma la mia scelta non è legata a un fatto familiare, chi mi conosce sa che questo modo di fare non mi appartiene”.

Non è familismo?

“Assolutamente no. Sarei attaccabile per questo, se in tutti questi anni non avessi mosso critiche politicamente significative alla gestione di Zingaretti e Letta. Certo, quello di mio fratello è un caso, però non lo dico perché è mio fratello”.

E perché?

“Perché lui è stato governatore della Basilicata, ricandidato all’unanimità dal Pd lucano alle regionali, con una candidatura respinta per una vicenda giudiziaria (fu mandato ai domiciliari per un’inchiesta sulla sanità lucana) da cui è stato assolto. Allora un partito serio, che ha nel cuore la cultura dei diritti, non candida un suo governatore che ha subito un’ingiustizia così profonda?”.

Era candidata alla Camera con IV. Morta Graziella Pagano, l’ex senatrice combatteva da tempo contro il cancro. Redazione su Il Riformista il 18 Settembre 2022 

Si è spenta dopo una lunga battaglia contro la malattia che da tempo l’aveva colpita. Graziella Pagano, 77enne quattro volte senatrice con una lunga storia nel Partito Comunista, poi transitata nel PDS, nei DS e nel Partito Democratico, fino all’addio per seguire Matteo Renzi nella scissione di Italia Viva, è morta questa mattina, come comunicato con un messaggio-testamento sui suoi social. 

Nonostante il cancro, battaglia che raccontava sui propri social, Graziella Pagano si era spesa pubblicamente anche in questa campagna elettorale, che la vedeva in campo con Italia Viva di Matteo Renzi. Solo pochi giorni fa era voluta esserci all’inaugurazione del comitato elettorale del Terzo Polo a Napoli, al fianco di Ettore Rosato e Mara Carfagna e dello stesso Renzi. 

Su Facebook questa mattina l’ultimo messaggio, l’addio agli amici e alla sua comunità, dopo il ricovero avvenuto a Roma, nel Campus biomedico, per l’improvviso aggravarsi delle condizioni di salute: “Cari Amici, Cari Compagni la mia battaglia finisce qui. Prima di “passare dall’altra parte”, vi lascio un grande abbraccio e un ringraziamento sincero. In questi anni non mi avete mai fatto sentire sola e ho sempre sentito forte il vostro affetto e la vostra vicinanza. Anche per questo ho accettato di candidarmi. Non per tornare, ma per rappresentare una comunità. Alla quale sentivo di appartenere. Donne e Uomini giovani e meno giovani che mi hanno permesso di fare quello che ho fatto, in politica e non solo, e ai quali sarò sempre legata. Purtroppo la mia malattia ha avuto la meglio: ma ho combattuto con vigore fino alla fine. E me ne sto andando con la mia dignità, non consentendole di trasformarmi in quella che non sono. Adesso è tempo di volare in cielo. Andrò a dare battaglia anche lì, mi conoscete. Affido a mio figlio Lorenzo, il grande amore della mia vita (stategli vicino, per favore) queste ultime parole e un invito a non disperarvi. Non voglio sapervi tristi, non voglio sentirvi smarriti”, il lungo messaggio affidato a Facebook.

Una storia di grande impegno politico: eletta consigliere comunale di Napoli nel 1987, fa il grande salto con le elezioni politiche del 1992, col passaggio al Senato. Riletta col Partito Democratico della Sinistra al Senato per le successive tre legislature, 1994, del 1996 e del 2001, rimane nel Parlamento italiano fino al 2006. Il 17 giugno 2008 è europarlamentare, subentrando ad Alfonso Andria. Nel 2019 quindi il passaggio in Italia Viva, seguendo la scissione di Matteo Renzi: diventa coordinatrice cittadina a Napoli assieme ad Apostolos Paipais e in questa tornata elettorale, nonostante la malattia, assicura il suo impegno in vista del voto del 25 settembre.

Pagano era candidata alla Camera per il Terzo Polo, in lista nel collegio plurinominale di Napoli alle spalle di Ettore Rosato, presidente nazionale del partito.

“La mia Leonessa ha fatto il suo ultimo ruggito. Poi le ho stretto la mano e le ho chiesto di darmi un briciolo della sua forza. Solo così potrò reggere al dolore di non averla più vicino a me. Vola in cielo Mamma, e grazie di tutto. Non basterebbe un oceano di lettere per descrivere cosa eri sei e sempre sarai per me”, il messaggio affidato ai social del figlio, il giornalista Lorenzo Crea.

I funerali di Graziella Pagano si terranno martedì 29 settembre alle ore 17 presso la Basilica Santuario del Carmine Maggiore in Piazza del Carmine, a Napoli

Emorragia di iscritti nel Pd: Pittella "atterra" da Calenda. Francesca Galici il 21 Agosto 2022 su Il Giornale. Ancora un abbandono per il Pd, che mentre Enrico Letta continua a concentrarsi su Giorgia Meloni, perde sempre più pezzi: via anche il senatore Pittella-

Gianni Pittella, con un lungo post di addio, ha salutato il Partito democratico. Il senatore lucano, fratello dell'ex governatore della Basilicata, Marcello Pittella, attualmente consigliere regionale di minoranza. Il senatore, proprio nella giornata di ieri, ha annunciato la sua candidatura al Senato con Azione dopo che lo scorso 16 agosto non era stato inserito tra i candidati del Nazareno per concorrere in Basilicata alle prossime elezioni del 25 settembre. Uno smacco troppo grande per lui, che dopo una militanza decennale pensava di essersi guadagnato il diritto a una candidatura.

"Molte delle ragioni politiche e culturali che mi avevano indotto a scegliere di contribuire alla sua fondazione e poi a candidarmi alla segreteria del partito mi appaiono in questa fase storica più sbiadite e incerte", ha scritto Pittella con grande amarezza. Ma non c'è solo l'aspetto politico ad averlo condotto verso questa decisione, perché "negli ultimi tempi si sono aggiunte anche delusioni umane, quando per me, come chi mi conosce sa, il rapporto umano ha un valore prezioso". Lo sfogo di Gianni Pittella è molto lungo e carico di scoramento per com'è terminata la sua storia all'interno del partito che per tanti anni è stata la sua casa politica, per la quale dichiara di aver sempre avanzato proposte e idee per migliorarne la presenza sul territorio".

Basilicata, silurato il garantista Pittella. Al suo posto il portaborse di Provenzano

"Molti argomenti di considerazione politica li avevo avanzati in sede pubblica rivendicavo la necessità di accentuare il carattere riformista e riformatore del partito, compiendo scelte nette e moderne su temi strategici, sviluppo, indipendenza energetica, mercato del lavoro, giustizia e garanzie per i cittadini", scrive ancora il senatore. Eppure, davanti alle sue proposte per il partito, da parte del Pd non c'è stato interesse: "Ho avuto per risposta una certa ondivaga tiepidezza, per lo più per non collidere con le posizioni tradizionali della sinistra massimalista o dei 5Stelle. Il Terzo Polo di Calenda e Renzi mi pare un embrione di speranza. Con il Terzo Polo proveremo a dire cose sensate e serie, senza promettere di più di ciò che è realizzabile e di ciò che serve all'Italia, al Sud e alla Basilicata".

Lo strappo si è consumato nella giornata di ieri, sempre a mezzo social: "Due veti sono troppi. Ne bastava uno. Grazie Carlo Calenda, Mara Carfagna e Matteo Richetti per l'opportunità di affermare insieme democrazia e giustizia, concedendomi di guidare la lista plurinominale al Senato in Basilicata". E poi, sottintendendo una precisa idea politica da parte del Pd, ha concluso: "Sarà una festa di popolo e di libertà! La rivincita dei territori contro i diktat romani". 

Scelto il Terzo Polo: "Dem mai contro 5 Stelle". Pittella saluta il giustizialista Letta: “Candidati calati dall’alto, dopo assoluzione mio fratello non una parola dal Pd”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 22 Agosto 2022 

Da fondatore del Pd all’addio dopo quasi dieci anni a un partito che ha una cultura assai carente “sui diritti e le garanzie“. Gianni Pittella, senatore ed ex europarlamentare, saluta Enrico Letta e abbraccia il Terzo Polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda. Una decisione maturata con “grande serenità d’animo” dopo “delusioni umane” come quella relativa al fratello Marcello Pittella, perseguitato dalla magistratura che nel 2018 ne dispose l’arresto nell’ambito di una inchiesta sulla sanità lucana.

Dopo tre anni e mezzo Pittella è stato assolto con formula piena dal tribunale di Matera. Nel mezzo però il veto del Pd alla sua ricandidatura a governatore della Basilicata. Poi dopo la fine del calvario giudiziario “dai vertici del Partito Democratico, al netto di qualche telefonata di singoli autorevoli membri di governo, non una parola o quasi. Questo la dice lunga, non sulla vicenda o sulla persona Pittella, ma sulla cultura del PD sui diritti e le garanzie” chiosa Gianni Pittella nel suo messaggio di addio ai dem.

Adesso il fratello Marcello correrà al Senato per il Terzo Polo. “Mi pare un embrione di speranza. L’idea che la grande questione liberalsocialista in Italia possa trovare una casa, che il filone socialista e liberale di Gobetti, Rosselli e Bobbio possa alimentare un progetto e ispirare scelte concrete” spiega Pittella che accusa il suo ex partito di essere poco riformista e troppo piegato ai 5 Stelle e ai micro partiti della sinistra. “Rivendicavo la necessità di accentuare il carattere riformista e riformatore del partito, compiendo scelte nette e moderne su temi strategici, sviluppo, indipendenza energetica, mercato del lavoro, giustizia e garanzie per i cittadini. Ho avuto – spiega -per risposta una certa ondivaga tiepidezza, per lo più per non collidere con le posizioni tradizionali della sinistra massimalista o dei 5Stelle”.

In una intervista a Repubblica, Pittella attacca Letta accusandolo di aver proseguito “sostanzialmente la linea politica di Zingaretti. Un annetto fa gli scrissi una lettera aperta nella quale chiedevo una svolta riformista. E di dialogare con Renzi e Calenda: per me è l’area di riferimento, invece è stata scelta un’altra strada”.

Poi la stoccata sui candidati calati dall’alto: “C’è la scelta dei candidati, fatta senza criterio. Senza né capo né coda. Senza rispettare i territori. Ma come si fa a calare dall’alto i candidati? Questo è un modo per allontanare ulteriormente i cittadini dalla politica. E questo è successo in tante parti d’Italia”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Da Berlusconi a Calenda passando per Emiliano : il “voltabandiera” Massimo Cassano alla continua ricerca di poltrone ed incarichi.  Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Agosto 2022

La ministra uscente Carfagna capolista alla Camera per il Terzo Polo. E dietro di lei c'è Massimo Cassano, discusso manager dell’Agenzia regionale Arpal e i suoi uomini. E Renzi potrebbe trovarsi sul palco a Melendugno un noto "voltagabbana" vicino sino a qualche ora fa al presidente di regione Michele Emiliano.

Su WhatsApp le chat del “calendiani” sono in ebollizione: “Se le liste in Puglia le fa Massimo Cassano, abbiamo vanificato un lavoro di mesi e mesi per distinguerci dalle posizioni “no tutto” di Michele Emiliano”. Le indiscrezioni sull’ingresso dell’ex sottosegretario barese in Azione, dopo aver partecipato come ospite interessato all’ultimo congresso regionale, con effetti dirompenti sulle candidature, trovano conferma direttamente dallo stesso Cassano.

Tutte candidature più “facili” sarebbero appannaggio dei componenti del movimento civico, Puglia popolare, messo in piedi da Massimo Cassano e da sempre legato al governatore della Puglia, Michele Emiliano, con conseguente ridimensionamento dei quadri “calendiani” e “renziani” doc, rimasti letteralmente spiazzati e divisi tra messaggi di forte protesta ai leader nazionali, e conseguente disimpegno .

Il legame di Cassano con Emiliano (che definiva “il nostro punto di riferimento”) è stato ripagato da una nomina  per Cassano all’Arpal, l’ agenzia regionale pugliese per le politiche attive del lavoro, che negli anni si è sempre distinta non per aver trovato occupazione ai disoccupati pugliesi, ma bensì’ a causa della controversa gestione clientelare delle assunzioni. Cassano è stato molto spesso a Roma, nelle ultime settimane tentato sia da Calenda che da Tabacci, che si trincerandosi dietro una frase sibillina: “Non vorrei stare con un populista al centro”.

Raffaele Fitto e Massimo Cassano quando era un “forzista”

Adesso a seguito di accordi romani Cassano organizza le liste elettorali con il ministro Carfagna capolista nei quattro listini della Camera e  proprio l’ex sottosegretario nella piazza d’onore del  proporzionale barese. A seguire Cassano ci saranno il “popolare” Massimiliano Stellato, un noto “voltagabbana” della politica jonica, eletto due anni fa nel consiglio regionale Regione Puglia appoggiando la candidatura a governatore di Michele Emiliano, passato dal Pd a sostenere Walter Musillo il candidato sindaco del centrodestra nelle ultime comunali ioniche (dove è stato eletto consigliere comunale nella minoranza di centrodestra), e subito dopo avvicinatosi alla Lega ; a Lecce l’ex generale dei Carabinieri  Antonio Buccoliero (già consigliere regionale per Forza Italia) , nel Foggiano Carlo Laurora, ex azzurro di Trani. Fuori dai radar, infine, il deputato uscente di Azione, Nunzio Angiola, che aveva intasato negli ultimi mesi le poste elettroniche dei giornali con comunicati firmati usando la qualifica di “delegato nazionale Aree interne e piccoli comuni”. Finita solo quarta al Senato Titti Cinone, segretario regionale di Azione in Puglia.

La viceministro renziana Teresa Bellanova preferisce non fare dichiarazioni costretta dopo aver combattuto l’ “emilianismo“ a ritrovarsi accanto nelle sue liste degli ex-sostenitori del governatore pugliese . Allontanatisi dal progetto di Terzo Polo anche i “civici” vicini all’ex assessore regionale Alfonso Pisicchio, che aveva “flirtano” con il presidente di Italia Viva Ettore Rosato. 

Incredibilmente adesso quasi come una delle puntate della serie televisiva americana “House of Cards” potrebbe iniziare a Melendugno, la campagna elettorale di Matteo Renzi, capolista in Puglia per Palazzo Madama, nella città simbolo del Tap e dei movimenti antisistema e antigasdotto, con accanto sul palco proprio Massimo Cassano, ex-alleato forte del governatore il quale ha strizzato l’occhio persino agli anti-industrialisti e grillini di complemento.

Rileggendo un intervista dello scorso febbraio 2022 di Cassano al quotidiano la Repubblica dove affermava : “Emiliano è stato politicamente il più intelligente di tutti ad aggregare e allargare la coalizione di centrosinistra per vincere le elezioni. Senza la forza di Emiliano e delle civiche, le politiche del 2023 difficilmente si vinceranno”. Ma evidentemente la possibilità di entrare in Parlamento deve avergli fatto cambiare idea. Ancora una volta.

Massimo Cassano e Michele Emiliano

E questa sarebbe la politica del cambiamento raccontata da Calenda ? Ci sembra di rivedere l’espansione al sud della Lega di Matteo Salvini al Sud dove ha raccolto gli scarti degli altri partiti, e personaggi al limite della legalità (vedi il sindaco di Foggia Landella, arrestato dopo aver aderito alla Lega, per “collusione mafiosa“) non riuscendo mai ad incidere sulla politica regionale e locale. 

Chissà se Carlo Calenda è a conoscenza che l’ex sottosegretario e ed ex senatore Massimo Cassano, attuale direttore generale dell’Arpal, l’agenzia per il lavoro della Regione Puglia, ha ricevuto un avviso di conclusione delle indagini dalla Procura della Repubblica di Bari, unitamente ad altre quattro persone, nell’ambito di una inchiesta condotta dal pubblico ministero Giuseppe Dentamaro, per concorso nella presunta bancarotta fraudolenta di una società privata, la Work System, che gestiva un deposito franco doganale nel porto del capoluogo pugliese. Cassano è stato amministratore unico della Work System dal 2002 al 2008. L’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Bari è stata avviata ad aprile 2020. Per Cassano e per le altre quattro persone che nel corso degli anni si sono avvicendate come amministratori della società  l’accusa è “di concorso in bancarotta fraudolenta”. Redazione CdG 1947

Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 23 agosto 2022.

Ci saranno ben tre ministre uscenti del governo Draghi, ma non ci saranno quegli «innesti civici» che avrebbero dovuto qualificare sui territori il progetto del Terzo Polo.

Dopo l'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini la creatura centrista di Carlo Calenda e Matteo Renzi perde infatti anche l'ex primo cittadino di Parma ed ex grillino Federico Pizzarotti.

Ad annunciarlo, poche ore prima del gong finale per la consegna delle liste nelle Corti d'Appello, è lo stesso Pizzarotti, da tempo considerato vicino al presidente dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini: «La mia partecipazione alle elezioni politiche del 25 settembre finisce qui, cioè non inizia. Non sarò candidato, non ci sono stati spazi seri nel progetto del Terzo Polo per candidature non direttamente collegate ad Azione e Italia Viva».

Pizzarotti, la cui corsa era stata prevista al Senato nelle circoscrizioni Lombardia e Veneto, oltre che nella sua Regione, chiarisce di non aver chiesto una candidatura blindata «ma solo di essere messo nelle condizioni di poter gareggiare seriamente e di poter concretizzare una rappresentanza adeguata della lista civica nazionale». 

Un epilogo non troppo felice per nessuno dei protagonisti. Con l'aggravante, rispetto al caso milanese, che mentre Albertini ha lasciato Palazzo Marino nel 2006, la lista civica di Pizzarotti due mesi fa è riuscita a raggiungere l'8% a Parma e a far eleggere come sindaco l'ex assessore alla Cultura Michele Guerra.

E così, nelle liste di Azione-Italia Viva, ci saranno soprattutto i fedelissimi dei due leader. Oltre, ovviamente, agli stessi Carlo Calenda e Matteo Renzi, entrambi candidati al Senato. L'ex ministro dello Sviluppo economico sarà capolista dei listini proporzionali nel Lazio e se la vedrà anche all'uninominale nel collegio di Roma centro contro l'«alleata mancata» Emma Bonino, l'ex premier sarà capolista a Milano (dove Forza Italia schiera Silvio Berlusconi), nel Lombardia 3 (Brescia-Bergamo-Mantova e Cremona) e in Toscana.

Azione conferma un ruolo di primo piano per le ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, uscite da Forza Italia dopo la caduta del governo Draghi. La Carfagna, è lei stessa ad annunciarlo con un post su Facebook, sarà capolista alla Camera nei quattro listini proporzionali della Puglia e nel collegio di Salerno-Avellino, ma correrà anche all'uninominale per il seggio di Napoli-Fuorigrotta. La Gelmini farà l'uninominale al Senato a Treviglio e sarà poi al secondo posto dei listini in Campania, in Toscana e nel Lombardia 3 dietro a Matteo Renzi.

In campo con buoni posti in lista anche Giusy Versace, altra neo-fuoriuscita eccellente di Forza Italia, e il vice-coordinatore nazionale di Azione ed ex ministro Enrico Costa (capolista per Montecitorio al proporzionale in due circoscrizioni lombarde, nella posizione che interessava anche a Gabriele Albertini). Pluricandidature da capilista nei proporzionali anche per tutti i renziani Docg: per la Camera la ministra Elena Bonetti (Lazio e Sardegna), Francesco Bonifazi (Toscana), Maria Elena Boschi (a Roma seguita da Roberto Giachetti e in Calabria), Davide Faraone (Sicilia) e Lucia Annibali (Toscana). L'ex ministra Maria Teresa Bellanova, invece, correrà per il Senato in Salento. Sarà della partita anche Ettore Rosato, ideatore dell'attuale legge elettorale, soprannominata «Rosatellum»: guiderà i listini dei deputati in Campania e in Friuli.

 Filo Putin e pro Orsini, la capolista di Azione che imbarazza Calenda. Stefano Baldolini su La Repubblica il 23 Agosto 2022 

Stefania Modestino D'Angelo, docente di italiano, contro Biden e Zelensky. Plausi per Lukashenko. Von der Leyen "una cameriera", Macron "fattorino". La replica: "Sono atlantista, post strumentalizzati". Il leader di Azione: "Nostro errore non avere verificato i post"

Una filoputiniana e 'orsiniana' nelle liste di Carlo Calenda. La guerra in Ucraina? "Provocata dall'avidità degli Usa, dagli oltranzisti anti Putin". Zelensky? "Nemico del suo popolo". E ancora: "Da nazista a eroe del Pd". Ursula von Der Leyen e Macron? "Una cameriera" e "un fattorino". Parole e pensieri postati in gran quantità su facebook da Stefania Modestino D'Angelo, capolista al Senato nel listino plurinominale di Caserta per il Terzo polo.

Problemi di 'classe dirigente'? La candidata ‘filo-Putin’ capolista a Caserta con Calenda: per Modestino “Macron fattorino” e von der Leyen “sguattera”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

Il problema del ‘passato social’ dei cosiddetti “giovani candidati” del Partito Democratico, dal caso La Regina a Sarracino, si sta allargando anche agli altri partiti. Non solo a destra, dove Giorgia Meloni è finita nella bufera nei giorni scorsi per un video del 1996 in cui una poco più che maggiorenne militante di destra ad una tv francese descriveva Mussolini “un buon politico, il migliore degli ultimi 50 anni”, ma anche nel ‘Terzo Polo’ riformista.

‘Colpa’ di Stefania Modestino, candidata come capolista del tandem Azione-Italia Viva nel collegio proporzionale al Senato della Campania 2, quello che comprende le province di Caserta, Salerno, Avellino e Benevento.

Docente e giornalista, un passato nel Partito Democratico, la Modestino è stata scelta dal partito di Carlo Calenda come capolista al Senato, avendo dall’altra parte alla Camera un compagno di avventura dal curriculum pesante come il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare e della difesa.

Ma basta dare una rapida occhiata al profilo della professoressa, docente di latino e italiano, per scoprire che le sue idee politiche contrastano in maniera piuttosto netta con quelle del ‘Terzo Polo’ in cui è candidata, in particolare nella politica estera che per il duo Calenda-Renzi da programma deve seguire la scia di quanto tracciato dal premier Mario Draghi.

Così sull’Ucraina si trovano sul profilo social della Modestino condivisioni a raffica degli interventi di Alessandro Orsini e Donatella Di Cesare, il primo sociologo della Luiss, la seconda filosofa, entrambi tacciato di ‘filo-putinismo’ per le loro opinioni sul conflitto scatenato dalla Russia. Italia che, per la Modestino, per la decisione di inviare aiuti a Kiev “adesso è la femme de chambre di Biden”, la donna delle pulizie del presidente Usa. 

Non va meglio nel giudizio su Ursula von der Leyen, la presidente tedesca della Commissione europea, modello di Calenda nella sua elezione all’importante carica (grazie all’accordo tra popolari e socialisti a Bruxelles) per un governo in Italia sul ‘modello Ursula’ per tenere fuori sovranisti e populisti. Per la Modestino la von der Leyen è una “femme de chambre”, giudizio costante per la docente, rispetto ai padri fondatori dell’Europa, mentre Emmanuel Macron “un fattorino”. 

Nel mare magnum di post al veleno della candidata del ‘Terzo Polo’, c’è spazio anche per il complottismo. Protagonista ancora una volta Ursula von der Leyen: nel pubblicare un articolo online (del 28 gennaio scorso) sulle critiche alla presidente della Commissione Ue per degli sms scambiati col Ceo di Pfizer, Modestino scrive infatti che “questi rapporti tra la lady Europa e il ceo di Pfizer potrebbero cambiare molte valutazioni sui vaccini e sui loro costi” e che “con sti vaccini avete giocato sporco”. 

E di complottismo è ‘vittima’ anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che per la candidata di Azione in un post del 26 febbraio, a due giorni dallo scoppiare del conflitto, “si è messo in salvo a Leolopoli(o forse all’estero) diffondendo filmati registrati giorni fa…ma come si fa a non considerarlo un nemico del suo popolo”, chiede ai suo followers.

Il 22 febbraio, alla vigilia della guerra, Modestino si lanciava invece in una previsione sulle tensioni tra Russia e Ucraina in cui evidenziava come “la storia darà ragione a Putin mentre per Francia e Germania possiamo già parlare di pasticcio diplomatico su ogni fronte”. 

La pubblicazione dei primi articoli online (tra cui quello del Riformista) sulle sue posizioni hanno spinto già questa mattina la Modestino a cancellare i post ‘incriminati’. Quindi il tentativo di ‘mettere una pezza’ alla questione, col tentativo della docente candidata con Azione di giustificare le sue posizioni: Modestino si dice “convintamente atlantista e europeista”, condannando “l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin non solo come pacifista, ma perché sono convinta che sia essenziale il valore della indipendenza dei popoli e degli Stati”.

Modestino scrivere quindi di ritenere “utile alla democrazia la pluralità di pensiero ed è questo che mi consente di rispettare anche posizioni non condivise. Il pensiero unico è la morte del pensiero e di una intera società, e questo è innegabile: nella storia il pensiero unico fu di coloro che condannarono Galileo ed è la condizione per abolire non solo ogni forma di conoscenza, ma è la condizione più pericolosa per la democrazia. Questo è quello che da sempre provo ad insegnare ai mei alunni”.

Un putiferio che ha costretto lo stesso Calenda ad intervenire pubblicamente sulla candidatura scomoda della Modestino, precisando via social che “la signora in questione è stata segnalata dal territorio, è un’insegnante e giornalista impegnata nel sociale a Caserta. Errore nostro non aver verificato i post su politica estera. Me ne assumo la responsabilità. Stiamo gestendo la cosa”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il caso di Stefania Modestino D’Angelo, la prof candidata con Azione che si è rivelata "putiniana". Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 25 agosto 2022.

Il caso di Stefania Modestino D’Angelo, capolista di Azione per un posto al Senato nel collegio Campania 2 è emblematico di quanto i partiti non siano neanche più in grado di badare a se stessi. La candidata del partito più europeista e atlantista del reame da mesi imperversa sui social inneggiando a Vladimir Putin («la Storia gli darà ragione»), insultando il presidente ucraino Volodymir Zelensky («un nemico del suo popolo») senza risparmiare il francese Macron («un fattorino») e la tedesca Von der Leyen («una sguattera»). E difendendo a spada tratta il professor Alessandro Orsini, anche a costo di brutalizzare la sintassi italiana («C’è ancora chi ragiona. Meno male che gli studenti abbiano capito»).

Calenda, naturalmente non ne sapeva nulla e si scusa con i suoi sostenitori: «Nostro errore non aver verificato. Stiamo gestendo la cosa». E meno male che il leader di Azione aveva fatto della selezione della classe dirigente un punto centrale del suo programma politico, spiegando che avrebbe addirittura reintrodotto il cursus honorum per scegliere i candidati. Il risultato è questo: una “putiniana” in cima alla lista in un collegio molto grande che comprende quattro province (Caserta, Salerno, Avellino e Benevento).

La “svista” dei dirigenti di Azione è figlia della crisi profonda della politica e dei partiti, ridotti ormai a puri comitati elettorali, privi di democrazia interna e di organismi di controllo, disprezzati dagli elettori e usati come autobus dai perfetti sconosciuti che di tanto in tanto occhieggiano nel calderone delle liste. Una crisi amplificata dal taglio del numero dei parlamentari, riforma approvata a furor di popolo che ha reso i partiti ancora più famelici, accentrando ulteriormente il potere nelle mani delle segreterie. E abbassando la qualità della classe dirigente.

Sentite come risponde Modestino D’angelo al giornalista del Corriere che le spiega che Calenda è infuriato con lei: «Sono dispiaciuta, vorrei che mi ascoltasse e avere l’opportunità di farmi conoscere». Ma da chi? Dagli elettori o da Calenda?

"Camorristi", garantisti e doppiopesisti. No, il garantismo proprio non c'entra. Carlo Calenda sbaglia bersaglio. Stefano Zurlo il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

No, il garantismo proprio non c'entra. Carlo Calenda sbaglia bersaglio. Semmai c'entra la selezione della classe dirigente, messa insieme di corsa in vista delle prossime elezioni. E invece il leader di Azione se la prende con il Giornale che ieri ha pubblicato a tutta pagina la storia di Pasquale Del Prete, candidato «calendiano» alla Camera ma anche protagonista di un discutibile video girato due anni fa in cui gridava: «Sono fiero di essere camorrista». Un filmato riemerso puntualmente in queste ore frenetiche di campagna elettorale; quella di Del Prete era una provocazione, un paradosso ma anche un'uscita imbarazzante, come raccontato senza scorciatoie dal Giornale: il candidato di Azione rivendicava l'appartenenza alla giunta di Frattamaggiore, sciolta per camorra nella notte dei tempi. E se la prendeva per quel provvedimento che, per quanto confermato dal Tar, non aveva avuto strascichi giudiziari. Resta quel video sconcertante e resta la cronaca del Giornale contro cui si scaglia il leader del Terzo Polo su Twitter: «Siamo oltre il giustizialismo. Perché non c'è alcun provvedimento giudiziario». Come chiarisce peraltro proprio il Giornale che si guarda bene dall'infangare, anzi anche solo dallo spargere malizia su Del Prete, ma semmai vuole mostrarne l'eccentricità e il tono a dir poco sopra le righe. E invece Calenda insiste: «Siamo allo sciacallaggio». Eh no, spiace dover puntualizzare che siamo all'esame di chi si propone di guidare il Paese. La Campania sarà una terra difficile e complicata ma il video, per quel che vale, semina dubbi. Come ha seminato inquietudine la candidata di Azione dai post filoputiniani, per sfortuna sempre in Campania. Incidenti. Ma Calenda assesta un colpo basso al nostro quotidiano: «La risposta vale anche per Dagospia e il Giornale che si ricorda di essere garantista solo quando deve difendere il suo padrone da processi e condanne». Onorevole: ha sbagliato indirizzo. Siamo stati e siamo garantisti con tutti: con la destra e con la sinistra, con i potenti e con i deboli, soprattutto con i tanti, troppi che sono stati alla gogna per anni, per poi sentirsi dire: «No, era un altro quello che cercavamo». Niente lezioni, please, e moralismi. Si tranquillizzi: non siamo manettari a intermittenza e nemmeno sciacalli. Semmai consigli ai suoi di usare la testa davanti alle telecamere.

Il candidato di Calenda. "Sono camorrista e sono fiero di esserlo". Un video del 2020 imbarazza Azione: il politico fu in una giunta sciolta per mafia. Pasquale Napolitano il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

«Sono fiero di essere camorrista». Pasquale Del Prete, oggi in corsa per un seggio alla Camera dei Deputati con la lista del Terzo Polo in Campania, due anni fa urlava la frase dal palco nel corso di un comizio elettorale.

Nel 2020 l'esponente di Azione, che è anche vicesegretario provinciale del partito di Carlo Calenda a Napoli, rivendicava con orgoglio la sua appartenenza a un'amministrazione comunale sciolta per infiltrazioni della camorra.

Una provocazione? Una sfida? Una battuta? Al netto delle interpretazioni, quell'urlo potrebbe creare oggi imbarazzo nel partito. Ma soprattutto rischia di essere un messaggio devastante in una terra, quella della provincia di Napoli, pesantemente inquinata dalla criminalità organizzata.

Il video che dura in tutto 46 secondi risale a due anni fa. Ma rispunta ora in piena campagna elettorale per le elezioni politiche.

Eccolo il passato imbarazzante che inchioda i candidati che aspirano a una poltrona in Parlamento. Ci cascano tutti. Stavolta, per la seconda volta in due giorni, dopo il caso della prof filo Putin candidata sempre nelle liste del Terzo Polo, scivola sulla classica buccia di banana il leader di Azione Carlo Calenda.

Pasquale Del Prete, candidato di Azione, è il protagonista del filmato. Dal palco urlava: «Insieme a Enzo del Prete ci hanno accusato di essere camorristi. Sono fiero di essere camorrista insieme ad Enzo Del Prete». Le parole vengono pronunciate durante la campagna elettorale per le comunali nel comune Frattamaggiore, in provincia di Napoli, nell'anno 2020. Chi è Enzo del Prete? È l'ex sindaco di Frattamaggiore la cui amministrazione nel 2001 fu sciolta dal Prefetto di Napoli per infiltrazioni della camorra nella gestione della cosa pubblica. Il provvedimento fu confermato da una doppia sentenza: Tar e Consiglio di Stato. Una macchia per la comunità frattese. Di quell'amministrazione, commissariata dal Prefetto per legami con la criminalità organizzata, faceva parte anche Pasquale Del Prete, che oggi ritroviamo tra i candidati della lista del Terzo Polo. Quello scioglimento per camorra diventa per il candidato di Calenda quasi una medaglia al petto di cui andare orgogliosi. Ovviamente, Pasquale Del Prete non risulta indagato né sfiorato in passato da inchieste. Ma quella frase rischia ora di trascinarlo in un polverone di polemiche. Urlare da un palco, anche se in modo provocatorio, di essere un camorrista è un messaggio sbagliato. Soprattutto se il protagonista del video è candidato al terzo posto nella lista di Azione-Italia Viva dietro Ettore Rosato e Angelica Saggese. È piazzato nel listino per la Camera dei Deputati nel collegio Campania 1-02 che comprende i comuni dell'hinterland napoletano. Per Calenda arriva una doppia gaffe in 48 ore. Due giorni fa è toccato a Stefania Modestino, capolista al Senato in Campania per il Terzo Polo, finita nella bufera per le simpatie pro Putin. Scivolone che fa godere Nicola Fratoianni: «Cari Calenda e Renzi ma che cosa mi state combinando? Per settimane mi avete descritto quasi come Belzebù. Ora si scopre che avete candidati come capolista personaggi a dir poco pittoreschi: dalla fan di Putin e Lukashenko, al teorico dell'ordoliberismo».

Calenda che ieri si è lasciato andare in un botta a risposta con Filippo Sensi del Pd. «Scusate se non rispondo subito, mi sto tatuando il discorso di Mario Draghi a Rimini», scrive su Twitter il deputato Pd. Pronta la risposta del leader del Terzo Polo: «Lascia uno spazio per Fratoianni e Bonelli».

Michele Anzaldi, il "rompiballe" della Rai? "Lasciato a casa". Francesco Specchia Libero Quotidiano il 26 agosto 2022

Preferisco ricordarmelo da vivo, il Michele Anzaldi da Palermo. Classe 60, deputato, era il "Pitbull di Renzi", l'azzannatore della sinistra, la proiezione astrale dell'ex missino viterbese senatore Michele Bonatesta (inarrestabile e mitico, pure lui, componente della Commissione Vigilanza negli anni 2000). Era, l'Anzaldi, al tempo stesso lampo e tuono di vezzi e malvezzi nella quiete posticcia di Viale Mazzini. E adesso, dopo due generazioni passate a sfornare comunicati stampa contro politici e giornalisti - politico e giornalista egli stesso -, l'Anzaldi è stato trombato.

LACONICO

Ad essere precisi, è lo stesso Torquemada renziano ex Pd della Commissione Vigilanza Rai ad annunciare in un post su Facebook: «Non mi sono ricandidato, il mio impegno istituzionale termina il 25 settembre». Mai così mediaticamente laconico in vita sua, pare che Michele, in realtà, abbia ricevuto in offerta da Italia Viva un posto in lista dove non sarebbe stato eletto, a meno di miracoli, e per questo abbia rinunciato. I retroscena narrano «che sulla sua mancata elezione ha pesato l'avversione di Calenda che lo avrebbe giudicato non utile nel rapporto con i media». Ora, che Carlone Calenda si lamenti della poca empatia di Michele il tignoso con i giornalisti, be', fa sorridere. Eppure, finisce proprio qui la carriera parlamentare di Anzaldi il watchdog degli watchdog, l'unico mosso dalla trasversale capacità di rompere i coglioni a tutti indistintamente, in qualsiasi ruolo e posizione, anche da fermo. Eppure, fino a pochi giorni fa per Anzaldi le elezioni parevano una replica di quelle del 2013. Dove, dopo aver massacrato in Rai esseri animati e inanimati (dall'ad Campo Dall'Orto messo lì da Renzi al Cavallo Morente di Viale Mazzini, che, ad occhio, prima d'incontrare Anzaldi era un Cavallo rampante), ottenne un seggio alla Camera, blindatissimo, in Emilia Romagna.

Anzaldi lo davano per certo alla riconferma tra le milizie renziane dalla Boschi alla Bonetti, da Rosato a Marattin. Eppure, l'hanno fatto fuori. Non era mai accaduto. Mai. Né quando, fresco di liceo, il futuro onorevole fondò il Telefono Verde di Legambiente. Né quando collaborava con La Nuova ecologia di Paolo Gentiloni. Né quando divenne silente e minaccioso capo ufficio stampa delle varie incarnazioni istituzionali di Francesco Rutelli. E neppure quando entrò in Rai nei programmi dell'allora cognato Gianni Riotta. Ci fu una sola volta, a dire il vero, in cui Michele, nella sua foga giustiziera, rischiò davvero la cabeza. E fu nel 2016, il giorno che criticò, appunto, i vertici renziani e non in Rai - Campo Dall'Orto e Maggioni - nella parte autoassegnatasi del "poliziotto cattivo" (il "poliziotto buono" era Filippo Sensi, l'allora spin doctor dell'uomo di Rignano). E dopo, a raffica, mai domo e sotto spinta inerziale, Michele chiese le dimissioni di Bianca Berlinguer direttrice del Tg3, di Andrea Vianello direttore di Raitre, del conduttore di Ballarò (Rai 3), di Massimo Giannini per «lesa maestà» verso la Boschi. Nel frattempo, attaccò a testa bassa molte trasmissioni Rai.

IL RANDAGISMO

Subito, per lui, il drappo rosso si volse, a vario titolo, verso le Storie maledette (Rai3) di Franca Leosini, la Presa diretta di Riccardo Iacona (Rai3) e L'Arena di Massimo Giletti (Rai1). Ma, ciononostante, Anzaldi rimaneva saldo, fiero e immobile nella sua posizione. Tra l'altro, la sua attività censoria - a volte, bisogna dirlo, meritoria - ha un che di eroico. Soltanto in questi mesi estivi, mentre gli altri si sciacquano le membra al mare, Michele è riuscito ad intervenire sullo squilibrio «nei dibattiti a favore della destra», sul «direttore del Tg2 Sangiuliano candidato con Fratelli d'Italia», sui russi che ci ricattano col gas, sul dibattito iniquo tra Meloni e Letta. Nessuno è mai sfuggito alla sua furia. Ora qualcuno nota che Anzaldi, l'uomo che sensibilizzava il Parlamento al problema del randagismo, subisca, per contrappasso l'ingiusto abbandono da parte dei padroni. Una prece... 

Gli Antisistema.

De Magistris sceglie patrimoniale, nazionalizzazioni e diritti civili. L'Unione Popolare di Luigi De Magistris ha presentato un programma basato sulle ricette della sinistra radicale: patrimoniale, nazionalizzazioni e diritti civili. Francesco Curridori l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il programma politico dell'Unione Popolare dell'ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si definisce pacifista e “per la fratellanza universale, la giustizia sociale, economica ed ambientale, contro corruzioni e mafie” e si compone di ben 120 proposte. Vediamo quelle principali.

Le politiche per il lavoro: salario minimo e abolizione del Jobs Act

La lista guidata da De Magistris propone un salario minino di 10 euro lordi rivalutato annualmente e una riduzione dell'orario di lavoro che sia basata sul principio “lavorare tutti e lavorare meno”. L'unione Popolare intende abolire il Jobs Act e limitare il contratto a tempo determinato a soli due casi specifici, com'è stato fatto in Spagna. Si impegna ad assumere 10mila nuovo ispettori del lavoro e 1 milione di persone nel pubblico impiego, in particolare nel settore della scuola e della sanità. Prevede, inoltre, di ridurre il ruolo delle agenzie private e potenziare gli uffici di collocamento pubblici. Da un lato, vuole abolire la legge Fornero e arrivare a un'età pensionabile di 60 anni o 35 anni di contributi e dall'altro intende porre un tetto minimo di 1000 euro e massimo di 5mila euro per le pensioni alte. A favore della sicurezza dei lavoratori prevede di approvare il Ddl “Omicidio e lesioni sul lavoro”, mentre per i lavoratori autonomi si vuole costruire “un sistema assistenziale omogeneo” che consenta di “cumulare indennità e casse previdenziali e introdurre una misura unica di sostegno al reddito”. De Magistris, infine, vuole bloccare il Ddl Concorrenza del governo Draghi e rinazionalizzare la gestione dell'acqua e favorire la nascita di imprese pubbliche al Sud con lo scopo di gestire le infrastrutture necessarie anche per la gestione dei rifiuti e il trasporto pubblico. Sempre in favore del Sud, De Magistris ribadisce la sua contrarietà all'autonomia differenziata. Per le piccole e medie imprese prevede, invece, degli investimenti a fondo perduto, mentre per le multinazionali leggi contro la delocalizzazioni. Infine, è in programma la creazione di un'industria farmaceutica pubblica e di interventi statali per nascita di una filiera nazionale delle tecnologie rinnovabili.

Tasse. La patrimoniale tra le ricette di Unione Popolare

L'Up vuole eliminare l'Iva sui prodotti dei beni alimentari di prima necessità e reintrodurre la scala mobile. Intende tassare gli extra profitti delle aziende energetiche (passando dal 10% del governo Draghi al 90%) e porre un tetto al prezzo del gas. Ha, inoltre in programma di costruire 500mila nuovi alloggi pubblici e di alzare il reddito di cittadinanza da 780 a 1000 euro al mese e la soglia di accesso ISEE da 9360 a 12.000 euro e d renderlo una misura individuale. Prevede di aiutare le imprese nell'assunzione dei giovani attraverso una riduzione della pressione fiscale, ma nel contempo vuole contrastare quelle imprese che costringono i propri dipendenti ad aprirsi la partita Iva. Ipotizza di “uniformare il trattamento previdenziale dei lavoratori autonomi a quello dei lavoratori dipendenti, con estensione dell’indennità di maternità e malattia”. Vuole “superare il sistema scellerato della spesa storica” e dare “più potere ai sindaci e più tutele”, migliorando così i servizi locali. Nel programma di De Magistris non può mancare, poi, l'introduzione della patrimoniale (a partire dalla soglia di un milione di euro) e una riforma fiscale che tassi maggiormente i redditi alti rispetto a quelli medio-bassi. Si prevede una riforma del catasto e un aumento della tassa sulle successioni e sulle donazioni, ma anche l'estensione della no-tax area da 8000 a 10mila euro.

Politica estera. L'Unione Popolare vuole uscire dalla Nato

La lista di De Magistris si oppone all'invio di armi ai Paesi in guerra e vuole il“ritiro dei soldati all’estero se non autorizzati dall’ONU”, un ente che non deve essere più soggetto ai veti delle superpotenze. Propone di “uscire dalla coalizione in guerra nel cuore dell’Europa e lavorare per la neutralità dell’Ucraina”. Insomma, contro l'ipotesi di una nuova guerra fredda serve la diplomazia. L'Unione Popolare vuole superare la Nato e opporsi all'aumento delle spese militari al 2% del PIL, impegnandosi altresì per un disarmo a livello globale. La linea di politica estera da seguire è ben riassunta nella frase “Saremo amici di americani, russi e cinesi, mai più sudditi e subalterni di nessuno” e contro ogni forma di imperialismo. A livello europeo è chiaro e netto il no al ritorno alle politiche di austerity che va di pari passo con l'abolizione del Mes e del superamento del Trattato di Maastricht. Ma non solo. La Bce “deve continuare ad acquistare tutti i titoli di Stato necessari”. Secondo l'Unione Popolare, si deve eliminare anche il pareggio di bilancio introdotto nel 2012. Bisogna, infine, riconoscere lo Stato della Palestina e sostenere il popolo curdo.

L'Unione Popolare vuole ridare la gestione della Sanità allo Stato

L'Unione Popolare intende togliere alle Regioni la gestione del Servizio Sanitario Nazionale e riportarla nelle mani dello Stato centrale. Promette che la spesa pubblica non scenderà mai più sotto la media europea (7,3% del PIL) e vuole aumentare i posti letto e il personale medico-sanitario attualmente a disposizione. Si prefigge anche l'obiettivo di eliminare le prestazioni intra moenia e di “lanciare un servizio di cura dentale pubblico che garantisca cure a prezzi economici, e gratuite per le fasce meno abbienti della popolazione”. Intende aumentare le pensioni di invalidità, ampliare i Lea (livelli essenziali di assistenza) per terapie abilitative e riabilitative e “fornire assistenza gratuita agli anziani non autosufficienti”. Sul versante del Covid, l'Up intende sottrarre i vaccini ai profitti delle multinazionali e “affrontare la pandemia senza criminalizzazione del dissenso e restrizioni ingiustificate delle libertà civili”. Le altre proposte in programma riguardano “il ripristino del contratto a tempo pieno e indeterminato come norma in tutti i comparti della Pubblica Amministrazione”, ma anche la “reinternalizzazione dei servizi esternalizzati” e il “ritorno al pubblico dei servizi dati in appalto con riassorbimento del personale coinvolto”.

Diritti civili e immigrazione, tra matrimoni gay e Ius Soli

L'Unione popolare intende attuare misure a sostegno del diritto all'interruzione volontaria di gravidanza e denuncia come l'obiezione di coscienza di alcuni medici leda tale diritto. Vuole altresì approvare una legge sul fine vita e sull’eutanasia legale e introdurre il matrimonio egualitario nel nostro ordinamento, dando alle coppie omogenitoriali il pieno riconoscimento dei propri figli. Prevede di approvare una legge contro l'omolesbobitransfobia e di estendere le leggi contro i crimini d'odio anche alle discriminazioni per motivi legati all'orientamento sessuale, all'identità di sesso o genere e disabilità. Infine, è favorevole alla legalizzazione della cannabis e delle droghe leggere.

De Magistris vuole approvare lo Ius Soli e dare la cittadinanza a chi vive in Italia in maniera permanente da 5 anni. Ma non solo. Intende abolire la Bossi-Fini e regolarizzare in maniera permanente gli immigrati che vivono stabilmente in Italia e a cui è stata negata la possibilità di avere il permesso di soggiorno. Promette di chiudere i Centri Permanenti per il Rimpatrio (ex CIE), di abolire “ogni forma di detenzione amministrativa” e di non rinnovare il Memorandum con la Libia. Intende, infine, abrogare le leggi Salvini-Conte e Minniti-Orlando sull'immigrazione.

Famiglia e scuola. Ecco le proposte dell'Unione Popolare

L'Unione Popolare ha in programma di estendere il congedo di paternità sul modello spagnolo (16 settimane, di cui 6 obbligatorie) e di maternità o parentale. Vuole, inoltre, arrivare a un'effettiva parità di genere anche sui salari. Alle famiglie viene garantita la scuola dell'infanzia comunale a partire da 3 anni, mentre ai giovani vengono promessi libri gratis fino alla fine delle scuole superiori e la gratuità anche dei mezzi pubblici gratis, del cinema e del teatro. L'Unione Popolare prevede di abolire la “Buona scuola” di Renzi ed eliminare le classi-pollaio, di assumere 40mila nuovi docenti e di aumentare di 500milioni di euro all'anno i fondi per il diritto allo studio.

La giustizia al centro del programma di De Magistris

De Magistris propone una riforma “che dia forza all’autonomia ed indipendenza dei magistrati come singoli” e che elimini le correnti all'interno del Csm. Intende fermare le politiche di sgombero dei centri sociali e porre un freno “alla criminalizzazione e alle persecuzioni delle lotte sociali, ambientali e sindacali”. Tra le altre proposte vi è quella di una riforma del sistema carcerario, soprattutto per i reati minori, con l'ampliamento dell'uso delle misure alternativa. In agenda ci sono anche ulteriori misure a sostegno dei testimoni di giustizia e per le imprese vittime di racket e dell'usura.

Energia. L'Up vuole nazionalizzare l'Eni

L'Unione Popolare ha in programma di nazionalizzare il settore energetico, a partire da Enel Green Power e portare avanti un piano di investimenti straordinario sulle rinnovabili (almeno 10 GW di nuove installazioni l’anno). Dice no alle grandi opere come la Tav, la Pedemontana, la Valdastico sud e la BreBeMi, ma anche all'uso di jet privati e a nuove estrazioni petrolifere. Basta discariche e inceneritori, sì alla raccolta differenziata dei rifiuti. La lista guidata da De Magistris, poi, intende incentivare il trasporto pubblico urbano e l'automotive elettrico. Prevede, inoltre, di rispettare gli impegni presi con l'Accordo di Parigi, sostenere l'agricoltura biologica e porre un freno al consumo del suolo.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 22 agosto 2022.

C'è qualcosa di ancora inesplorato che sta montando alla destra della destra. Qualcosa che può essere definito super-sovranismo che si incrocia con populismo, complottismo, e poi panico da vaccino, da medicina, da scienza. La corsa a questo bacino di voti dei mille aspiranti leader antisistema forse è stata frenata dalla raccolta di firme, ma neanche tanto. E già questo è un segno che partiti neonati hanno un forte seguito nella pancia profonda del Paese. In fondo non c'è da stupirsi.

Il più brillante di tutti, Gianluigi Paragone, giornalista, eletto senatore con il M5S, dapprima ha bordeggiato tra grillini e leghisti trovandosi molto a suo agio nell'alleanza gialloverde. Poi s' è messo in proprio, fondando Italexit, partito che propugna l'uscita dell'Italia dall'euro e dall'Unione europea. Ora che c'è la guerra, ha aggiunto anche l'uscita dalla Nato. Con 5 milioni di follower su Facebook, è tra i politici con maggior seguito in assoluto. Ebbene, Italexit ha raccolto dal nulla le firme necessarie per presentare liste un po' dappertutto e c'è la fila per farsi candidare.

Così ecco balzare in prima fila una pasionaria dell'ultradestra come Carlotta Chiaraluce, 38 anni, romana, esponente in ascesa del movimento Casapound. L'alleanza tra Italexit e Casapound non stupisca: le tematiche sono affini e non da oggi. Per Chiaraluce, Gianluigi Paragone ha mollato un gruppo di parlamentari ex grillini, il gruppo Alternativa, che potevano portargli in dote l'esenzione dalla raccolta firme.

Ma Casapound, proprio con Chiaraluce, ha raccolto il 9% di voti a Ostia nel 2017. Poi, certo, qualcuno dovrà turarsi il naso a sentire quel che la signora in nero sostiene, il 25 aprile, trattandosi del «giorno in cui abbiamo perso la guerra». Va da sé che è radicalmente contraria ai vaccini, al Green Pass, ma anche agli immigrati, allo ius scholae e a tutto ciò che profuma di sinistra o di progressismo. 

Con lei nel Lazio è candidata Nunzia Schilirò, la vicequestora che è stata sospesa dalla Polizia di Stato dopo un veemente comizio contro il Green Pass. Schilirò, detta Nandra, è diventata presto una star della tv. Con il suo movimento Venere vincerà, ha indetto una manifestazione a Firenze solo al femminile per opporsi alla «dittatura sanitaria» e sono arrivate in cinquemila ad applaudirla. 

Ma a qualcuna sarà venuto il mal di testa: «Venere - a un certo punto ha detto - ha anche un'analogia con il numero 28 che è anche il numero della Maddalena, il discepolo numero 1 di Gesù. Una storia che è stata cambiata per renderla più commerciale.

Non a caso secondo molti storici il Santo Graal è il ventre della Maddalena». 

Molto più concreto un compagno di cordata, il sindacalista-portuale di Trieste, Stefano Puzzer, ormai ex perché l'hanno licenziato per assenze ingiustificate. Puzzer aveva garantito che mai si sarebbe candidato e che non era tentato dalla politica. Ed invece, eccolo capolista nelle Marche per Italexit. Così come è in lista con Italexit a Bergamo l'avvocato Consuelo Locati, che rappresenta le famiglie delle vittime da Covid.

Dalla seria questione su come inizialmente la pandemia non sia stata trattata a dovere (e cioè con i lockdown fin dal primo momento, dato che i vaccini ancora non c'erano), ora l'avvocato Giocoli contesta il Green Pass. Piroette. A contendersi il voto dei No Vax s' è schierato anche Mario Adinolfi, con il suo Partito della famiglia. 

Nel frattempo, assieme ad un fuoriuscito da Casapound, Simone Di Stefano, che ha dato vita al partito Exit, Adinolfi ha lanciato Alleanza per l'Italia che è sovrapponibile al partito di ultradestra tedesco Adf. Non vanno sottovalutati. Alle scorse elezioni Adinolfi prese 220 mila voti, rovinando la festa al centrodestra in molti collegi. Stavolta, a sopresa, candida Carlotta Toschi, pasionaria del mondo Lgbt a Bologna, che è passata con nonchalance dall'Arcigay ai tradizionalisti cattolici. «Ho respirato freschezza», la sua spiegazione.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2022.  

È stato vicino alla Lega ma ora attacca il Carroccio: «Vogliamo ricordare a Salvini, quando parla di sbarchi, che il suo ministro dell'Interno si chiamava Lamorgese?». È stato grillino ma adesso considera il Movimento «imbarazzante, ipocrita». E Giuseppe Conte? Manco a dirlo, anche l'avvocato del popolo «è imbarazzante». Gianluigi Paragone ritiene invece, lui sì, di essere rimasto coerente in modalità «antisistema», a maggior ragione adesso che guida un contenitore che si chiama Italexit.

Obiettivo: ridare sovranità al Belpaese, e perché no, spingerla fuori dall'Europa. Ci riprova, insomma, Paragone, nato a Varese, classe '74, giornalista, già direttore della Padania , un'esperienza da conduttore tv L'ultima parola e La gabbia , due programmi che danno voce alle forze anti-sistema e al populismo di ogni colore. E, infine, la discesa in campo con il Movimento 5 Stelle […] ma Paragone si accorge subito, però, che qualcosa non va: «Al governo abbiamo fatto cose buone, ma siamo diventati giacca e cravatta» […]  «Doveva essere una legislatura antisistema ma le forze antisistema si sono piegate al sistema governando con Mario Draghi». Nel 2020 Paragone viene cacciato dal Movimento perché vota contro la legge di Bilancio che i pentastellati scrivono con il Pd.

Da quel momento in poi fonda un partito, Italexit. Parole chiave: euroscetticismo, sovranismo, made in Italy. Di più: quando esplode la pandemia esprime la sua contrarietà al green pass, all'obbligo vaccinale, a tutte le restrizioni introdotte dal governo. […]

[…] «Non mi vaccino, sono un free vax» dichiara. Non accetta di esibire il green pass per entrare in Parlamento. Cavalca le posizioni di chi fuori dal palazzo manifesta «contro la dittatura sanitaria». […] Si candida a sindaco di Milano, raccogliendo il 2,99%. Non si arrende. Ritiene infatti che le politiche del 25 settembre saranno un'altra storia: «Saremo la vera sorpresa di queste elezioni». […]

Felice Manti per “il Giornale” il 23 settembre 2022.

Non c'è solo la destra estrema, più di un'ombra offusca Italexit. «Noi unici antisistema siamo sopra il 3% e con il vento in poppa», gongola l'ex grillo-leghista Gianluigi Paragone, che oggi chiude in piazza XXIV Maggio a Milano. La sua forza guarda ai delusi di Lega, M5s e Fdi grazie ai canali su social, Facebook e Telegram e la controinformazione su pandemia, economia, immigrazione clandestina e conflitto in Ucraina. Ma per candidarsi non bastano i like del milione e mezzo di followers. Servono anche soldi e firme.

I soldi li mette Gianluca Luciano da Vibo Valentia, manager col pallino della politica a capo del sito StranieriinItalia.it. Il portale di cui è amministratore opera in Italia eppure non è iscritto alla Camera di Commercio, come ha verificato il Giornale. Fa capo a una società della Gran Bretagna controllata da un'altra società lussemburghese e legato anche a società come la New German Media Limited, che ha come soci proprio la New European Media Limited di Luciano e la tedesca Nhd Consulting Gmbh, società specializzata in marketing per gli immigrati. Gli stessi che Paragone e i suoi amici neofascisti - come Carlotta Chiaraluce, la «lady preferenze» di Ostia legata a Casapound e capolista Italexit alla Camera nel Lazio - dicono di non volere in Italia.

Stranezze che si aggiungono a un misterioso giro di interest free loan (prestiti a zero interessi) tra le società di Luciano come la Caffeina Media Limited, Nuovi Cittadini o Business Italy Limited. Alchimie contabili atipiche, che secondo le normative antiriciclaggio presentano profili di rischio evasione, tutti ovviamente da verificare. Nei giorni scorsi anche Fanpage ha sollevato dubbi sulle firme «raccolte con brillantezza» nonostante lo strano addio di mezza estate degli ex grillini di Alternativa come Pino Cabras: «Paragone aveva da tempo un accordo con l'estrema destra», dice. «Pensavano di usarmi, hanno sbagliato i calcoli», replica il leader di Italexit.

E così le firme raggranellate a fatica, tanto che il Quirinale era stato sollecitato invano a ridurne il numero, andavano raccolte di nuovo. Secondo quanto risulta anche al Giornale l'ex giornalista avrebbe persino minacciato i suoi di farsi «blindare da Fratelli d'Italia in un collegio sicuro», con la Giorgia Meloni che lo avrebbe rimbalzato. Assieme alla Chiaraluce (che in giro dice «porterò CasaPound in Parlamento») nelle notti di mezza estate sono arrivate anche le nuove firme. Con qualche scivolone (tre morti come firmatari in Molise, documenta Fanpage) e in dote nomi ingombranti della galassia neofascista. Che si sono aggiunti al portuale triestino No Vax Stefano Puzzer, al vicequestore No Pass Nunzia Alessandra Schillirò, all'endocrinologo scettico sui vaccini Giovanni Frajese e al legale delle vittime di Covid della Bergamasca Consuelo Locati.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 22 agosto 2022.

Richiesto di un chiarimento sui fondamentali ideologici dell'Unione Popolare, il cartello di estrema sinistra che ha fondato con Luigi de Magistris, il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo se la cava così: «Io sono un marxista. Luigi è uno di quelli che David Harvey, tra i massimi studiosi del marxismo, chiama comunisti di fatto». 

Tanti hanno cercato di liquidarlo. Invece de Magistris, da quindici anni sulla cresta di un'onda politico-mediatica, surferà anche il 25 settembre. Il suo nome comparirà sulle schede in tutta Italia, all'interno del simbolo dell'Unione Popolare che ha messo in piedi con i vecchi compagni di Rifondazione e con i nuovi di Potere al Popolo. Ha raccolto 100 mila firme in due settimane.

Pochi ci scommettevano, commettendo un errore che in tanti hanno fatto: sottovalutare de Magistris. Che ha mille difetti, per lo più incorreggibili, ma non difetta di resistenza, anche fisica. Gira l'Italia dormendo due ore a notte. 

Classe 1967, figlio nipote e pronipote di alti magistrati, borghese del Vomero, da ragazzo studente modello a differenza del più bohémien fratello Claudio, che dopo una trentina d'anni sarà suo consigliere politico al Comune, non senza imbarazzi per il lavoro di organizzatore di grandi eventi cittadini. Entra in magistratura come da copione familiare. Ne esce dopo 15 anni, sanzionato e trasferito dal Csm dopo inchieste calabresi a dir poco controverse su malaffare politico-massonico.

La Casaleggio Associati ne veicola la candidatura alle Europee del 2009 come indipendente nella lista dell'Italia dei Valori di Tonino Di Pietro, che pure in privato non lesina epiteti coloriti. Con Beppe Grillo finisce presto a reciproci vaffa perché rifiuta il controllo preventivo sul suo blog. 

L'elezione è plebiscitaria: 415.646 preferenze. Ma la grama vita brussellese lo annoia anzichenò. «E se mi candidassi sindaco di Napoli?», butta lì ai suoi assistenti a fine cena in un'uggiosa serata. I commensali si guardano increduli. «E con chi, Luigi?».

«Da solo».

Sì, vabbè. Da solo.

Sei mesi dopo è sindaco di Napoli. Se non da solo, quasi: a sostenerlo solo Rifondazione e Italia dei Valori, quotate dagli esperti il 3 per cento. Festeggia in una gremita piazza Plebiscito. Descamisado con bandana arancione, inneggia alla rivoluzione del popolo dei senza potere di cui s' intesta modestamente la rappresentanza. 

La politica la impara presto, anche troppo. Cambia assessori come mutande e con notevole cinismo litiga prima o poi con tutti i collaboratori: dai prof benicomunisti Mattei e Lucarelli al magistrato-assessore Narducci e al carabiniere-capogabinetto Auricchio, questi ultimi eroi dell'inchiesta Calciopoli.

Rompe anche con Sandro Ruotolo, antico sodale di agorà televisive, dopo aver scaricato la nipote Alessandra Clemente, vittima di camorra e assessora.

Casinista, populista, arruffapopolo, masaniello, qualunquista, per dieci anni governa una «Napoli ribelle», come intitola l'ultimo libro edito da una casa editrice di Scampia, Marotta&Cafiero. Sbraitando contro i poteri forti, agita una personale connessione popolare. Pedonalizza il lungomare e rinfaccia al presidente del Napoli De Laurentiis di volere «uno stadio da 40mila posti, elitario e non per il popolo». 

Dà la cittadinanza onoraria al leader curdo Ocalan, a quello palestinese Abu Mazen e ai calciatori Maradona, Reina, Hamsik. Inventa lo zapatismo partenopeo e riceve in Comune il filosofo Latouche, teorico della decrescita felice. A dispetto dei numerini della Corte dei Conti, proclama l'inesigibilità dei debiti comunali che gonfia assumendo maestre negli asili.

Sentendosi leader nazionale, dal primo giorno da sindaco medita il grande salto. Conteso dai talk show (un tempo Santoro, ora Giletti), lancia mille progetti nazionali ma non ne cava nulla di realmente concreto. Finisce male anche con Di Pietro e, nel 2013, con l'altro ex pm Ingroia, che chiama quale alter ego a guidare la brancaleonesca Rivoluzione Civile, non volendo rischiare in prima persona. 

Ne viene fuori un flop clamoroso, che costringe Ingroia, che aveva lasciato la toga sicuro dell'elezione, a mettersi a fare l'avvocato. In mancanza di meglio, de Magistris resta sindaco e continua a meditare il salto nazionale. Alla fine del secondo mandato da sindaco, si candida alle regionali in Calabria, arruolando - tipico metodo suo - come star Mimmo Lucano. Due ribelli, due perseguitati. Il 17 per cento non è niente male, ma il seggio non scatta. 

A de Magistris, peraltro disoccupato avendo dismesso la toga senza ricorrere all'aspettativa, non restano che le elezioni politiche. Altro giro, altra corsa, altro logo. Unione Popolare come quella francese, lanciata ai primi di luglio in un'assemblea conclusa con de Magistris che fa il pugno chiuso, alla Mélenchon e nessuno si senta offeso. Obiettivo 3 per cento. Dietro di lui una galassia movimentista che va dai centri sociali agli accademici pacifisti D'Orsi e Bevilacqua, dall'ambientalista Finiguerra, in rotta con i Verdi alleati al Pd, agli ex assessori a Roma, Berdini e Montanari, traditi e cacciati dalla Raggi.

E più ampia e variegata sarebbe stati la compagnia, se non si fossero rivelati infruttuosi gli abboccamenti con gli ex 5S di Alternativa come Pino Cabras, Di Battista e i prof della commissione DuPre anti Green Pass. Buoni rapporti con Fico, pessimi con Conte che de Magistris mette sullo stesso piano di Draghi. Slogan: le privatizzazioni sono un golpe, fuori la mafia dallo Stato, il neoliberismo sta crollando e così via.

Nel programma di 15 pagine no all'invio delle armi in Ucraina, superamento della Nato, salario minimo, scala mobile, sanità pubblica, fisco progressivo. Il più a sinistra di tutti, ma con un leader che non si è mai connotato fino in fondo. Ha sempre pescato voti altrove e fatto alleanze trasversali. Terzomondismo post moderno. Masse popolari e borghesia. Purché sia lui, e solo lui, a comandare.

La Campagna Elettorale.

I numeri della campagna elettorale: chilometri, comizi e chili persi. Carlotta De Leo su Il Corriere della Sera il 24 settembre 2022.

Salvini ha macinato 30 mila chilometri, Letta 20 mila (ma con il bus elettrico si è dovuto fermare in Campania) e Meloni 13 mila. Conte 40 comizi in meno di un mese, 30 per Calenda. Berlusconi debutta su TitTok

«Sono un po’ stanchina...» si è lasciata sfuggire Giorgia Meloni sul palco di Matera una settimana prima del voto. Ed in effetti, tra comizi in piazza, incontri sul territorio, interviste tv e video su Tiktok sono stati due mesi con l’acceleratore pigiato per tutti i leader in campo. Macinatori di chilometri su strada e maratoneti sui social in questa prima campagna elettorale estiva della Repubblica.

Chilometro dopo chilometro, piazza dopo piazza

Da ferragosto, il leader della Lega Matteo Salvini ha percorso oltre 30mila chilometri, inanellando fino a sette appuntamenti al giorno con il clou del raduno del 18 settembre a Pontida, sul «sacro prato» della Lega Nord.

Il segretario del Pd, Enrico Letta , tra agosto e settembre ha partecipato a 350 incontri elettorali (tra grandi e piccoli) e di chilometri ne ha percorsi circa 20mila. Di questi, più della metà con i mezzi green (un mini bus e due auto elettriche) facendo affidamento sulle poche postazioni di ricarica. Per questo i mezzi elettrici si sono dovuti fermare in Campania, senza poter andare più a Sud. Due le trasferte all’estero, a Bruxelles e a Berlino. Un tour de force per Letta che, già filiforme, è dimagrito di tre chili.

Dall’apertura della campagna (23 agosto) a ieri, la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni di chilometri ne ha macinati 13mila, toccando tutte le Regioni del Paese (ad eccezione della Val d’Aosta, mentre invece in Campania e Sicilia ha raddoppiato la presenza). È salita sul palco di 21 «grandi comizi» di piazza, a cominciare da Ancona (quando ai supporter sono stati distribuiti anche i cruciverba dei patrioti) per finire con i giovani di Napoli.

Anche il tachimetro di Giuseppe Conte ha girato a pieno ritmo e dal 29 agosto segna 60 tappe e 40 comizi, soprattutto nelle nel Sud Italia - e in particolare nella «sua» Puglia - dove il leader del Movimento 5 Stelle è andato capillarmente a caccia di voti.

Oltre trenta comizi in piazza da Palermo a Milano: gli appuntamenti elettorali hanno portato il leader di Azione, Carlo Calenda, in tutta Italia. Una lunga serie di comizi da Palermo a Milano (dove a parlare c’era anche Matteo Renzi) e da Venezia a Napoli (dove ai due sul palco si è unita anche Mara Carfagna).

In questi due mesi di campagna Silvio Berlusconi ha preferito concentrarsi sugli incontri, le interviste e i video su TikTok ( con un debutto da 8 milioni di visualizzazioni). I grandi raduni comunque non sono mancati, come quello in occasione della chiusura della campagna elettorale in piazza del Popolo .

La campagna ssu TikTok

Mentre correvano su e giù per l’Italia, i leader hanno affrontato anche un’altra competizione: quella sui social. E anche in questo caso il più attivo è Matteo Salvini, che da tempo sfrutta più canali, ha scelto di chiudere la campagna in collegamento virtuale «con tutte le 8mila piazza italiane» attraverso una maxi maratona social di 4 ore mezza . Anche Giorgia Meloni ha puntato molto sull’interazione web con i suoi follower. E se Giuseppe Conte frequenta il social dei giovani da più tempo (con uno staff apposito), l’attuale campagna elettorale ha segnato il debutto su TikTok per Calenda, Renzi, Berlusconi e il Partito democratico con un profilo plurale, dove interviene anche il leader Letta (che non ha un suo account, almeno per ora).

La campagna elettorale e gli errori da matita blu in Italia (e all’estero). Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.  

Da destra e da sinistra scivoloni e precipitose precisazioni. Il tema è la scomparsa delle forme che da sempre regolano i rapporti partitici e istituzionali nella fase della contesa elettorale 

È stata una campagna elettorale sgrammaticata, zeppa di errori da matita blu.

In due mesi di comizi il campionario di strafalcioni e di affannose precisazioni ha coinvolto leader di partito e rappresentanti delle istituzioni, dentro e fuori i confini nazionali. Nelle ultime ore poi è stato un florilegio. A Roma, Berlusconi si è lanciato in una sconcertante ricostruzione del conflitto ucraino, spiegando che Putin voleva arrivare a Kiev solo per insediare «un governo di persone perbene al posto di Zelensky». Tranne correggersi l’indomani, dicendo di aver riportato «da giornalista» opinioni altrui, quasi simili a quelle dell’ambasciatore russo.

A Bruxelles, come non fossero bastate le inusuali interviste di membri della Commissione europea sulle elezioni italiane, al limite dell’ingerenza, anche von der Leyen è scivolata su una frase costruita come un avvertimento a Meloni e a chi intendeva votarla. Perciò è stata costretta a una contorta spiegazione, visto le polemiche suscitate. Se la candidata di centrodestra a Palazzo Chigi ha atteso la precisazione prima di glissare sulle parole di von der Leyen, è perché — come spiega un dirigente di FdI — «dopo il 25 settembre arriverà il 26. E sarà con la presidente della Commissione che dovremo trattare sul Pnrr, la Finanziaria, l’energia, l’immigrazione...».

Ma il punto non è questo. Il tema è la scomparsa delle forme che da sempre regolano i rapporti partitici e istituzionali nella fase della contesa elettorale: è come se si fosse smarrito l’abecedario della politica. Se non è un fenomeno di analfabetismo di ritorno, è quantomeno il segno di un’impreparazione collettiva davanti al precipitare verso le urne. Un evento che ha spiazzato (quasi) tutti in Italia e in Europa. Questa è la tesi sostenuta da Giorgetti, che da ministro aveva ricevuto i maggiori fondi d’investimento e che ad alcuni dirigenti leghisti ha raccontato come «nessuno mettesse in preventivo l’uscita di Draghi»: «Davano per scontato un dato immutabile. E la crisi del governo, accaduta in modo improvviso, ha prodotto uno choc anche a livello internazionale».

A livello nazionale si è visto, se possibile, di peggio. Nel giro di un paio di settimane a sinistra sono saltate due alleanze: il campo largo (tra Pd e M5S) e il campo più stretto (tra Pd e Azione), nonostante l’accordo fosse stato ufficializzato. Letta, siglata a quel punto l’intesa con i soli Bonelli e Fratoianni, si è affrettato ad avvisare che «con loro però non farò il governo». Calenda, dopo un anno trascorso a dire «mai con Renzi», ha impiegato poche ore per stringere il patto con Iv. Berlusconi aveva annunciato che il centrodestra avrebbe scelto il candidato premier «dopo il voto», tranne poi rimangiarsi tutto per la reazione di Meloni.

Anche sui tempi, che in politica rappresentano un fattore importante, si assiste a un totale scollamento dalle regole. Nel Pd, per esempio, il congresso si è aperto prima ancora della chiusura delle urne: l’altro giorno il segretario si era appena espresso sull’impossibilità di riallacciare un dialogo con M5S dopo le elezioni, e la giovane Schlein — incoronata dal Guardian come l’astro nascente dei Democratici — rilasciava un’intervista a Repubblica per dire che «dopo le elezioni dovremo dialogare con i grillini». Il governo Meloni non è ancora nato e il Cavaliere per la seconda volta ieri ha minacciato di non farne parte se ci fossero «distonie sull’Atlantismo».

Persino sugli accordi internazionali la politica nazionale è riuscita a fare delle figuracce. L’altro ieri il ministro della Difesa Guerini si è recato da Zelensky per assicurare che l’Italia «con qualsiasi governo» terrà fede al patto con Kiev. Non era ancora finito l’incontro che le agenzie battevano le tesi giustificazioniste di Berlusconi su Putin e l’attacco di Conte a Draghi per aver «seguito la linea sbagliata di Washington e Londra sul conflitto». D’altronde l’ex premier è capace di smentirsi nel giro di poche ore, se è vero che giorni fa si è mostrato prima «orgoglioso» per l’avanzata degli ucraini contro i russi e poi si è detto contrario a un nuovo invio di armi alla resistenza.

Domani si vota e a Roma (come a Bruxelles) non c’è il tempo per un corso serale di grammatica politica.  

Ci sono temi intoccabili. Un esempio: "l'aborto". Alessandro Gnocchi il 23 Settembre 2022 su Il Giornale. In passato si potevano esprimere dubbi anche radicali. Ora vincono sempre la riprovazione e il conformismo.  

Spesso si ha l'impressione che il dibattito pubblico in Italia abbia fatto due o tre passi indietro rispetto agli anni nei quali, paradossalmente, le divisioni ideologiche erano molto più nette rispetto a ora. Prendiamo un tema difficile: l'aborto. Dati di fatto: esiste una legge, la 194, che nessuna delle principali forze politiche ha in programma di toccare; tale legge consente di abortire e inoltre dichiara che l'interruzione della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite; a partire da questi presupposti, dovrebbe essere possibile un franco dibattito sul tema. Invece non è così. Qualunque posizione, ragionata o propagandistica, intelligente o cretina, in buona o cattiva fede, finisce prima tritata nella pattumiera del pensiero, cioè i social network, poi etichettata sbrigativamente come fascista o patriarcale o comunista o femminista, quindi, in molti casi, esclusa dal dibattito pubblico.

Non è vero? Facciamo una prova. Prendiamo alcune opinioni disallineate al politicamente corretto, eppure legittime, come tutte le opinioni, e pensiamo a chi, oggi, le pubblicherebbe. Pensiamo anche a cosa accadrebbe se venissero pubblicate.

Sul Corriere della sera dell'8 maggio 1981, Norberto Bobbio, non credente e padre nobile della sinistra, risponde alle domande di Giulio Nascimbeni in vista del referendum sull'aborto. Leggiamo: «È un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri». Nascimbeni chiede quali diritti e quali doveri siano in conflitto: «Innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione dell'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto». Ci sono altri diritti: «C'è anche il diritto della donna a non essere sacrificata nella cura dei figli che non vuole. E c'è un terzo diritto: quello della società. Il diritto della società in generale e anche delle società particolari a non essere superpopolate, e quindi a esercitare il controllo delle nascite». Il diritto del concepito è «fondamentale»; gli altri, dice Bobbio, sono «derivati». Siamo arrivati al cuore della riflessione: «Inoltre, e questo per me è il punto centrale, il diritto della donna e quello della società, che vengono di solito addotti per giustificare l'aborto, possono essere soddisfatti senza ricorrere all'aborto, cioè evitando il concepimento. Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere». Nascimbeni muove l'obiezione più logica e forte: abrogando la legge 194, si tornerebbe ai «cucchiai d'oro», alle «mammane», ai drammi e alle ingiustizie dell'aborto clandestino. Bobbio non fa marcia indietro: «Il fatto che l'aborto sia diffuso, è un argomento debolissimo dal punto di vista giuridico e morale. E mi stupisce che venga addotto con tanta frequenza. Gli uomini sono come sono: ma la morale e il diritto esistono per questo. Il furto d'auto, ad esempio, è diffuso, quasi impunito: ma questo legittima il furto? Si può al massimo sostenere che siccome l'aborto è diffuso e incontrollabile, lo Stato lo tollera e cerca di regolarlo per limitarne la dannosità. Da questo punto di vista, se la legge 194 fosse bene applicata, potrebbe essere accolta come una legge che risolve un problema umanamente e socialmente rilevante». Nascimbeni chiede a Bobbio se riesce a immaginare la reazione del mondo laico alle sue parole. Bobbio: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il non uccidere. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere». Ne venne fuori un putiferio ma intanto Bobbio aveva potuto esprimere la sua idea controcorrente da una tribuna importante.

Molto prima di Bobbio, il 19 gennaio 1975, il Corriere della sera aveva pubblicato un articolo corsaro di Pier Paolo Pasolini, non credente e marxista eretico, sullo stesso tema. Pasolini: «Sono contrario alla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano cosa comune a tutti gli uomini io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell'aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo». Poi accusava i Radicali, ai quali si sentiva comunque vicino, di cinismo e di essersi arresi ai fatti. Ne uscì un altro putiferio, anche perché le motivazioni di Pasolini sconfinavano in un ambito, quello del coito eterosessuale e omosessuale, che non sembrava del tutto calzante.

Nel 1980, Giovanni Testori, cattolico imperfetto per inquietudine, scrisse il monologo Factum est. Nell'opera parla solo il feto, il «grumo di cellule», che nella realtà non ha voce né volontà. È lui il nuovo Cristo crocefisso, rifiutato prima che esca dal ventre della madre. Fu uno scandalo. Ma intanto andò in scena e successivamente fu proposto perfino nelle università al pubblico degli studenti.

Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, non credente e socialista con sfumature liberali, fu pubblicato nel 1975, doveva essere un'inchiesta per l'Europeo, diventò un romanzo bestseller (due milioni di copie in Italia, due milioni e mezzo nel resto del mondo). Fu scritto però circa dieci anni prima, di getto, proprio in seguito a un aborto spontaneo (il secondo: la Fallaci aveva già vissuto un'esperienza drammatica nel 1958). Il tragico monologo di una donna che si rivolge al figlio che porta in grembo, interrogandosi sulla responsabilità di dare la vita, e affrontando senza timori la questione dell'aborto, suscitò infinite polemiche. Ne scrive la Fallaci, che non aveva aspettato il femminismo per essere femminista, in una lettera del 1975 all'amico Pasolini: «Le donne si indignano da un parte, gli uomini si arrabbiano dall'altra, gli abortisti mi maledicono perché concludono che io sono contro l'aborto, gli antiabortisti mi insultano perché concludono che io sono per l'aborto. E nessuno o quasi si accorge di cosa vuol dire il libro veramente. Nella rissa non hanno ragione né gli uni né gli altri, o hanno ragione tutti e due. Il libro è la saga del dubbio. Vuol essere la saga del dubbio» (da La paura è un peccato. Lettere da una vita straordinaria, Rizzoli). Libro controverso ma pubblicato da un colosso come Rizzoli.

Ecco, ora, archiviato anche il caso particolare del Foglio di Giuliano Ferrara, provate a pensare se queste opinioni troverebbero accoglienza nel deprimente mondo dell'editoria italiana dove si fanno dibattiti ma solo a patto di essere tutti d'accordo e tutti politicamente corretti.

Le 50 cose peggiori che abbiamo visto e sentito in questa campagna elettorale. I TikTok di Berlusconi, i voli di Di Maio, gli eredi di Mussolini, gli occhi della tigre di Letta, le devianze di Meloni. Il voto del 25 settembre si avvicina e così abbiamo raccolto la crema delle sparate di queste settimane. Wil Nonleggerlo su L'Espresso il 21 Settembre 2022.   

I siparietti del tiktoker 85enne Silvio Berlusconi, il volteggiare ollivudiano di Luigi Di Maio, Ignazio La Russa e l'eredità mussoliniana che è in tutti noi. Il sudore di Salvini, il bus di Letta, i tripli carpiati di Calenda, le devianze di Meloni. Abbiamo condensato questi due terrificanti mesi di campagna elettorale in una Top 50 tutta da leggere, perché domenica si vota e certi virgolettati non possono svanire così, come un impegno sulle tasse preso a Pomeriggio 5. Vi chiediamo: chi avreste inserito nelle prime tre posizioni? Ci siamo scordati di qualche “perla”? Non vi resta che tuffarvi in questo stupidario speciale e dirci la vostra.

1. Donne!

Silvio Berlusconi: “Donne, votatemi. Ho dato la caccia al vostro amore tutta la vita e sono più bello di Letta”

(RepTv – 17 settembre)

2. Baby

Luigi Di Maio in versione Dirty Dancing, i camerieri di una trattoria di Napoli lo fanno “volare”. “S'è divertito e ha lasciato 50 euro di mancia”

(CorriereTv, Il Mattino – 14 settembre)

3. Sì, sudo

“Eh, purtroppo sudo. Mi faccio la barba, c’ho le braghe corte, mangio la salsiccia e sudo!”

(Matteo Salvini durante un comizio a Domodossola – 24 luglio)

STUPIDARIO

I bidet libici di Silvio Berlusconi e le canne di Carlo Calenda: il peggio della settimana 

4. È Pontida, bellezza

Cubane e leghiste a Pontida, scambiate dalla folla per contestatrici comuniste. I leghisti strappano loro il cartello e dicono “tornate a casa vostra!”. Dopo qualche spintone, il chiarimento

(CorriereTv, Fatto Quotidiano – 18 settembre)

5. Eredi del Duce

Michele Emiliano: “Spero che il popolo italiano non voti eredi del fascismo”.

Ignazio La Russa: “Siamo tutti eredi del Duce”

(Fatto Quotidiano e la lite su La7, a L'Aria che tira – 15 settembre)

6. Tutto cominciò così: con Letta sereno

Governo Draghi e voto di fiducia, Enrico Letta: “Domattina mi sveglio assolutamente sereno. Mi sveglio sereno. Sarà una bella giornata, ne sono sicuro”

(Da lì, sipario sul governo Draghi – 19 luglio)

7. Bedé-bedé

“Eravamo in Libia, nei centri di accoglienza. A Gheddafi e ai suoi architetti dissi, guardate, qui dovete metterci i bidet: mi guardarono sorpresi, e mi ricordo che Gheddafi mi disse 'Bedé? Uot ais bedé?', e anche gli altri si guardavano e ripetevano, 'bedè-bedè?!'”

(Silvio Berlusconi a Porta a Porta, su Rai 1 – 7 settembre)

8. Endorsement che resteranno

Bologna, dopo Morgan, anche Wanna Marchi e la figlia sostengono la candidatura di Vittorio Sgarbi

(Corriere di Bologna – 19 settembre)

9. Tigre

“Io in questo momento ho gli occhi di tigre: non ho nessuna intenzione di perdere queste elezioni”

(Enrico Letta a Mezz'ora in più, su Rai 3 – 24 luglio)

Matteo Salvini si fa il mazzo e Marta Fascina sa come fermare la guerra: il peggio della settimana 

10. Dunque

Matteo Salvini, durante un comizio a Milano: “Prima sono andato a salutare mia figlia, mi ha dato un abbraccio lungo 2 minuti: non vedeva suo papà da SETTIMANE”

Ad Agorà, su Rai 3, CINQUE GIORNI prima: “Ho appena accompagnato mia figlia a scuola”

(Disse anche, dopo il caso “moto d'acqua della polizia”, “i bimbi non si coinvolgono nella polemica politica” – 17 settembre)

11. Acidi

Carmela Terracina, la leghista di Ischia: “Le donne di sinistra sono acide e scorbutiche”.

Con quali competenze approda in politica?

“Non c’è bisogno di competenze. Serve intelligenza, cuore, determinazione, passione. E lì non mi batte nessuno”

(Corriere della Sera – 12 agosto. Nota del Carroccio: “La signora Carmela T. non è militante della Lega, non può parlare a nome del partito, non è e non sarà candidata”)

12. “Non sono una paracadutata”

Rita Dalla Chiesa e la gaffe su Molfetta scambiata per Giovinazzo: “Amo la Puglia e ci ho lavorato, sono anche testimonial di una ditta di materassi”

(La Repubblica Bari – 13 settembre)

13. La pace del gabinetto

“Vengo a farla vicino a te, così facciamo pace”. Calenda-Tajani, il retroscena: i due avevano litigato sul palco, poi il chiarimento in toilette

(Affaritaliani.it, dopo un retroscena di Repubblica – 5 settembre)

14. Nano

Marta Fascina ha fatto soffrire Renato Brunetta dandogli del “nano”

(Agi – 24 luglio)

15. Ferragni, zitta!

Chiara Ferragni con un post invita i giovani a votare. La Russa: “Se vinciamo noi stia 3 mesi zitta”

(TgCom24 – 14 settembre)

16. Present nun se dice

“Giorgia Meloni è preparata.

Giorgia Meloni parla la lingue.

Giorgia Meloni parla agli italiani e si rivolge alla comunità internazionale.

Giorgia Meloni dice parole chiare su FDI e sul fascismo.

Che rabbia non riuscire a chiuderla nel pregiudizio che avevate costruito per lei, eh”

(Guido Crosetto su Twitter – 11 agosto)

17. Sturm und drang

Il giornale tedesco Sueddeutsche Zeitung: l'amore degli italiani per Giorgia Meloni? Sarà “fugace come un peto”

(Ansa – 3 settembre)

18. #Renzi2024

La “minaccia” di Renzi a Meloni: “Ricordati che ogni due anni faccio cadere un governo”…

(Open – 10 settembre)

19. “Votaci per non vederla mai più”

Dopo il video con la mendicante rom, il leghista Di Giulio non ha nessuna intenzione di scusarsi: “Mi ha molestato, non sono razzista: la mia ragazza è nigeriana”

(Open / La Zanzara, Radio 24 – 5 settembre)

20. Pupazzi

Draghi: “In Italia pupazzi prezzolati della Russia”. Meloni: “Di chi parla?”. Salvini: “Pensi alle bollette”

(Fanpage.it – 18 settembre)

21. Dove sono finiti Elena, Giorgio, Riccardo, Matteo, Maria Grazia...

Salvini e la denuncia dirompente: “In una scuola elementare e anche in una media fanno l'appello per cognome. Questa è una follia assoluta”

(Il Dolomiti – 25 luglio)

22. Il complotto contro Paragone

“A Milano noi avevamo superato l’asticella del 3%, qualcuno ci ha fregato i voti, questo è sicuro. Guarda caso ci siamo fermati al 2,99… Dai ragazzi, su. Più avanziamo, più il Palazzo farà di tutto per metterci i bastoni tra le ruote: hanno una paura fottuta!”

(Gianluigi Paragone a La corsa al voto, su La7 – 12 agosto)

23. S'è candidato Puzzer

Domanda di Diego D’Amelio del quotidiano Il Piccolo, qualche mese fa: Puzzer, lei si candiderà mai alle elezioni? Risposta di Puzzer:

“Assolutamente no. Guarda, ve lo posso firmare col sangue: io alle elezioni non andrò mai”

(Ansa: Stefano Puzzer, il leader della protesta dei lavoratori portuali, poi divenuto leader dei No Green pass, sarà candidato alle prossime elezioni nelle liste di Italexit di Gianluigi Paragone – 31 luglio)

24. “Per tutti Mimmo o Mimmuzzo”

“Gli Scilipoti sono solo persone libere, lo ‘scilipotismo’ è sinonimo di libertà, non di trasformismo. Ho fatto tanto in Senato, 30 proposte di legge, centinaia di comunicati stampa, le battaglie per la medicina alternativa…”

(Domenico Scilipoti si candida con “Noi moderati”; Corriere della Sera – 25 agosto)

Luigi Di Maio detto Rocky e la geografia di Claudio Lotito: il peggio della settimana 

25. Guerra? Ci pensa Razzi

“Io in Parlamento ci posso stare benissimo. Gli italiani all’estero mi adorano e sono l’unico che li può rappresentare vista l’esperienza di vita che ho. Mi conoscono in milioni e posso portare voti. Io posso andare tranquillamente in Ucraina a risolvere le cose”

(Antonio Razzi a La Zanzara Radio 24 – 25 luglio)

26. La gladiatrice

“Accetto un collegio difficile, come un gladiatore. Tiro fuori gli occhi di tigre, ma lo faccio solo per loro. Combattere come l'ultimo dei gladiatori è l'unico modo per non sottrarmi alla battaglia”

(Monica Cirinnà su Twitter – 16 agosto)

27. Questione mosca

Imprevisto per @Berlusconi a #CasaItalia, che si ritrova ad affrontare un avversario in diretta: una mosca. E dopo averla schiacciata (l’ennesima di questi giorni, ndr): “Vedete, sono ancora in gamba. I miei collaboratori metteranno questo video su TikTokTak”

(@SkyTG24, RepTv – 20 settembre)

28. Come faremo senza?

“Io cado sempre in piedi, il mio lavoro ce l’ho, faccio inoltre dirette Facebook con 2-3mila persone, milioni di visualizzazioni”

(Danilo Toninelli intervistato da Zona Bianca, Rete 4 – 1 agosto)

29. Parola di Sissi

“Mi pare una politica da cani, e quindi come vedete mi faccio aiutare dalla mia cagnetta Sissi. Ho interpretato i suoi segnali: Sissi non ci ha capito assolutamente nulla”

(Clemente Mastella durante lo speciale del Tg di La7, “La corsa al voto” – 8 agosto)

30. #Casalino2027

“Lo dico con cinque anni di anticipo: al prossimo giro ci sarò! Mi auguro che dopo 15 anni di militanza e lealtà al mio partito e a distanza di 30 anni dal Gf, nessuno possa più recriminarmi nulla”

(Rocco Casalino intervistato dal Corsera – 9 agosto)

31. Pappalardo stampa moneta

“Noi daremo immediatamente 1500 lire al mese alle casalinghe, così i bambini vengono educati bene. Poi a tutti gli italiani rapinati dallo Stato dal 2000 restituiremo 1200 lire italiche. Fatemi capo del governo e io il giorno dopo telefono al direttore generale del ministero del Tesoro, faccio stampare questa moneta e vi arriva a casa”

(Parola del generale Antonio Pappalardo; Fatto Quotidiano – 7 agosto)

32. Fine delle baby gang

Matteo Salvini sui social: “PROPOSTA DELLA LEGA PER FERMARE L'EMERGENZA BABY GANG: se ti comporti male, non avrai la patente a 18 anni. Che ne pensate?”

Interviene Elio Vito: “Che è una ca@@ata!”

(Twitter – 5 agosto)

33. “A Napoli diremmo, effetto capitone”

“Al di là della politica c'è stato un episodio rilassante, diciamo così, che ci ha colpito: avrete notato anche voi che Salvini s'è tagliato la barba, determinando sul piano estetico un effetto pinguino, diciamo, con tutta quella pappagorgia venuta di fuori”

(Vincenzo De Luca, governatore Pd della Campania – 30 luglio)

34. Calenda e Letta: andiamo a vincere, insieme!

“Siamo solidi, siamo compatti, andiamo a vincere queste elezioni. Da oggi per me ogni tipo di discussione e polemica finisce, è finita, il prepartita non c’è più, ora c’è la partita, e la partita la vinciamo”

(Carlo Calenda al termine dell’incontro con Enrico Letta. Alcuni giorni dopo: Azione rompe il patto elettorale con il Pd. “Non intendo andare avanti con questa alleanza”, ha detto Calenda; CorriereTv – 7 agosto)

35. Come eravamo (2021)

“Di Renzi non me ne frega niente! Di questo centro come un fritto misto che poi una volta va a destra, una a sinistra a seconda del posto che gli danno, mi fa orrore, orrore. Mi sono rotto le balle. Lo ripeto da un anno: non-farò-politica-con-Renzi perché questo modo di fare politica mi fa orrore”

(Carlo Calenda a L’Aria che tira, La7 – 22 novembre 2021. Nove mesi dopo, Calenda sui social: “Nasce oggi per la prima volta un’alternativa seria e pragmatica al bipopulismo di destra e di sinistra che ha devastato questo paese e sfiduciato #Draghi. Ringrazio @MATTEORENZI per la generosità. Adesso insieme @ItaliaViva e @Azione_it per #ItaliaSulSerio” – 11 agosto)

36. La panna nella carbonara

“È il momento di scegliere da che parte stare. Noi stiamo con Giorgia Meloni”. Segue elenco, ecco le “DEVIANZE GIOVANILI: droga, alcolismo, tabagismo, ludopatia, autolesionismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori”

(Fratelli d’Italia sul profilo ufficiale: tweet poi cancellato – 22 agosto)

37. Reality

Luigi Mastrangelo (Lega): “Tagliamo i fondi alla sanità per lo sport”. Valanga di critiche alla proposta dal candidato leghista, ex pallavolista, volto dei reality e aspirante ministro. L'ex ct Berruto: “Un'idea così imbarazzante che non saprei commentarla”

(Il Manifesto – 28 agosto)

38. L'epigrafe

“Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo...”

(Marco Rizzo, subito dopo l'addio a Mikhail Gorbaciov, su Twitter – 30 agosto)

39. L'unto del signore

“Forza Italia, con la leadership del nostro presidente Silvio Berlusconi, sarà garanzia di affidabilità, competenza, autorevolezza e serietà agli occhi dell'Europa e del mondo”; “Il nostro presidente ha avuto il merito di porre fine alla Guerra Fredda con gli accordi di Pratica di Mare, vero e ineguagliabile miracolo di politica estera targato Berlusconi”

(Marta Fascina intervistata da Libero – 5 settembre)

La vergogna di Giorgia Meloni (senza scuse) e i tabù di Matteo Salvini: il peggio della settimana 

40. Reactions

“Per molti di voi io sono un esperto di 'First reaction shock', o di 'shish', linguaggi quasi più complessi del corsivo”

(Matteo Renzi sbarca su TikTok – 1 settembre)

41. Livorno m***a

Letta, polemica sul segretario Pd dopo la gaffe calcistica: “Forza Pisa, Livorno m....”. Il segretario del Pd si è lasciato andare a una battuta sul calcio che non è piaciuta ai livornesi

(Corriere.it – 6 settembre)

42. Mentalità dem

La “punta di diamante” del Pd Carlo Cottarelli: “Contro Santanchè spero di perdere bene”

(Fatto Quotidiano – 5 settembre)

43. “Per un’Italia democratica, progressista, ecologista!”

La maledizione del pulmino elettrico di Letta: centrato da un fulmine, il leader Pd resta di nuovo a piedi

(7 Colli – 19 settembre)

44. Bella Ciao

RepTv: Laura Pausini rifiuta di intonare 'Bella ciao' durante uno show spagnolo: “È una canzone troppo politica”. Immediato il tweet di Matteo Salvini: “Stima per #LauraPausini. #bellaciao”

(13 settembre)

45. Sputeranno sangue

Le dichiarazioni choc, Michele Emiliano contro Fratelli d'Italia: “Sputeranno sangue per cambiare quello che abbiamo costruito. La Puglia è una sorta di Stalingrado d’Italia, da qui non passeranno”

(La Gazzetta del Mezzogiorno – 12 settembre)

46. Ora venera Conte

Claudia Majolo, M5s, scriveva “Berlusconi ti amo”, esclusa dalle liste grilline: “Ora venero Conte: spero che lui mi chiami e decida di darmi udienza”

(Corriere della Sera – 22 agosto)

47. Attento fasciocomunista

Calenda: “Le disuguaglianze al Sud si combattono con l'assistenza sanitaria, e l'istruzione. Non con 900mila forestali e il reddito di cittadinanza”.

Interviene @maurizioacerbo: “Francamente chi diffonde bufale del genere merita di essere menato per la strada”.

E @CarloCalenda: “Fasciocomunista provaci. Non mi sono mai fatto spaventare dalle minacce. Corso Vittorio Emanuele II, chiama per appuntamento”

(Twitter – 19 settembre)

48. Per farci un'idea

“Prossimo Governo: Meloni premier, Salvini Interni, Berlusconi Esteri, Mulè Difesa, Tremonti Economia, Crosetto Attività produttive, Ronzulli Salute, Nordio Giustizia, Buttafuoco Istruzione, Zangrillo Università, Sgarbi patrimonio Artistico”

(Carlo Taormina su Twitter – 7 agosto)

49. L'irruzione di Peppa Pig

Fratelli d'Italia contro Peppa Pig, polemica sulla puntata con una coppia lesbica: “Chiediamo alla Rai di non trasmettere quell’episodio”

(SkyTg24 – 9 settembre)

50. The end

“Oggi tutti a criticare la Meloni. Ma un giorno la rimpiangeremo e diremo: 'Ah, quando c’era lei!'”

(@FicarraePicone su Twitter – 5 settembre)

Vittorio Feltri, campagna elettorale da circo: ecco il peggiore di tutti. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 settembre 2022

A surriscaldare il clima di questa estate rovente ha contribuito sensibilmente la campagna elettorale più bizzarra ed accelerata della storia della Repubblica. Gli abitanti della penisola giungeranno alla fatidica data con le scatole alquanto piene, a loro la nostra piena solidarietà e la nostra comprensione. Ci consola il fatto che dalla prossima domenica ci lasceremo alle spalle i deliri febbrili dei leader politici ai quali più che racimolare voti sembrava interessare sottrarli agli antagonisti, bersaglio quotidiano di attacchi scomposti e anche penosamente puerili.

Ecco perché più che una campagna elettorale a me è parsa una campagna bellica, combattuta con ogni genere di arma, propria e impropria, in particolare con lo sparacazzate. Gli schieramenti hanno tentato non di costruire consenso, bensì di distruggere il consenso di cui godono gli avversari, talvolta giocando addirittura sporco o cavalcando notizie del tutto prive di fondamento ed evanescenti come quella secondo la quale alcuni partiti italiani avrebbero ricevuto quattrini da Vladimir Putin. Abbiamo messo da parte il coronavirus, la crisi energetica, il conflitto russo-ucraino per focalizzarci su intenzioni, programmi e promesse (rigorosamente vane) provenienti da destra e sinistra.

Il politico più imbranato è stato senza dubbio Enrico Letta, mollato sul più bello persino dal suo ecobus, cioè il mezzo elettrico selezionato per gli spostamenti da una città all'altra. Enrico, intenzionato ad avvicinare giovani e indecisi, dopo il "viva le devianze" urlato su Twitter ha posto una questione altamente divisiva per gli italiani, ovvero: la carbonara è più buona con il guanciale o con la pancetta? È così che la sinistra spera di conquistare i cittadini, fingendo di scendere dal piedistallo per sedere a tavola con noi gente comune e gustare, anziché il caviale, la pastasciutta. Peccato che questi tentativi siano poco convincenti, tanto più quando poi accade che il segretario del Pd blatera di patrimoniale in un periodo in cui imprese grandi e piccole e famiglie sono alla canna del gas tra caro bollette e carovita. Lo scollamento della sinistra dal popolo non si risana con il condimento per i bucatini né tantomeno da un giorno all'altro. 

Giuseppe Conte, dal canto suo, vuole farsi passare quale avvocato del piccolo e medio imprenditore, vessato dalle tasse e da uno Stato che talvolta lo criminalizza. Peccato che egli sia poco persuasivo dal momento che è lo stesso Giuseppe Conte che ha protratto in maniera ingiustificata la chiusura di attività di ogni tipo portando al collasso e al fallimento attività poco prima fiorenti. Quante ne ha stese lui di aziende nessun altro! 

E cosa dire di Carlo Calenda? All'inizio della corsa alle urne ha monopolizzato il dibattito pubblico prima con la trattativa per coalizzarsi con il Pd, poi con l'alleanza e in seguito con il divorzio dai dem, che a Carlo non vanno bene perché sarebbero troppo a sinistra, mentre Meloni sarebbe troppo a destra e addirittura inesperta per governare, stando al giudizio del leader di Azione, che insieme a Renzi ha coniato l'efficace slogan di queste votazioni: "Italia sul serio". Insomma, come per informarci che fino ad ora ci siamo solo divertiti e da adesso in poi non si scherza più. In queste settimane i politici non ci hanno neppure risparmiato ingegnose soluzioni per combattere il freddo invernale nell'epoca della crisi energetica. L'idea più astuta forse è quella dell'ex ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina, la quale dopo i banchi a rotelle contro il coronavirus ha inventato il termosifone a rotelle da spostare da una camera all'altra. Ad ogni modo la problematica, sempre più urgente, non sembra premere molto ai candidati, i quali per intercettare l'attenzione dell'elettorato hanno puntato sui cari vecchi e intramontabili temi. Per la sinistra si tratta naturalmente dell'allarme fascismo, gridato in tutte le lingue e proposto in tutte le salse. 

SUI SOCIAL - Ora il nemico numero uno della democrazia è, secondo i progressisti, Giorgia Meloni, la quale sarebbe una novella ducetta smaniosa di sovvertire l'assetto costituzionale nonché nume tutelare del patriarcato, nonostante negli ultimi anni Meloni, salda all'opposizione, non abbia fatto altro che difendere norme e valori costituzionali e nonostante ella sia una donna simbolo della emancipazione, della indipendenza e della forza del suo medesimo genere. Questa campagna elettorale più che in tv e sui giornali si è svolta sui social network, dove i leader dei vari schieramenti postano, twittano, commentano, pubblicano letteralmente 24 ore su 24. La novità assoluta di questo giro è il ricorso ad una nuova piattaforma che io mi guardo bene dal frequentare, ovvero Tik-Tok.

Silvio Berlusconi si è dotato del suo account per reperire, in quel virtuale bacino di giovanissimi, voti sulla base della simpatia, sfoderando le sue riconosciute doti di barzellettiere, nemmeno fossimo a "La sai l'ultima".

Matteo Salvini, dopo lunghe giornate nelle piazze, sulle strade, negli studi televisivi, in montagna, al mare, in centro, in periferia, nei comizi, ci regala la sua consueta diretta notturna su Tik-Tok, dove una platea di affezionatissimi attende la sua buonanotte per dormire sonni tranquilli.

Il ministro Gigi Di Maio, invece, passa da una pizzeria all'altra, facendo l'aeroplanino, come è accaduto in una trattoria di Napoli. Insomma, nelle ultime settimane siamo stati spettatori di una specie di circo, con tanto di pagliacci. Non illudiamoci: lo show proseguirà dopo il 25 settembre con il passaggio sul ring quando si tratterà di dare vita a un governo a cui tutti, meno nessuno, aspirano a tutti i costi a prendere parte.

Elezioni: riconoscere subito il "Sistema Antitaliano unico" (SAU-30). Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 22 settembre 2022

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Piano con gli entusiasmi, non rilassatevi. Il centrodestra vincerà le elezioni, con molta probabilità la Meloni sarà Presidente del Consiglio, ma subito si ricomincerà con la solita solfa: boicottaggi dall'Ue, pestaggi mediatici, allarmi sui “neofascismi”, attacchi della magistratura, psicosi dello spread, compravendita di moderati,  passaggi al nemico, larghe intese, inciuci … e saremo da capo a dodici. I soliti “responsabili”, i “benpensanti moderati” passeranno al nemico e in meno di un anno tornerà un altro Uomo col Loden imposto dall’Unione Europea per liquidare quel poco che ancora ha lasciato in piedi il Dr. Aghi.

La sinistra ricomincerà, soprattutto, con la retorica zuccherosa dei buoni sentimenti, i migranti, il “ce lo chiede l’Europa”, lo ius vattelappesca, lo “scwhab” alla fine delle parole, l'emergenza climatica (non c’è più la mezza stagione), il pacifismo guerrafondaio, il vaiolo delle scimmie, il colera degli elefanti, lo scorbuto dei rinoceronti, etc. 

La tendenza medio-centripeta del prossimo governo sarà quindi contrastata, disgregata e sabotata dalle spinte super-centrifughe dei suoi avversari, potentissimi perché, essendo passati più o meno consapevolmente al servizio dei poteri globalisti, sono da essi sponsorizzati. Vi rimandiamo alla dicotomia illustrata QUI

Come evitare che questo loop mortale si ripeta per l’ennesima volta? Occorre finalmente creare nei cittadini una consapevolezza che li ponga in grado di riconoscere all’impronta un SISTEMA ANTITALIANO UNICO che potremmo covidianamente definire “SAU-30”, dalla mortifera Agenda 2030 globalista che già viene propagandata ai ragazzini delle scuole.

L'ERRORE STRATEGICO della destra è stato, fino ad oggi, quello di respingere proposte, istanze, ideologie folli e disparate in modo singolo, settoriale, separato, pensando che siano diverse e disorganizzate fra loro. Una notevole dispersione di energie per convincere i cittadini del contrario, caso per caso, invece di fornire loro una “griglia di interpretazione” generale. 

Ed ecco, alla rinfusa, le carabattole contenute nel baule del SAU 30: ius soli-scholae, abolizione del contante, disarmo dei cittadini, alimentazione con insetti, interventismo russo ucraino, obbligo di asilo nido, tartassamento del ceto medio, favoritismi alle banche, matrimoni e adozioni gay, aborto-eutanasia, ecologismo gretino, razionamento energetico, meticciamento, liberalizzazione delle droghe, delocalizzazione del lavoro, promozione di pessima arte contemporanea, stravolgimento delle opere liriche, ipercontrollo digitale, vaccinismo a tappeto, genderismo linguistico, demolizione della famiglia tradizionale, antimilitarismo, femminismo, cancel culture, politicamente corretto, atlantismo esasperato, lassismo scolastico-educativo… Pensate che tutte queste istanze, proposte, trovate, tensioni siano scollegate fra loro, che provengano da fonti disparate?  

NO, signori. E’ il Sistema Antitaliano Unico: forme aggressive diverse, subdole, mascherate, afferenti logicamente a un ATTACCO UNICO all’Italia e ai valori che incarna.  Tanti batteri diversi per produrre un’unica sindrome letale, il SAU-30.

L'obiettivo di tali posizioni è infatti concentrico, organico e coerente, quello di indebolire e annichilire l'Italia e i suoi abitanti sotto tutti i punti di vista: culturale, morale, spirituale, psicologico, politico, geopolitico, demografico, identitario, linguistico, economico, energetico, politico, militare, sanitario,  finanziario, fiscale, alimentare, etc...

Tutte queste istanze hanno un obiettivo solo: farci fuori, spolparci, diluirci, indebolirci, annullarci, sfibrarci, schiavizzarci per mettere le mani sui nostri tesori, il nostro territorio e i nostri risparmi.

In buona parte sono tattiche studiate a tavolino da quei poteri sovranazionali massonici ai quali la sinistra nostrana si è consegnata mani e piedi, ma potremmo dire che tale perverso Sistema Antitaliano Unico vive anche di vita propria. Potremmo parlare quasi di un’”EGGREGORA DELL’ANTITALIANITÀ”, ovvero di una forma-pensiero, di un’entità quasi psico-spirituale che si nutre e si sviluppa autonomamente anche al di là della specifica volontà dei suoi attori. In questo, i cattolici tradizionali stanno un pezzo avanti: individuano subito queste follie distruttive come provenienti direttamente dall’Inquilino del Piano di Sotto, e chiudono la porta. Fanno bene, ma la fede in Dio non si comanda, pertanto siamo tenuti a un approccio doverosamente LAICO.

Ciò che quindi va  fatto comprendere agli elettori è che:

1) esistono dei nemici esterni, ma soprattutto interni al nostro Paese. Abbiamo dei politici che NON fanno il nostro interesse, o che in buona fede propongono "ricette diverse", ma piuttosto sono legati a entità o interessi sovranazionali e apolidi, non visibili. I TRADITORI ESISTONO, da sempre. Non è pensabile escludere questa categoria archetipica. Questi nemici interni supportano da dentro il Sistema Antitaliano Unico.

2) Lo strumento principe  - riconoscibile lontano un miglio -  di tale aggressione, la sintomatologia tipo del SAU-30 è l'UTILIZZO MANIPOLATORIO DELLE EMOZIONI (soprattutto paura, felicità illusoria e compassione), a scapito della logica e del pensiero razionale.

3) Bisogna, quindi, sviluppare una CAPACITÀ DI COMPRENSIONE-REAZIONE immediata che faccia riconoscere immediatamente l’attacco multiforme di un nemico unico, senza stare a perdere troppo tempo cercando di capire il perché e il per come di tali proposte. Occorre mobilitare subito gli anticorpi contro queste diverse e proteiformi istanze afferenenti a un SISTEMA ANTITALIANO UNICO, che conduce attacchi con pretesti diversi, attraverso partiti e movimenti nostrani coptati più o meno consapevolmente.

IL CENTRO DESTRA DI OGGI È ANCORA TROPPO INGENUO, troppo bonario, troppo “Nutella - i papà e le mamme” e non forma adeguatamente gli elettori a una reattività proporzionata rispetto al PERICOLO GRAVISSIMO che corre il nostro Paese. La guerra è molto più dura di quanto si immagini e i nemici sono ben altri rispetto al Letta-Maio che compare in superficie. 

Se la destra non si scaltrisce, se non diventa molto più reattiva, se non forma gli elettori in questo senso, durerà poco anche stavolta e tornerà, dopo qualche mese, il solito rispettabile banchiere, il professore bocconiano imposto dall'Ue per gestire l'ennesima emergenza e darci il colpo di grazia. 

QUEL PONTE CHE DEVE SORGERE A MEZZOGIORNO. GIRO D’ORIZZONTE TRA I PROGRAMMI ELETTORALI. Somiglia al gioco dell’oca: si fa un passo avanti e poi si torna indietro, alla casella di partenza. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 19 Settembre 2022. 

Mezzogiorno. Basta la parola. Ad evocare la macro area dell’Italia che, con un dolce eufemismo, viene definita a ritardo di sviluppo. L’insufficiente sviluppo è condensato nei dati macroeconomici: tra il 1996 e il 2021 il Pil del Mezzogiorno è cresciuto in termini cumulati solo del 3,5%, quasi cinque volte in meno della media nazionale (15,4%) e otto volte rispetto al Nord-Est (24,8%). Nel 2022 il Pil pro capite al Sud (20.900 euro) è quasi la metà di quello del Nord-Ovest (38.600 euro) e del Nord-Est (37.400 euro). Nel 2022 i consumi pro capite al Sud sono ammontati a 15.100 euro contro gli oltre 21mila euro del Nord e i 19.800 euro del Centro. Ancora: nel 2022 la popolazione si è ridotta di 824mila unità rispetto al 2019, il 60% nel Mezzogiorno. Tra il 1996 e il 2019 quella del Nord è cresciuta del 9,3%, mentre al Sud è calata del 2%.

Al netto dei suoi non pochi primati, il Sud resta purtroppo ancora molto indietro nella crescita. Ecco cosa prevedono nei programmi elettorali i partiti politici impegnati nelle elezioni del 25 settembre. Con l’avvertenza che ci si è soffermati specificatamente sulle misure rivolte propriamente al Sud, in modo mirato e circostanziato, escludendo dunque i provvedimenti a carattere generale che riguardano l’intero Paese.

CENTRODESTRA

Ci sono due capitali nell’ampio e articolato programma elettorale dello schieramento di Centrodestra (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Noi moderati) e riguardano le infrastrutture e il lavoro. Nell’ambito dell’ammodernamento della rete infrastrutturale e nella realizzazione delle grandi opere, si punta a potenziare la rete dell’alta velocità e alta capienza per un efficace collegamento del Sud con il Nord. Inoltre, viene riproposto il progetto dell’attraversamento stabile dello Stretto di Messina.  Nel programma si parla espressamente di Ponte. Ma sarà un ponte a collegare la Sicilia alla Calabria? Non si sa. L’ultimo studio di fattibilità è stato affidato dal Governo Draghi a Rfi (Gruppo FS).  Potrebbe farsi (l’ipotesi è che si faccia un ponte con più campate, non più solo con una, ma potrebbero riesumarsi altri studi del passato che prevedevano in alternativa tunnel subalvei). Ma quella del Ponte somiglia al gioco dell’oca. Si fa un passo avanti e poi si torna alla casella di partenza. E si ricomincia daccapo. Staremo a vedere. 

Nel programma sono previsti incentivi per stimolare la creazione di imprenditoria giovanile e femminile nelle aree svantaggiate, dunque anche nel Sud, e prorogare gli sgravi contributivi in favore delle imprese del Mezzogiorno.

CENTROSINISTRA

Muovendo dalla constatazione che le disuguaglianze sono il freno a ogni prospettiva reale di crescita, il Centrosinistra (Partito Democratico, Alleanza Verdi – Sinistra, Impegno Civico e +Europa) dichiara apertamente di voler colmare le disuguaglianze territoriali investendo nel Mezzogiorno e nelle aree interne, perché è tutto il Paese a rallentare se alcune aree rimangono indietro. C’è una profonda interdipendenza economica che lega le aree del Paese.

Anche per il Mezzogiorno la proposta passa attraverso un cambio di paradigma: “noi crediamo che l’Italia potrà avere una crescita forte, durevole e sostenibile solo se saprà colmare i suoi divari territoriali, che non si esauriscono nella storica frattura tra Nord e Sud, ma si caratterizzano ad ogni latitudine per una crescente divergenza tra centri e periferie, città e campagne deindustrializzate, grandi centri e piccoli comuni, aree urbane e aree interne”. Quindi si propongono di affrontare le fragilità territoriali in particolare attraverso il rilancio della Strategia Nazionale per le Aree Interne, accompagnata da politiche settoriali dedicate. Nel quadro della nuova stagione di investimenti, si punta a rilanciare e potenziare il “Piano Sud 2030 – Sviluppo e coesione per l’Italia”, che configura una politica territoriale di “prossimità” ai luoghi”, alle aree marginalizzate e più vulnerabili, condizione indispensabile per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dell’Agenda ONU 2030.

La quota di investimenti destinata al Mezzogiorno nei diversi ambiti del PNRR (40%) e nel bilancio ordinario dello Stato (34%), deve essere “rispettata” e “i fondi derivanti dalle politiche di coesione nazionali ed europee (Fondo Sviluppo e Coesione e Fondi SIE 2021-2027)” devono essere “aggiuntivi e complementari”. Si pensa inoltre alla proroga, al potenziamento e alla razionalizzazione dei diversi meccanismi di incentivazione per l’occupazione nel Mezzogiorno, puntando su giovani e donne. Il Centrosinistra assume inoltre un impegno: portare avanti il negoziato con la Commissione europea sulla “Fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud”, “affinché accompagni, come previsto al momento dell’introduzione, tutta la stagione di rilancio degli investimenti e ne massimizzi l’impatto occupazionale”.  Ancora: chiede il rafforzamento strutturale degli strumenti di politica industriale regionale, potenziati in particolare nel 2020-21 (Credito di imposta per investimenti, incentivi potenziati per R&S, Fondo “Cresci al Sud” per la crescita dimensionale delle imprese, priorità Sud nel Fondo Nazionale Innovazione e Protocolli con CDP e Invitalia, rilancio delle Zone Economiche Speciali) e prevedere forme di riequilibrio territoriale negli strumenti di politica industriale nazionale.

Nell’ambito degli Ecosistemi dell’innovazione al Sud, il Centrosinistra vuole insediare nel Mezzogiorno “poli di formazione su rinnovabili e transizione verde”.

Capitolo scuola, istruzione e socializzazione. Secondo l’ultimo rapporto Svimez, una bambina del Sud frequenta mediamente la scuola 4 ore in meno a settimana; circa 550mila allieve e allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano scuole dotate di una palestra e 650 mila allieve e allievi delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. C’è un tema di esclusione che passa anche dalla mancata centralità della scuola come strumento di istruzione, di socializzazione e di emancipazione. “Vogliamo rimettere al centro la scuola e restituire al mestiere dell’insegnante la dignità e centralità che merita, garantendo una formazione adeguata e continua e allineando, entro i prossimi cinque anni, gli stipendi alla media europea”. 

Per superare queste discriminazioni, bisogna rendere gratuita e obbligatoria la scuola dell’infanzia nell’ambito del sistema integrato esistente e incrementarne il fondo nazionale, per garantire la progressiva gratuità dei servizi educativi 0-3 anni per i nuclei familiari a basso ISEE, con particolare attenzione all’offerta formativa nel Sud del Paese. Propone infine l’estensione del tempo pieno, con particolare attenzione al Sud, e la progressiva costruzione di una scuola presidio di comunità nelle periferie e nelle aree interne.

MOVIMENTO 5 STELLE

Primo punto. Stabilizzare gli sgravi contributi per le imprese del Sud per proteggere i posti di lavoro e crearne di nuovi. Il programma denominato Decontribuzione Sud venne del resto lanciato dal Governo Conte II e nel 2021 ha consentito di creare 1,1 milioni di posti di lavoro, cui si sono aggiunti altri 500mila contratti nel primo semestre dell’anno.

Secondo punto. Le infrastrutture interconnesse e la mobilità intermodale sicura: manutenzione ordinaria e straordinaria garantita per la riduzione del gap infrastrutturale tra i territori in particolare del Sud

AZIONE ITALIA VIVA

C’è un intero capitolo dedicato al Sud nel programma. Si parte dai fondi garantiti al Mezzogiorno dal PNRR a quelli del Fondo di coesione. Tra le misure la trasformazione dell’Agenzia per la coesione in Agenzia per lo sviluppo, benefici fiscali alle imprese meridionali, garantire livelli essenziali di prestazioni sociali, completare l’Alta Velocità e potenziare i treni regionali, potenziare la portualità, rafforzare le Zone economiche speciali, migliorare i livelli di istruzione, combattere lo spopolamento delle aree interne, aumentare la rete Internet e aumentare la quota di turismo non balneare. 

Letta cavalca il pregiudizio anti italiano dei tedeschi. La stampa tedesca dipinge la Meloni come la "donna più pericolosa d'Europa", mentre l'Spd rilancia il pericolo fascismo. Letta gongola ma così presta solo il fianco alle ingerenze di Berlino. Andrea Indini il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.  

C'è un solo Paese in tutta l'Unione europea ossessionato dalle elezioni italiane e, in modo particolare, dall'eventualità che Giorgia Meloni possa diventare presidente del Consiglio: è la Germania. E c'è un solo leader politico che, dopo essere stato in gita a Berlino per intrattenersi con gli alleati dell'Spd, gongola dei continui attacchi tedeschi: è Enrico Letta. Come se il profluvio di editoriali contro la leader di Fratelli d'Italia o l'endorsement del presidente socialista Lars Klinhgbeil (sconosciuto dalla stragrande maggioranza degli italiani) possano portare qualche voto in più al Partito democratico. Quello che il segretario dem non coglie è che il provincialismo con cui lui e una certa stampa progressista italiana rilanciano le ingerenze di un altro Stato europeo non mina la credibilità del centrodestra ma la considerazione che all'estero hanno del nostro sistema democratico.

I tedeschi non sono nuovi a certi pregiudizi. Nell'aprile del 2020, all'inizio della crisi pandemica, Die Welt invitava la Merkel ad ergersi a paladina del rigore contro l'Italia dove "la mafia stava aspettando i soldi di Bruxelles come una manna" dal cielo. Anni prima lo Spiegel, invece, se ne uscì in edicola con una pistola su un piatto di spaghetti per copertina. Non deve stupire, quindi, se giorni fa lo stesso settimanale ha pubblicato un articolo in cui la Meloni veniva bollata come "l'erede di Mussolini", una "neofascista" che contrasta l'Unione europea e "detesta la Germania". Lo Spiegel non è il solo giornale tedesco a vederla così. Già a inizio settembre la Sueddeutsche Zeitung descriveva la volubilità degli italiani, ora "appassionati" per la leader di Fratelli d'Italia, con una metafora (volgare): "fugace come una scoreggia". Poi, da quando durante un comizio la Meloni ha avvertito che col centrodestra al governo finirà "la pacchia per l'Unione europea", l'allarmismo tedesco si è fatto sempre più pressante. Ieri, ultima in ordine temporale, è arrivata la copertina del settimanale Stern dedicata alla "donna più pericolosa d'Europa". La Meloni viene dipinta come il "veleno biondo" che "vuole trasformare l'Italia in uno stato autoritario, se vincerà le elezioni".

È in questo clima profondamente anti italiano che nei giorni scorsi Letta è andato in pellegrinaggio a Berlino. "Non è andato certo a ottenere un tetto al prezzo del gas", ha spiegato nei giorni scorsi la stessa Meloni. "È andato a barattare l'interesse nazionale italiano con l'interesse del suo partito". Ed è stato, infatti, in quell'occasione che ha incassato l'endorsement di Klinhgbeil. "Sarebbe davvero un segnale importante se Letta potesse vincere - aveva detto, in quell'occasione, il presidente dell'Spd - e non la Meloni che, come partito post fascista, porterebbe l'Italia in una direzione sbagliata". Una scelta o, meglio, un'ingerenza di campo ribadita anche oggi in un'intervista al Corriere della Sera.

Letta, dal canto suo, gongola per tutti questi attacchi alla Meloni. "Non sono andato a Berlino per chiedere un endorsement", ha ribattuto oggi su Rtl 102.5. "Ma per parlare con uno dei nostri principali partner europei sul tema dell'energia e per difendere l'interesse dell'Italia e dell'Europa". Peccato che i suoi commensali, il cancelliere Olaf Scholz in testa, siano i meno allineati a difendere l'interesse dell'Italia e dell'Europa e anzi, dall'inizio della crisi energetica, abbiano più volte tentennato dimostrandosi i più teneri nei confronti di Putin, tentando vie secondarie per mantenere gli accordi con la Russia e opponendosi al price cap. E che dire delle lezioni impartite dall'Spd, se non che in Europa è probabilmente il partito con maggiori interessi (personali) sul gas russo. Insomma, i testimonial del Pd non sono così affidabili e prestargli il fianco finisce solo per minare la stabilità del Paese.

Il mondo politico in televendita. Twitter, Facebook e talkshow: la politica che ti rimbalza. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

La campagna elettorale? Un lungo discorso che si potrebbe sintetizzare in una battuta, ma manca il battutista. Il fatto è che gli italiani sono diventati adulti ma non se sono accorti.

O meglio: il tempo della politica è diventato adulto e noi ce ne accorgiamo solo quando ci vuotiamo le tasche e guardiamo nel portafoglio. Siano più poveri o più ricchi? Che ne farete di noi? Ogni estate la siccità prosciuga e ad ogni autunno le alluvioni devastano affogando. Abbiamo anche imparato che non basta mettere la spina nella presa per far girare il motore e che l’energia è finita e dobbiamo cucinare le uova meno sode.

Certo, i francesi e tutti gli altri bambini grandi hanno le centrali nucleari e la corrente elettrica. Ma questa non è la campagna elettorale. Ieri abbiamo visto Draghi in smoking tutto d’un pezzo come sempre mentre riceveva il premio americano di Statista dell’Anno. Aveva l’aria di dire: visto? Cretini. Quando lo ritrovate uno come me. Presidente, presidente, una domanda: è disposto a fare di nuovo il Presidente del Consiglio? Risposta: no. Fine della storia. E allora, chiedono all’onorevole Calenda, ma se il suo programma è riportare Draghi a Palazzo Chigi e quello ha già detto di no, che senso ha il suo programma? E Calenda risponde arrampicandosi sugli specchi che Mario Draghi non poteva dire altro e che quindi, il suo no è un sì. Il cittadino è confuso ma ascolta. D’altra parte, anche Renzi è d’accordo e manda a dire a Letta che secondo lui il partito democratico è al suo punto più basso e che si è fatto anche fregare il Jobs Act che ha barattato con i bambini a Cinque Stelle con il reddito di cittadinanza che è l’oggetto del desiderio del Meridione: “guagliò votate a Conte”. Ma allora, gridano dal fondo della platea, questo è voto di scambio. Di scambio con che cosa? La Meloni intanto prende le distanze dai fascisti spagnoli, però dice che Orban avrà pure instaurato una democrazia autoritaria, ma a noi l’Europa piace con un suo Oriente e un suo Occidente.

Nella preistoria repubblicana degli anni Sessanta gli attori erano gente oggi in gran parte dimenticata: il leader socialista Pietro Nenni, il comunista Palmiro Togliatti, il democristiano Amintore Fanfani, poi Giuseppe Saragat socialdemocratico, Ugo La Malfa e tanti altri che il tempo e la memoria si sono portati via. La politica sia normale che elettorale era allora più semplice e quasi quadrata. E a Roma, involontario teatro della politica, i ragazzini che giocavano nei cortili avevano creato una cantilena che accompagnava i loro giochi. E faceva più o meno così: “Nenni ormai ha capito che Togliatti non lo vuole, e manda a di’ a La Malfa, je manna a dì così. La Malfa quando sente che Fanfani non lo vuole, je manda a dire a Moro, je manda a dì così”. Ecco, questo lo schema. Non si diceva mai “che cosa” l’uno mandasse a dire all’altro. L’importante era che ciascuno sapesse che qualcun altro gli aveva mandato a dire qualcosa, non si sa che cosa. La filastrocca era arrivata fra i cronisti e fra i politici e tutti canticchiavano suggerendo il vero schema della politica specialmente sotto elezioni in cui tutti mandano a dire qualcosa a qualcuno che poi gli manda a dire così.

Questa campagna elettorale è un gioco televisivo con le appendici di Twitter, poco Facebook e social che si rimpallano parole vuote o semipiene, fatte rimbalzare da specialisti dei rimbalzi on line. È una nuova arte. Tu non esisti per quello che pensi e dici, ma per quanti rimbalzi fai. Entrano in lessico verbi bullisti come asfaltare. Si asfaltano tutti. Ma gli elettori? La gente si diverte? Ci deve essere il selfie, ma chi se ne spara troppi poi diventa cieco. Mezzo secolo fa, i voti nascevano in scatola sul luogo e a causa del luogo. Le geografa faceva tutto lei. Era valida l’antica legge per cui la religione del suddito deve essere quella del suo principe e se sei emiliano sei comunista, se sei romagnolo sei repubblicano. La Sicilia e la Calabria in genere erano governative e i governi si facevano a rotazione per correnti e per regioni affinché tutti avessero un ministro a rotazione e poi tutti alle urne in massa, con i camion del dovere, tutti in fila sotto l’occhio vigile di Peppone e di don Camillo, e poi c’erano i grandi comizi e i capannelli per strada, i manifesti meno geniali.

Le televisioni riproducano nei talk ciò che è scritto sulle chat e i tweet dove si usa un linguaggio fondato sul rancore, i commenti da assassini e una spolverata d’odio visto che tanto – come verseggiava Trilussa – “so’ cugini e fra parenti non si fanno complimenti, ma torneranno più cordiali i rapporti personali”. Il tono si alza, ma il tasso di complicazione si abbassa. Chi ha vinto? Hai letto Salvini che gli manda a dire a Letta? E Letta? Letta gli manda a dì, gli manda a di’ così. E riparte il vecchio gioco. Gli italiani si sentono col reddito di cittadinanza in mano. Ovvero se ne stanno sul divano con i piedi sul tavolo e i popcorn. Giorgia allontana i sospetti che di questi tempi sono tutti internazionali. Ha fatto il test americano? E Berlino che dice? E Dubai? A domanda, i leader dei partiti fratelli dei paesi amici restituiscono il favore riciclato e dicono alle televisioni del Paese sotto elezioni chi sono i buoni (gli amici suoi) e chi i cattivi. Allora scatta il riflesso condizionato di chi sta con i russi e chi si vuole mondare dall’odore di vodka. Da chi prendevate i soldi? È ancora un argomento forte. Poi si gioca al vecchio: “E allora voi?!”. E allora voi avete fatto entrare in Italia divisioni di carri armati russi per portare ventun siringhe durante il Covid.

L’italiano elettore sul divano si diverte poco ma partecipa molto. L’italiano sbracato col popcorn non sa se andrà a votare perché nei paesi di antica democrazia uno va a votare solo se gli va. Nelle ore finali, sul palcoscenico si illuminano cascate di monetine, di redditi, di garanzie, pensioni, gettoni, lustrini. Il Gatto e la Volpe dicono a Pinocchio che stasera c’è una ficata bestiale al Campo dei Miracoli con Eros Ramazzotti, ma Pinocchio sale su uno monopattino offerto dal Comune e se ne va. E i giovani? Facciamoli votare a tredici anni. L’avvocato Giuseppe Conte invita Renzi a scendere in Sicilia senza scorta, così vedrà se non gli faranno la pelle. Geniale. E Renzi, di fronte a quella minaccia dopo che già gli hanno arrestato il babbo, la mamma, la nonna per segarlo in politica chiama la Lamorgese che lo scambia per Salvini. E Salvini viene dato per finito da Calenda che vuole fare il governo con una destra depurata senza tornare più con Letta perché ha imbarcato Fratoianni. L’italiano sul divano di cittadinanza è stordito.

Non capisce più chi manda a dire che cosa e perché. Calenda è pronto ad allearsi con la Lega senza Salvini e con Giorgia se fa un piccolo restyling; quindi, un governo Berlusconi sostenuto dal Partito popolare europeo? L’elettore mastica con passione e cerca di decifrare. E perché no, dice Calenda, ma forse sì dice Renzi, ma vedrete che vince Letta perché secondo Paolo Mieli il segretario del Pd ha il sorcio in bocca e non ce la conta giusta. Le carte sono state giocate tutte: le alleanze internazionali, il carrello della spesa, l’energia che ora appare e scompare mentre Mario Draghi con i suoi occhi da lucertolone sazio riceve in America il meritato premio Statista dell’Anno, probabilmente alla memoria. Il mondo politico nel suo complesso appare in televendita non ideologica, tutti cercavo di far saltare la cordata dell’altro ed è perfettamente salutare perché così è la politica. Sangue e merda come diceva Sartre riferendosi alla guerra, sangue e merda gli fece eco Rino Formica, già Premio Mente Più Lucida dei socialisti italiani. E gli italiani osservano, ogni tanto gridano gol e ricadono sul divano di cittadinanza in attesa che il rider suoni alla porta per recapitare il pollo fritto con patatine ordinato on line.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 13 settembre 2022.

Domenica, Giuseppe Conte (no alle armi usate per l'offensiva ucraina, 27 aprile; no all'invio in Ucraina di armi letali, 2 aprile; dopo il terzo decreto basta armi all'Ucraina, 12 maggio; serve una nuova strategia, non mandare nuove armi, 13 maggio; basta, sull'invio delle armi l'Italia ha già dato, 17 maggio; 

basta inviare armi, adesso è il momento del dialogo, 21 maggio; non servono nuove armi, è il momento della pace, 26 maggio; inviando altre armi non avremo la pace, 1 agosto; noi pensiamo alla pace, gli altri alle armi, 21 agosto) ha detto di essere molto contento della vincente controffensiva ucraina, infatti «noi abbiamo sempre appoggiato gli aiuti militari». 

Ieri, Matteo Salvini (mandare più armi non avvicina la pace, 31 marzo; continuando a fornire armi non ne usciamo, 28 aprile; darmi più armi è una risposta debole, 3 maggio; più armi, più morti, 4 maggio; ulteriori invii di armi non sono la soluzione, 16 maggio;

dopo tre mesi di guerra conto sullo stop all'invio delle armi, 18 maggio; non ci sto a inviare altre armi, 19 maggio; l'invio delle armi è un errore madornale, 24 maggio; la priorità adesso è fermare l'invio delle armi, 26 maggio; noi parliamo di pace, la sinistra parla di armi, 31 maggio; più armi mandiamo più è difficile il dialogo, 7 giugno; 

in Parlamento si parli di pace, non di armi, 10 giugno; le armi ad oltranza non sono la soluzione, 23 giugno) ha detto che a destra «abbiamo sempre sostenuto militarmente l'Ucraina e continueremo a farlo».

In politica, dire una cosa e pensarne un'altra può essere una necessità. Ma il talento contemporaneo è dire una cosa che vale l'altra e non pensarne nessuna.

Dalle lacrime per Lilibet alla politica italiana: un mondo al contrario. E la guerra? Pure sta mostrando un mondo capovolto. Putin, ex numero uno dei servizi segreti più comunisti in assoluto, è - diciamo così - meno contestato a destra che a sinistra. Roberto Calpista su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Settembre 2022.

C’è un mondo che va al contrario di come dovrebbe. La riflessione si fa certezza in questi giorni, a vedere quelli con la «evve» moscia, la sinistra dal mignolo alzato, strapparsi le vesti dal dolore, a volte sincero, per la morte di Elizabeth II, la 96enne sovrana del Regno Unito simbolo planetario di quel che resta della monarchia. Al contrario dei rozzi machi populisti e sovranisti, canotta, peli selvatici sotto le ascelle e sudore. Loro che avrebbero ragioni, oltre che umane, anche politiche per «unirsi al lutto», si limitano al rito delle «sentite condoglianze».

È da un po’ che non si comprende bene. Tutto e il contrario di tutto. Perfino la meteorologia tradisce certezze acquisite. Doveva essere l’estate bollente preludio di un inferno climatico per cui l’umanità sarebbe stata decimata a breve dalla sete. E invece si scopre a sorpresa che per esempio gli invasi di Puglia e Basilicata sono pieni dopo le piogge di agosto.

E la guerra? Pure sta mostrando un mondo capovolto. Putin, ex numero uno dei servizi segreti più comunisti in assoluto, è - diciamo così - meno contestato a destra che a sinistra, almeno in quel centrosinistra moderato che ora flirta senza freni con Nato e Stati Uniti.

Lontani i tempi delle piazze tanto estreme da unirsi al grido di né Urss né Usa. Ora c’è chi sta con i rimasugli dell’Unione sovietica e chi con gli Usa, e sembrano quelli sbagliati da una parte e dall’altra.

Se la questione la si applica alla politica, non solo ma soprattutto quella italiana, tutto è ancora più confuso. Il dato che balza agli occhi è il definitivo divorzio tra Pd e operai. I dem piacciono invece soprattutto ai professionisti della buona e benestante borghesia e a seguire, agli imprenditori e ai pensionati, ovvero un partito presidiato dai ceti dirigenti.

Dove sono finiti i lavoratori? Bisogna andare a suonare al citofono di Matteo Salvini e, ancora di più, a quello di Giorgia Meloni. Se poi uniamo l’esercito di casalinghe, meglio fare una puntata ad Arcore.

Lontani quindi anche i tempi in cui da dietro le bandiere rosse si urlava contro i padroni fascisti e a difesa degli oppressi. Riposte le bandiere nei salotti buoni, tocca al centrodestra tra le tute blu godere del doppio dei consensi di tutte le sinistre sommate tra di loro, un termine di paragone, che ribalta totalmente lo schema novecentesco, con un consolidamento che sta creando una base sociale pressoché stabile.

Del resto, dopo le elezioni del 4 marzo 2018 la segreteria della Cgil promosse un sondaggio tra i propri iscritti da cui risultò che più del 30% aveva votato per il M5S e il 18% per la Lega. E non c’era ancora il «volo» dei Fratelli d’Italia.

Ma è la sinistra che ha tradito la classe operaia oppure è il contrario? Partendo dal presupposto che rosso o nero ormai sembrano resistere solo su inazzeccati manifesti elettorali, i confini tra destra e sinistra o non esistono più o non sono più in grado di evitare la contaminazione delle idee con quelle del populismo. Con la sensazione che la destra è capace di fare sintesi e catturare l’attenzione anche di chi «non ci crede più», mentre il Pd resta schiacciato sull’immagine di macchina politica del Palazzo, roba da élite lontana dal mondo reale di chi è privo di amici santi e generosi, precludendosi di conseguenza la relazione con le «piazze».

Quelle piazze che nel 2022 guardano al lutto britannico con curiosità più che con dolore e che magari condividono le parole di Alessandro Gassman che ha sollevato un polverone twittando: «È morta una anziana signora che mi stava simpatica. Ha fatto una vita bellissima e piena di responsabilità, vivendo in castelli e spostandosi a volte in carrozza. Mi dispiace per la sua morte, come mi dispiace per la morte di chiunque».

C’è un’Italia al contrario. Quella più chic, apparentemente distante, politicamente progressista che ricorda, con commozione, forse di circostanza, «la regina che dopo il pic nic lavava i piatti». C’è il paese che fatica a tirare avanti, neo conservatore, convinto «che tutto sommato Lilibet aveva 96 anni e ha vissuto da, appunto, regina».

Confusione? Basta pensare ai molti elettori che nel 2018 avevano votato i Cinque stelle perché «erano di destra» e il prossimo 25 settembre probabilmente voteranno Giorgia Meloni perché «ci eravamo sbagliati».

La campagna elettorale dell’odio: in tre mesi 671 casi di discriminazioni e violenze. Crescono le aggressioni fisiche e verbali, a sfondo razziale o omofobico, nel nostro Paese. Perché i toni violenti della propaganda di Destra si riflettono nella vita di tutti i giorni. Simone Alliva su L'Espresso il 12 settembre 2022

«Pronto, sono stato aggredito», dall’altro capo del telefono la voce è rotta dalle lacrime e dalla paura. Il vaso di pandora si apre così. Prima di guardarci dentro però bisogna leggere i dati. Incrociarli. Verificarli. I numeri non sono la misura esatta di quello che c’è fuori ma aiutano a mettere a fuoco cosa sta succedendo tutto attorno a noi. E dentro di noi.

L’Espresso ha analizzato in esclusiva i dati raccolti dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri.

Soltanto negli ultimi tre mesi (da maggio a luglio) si registrano 671 episodi di discriminazioni, 457 avvenuti in luogo fisico. Mentre 214 sono minacce e insulti che viaggiano attraverso la Rete. L’odio di una campagna elettorale - iniziata con le prime crepe al governo Draghi e ufficializzata a fine luglio - lievita nel Paese reale. Bisogna distogliere lo sguardo dai video di una politica ferma ai challenge su TikTok e rivolgerlo alle cronache locali: dall’invito alla «riapertura dei forni» per gay, ebrei e rom alle persone trans suicide, dalle coppie lesbiche massacrate perché si tenevano per mano al «vietato l’ingresso ai neri» in piscina. Dagli insulti ai calci, dalle offese alle aggressioni. Razzismo, omotransfobia, antisemitismo. Sono 209 le persone aggredite in quanto “stranieri”, 45 per il colore della pelle, 126 gli episodi di omotransfobia, 54 di antisemitismo.

I numeri dell’odio raccolti dall’Unar - segnalazioni pervenute attraverso i diversi canali come numero verde 800 901010, e-mail, sito web - non riescono tuttavia a portare in superficie la campagna di caccia al “diverso” che si è intensificata in soli novanta giorni. Il sommerso non emerge neanche con l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), istituto presso il ministero dell’Interno, al quale vengono inviati le segnalazioni di reati subiti in relazione alla razza/etnia, credo religioso, orientamento sessuale e identità di genere.

Le rilevazioni dell’Oscad vengono abitualmente citate allo scopo di rappresentare il fenomeno dell’odio come marginale, di cui si contano pochissimi casi e quindi certamente non di dimensioni preoccupanti. Una lettura strumentale e pregiudiziale.

L’Oscad non raccoglie notizie di reato, ma segnalazioni ulteriori che la vittima può decidere di inviare, oltre e separatamente alla presentazione della denuncia presso l’autorità di prossimità (polizia o carabinieri), prima o dopo avere sporto regolare denuncia o querela per il reato subìto. Un fenomeno di under-reporting ben specificato da tutti i documenti del dipartimento. Sulla pagina web del ministero dell’Interno dedicata al monitoraggio dei crimini d’odio si legge: «I dati relativi alle segnalazioni Oscad non consentono di valutare il fenomeno dei crimini d’odio da un punto di vista statistico». O ancora: «I dati comunicati non forniscono un quadro avente valore statistico sul fenomeno in Italia: incrementi e diminuzioni dei dati comunicati non sono correlabili con certezza a una proporzionale variazione dei crimini d’odio nel Paese».

Difficile anche fare una classifica delle città che registrano più casi di discriminazioni. A voler prendere una cartina dello Stivale e appuntare in ogni singola città una denuncia, una violenza, un episodio discriminatorio si ottiene un Paese frammentato che non rispecchia il dualismo Nord-Sud, ossia la contrapposizione tra un Nord progredito e un Sud arretrato, è un approccio che non sta in questa Italia attraversata dall’odio verso il “diverso”.

A Pordenone a due ragazzi di origine marocchina che frequentano un istituto superiore della zona di Sacile, viene rifiutato l’accesso all’alternanza scuola-lavoro in più di una azienda, diversamente da tutti i loro compagni, a causa delle loro origini. Mentre Porpora Marcasciano, attivista storica lgbt, viene aggredita con un coltello il 24 agosto, su una spiaggia della costa Adriatica, due di pomeriggio. È lei stessa a raccontarlo: «Frequento quella spiaggia da dieci anni. Il branco si è violentemente palesato senza darmi il tempo e il modo di pensare alla fuga. Venti minuti di terrore, in balia di cinque balordi. Il capo branco ha cominciato in modo soft, quasi gentile ad avviare un discorso che diventava man mano sempre più brutto, minaccioso, violento. Il gergo era quello omofobo con tutti gli epiteti che risparmio. Poi il brutto ceffo si è avvicinato, quasi a toccarmi e con un coltello continuava a ripetere che appena lo avessi sfiorato mi avrebbe tagliato la gola. Cercava l’appiglio ed io ero certa, certissima che lo avrebbe trovato da lì a poco. Non so dire ancora oggi a distanza di sei giorni cosa mi abbia permesso di essere qui a raccontarlo».

Il candidato del Pd a Sesto San Giovanni, Emanuele Fiano, viene preso di mira dall’odio antisemita. Scritte sono apparse sui muri della Sapienza di Roma contro il deputato dem, figlio del sopravvissuto di Auschwitz, Nedo Fiano. È un filo nero che corre dentro questi giorni di campagna elettorale. Eppure, il tema non è, ancora oggi, l’odio. Non è la spaventosa assuefazione a un linguaggio e a un comportamento violento che si fonda sulla paura dell’invasore straniero o del gender nelle scuole. Sul nero che ti toglie il lavoro e che violenta le tue donne. Sul gay che vuole corrompere i tuoi figli o farti chiamare “genitore 1”, “genitore 2”.

«Ho subito due episodi di razzismo molto violento in ambito lavorativo, entrambi durante una campagna elettorale. Prima nel 2018, quella più recente ad agosto». Racconta Nandi Ngaso nato in Camerun, è arrivato in Italia a 19 anni. Ha studiato, si è laureato in Medicina e chirurgia, ha lavorato con la Croce Rossa per anni e infine ha deciso di dedicarsi alla medicina d’urgenza. Noto alle cronache per aver denunciato un’aggressione razzista al punto di primo soccorso di Lignano, in Friuli-Venezia Giulia. «Preferivo due costole rotte che farmi visitare da un negro», gli ha urlato contro un paziente arrivato nel cuore della notte con fratture multiple a causa di una rissa. «Ogni parola violenta di un politico arma un cittadino in un modo o nell’altro. Pensiamo al video di Giorgia Meloni che durante un comizio spiega che si dovrebbe fare una vera e propria selezione di migranti prediligendo quelli in Venezuela perché bianchi. Oppure a quello in cui Salvini e Meloni parlano di “sostituzione etnica”. Questo è il linguaggio che attraversa la mia vita. Se mi trovo davanti una persona che mi aggredisce in quanto nero e musulmano, questa è la grammatica che usa. Per usare un’espressione cara alla leader di Fratelli d’Italia: la matrice è chiara».

Per Cyrus Rinaldi, professore associato di Sociologia del diritto della devianza e mutamento sociale al dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo «le recenti campagne politiche (tra cui Ungheria, Polonia, Turchia, Usa, Russia, Filippine, Brasile e adesso l’Italia) hanno sfruttato le emozioni di chi “si sente lasciato indietro”, promuovendo una nostalgia per un passato nazionale immaginato e contrapponendosi a nemici interni (le élite) e nemici esterni (nazioni, organizzazioni sovranazionali,) ed individuando “altri” non degni di riconoscimento (femministe, Lgbtqi+, membri di minoranze etniche e comunità migranti). Gran parte delle rivendicazioni dei partiti di destra (“sono una donna, sono una madre, sono cristiana” è uno dei leimotiv che rimbomba maggiormente) trasformano in istanza politica il risentimento e il senso di rivalsa “naturalizzando” i confini di genere e sessualità, una retorica ideologica che fa di questa “compattezza” in sé una arma, una motivazione politica in sé e per sé, una naturalizzazione delle rivendicazioni politiche».

Il mantra di una politica pura, identitaria, relazionale e nazionale (la famiglia eterosessuale, i ruoli “naturali” di uomini e donne, l’integrità territoriale e la sovranità nazionale) è pericolosissimo perché immette nel linguaggio e nell’agire comune parole e gesti indecenti, spiega Rinaldi: «Si tratta di un fenomeno noto nelle scienze sociali e che sostiene che gli individui siano motivati a mantenere un’identità sociale positiva e lo fanno confrontando lo status dei gruppi con cui si identificano con quello di altri gruppi. Quando, per via della presenza di altri gruppi “concorrenti”, alcuni percepiscono che il proprio status privilegiato è sottoposto a “minaccia” sperimentano forme frustrative che sfociano verosimilmente in forme di pregiudizio, aggressività e violenza.

La minaccia dello status di gruppo predice un aumento della discriminazione nei confronti dei gruppi “outsider” e prevede che l’aumento delle differenze rappresenti una minaccia per i bianchi etero-cis, una minaccia reale alle loro “risorse” e, al contempo, una minaccia simbolica per i loro “valori”. In questo modo compiere violenza - dai crimini di odio alle parole di odio - significa partecipare a messinscene in cui l’individuazione di vittime ha sia l’obiettivo che l’effetto drammaturgico di rafforzare l’identità e i valori egemonici degli aggressori, riportando tutto alla “normalità” ».

Quella campagna d'odio contro il Cav che ferì l'autonomia politica dell'Italia. Dal 2011 ai governi istituzionali, ebbe sempre ragione quando scelse da solo. Daniele Capezzone il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Lascio da parte - in questa sede - ogni giudizio di merito su tutti gli esecutivi ricompresi nell'arco temporale che sto per indicare: ma è un fatto che, da quando fu dimissionato (anzi: fatto dimissionare, all'indimenticabile grido «fate presto») il governo Berlusconi nel 2011 sotto i colpi dello spread per far posto alla giunta tecnica di Mario Monti, tutti i governi (da Monti in poi, appunto) hanno avuto scarsa o nulla parentela con il voto degli italiani. Intendiamoci bene: le procedure costituzionali sono state sempre formalmente rispettate, e gli esecutivi hanno goduto di regolare fiducia accordata dalle Camere secondo Costituzione. Nessun golpe, nessuna violazione di alcuna regola: ma - questo sì - una sistematica sterilizzazione del voto popolare, e un progressivo divario tra l'esercizio del kratos e la sua supposta fonte, cioè il demos.

A onor del vero, sine ira et studio, alcune pagine della nostra storia politica recente andrebbero riesaminate: (...) il 25 aprile del 2009, a Onna, l'Italia vide e ascoltò un Berlusconi triumphans, reduce da un primo anno di legislatura tutto sommato lusinghiero, espressione di un governo al massimo di fiducia e di consenso, capace in quel momento - a torto o a ragione - di unire una robusta maggioranza sociale (...). Nessuno sa davvero - oggi - se proprio allora sia scattato un qualche clic, se sia entrato in azione un network, una rete di forze e soprattutto di portatori di interessi politici, finanziari, editoriali, imprenditoriali, certamente non solo italiani. Sta di fatto che, dalle settimane immediatamente successive, si scatenò una valanga di attacchi, un vero e proprio assalto in crescendo: un grappolo di rivelazioni «private», una cascata di iniziative giudiziarie, e campagne mediatiche martellanti e concentriche. (...) Poi la primavera-estate-autunno del 2011, con il lavorio antiberlusconiano dentro il PPE, l'azione corrosiva delle cancellerie, e il vertice di Cannes (...) con le formidabili pressioni merkeliane per imporre a Italia e Spagna una specie di anomalo salvataggio/commissariamento da parte del Fondo monetario internazionale, dopo una stagione di artificiosa altalena degli spread (...). Nel frattempo, dopo un voto, quello di inizio 2013, e un formidabile mese finale di campagna elettorale in cui Berlusconi si liberò (purtroppo, per poco) di alcuni consiglieri, della sudditanza al montismo, e riassunse toni antitasse, rimontando su Pierluigi Bersani e acciuffando un incredibile pareggio, si transitò verso un'altra legislatura improntata allo stallo politico e alla liquidazione progressiva del centrodestra: fallimento delle larghe intese (governo a guida di Enrico Letta), fuoriuscita di Angelino Alfano dal partito di Berlusconi (...), fino all'avvio dell'esecutivo guidato da Matteo Renzi. E intanto, lo stringersi della morsa giudiziaria: una condanna a dir poco discutibile contro Berlusconi, una manciata di altre inchieste pronte all'uso, l'atteggiamento pilatesco di Giorgio Napolitano, l'espulsione del Cav dal Senato, i servizi sociali. Chi scrive può parlare essendo «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio»: fui molto vicino a Berlusconi, fornendogli qualche consiglio liberale (forse utile e coraggioso) nel momento in cui era in assoluto più solo (la campagna elettorale di febbraio 2013), e ne presi politicamente le distanze più tardi quando scelse (in Italia) il patto del Nazareno con Matteo Renzi (...).

Dissi allora e dico oggi con convinzione ancora maggiore che, per quante contestazioni si possano e si potessero fare a Berlusconi, in quei due, tre anni fu oggetto di un trattamento che, per colpire lui, ferì anche l'autonomia della politica e l'autonomia dell'Italia. E se Berlusconi ha avuto un torto maggiore, è stato quello di aver detto sì ai suoi consiglieri pronti ad allinearlo - in ultima analisi - ai desiderata istituzionali.

A Carrara scatta la caccia al leghista. I "compagni" attaccano anche le donne. Il «rischio per la democrazia» paventato dal Pd finisce puntualmente per provocare un'impennata di intolleranza nei confronti del centrodestra. Pietro De Leo Il Tempo il 12 settembre 2022

Oramai è una costante delle campagne elettorali dalla nascita della Seconda Repubblica. Certo, non v' è prova della consequenzialità tra le due cose ma, nei fatti, al grido d'allarme della sinistra circa gli sfaceli democratici che sarebbero causati da una vittoria del centrodestra si affianca, contro gli esponenti di quest' area una sequela di atti vandalici, minacce, intimidazioni. Forse sarà che qualche testa calda si autointesta il ruolo di liberatore della Nazione, o forse sono focolai di violenza politica duri ad estirparsi nel nostro Paese, ma fatto sta che per i leader del centrodestra, mostrificati all'inverosimile, la contesa elettorale non è mai una passeggiata di salute per la loro incolumità. Così come per i loro militanti.

Ne sanno qualcosa i leghisti di Marina di Carrara, che hanno denunciato un'aggressione durante una normale giornata di militanza ai gazebo, l'altra sera. La nota della Lega parla di «almeno 50 violenti scatenati», e di volontari del partito «picchiati anche con aste di bandiere (donne comprese)» e ancora «gazebo e tavolini devastati».

La settimana prima, una dinamica simile l'avevano subita i militanti di Fratelli d'Italia a Milano, in viale Papiniano. Dove un gruppetto di incappucciati, con il volto celato dietro le mascherine, si è accanito contro un gazebo, vandalizzandolo. La Digos ha in poco tempo individuato i responsabili, appartenenti all'area antagonista. Nello stesso giorno, a Rivarolo, in provincia di Torino, anche alcuni attivisti della Lega che avevano messo in piedi un banchetto hanno passato un brutto quarto d'ora. Un ragazzo, infatti, ha dato in escandescenze contro di loro, gridando insulti e buttando all'aria il materiale elettorale. Poi è scappato, ma per fortuna è stato quasi subito fermato da Carabinieri e Vigili Urbani.

Sempre al capitolo materiale elettorale deturpato, si ricordano i manifesti di Giorgia Meloni strappati a Olbia, con tanto di video divenuto virale, da un gruppo di femministe dopo una manifestazione.

Poi c'è un'altra costante, che riemerge in tutta la sua inquietudine, ossia la lettera minatoria. Ne sono state spedite due, alla redazione de L'Adige e al gruppo consiliare trentino di Fratelli d'Italia qualche giorno fa, contenente minacce di morte ai candidati locali del partito, Alessia Ambrosi ed Alessandro Urzì, e alla stessa Giorgia Meloni.

Nella missiva si faceva riferimento anche a un «autunno caldo e di fuoco». Firma: «Nuove Brigate Rosse». Questa vicenda appare particolarmente grave per un paio di aspetti: il primo è che è stata spedita alla vigilia dell'arrivo della Presidente di Fratelli d'Italia in quei luoghi per la campagna elettorale. Il secondo è che, mezzo secolo fa, proprio Trento fu terreno di coltura del gruppo originario delle Br.

Non mancano, poi, come sempre, le evocazioni di Piazzale Loreto. Ecco allora che, ad agosto, un manifesto di Giorgia Meloni è stato appeso al contrario, e dunque a testa in giù, in una pensilina per l'attesa dell'autobus a Treviso. E a ridosso della caduta del governo Draghi, quindi quando la campagna elettorale era in fase di accensione dei motori, ignoti hanno staccato un volantino con la foto di Salvini dalla bacheca locale della Lega a Marano Vicentino e lo hanno ri-appeso capovolto. Sempre in quei giorni, poi, a Genova su un muro compare una scritta, stavolta riferita al leader di Forza Italia: «S.Berlusconi morto», con l'aggiunta «P.38» ad evocare la pistola simbolo iconico degli Anni di Piombo. Sempre al capitolo graffiti, ecco che a Trento, su alcuni pannelli espositivi dei manifesti elettorali, viene impressa una scritta, «Uccidi Fugatti», ossia Maurizio, il presidente della provincia, Leghista.

Poi c'è l'ampia casistica social. Qui, come noto, c'è chi picchia in maniera forsennata sui tasti, producendo l'indicibile. La leader di Fratelli d'Italia, qualche settimana fa, ne ha fornito un eloquente «saggio» sui suoi social, dove ha riportato una piccola galleria di offese, improperi, malauguri che ogni giorno le arrivano a valanga. Alcuni contengono insulti di un livello talmente grave da non poter essere riportati, ma basti pensare che l'immagine di Piazzale Loreto è assai ricorrente, come da triste consuetudine. E poi c'è chi invoca per lei colpi di pistola. In questa campagna elettorale non sono mancati nemmeno quelli. Sono stati esplosi contro gli uffici della segreteria politica del deputato di Forza Italia Francesco Cannizzaro, ricandidato. Sulla vicenda indaga anche la Direzione distrettuale antimafia, e dunque gli accertamenti diranno se si tratta di un'intimidazione riconducibile alla criminalità organizzata. Ma anche escludendo l'odio ideologico come movente, in ogni caso è l'ennesimo fatto brutto che si incardina in un puzzle di una corsa elettorale lordata dalla violenza, praticata o evocata, contro il centrodestra.

Voto di scambio in salsa grillina. È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Augusto Minzolini il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.

È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Dopo la fallimentare esperienza - per usare un eufemismo - dei due governi Conte o devi essere affetto da puro masochismo, o devi essere del tutto fuori di testa, o deve piacerti il travaglismo più «hard» se desideri davvero rivedere i grillini alla prova. Eppure a guardare i sondaggi Conte e soci sono ancora là. Attorno al 10%. E dalla analisi accurata delle indagini che ha riportato ieri su questo giornale Paolo Bracalini le zone dove lo zoccolo duro grillino appare più radicato sono al Sud, in particolar modo dove c'è una maggiore presenza di percettori del reddito di cittadinanza. Una situazione che rende difficile per i candidati degli altri partiti in loco proporre almeno una riforma della legge viste le tante distorsioni che presenta. Alla fine c'è chi preferisce perdere i freni inibitori come Dario Franceschini che, candidato in Campania dove il reddito di cittadinanza ha assunto il valore del dogma, ha rimosso del tutto dalla sua mente le cronache delle truffe che hanno costellato l'applicazione della norma e lo ha trasformato in un tabù ideologico che precede pure l'agenda Draghi. «Giù le mani dal reddito» è il suo slogan elettorale: punto e basta.

Ma nel Paese che si è inventato il reato del «voto di scambio», nel quale c'è una larga applicazione di quelli sulla «corruzione elettorale» o «sul traffico di influenze», dove per una raccomandazione per un lavoro finisci dietro le sbarre, stride o almeno suscita un minimo di ironia che il meccanismo del «do ut des» sia stato addirittura istituzionalizzato: tu mi garantisci quella cifra (che a seconda dei nuclei famigliari va da 500 a 1200 euro) per starmene a casa e io ti voto. Perché alla fine di tutti i discorsi e di tutti i ragionamenti la sostanza è questa.

E lo «scambio» non si chiude in un'elezione come le scarpe che Achille Lauro prometteva agli elettori, cioè una prima del voto e una dopo, ma si prolunga nel tempo perché l'unico argomento che hanno i 5stelle in questa campagna elettorale è la promessa che il reddito non sarà cancellato o, magari, riformato. Per cui anche chi lo prende di straforo, anche chi truffa guarda ai grillini. Così il «do ut des» rischia di essere perpetuo: il reddito in cambio del voto per una vita.

Eppure il provvedimento è pieno di lacune, era stato immaginato innanzitutto per trovare un lavoro ai disoccupati. Addirittura era stata introdotta la figura dei «navigator» per raggiungere questo obiettivo ma da questo punto di vista la legge si è rivelata un fallimento. Ha creato, però, un meccanismo paradossale: i candidati grillini promettono di garantire il reddito ai loro elettori che lo percepiscono in poltrona a casa e in cambio si assicurano una poltrona in Parlamento e uno stipendio da parlamentari. Reddito per reddito. Una furbizia ben congegnata. In linea con la filosofia grillina, ma che a quanto pare sta facendo adepti in un Pd sbandato che non trova argomenti. Vedi, appunto, Franceschini. E se questo è il ricatto è difficile che questa norma piena di limiti sarà mai riformata. Continuerà a non trovare lavoro chi non ne ha, ma nel contempo proseguirà questa sorta di «voto di scambio» tra nullafacenti della società civile e nullafacenti del Palazzo. 

Movimento 5 nullafacenti: Conte al 10% grazie al reddito minimo. I dati sui percettori del reddito rispecchiano i voti che prenderanno i grillini. Salvatore Di Bartolo su Nicola Porro.it il 4 Settembre 2022.

È il reddito di cittadinanza a mantenere in vita i Cinque Stelle. A certificarlo il sondaggio sulle intenzioni di voto curato da Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera, secondo cui è proprio il sussidio che riesce ad assicurare al Movimento un bacino di voti superiore al 10 per cento. La tesi di Pagnoncelli è peraltro suffragata da numeri che appaiono inequivocabili. Su un totale di 30 milioni circa di elettori che domenica 25 settembre si recheranno alle urne (il dato tiene già in considerazione gli astenuti) il M5s si attesterebbe attorno al 12 per cento, ovvero 3,4 milioni di voti circa. Un numero che, dati alla mano, appare perfettamente sovrapponibile all’attuale platea dei beneficiari del sussidio.

Secondo i dati Inps, infatti, i nuclei familiari beneficiari di reddito di cittadinanza sono attualmente 1,61 milioni, per un totale di 3,52 milioni di soggetti coinvolti. Più o meno il numero degli elettori che – secondo il sondaggio – il prossimo 25 settembre dovrebbero barrare il simbolo del Movimento 5 Stelle sulla scheda elettorale. Potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza? La risposta è no. Perché ad avvalorare ulteriormente la tesi di Nando Pagnoncelli ci pensa la geografia. Secondo i già citati dati Inps, al Nord i percettori del sussidio grillino ammontano a 443 mila, al Centro a 340 mila, mentre oltre 1,7 milioni si trovano nelle regioni del Sud.

Osservando nel dettaglio la distribuzione dei percettori si può osservare come il 22 per cento di essi si trovi in Campania, regione che da sola conta più beneficiari dell’intero nord Italia. Dando un’occhiata ai sondaggi politici realizzati da Pagnoncelli si scopre poi come i Cinque stelle siano accreditati al 20 per cento in Campania, guarda caso una percentuale quasi corrispondente a quella dei beneficiari dell’assegno pentastellato. Al contrario, il consenso di cui godono i grillini al Nord è alquanto limitato, esattamente come il numero dei percettori.

Lo studio di Pagnoncelli conferma dunque, laddove ve ne fosse ancora la necessità, cosa realmente sia il reddito di cittadinanza: una gigantesca operazione di voto di scambio. Probabilmente la più imponente che sia mai stata realizzata nella storia repubblicana. Salvatore Di Bartolo, 4 settembre 2022

Da liberoquotidiano.it il 4 settembre 2022.

I nostri fini commentatori della stampa Pd-oriented si sono affrettati a definirla «sottile ironia tedesca», ma la sparata comparsa nel titolo di un articolo del noto Sueddeutsche Zeitung è un rutto in faccia a tutti gli italiani. La frase, senza tanti giri di parole, è la seguente: «Fugace come una scorreggia». Si riferisce al fatto che noi italiani, superficialoni, mangia-spaghetti e sregolati, per i tedeschi siamo anche dei campioni di inaffidabilità politica. 

Ci vedono così e non è neppure la prima volta. Adesso, però, c'è l'aggravante delle elezioni che incombono, Giorgia Meloni è in vetta ai sondaggi e per gli analisti stranieri, che mai avrebbero immaginato la caduta di Mario Draghi, una vittoria della destra sarebbe un dramma per l'Europa. Come se ne esce?

Con la convinzione che questo incubo finisca presto perché, intanto, gli italiani cambiano opinione come cambia il vento, pardòn l'aria, infatti è là che i tedeschi vanno a parare, alla volatilità del nostro corpo elettorale, volubile e farfallone. Un governo via l'altro quasi senza accorgersene, come la fuoriuscita di gas intestinale. Si legge, infatti, nell'articolo di Oliver Meiler: «L'Italia si è innamorata di nuovo, questa volta della postfascista Meloni. La cosa positiva è che (gli italiani) si disinnamorano altrettanto velocemente.

In un Paese che evidentemente tutti possono governare una volta». Peccato che Meiler analizzi la situazione in un colloquio con due giornalisti quali Aldo Cazzullo (Corriere) e Filippo Ceccarelli (La Repubblica), e le interviste si basino sulla rapidità con cui cambiamo gusti. «Questo è possibile solo da noi», conferma la firma di largo Fochetti, «da Draghi a Meloni, con massima disinvoltura. Danzando». L'articolo fa il giro del web, monta il caso, si rischia l'incidente diplomatico e una reazione dura di Meloni, che ha sempre criticato chi parla male dell'Italia.

Ceccarelli, da 40 anni osservatore attento della politica italiana, dalla più alta a certa becera Suburra, si giustifica: «La frase di SZ non si riferiva a un partito né a un leader, ma al tradizionale e italianissimo fenomeno del salto sul carro del vincitore, con inni, tamburi- questo nella traduzione- famiglie con la nonna che scoreggia, tutti cantano, ballano, siamo fatti così, sempre chiassosi ed esaltati». Sarà, ed è anche vero che la politica è «sangue e m...», ma l'articolo tedesco è una caduta di stile, l'ennesimo attacco da Berlino per cui siamo ancora quelli là: mafia e mandolino. Pure un po' fascisti.

QUINDICI ANNI DI ERRORI E FAVORI. Dai balneari ai Benetton, Giorgia Meloni pensa che le concessioni siano regali di stato ai privati. STEFANO FELTRI, direttore. su Il Domani il 3 agosto 2022 La campagna elettorale costringe, quasi ogni giorno, Giorgia Meloni ad avventurarsi nel territorio per lei sconosciuto dell’economia. 

Giorgia Meloni difende le concessioni ai blaneari ma vorrebbe riformare quelle dei grandi gruppi. 

Nel 2008 fu proprio lei, al governo, a prolungare per trent’anni quella delle Autostrade al gruppo controllato dalla famiglia Benetton. 

La campagna elettorale costringe, quasi ogni giorno, Giorgia Meloni ad avventurarsi nel territorio per lei sconosciuto dell’economia. Nell’ennesima intervista al Corriere della Sera, la leader di Fratelli d’Italia spiega la sua singolare idea di mercato: «Mi ha sempre incuriosito la visione di concorrenza e libero mercato di alcuni che proteggono e coccolano le grandi concentrazioni economiche, le grandi rendite di posizione dei monopolisti, si schierano con chi ha il controllo delle concessioni pubbliche di autostrade e aeroporti, ma invocano la concorrenza per tassisti, balneari e ambulanti».

Pochi giorni fa, a essere pignoli, lei stessa si candidava come referente dei grandi gruppi e prometteva più monopoli e rendite di posizione quando, in una intervista al Quotidiano nazionale, diceva che «Italia e Unione europea devono stabilire quali sono filiere nazionali irrinunciabili e vitali e organizzare filiere nazionali e, laddove non è possibile, affidarsi a filiere europee».

Niente genera rendite di posizione come la produzione organizzata e protetta dalla politica (perché se il mercato non produce da solo filiere nazionali, significa che sono inefficienti e dunque, per esistere, vanno sussidiate).

A DIFESA DELLE LOBBY

La linea di coerenza c’è invece nella difesa di lobby e corporazioni che si appropriano di beni pubblici e li trattano come fossero loro, spesso anche rifiutando i controlli anti evasione fiscale (e infatti Meloni propone di alzare i tetti all’uso del contante). Per tutta la legislatura, Meloni ha continuato a proporre concessioni sostanzialmente eterne per i balneari a cui chiede il voto, con proroghe di 75 anni, mentre quelle nuove – le uniche da mettere a gara – dovrebbero durare almeno 20 anni.

Ora, queste proroghe sono illegali, nel senso che violano le direttive europee, tanto che alla fine anche il governo Draghi si è dovuto adeguare per evitare la procedura di infrazione e dal 2023 scatteranno le gare. Meloni però, non ha mai veramente capito il come funziona il modello: il suo argomento per giustificare la proroga delle concessioni è che il balneare deve essere «libero di investire» sul suo stabilimento. Come se la concessione a scadenza invece lo espropriasse, e quindi dovesse – di fatto – essere equiparata a un regalo.

L’assurdità del ragionamento è palese: se Tizio ottiene un bene in concessione per 10 anni, il primo anno deciderà quali investimenti fare considerando che nell’arco del decennio devono fruttargli abbastanza da ripagare i costi e garantirgli un profitto maggiore. Un problema che riguarda lui, non c’è alcuna esternalità positiva per la società se su una spiaggia invece di un chiringuito e quattro sdraio c’è una colata di cemento e lettini in batteria. Anzi.

Se il balneare sbaglia i conti e non rientra dall’investimento, sono problemi suoi. Al massimo la concessione può stabilire delle tariffe di subentro: mettiamo che investa 50.000 euro al quinto anno che si ammortizzano su un arco decennale, e la concessione scade dopo cinque anni, se la ottiene un imprenditore diverso sarà lui a indennizzare il costo che ancora non è stato ammortizzato. In alcuni contesti le gare prevedono addirittura che il subentrante si faccia carico anche dei dipendenti, figurarsi se è un problema qualche pensilina di cemento  e qualche piscinetta. 

Tutto qua: le gare servono esattamente a questo, a far in modo che la rendita derivante dal fatto che le spiagge sono, per definizione, monopoli naturali vada ai balneari invece che allo Stato. Ma Giorgia Meloni, invece, vuole regalare le spiagge ai suoi elettori costieri, che sono meno dei bagnanti penalizzati ma assai più organizzati.

IL REGALO DI MELONI AI BENETTON

L’apparente difficoltà a capire i meccanismi delle concessioni deve essere antica. Perché la Giorgia Meloni che oggi minaccia sfracelli contro i concessionari è la stessa che faceva parte nel 2008 del governo Berlusconi che ha prolungato la concessione ad Autostrade per l’Italia, nel provvedimento più clamoroso della lunga serie di favori politici e alla famiglia Benetton azionista. Già all’epoca era noto come “decreto salva Benetton”, visto che garantiva aumenti e remunerazione degli investimenti fino al 2038.

In quei mesi, Meloni, ministro della Gioventù, non si occupava di queste minuzie ma proponeva le sue idee prive di ogni riscontro concreto come «l’Erasmus per i politici» e vaghe proposte di «assunzioni di giovani senza raccomandazioni».

Dopo il crollo del ponte Morandi gestito da Autostrade, il leader della Lega Matteo Salvini ha ammesso l’errore, non si trova traccia di pentimenti di Giorgia Meloni che si è limitata a contestare l’incoerenza del governo Conte I che proponeva la revoca della concessione ma non la attuava. 

Peraltro, sarebbe un curioso paradosso se un governo Meloni rivedesse in senso peggiorativo la concessione tra lo Stato e Autostrade adesso che la Cassa depositi e prestiti ha ricomprato la quota di controllo da Atlantia per oltre 8 miliardi di euro.

 Una riduzione della redditività attesa – comunque difficile da fare senza infiniti contenziosi legali – finirebbe per penalizzare soltanto lo Stato azionista, non certo i Benetton che ormai hanno incassato il loro tesoretto. 

Altra nota curiosa: il decreto Salva-Benetton promoosso dal governo Berlusconi, con dentro Meloni, nel 2008 serviva a propiziare l’ingresso di Atlantia nella cordata per uno dei tanti tentativi (fallimentari) di salvare Alitalia. Ovviamente non ha funzionato, ma ora che la nuova versione di Alitalia, cioè Ita Airways, è prossima finalmente alla vendita, ecco che Giorgia Meloni si prepara a tornare al governo e promette di evitare la cessione a Lufthansa-Msc. Chissà a quale costo occulto per i contribuenti italiani, visto come è andata l’altra volta. 

C’è da sperare che in un possibile governo di centrodestra ci sia anche qualcuno che di concessioni e concorrenza se ne intende più di Giorgia Meloni.

Ruoli invertiti, lei ora è atlantista. Meloni-Salvini alleati-nemici, a Cernobbio tra risate e sfottò è rottura su tutto: sanzioni, flat tax… e slide. Redazione su Il Riformista il 4 Settembre 2022

Dal siparietto sulle slide alle visioni quasi del tutto opposte nonostante la presenza nella stessa coalizione. Giorgia Meloni e Matteo Salvini sempre più alleati nemici. A cristallizzare le divergenze ci ha pensato il forum Ambrosetti di Cernobbio (Como) dove è andato in scena, davanti ad economisti, imprenditori e ministri del governo Draghi, il primo faccia a faccia tra i leader dei principali partiti in vista delle elezioni del 25 settembre.

C’erano Letta, Calenda, Conte (in collegamento da Napoli) e Tajani. Ma c’erano soprattutto loro, Giorgia e Matteo, seduti uno di fianco all’altro e pronti a punzecchiarsi sulla guerra in Ucraina, le sanzioni alla Russia, lo scostamento di bilancio e le proposte avanzate in campagna elettorale, vedi la flat tax al 15% caldeggiata dalla Lega (“non faccio promesse che non posso mantenere, bisogna considerare i conti pubblici” ha commentato Meloni).

A mettere le mani avanti è la stessa presidente di Fratelli d’Italia, considerata in ascesa nei sondaggi, che prova a chiarire le visioni differenti presenti nella sua coalizione: “Nel centrodestra ci sono sfumature ma sulla visione siamo d’accordo. Per esempio sull’approccio produttivista, sul tema delle tasse, sulla centralità della famiglia e sulla libertà economica. Poi io posso dire che la flat tax deve essere incrementale, Berlusconi la propone al 23% e Salvini al 15% – ha concluso – ma sul principio di abbassare le tasse siamo d’accordo”.

Quando Salvini ribadisce la sua posizione sulle sanzioni alla Russia che danneggiano gli imprenditori italiani, Meloni viene immortalata mentre si mette le mani in faccia, forse in segno di disapprovazione. Disapprovazione anche sullo scostamento di bilancio chiesto dalla Lega e da altri partiti al governo Draghi. Per Meloni infatti è difficile con questi livelli d’indebitamento.

Salvini però non arretra, anzi. Ribadisce la flat tax al 15%, rilancia lo scostamento di bilancio per aiutare famiglie e imprese in un momento storico dove è aumentato tutto e lancia la proposta (che garba poco a Fratelli d’Italia) di un Ministero, quello dell’Innovazione, con sede a Milano.

Poi il siparietto sulle slide con cui Salvini ha aperto il suo intervento (“Parto da quello di cui avete discusso e mi permetto di farlo con qualche slide”), durato dieci minuti e quasi del tutto dedicato al tema delle sanzioni alla Russia. “Le slide? Dai...” ride Meloni. “Eh, le slide… poca spesa, molta resa” replica il segretario del Carroccio.

Sulle sanzioni imposte alla Russia, Salvini incalza riportando le parole di un imprenditore (“forse presente anche qui”): “Nessuno dirà che le sanzioni alla Russia ci danneggiano” ma “eccomi! L’alto rappresentante della politica estera Ue a febbraio diceva che le sanzioni avrebbero evitato che i russi venissero a fare shopping in Europa. Non mi pare sia andata così”. E ancora: “Le sanzioni ad oggi hanno comportato un surplus commerciale di 140 miliardi di dollari nelle casse russe. Il rublo non è mai stato così forte”. Nel finale ammorbidisce il tiro: “Non dico di abolire le sanzioni, ma serve uno scudo europeo per non danneggiarci”.

Sulle sanzioni alla Russia, Meloni dichiara invece l’esatto opposto con un discorso atlantista, in linea con quello del governo Draghi. “Se l’Italia si sfila dai suoi alleati, per Kiev non cambia niente ma per noi sì” perché è una questione “di credibilità”. “Se l’Ucraina cade e l’Occidente perisce, il vincitore non sarà solo la Russia di Putin ma la Cina”. Dunque le sanzioni restino, è il ragionamento di Meloni.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 5 settembre 2022.

Lei le definisce «sfumature». Lui nega qualsiasi contrapposizione: «Un duello tra di noi? Non so a cosa ci si riferisca». Eppure nella terz' ultima domenica pre elettorale, al Forum di Cernobbio, i due front runner del centrodestra, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, hanno continuato a marcarsi e smarcarsi tra loro, anche se sul palco hanno cercato di smussare alcune differenze. Per esempio sulla Russia.

«Se l'Italia si sfila da sanzioni e armi perde credibilità», ha detto Meloni, che sin dall'inizio ha posto la fedeltà al patto atlantico come pre condizione dell'asse con Lega e Forza Italia. E Salvini, più critico, ha ricordato che è il caso di chiedersi se le sanzioni «danneggino più chi le fa che chi le subisce». Ma precisando che «noi della Lega abbiamo sempre votato le sanzioni e il loro mantenimento» e la posizione del centrodestra è univoca.

Per Antonio Tajani, che considera le misure contro Mosca «inevitabili», le divisioni nella coalizione sono «una barzelletta».

Insomma, si va avanti così da settimane, tra scintille e aggiustamenti, tra professioni di unità e distinguo mirati, come a Cernobbio, con un occhio alla platea e l'altro ai sondaggi. E forse non si tratta solo di giocare a trovare le differenze tra i programmi dei tre alleati, quanto di strategie. 

Forse ieri Salvini aveva in mente l'ultima rilevazione settimanale di Termometro Politico con il 51% degli intervistati convinto che l'Italia dovrebbe modificare l'atteggiamento verso la Russia. Il leader del Carroccio parla al suo elettorato? La competizione interna potrebbe anche giocare a favore della squadra: per i tre partiti, marciare a volte divisi può voler dire colpire uniti elettorati diversi.

Così anche sui temi dell'economia: sullo scostamento di bilancio per esempio Meloni a Cernobbio ha ripetuto il suo no, Salvini invece insiste («proteggiamo l'Italia e le famiglie»). Salvini e Berlusconi nelle ultime settimane sembrano molto impegnati nella rincorsa al primato della Meloni, di gran lunga in testa nei sondaggi. E i distinguo si notano di più su giustizia, immigrazione, reddito di cittadinanza. Partiamo proprio da qui. La Meloni lo vuole abolire «perché è culturalmente sbagliato». 

Lega e Forza Italia puntano a «rimodularlo». Sono 3,5 milioni in Italia i percettori di reddito di cittadinanza, di cui 2,3 milioni nel Mezzogiorno. «Il reddito deve restare alle persone che sono povere e a cui ha dato la possibilità di vivere - dice il Cavaliere -. Dobbiamo invece vedere di modificare la situazione con i giovani».

E così Salvini: «Lo lasceremo a chi non può realmente lavorare, ovvero a disabili, minorenni, anziani con la pensione di cittadinanza». Capitolo migranti: Giorgia Meloni ha più volte parlato di «blocco navale», Salvini lo scarta: «Nel programma non c'è nessun blocco navale, non facciamo la battaglia navale con i sommergibili ci sono i decreti sicurezza». Berlusconi ricorda l'efficacia del patto con Gheddafi in Libia. 

Anche sulla giustizia non c'è unanimità. L'ultima lite è sull'immunità parlamentare. FdI, con l'ex magistrato Carlo Nordio vorrebbe reintrodurla («Aveva ragione Bettino Craxi»). La Lega con Giulia Bongiorno, è tranchant: «Non è nel programma». E se l'autonomia è imprescindibile per il Carroccio, FdI avverte «niente fughe in avanti».

Estratto dell’articolo di Francesco Bei per “la Repubblica” il 5 settembre 2022. 

Al tavolo del forum di Cernobbio i toni si scaldano e l'unico scontro personale, violento, è quello tra Carlo Calenda e Antonio Tajani, che finisce a insulti quando il coordinatore di Forza Italia ricorda all'avversario di aver cambiato molti partiti e di essere un «falso».

Lontano dai giornalisti, a sorpresa i due leader si ritrovano insieme alla toilette a dibattito concluso. È Calenda a prendere il posto in piedi nell'orinatoio accanto a Tajani: «Vengo a farla accanto a te per fare pace». Tajani sorride: «Il mio è stato un attacco politico, niente di personale». «Solo business», replica il leader di Azione. 

Se la toilette porta i due esponenti di centro a fare pace, è sempre un bagno a creare un incidente con Giorgia Meloni. Per evitare la ressa di cronisti la leader di Fratelli d'Italia chiede infatti aiuto a un'agente che la scorta nella toilette riservata alle forze dell'ordine.

Peccato che il locale si trovi proprio accanto alla sala stampa, dove accade l'inevitabile: una torma di giornalisti e cameramen si accorge della "preda" e si mette letteralmente ad assediare la porta chiusa del bagno di Meloni. Sconcerto dell'entourage di Meloni e sfogo contro l'incauta poliziotta: ma proprio qui la dovevate portare a farla??  […]

Estratto dell’articolo di Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 5 settembre 2022.

Ci sono la commozione di Renato Brunetta e le scintille tra Carlo Calenda e Antonio Tajani, risolte poi alla toilette. C’è Giorgia Meloni che si copre gli occhi mentre Matteo Salvini parla delle sanzioni alla Russia, e c’è lo stesso Salvini che di fronte a Enrico Letta pronuncia forte la parola «sereno». L’ultima giornata del Forum Ambrosetti di Cernobbio è anche questo: una galleria di piccoli incidenti diplomatici, siparietti, momenti più toccanti.

Il primo è appunto quando parla Renato Brunetta: «Ho preferito - dice alla platea il ministro alla Pubblica amministrazione - continuare a fare questo mestiere ancora per due mesi e poi tornare a fare il mio vecchio mestiere, quello di professore, siccome ho le idee confuse anche io... Il mio spirito di volontà è quello di continuare a dare una mano al mio Paese, anche senza essere in Parlamento». Brunetta lo ammette con un po’ di lucciconi: «È stata una decisione non facile, dolorosa… però come le decisioni non facili e dolorose penso sia foriera di cose buone. Un momento di verità ognuno deve farlo prima dentro se stesso, e poi chiederlo al Paese».

Poco più tardi, il direttore del Corriere Luciano Fontana sta per dare la parola a un nuovo relatore: «Andiamo avanti…». «Sereni» interviene Matteo Salvini, seduto poco distante dal segretario Pd Enrico Letta. Un brusio si accende, il pensiero non può che correre all’«Enrico, stai sereno» di Matteo Renzi. «Ma nooo… non lo dicevo per lui - riprende Salvini - stavo parlando del derby». Chi di Renzi ferisce, di Renzi perisce: quando il coordinatore azzurro Antonio Tajani racconta di una sua telefonata da presidente del Parlamento europeo a Salvini, lo chiama «Matteo Renzi». «Salvini» lo corregge l’interessato.

[…] E ancora una volta si torna a Renzi. Con Calenda che racconta dei due momenti di difficoltà confessati dall’ex premier: «Quando ha parcheggiato l’aereo di Stato italiano vicino a quello, lungo il doppio, del presidente francese Hollande. E quando, alla Casa Bianca, si è trovato a fare la pipì accanto a Obama». 

Quando tocca a Giuseppe Conte, si misurano le perduranti difficoltà della banda larga nazionale. Il leader stellato è l’unico che non è in presenza e il suo intervento a distanza è complicato da almeno un paio di brevi blackout.

Quando tocca a Matteo Salvini, sorpresa: «Parto da quello di cui avete discusso e mi permetto di farlo con qualche slide». La sorpresa è anche di Giorgia Meloni: «Le slide? Ma come?». 

«Poca spesa, tanta resa» è la risposta. Poco più tardi, sarà forse la stanchezza, ma mentre Salvini parla delle sanzioni alla Russia come di iniziative che «possono danneggiare più i sanzionati che i sanzionatori», Meloni abbassa la testa e si mette le mani sugli occhi.

Estratto dall'articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 7 Settembre 2022.

"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente". È interessante che questo giudizio non venga dall'amministrazione Biden, ma da un ex alto funzionario nella Casa Bianca di Donald Trump. Già analista della Cia, Julia Friedlander era stata consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro, e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europe, and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Oggi è il ceo di Atlantik-Brücke, associazione non-profit al servizio dell'amicizia tra Germania e Usa, e da Berlino segue attentamente gli sviluppi geopolitici in Europa e le relazioni con Mosca. 

Come giudica i rapporti fra i politici europei e la Russia?

"Ci sono due categorie. Quelli che vedono un beneficio per il loro Paese mantenendo buone relazioni con Mosca, e quelli che invece lo fanno per guadagni politici personali. Cioè sono pronti a dare alla Russia, in cambio di quello che è quasi certamente un supporto finanziario. Qui si va a Salvini, Orbán e altri. 

Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shelf company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari". 

Salvini a quale categoria appartiene?

"Penso che abbia un interesse politico personale. Assolutamente". 

Basandosi su cosa?

"Ci sono connessioni ideologiche, ma anche obiettivi economici". 

Quali sono i meccanismi?

"Usano le shelf company, quelle che agiscono a nome degli interessi russi, gli oligarchi, o direttamente il Cremlino; oppure lavorano attraverso intermediari finanziari, o parti terze in Europa. Così sembra che ricevi una donazione da un Paese europeo, una corporation italiana che dà soldi, ma non è davvero italiana. Può essere un'azienda italiana, ma registrata da qualche parte in Europa. Ciò rende difficile capire che è il beneficiante e il beneficiato. Sono donazioni anonime o semi-anonime, non necessariamente perché sentono che il candidato non vuole si sappia da dove vengono i soldi, ma perché complicano il lavoro delle autorità per tracciarle". 

Un'ipotesi è l'uso di compagnie agroalimentari che conducono affari formalmente legittimi, ma poi donano parte dei profitti.

"Certo, è credibile". 

Ha sentito le registrazioni del braccio destro di Salvini per la Russia, Gianluca Savoini, all'Hotel Metropol di Mosca?

"Ho letto i rapporti. Forse parlavano di un side deal, un accordo sottobanco in cui usavano l'industria energetica come mezzo per riciclare soldi per la Lega, o Salvini stesso, ad esempio con falsi contratti. È un modo molto comune di riciclare i soldi, si chiama 'trade based money laundering'. Usi quello che sembra un contratto legittimo, con i soldi per i finanziamenti attaccati ad ogni tipo di attività economiche". [...] 

Giorgia Meloni ha promesso che se sarà premier l'Italia non diventerà l'anello debole con Mosca. Riuscirà a mantenere l'impegno, se dipenderà dalla Lega per governare?

"Mi pare un modo, se vuole essere premier, di dimostrare che l'Italia non diventerà un pariah in Europa abbandonando le sanzioni, e presentarsi come un candidato di estrema destra accettabile".

È credibile, considerando ad esempio la sua alleanza con Orbán?

"L'Italia non è l'Ungheria. È nel G7, ha forti legami militari con Nato e Usa. La mia impressione è che anche se sarà soggetta alle pressioni dei partner, difficilmente seguirà l'Ungheria". 

Perché Salvini è andato a Cernobbio con le slide contro le sanzioni? Idea sua, o ne ha parlato con i russi?

"Forse. Oppure voleva dire: ci ho provato. Mostrare che cerca di opporsi alle sanzioni, ma tutti gli fanno pressione, e deve cedere perché l'intera Ue lo stringe, e l'Italia ha bisogno dei soldi di Bruxelles. Serve ad avere una scusa, almeno ha baciato l'anello". 

Perché i russi si aspettano che adempia?

"Certo, si aspettano che dai. Ma, se confronti i soldi e il supporto che l'Italia riceve dalla Ue, credo che quanto offre Mosca non sarà mai sufficiente". 

Estratto dall'articolo di Fernando M. Magliaro per “Il Messaggero” il 7 Settembre 2022.

«Non temo il fascismo, temo il dilettantismo, il dare risposte semplicistiche a problemi complessi». Non usa la diplomazia Pier Ferdinando Casini intervenendo al convegno L'influenza del quadro internazionale sulle elezioni italiane organizzato nella prestigiosa sede della Fondazione don Luigi Sturzo a Roma. Insieme a Bruno Tabacci, Lucio D'Ubaldo, Claudio Mancini e Simona Colarizzi, Casini è stato molto netto: «Le forze politiche che chiedono oggi l'intervento di Draghi sulle bollette sono le stesse che hanno fatto cadere Draghi rendendo l'Italia debole ed ingovernabile in questa tempesta e sono gli stessi che guardano a Putin. Credo che la gente debba riflettere. È una cosa di irresponsabilità totale. A causa di questi atteggiamenti dilettanteschi rischiamo tra qualche mese di trovarci in una tempesta perfetta. A fronte di questo il Pd è l'unico argine».

Poi l'affondo secco contro il leader della Lega, Matteo Salvini: «Ogni volta che Salvini dice una cosa, il giorno dopo il Cremlino interviene per avallare. Il gioco è così grave che la Meloni non sa come districarsi perché il rischio vero non è solo per l'Italia ma anche per lei, che sia la vittima designata». […]

“Lega e M5S sono soci: hanno un asse segreto filo-Putin”, la rivelazione di Vincenzo Presutto. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Settembre 2022 

Vuota il sacco il senatore Vincenzo Presutto, braccio destro di Luigi Di Maio e co-fondatore di Impegno Civico (di cui è capolista per il Senato in Campania). Vuole fare luce sul mistero di quella nottata politicamente buia, democraticamente scivolosa – quella tra il 27 e il 28 gennaio – quando la giostra impazzita dei nomi proiettò quello di Elisabetta Belloni sul Quirinale. «L’accordo sul capo del Dis sembrava fatto, fu proposto all’unisono da Matteo Salvini e Giuseppe Conte e fatto accettare prima a Giorgia Meloni e poi a Enrico Letta, sembrò fatta tanto che perfino Grillo twittò per metterci il cappello», ricostruisce. «Era una trappola per la tenuta delle istituzioni. Serviva a produrre un terremoto: far cadere il governo Draghi, andare alle urne subito e rimettere in discussione la posizione atlantica italiana». Una manovra organizzata in quell’asse mai scisso tra Lega e M5S che secondo il Senatore, che ha rappresentato il Movimento in commissione Bilancio a Palazzo Madama fino a quattro mesi fa, doveva scardinare la storia e gettare alle ortiche Draghi e Mattarella in un colpo solo.

Perché parla adesso?

Perché è tutto più chiaro, a bocce ferme. Nitido.

Il M5S e la Lega sono più uniti di quanto sembra, ci dice?

Salvini e Conte hanno stabilito un’intesa profonda proprio dagli albori della legislatura, che è iniziata con la fine della coalizione di centrodestra e l’accordo forte e inaspettato tra i due partiti.

I russi dietro la caduta di Draghi, l’incontro tra il diplomatico di Putin e l’uomo di Salvini: “I vostri ministri si dimettono?”

Inchiesta della Stampa su rapporti con Putin e terremoto giudiziario a Terracina: chi c’è dietro gli scandali di Lega e FdI

Come è emerso Conte in quel frangente?

Lo ha presentato Alfonso Bonafede, che l’aveva conosciuto a Firenze. Non ha mai convinto davvero Beppe Grillo, mentre con Salvini l’asse è stato subito forte. Tanto che Conte si presentò inizialmente dicendo di avere una posizione intermedia tra Lega e Movimento, di essere esattamente a metà tra i due, e per questo fu indicato come Premier”.

Di Maio lo ha voluto e appoggiato a lungo, in una prima fase.

Di Maio ha preso coscienza piuttosto presto che qualcosa non andava. Anche nella gestione della pandemia, con l’arrivo dei militari russi e le continue aperture di credito alla Cina, alla tecnologia cinese nelle istituzioni. Da ministro degli Esteri, Di Maio ha potuto verificare che certe scivolate su Europa e Nato di Conte e Salvini non erano dettate solo dal populismo come matrice ma come matrioska.

E così hanno ricostruito un’intesa non per Belloni al Colle ma per andare al voto in primavera, proprio all’inizio della guerra tra Mosca e Kiev.

Esattamente. Una intesa segreta che voleva usare il Quirinale come grimaldello per un Parlamento nuovo e dunque una maggioranza filorussa o comunque meno schiacciata su Nato e Usa.

Un momento, l’invasione dell’Ucraina avviene il 24 febbraio.

A volerle vedere, c’erano informazioni sulle intenzioni di Putin. C’era chi sapeva cosa stava per accadere. Anche la nostra intelligence – per quanto mi è stato detto – aveva contezza dei movimenti di truppe al confine, degli arruolamenti straordinari a Mosca, dei treni carichi di mezzi militari: tutti segnali che gli analisti avevano registrato e che da noi qualcuno voleva interpretare con una maggioranza dall’orientamento opposto a quello di Mario Draghi.

Poi alla fine ce l’hanno fatta, Draghi a casa e tutti al voto.

Mesi dopo, ma con lo stesso asse. Noncuranti dell’emergenza gas, del Pnrr, della legge di bilancio.

Il M5S era un’isola, nella politica italiana. Questo di Conte cos’è?

Il M5S non esiste più, in realtà. È stato annientato dalla gestione fallimentare di Conte, che adesso ne ha fatto un suo partitino personale. Con il suo arrivo è iniziato un processo di involuzione serio e strano. Caratterizzato dall’estirpare tutti i principi fondativi del Movimento, fino a richiedere il 2 per mille. Che sono comunque contributi pubblici, per chi non lo avesse capito.

E Impegno Civico, come lo definisce?

Una forza stabilizzatrice. Di centrosinistra moderato. Europeista, atlantista. Orgogliosa del lavoro fatto con il governo Draghi e impegnata per darvi continuità anche nel futuro, e per tenere l’Italia lontana da tentazioni pericolose.

È vero che Di Maio ha ricevuto input e garanzie istituzionali per fare l’operazione scissione?

Va chiesto a lui. Posso dire che nel governo erano informati per tempo e che auspice della scissione fu senz’altro Bruno Tabacci, che ha seguito l’iniziativa dal principio è sempre stato vicino a Draghi e a Mattarella.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

L’accordo Salvini-Mosca: i retroscena sulle posizioni della Lega in campagna elettorale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Settembre 2022. 

Il quotidiano La Stampa svela l’accordo aveva durata quinquennale, quindi fino allo scorso marzo, ma alla scadenza si è rinnovato tacitamente per altri 5 anni, visto che nessuna delle due parti ha manifestato la volontà di recedere. Dunque, è tuttora in vigore. 

Quello riprodotto qui sotto è il testo pubblicato oggi dal quotidiano La Stampa, dell’accordo politico sottoscritto dalla Lega di Matteo Salvini con Russia Unita, il partito del presidente russo Vladimir Putin: lo stesso accordo che sabato sera il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha indicato come una delle ragioni della contrarietà del leader leghista alle sanzioni contro il Cremlino. È stato siglato a Mosca il 6 marzo 2017, poco più di un anno prima che la Lega arrivasse al governo.

A firmarlo con Salvini è stato Sergei Zheleniak, vice segretario generale per le relazioni internazionali di Russia Unita. Il quale già all’epoca era sotto sanzioni da parte di Ue e Stati Uniti, per il suo ruolo nell’occupazione della Crimea nel 2014, come lo è ora per l’invasione dell’Ucraina. L’accordo aveva durata quinquennale, quindi fino allo scorso marzo, ma alla scadenza si è rinnovato tacitamente per altri 5 anni, visto che nessuna delle due parti ha manifestato la volontà di recedere. Dunque, è tuttora in vigore. 

Salvini sulla piazza Rossa con la t-shirt di Putin Salvini con Gianluca Savoini sulla piazza Rossa 

Il Contratto Lega-Russia Unita

Il partito politico nazionale russo “Russia Unita” rappresentato dal Vice Segretario Generale del Consiglio per le Relazioni Internazionali S.V. Zhelezniak che agisce a titolo dello Statuto del Partito e della deliberazione del Presidium del Consiglio Generale del Partito del 28 Novembre 2016 da una parte, e dall’altra parte il partito politico “Lega Nord”, nella persona di Presidente del partito Matteo Salvini di seguito denominate “Parti”

– basandosi su un partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;

– esprimendo la volontà di facilitare l’espansione e l’approfondimento della cooperazione multilaterale e la collaborazione tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;

– tenendo conto che i rapporti tra i partiti sono una parte importante delle relazioni russo-italiane e sono finalizzate al loro pieno sviluppo;

– sulla base dei principi di sovranità statale, rispetto reciproco, non interferenza reciproca negli affari interni di ciascuno, partenariato paritario, affidabile e reciprocamente vantaggioso;

Hanno concordato quanto segue:

1  Le Parti si consulteranno e si scambieranno informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco.

2 Le Parti si scambieranno regolarmente delegazioni di partito a vari livelli, per organizzare riunioni di esperti, così come condurre altre attività bilaterali.

3 Le Parti promuovono attivamente le relazioni tra i partiti e i contatti a livello regionale.

4 Le Parti promuovono la creazione di relazioni tra i deputati della Duma di Stato dell’Assemblea Federale della Federazione Russa e l’organo legislativo della Repubblica Italiana, eletti dal partito politico nazionale russo “Russia Unita” e il partito politico “Lega Nord”, e anche organizzano lo scambio di esperienze in attività legislative.

Matteo Salvini e Vladimir Putin

5 Le Parti organizzeranno sotto gli auspici di seminari bilaterali e multilaterali, convegni, “tavole rotonde” sui temi più attuali delle relazioni russo-italiane, invitando una vasta gamma di professionisti e rappresentanti della società civile.

6 Le Parti promuovono attivamente lo sviluppo di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e la collaborazione di organizzazioni giovanili, femminili, culturali, umanitarie, ecc. al fine di rafforzare l’amicizia, la formazione giovanile nello spirito di patriottismo e di operosità.

7 Le Parti promuovono la cooperazione nei settori dell’economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi.

8 Il presente accordo entra in vigore all’atto della firma dei rappresentanti autorizzati delle Parti e ha una validità di 5 anni. L’accordo è automaticamente prorogato per successivi periodi di cinque anni, a meno che una delle Parti notifichi all’altra Parte entro e non oltre 6 mesi prima della scadenza dell’accordo la sua intenzione alla cessazione dello stesso.

9 L’accordo è concluso a Mosca il 6 marzo 2017, ed è redatto in due copie, in due esemplari autentici, in lingua russa e italiana.

10  Il presente accordo non è legalmente vincolante ed è solo una manifestazione di interesse delle Parti nella interazione e cooperazione. Redazione CdG 1947

Da “La Stampa” il 5 settembre 2022.

Quello riprodotto qui sotto è il testo dell'accordo politico sottoscritto dalla Lega di Matteo Salvini con Russia Unita, il partito del presidente russo Vladimir Putin: lo stesso accordo che sabato sera il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha indicato come una delle ragioni della contrarietà del leader leghista alle sanzioni contro il Cremlino. 

È stato siglato a Mosca il 6 marzo 2017, poco più di un anno prima che la Lega arrivasse al governo. A firmarlo con Salvini è stato Sergei Zheleniak, vice segretario generale per le relazioni internazionali di Russia Unita. Il quale già all'epoca era sotto sanzioni da parte di Ue e Stati Uniti, per il suo ruolo nell'occupazione della Crimea nel 2014, come lo è ora per l'invasione dell'Ucraina.

L'accordo aveva durata quinquennale, quindi fino allo scorso marzo, ma alla scadenza si è rinnovato tacitamente per altri 5 anni, visto che nessuna delle due parti ha manifestato la volontà di recedere. Dunque, è tuttora in vigore. 

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Il partito politico nazionale russo "Russia Unita" rappresentato dal Vice Segretario Generale del Consiglio per le Relazioni Internazionali S.V. Zhelezniak che agisce a titolo dello Statuto del Partito e della deliberazione del Presidium del Consiglio Generale del Partito del 28 Novembre 2016 da una parte, e dall'altra parte il partito politico "Lega Nord", nella persona di Presidente del partito Matteo Salvini di seguito denominate "Parti" - basandosi su un partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;

- esprimendo la volontà di facilitare l'espansione e l'approfondimento della cooperazione multilaterale e la collaborazione tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana; 

-tenendo conto che i rapporti tra i partiti sono una parte importante delle relazioni russo-italiane e sono finalizzate al loro pieno sviluppo; 

- sulla base dei principi di sovranità statale, rispetto reciproco, non interferenza reciproca negli affari interni di ciascuno, partenariato paritario, affidabile e reciprocamente vantaggioso; Hanno concordato quanto segue:

1 Le Parti si consulteranno e si scambieranno informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco. 

2 Le Parti si scambieranno regolarmente delegazioni di partito a vari livelli, per organizzare riunioni di esperti, così come condurre altre attività bilaterali.

3 Le Parti promuovono attivamente le relazioni tra i partiti e i contatti a livello regionale.

4 Le Parti promuovono la creazione di relazioni tra i deputati della Duma di Stato dell'Assemblea Federale della Federazione Russa e l'organo legislativo della Repubblica Italiana, eletti dal partito politico nazionale russo "Russia Unita" e il partito politico "Lega Nord", e anche organizzano lo scambio di esperienze in attività legislative. 

5 Le Parti organizzeranno sotto gli auspici di seminari bilaterali e multilaterali, convegni, "tavole rotonde" sui temi più attuali delle relazioni russo-italiane, invitando una vasta gamma di professionisti e rappresentanti della società civile.

6 Le Parti promuovono attivamente lo sviluppo di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e la collaborazione di organizzazioni giovanili, femminili, culturali, umanitarie, ecc. al fine di rafforzare l'amicizia, la formazione giovanile nello spirito di patriottismo e di operosità. 

7 Le Parti promuovono la cooperazione nei settori dell'economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi.

8 Il presente accordo entra in vigore all'atto della firma dei rappresentanti autorizzati delle Parti e ha una validità di 5 anni. L'accordo è automaticamente prorogato per successivi periodi di cinque anni, a meno che una delle Parti notifichi all'altra Parte entro e non oltre 6 mesi prima della scadenza dell'accordo la sua intenzione alla cessazione dello stesso.

9 L'accordo è concluso a Mosca il 6 marzo 2017, ed è redatto in due copie, in due esemplari autentici, in lingua russa e italiana. l10Il presente accordo non è legalmente vincolante ed è solo una manifestazione di interesse delle Parti nella interazione e cooperazione.

Stefano Feltri per “Domani” il 04 Settembre 2022.

Giorgia Meloni sta diventando Luigi Di Maio senza neppure attraversare la fase dei proclami dal balcone o delle richieste di impeachment per il presidente della Repubblica. 

L’arrivo oggi al più stanco dei rituali estivi dell’establishment italiano, il meeting di Cernobbio sul lago di Como, sancisce il tentativo della leader di Fratelli d’Italia di conquistare il potere per cooptazione, invece che con una scalata ostile.

L’approccio non può che piacere a un sistema economico che preferisce la trasmissione dinastica della gestione aziendale e i patti di sindacato alle competizioni aperte per il controllo delle aziende. 

«Credo di essere pronta a governare questa nazione. La domanda è se gli italiani sono pronti a sperimentare un nuovo governo, che non rende conto a nessuno se non al popolo italiano», diceva l’altro giorno Giorgia Meloni a Cagliari.

La seconda metà dello slogan è una precisazione non richiesta che finisce per indicare il problema, invece che nasconderlo: da quando ha iniziato a fiutare la vittoria, Meloni ha iniziato a rispondere ai poteri di ogni genere, in attesa del 25 settembre quando dovrà rispondere anche al popolo italiano. 

Le sanzioni alla Russia

Basta vedere il posizionamento sulle sanzioni alla Russia: negli anni dopo l’annessione della Crimea del 2014, Giorgia Meloni era contraria alle sanzioni «che massacrano il Made in Italy» e che l’Italia adotta sotto il «ricatto di Bruxelles».

Oggi assicura invece che le sanzioni sono «lo strumento più efficace che ci sia, però uno strumento ancora più efficace è liberarsi dalla dipendenza energetica russa: questa è una priorità per fermare la guerra in Ucraina». 

Matteo Salvini ha fiutato lo spazio politico scoperto nella vasta area di destra anti-americana e filorussa e subito ha spostato la Lega sulle antiche e ormai impresentabili posizioni putiniane: «Ci stanno rimettendo gli italiani e ci stanno guadagnando i russi».

Con una certa coerenza, Salvini chiede anche nuovo deficit per 30 miliardi per ridurre il costo delle bollette, cioè per consentire agli italiani di consumare come in tempi normali e a Mosca di incassare gli attuali prezzi record del gas, il tutto a carico del contribuente italiano. 

Lo scenario ideale per il Cremlino perché gli extra-profitti energetici compensano effettivamente l’effetto negativo delle sanzioni che hanno isolato il resto dell’economia russa.

Meloni, invece, si oppone allo scostamento di bilancio: da quando si vede già a palazzo Chigi, la leader di Fratelli d’Italia ha abbandonato ogni velleità contabile. 

Sa di essere poco credibile in quanto capo di un partito di eterna minoranza e per di più di estrema destra, con una classe dirigente inadatta alla sfida (come dimostra il ricorso a reduci ultrasettantenni del berlusconismo) e dunque Meloni cerca di compensare con professioni di fedeltà a un progetto che in teoria avversava: il pragmatismo di governo di Mario Draghi.

Il premier, ha sintetizzato Rino Formica su Domani, è diventato una sorta di “lord protettore” di Meloni: mai un attacco diretto, le critiche soltanto alle proposte più implausibili del programma di centrodestra (che infatti sono difese soltanto dalla Lega). Draghi non scomunica, anzi, legittima, purché l’azione di governo resti seria e senza eccessi. 

A gennaio Meloni non si era mai detta contraria alla candidatura di Draghi al Quirinale, mentre si opponeva a un bis di Sergio Mattarella e alla prosecuzione della legislatura. Due questioni che potrebbero tornare a incrociarsi nei prossimi anni.

Il Corriere della Sera, il quotidiano che più ha legittimato Giorgia Meloni come affidabile protagonista di governo, titola addirittura che la leader di Fratelli d’Italia ha “l’obiettivo di rassicurare” e “l’agenda Draghi non è più un tabù”. 

Non è un caso che Meloni lasci circolare sempre come possibile componente della sua squadra di governo il nome di Fabio Panetta, attuale membro italiano del board della Bce, che potrebbe essere un ministro dell’Economia o, più probabilmente, un governatore della Banca d’Italia nel 2023 con la benedizione di Draghi. L’interessato non si prodiga in smentite.

Nel frattempo, gli esponenti del gruppo meloniano con un network internazionale, come l’ex economista del Fondo monetario Domenico Lombardi, si prodigano in incontri con gli investitori per spiegare che la destra di governo non sarà imprevedibile e scapestrata come la coalizione populista gialloverde del 2018, anzi. 

Sarà più draghiana di Draghi. Resta da vedere fino a quando durerà questo bluff e se reggerà almeno fino al 25 settembre.

Perché ci sono almeno due problemi in questa narrazione: Giorgia Meloni non è Mario Draghi, non ha alcuna esperienza di governo se non la breve e non gloriosa parentesi da ministro della Gioventù, e gli elettori che hanno portato Fratelli d’Italia dal 4 al 24 per cento non si aspettano di votare il surrogato di un ex presidente della Bce. 

Silvio Berlusconi osserva e spera nel miracolo, un risultato sopra il 9 per cento che potrebbe permettergli, se necessario, di rompere il centrodestra e mettersi al centro dell’ennesima operazione di larghe intese alternativa al governo Meloni.

Nel centrodestra è sfida sulle sanzioni alla Russia. Meloni: non ci sfiliamo. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 4 Settembre 2022.

Dal Pnrr alle tasse, il confronto tra i leader davanti alla platea di Cernobbio. Salvini: punizioni per la Russia, ma difendiamo i nostri lavoratori. Letta: non si può rinegoziare il Pnrr. Calenda: spero che resti Draghi, o chi può prendere il testimone. Tajani: centrodestra unito. Conte: folle cancellare il reddito di cittadinanza

Guerra e sanzioni alla Russia, caro bollette e inflazione, Pnrr e scadenze alle porte. L’ultimo giorno del Forum Ambrosetti di Cernobbio è, come da tradizione, in gran parte per la politica. Che non si sottrae: nella tavola rotonda conclusiva a cui partecipano tutti i leader di partito, i toni sono beneducati, prudenti addirittura. 

Ma le differenze emergono tutte. 

Anche nel centrodestra che i sondaggi vedono come favorito. E se l’applausometro probabilmente premia Carlo Calenda, tutti i presenti — moderati dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana — godono comunque di una platea attenta che applaude in modo pragmatico le diverse argomentazioni. 

La fascia di attrito più vistosa è proprio tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. La leader di Fratelli d’Italia parla prima del segretario leghista ma, anche sulla base di quello che si legge sui giornali del mattino, è nitida. Sulle sanzioni alla Russia, è impossibile tornare indietro: «Qualcuno è convinto che se l’Italia si sfilasse, cambierebbe qualcosa per le altre nazioni? Assolutamente nulla». Ma il punto su cui tutto si gioca «è la nostra decisione, la nostra posizione, la nostra credibilità». Secondo la leader FdI ci sono numeri che dicono molto: «Noi abbiamo un volume di esportazioni in Russia dell’1,5%. Il volume delle esportazioni con l’Occidente è dell’80%». E dunque «una nazione seria deve avere una postura credibile», e proprio per questo Meloni ricorda la risoluzione del suo partito per un fondo di solidarietà europeo ai Paesi più colpiti dalle sanzioni: «Anche per non far mancare il sostegno dell’opinione pubblica alla fermezza contro l’aggressione russa». E del resto, la guerra in Ucraina «è la punta dell’iceberg di un conflitto che ha per obiettivo la revisione degli assetti mondiali. Se l’Ucraina cade e l’Occidente perisce, il grande vincitore non sarà solo la Russia ma anche la Cina». 

Salvini parte con una rivendicazione: «La Lega ha votato in Italia e in Europa con convinzione tutti i provvedimenti a favore dell’Ucraina, sanzioni comprese. Dobbiamo difendere l’Ucraina? Sì, ma io non vorrei che le sanzioni danneggiassero più chi le fa che chi le subisce». Insomma: «Avanti con le punizioni per l’aggressore, ma proteggiamo i nostri lavoratori. Non è un reato chiedersi dopo mesi di guerra se tutto stia funzionando come previsto». Nessuno ha comunque intenzione di sottolineare le diversità: «Ci sono differenze e sfumature — dice Meloni - ma sulla visione siamo d’accordo, per esempio sul principio di abbassare le tasse». 

Cosa su cui insiste Antonio Tajani. Anche se la presidente FdI avvisa: «In questa fase bisogna essere molto prudenti e seri nelle promesse, poi nel programma ci sono cose molto chiare che per me fanno fede». 

In effetti, gli attriti nel centrodestra non colpiscono più di tanto il segretario del Pd Enrico Letta. Sulle sanzioni accusa Salvini di usare «frasi irresponsabili sulla pelle del Paese» e quindi spiega: «È il solito giochino, in campagna elettorale fanno tanto rumore, poi si mettono d’accordo su una posizione più o meno istituzionale». Ma di quello che fu il campo largo non resta più nulla. Da una parte, il leader dem che punta sulla riduzione delle tasse sul lavoro: «È la nostra proposta centrale sul fisco. Una riduzione delle tasse che serve all’imprese, serve a dare stabilità». 

Dall’altra, il presidente stellato Giuseppe Conte — che nel suo intervento propone di «abolire l’Irap per tutti» — è durissimo: «Chiedo a Letta che spieghi alla comunità Pd perché ha abbandonato l’agenda Conte 2 ed è rimasto folgorato dall’agenda Draghi, passando da un milione di cittadini salvati dalla povertà in pandemia a 6 euro lordi al mese in busta paga per i lavoratori». Insomma: «Basta mistificazioni sul voto utile, basta trattare gli elettori così come se fossero persone non avvedute». 

Carlo Calenda è meno pessimista: nel centrodestra «si detestano tutti e si sfascerà. Se noi prendiamo molti voti cerchiamo di tenerci Draghi». E su Salvini, che in più di un’occasione cerca di prendere le distanze da chi «risolve le questioni con i carri armati», è durissimo: «Non è che diciamo che sei amico di Putin perché ci siamo svegliati male, ma perché stavi al Parlamento europeo con la maglietta di Putin e andavi dicendo che avresti dato Mattarella per mezzo Putin». 

Giorgia Meloni ribadisce la sua convinzione. Il Pnrr va rinegoziato con l’Ue e il caro energia non va sostenuto con «uno scostamento di bilancio, dato che già abbiamo abbastanza debiti». Semmai, «si può provare a parlare con l’Ue per utilizzare le risorse della programmazione europea». 

Anche per Letta «il Pnrr è la stella polare. Si può discutere, ma diciamo no alle rinegoziazioni. Perderemmo soldi e le prospettive per il futuro». Ma Meloni è convinta. «Le modifiche sono previste, e lo stesso commissario Gentiloni ha detto che ci sono Paesi pronti a chiederle». 

Se Salvini dello scostamento è convinto da tempo («Mettiamo un tetto al costo del gas e la differenza la mette lo Stato»), possibilista è anche il coordinatore azzurro Antonio Tajani: «L’extra-deficit come obiettivo in sé non va perseguito, ma può essere uno strumento per proteggere tessuto imprenditoriale e sociale». In ogni caso, Tajani chiede «un’azione dell’Europa cui da mesi abbiamo chiesto un secondo Recovery plan per affrontare tutto ciò che ha provocato la guerra». 

La proposta meno attesa arriva da Salvini: «Se il centrodestra vincerà le elezioni propongo un ministero per l’Intelligenza artificiale, l’Innovazione e la Digitalizzazione a Milano». Per radunare «nella città dei brevetti le competenze sparse, senza togliere nulla a nessuno». L’idea, racconta, gli sarebbe arrivata da una chiacchierata con uno dei presenti al Forum Ambrosetti («Non dico chi è, se no lo rovino...») e aggiunge di averlo poi ringraziato dell’idea inviandogli un messaggio in cui lo ha «chiamato “ministro”, perché qui ci potrebbe essere almeno una decina di persone che sarebbero in grado di dare un contributo al prossimo governo».

Par condicio Cav, Salvini, Meloni: oggi come ieri la sinistra cerca il “nemico” da abbattere. Valerio Falerni il 3 Settembre 2022 su Il Secolo d'Italia.  

A voler essere ironici, la potremmo definire par condicio, anche se la legge che regola le presenze televisive nel periodo della campagna elettorale non c’entra nulla. C’entra, invece, l’intolleranza dei centri sociali vicini alla cosiddetta sinistra antagonista nei confronti del centrodestra, di quella vista all’opera ieri sotto forma di contestazioni al comizio cagliaritano di Giorgia Meloni e, solo stamane, come devastazione dei gazebo milanesi di Fratelli d’Italia. La solita giostra di violenze mai veramente sanzionata dai partiti politici di riferimento. L’altro ieri contro Silvio Berlusconi, ieri contro Matteo Salvini e oggi contro Giorgia Meloni.

La par condicio della demonizzazione

Eccola la par condicio. A conferma che per questa sinistra, sedicente democratica, solidale e financo libertaria, non esistono avversari da battere ma solo nemici da abbattere. E sempre con la medesima motivazione: il fascismo. Anche in questo caso la par condicio impone che lo siano tutti, ma mai nello stesso momento. Altrimenti com farebbero a cercare di dividerli in buoni e cattivi, pro-tempore s’intende. Ricordate? Quando Bossi voleva tre Italie, il pericolo era Berlusconi perché aveva tre tv. Poi l’orbace è finito addosso a Salvini e il Cavaliere Nero è diventato magicamente un nonnino moderato, qual è ancora oggi che il fez è passato a coprire la bionda chioma della leader di Fratelli d’Italia.

E par condicio, infine, è quella che si intravede  nelle modalità con cui tale violenza si dipana: dapprima gli insulti, poi le contestazioni, quindi le minacce e, infine, il gesto sconsiderato, come sperimentò a sue spese anni fa Berlusconi per mano di un odiatore che lo ferì al volto con le guglie di un duomo di Milano in miniatura. A chi strologa di fascismo di ritorno o in agguato è il caso di ricordare che non accade mai il contrario. Nessuno disturba i comizi di Letta, nessuno irrompe alle manifestazioni del Pd e nessuno fa il tiro a bersaglio contro gli esponenti della sinistra. Insomma, la destra accusata di tutto è in realtà la parte politica che subisce di tutto. Solo una delle tante assurdità di quest’Italia alla rovescia.

“Dovete morire”, a Milano assaltato un gazebo di FdI: cappucci in testa e mascherine sul volto. Sara De Vico il 3 Settembre 2022 su Il Secolo d'Italia.

Violenza rossa a Milano contro esponenti di Fratelli d’Italia, da settimane insieme alla leader Giorgia Meloni nel mirino della sinistra e della stampa compiacente. Un gazebo di Fdi è stato assaltato oggi a Milano in viale Papiniano. Protagonisti dell’assalto 5-6 persone mascherate mentre due consiglieri del municipio 1, Federico Sagramuso e Lorenzo La Russa stavano distribuendo materiale elettorale.

Assaltato il gazebo di FdI a Milano

“Li ho visti arrivare dall’altra parte della strada già con cappucci, occhiali da sole, volti semicoperti”, racconta Sagramuso.  ”Oltre a me c’era Lorenzo La Russa e altri due militanti. Ci hanno circondato hanno danneggiato il materiale, strappato i volantini dalle mani, gridato fascisti di merda andatevene via, dovete morire. Dopo il loro atto eroico se ne sono andati”. Secondo le prime ricostruzioni della Digos sono entrate in azione “quattro o cinque persone con la testa coperta da cappucci e il volto da mascherine”. Che hanno rotto parte della struttura mobile. All’arrivo degli agenti il gruppo si erano già dato alla fuga.

«Il vile assalto al gazebo di Fratelli d’Italia a Milano, in via Papiniano, dimostra ancora una volta quanto sia difficile in questa campagna elettorale parlare di temi concreti». Lo dichiara il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. «I nostri programmi e le nostre proposte per il futuro dell’Italia vengono puntualmente imbavagliati da episodi di violenza pericolosi e ingiustificabili. Avvelenare gli animi non riuscirà, però, a fermare la nostra determinazione. Che questi criminali dal volto coperto lo vogliano o no, FdI è pronta a governare questa Nazione. Perché siamo convinti che gli italiani perbene sono dalla nostra parte».

De Corato: è il risultato della campagna di odio contro di noi

A forza di gridare al pericolo nero arriva puntuale l’escalation violenta dei centri sociali e della rete antagonista cresciuta a pane e antifascismo militante. Il primo a denunciare il ‘brutto segnale’ di avvelenamento della campagna elettorale è Ignazio La Russa. Riccardo De Corato punta i riflettori sulle responsabilità politiche. ”Questo è il risultato di una campagna di criminalizzazione di FdI che si sta facendo a Milano da parte di esponenti di primo piano del Pd”. Sulla stessa lunghezza d’onda Daniela Santanchè. “L’assalto a un nostro gazebo a Milano è l’ennesima dimostrazione degli effetti di una campagna elettorale che il Pd ha voluto impostare soltanto sulla denigrazione. Mi auguro che questo evento porti il Pd a riconsiderare come finora ha gestito la campagna elettorale. E a concentrarsi sui temi e sulla politica piuttosto che a screditare l’avversario”. Di brutto episodio e del rischio di emulazione parla il vicepresidente del consiglio comunale di Milano, Andrea Mascaretti. “Chi continua a creare questo clima d’odio è responsabile di quanto potrebbe succedere a uomini e donne che oggi sono nelle strade di Milano e di tutta Italia ai banchetti di FdI”.

La condanna del sindaco Sala: un gesto vile

Anche il sindaco Giuseppe Sala ha condannato il gesto. ”Quello che è accaduto oggi al mercato di viale Papiniano è inaccettabile per una città democratica come Milano. Avere posizioni politiche differenti non autorizza gesti di violenza contro la parte avversa. Condanno il vile atto contro il banchetto di Fdi. A cui esprimo solidarietà”. Ora si attende la condanna dei vertici del Pd milanese. “Ci riusciranno?”, chiede Stefano Maullo di FdI commentando l’assalto al gazebo. “Ci aspettiamo una pronta condanna da parte di tutte le forze politiche nessuna esclusa”

La solidarietà del Pd milanese

Questa volta i dem decidono che non c’è spazio per i consueti distinguo. Meglio prendere le distanze a pochi giorni dal voto. Con il passare delle ore il Pd milanese dà segnali di vita.  “Quanto accaduto al mercato di viale Papiniano è intollerabile. In democrazia non c’è spazio per violenza e odio. Esprimo a nome di tutto il Partito democratico milanese – dichiara Silvia Roggiani – la nostra solidarietà a Fratelli d’Italia. E alle volontarie e ai volontari presenti al gazebo che prima dell’aggressione stavano volantinando”.

La verità di Marco Marras sull’incursione al comizio di Meloni. Giampiero Casoni il 04/09/2022 su Notizie.it.

“L’ho ringraziata per avermi concesso un confronto e poi ho tolto il disturbo": ecco la verità di Marco Marras sull’incursione al comizio di Meloni 

Dopo il comizio della laeder di FdI a Cagliari si era scatenato un mezzo putiferio sulla sua figura e in queste ore arriva la verità di Marco Marras sull’incursione al comizio di Giorgia Meloni. Interpellato dal media Gay il giovane ha spiegato di aver già detto tutto nel suo post ma poi ha ribadito le sue convinzioni Lgbtq sconfessando “macchinazioni”.

Quali macchinazioni? Quelle per cui sui social qualcuno aveva insinuato che il giovane in realtà sarebbe stato un simpatizzante di Meloni messo a servizio di un siparietto “politicaly correct” in cui la leader di FdI lo “liquidava” ma con garbo e verve democratica. Marras non ha rilasciato dichiarazioni ma solo una sorta di “sfogo” postumo: “Ho scritto un post completo sul perché del mio gesto. La ringrazio per l’attenzione”. 

La verità di Marco Marras sull’incursione

E poi: “Voglio dichiarare che sono una persona pacifica e che con gli scontri non c’entro nulla ho agito da libero cittadino che voleva esprimere politicamente un’opinione”. Poi Marco spiega: “Chi mi conosce sa che al liceo ero out da sempre. Sempre detto di essere gay e nessun partito mi rappresentava, come nessuno mi rappresenta per il voto del 25. Se uno crede ai partiti gli rispondo: beato te”. E il suo ringraziamento alla Meloni? “L’ho ringraziata per avermi concesso un confronto e poi ho tolto il disturbo.

Sono per la manifestazione non violenta. Seguo l’esempio di Marco Cappato. Sul fatto che mi hanno schernito e insultato non importa. Chi insulta si manifesta per quello che è”. 

Il post scriptum per la Meloni: “Potrà sposarmi”

Marco ha anche precisato che la leader di FdI “non mi ha convinto. Resta una conservatrice. Volevo solo che il mio gesto fosse una dimostrazione che è possibile dissentire nei limiti della buona educazione”.

E al famoso post pubblicato nelle ore dopo il comizio Marco aveva anche aggiunto un post scriptum: “Comunque signora Meloni i cambiamenti si possono frenare ma saranno inevitabili e in Italia in futuro potrà sposarmi e adottare”.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 2 settembre 2022.

Guardi le prossime sfilate milanesi con le modelle nere nere, un paio di cinesi e forse una maori; guardi le riviste maschili con quei bei ragazzi che sembrano signorine d'antan, coi tacchi alti e le ciglia finte; guardi la Mostra del cinema di Venezia e ci trovi le trans di Roberta Torre, i fluidi di Emanuele Crialese e di Gianni Amelio tutta la stupida crudeltà di un'Italia omofoba; guardi gli spettacoli di successo mondiale e vedi i Maneskin, e il più Maneskin di loro è tutto cinghie e chiappe nude; 

guardi le piattaforme e ti diverti con le storie d'amore e abbandono della ricca scena gay di New York. L'inclusione e il rispetto dell'identità di genere paiono quindi cose fatte, e invece forse è già troppo tardi. O per lo meno c'è già chi teme che lo sia, e ha scelto di prendere tempo. Di pensarci su. Di non farsi notare. Non si sa mai.

Per esempio, si è subito interrotto l'epocale scontro sull'uso dei cessi per femmine biologiche anche da parte di signore per scelta ma provviste di fallo: il che a pensarci bene non dovrebbe preoccupare perché se una si sente femmina non può venirle in mente di fare una cosa da maschio per di più criminale come far uso di quella da lei aborrita arma.

Paiono già in preda a dubbi i pionieri del cesso in comune, che se non sei di quelle femministe di prima, sarebbe invece la cosa più logica.

Si sono zittite le accademiche studiose del linguaggio, che proponevano la femminilizzazione di ogni parola o ancor meglio un neutro buono per ogni fantasia non binaria mediante qualche diavoleria, visto che purtroppo in italiano non esiste. Dalle edizioni on line dei giornali e persino da molti social, sono ormai rari i lamenti dei baciatori gay insultati da genitori di adolescenti che, a loro insaputa, per conto loro stanno seguendo sui loro iPhone lezioni di orgasmo multiplo. Si segnalano però nuove unioni civili dette matrimoni, tra noti personaggi dello stesso sesso, forse temendo il veloce arrivo di qualche disastro.

La prudenza non è mai troppa, e se da una parte c'è il nostro Targaryen cattivo che minaccia il servizio di leva al posto dello psicologo, almeno Crudelia Demon non manderà ai lavori forzati le signore che piangono sulla loro ciccia, in quanto la di lei mamma è inequivocabilmente obesa, se mai ci manderà chi oserà fare ancora body shaming. I sondaggi e gli opinionisti dei sondaggi ormai hanno deciso che ci tocca la destra, non una destra qualsiasi, ma quel tipo di destra che in mano a un donna (vedi la signor Thatcher) può essere spietata e guai ad aprir bocca.

La nostra premier in pectore, pretende che persino gli immigrati purché 'alla fame', siano cristiani: e questo imperio che lei eserciterà tipo il compianto Monsignor Lefevre, ha tutta l'aria di essere punitivo per tutti i bravi cristiani stessi anche italiani. Figuriamoci i peccatori. I giovani un po' recitanti che protestano contro la destra occupano TikTok con una certa grazia e convinzione, purtroppo però invaso persino da Berlusconi che quando grida allegrissimo "Ragazzi eccomi qua!", procura uno di quegli spaventi che fermano la digestione; ma pure Renzi risulta sbagliato postando un suo video del 2008 con un gran ciuffo giovanile e un discorso sul calcio. 

E Conte? Raccontando i progetti melonisti per i giovani tenta giustamente di terrorizzarli, ma ci vuole altro. Sempre sull'adorabile Tik Tok tra "Ascelle Pelose" e "Il cugino gay di Zalone", c'è una quantità di Meloni trionfante talmente ossessiva che se io fossi Salvini smetterei di provarci. Per lei, avanti e indietro sul palco di varie città, il microfono in bocca e un gran scuotere di orecchini, giovane e scattante, piazze piene soprattutto di uomini incantati che fanno sì con la testa. Perché? Fitto mistero. Forse perché promette tutto ciò che ci è stato negato negli ultimi tempi: più doveri che diritti, disciplina, ordine e ordini, inquadramento: credere obbedire combattere.

La guerra dei poster: il faccia a faccia delle facce al muro. Geppi De Liso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Settembre 2022.

Credo che una campagna elettorale sposti molti più soldi che voti. Anche se oggi l’adesione a una parte politica non è definitiva. Scegliamo un partito attraverso la comunicazione fatta dalle fonti consone alle nostre idee e respingiamo quelle contrarie: le «dissonanze cognitive». Quindi conosciamo la realtà attraverso le immagini e le parole che accettiamo. Ma bisogna distinguere. Le prime ci emozionano e sono di breve durata; le seconde cercano di convincere, e sono più durature: il mondo istintivo, interiorizzato è più facilmente raggiungibile da emozioni-immagini, mentre il mondo appreso, la cultura è più facilmente raggiungibile dalle parole. La comunicazione elettorale a stampa è costituita da immagini e parole, e in special modo dai grandi poster, ai quali però si presta un’attenzione di pochi secondi. Debbono perciò essere immediati, di poche parole, seducenti e perentori.

Vediamo i poster dei primi tre partiti: Pd, FdI e M5S.

Il Partito Democratico, di centrosinistra, ha puntato su una contrapposizione netta, con il campo bipartito in nero e rosso. Sulla parte rossa, a destra, la faccia del Segretario Enrico Letta, con un sorriso trattenuto, e una proposta programmatica in caratteri bastone leggermente inclinati, bianchi; e sul fondo nero a sinistra, la proposta dell’opposizione con gli stessi caratteri ma grigi. In basso a destra il titolo «Scegli» invita a votare per una delle due tipologie contrapposte d’Italia: «Da un lato l’Italia che sta con Putin, dall’altro quella che sta con l’Europa. Da un lato chi precarizza il lavoro, dall’altro chi vuole il salario minimo. Da un lato i premi agli evasori, dall’altro la diminuzione delle tasse sul lavoro. Da un lato le discriminazioni, dall’altro i diritti. Da un lato le energie fossili, dall’altro le rinnovabili». Un’Italia nata dalla Resistenza al nazifascismo, ma con un governo di destra, o di sinistra. Ignorando il cosiddetto Centro, ormai molto ridotto dopo la confluenza in un unico Partito Democratico, dei Democratici di Sinistra (eredi del PCI), e del partito La Margherita (erede della DC e di altre forze riformiste).

I poster di Fratelli d’Italia, di colore azzurro scuro hanno, sulla destra, il viso sorridente della Segretaria del partito, Giorgia Meloni, la quale non ha competitori dialettici alla sua pari. La sua comunicazione è perentoria, tanto da sembrare in grado di risolvere tutti i problemi, come rivendica il suo slogan: «Pronti», in grandi caratteri bastoni inclinati e sotto più in piccolo: «A risollevare l’Italia». Oggi i sondaggi danno vincente Fratelli d’Italia, erede di Alleanza Nazionale, e del Movimento Sociale Italiano, nel quale erano confluiti personaggi del regime fascista e della Repubblica di Salò, ma la Meloni, cercando di distanziarsi dal passato, giorni fa ha pubblicato un video in inglese, francese e spagnolo nel quale ha spiegato che FdI «ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche». Il simbolo della fiamma tricolore - già del MSI - è rimasto nel logo di partito nonostante le recenti polemiche.

Anche i poster del Movimento 5 Stelle mostrano un bel sorriso aperto del presidente Giuseppe Conte su uno sfondo azzurro scuro attraversato da una fascia obliqua gialla, colore del Movimento, e in un carattere bastone molto grande, sulla sinistra, il titolo: «Dalla parte giusta», su due righe, ma, dal momento che il movimento ha sempre sostenuto di non essere né di destra, né di sinistra, non dice quale sia questa parte, forse quella di Conte, il Presidente che ha conquistato molti italiani con i suoi due governi, prima con la destra, poi con la sinistra, dimostrandosi un politico di tutto rispetto, che, a giudicare dal suo programma, è di centro-sinistra.

Campagna elettorale alimentata dall’odio a destra e sinistra, l’obiettivo è colpire l’avversario. Hoara Borselli su Il Riformista il 31 Agosto 2022 

Oggi voglio parlarvi di due episodi che hanno un denominatore comune: l’odio. L’odio verbale e l’odio espresso attraverso le azioni. Ad Olbia, durante il Gay Pride, un gruppo di femministe ha strappato con violenza il manifesto elettorale di Giorgia Meloni al grido: “Chi non salta fascista è!”. Il tutto documentato in un video che mostra le ragazze festanti che si lodano di questo gesto fatto come sfregio nei confronti della loro “nemica”.

L’altro episodio ha coinvolto Karima Moual, giornalista marocchina progressista che ha fatto un video di denuncia dove dichiara di aver ricevuto minacce molto pesanti e di essere stata apostrofata con epiteti molto volgari e minacciosi. La stessa Karima ha detto che l’autore di questi insulti nei suoi confronti riconosce la leader di FdI come suo leader assoluto. Karima ha preteso le scuse o quantomeno una dichiarazione di Giorgia Meloni su questo spiacevole episodio.

Su questi argomenti io ho un’idea precisa. Ritengo, innanzitutto, che ognuno sia responsabile delle proprie azioni. Non è colpa della Meloni se ci sono dei violenti, degli odiatori che accusano o minacciano la Moual e non è nemmeno colpa di Enrico Letta se ci sono centinaia di donne che, a sfregio, strappano il cartellone della Meloni.

Dare la colpa ai leader significa andare a implementare questa narrazione ideologica che non fa altro che fomentare l’odio. Purtroppo, abbiamo visto che questa campagna elettorale sta assumendo dei tratti che vanno oltre il tifo o la speranza che possa vincere il proprio partito. Qui si cerca di andare a colpire l’avversario.

Invece di cercare di portare alla luce le motivazioni per le quali vorremmo che vincesse un partito, o un leader piuttosto che un altro, si scredita l’avversario. Questa è una deriva inarrestabile e non passa giorno senza polemiche, accuse, minacce, odio.

Questo comportamento sicuramente non fa parte di un’atteggiamento democratico perché la democrazia ci insegna che tutti dovremmo essere liberi di esprimere le proprie opinioni e tutti dovremmo essere capaci di rispettare le idee altrui.

Hoara Borselli. Inizio la mia carriera artistica come una delle protagoniste della fortunata "soap opera" CENTOVETRINE per essere poi chiamata dal Cinema a rivestire il ruolo di protagonista nel film PANAREA. Il grande successo è arrivato con la trasmissione BALLANDO CON LE STELLE, vincendo la prima edizione. Ho proseguito partecipando alle tre edizioni successive. Da lì il ruolo da protagonista nella tournèe teatrale la febbre del sabato sera, dove ho calcato, a ritmo di "sold out", tutti i più grandi teatri italiani. A seguire sono stata chiamata come co-conduttrice e prima ballerina nel programma CASA SALEMME SHOW, quattro prime serate su Rai1. In seguito ho affiancato Fabrizio Frizzi nella conduzione della NOTTE DEGLI OSCAR, poi Massimo Giletti nella conduzione di GUARDA CHE LUNA sempre su Rai1. Poi ho condotto il Reportage di MISS ITALIA. Sono stata protagonista della fiction televisiva PROVACI ANCORA PROF, otto puntate in prima serata su Rai1 e TESTIMONIAL di importanti aziende di vari settori.

Il kit vademecum del candidato. Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 30 Agosto 2022. 

All'inizio, nel '94, fu un borsone inzeppato di cravatte regimental, spillette, adesivi, gagliardetti, 15 videocassette di programma. E una valigetta con foto di Silvio Berlusconi e la versione karaoke dell'inno scritto da lui. Nel 2001 un cd-rom con i manifesti e la brochure con 120 foto di Berlusconi.

Nel 2006, lo «spartito» degli slogan coniati dal capo, il discorso da recitare e i consigli marketing per conquistare astenuti senza sprecare soldi. Quindi, nel 2013, l'era della sobrietà: uno scatolone azzurro con una videocassetta, un cd, un frasario in pillole e slogan sulle «balle di Monti e della sinistra». 

Quest' anno il kit del «buon candidato» è virtuale, con tanto di video; la gif, mini-immagine, di Silvio Berlusconi festante e un'animazione su come votare. 

In più un documento di 30 pagine che insegna «come vincere» firmato da Alessandro Cattaneo. Nato a Rho, 43 anni fa, cresciuto col pallino della politica a Pavia, dove è stato eletto sindaco a 29 anni, da ingegnere (elettronico) con fama di «secchione», declina il motto berlusconiano «chi ci crede combatte, non si ferma, e supera ogni ostacolo e vince» in 11 capitoli.

Spiegando che «l'organizzazione è tutto». E dispensando consigli a 360 gradi, da come conquistare il proprio collegio a quali temi usare. E quali no: «Sulla futura leadership di governo meglio soprassedere e ricordare il ruolo di Berlusconi che ha fatto nascere il centrodestra». 

Senza trascurare l'attenzione a «intonazione, postura e sguardo», «contatto visivo» («non lasciarsi distrarre da telefonate e sms») e, naturalmente, look. Lui, volto da «bravo ragazzo che piace alle mamme», cravatta e capelli sempre in ordine, li aveva da prima di entrare in Parlamento con Forza Italia. «Ai tempi del primo kit ero ancora bambino: mi sono candidato nel 2008.

Ma nel mio dna ho i canoni berlusconiani, a parte il tifo per l'Inter: mai avuto barba, né baffi, né tatuaggi», dice. 

Non è specificato nel manuale che Berlusconi non li gradisce. Si sa dal '94, quando i candidati vennero ricalcati sul personale Publitalia. E tutti a radersi, molti convertiti al Milan. Anche se qualche eccezione fu tollerata. 

«Io, Adornato e Giuliano Ferrara arrivammo con la barba e ce la tenemmo. Adornato un poco la scorciò. La tendenza di Berlusconi è guardare chi ha barba e capelli incolti come un pericoloso sovversivo. Ma nessuno ci disse nulla», sorride l'ex deputato FI, Paolo Guzzanti.

L'attenzione al dress code rimbalza dal '94, quando Achille Occhetto in abito marrone perse il confronto con Berlusconi in tv, e poi le elezioni. Siamo ancora lì? «Il "plasticato" in Forza Italia non esiste più. Anche se per noi la forma è anche sostanza: essere educati e in ordine è rispetto per le istituzioni e per l'elettore», chiarisce il responsabile nazionale dei dipartimenti di FI.

Sui social mette in guardia: «Sono importanti. Ma va privilegiato il contatto. Mi sono candidato sindaco ai tempi in cui Obama faceva campagna elettorale su YouTube. Ci provò il mio avversario. Sembrò innovativo. Ma ebbe solo 240 visualizzazioni, su 70.000 persone. Allora meglio non sottovalutare il porta a porta: contattare associazioni, opinion leader, parroci». 

Di persona, specifica la «check list per conquistare tanti voti», che raccomanda di «partecipare a tutte le cerimonie sacramentali o eventi importanti per la persona», «rispondere sempre al telefono» e ricordarsi che «un elettore di sinistra o grillino non è per forza un elettore perso». Il manuale fornisce slogan. Primo fra tutti quello sulla flat tax: «Pagare meno, pagare tutti», inventato direttamente da Berlusconi, assicura Cattaneo.

Suggerisce di usare alcuni concetti: «Scelta di campo», «lo scontro è tra noi e loro», il «centro è rappresentato da Forza Italia». E chiede di non citare i sondaggi: «Si allontanano gli indecisi e si accredita un risultato vincente dei nostri alleati». Su Calenda e Renzi consiglia di descriverne la «scarsa affidabilità». 

Il primo ironizza: «Finire sul manuale è un sogno avverato». «Il nostro non è un attacco ma una difesa attiva. Questo pseudo Terzo polo (quarto nei sondaggi) ci tiene nel mirino», dice Cattaneo. E ricorda la sua prima candidatura, a rappresentante di classe il primo anno di liceo: «Venni battuto da un compagno di classe ripetente. A Calenda dico: attento che a volte chi fa troppo il primo della classe viene sconfitto». 

Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 12 settembre 2022.

Abracadabra, a me gli occhi! Si sta celebrando, per l'ennesima volta, la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, l'«Illusionista Supremo». A schermi unificati, compreso il «dolce stil novissimo» di TikTok(Tak), come lo ha ribattezzato l'ultraottuagenario fondatore del primo partito personale italiano.

Piattaforma nella quale il dominus nazionale della «neotelevisione» postmoderna si è infilato sulla scorta del motto «bene o male, purché se ne parli», puntando al rimbalzo comunicativo sui media mainstream. "Missione compiuta" da questo punto di vista, mentre non si può dire altrettanto dei contenuti programmatici e dello stile comunicativo, che paiono arrivare per direttissima da un'altra era. Praticamente quella del suo trionfale debutto elettorale, quasi che il tempo sia stato congelato.

D'altronde, una delle parole che possiamo oggi più agevolmente associare al berlusconismo è quella di consuetudine, un pezzo del paesaggio e dell'arredamento (della vita pubblica). Se in queste ore di lutto i sudditi di sua maestà britannica realizzano che Elisabetta II è stata la Regina per antonomasia, e per molti decenni del Novecento una figura sempre presente (in senso letterale), noi italiani abbiamo, invece, il Cavaliere, al punto che per certe generazioni risulta impossibile immaginarsi una politica "deberlusconizzata".

E, dunque, sui social il Berlusconi degli anni Venti del Duemila si propone con una propaganda marcatamente vintage, come se fosse appena uscito dalla macchina del tempo. Non essendo comunque il solo, ma ritrovandosi in abbondante compagnia, dal momento che - verosimilmente anche a causa della repentinità con cui siamo stati gettati in pasto al clima della competizione elettorale - molti partiti sembrano avere attinto in maniera massiccia ai propri temi e annunci «sempreverdi».

E hanno così finito per scodellare altrettanti "grandi classici" del loro repertorio, che si rivelano anacronistici e stridenti al cospetto del contesto politico-economico emergenziale in cui ci troviamo immersi. 

Peraltro, come documentato su queste pagine, il 96% delle promesse dei leader nella campagna odierna risulta privo delle relative coperture di bilancio. Pura prestidigitazione, in un Paese dove la tentazione di affidarsi con aspettative salvifiche all'uomo (o la donna) forte si rivela inesauribile. E dove il «pensiero magico», che prescinde dai numeri - i quali, poi, da ostinati disturbatori del manovratore arrivano sempre a presentare il conto (specie economico) -, è stato sparso a piene mani dai vari populismi.

Di cui, il berlusconismo, non per nulla, è stato l'incubatore e la start-up. Pertanto, il presidente di Forza Italia estrae dal suo cilindro di prestigiatore della politica quella che spera essere una gallina dalle uova d'oro (elettorali). Ovvero, la ricetta dei mille euro (almeno...) di stipendio mensile per «i giovani» (verosimilmente le stesse generiche fasce anagrafiche a cui su TikTok si rivolge con l'ineffabile tono di voce infantile del baby talk).

E, dunque, riecco l'«uomo col sole in tasca», in abbinata - ci si aspetterebbe - con un (gigantesco) tesoretto. Il quale, però, non c'è. Prima gli "impegni" e le promesse ai pensionati, ora alle generazioni più giovani, e una posizione fattasi più titubante rispetto all'abolizione del "reddito di cittadinanza" grillino.

Siamo, appunto, di fronte all'iperottimistico libro dei sogni degli esordi, ma nel quadro di una finanza pubblica che non può minimamente permettersi di realizzarlo. Si potrebbe sostenere che la vita politica sia "inevitabilmente" fatta anche di corsi e ricorsi storici, ma qui si va parecchio oltre, con la campagna elettorale di Forza Italia che non si ferma a un nostalgico "ritorno alle origini" degli anni Novanta.

Ma compie un ulteriore, e retrotopico, grande balzo all'indietro, direttamente agli anni Ottanta dell'esplosione del debito pubblico, a cui tanto contribuì quel Bettino Craxi che era allora il riferimento politico di Berlusconi. «Se potessi avere mille euro al mese»... Solo che qui - a differenza di quanto evocava la canzone - non c'è nessuna «eredità di uno zio lontano, americano». Bensì un'Unione europea alla quale si deve rendere conto di un debito (sempre più) monstre, che ricade proprio sulle spalle dei più giovani.

Filippo Ceccarelli per "la Repubblica” l'11 settembre 2022.

Non senza fatica, e all'inizio procedendo un po' a scossoni, la macchina umana berlusconica e partita e nel presente assoluto della campagna elettorale cerca di regalarsi un pezzettino di futuro. 

Macchina umana e non politica, perché dopo tanti anni e quasi impossibile capire quale politica abbia fatto il Cavaliere, a meno di identificarla in lui stesso, nella sua persona fisica, nella sua vita, nella sua maschera talvolta degradatasi in macchietta.

Lo si dice con problematico rispetto, tanto più nel paese della commedia e del melodramma, sia l'una che l'altro posti convenientemente al servizio dell'"arte del far credere" e quindi tali da avergli fatto vincere un record di elezioni (1994, 2001, 2008) salvandolo da altrettante sconfitte. Se non altro per questo s'impone un tot di prudente umiltà dinanzi al fatto, all'apparenza irreale, che da un mesetto in molte stazioni ferroviarie sono in funzione degli schermi che ripropongono pari pari il Berlusca di 28 anni fa oltre all'inno primigenio di Forza Italia.  

A quel tempo l'attuale coordinatore elettorale Cattaneo aveva 14 anni, ma ancora gira l'antico "kit del candidato" con le medesime raccomandazioni pedagogiche destinate ai venditori Fininvest, essere gentili e presentabili, non distrarsi mentre si parla con gli elettori, niente barbe nè tatuaggi.

Nel frattempo riprende smalto, a suo modo, l'icona del fondatore, a partire dal sorriso e dalla calotta incatramata; peccato solo per la voce, ma il doppiopetto e lo stesso, idem la cravatta a pallini, la scrivania con le foto, il repertorio per catturare l'attenzione e farsi voler bene, tik-tok-tak muovendo la testa a mo' di campana e poi accampando, con il consueto megaloistrionismo, il primato mondiale di visualizzazioni.

S'intende: tutto già visto e stravisto, la parabola edificante "ho fatto tutti i lavori", l'aneddoto dei manifesti per la Dc nel 1948, con il solito brivido per l'attacco comunista e la fuga da record mondiale; poi la barzelletta autoironica sull'aereo e quell'altra piccantella sui bidet a Gheddafi, il numero galante sul numero telefonico da chiedere alla bella ragazza. 

Ecco, prendere o lasciare: sapendo pero che ogni volta, come in una fiaba o una leggenda l'intero pacchetto si arricchisce di qualche particolare inedito e fasullo, vedi l'altro giorno un incontro con De Gasperi e il part time come correttore di bozze al Corriere della Sera.

Non si cadrà qui nella retorica del disco rotto, se non altro perchè quando un disco rotto continua a girare così a lungo si e in presenza di un miracolo, altra parola tutta sua che prima o poi ci si aspetta verrà fuori, cosi come un accenno alle zie suore, in numero variabile. 

E per davvero non si vorrebbe farla troppo cervellotica, ma l'impressione e che il Berlusconi rimpipirinzito di questa fase si proponga ragionevolmente agli italiani come una loro abitudine; una presenza indispensabile, inconfondibile, insostituibile del paesaggio umano, prima che politico, di un intero popolo mai come oggi in bilico fra il vuoto di qualsiasi prospettiva di lungo periodo e il compiacimento della propria immutabilità. 

Già re Silvione I, anziano e decaduto, ma ancor più patriarca, come veniva da pensare vedendolo presentare con ribalda innocenza l'onorevole fidanzata: «Guardate che bella signora!», per poi incoraggiarla, fra Carlo Dapporto e Luigi XVI: «Dai, su, togliti il mascherino!»- il mascherino! 

Come programma: il Ponte sullo Stretto, un milione di alberi, il poliziotto di quartiere, il veterinario gratis, la dentiera e il reddito di cittadinanza «per i nostri genitori e nonni». Quanto tutto ciò possa rendere in termini di voti finisce quasi per esulare dal lascito della lunga età berlusconiana.

L'erosione, anche da parte della «signora Meloni», come ha preso a chiamarla dopo che per lui e stata «la Trottola», sembra verosimilmente compiuta. Ma il groviglio storico del berlusconismo resta qualcosa che va ben oltre la vittoria e la sconfitta in un turno elettorale. 

"L’oligarchia di partito detiene il monopolio". “I candidati? In Parlamento personaggi che nemmeno Aristofane strafatto di acidi si sarebbe sognato”, intervista al politologo Carillo. Francesca Sabella su Il Riformista il 30 Agosto 2022. 

Tra meno di un mese gli italiani saranno chiamati a votare in un clima che promette tutt’altro che bene. Ne abbiamo parlato con il docente e politologo Gennaro Carillo: «Errori, personalismi e veti incrociati hanno precluso la strada di un rassemblement national sul modello francese. Un’utopia, forse, in assenza di un federatore riconosciuto dalle parti, ma forse la sola strada percorribile. A poco varrà riproporre questo schema quando magari una maggioranza sbilanciatissima a destra metterà mano ai diritti civili».

Professore, a meno di un mese dalle elezioni come giudica questa campagna elettorale caratterizzata da litigi, offese e poche proposte concrete?

«Le campagne elettorali finiscono per somigliarsi tutte. Questa assume dei toni lievemente più surreali del solito, evidenziando, se ancora ce ne fosse bisogno, la sconnessione tra questa classe politica e la realtà».

Dopo la chiusura delle liste, ci sono state polemiche sui candidati calati dall’alto che non rappresentano i collegi in cui corrono…

«Siamo di fronte a una crisi di lungo periodo della democrazia rappresentativa. Nella migliore delle ipotesi, i candidati non rappresentano nessuno. Nella peggiore, rappresentano quanto di peggio offre la società o blocchi di potere consolidati. Tocqueville scriveva che la terra, con la sua solidità, con i suoi richiami alla tradizione, esprimeva l’aristocrazia. La democrazia, invece, con la sua mobilità estrema, la paragonava alla polvere. Ecco, oggi la democrazia si è ridotta a blocchi oligarchici, in cui la sola preoccupazione della classe politica è quella di perpetuarsi, anche grazie a leggi elettorali che sottraggono all’elettore qualsiasi diritto di scelta».

Il rischio astensionismo come va combattuto in un periodo storico segnato dall’aumento dei prezzi e da una sfiducia cronica verso la classe politica?

«Andava combattuto facendo discorsi di verità, parlando con rigore, mostrandosi credibili. La riesumazione di Draghi cui stiamo assistendo denota il tasso di malafede imperante».

A cinque anni dall’exploit dei 5 Stelle, soprattutto al Sud e in Campania, come vede il partito di Conte?

«Quell’ibrido rappresentato dal partito di Conte pagherà tutte le proprie contraddizioni e ne uscirà ridimensionato. Ma chi si compiace di questo ridimensionamento ignora che a trarne beneficio sarà la destra».

Il Pd diviso tra deluchiani e candidati imposti da Letta (c’è Di Maio a Napoli città), come si sono mossi i Dem?

«Si sono mossi male, puntando alla mera conservazione di una classe politica modesta e talvolta pessima. Miopia e pigrizia, poi, hanno impedito di vedere al di là del proprio naso. Molte operazioni, sulla carta virtuose, come le agorà democratiche, rischiano di apparire strumentali e retoriche se poi l’oligarchia di partito detiene il monopolio delle candidature, peraltro adottando logiche opache o incomprensibili».

Anche in Campania il centrodestra sarà trainato da Meloni? Oppure Berlusconi e Salvini potranno dire la loro?

«Il centrodestra gode di un’inerzia favorevole e del veloce riposizionamento di chi fa a gara per essergli gradito (commentatori inclusi). Ma anche in questo caso le candidature sono mediamente pessime. In qualche caso, saranno nominati a Roma personaggi che nemmeno un Aristofane strafatto di acidi si sarebbe sognato di immaginare».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La campagna elettorale e il futuro del Paese. Da Ciampi a Draghi, l’impari lotta della politica debole con le élites di matrice tecnocratica. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Agosto 2022 

Non è una corsa al voto come le altre. Il dissolvimento del M5s, nello spazio di pochi anni, sembra aver riportato in auge gli schieramenti di un tempo. Tolto qualche nome e sostituito qualche simbolo, si potrebbe pensare di essere tornati al 1994, quando si udirono distinti i primi vagiti della Seconda Repubblica. C’è ancora in campo Silvio Berlusconi, la Meloni si gioca la partita che Fini non poteva ancora disputare, la Lega a occhio e croce sembra bruscamente tornata a essere il partito del Nord. A sinistra le cose sono cambiate anche meno con la solita, poco fortunata, alleanza tra partito democratico (nelle sue varie declinazioni) e le fazioni oltranziste. In mezzo un incerto duopolio Calenda-Renzi che tanto ricorda le speranze di Mario Segni. Tutto cambia perché gattopardescamente nulla cambi, allora? Non proprio.

Da quel lontano 1994 l’Italia ha registrato la presenza imponente, impetuosa, ingombrante di un soft power di matrice tecnocratica che, circa 30 anni or sono, neppure esisteva. Certo esistevano i grand commis di Stato, i top manager delle imprese pubbliche, delle banche, dell’industria, ma non v’era traccia di una tecnocrazia che, cresciuta all’ombra di Bruxelles, dell’Eurotower, di Londra, di Wall Street e delle tante centrali finanziarie dell’Occidente, si atteggiasse a una sorta di upper class del paese. Una sorta di nuova “razza padrona” che – priva di legittimazione politica e senza mai sporcarsi le mani nell’agone turbolento e malmostoso delle competizioni elettorali – è convinta che i partiti non siano in grado di governare i cambiamenti del paese, che la società civile sia riottosa e iper-corporativa, che alla nazione debba somministrarsi l’asettico precipitato delle scienze dell’economia, della finanza, dell’organizzazione per poter gareggiare con il resto del mondo. Gli dei di questo Olimpo delle competenze sono stati spesso evocati nella storia del paese.

È successo con Ciampi, poi con Monti, poi con Draghi in un succedersi di invocazioni di aiuto e di solenni bocciature; con un amore/odio irriducibile quanto irrazionale; con il mito di Cincinnato sempre a portata di mano. Difficile contestare che Mario Draghi rappresenti una delle migliori risorse del paese, che la sua opera abbia riportato in carreggiata una nazione visibilmente deragliata perché finita in mano a un manipolo di sprovveduti. In questa campagna elettorale, quell’esperienza si erge come mai prima a pietra di paragone, a termine di riferimento, a confine rispetto a cui definirsi. Non era successo con Monti, né prima di oggi. Questa volta Cincinnato non tornerà ai suoi campi, né riporrà lo scettro del dittatore. Non l’uomo Cincinnato, ma l’idea che incarna, il mondo cui offre rappresentanza e voce; quel mondo non sembra disponibile a dismettere potere e prestigio.

Anzi. Anzi pretende un ruolo, uno spazio, una ricompensa. Vuole che la democrazia gli rechi un tributo. Monti venne cinto, prima ancora della sua missione, dal laticlavio del senatore a vita. A Draghi qualcosa di identico verrà tributato. Ma, ripeto, non è in discussione il destino dei singoli, quanto la sorte che competerà ad apparati, a enclave, a circuiti che guardano con sussiego la politica e lo stesso paese e sono convinti che senza di loro ogni speranza sia vana. Le cancellerie di mezzo mondo vacillerebbero, l’Ue si allarmerebbe, la Casa bianca si insospettirebbe se, di colpo, il paese venisse restituito al proprio, ordinario e scalcinato circo partitico, con i suoi show, le sue gaffe, la sua impreparazione, le sue immancabili mascalzonate.

È’ chiaramente il centro-sinistra la casa di questi circuiti e di questi poteri. La candidatura, prestigiosa e altamente simbolica, di Cottarelli si erge a dimostrazione visibile di quale sia il campo verso il quale pende il favore della nuova upper class meritocratica e tecnocratica. Non deve stupire, allora, che il centrodestra punti tutte le proprie fiches sul presidenzialismo, ossia sull’ultimo, estremo tentativo (come ha ricordato sabato scorso il professor Alfonso Celotto in una bella intervista) di conservare alla politica il governo del paese, di assicurare alla democrazia la reggenza della cosa pubblica, di sottrarsi alla morsa suadente dei competenti che reclamano le chiavi dello Stato, sia pure per salvarlo dagli inetti.

Probabilmente mai come in questo momento ridurre la campagna elettorale all’ennesimo, stantio confronto tra destra e sinistra sarebbe un grave errore di percezione. Chi ritiene di avere la prossima maggioranza dei consensi e dei voti punta dritto a rafforzare il ruolo della politica che si è mostrata tragicamente fragile nelle forme della democrazia parlamentare a ogni vera emergenza e in ogni vera crisi. Da Tangentopoli in poi i partiti hanno perso tutti i confronti con le emergenze del paese che si sono mostrati incapaci di fronteggiare e contenere; pandemia compresa. Commissariate in vario modo e a ogni rannuvolamento, le forze politiche sono ora di fronte alla sfida finale: cedere lo scettro del comando alle nuove élite accogliendole nelle proprie fila, augurandosi che non diventino corrosive e arroganti oppure riprendere la via delle riforme costituzionali per rafforzare la Repubblica e conservare alla politica il ruolo che in democrazia le deve competere. La battaglia sul presidenzialismo è solo una scaramuccia, il prologo di uno scontro più aspro tra un nuovo opaco e elitario che ha deciso di prendere posto nel cuore dello Stato e un vecchio che ne intuisce l’ostilità e, anche, i pericoli, ma che non ha l’autorevolezza e la credibilità per opporsi. Alberto Cisterna

Rino Formica per editorialedomani.it il 30 Agosto 2022.

Il 14 luglio scorso sono state sciolte le camere. Il 22 agosto sono state presentate le liste. Un rito vissuto come se fosse avvenuto un atto normale della vita parlamentare. Invece lo scioglimento delle camere è avvenuto non perché il governo sia stato sfiduciato ma perché ha avuto una fiducia ridotta.

Il che vuol dire che lo scioglimento anticipato delle camere è stato in realtà uno scioglimento posticipato. Doveva avvenire in precedenza. Da tempo bisognava prendere atto dell’afflosciamento della vita parlamentare: dal taglio dei parlamentari alla composizione e ricomposizione di governi antitetici. Ma questa è storia già scritta.

Fra il 22 agosto e il 25, il giorno in cui Mario Draghi ha parlato a Rimini, c’è stato un breve lasso di tempo in cui il sistema politico era in attesa di iniziare la corsa elettorale. Ma Draghi quel giorno, al Meeting di Comunione e liberazione, ha aperto e chiuso la campagna elettorale. Il suo discorso non è stato quello di un presidente infantilmente piccato per non essere stato sostenuto fino alla fine della legislatura. Sotto c’è qualcosa di più importante che prepara una evoluzione generale del quadro politico.

Dopo l’inno alla sua attività di governo, il gloria a chi lo ha sostenuto e a chi lo ha guidato, gli elogi ai sindacati e a tutti, ai sofferenti e ai gaudenti, in un’orgia di ringraziamenti, Draghi ha liquidato il partito degli amici di Draghi. Al Terzo polo ha detto in pratica “siete irrilevanti”.

Al Pd ha detto di non sbracciarsi “tanto non governerete”. Alle destre ha detto “otterrete la maggioranza ma non illudetevi che questa sia una condizione di stabilità politica, anche voi dovrete fare i conti non con l’agenda Draghi, ma con il metodo Draghi”, cioè la capacità di mettere insieme la maggioranza con l’opposizione, cioè creare condizioni di basso conflitto perché solo così è gestibile un paese che ha una politica economica e sociale condizionata dall’Europa. «Nessuno stato potrà fare da solo», ha detto Draghi. 

Ma se nessuno stato può fare da solo e lo stato politico sovranazionale non c’è diventa necessario un “lord protettore”. Si crea dunque una condizione astratta e concreta insieme. Astratta perché non è istituzionalmente presente; concreta perché sta nella realtà del Commonwealth: gli stati che appartengono a un impero comune mantengono un certo grado di autonomia ma in realtà sono in una situazione di garbato colonialismo.

Non dico che siamo nella situazione inglese del 1650. Ma con quel discorso Draghi ha dato il via a una nuova figura giuridica-istituzionale che supera l’assetto costituzionale del paese. Il lord protettore è chi usa la legge perché egli stesso è la legge, dispone della forza perché egli è la forza, manipola le istituzioni perché è egli stesso le istituzioni, gode della fiducia del potere esteri perché è punto di riferimenti del potere sovranazionale. Questo è il lord protettore moderno, non un dittatore ma uno che dà l’orientamento, il consiglio. Per il lord protettore il paese deve essere sereno, unito, deve superare le difficoltà economiche e sociali perché restare nella cabina di regia dell’impero.

Il lord protettore è una nuova figura che entrerà presto in conflitto con le figure di garanzia costituzionale del paese. Non dico che sarà il conflitto fra Cromwell e Carlo I, ma vedo all’orizzonte una situazione nella quale il lord protettore diventa incompatibile con la struttura democratica dell’assetto costituzionale del paese, che prevede una Repubblica parlamentare.

Massimiliano Panarari per "La Stampa" il 28 agosto 2022.

Tic toc, tic toc Di solito, il ticchettio dell'orologio indica lo scorrere del tempo, ma se si sostituisce l'ultima consonante con la "k", convertendolo nel nome del social più giovane della fase odierna della digitalizzazione, ne esce la "colonna sonora" di questa brutta e frustrante campagna elettorale. Dove il tempo non pare passare, ci tocca assistere a una raffica di eterni ritorni - in primis, nelle ricette programmatiche dei partiti - e l'incarnazione per antonomasia dell'usato in politica di questo Paese (lasciamo, naturalmente, decidere agli elettori se più "sicuro" o "insicuro") ci stupisce con l'ennesimo annuncio.

Come ha detto intervenendo in collegamento con La Piazza (l'evento politico di Affaritaliani), da oggi Silvio Berlusconi sbarca su TikTok. La dichiarazione è rimasta a un livello generico, quasi sibillino, e quindi soltanto nei prossimi giorni potremo capire come si dispiegherà l'iniziativa del fondatore-presidente di Forza Italia in seno all'applicazione mobile made in China considerata "strutturalmente" come la più refrattaria a un utilizzo in chiave politica.

Un paio di giorni fa a dichiarare l'ingresso in questo social network quintessenzialmente "disimpegnato" - e con cui si sono già cimentati i leader delle destre nostrane Giorgia Meloni e Matteo Salvini - era stato anche Carlo Calenda, presentandosi come incapace di esibirsi in molte delle specialità canterine o danzerine che vanno per la maggiore nei video, e dicendosi invece intenzionato a parlare «di politica, cultura, libri e proposte». Una scommessa da verificare e mettere alla prova, giustappunto. E, a dirla tutta, il dominus di Fi si era già preso una soddisfazione meno di due mesi fa grazie al video di un bacio appassionato con Marta Fascina, filmato da Massimo Boldi e fatto circolare anche su TikTok, con risultati molto lusinghieri in termini di visualizzazioni.

Resta, quindi, aperto l'interrogativo sulla reale efficacia elettorale di questo social network, su cui gli studiosi stanno lavorando alacremente e non hanno ancora espresso un giudizio unanime - e, per la verità, prevale un certo scetticismo proprio alla luce delle sue caratteristiche (l'app è costruita per veicolare brevi messaggi visuali e musicali), non precisamente compatibili con il dibattito politico e i principi di fondo del discorso pubblico.

Ma questa ulteriore "discesa in campo" di Berlusconi di per sé rappresenta una notizia, e produce un effetto comunicativo nettamente a suo beneficio, facendone discutere come di un "grande comunicatore" nato, sempre pronto a misurarsi con le novità del settore. Insomma, intanto se ne parla, e poi si vedrà Soprattutto alla luce della spiccata volatilità e volubilità dell'opinione pubblica nazionale di questo periodo, oscillante - come raccontano sondaggi e rilevazioni - tra leader agli antipodi, sprofondata - in varie sue fasce sempre più acriticamente - nelle piattaforme digitali (alla faccia dell'"esperienza immersiva") per attingere qualunque tipo di informazione, comprese quelle sugli affari pubblici.

Ecco, pertanto, il "pensiero meraviglioso" di chi circonda il Cav: non si può non essere laddove stanno tanti italiani, specie giovani (e incerti sul voto). D'altronde, si sa, quando arrivò il treno ad alta velocità della postmodernità il berlusconismo se ne fece locomotore, mentre la sinistra era ancora alla fermata dell'autobus. E, in tal modo, edificò la propria egemonia culturale - e sottoculturale - sul Paese. 

Che, però, nel frattempo ha perduto, consegnandone lo scettro ad altri leader, più in linea col tempo che avanza (tic toc, tic toc...), tutti - nel bene come nel male - "figli e figliocci" suoi, proiettati ad avvalersi delle tecnologie comunicative che, di volta in volta, emergevano durante lo specifico stadio temporale della loro ascesa e consacrazione. Berlusconi rimane, così, il dominatore indiscutibile (e pure assai discusso) dell'epoca del diluvio commerciale della televisione generalista, un medium alquanto differente da TikTok. E, anche se «volle, sempre volle, fortissimamente volle», non si può essere uomini di tutte le stagioni (comunicative).

Giacomo Susca per “il Giornale” il 26 agosto 2022.

Nell'era dell'iper-comunicazione e della sovraesposizione mediatica può bastare una parola per dire tutto. O quanto meno se lo augurano i leader di partito impegnati in questa campagna elettorale scoppiata d'improvviso in piena estate, quasi come un fenomeno meteorologico estremo. 

Sarebbe interessante conoscere le basi teoriche che hanno ispirato creativi e spin doctor delle formazioni contendenti. Intanto chiamiamola strategia «uninominale» della propaganda politica, la fase minimale della persuasione, basata non più su concetti articolati o verbose circonlocuzioni. Ben venga il dono della sintesi per arrivare dritti al punto, non solo nel senso di percentuali nei sondaggi, nel tentativo di guadagnarsi il consenso degli indecisi.

L'ultimo ad avventurarsi nel territorio dell'ermetismo applicato alla cartellonistica è Enrico Letta. Il segretario del Pd ha deciso di affidarsi, sui nuovi manifesti in arrivo nelle grandi città, ad un evocativo «Scegli». Qualcuno obietterà che con l'attuale legge elettorale per il cittadino-elettore ci sia ben poco da scegliere, tra listini bloccati e seggi blindati.

Ma la parola d'ordine - se ci è concesso, sempre che l'espressione dalle parti della sinistra non sia ritenuta troppo «di destra» - in questo caso si riferisce alla dicotomia rosso-nera (e guarda caso Letta è tifoso milanista...) in un mondo binario descritto dai democratici facendo ricorso a massicce dosi di semplificazione. Eccoli, quindi, i bivi tra cui orientarsi il fatidico 25 settembre: «Con Putin/Con l'Europa», «Discriminazioni/diritti», «Combustibili fossili/Energie rinnovabili», «Lavoro sottopagato/Salario minimo», «Più condoni per evasori/Meno tasse sul lavoro»... e via di accetta.

Rosso o nero, insomma, fate il vostro gioco. Rien ne va plus. Più che una tornata elettorale, sembra un giro di roulette. Bisogna capire se l'azzardo piacerà alla platea dei simpatizzanti dem, così da garantire a Letta il rientro al gran casinò di Palazzo Chigi. Dopotutto il Pd arriva buon terzo in questa corsa alla parola magica capace di conquistare anche l'elettore più smaliziato e assuefatto alle promesse elettorali. In principio era il verbo: Matteo Salvini ne ha individuato uno dal sapore mistico.

«Credo», con diverse declinazioni pratiche.

Certo, affidarsi a qualcun altro che nei prossimi cinque anni prenderà decisioni che impatteranno sulla nostra vita quotidiana non può che essere un atto di fede. E in cabina elettorale si è chiamati a fare un segno della croce, o no? Eppure c'è chi ha visto nel Credo del Capitano un rigurgito del comandamento fascista «Credere, obbedire, combattere». 

È la prova che anche in politica una parola è troppa e due sono poche, ma soprattutto non mette al riparo dalle polemiche. Lo sa bene Giorgia Meloni, che sta passando le settimane che precedono il voto a schivare gli attacchi degli avversari. Lei ha scelto lo slogan «Pronti», come recitano i poster affissi per strada, infatti vista l'aria da tiro al bersaglio i Fratelli d'Italia dovrebbero farsi trovare pronti a parare ogni colpo.

Leader e candidati hanno ancora un mese di tempo per cercare la parola chiave che schiuda le porte del Parlamento. Magari potersela cavare con un semplice «Votate(mi)!»... Gli italiani, invece, che di parole ne hanno ascoltate fin troppe, si accontenterebbero di mandare al governo qualcuno che finalmente mantenga la parola data.

Il vero "credo". La religione di Salvini, altro che rosario: guerra a poveri, diseredati e carcerati e dialogo con i pistoleri. Enzo Musolino su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Ci sarebbe davvero bisogno di un “credo laico” in Italia, di un rinnovato “I care” – quello di don Milani, ad esempio – che spinge la fede privata, la passione delle motivazioni “alte”, verso l’azione e la prassi della partecipazione alla vita degli altri, all’impegno sociale. Che conta, infatti, la fede, la fede in Dio ad esempio, se è chiusa in un “intimo” egoistico che non riconosce il Tu-Tutti (la compresenza e la produzione “comune” dei valori), che nega la ricchezza di un volto divino che si riverbera – ed esiste – nel volto di chiunque, del singolo e delle moltitudini? Che conta la fede se non è fede nel volto dei tanti “crocifissi” del mondo cui Cristo (R. Panikkar ci ha insegnato che esiste un “cristo sconosciuto” in tante tradizioni religiose) è fratello nella sofferenza?

In tale ottica – allo stesso tempo, mistica e davvero concreta – il “credere” si scioglie nella Politica, diviene servizio e paradigma includente di una Democrazia – neutra perché laica – ma non neutrale, non indifferente. È il senso, in breve, della nostra Democrazia nata dalla Costituzione Repubblicana, il senso di un prendere parte per un preciso corso storico, interpretato non come destino necessario ma come compito esistenziale. Questo “credo”, dunque, questo approccio che non cerca idoli o altari ma esempio e lotta quotidiana, merita il valore “politico” di un progresso da costruire senza garanzie “trascendenti” ma con la forza trascendentale di valori, sogni, obiettivi incardinati nella Storia, nelle battaglie passate, nel fuoco dell’esempio di madri e padri vittime di un sacrificio proficuo e produttivo.

Il “credo” costituzionale, quindi, può essere tradotto come Libertà e Giustizia – insieme – nel Diritto, per Tutti. Una “giustizia”, quindi, che non mortifica l’indagato, l’imputato, il condannato, che non dimentica gli ultimi degli ultimi come i “carcerati”, per i quali Aldo Moro si augurava non un diritto penale migliore ma “qualcosa di meglio del diritto penale”. È questo il “credo” di Salvini? Questo il senso di un motto pubblicitario apparentemente oscuro? O l’obiettivo, appunto, è propriamente quello di non raggiungere le menti, di non provocare il ricordo, di non attualizzare la Storia, la nostra storia? L’obiettivo non è neppure il “cuore”, non c’è empatia nel messaggio leghista, né attenzione a poveri, diseredati e incarcerati. È in sé irreligioso e, allo stesso tempo, lontano dalla laicità civile e giuridica. È un “credo” idolatrico, molto simile ai “rosari” agitati come armi contro avversari e “nemici” cui Salvini ci ha abituati da sempre.

Salvini non parla né a Dio (come De Gasperi), né ai preti (come Andreotti), e non parla neppure ai fedeli – cattolici o valdesi poco importa – che attraverso il “terzo settore” hanno salvato la faccia all’Italia, in questi anni di immigrazione tragica nel Mediterraneo, contribuendo a tutelare disperati e sopravvissuti, a colmare le mancanze dell’intervento pubblico anche in ambito penitenziario, dando “corpo” e vita all’opera di misericordia della “visita” e dell’ascolto. A quest’opera di misericordia – visitare i carcerati – Rita Bernardini, con e dopo Marco Pannella, ha dedicato la sua vita. Mentre scrivo, è giunta al decimo giorno di sciopero della fame per portare un po’ di sollievo, di ristoro, di amore nella comunità penitenziaria. Un altro credo, un’altra fede. Un’altra speranza: Spes contra Spem.

Salvini, invece, parla ai pistoleri del far west padronale (quelli che pretendono di farsi giustizia da soli sparando alle spalle degli “zingari”), parla a chi vuole rinchiudersi nel proprio fortino del benessere, come se il Mondo affamato che ci circonda non esistesse, parla ai timorosi del futuro, del nuovo, dei “diversi”, che interpretano i simboli tradizionali della fede locale come reticolati “identitari”, utili a separare “Noi e Loro”, a negare quella fratellanza universale di cui ci ha parlato Papa Francesco nella “Fratelli Tutti”. Di questo “credo” ci parla Salvini, nulla a che fare con il “folle e operativo” credo dei Padri Cappadoci che nella “Trinità” di Dio scoprirono l’articolazione di un Amore che non sa stare solo, che ha bisogno degli uomini, anche e soprattutto dei peccatori; non ha nulla a che fare con la Religione della Libertà degli idealisti laici e storicisti, dei cultori delle Istituzioni ordinate governare dal Diritto, nella giustizia.

Il “credo” di Salvini ha a che fare con i respingimenti a mare, i sequestri di navi cariche di anonime “nullità” prive di diritti, con i muri alla Trump e alla Orban, con le pistole libere e per tutti, con le “celle” piene di drogati e immigrati, con la paura fomentata ad arte contro “nemici” “diversi”, con un’identità di fede intesa come muscolare rappresentazione di forza… come se la “croce” non esistesse e i crocifissi – quelli veri e non di latta – fossero solo un’invenzione della Sinistra. Enzo Musolino

Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per "la Repubblica" il 27 agosto 2022.

(...) Si saprà a tempo debito quanto è costata al Pd la campagna aut-aut elaborata dall'agenzia di Bari Proforma e rispondente alla logica, invero piuttosto manichea, o di qua o di là. Ma certo, se oggi è diventata un piccolo fenomeno mediatico, come dimostra anche questo articoletto, lo si deve all'onda social che in tempo reale e dal basso (si spera) l'ha stravolta sostituendo le seriose, noiose e scontate alternative proposte da Letta con quiz bislacchi, ma a loro modo elettrizzanti che dal campo gastronomico si proiettano in altri cruciali ambiti della vita nuda tipo: "Brasiliana o Perizoma?". (...)

Così adesso all'agenzia Proforma saranno tutti contenti, che bene o male la loro campagna ha suscitato reazioni e quindi "fatto traffico"; mentre il povero Letta, nei cui panni nessuno oggi vorrebbe trovarsi, ha potuto dimostrare che non è poi così moscio e palloso, tanto che invece di fare buon viso a cattivo gioco ha afferrato il toro dello scherno per le corna riportandolo pure nella stalla dell'autoironia.

Domani del resto è un altro giorno, e sul guanciale o gli arrosticini del Pd, come sul perizoma o qualsivoglia altro meme, la prossima settimana sarà comunque calato l'oblio. Posto che stare appresso a tali dinamiche di brevissimo e necessitato respiro è al tempo stesso divertente e avvilente, i tenutari di archivi e cacciatori di precedenti farebbero notare come già nel 2001, dinnanzi ai primi e pioneristici sfottò diffusi on line ai danni delle gigantografie 6x3 che Berlusconi aveva disseminato per le strade d'Italia, nei laboratori di comunicazione di Forza Italia, con la partecipazione straordinaria dell'insostituibile Antonio Palmieri, si erano già posti il problema di rimbalzare la mala parata e l'avevano risolta, molto semplicemente, secondo i criteri della casa facendola propria e quindi organizzando a tamburo battente un concorso auto-satirico a premi nel quale, sembra di ricordare, fu proclamato vincitore lo slogan "Meno tasse per Totti".

 (...) Solo per chi crede che tutto più o meno non solo è già accaduto, ma ruota attorno a quattro o cinque cose, le solite, anche sul guanciale di Letta vale la pena di richiamare l'espressione triviale "buttarla in caciara", ma anche, se si preferisce, la più alta letteratura, nientemeno che Shakespeare: "Vivi sicuro nella vergogna. Ferito di beffa, fiorisci di beffa", da "Tutto è bene, quel che finisce bene" - anche se non sempre è così.

Il premier Draghi al Meeting di Rimini : “L’Italia è un grande paese, ce la farà con qualunque governo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Agosto 2022 

"Molti mi chiedono cosa sia la mia agenda, io credo che saranno gli italiani a scegliere chi li governerà. Quello che posso fare è una sintesi dei risultati del nostro governo. Vedo molti giovani, la parola deve essere di verità e di speranza. Non dobbiamo nascondere le difficoltà, ma non dobbiamo pensare che siano ostacoli inerti. Vinceremo queste sfide, la fiducia nel futuro si fonda su questa consapevolezza e sarà la nostra forza".

Al suo arrivo al meeting di CL. Mario Draghi ha attraversato la sala centrale della fiera di Rimini, piena di persone che hanno accompagnato tutto il suo percorso con un continuo applauso. “Grazie Mario, viva Draghi” sono le parole con cui la gente in attesa ha accolto il presidente del Consiglio Mario Draghi. Ad attenderlo, all’ingresso dei padiglioni, c’erano il presidente del Meeting Berhard Scholz, il sindaco di Rimini Sadegholvaad e il prefetto di Rimini Forlenza. 

E’ la terza volta che Mario Draghi partecipa al Meeting di Rimini. La prima nel 2009 quando era governatore della Banca d’Italia, la seconda nel 2020 a poca distanza dal termine del suo mandato come governatore della Banca Centrale Europea, e questa volta come presidente del consiglio dei ministri in carica per gli affari correnti. 

È stato il primo lungo discorso del premier Mario Draghi, oggi ospite al Meeting di Rimini dopo la pausa estiva. Un lungo discorso durato quasi un’ora, preceduto da una standing ovation interminabile, in cui ha sintetizzato il lavoro del suo governo, ma ha anche sottolineato un metodo, invitando “tutti ad andare a votare” e soprattutto sottolineando che «l’Italia è un grande paese e che ce la farà, qualunque sarà il governo e il suo colore politico». Tanti, poi, i temi trattati: dall’emergenza del gas alla crisi climatica, dalla guerra in Ucraina al collocamento del nostro Paese nell’Unione europea. E poi le sfide contro il Covid, la campagna vaccinale, le sottolineature contro chi spinge al «protezionismo e all’isolazionismo».  

Dopo l’introduzione al suo intervento da parte di Berhard Scholz  presidente del Meeting che ha ricordato la seconda volta del presidente del Consiglio al Meeting, nel 2020, attesa ed impegno per le parole del premier,: “Si è impegnato per una Unione europea più forte, si è impegnato per la difesa delle sovranità e difesa dell’Ucraina. Durante il suo governo l’Italia ha ottenuto una reputazione meritata, il suo spazio internazionale, in mezzo ad una situazione geopolitica sempre più conflittuale. Le siamo grati per poter ascoltare le sue riflessioni qui al Meeting di Rimini”. Poi dopo un lungo quasi applauso ha preso la parola il premier dal palco. “Due brevi considerazioni – dice Draghi –, grazie per i calore di questo applauso, grazie per la vostra accoglienza. Ai giovani dico, siete la speranza della politica“.

“Adesso come allora  è il momento di guardare avanti con immaginazione e pragmatismo, per ragionare sul paese che siamo e vogliamo diventare. Ci troviamo in un momento estremamente complesso per l’Italia e l’Europa”  riferendosi al 2020 . L’ultima volta al meeting “eravamo in una fase acuta e dolorosa della pandemia e si provava a riflettere su come ricostruire”, con la “necessità di sostenere famiglie e imprese. Dissi di tornare ad una crescita sostenibile“, “parlai di debito buono e debito cattivo. Queste idee hanno ispirato il governo di unità nazionale”. lo ha detto il premier Mario Draghi al Meeting Cl.  

Le sfide legate alla crisi ed il periodo della pandemia

“In pandemia parlai di crescita sostenibile, ha ispirato il governo di unità nazionale“. “Abbiamo gestito le emergenze che si sono presentate e abbiamo disegnato un paese più equo e moderno, ma molto resta da fare. Guidare l’Italia è un onore per cui sono grato al presidente Mattarella, alle forze politiche, agli italiani che mi hanno guidato con affetto. Mi auguro che chiunque avrà il privilegio di guidare il paese sarà ispirato da spirito repubblicano. L’Italia ce la farà anche questa volta“.

L’Italia grande paese

“L’Italia è un grande paese che ha tutto quel che serve per affrontare le difficoltà“. “Tra poche settimane gli italiani sceglieranno il nuovo parlamento. Vi invito tutti ad andare a votare”. 

Il futuro e le crisi geopolitiche

Draghi cita le crisi legate alla guerra, alla siccità, ai cambiamenti climatici. «Tocca ai governi rassicurare i cittadini, con sfide concrete». Poi parlando dell’Italia: «Le decisioni che prendiamo oggi sono destinate a segnare a lungo il futuro dell’Italia». 

Sulla scuola

“Scegliere di riaprire le scuole in presenza: ci davano degli irresponsabili. Noi avevamo valutato correttamente l’impatto delle vaccinazioni (che Draghi ha definito “uno sforzo imponente” ndr), ma il governo ha scelto con responsabilità“.

Crisi energetica

“Abbiamo usato rapidità di azione, effettuato un cambio radicale della politica energetica in Italia. Gli effetti sono stati immediati. Lo scorso anno circa il 40% delle importazioni di gas è venuto dalla Russia, oggi è la metà». «Il governo italiano ha spinto molto per avere un tetto massimo del gas. Alcuni paesi europei si oppongono perché temono che Mosca possa chiudere le forniture, ma gli eventi hanno evidenziato che questa possibilità ha dimostrato dei limiti”. Sulle ipotesi future: “La commissione europea studierà la possibilità di slegare costi dell’energia elettrica da quelli del gas, è un legame che non ha più senso”. 

Capitolo tasse

“Il governo non ha aumentato le tasse, eliminare ingiustizie non significa aumentare le tasse. Ecco il significato della riforma del Catasto, per fare emergere le case fantasma. Ci siamo impegnati perché non ci fossero nuovi condoni: l’evasione non può essere né tollerata, né incoraggiata”. Poi sulla crescita e un Pil aumentato ben oltre il 6%: “Siamo tornati a livelli pre pandemia in anticipo rispetto alle previsioni dell’Unione europea. Cresceremo più della zona euro nel suo complesso“. “Il governo si è mosso per il sostegno delle famiglie, con il taglio dell’Irpef e l’assegno unico, riformato assistenza ai non autosufficienti. Abbiamo permesso ai giovani under 36 di acquistare casa, le richieste lo scorso anni cresciute del 50% rispetto all’anno prima. Tutto questo è stata la nostra agenda sociale“. E ancora: “Quest’anno gli aiuti non hanno avuto bisogno di alcun scostamento di bilancio, prevediamo che il debito pubblico, dopo essere calato nell’ultimo anno calerà ancora del 3,8%. Si tratterebbe del maggior calo di un biennio a partire dal dopoguerra“.

Sul ruolo dell’Italia e no al protezionismo

“La credibilità interna deve andare di pari passo con quella internazionale. L’Italia è paese fondatore di Ue, protagonista del G7 e della Nato”. “Protezionismo e isolazionismo non coincidono con il nostro interesse nazionale“. Draghi ha ricordato le “illusioni autarchiche del secolo scorso”. aggiungendo “La credibilità interna deve andare di pari passo con la credibilità internazionale. L’Italia è un Paese fondatore dell’Unione europea, il nostro debito pubblico è detenuto per oltre il 25% da aziende straniere che contribuiscono alla crescita e al bilancio pubblico“. E qui è arrivato il suo affondo: “Per questo protezionismo e isolazionismo non coincidono con i nostri interessi internazionale”. Poi sulle spinte a lasciare l’Euro: “L’Italia non è mai stata forte quando ha fatto da sola. Siamo legati al Patto Atlantico con i valori che sono nella storia della nostra Repubblica. È con questa visione che i nostri padri e i nostri nonni hanno ricostruito l’Italia. E grazie al mercato unico che abbiamo costruito un mercato con forti tutele per i lavoratori. L’Italia ha bisogno di una Europa forte tanto e quanto un’Europa ha bisogno di un’Italia forte“. 

La guerra in Ucraina

Una parte del lungo intervento è stata destinata, naturalmente, anche alla guerra in Ucraina e sul ruolo che, in questo contesto, ha avuto il nostro paese. “L’invasione russa dell’Ucraina ha trovato un’Italia con una posizione chiara, al fianco del popolo ucraino e del suo diritto a difendersi. Una posizione concordata con l’Ue e gli alleati”. “L’Ucraina è un paese libero, sovrano e democratico, non possiamo dirci europei se non siamo pronti a difendere la libertà dell’Ucraina e dell’Europa. Allo stesso tempo dobbiamo essere pronti» a cercare «una pace duratura e sostenibile“. E non c’è contraddizione tra questo e l’imposizione di “sanzioni efficaci contro la Russia“. 

Pnrr

“Prova di credibilità del nostro Paese in Europa. Centreremo gli obiettivi prima del cambio di governo”. 

L’agenda Draghi

“Molti mi chiedono cosa sia la mia agenda, io credo che saranno gli italiani a scegliere chi li governerà. Quello che posso fare è una sintesi dei risultati del nostro governo. Vedo molti giovani, la parola deve essere di verità e di speranza. Non dobbiamo nascondere le difficoltà, ma non dobbiamo pensare che siano ostacoli inerti. Vinceremo queste sfide, la fiducia nel futuro si fonda su questa consapevolezza e sarà la nostra forza“. Il suo ricordo poi torna al 2020, quando il premier intervenne a Rimini e l’Italia era in piena pandemia. Due anni fa “quando mi preparavo per questo intervento eravamo in una fase acuta e dolorosa della pandemia e qui però al Meeting si provava già a riflettere su come ricostruire la nostra società, la nostra economia dopo quel terribile trauma. Nel mio intervento – ha ricordato Draghi – provai a disegnare una politica economica adatta a un momento così duro. Parlai dell’assoluta necessità di sostenere le famiglie, le imprese, in un periodo di recessione profonda, e dissi di tornare a una crescita sostenibile e condivisa. Parlai della distinzione tra “debito buono” e “debito cattivo”, ovvero tra la spesa che permette a un’economia di rafforzarsi e quella per interventi che non fanno crescere né la produzione né l’equità sociale; dell’importanza di sostenere i più deboli e i più giovani”. 

“Queste idee hanno ispirato l’azione del governo di unità nazionale che il Presidente della Repubblica mi ha poi chiesto di guidare, – ha sottolineato – qualche mese dopo, per rispondere alle crisi che stavamo attraversando. Adesso come allora, il Meeting è un’occasione unica per guardare avanti, con immaginazione e anche con pragmatismo. Per ragionare sul Paese che siamo, su quello che vogliamo diventare“. Si è chiuso così, alle 13 in punto, e dopo un lunghissimo applauso, il lungo intervento a tutto campo del presidente del Consiglio. 

L’antisovranista. Invettiva sonciniana contro la retorica patriottica dell’Italia Grande Paese. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Agosto 2022

Ogni nazione ha bisogno di autostima e anche Mario Draghi c’è cascato. Ma bisognerebbe riguardarsi Newsroom e poi magari meritarsi davvero gli elogi 

Dieci anni fa – ma sembrano cento – cominciò uno sceneggiato rimasto famoso per la sua prima scena. Era la storia d’un conduttore di talk-show che voleva migliorare lo stato dell’informazione – fantascienza, diranno i miei piccoli lettori.

La prima scena non era stata scritta. La prima puntata sarebbe dovuta cominciare col conduttore che riceve lettere di minacce. Poi il produttore – Scott Rudin, quello che l’anno scorso è passato da più prestigioso produttore americano a cattivo che lanciava oggetti contro assistenti inetti – disse all’autore, Aaron Sorkin, qualcosa tipo «sì però io la voglio vedere, questa scena in cui lui combina un tale casino che l’America gli si rivolta contro e lo minaccia di morte».

E così nacque Newsroom, lo sceneggiato (lo trovate su Sky, se volete sapere come prosegue) di cui tutti ricordiamo la premessa. Il conduttore è a un dibattito all’università, è di pessimo umore, è seduto tra una democratica e un repubblicano che dicono simmetriche puttanate, e una studentessa chiede: mi sa dire in breve perché l’America è il più grande paese del mondo?

Mi piace pensare che a quel punto l’autore avesse preso ispirazione da Gore Vidal, che trovava esasperanti questi slogan ed esortava gli americani a smetterla di sentirsi una grande democrazia; fatto sta che in quella prima scena fa dire alla democratica che è grande per le opportunità e al repubblicano che è grande per la libertà, e a quel punto il suo protagonista si lancia nella cosa che più funziona in tv e in letteratura: un’invettiva.

«Stai veramente dicendo agli studenti che l’America è così a stelle e strisce e meraviglie che siamo gli unici ad avere la libertà? Ce l’ha il Canada, ce l’ha il Giappone, ce l’ha persino il Belgio: ce l’hanno centottanta stati sovrani nel mondo».

Poi (le invettive funzionano per accumulo) elenca i primati che l’America non ha (alfabetizzazione, aspettativa di vita, esportazioni), e i tre che invece ha: «Siamo primi al mondo in popolazione carceraria, adulti che credono negli angeli, e spesa militare». Prima ancora che l’eroe americano protagonista di Newsroom termini la tirata antiamericana con «Quando mi chiedi che cosa ci renda il più grande paese del mondo, non so di che cazzo parli: Yosemite?» (che è un parco parecchio grosso, ve lo specifico perché so che avete Google rotto), è impossibile non pensare di nuovo a Gore Vidal.

«L’americano istruito medio è indotto a credere che in qualche modo gli Stati Uniti debbano guidare il mondo anche se praticamente nessuno ha qualche informazione circa quei paesi che dovremmo guidare». Ma, se persino il Belgio e molte altre nazioni ignorate dagli americani ed elencate dal portatore d’invettiva (nominava persino l’Italia, fu un gran momento per l’orgoglio nazionale) sono dotate di quella premessa che è la libertà, cos’è che fa grande un paese?

Certo, tutto è relativo: qui da noi siamo meno ridicoli dell’Inghilterra, non avendo una famiglia reale; siamo meno giungla degli Stati Uniti, avendo il congedo di maternità retribuito e la sanità pubblica; e siamo equipaggiati di meno istinti suicidi dei paesi scandinavi. Siamo un grande paese?

L’Italia è un grande paese, ha detto Mario Draghi a Rimini, proseguendo poi con un esempio invero da calendario di Frate Indovino e non all’altezza d’un discorso che è stato lodato in misura smisurata: gli italiani lo hanno dimostrato, cito a memoria, nel momento della difficoltà, come sempre fanno. Si riferiva alla pandemia, col solito luogo comune sugli italiani che sì, certo, zoppicano nell’ordinaria amministrazione ma, ah!, che slancio, che sprint, che guizzi nelle emergenze. (Tipo il bambino che va male a scuola ma è perché è troppo intelligente e si annoia).

Ma che hanno fatto di così straordinario gli italiani in pandemia, ovvero nei mesi di clausura? Cantare dai balconi? Accontentarsi di chiamare le amanti nei dieci minuti al giorno in cui andavano a passeggiare il cane entro duecento metri da casa? Stare sul divano con Netflix e poi passare due anni a dire che gli serviva il bonus psicologo per il trauma da divano? Basta veramente così poco per fare d’un paese i cui parchi son più piccini di quelli americani un grande paese?

Eh ma l’impero romano, eh ma duemila anni di storia, eh ma vuoi mettere crescere culturalmente attrezzati a non abbinare il cappuccino e la carbonara, eh ma lo vedi che tutti gli americani che segui su Instagram vengono in vacanza qui, eh ma Dante e Leonardo da Vinci e Michelangelo e Fellini.

Ogni volta che qualcuno fa l’elenco delle ragioni per cui sarebbe la storia d’Italia a fare dell’Italia un grande paese, io neanche m’incomodo a pensare che l’Italia ai tempi di quasi tutti (tranne Fellini) i nomi elencati neppure esisteva. Neppure mi metto a dire ma se Dante a meno di quarant’anni già era in esilio. Ogni volta, penso alla Grecia.

Non a Barbados o alle Maldive o ad altri posti in cui pure i ricchi e famosi vanno in vacanza e ciò non ne fa nazioni che indichiamo come esempio di rilevanza, ma solo posti in cui c’è il mare bello; no, io penso proprio alla Grecia.

Dove probabilmente in questo momento qualcuno sta dicendo ma guardate che siamo un grande paese, abbiamo fatto la storia, siamo le fondamenta della civiltà, abbiamo inventato tutto noi, la democrazia, la filosofia, chi potrebbe mettere in dubbio la nostra grandezza.

Dove, come ovunque, nessun governante dirà all’elettorato guardate che siete (siamo) una nazione residuale che vive di antiche glorie, siete (siamo) la vecchia di Pirandello che s’imbelletta, siete (siamo) convinti che il passato sia una gloria e invece è una prigione. Diranno: siamo un grande paese, non vedete quanti turisti ci vengono, non lo sapete che Platone e Sofocle erano roba nostra, ma dove volete che vadano senza di noi l’essere, il non essere, la drammaturgia, la moussaka. Finché un giorno si troveranno davanti, i greci con la deriva patriottica, quello di Newsroom, che si spazientirà: «Quando cianciate di grande paese, io non so di che cazzo parliate: del Partenone?». 

Comunione e disperazione. Gli applausi (generosi) del Meeting sono lo specchio di un’Italia che si vota a tutti i santi. Amedeo La Mattina su L'Inkiesta il 26 Agosto 2022

Il giorno prima hanno celebrato Giorgia Meloni, quello successivo Mario Draghi. È la fotografia del paese dell’ossimoro, che è disposto a votare, purché sia nuovo, un leader che non farà davvero il bene nazionale

In questa frettolosa quanto improvvisata campagna elettorale, una particolare attenzione mediatica è stata riservata al Meeting di Rimini. Si è posto l’accento sui giovani, che sono la speranza e il futuro. La solita solfa. Gustose (si fa per dire) articolesse su applausometri, minutaggio quando parla la donna premier in pectore, quando il suo presunto diretto competitor Dem, che disperatamente vuole vestire di rosso e di nero la competizione elettorale.

Ma l’Agcom fa fallire a Sandra e Raimondo il duetto taglia-terzo polo da Vespa. Poi arriva Draghi e si apre il sipario. Mette (anche lui disperatamente) la mano sui prossimi governanti perché comunque l’Italia ce la farà; e consente a Giorgia Meloni di dire che tutta la narrazione catastrofista della sinistra sulla destra al governo è stata smentita dal loro eroe. Facendo finta di non sentire però quando l’eroe sostiene che c’è un’unica strada per stare in questo turbolento mondo e in questa Europa piena di interessi diversi: rimanere ancorati alla sua impostazione di politica economica ed estera. Isolarsi e pensare in modo sovranista non è patriottico (anche tenerci Ita fa parte di questa corrente di pensiero), perché alla fine non fai veramente gli interessi del tuo Paese. Lo danneggi, anche quando pensi di ricontrattare il Pnrr oltre certi limiti, come ha avvertito, sempre a Rimini, il commissario Paolo Gentiloni.

Lui, il premier per gli affari correnti, darà una mano perfino a Meloni, che a quanto pare lo consulta. I narratori dei retroscena scrivono che gli chiederà perfino di indicarle il titolare del Tesoro, dell’Economia. Che le serve per accreditarsi in Europa e nel mondo Atlantico. Che sia vero o meno è importante, lo sono ancora di più le controindicazioni che questo implica.

Voglio dire, se fosse vero che Meloni si vuole assicurare una certa continuità su alcuni temi, e la benevolenza di certi ambienti anche finanziari che potrebbero disfarsi con un click del 25 percento dei nostri titoli di Stato, allora forse non avrebbe dovuto candidare Giulio Tremonti. Il quale non perde occasione per far notare che il price cap europeo sul gas è una scemenza, che la globalizzazione e le privatizzazioni pensate negli Novanta e Duemila, sono state nefaste, fatte con lo zampino di Draghi, che lo stesso Draghi nella sua ultima relazione da governatore italiano aveva emesso una buona valutazione sulla gestione dalla finanza pubblica di Tremonti (Berlusconi). Tranne che poi il banchiere cattivone, trasferitosi a Francoforte, scrive con il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Trichet la lettera-pizzino al governo di Roma, accusandolo di default, di tutti i mali del mondo e dello spread che galoppava vero i 600 punti. Come se non fosse vero.

Insomma, il candidato eccellente Tremonti, che dovrebbe luccicare nelle liste e nel futuro gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia, farà tappezzeria tra i damaschi e gli scricchiolii del parquet senatorio, e dovrebbe stare zitto e buono perché potrebbe intralciare il lavoro del manovratore di Palazzo Chigi. Meloni, se sarà lei, dovrebbe, su suggerimento di Tremonti, azzerare totalmente ogni tassa sulle bollette e chiedere a Bruxelles di non calcolare a debito la mancata entrata all’Erario. Una bella battaglia europea, auguri!

Ma intanto applausi al Meeting, applausi per tutti, soprattutto per coloro che odorano non di santità ma di potere. Del resto è sempre stato così, da quando io ricordi, dalla prima volta che ci andai per seguire Giulio Andreotti (preistoria politica) e poi con Berlusconi, qualunque cosa facesse e dicesse (pure le bestemmie) sotto l’ala protettiva del cardinal Ruini e di un papato conservatore. Ricordo i tiepidi applausi al cattolicesimo adulto Prodi, gli osanna nell’alto dei cieli per il leghista con il crocifisso, e il cattolico Giuseppe Conte. Ricordo pure che in sala stampa fu coniato il termine Comunione e fatturazione. Ma sono vecchie storie, i giovani di allora sono uomini o signori maturi, ma gli applausi sempre gli stessi; ora la sorpresa e lo sgomento di aver perso Draghi per mano di coloro che applaudono, spellandosi le mani, tutti in piedi.

Sono gli italiani che scordano in fretta. Quelli più in generale che prendono il reddito di cittadinanza e non vedono l’ora di votare quelli che glielo toglieranno, per poi dire eh no, ma non dovevate abbassare le tasse e buttare a mare i migranti?

È quello che Dario Di Vico sul Corriere chiama l’Italia dell’ossimoro, ricordando un altro editoriale acuto di Giovanni Orsina sulla Stampa in cui parla degli italiani alla continua ricerca di un prodotto politico sempre Nuovo, dopo avere bruciato nell’arco di pochi anni Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini.

Meloni dice di avere imparato di più facendo la cameriera che in Parlamento, allora dovrebbe sapere di che pasta è fatta l’antropologa politica italica. Comunque se c’è una cosa che dovrebbe tenere in conto sono le parole messe poco in evidenza di Draghi. Non solo il riferimento a non isolarsi e non ascoltare le sirene di Salvini e degli spacca bilanci pubblici. Ma di ritrovare dopo il 25 settembre lo spirito di coesione nazionale, tenere saldo lo spirito repubblicano e gli ideali europei.

Noi speriamo di ritrovare lui, ma gli ossimori appunto sono il dna civico. Comunque, spirito repubblicano e ideali europei non sono chiacchiere e distintivo buone per politologi perditempo e radical chic inconcludenti. Sono parole che vanno decrittate da buoni intenditori di cose pubbliche. È ciò cui tiene di più l’unico della vecchia guardia che rimarrà in servizio permanente per sette anni a scrutare le mosse della persona cui darà l’incarico di formare il governo se il voto popolare lo vorrà. Un signore che si chiama Sergio Mattarella. Poi Draghi ai giardinetti?

Francesco Olivo per “La Stampa” il 25 agosto 2022.

Se hai l'ambizione di essere votato meglio non guardare il telefonino mentre l'elettore ti parla, conciati come si deve, non usare argomenti da ricchi nelle borgate e ricorda a tutti che Calenda non è affidabile e forse pure mezzo comunista.

Scontato, ma meglio essere chiari e scriverlo per bene. 

Essere in lista con Forza Italia per molti è stata un'impresa e adesso non si può sbagliare. Silvio Berlusconi, non certo da oggi, ci tiene da morire, e dà tutte le istruzioni per non fare errori. Il Cav per questa nuova avventura ha voluto riesumare un grande classico del suo repertorio: Il manuale del buon candidato, inviandolo a tutti gli aspiranti parlamentari. 

La mentina in tasca stavolta viene data per scontata, la regimental forse, persino per il Cav, può risultare fuori moda, ma per il resto ci sono tutte le indicazioni su cosa dire e cosa no. Esempio: se in tv qualcuno noterà una certa vaghezza nella risposta degli esponenti azzurri alla domanda «Chi andrà a Palazzo Chigi?», si sappia che niente è causale: «Sulla futura leadership di governo è meglio soprassedere», si legge al punto 10.

Il documento contiene indicazioni molto precise, di comportamento, ma anche politiche. Dopo le norme su come concentrarsi sul territorio di competenza, arrivano le regole di base: «La campagna è brevissima per questo è necessario usare molto il concetto della "scelta di campo" (scritto in neretto). Lo scontro è tra "noi" e "loro", la sinistra». Al punto 4 c'è la descrizione dell'avversario: «Siamo di fronte ad un'alleanza di sinistra condizionata dagli esponenti più estremi (radicali, Sinistra e Libertà...)».

Mentre «il centro è rappresentato da Forza Italia». Bisogna ricordare il «voto utile» e, aspetto interessante, «è sbagliato citare sondaggi che danno in vantaggio il centrodestra perché si allontanano gli elettori indecisi e si accredita un risultato vincente dei nostri alleati». Dopo mesi di attacchi anche molto violenti, arriva una frenata: «Evitare polemiche eccessive con i fuoriusciti da Forza Italia, ma renderne evidenti le contraddizioni». 

Su Calenda e Renzi «la linea comunicativa più efficace può essere quella di descriverne la scarsa affidabilità politica e personale». Per cercare i voti non bisogna disperare: «Un elettore di sinistra o grillino non è per forza un elettore perso».

I messaggi da inviare agli elettori devono essere semplici e il modello è quasi ovvio: «Si consiglia di essere incisivi e di sfruttare anche le ripetizioni dei concetti principali (come fece ad esempio il Presidente Berlusconi durante le politiche del 2006 quando disse "Aboliremo l'Ici. Avete capito bene? Aboliremo l'Ici"». Lezioni di stile, ma anche tanta nostalgia. 

Non è pronta. L’avversario di Giorgia Meloni non è Enrico Letta, ma la realtà. Mario Lavia su L'Inkiesta il 26 Agosto 2022

La posizione di vantaggio assoluta nei sondaggi deve essere stata una sorpresa anche per la leader di Fratelli d’Italia, così abituata all’opposizione. Ma di fronte all’Europa, alla crisi e all’inadeguatezza del suo partito si trova da sola

Trenta giorni all’alba: e Giorgia Meloni non ha affatto già vinto. Anzi. Per lei sarà un mese durissimo, se non altro perché avrà tutti contro, un Pd scatenato sulla linea (peraltro discutibile) del “rosso o nero”, i cosiddetti suoi “alleati” che non vedono l’ora di ostacolare la sua ascesa a palazzo Chigi – che sarebbe letale per Salvini e problematica per le aziende di Silvio – e con il Terzo polo che se ha fiato in corpo rilancerà l’implicito monito di Mario Draghi che a Rimini ha pronunciato una frase inequivocabile: «Dalle illusioni autarchiche del secolo scorso alle pulsioni sovraniste che recentemente spingevano a lasciare l’euro, l’Italia non è ma stata forte quando ha deciso di fare da sola». In una frase, un manifesto antimeloniano, perché è lei che con più capacità di Salvini ha incarnato e incarna le “pulsioni sovraniste”.

Non solo, ma dal puntiglioso elenco delle criticità illustrato dal premier si capisce come l’enormità dei problemi, dall’aumento dei prezzi dell’energia al quadro geopolitico, sovrasti le (non) competenze della leader di FdI alle quali lei s’illude di poter ovviare ricorrendo a un vecchio e discusso politico come Giulio Tremonti, che per la nuova Europa di Ursula von der Leyen e Paolo Gentiloni è chiaramente non una soluzione ma un problema ulteriore.

Già si vede come i mercati e i grandi protagonisti della finanza stiano inviando chiari segnali di allarme. Il sito del Financial Times ieri riportava che «gli investitori sono preoccupati per la imprevedibilità della situazione politica italiana» mentre Bruxelles non si è ancora ripresa dallo shock per la defenestrazione di Draghi e non si capacita che al suo posto possa andare una diplomata all’istituto linguistico “Amerigo Vespucci” di Roma.

Lei, Giorgia, gasata dai sondaggi che la danno in testa ha scelto sin qui ha scelto la tattica più ovvia: nascondersi, parlare poco. In tv si vede solo con messaggi preregistrati. Si intuisce che non vorrebbe grandi confronti televisivi, se non con Enrico Letta (ma com’era ovvio l’Agcom ha decretato che il match a due danneggia gli altri e quindi non si può fare), le uscite mediatiche più forti sono state disastrose: il video dello stupro e l’attacco alla “devianza” in cui ha mescolato bullismo e obesità.

Non pare, sin qui, una campagna eccezionale. E sbaglierebbe a ritenere il risultato già acquisito. Come quei ciclisti che vanno in fuga troppo presto potrebbe ritrovarsi il “gruppo” degli inseguitori sbucare all’ultima curva e mangiarsela. Deve stare attenta ad alleati e avversari. E soprattutto alle risposte da dare ai grandi problemi che avanzano e ai nostri alleati internazionali che la guardano in cagnesco.

Giorgia Meloni, che probabilmente fino a non troppo tempo fa non immaginava nemmeno di poter correre per palazzo Chigi e che forse non si è ancora pienamente calata nella parte – lei così abituata e comoda all’opposizione – in realtà è sola. Il problema non è nemmeno tanto il Pd di Letta. L’Europa e la crisi sono i suoi grandi avversari: in una parola, la realtà. E la sua inadeguatezza culturale, la sua scarsezza di mezzi intellettuali. Non basta strillare in spagnolo.

Giulia Merlo per “Domani” il 26 agosto 2022.

A un mese esatto dal voto, l’esposizione mediatica è uno dei tasselli fondamentali per costruire la campagna elettorale. Per questo il faccia a faccia tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, proposto da Porta a Porta, è stato cancellato dall’Agcom, l’autorità garante per le comunicazioni, perché in violazione della par condicio. 

L’invito era stato esteso anche agli altri leader, che avrebbero avuto mezz’ora di colloquio individuale, ma il fatto di privilegiare i due che, secondo i sondaggi, rappresentano il primo e il secondo partito in corsa, avrebbe violato le norme sull’uguaglianza di rappresentazione delle forze in campo.

I dati di monitoraggio delle ultime due settimane – dal 3 al 20 di agosto – mostrano tuttavia come le regole della par condicio non siano state rispettate su scala ben più ampia. 

La legge del 2000 fissa le norme per garantire equità di trattamento alle forze politiche nel dibattito televisivo e radiofonico e divide il periodo elettorale in due. Il primo va dall’indizione dei cosiddetti comizi elettorali che segnano il via dell’iter elettorale fino al deposito delle liste, quindi dal 21 luglio al 22 agosto: per stabilire le quote di presenza in televisione si fa riferimento alla presenza dei partiti nelle camere uscenti o nel parlamento europeo, «in proporzione alla loro forza parlamentare».

Il secondo blocco temporale va dalla presentazione delle liste al momento del voto, dunque dal 23 agosto al 25 settembre, e in questo tempo viene prescritta l’uguaglianza assoluta delle liste candidate, anche per i soggetti politici che non ereditano alcuna rappresentanza nel parlamento uscente. Questo dovrebbe garantire anche alle sigle politiche che si affacciano per la prima volta alla campagna elettorale di non venire schiacciate sotto il peso mediatico dei partiti già noti all’opinione pubblica.

I dati appena pubblicati dall’Agcom, tuttavia, mostrano come anche nel periodo appena concluso i partiti hanno avuto una copertura televisiva diversa rispetto a quella prescritta per legge. 

Prendendo solo numeri della Camera, attualmente il gruppo più numeroso è quello della Lega con 131 iscritti, a seguire Partito democratico con 97 e Movimento 5 Stelle con 96. Eppure, come si vede nel grafico, la Lega e il M5s sono sotto rappresentati in molti telegiornali.

Lo stesso vale per la sovra rappresentazione di Forza Italia sulle tre reti Mediaset. Anche Azione di Carlo Calenda ha ricevuto molto più spazio mediatico rispetto alle dimensioni del gruppo in parlamento, che conta appena 7 deputati e 4 senatori, complici i vari cambi di fronte con l’alleanza poi saltata con il Pd. 

Tuttavia, è facile notare anche come la rappresentazione televisiva non sta incidendo sui sondaggi: FdI, dato come primo partito sopra il 20 per cento, ha una copertura mediatica inferiore a tutti gli altri grandi partiti, compresi quelli della sua coalizione, visto che il suo attuale gruppo parlamentare è più piccolo.

In vista dell’ultimo mese, l’autorità ha rivolto un richiamo a tutte le emittenti perché provvedano, «nel rispetto della propria autonomia editoriale, ad assicurare un rigoroso ed effettivo rispetto delle condizioni di parità di trattamento». Ora che la campagna elettorale entra nel vivo e ogni casella ha il suo candidato, sia all’uninominale che nei listini plurinominali, infatti, comincerà la corsa a ritagliarsi ogni possibile spazio di visibilità sia a livello di informazione locale che nazionale. Con il rischio che spariscano in un cono d’ombra i partiti minori o quelli nuovi che correranno perché hanno raggiunto le firme per depositare il simbolo, come per esempio la lista Unione popolare. 

In caso di violazione, è prevista una sanzione di tipo pecuniario che viene stabilita dall’Agcom. Il massimo previsto dalla legge è di circa 258mila euro, che di solito viene comminata ai programmi recidivi nella violazione.

Dai dati Agcom emerge un dato ulteriore, che riguarda la presenza di voci politiche femminili per partito politico presenti sugli schermi. Nessuna legge e certo non quella attuale sulla par condicio impone regole sul genere di chi prende la parola in nome del proprio schieramento politico, tuttavia i numeri mostrano in modo evidente la disparità. La legge elettorale prevede che il 40 per cento dei seggi vadano al genere meno rappresentato e l’alternanza di genere nelle liste della quota proporzionale. Tuttavia, l’elezione passa anche attraverso la riconoscibilità delle singole candidate e, almeno in questo momento, la loro visibilità sui media tradizionali è tutt’altro che garantita.

Nel totale di circa 70 ore in cui soggetti politici o istituzionali hanno preso la parola in tv dal 3 al 20 agosto, in 61 la voce era maschile (87 per cento del totale). L’unico partito in cui la voce più ascoltata è stata quella di una donna è inevitabilmente Fratelli d’Italia, con la leader Giorgia Meloni. A seguire il Pd, dove però le politiche donne hanno preso la parola solo nel 19 per cento del tempo di rappresentazione mediatica del partito.

Questa elezione anticipata è peculiare anche perché sarà l’ultima ad avvenire senza alcuna regola in materia di utilizzo dei social media. Se è vero che, secondo il rapporto Censis 2020, i telegiornali mantengono salda la leadership, rimanendo lo strumento che il 59 per cento degli italiani usa per informarsi, è altrettanto certo che la comunicazione politica si è massicciamente spostata sui social. Non a caso, polemiche ma anche contenuti elettorali vengono veicolati dai leader e dai candidati prima di tutto attraverso Facebook, Twitter, Instagram e ora anche Tik-Tok, dove non esistono regole chiare e la disintermediazione tra politico ed elettorato è massima.

Attualmente le uniche previsioni sono contenute nel regolamento approvato dal Consiglio dell’Agcom, che stabilisce un generico richiamo alle piattaforme chiamate a collaborare «mediante procedure di autoregolamentazione». In ambito video, «le piattaforme per la condivisione dei video sono tenute ad assumere ogni utile iniziativa volta ad assicurare il rispetto dei principi di tutela del pluralismo, della libertà di espressione, dell’imparzialità, indipendenza e obiettività dell’informazione», in conformità con gli impegni internazionali assunti con il Code of Practice on Disinformation

Tuttavia, dopo lo scandalo Cambridge Analytica del 2018, che ha rivelato le pratiche di raccolta dei dati durante le elezioni americane del 2016, l’attenzione europea sul tema è aumentata. Entro il 2023, infatti, la Commissione Europea punta ad approvare un regolamento in materia di pubblicità politica, introducendo obblighi di trasparenza e limiti all’uso dei dati personali sensibili. 

L’obiettivo è quello di limitare pratiche che incidano negativamente sulla libertà di informazione degli utenti, aumentando anche il potere delle autorità nazionali sui monopoli e sui fenomeni lesivi per il pluralismo. In attesa di conoscere il dettaglio di queste regole e soprattutto come verranno fatte rispettare, per le politiche di settembre gli unici obblighi – non sempre rispettati – valgono ancora solo per la tv.

Giorgia Meloni, effetto Giannini sulla "Stampa": più a sinistra del "Manifesto". Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 25 agosto 2022

Questa è la storia di una metamorfosi. Come tutte le storie significative, ha una premessa. Che riportata qui, scusate, vale doppio. Ciascun direttore di giornale è libero - appunto - di imprimere alla sua creatura la linea editoriale che ritiene. Pare una banalità, è invece uno dei motivi per cui siamo diversi dalla Russia, o dalla Cina, o dall'Iran, e gradiremmo continuare ad esserlo. Refertata la premessa, tocca al "sugo" manzoniano della storia, tocca alla notizia. Che più o meno suona così: Massimo Giannini ha deciso di spostare La Stampa a sinistra del Manifesto. Libero lui di farlo, liberi noi di raccontarlo.

Stiamo infatti semplicemente alla cronaca, se diciamo che il (fu) quotidiano della borghesia sabauda e liberale (e perciò stesso nazionale) ha ormai da settimane deciso di tramutarsi nell'organo ufficiale dell'immaginaria Resistenza dura e pura contro l'ancor più immaginario neofascismo alle porte.

PSEUDO-OBIETTIVO - È un percorso dall'alfabeto di Luigi Einaudi, che scriveva su La Stampa nel primo Novecento, a quello di Michela Murgia, che ci scrive (o prova a farlo) oggi, e racconta molto dell'ideologia italiana contemporanea. Che come referente ha sempre il PC, non più inteso però come Partito Comunista, ma come Politicamente Corretto. Nessuno declina questa postura censoria, sommamente moralista e volutamente strabica, come Giannini e la sua (nuova) Stampa. A cominciare dall'ipocrisia della finta terzietà. Il direttore-agit prop si picca spesso di presentare il lavoro suo e dei suoi redattori come quello di "cronisti oggettivi". In questo senso, La Stampa rappresenta uno stadio ulteriore perfino rispetto a Repubblica, che in qualche modo dichiara ancora un'appartenenza: l'ideologia perfetta è quella che si spaccia cozzaglia di non notizie l'allarme contro la "marea nera".

È esattamente quanto sta facendo in questi giorni il quotidiano torinese, che dapprima ha documentato la turpe esistenza dell'esposizione "O Roma o morte. Un secolo dalla Marcia", con tanto di "medaglie del Ventennio, busti, sculture, armi" e addirittura "vestiti d'epoca", in pratica una cellula dell'eversione nera. Quindi, ha amplificato l'attualissimo allarme con una serie di commenti ed interviste. Spiccava ieri in veste d'editoriale quello di Marco Revelli, sociologo di rango, cofondatore di Lotta Continua in cui rimase fino allo scioglimento (quindi anche dopo l'omicidio del commissario Calabresi), autodichiarato marxista "operaista", opinionista del Manifesto prima di approdare alla sua evoluzione patinata ed estremista griffata Giannini, diciamo non esattamente un profilo cavouriano.

DISINFORMAZIONE - A suo dire, "la paccottiglia in vendita nelle botteghe di souvenir" emana "una carica di minaccia e di vendicativa aggressività, che ne fa di per sé un fatto politico". Siamo a un flagrante picco di disinformatja: nei giorni in cui si scopre che le nuove leve del Pd catapultate da Letta nelle liste elettorali negano il diritto a esistere di Israele e celebrano il totalitarismo sovietico, il "fatto politico" diventano gli accendini e le bottiglie con la pelata mussoliniana di cui qualche svalvolato fa incetta da sempre a Predappio. Ad aggravare lo straniamento del lettore, campeggia un'intervista a Roberto Jarach, presidente del Memoriale della Shoah, che viene sondato a tutta pagina sui rischi fascisti incarnati da Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia (probabilmente il partito più filo-israeliano dell'arco costituzionale, en passant) senza che all'intervistatore vengano in mente il paragone di quel tal Raffaele La Regina tra la legittimità dello Stato ebraico e l'esistenza degli alieni, o l'intemerata di quella tal Rachele Scarpa contro "chi si ostina a parlare del diritto di Israele a difendersi". Assume allora i tratti della comicità involontaria l'intervento ospitato di fianco, vergato dal dirigente della sinistra dem Gianni Cuperlo (un menù molto variegato quello cucinato ieri da Giannini, come si conviene alla tradizione pluralista de La Stampa), che spronava "chi si candida" a "dimostrarsi antifascista". Ribaltamento della realtà, uso di parte dell'antifascismo, demonizzazione dell'avversario. Almeno Il Manifesto "quotidiano comunista" ce l'ha scritto sopra la testata. 

Da lastampa.it il 25 agosto 2022.

"Ogni Nazione ha diritto a privilegiare un'immigrazione più compatibile con la propria cultura, vi faccio un esempio". Nelle ultime ore è tornato virale il video di un discorso pronunciato da Giorgia Meloni nel 2018 ad Atreju, rilanciato in questa clip a scopo 'promozionale' da FdI in occasione dell'edizione 2019 dell'evento annuale del partito. Il tema è l'immigrazione e la leader di FdI proponeva di prendere "gli immigrati che ci servono" dal Venezuela, visto che sono per lo più cristiani e di origine italiana. 

Il concetto di aprire le porte dell'Italia a un'immigrazione 'più compatibile' (come l'ha definita) non è in realtà un pensiero nuovo nella dialettica di Meloni. La leader di FdI, ad esempio, l'aveva rilanciato nel 2019 durante un intervento al Senato: "Se è necessaria una certa quota di immigrazione, noi non abbiamo mai avuto alcun problema a chiedere di favorire chi ha origini italiane ed europee", aveva scritto nel saggio a sua firma pubblicato sul "Primo rapporto sull'islamizzazione d'Europa" curato dal suo partito. Nello scritto era tornata a parlare di Venezuela e aveva esteso questa sua idea di 'politica migratoria' al contesto internazionale. 

"Lo stesso – concludeva Meloni - dovrebbe valere su scala continentale: favorire, quando necessario, l'immigrazione di origine europea e, in seconda battuta, un'immigrazione proveniente da Stati che hanno dimostrato i non creare problemi di integrazione o di sicurezza". 

Nel corso dello stesso intervento aveva detto: "La protezione umanitaria è un istituto folle che esiste solo in italia, va abolita. Tra i commentatori della clip sui social, c'è chi ricorda che in Italia è in vigore la Legge Mancino, che condanna frasi, gesti, azioni e slogan che hanno come scopo l'incitamento all'odio, alla violenza, la discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. 

Angelo Amante e Crispian Balmer e Giselda Vagnoni per Reuters il 25 agosto 2022.

L'Italia cercherà di limitare l'influenza economica della Cina in Europa se il centrodestra vincerà le elezioni del mese prossimo e continuerà a sostenere militarmente l'Ucraina, ha detto a Reuters la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. 

Meloni è la favorita per diventare premier, con Fratelli d'Italia che secondo i sondaggi guiderà il blocco conservatore verso un'ampia vittoria nel voto del 25 settembre. Il prossimo governo dovrà affrontare un panorama internazionale in rapida evoluzione, con la Russia e la Cina che sfidano l'Occidente, ha dichiarato Meloni, aggiungendo che sotto la sua guida l'Italia non sarà "l'anello debole" dell'alleanza occidentale.

"L'Ucraina... è la punta dell'iceberg di un conflitto il cui obiettivo è la revisione degli assetti mondiali. La Russia è più rumorosa, la Cina è più silenziosa, ma la sua penetrazione arriva ovunque", ha detto in un'intervista. Nel 2019 l'Italia è stata la prima grande nazione industrializzata a entrare a far parte della Belt and Road Initiative cinese, un progetto colossale pensato per aumentare le rotte commerciali di Pechino.

Finora il patto, firmato durante una visita di Stato in Italia del presidente cinese Xi Jinping, non ha prodotto grandi risultati e Meloni ha detto che non intende perseguirlo. "Non c'è alcuna volontà politica da parte mia di favorire la penetrazione cinese in Italia o in Europa", ha dichiarato, aggiungendo di essere contraria alle spinte europee sui veicoli elettrici che favoriscono la Cina, uno dei principali produttori di batterie EV. 

Sebbene Meloni abbia sempre sostenuto l'Ucraina nel suo conflitto con la Russia, i suoi due principali alleati politici, il leader della Lega Matteo Salvini e quello di Forza Italia Silvio Berlusconi, hanno messo in dubbio l'opportunità di inviare armi a Kiev. Meloni ha dichiarato di non avere intenzione di ritirare tale sostegno, perché' l'immagine stereotipata dell'Italia come nazione "spaghetti e mandolino" deve finire.

"Voglio che l'Italia sia forte sullo scacchiere internazionale", ha detto. Fratelli d'Italia affonda le sue radici nel Movimento Sociale Italiano, il partito post-fascista nato all'indomani della seconda guerra mondiale. Enrico Letta, leader del Partito Democratico, ha dichiarato che la destra nazionalista italiana rappresenta una minaccia per la democrazia europea. In seguito è emerso un video in cui Meloni, da adolescente attivista politica, elogia Mussolini come "un buon politico".

Nell'intervista con la Reuters, ha detto che le sue opinioni sono cambiate dagli anni '90 e ha accusato Letta di instillare irresponsabilmente paura all'estero in vista di una sua possibile vittoria elettorale. "Quando però (si) apre la campagna elettorale scatta l'allarme fascista ... è abbastanza ridicola questa roba qui di andare a riprendere i video di quando avevi 15 anni ", ha detto Meloni. 

La leader di FdI ha paragonato il suo gruppo politico al Partito Repubblicano degli Stati Uniti e al Partito Conservatore britannico. Tuttavia, ha dichiarato di non avere piani per spostare l'ambasciata in Israele a Gerusalemme, come fatto dagli Stati Uniti nel 2020 né di ritenere praticabile un piano come quello della Gran Bretagna di inviare i richiedenti asilo in Ruanda per scoraggiarli ad attraversare la Manica.

Più di 800.000 migranti hanno raggiunto l'Italia dal 2011, la maggior parte dei quali a bordo di imbarcazioni provenienti dal Nord Africa. Meloni ha affermato che il modo migliore per fermare gli arrivi sarebbe quello di raggiungere un accordo con la Libia simile a quello stipulato con la Turchia nel 2016, in base al quale l'Unione Europea paga Ankara per ospitare i rifugiati ed evitare che tentino di raggiungere l'Europa. 

Secondo la presidente di FdI, le organizzazioni internazionali potrebbero allestire campi profughi in Libia e aiutare a identificare i richiedenti asilo legittimi, evitando violazioni dei diritti umani. Nel 2014, Fratelli d'Italia aveva chiesto lo smantellamento della moneta unica. Da allora ha fatto marcia indietro e ora sostiene la "piena adesione" dell'Italia all'integrazione europea.

Tuttavia, per Meloni i governi precedenti sono stati troppo deferenti nei confronti di Bruxelles e serve una presa di posizione più decisa. "Vuol dire semplicemente spiegare che la difesa dell'interesse nazionale come è importante per i francesi, come è importante per i tedeschi, è importante anche per noi", ha detto. 

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 25 agosto 2022.

Nella vita regna l'incertezza ma una cosa è sicura, oltre alla morte: sotto elezioni, cantanti, attori e celebrità ci metteranno al corrente delle proprie intenzioni di voto, possibilmente aprendo qualche polemica che meriterebbe di essere chiusa all'istante. L'intellettuale italiano è specializzato nello sfidare lo spettro del fascismo, in assenza di fascismo; nel predicare contro il populismo, senza sapere cosa sia; nell'essere un concentrato di conformismo, fingendo di essere «scomodo».

Il 2022 non fa eccezione. Unica, parziale novità: il bersaglio grosso non è Matteo Salvini, come al giro precedente, ma Giorgia Meloni, perché Fratelli d'Italia potrebbe essere il primo partito in assoluto. Aggiungiamo poi che la campagna del Partito democratico non decolla. Enrico Letta ha sfoderato alleanze ballerine, candidati impresentabili, ricette economiche punitive. Poi ha fatto «gli occhi della tigre», immedesimandosi in Rocky Balboa. L'intento era trasmettere una contagiosa volontà di vincere. Invece ha suscitato una contagiosa volontà di prendere in giro... Letta. Il centrosinistra ha poi cavalcato un vecchio filmato «compromettente» che si è rivelato subito un boomerang: la Meloni a diciannove anni elogiava Mussolini ma un presidente della Repubblica, padre nobile dello stesso partito di Letta, alla stessa età giurava fedeltà al comunismo subito dopo aver dismesso la camicia nera.

E allora? Allora, dice Chiara Ferragni che nelle Marche la giunta guidata da Fratelli d'Italia ha reso quasi impossibile l'aborto. È solo l'antipasto di quanto accadrà se Giorgia vincerà, secondo la influencer. Capiamo il problema, e non lo sottovalutiamo. Tuttavia la Meloni ha già chiarito che la legge sull'aborto non si tocca. La Ferragni versione «occhi della tigre» è in ottima compagnia. La cantante Elodie ha scritto sui social che il programma della Meloni le fa paura. In allegato, il post di un fan che riassumeva le temibili proposte di Fratelli d'Italia. Accidenti, a volte la fretta di esporsi gioca brutti scherzi. Infatti quel programma risale al 2018. Non sarà cambiato molto ma ora cosa può togliere la sensazione che Elodie, pur sbattendo «gli occhi della tigre», non sia informatissima?

Loredana Bertè, grande artista, evita i luoghi comuni delle canzonette mentre si trova a suo agio in quelli della politica. Con «occhi della tigre» ha tuonato «la Meloni si vergogni, tolga la fiamma dallo stemma del partito». Premio della giuria per la miglior indignazione. Ma non si è capito di cosa dovrebbe vergognarsi la Meloni, visto che la fiamma è stata per decenni nel simbolo del Movimento sociale italiano, che non era fuori legge.

Giorgia, intesa come la raffinata cantante, ha pubblicato sui social una triviale storia per fare il verso al famoso «Io sono Giorgia» dell'omonima politica, Giorgia Meloni appunto.

Questa l'analisi dell'artista, che dovete immaginare con «occhi della tigre»: «Anche io sono Giorgia, ma non rompo i coglioni a nessuno». Al che la Meloni ha detto di essere una fan e dunque di non voler rispondere.

E gli scrittori? Prendiamo un premio Strega, Antonio Scurati, che presto concluderà la trilogia in cui racconta, a modo tutto suo, la vita di Benito Mussolini. Scurati, sfoderando «occhi della tigre», sostiene che l'abiura del fascismo della Meloni non è credibile. Troppi i gesti in continuità con le camicie nere. 

Ad esempio, si è recata alla commemorazione di Sergio Ramelli, massacrato a colpi di chiave inglese in quanto iscritto al Fronte della gioventù. Fu uno spregevole omicidio. Alla commemorazione c'è andato anche Beppe Sala, il sindaco di Milano. Scurati ha una spiegazione anche per questo: «Eccesso di perbenismo democratico». Un'espressione che non sarebbe dispiaciuta alla propaganda... fascista.

Secondo Jonathan Bazzi, romanziere, la Meloni, quando parla, subisce «trasformazioni demoniache» e questo basta a dimostrare quanto sia cattiva.

Trasformazioni demoniache?

Qui ci vuole l'esorcista, anzi, facciamo l'esorciccio, il livello è da commedia, anche quando l'analisi si approfondisce (si fa per dire) per illuminare l'intera destra e addirittura il suo elettorato.

Il disegnatore Makkox ha detto che siamo un Paese di ignoranti, quindi è normale che vinca la destra. Proprio in quei giorni una sua vignetta, sul Foglio, illustrava un articolo in cui si sosteneva che Prezzolini fosse allievo di Longanesi. Ammazza che cultura... Prezzolini aveva già fondato la Voce quando Longanesi era troppo giovane per frequentare l'asilo. Il grande Leo si sarà girato nella tomba dal ridere.

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “La Stampa” il 25 agosto 2022. 

[…] Le donne italiane che hanno visibilità e seguito usano le armi a loro disposizione per fermarlo. Ma che effetto possono avere sulle elezioni? 

«Non credo che Chiara Ferragni e le altre possano spostare masse di voti - risponde il politologo Giovanni Diamanti - Possono però sensibilizzare fasce di popolazione che altrimenti rimarrebbero ai margini del dibattito». 

E, quindi, incidere - eventualmente - sull'astensionismo. Ancora più netto il giudizio del politologo Giovanni Orsina. 

«La gente si fa consigliare le creme di bellezza ma non mette il cervello in mano a Chiara Ferragni. Al massimo potrebbe spostare un uno o un due per mille. Con i follower che ha Chiara Ferragni vuol dire comunque avere un impatto su migliaia di persone ma a livello nazionale l'effetto è irrilevante».

Martina Piumatti per “il Giornale” il 25 agosto 2022. 

Nell'era iperconnessa, la campagna elettorale, tra bordate e mugugni, si consuma anche a colpi di tweet. Ma se l'orizzonte politico appare ancora caotico, la corsa al voto vista dall'arena social si misura in numeri. Dai volumi dell'engagement alle curve dell'audience, il verdetto sembrerebbe inequivocabile. 

Resta, poi, da verificare quanto il boom di follower si traduca in uno spostamento concreto di consensi. Insomma, dal like al voto il passo non è breve. 

Anche se l'analisi dell'uso dei social da parte dei leader politici restituisce una panoramica fluttuante ma netta su chi vince e chi perde. 

Il termometro social, secondo il monitoraggio Leader & Social di Telpress Italia srl, premia per la terza settimana di fila Giorgia Meloni che ottiene nel periodo dal 15 al 21 agosto il maggior numero di menzioni, utenti raggiunti e engagement, con 251.700 tra commenti, condivisioni e like.

Quasi due volte e mezzo il diretto competitor, Enrico Letta, che insegue a 109 mila. Un testa a testa ricalcato anche da tutti i sondaggi. La corrispondenza tra social e realtà non è, però, così automatica. 

Carlo Calenda è il più attivo sui profili e con il maggior numero di menzioni complessive raggiunge vette altissime di engagement, nonostante le quotazioni ferme intorno al 5% di Azione-Iv. 

Altra prova della sfasatura tra seguito in rete e intenzioni di voto, è il caso di Giuseppe Conte, che fa il pieno di follower e interazioni, a fronte di una sfilza di sondaggi impietosi con il M5s, dato appena sopra il 10%. 

Poi il fatto che Twitter, il social con il minor numero di utenti iscritti, si confermi il più usato dai leader nella campagna elettorale ne ridimensiona parecchio l'impatto sul consenso.

«Questo perché - ci spiegano da Telpress - Twitter si riduce a una tribuna elettorale rivolta a una platea scelta. Mentre la comunicazione politica con video o foto propria di altri social resta targettizzata ad un pubblico giovane». Dimostrazione ulteriore che i responsi dei social, sempre parziali, siano da prendere con le pinze.

«Un dato interessante - rileva Telpress - è l'ampio divario tra le conversazioni sui leader e quelle generate dai loro post, da cui emerge che la campagna elettorale interessa per ora una community ristretta». 

Ma se la nicchia di fanatici della politica da smartphone non rappresenta tutti i cittadini, almeno segnala un trend che dovrebbe suonare da monito per i vari leader o aspiranti tali. 

Durante la settimana ferragostana anche nel chiacchiericcio in formato digitale le beghe dei partiti in ansia pre elettorale «cedono il passo alle vacanze e al caro bollette», facendo perdere ai principali front-runner «tra il 40 e il 50% di audience e di engagement». 

Segno tangibile della distanza della politica dai problemi degli elettori. E che la partita, quella vera, per convincerli non si gioca solo sui social.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 25 agosto 2022.

Ci dev' essere un male oscuro nei partiti, una sorta di virus ancora non identificato. Complice la legge elettorale e il taglio dei parlamentari, l'offerta politica si è ridotta drasticamente. E chi finisce in lista? Una sfilza di gente che non definiremo "impresentabili", ma quantomeno "improponibili". E il guaio è che si tratta di una male che non risparmia nessuno. 

«Mi chiedo cosa abbiano fatto di male i cittadini del Lazio - dice ad esempio il deputato uscente Filippo Sensi, Pd - per vedersi candidati dalla Lega Claudio Durigon, quello del Parco Mussolini a Latina, e da Fratelli d'Italia Chiara Colosimo, cresciuta sotto lo sguardo protettivo di Codreanu».

Si ricorderà la storia. L'ex sottosegretario Claudio Durigon, già segretario generale del sindacato di destra Ugl (che risale alla Cisnal, di area Msi), il cui nome tradisce un'origine veneta, ma è di famiglia trapiantata nel Lazio meridionale ai tempi della Bonifica pontina, ebbe l'infelice idea che per migliorare le sorti di Latina si sarebbe potuta togliere l'intestazione del parco cittadino a Falcone e Borsellino, e ripristinare quella al fratello minore di Mussolini.

Chiara Colosimo a sua volta è una giovane dirigente di Fratelli d'Italia, al Consiglio regionale del Lazio dal 2012, da dieci anni inseguita da una foto galeotta scattata in una sezione del Msi, alla Garbatella dove Giorgia Meloni è nata e cresciuta: ebbene campeggiava sullo sfondo un motto del dittatore rumeno filonazista Codreanu. Lei da allora dice: «Io condanno senza se e senza ma fascismo e nazismo, ma Codreanu in quel disegno veniva esaltato per la sua visione del Cristianesimo».

Insomma pare proprio che i fantasmi del passato da quelle parti non tramontino mai. La concorrenza a questi due candidati può venire semmai da Carlotta Chiaraluce, stella di Italexit, il partito No-Euro no-Ue e No-Vax di Gianluigi Paragone, che viene da Casapound e non fa che ribadire quanto disprezzi la Liberazione del 25 Aprile. 

Improponibili però sono anche quelli che finiscono senza troppa attenzione nelle liste del Terzo Polo, come Stefania Modestino D'Angelo, la candidata che esaltava Lukashenko e disprezzava Zelensky per finire con il super-atlantista Carlo Calenda. E che ci fa, sempre con il Terzo Polo, candidata in Puglia, l'avvocatessa Antonietta Curlo, che poco tempo fa era candidata a Fasano con il centrodestra in una lista che si rifà a Gianni Alemanno?

Chi è senza peccato scagli la prima pietra, si dirà. E infatti, a scavare, d'improponibili se ne trovano a trecentosessanta gradi. Lo è Danilo Della Valle, a suo modo, candidato nel collegio di Caserta da quel Conte che non ha mai voluto essere apparentato alle simpatie filo Cremlino di alcuni dei suoi: un Cinque Stelle appassionato di geopolitica, di cui scrive per l'Antidiplomatico e per il blog di Beppe Grillo, che otto giorni prima dell'invasione della Russia in Ucraina scriveva (sul blog di Grillo) a favore di Putin, citando entusiasticamente Maria Zakharova. 

Improponibili, insomma. Per la faccia tosta con cui cambiano idea e cavallo o per quella con cui resistono su qualsiasi cavallo. Carlotta Toschi, candidata del partito di Mario Adinolfi, e cioé iper-tradizionalismo cattolico e rifiuto dei vaccini, arriva dritta dritta addirittura dall'Arcigay. Consuelo Locati, che rappresenta le famiglie delle vittime da Covid e contestava che non si fossero fatti i lockdown a Bergamo, ora sta con Paragone e contesta il Green Pass.

Dei guai del Pd, con il giovane segretario della Basilicata, Raffaele La Regina, uno che negava il diritto all'esistenza di Israele, pure si è molto detto. Ha fatto un passo indietro e forse non basterà, se un big come Stefano Bonaccini lo definisce «incompatibile con la nostra comunità politica». 

Ma Dorina Bianchi, che è passata per un'infinità di partiti fino al Pd, senza mai deflettere dalla sua battaglia contro la fecondazione assistita, che ci fa con +Europa di Emma Bonino che l'ha candidata nella sua Calabria? Beh, che cosa ci faccia tutta questa gente in partiti che non gli sono neppure lontanamente vicini, è chiarissimo. Portano voti. E i leader si turano il naso.

Così un potente del sottogoverno pugliese come Massimo Cassano, braccio operativo di Michele Emiliano, va con Calenda. Non portano voti, ma status, invece, gli ex ministri Antonio Guidi e Giulio Tremonti, l'ex sottosegretaria Eugenia Roccella, l'editore Antonio Angelucci, confluiti felicemente in FdI da Forza Italia, a soccorso del vincitore.

Abbagli populisti. Ne ha fatto le spese pure Federico Pizzarotti, primo sindaco 5 stelle di capoluogo e primo grillino a dire addio al fondatore Beppe. Augusto Minzolini il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Ne ha fatto le spese pure Federico Pizzarotti, primo sindaco 5 stelle di capoluogo e primo grillino a dire addio al fondatore Beppe. L'ex sindaco di Parma, dopo tanto trattare, non ha trovato posto nelle liste del terzo polo della coppia Calenda-Renzi, vittima anche lui di uno dei tanti abbagli presi dalla sua prima fede, quella grillino-populista. L'abbaglio porta il nome di una delle grandi battaglie del Movimento, quella che ha ridotto il numero dei parlamentari. Le liste elettorali chiuse ieri hanno dimostrato che anche la madre di tutte le battaglie grilline in realtà è stata una gran menata: alla fine i partiti, a causa della riduzione dei posti, hanno candidato solo i professionisti della politica o chi dopo due o tre legislature lo è diventato, mentre, a parte qualche eccezione, sono rimasti fuori i nomi della cosiddetta società civile. Quelli che una volta erano considerati i fiori all'occhiello.

Questo è il bilancio dell'operazione e i primi a farne le spese sono stati proprio i grillini fatti fuori dalla loro visione ispirata a Torquemada. Come si fa, infatti, a tagliare da una legislatura all'altra un terzo dei membri del Parlamento, senza nessun gradualismo? Gli altri problemi creati da questa concezione manichea verranno a galla dopo il 25 settembre, quando un Parlamento organizzato e strutturato per funzionare con poco meno di mille parlamentari dovrà far fronte al lavoro delle commissioni con i seicento superstiti. O meglio, il Senato ha riformato il proprio regolamento e in parte lo ha adeguato, mentre la Camera, guidata non per nulla da un esponente del populismo grillino, se ne è infischiata e ora saranno guai.

La verità è che la politica non si può fare con gli urli e i conati, non puoi farti guidare dalle viscere ma, come in tutte le cose, devi usare il cervello. Di provvedimenti presi con la «pancia», cercando di conquistare l'attenzione della ggente, e che a cose fatte hanno provocato un pentimento quasi generale, è piena la produzione parlamentare di segno populista che, nelle diverse stagioni, ha preso colori diversi. Un'altra sfida al Palazzo, ad esempio, fu l'eliminazione o la riduzione del finanziamento ai partiti. Ebbene, ora è difficile trovare qualcuno che non vorrebbe tornare indietro.

Lo stesso giudizio ora incombe pure sulla riduzione dei parlamentari fatta quasi per caso. C'è chi non se ne è ancora reso conto, ma chi dovrà guidare il governo dopo il 25 settembre lo farà alla cieca. Ad esempio, se i numeri dei ministri e dei sottosegretari (specie se saranno scelti tra gli eletti) sarà quello degli esecutivi precedenti, sarà difficile per la maggioranza avere in Aula i deputati o i senatori necessari per votare la fiducia. Più che politico, è un problema strutturale, si può dire matematico. Tant'è che c'è chi immagina siano necessarie subito delle riforme per evitare contrattempi. Addirittura lo teorizza un costituzionalista del Pd che, visti i pronostici elettorali, avrebbe tutti i motivi per negarlo. «Qui la questione principale osserva Stefano Ceccanti è quella di far girare la macchina. Con i nuovi numeri del Parlamento le fiducie dovrebbero essere votate in seduta comune dalle due Camere e allo stesso modo i decreti. Senza queste modifiche avranno problemi i governi di qualsiasi segno».

E torniamo all'origine di tutti mali: le riforme non possono essere fatte con i piedi. È la parabola, purtroppo, di una legislatura in cui per buona parte hanno regnato i 5 stelle. Ci vuole un minimo di competenza e di serietà. E i primi che dovrebbero rendersi conto nel segreto dell'urna che non si vota, appunto, con le viscere ma con il cervello, dovrebbero essere proprio gli elettori. Anche perché sono sempre i primi a pagare.

Stefano Zurlo per ilgiornale.it il 23 agosto 2022.  

Bye bye. Non verranno ricandidati e non torneranno. A meno che non vengano ripescati per incarichi di governo. Il partito degli esclusi è lungo, zeppo di nomi illustri, trasversale come è più del gruppo misto. Ma si fa ancora più chilometrico in casa del primo ex partito d'Italia, alle prese con defezioni, faide, regole severissime. 

Così escono di scena, almeno a questo giro, personaggi come Roberto Fico, presidente uscente della Camera e ora senza neppure uno strapuntino, quello che all'inizio prendeva l'autobus e stava con le mani in tasca, e con lui tanti altri. Alfonso Bonafede, il mitico dj Fofó, diventato ministro della Giustizia, non ci sarà. A lui si deve la nefasta riforma della giustizia che aveva introdotto l'orrore della prescrizione senza fine, o meglio l'ergastolo della prescrizione. Un obbrobrio poi corretto, per fortuna, da Marta Cartabia che ha preso il suo posto. 

Combinazione, lui se ne va, ma rimane quel Giuseppe Conte che Bonafede aveva scoperto all'università di Firenze e segnalato ai vertici del Movimento, creando così con un esperimento in laboratorio il più trasformista dei premier. 

La ruota gira e calpesta tanti big della nomenklatura giallorossa. Si possono citare in ordine sparso: saluta Federico d'Incà, roccioso ministro bellunese, appena uscito dal partito di Grillo & Conte, ma sempre dalle parti dei Progressisti, con Ambiente 2050, una sigla tutta da riempire, non certo il pullman che serviva per tornare in Parlamento. 

Addio anche a Paola Taverna, vicepresidente del Senato e dei 5 Stelle, decapitata dalla norma sul doppio mandato. Rimane in panchina e con lei il gaffeur dei gaffeur Danilo Toninelli, a suo modo un'icona. L'icona va in pezzi.

Bye bye anche per Pierpaolo Sileri, ma basterà munirsi di telecomando per scovarlo con una certa facilità. Tanto che un giorno, Giletti che lo aveva come ospite in studio, disse: «Quando la moglie vuole sapere dov'è, accende la tv». « Torno a fare il chirurgo», annuncia lui dopo una rapidissima e visibilissima carriera come senatore, viceministro e sottosegretario alla salute in quota 5 Stelle. 

Pierluigi Bersani, che è stato segretario del Partito democratico, la mette sull'ironia: «Dai ragazzi, ho settant'anni, do una mano, ma non mi ricandido». È arrivato il momento di pettinare le bambole. Game over anche per Vasco Errani, ex presidente della Regione Emilia-Romagna, poi in rotta con la casa madre.

Non c'è un collegio nemmeno per Luca Lotti, che però chiude fra le polemiche. Lui, uno dei big dell'era renziana, viene escluso suscitando le ire dei riformisti che fanno capo al ministro della difesa Lorenzo Guerini. E Renzi, perfido, commenta: « La scelta di Letta guidata dal rancore».

Molti resteranno fuori, anche perché i posti a disposizione si assottigliano. Ma c'è chi non arriva nemmeno ai blocchi di partenza. In casa Pd non si ripresentano l'ex vicepresidente del Senato Valeria Fedeli e l'ex ministro Barbara Pollastrini, figura storica della sinistra italiana. E ancora, dopo averci meditato per tempo, Roberta Pinotti, senatrice, la prima donna a diventare ministro della Difesa.

Dall'altra parte dell'emiciclo meno defezioni, ma i nomi pesano. Non ci sarà Renato Brunetta, ministro più draghiano di Draghi, che ha abbandonato Forza Italia quando Berlusconi ha mollato il governo Draghi. Insomma, per lui è un triplice fischio e congedo: da Forza Italia, dal governo e dalla Camera. Rimangono in disparte anche la viceministra Marina Sereni e un volto, anche della tv, non omologabile come Stefano Fassina, di Leu. 

Fuori anche Renata Polverini, sindacalista e poi parlamentare forzista, e via anche il senatore Giuseppe Moles, sottosegretario all'editoria. Si defila Gaetano Quagliarello, accademico, uno dei protagonisti delle trame centriste. Quagliarello ha deciso di tenersi alla larga dalla competizione.

Altri ci provano ma le chance sono risicate, una sfida quasi impossibile: come per Lucia Azzolina, sì proprio lei, la ministra dei banchi a rotelle. Dopo il ciao ciao ai Cinque stelle, ha trovato una scialuppa nel Partito democratico. L'offerta, prendere o lasciare, era un collegio difficilissimo in Sicilia. E lei ha accettato. L'importante, come diceva profetico il barone de Coubertin - anche se in realtà sembra che non sia stato lui a pronunciare quelle parole - è partecipare. Un adagio filosofico sempre valido, ma oggi ancora di più.

Paolo Cappelleri per l’ANSA il 24 agosto 2022.

A fine luglio, su Facebook, scriveva: "Non andrò a votare in ogni caso". Un mese dopo va a caccia di voti, candidato in Campania per un posto alla Camera dal M5s. E' la storia di Gaetano Amato, attore (da La squadra a Il Grande Torino) di Castellammare di Stabia, coinvolto dal partito di Giuseppe Conte "48 ore prima della chiusura delle liste", pur senza aver partecipato alle Parlamentarie del 16 agosto.

E nel giro di altre 48 ore, dopo l'ufficializzazione delle liste, è finito fra quei candidati che si sono trovati a dover giustificare controverse prese di posizione messe nero su bianco nei mesi precedenti sui social. In vecchi post su Facebook aveva definito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky "coglione" e lo stesso Di Maio "pezzo di m...", tanto che il ministro degli Esteri, capo politico di Impegno civico, si è rivolto a Conte: "Come hai scritto nello statuto del tuo partito: 'Le espressioni verbali aggressive devono essere considerate al pari di comportamenti violenti'. Trai tu le conseguenze. Spero solo che oltre a scriverli certi principi siano davvero rispettati. Ma forse è chiedere troppo".

A sua volta Di Maio è finito nel mirino di Fabio Desideri, ex sindaco di Marino (Roma) e ex consigliere regionale del Lazio, che presenta ricorso al Tar del Lazio e all'Ufficio elettorale centrale contro l'uso del nome Impegno civico, lo stesso della sua associazione civico politica "fondata con atto notarile nel 1994". Nelle liste del M5s, nel collegio uninominale Liguria 1 per il Senato, è entrato anche Enrico Nadasi, commercialista di Beppe Grillo.

Mentre in quelle di FdI c'è spazio per due 'nipoti d'arte': Andrea Tremaglia (alla Camera, capolista nel plurinominale Lombardia 3), dello storico dirigente Msi Mirko; e con meno chance in Piemonte, Giovanni Crosetto, nipote del fondatore del partito, Guido. Sempre in FdI, c'è anche Mario Fulgy Ravetto, gay che fece outing nel 2016 schierandosi contro le unioni civili fra omosessuali.

Fra i candidati di Azione c'è invece Guido Garau. Il 18 febbraio 2021 su Facebook metteva in guardia dall'ordoliberismo, "supporto ideologico di tutto il discorso d'insediamento di Mario Draghi". Ora il giornalista filosofo sardo e corre per il Senato con il partito che più spinge affinché Draghi resti premier. Così spiega il suo ripensamento: "Draghi, nella sua agenda di Governo, è andato ben oltre l'ordoliberalismo, aprendo al mercato e sostenendo i più deboli. Chi non vuole riconoscerlo era forse distratto o dimostra oggi tutta la sua faziosità".

Fabio Martini per “la Stampa” il 24 agosto 2022.

Sembra un paradosso, ma è vero: nei prossimi trentadue giorni tutti i leader continueranno a scambiarsi fiammeggianti invettive, ma nel frattempo la competizione per la scelta dei parlamentari si è già chiusa. Senza che nessuno se ne accorgesse, è accaduto quarantotto ore fa, con la presentazione delle liste nelle Corti di Appello: i nomi dei 600 parlamentari che rappresenteranno gli elettori di fatto sono stati già tutti scelti. Tutti. 

I 367 parlamentari di Camera e Senato che saranno eletti col sistema proporzionale (dando il voto al partito) usciranno da listini bloccati, secondo un ordine deciso dai partiti e agli elettori non resterà che prendere o lasciare. E lo stesso potere assoluto da parte dei leader si è prodotto nella scelta dei candidati per i 221 collegi.

Ma non è finita qui: molti dei candidati nominati dai partiti sono stati "paracadutati" in realtà locali a loro poco conosciute e tutto questo produrrà un risultato davvero originale: un Parlamento ricco di onorevoli senza radici. Di notabili che hanno alle spalle una cospicua esperienza virtuale - anni e anni di tweet, ore e ore di trasmissioni tv - ma che spesso conoscono a malapena i propri elettori in carne ed ossa ed ancora meno le realtà sociali, politiche ed umane che sono chiamati a rappresentare. 

Certo, la "colpa" è della legge elettorale, ma è pur vero che il criticatissimo "Rosatellum" è stato approvato nel 2017 col voto favorevole di Pd, Lega, Forza Italia e nei 5 anni successivi non è stato cambiato per la resistenza passiva di chi quella legge l'aveva voluta e la resistenza attiva di chi non l'aveva votata: Cinque stelle e Fratelli d'Italia.

E in ogni caso la storia insegna: anche una cattiva legge elettorale può essere corretta con una buona interpretazione. Stavolta una speciale applicazione è stata invece dedicata nella ricerca delle migliori "location", anche a costo di "delocalizzarsi". 

Il caso più significativo è quello del ministro ai Beni culturali Dario Franceschini, uno dei capicorrente del Pd: dal 2001 è stato eletto ininterrottamente, prima nel collegio uninominale della sua Ferrara e poi nei listini dell'Emilia-Romagna, ma nel 2018 è stato battuto nel collegio della sua città: stavolta, per andare sul sicuro, si è trasferito lontano da casa. È il numero uno nella lista bloccata in Campania: rielezione blindata.

Altrettanto originale, sempre in casa Pd, uno scambio di postazioni: il lucano Roberto Speranza, capofila di Articolo Uno (movimento che da quattro anni non si è mai cimentato in elezioni di alcun tipo) sarà capolista nella lista bloccata della Campania, mentre il campano Enzo Amendola guiderà le liste dem in Basilicata. 

Altro caso di "delocalizzazione" è quello di Piero Fassino: dopo sei legislature, l'ex leader Ds ed ex sindaco di Torino, incontrando resistenze in diverse circoscrizioni, ha trovato casa in Veneto, in cima al listino bloccato.

E proprio in Veneto, regione con due anime (una prevalente leghista e una cattolico-democratica) si incrociano, in modo bizzarro, altri destini. Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia, bolognese, davanti ad una rielezione incerta in Emilia-Romagna (dove era passata nel 2018) ha chiesto a Berlusconi un posto al sole nel listino bloccato in Veneto, proprio nella circoscrizione che sarebbe spettata alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati: un modo per indicare al "mondo" chi è più importante in casa azzurra? Una cosa è certa: Casellati è dovuta riparare suo malgrado in Basilicata. 

Sorride Paolo Giaretta, già sindaco di Padova, uno dei "grandi vecchi" del centro-sinistra veneto, l'unico in tanti anni che sia riuscito a battere Casellati nel collegio uninominale: «Curioso davvero questo brusco dirottamento di Casellati ma è figlio dei tempi: nella Prima Repubblica, quando c'erano le preferenze, erano i tuoi elettori che ti mandavano in Parlamento e così negli anni del Mattarellum: venivi eletto nel collegio ed erano i segretari dei partiti che chiedevano di candidarsi agli esponenti più stimati del collegio.

Ora - ed è questo il cambio di sistema - i segretari regionali non cercano i migliori, se c'è un posto ci si mettono loro e d'altra parte una volta che sei dentro la logica strettamente di partito, se da Roma ti chiedono di paracadutare qualcuno, non resta che adeguarsi». 

E i leader di partito? Nei due tempi della Repubblica, la Prima e la Seconda, candidarsi e farsi eleggere a casa propria era una sorta di obbligo morale: lo fu per De Gasperi e per Togliatti, per Moro e per Fanfani, per Craxi e Andreotti, ma anche per Berlusconi e Prodi, per Fini e per Bossi. E stavolta? Ognuno ha fatto a modo suo. 

Con qualche grossa sorpresa: Enrico Letta, eletto pochi mesi fa nel collegio uninominale di Siena, ha preferito due listini proporzionali bloccati (Lombardia e Veneto) e la stessa scelta minimalista l'ha fatta Matteo Renzi: anche lui preferisce evitare sconfitte e dunque soltanto proporzionale. Come Matteo Salvini: all'ultimo momento ha rinunciato a correre in un collegio lombardo. In quello di Monza ci sarà invece Silvio Berlusconi e in quella dell'Aquila Giorgia Meloni.

Chi ha chiesto e ottenuto un collegio uninominale sicuro è il leader dei Verdi Angelo Bonelli: Bologna-Imola. Ma i casi di paracadutati in posti sicuri sono diversi altri. Come il cuneese, ex Forza Italia e ora col Terzo polo, Enrico Costa che guiderà la lista proporzionale a Milano, la marchigiana Laura Boldrini (per il Pd) nella sicura Toscana, che ospita anche la umbra Anna Ascani. Il metodo dei nominati e paracadutati produce una prima sorpresa. 

La anticipa a La Stampa Arturo Parisi, proverbialmente l'"inventore" dell'Ulivo e tra i fondatori del Pd: «Al Senato, nel collegio più importante d'Italia per il Pd, quello di Bologna, è stato scelto Pierferdinando Casini, uno dei principali fautori del Porcellum, la legge che ha aperto la strada al peggiore dei vizi, poi ereditati dal Rosatellum: un Parlamento nominato dai capi-partito, con parlamentari privi di un mandato personale distinto. Questa candidatura mi impedirà di votare per il Pd».

Luca Bottura per “La Stampa” il 23 agosto 2022.  

Giulio Tremonti si candida con Fratelli d'Italia. È la prima volta in vita sua che ha fatto bene i conti. 

Renzi: "Mai nostri voti alla Destra". Quindi non si vota nemmeno da solo. 

Mario Adinolfi ha espresso solidarietà ad Alexandr Dugin, a conferma che le disgrazie non vengono mai sole. 

Laura Castelli, scusi, ma davvero ha dovuto rinunciare alla candidatura a Novara perché la base del Pd era in rivolta? "Questo lo dice lei". 

Matteo Salvini insiste per la reintroduzione del servizio militare. Del resto è un periodo della vita in cui ci si ammazzava di leghe. 

La Lega non ricandiderà Toni Iwobi, deputato di origine nigeriana della passata legislatura. Il famoso Ius Sòla. 

Forti dubbi degli elettori sulla candidatura di Claudio Lotito, con Forza Italia, in Molise: "Non esiste".

 "La pirata della strada che ha ucciso una bambina a Treviso era una militare americana ubriaca". "Meno male, va'. Chissà quanti video avrebbe pubblicato la Meloni se fosse stato un richiedente asilo africano".

In un post poi cancellato, Fratelli d'Italia ha diffuso anoressia e obesità tra le devianze. Ora: per l'obesità l'olio di ricino è notoriamente perfetto, ma sull'anoressia come pensano di agire? 

Letta ha detto su Twitter che lui è a favore di tutte le devianze. Nulla di strano: per votare Pd è oggettivamente necessaria qualche perversione.

Candidature chiuse tra risse e veleni: in tutti i partiti la corsa ai (pochi) seggi sicuri ha oscurato i programmi. Davide Varì su Il Dubbio il 23 agosto 2022.

Con un po’ di ironia potremmo definirle “elezioni de ‘noantri”: leader blindati e poi mariti, mogli e addirittura qualche fratello. Del resto era prevedibile: nel momento in cui il Parlamento, avvinto da una sorta di sindrome di Stoccolma nei confronti della furia barbarica grillina, ha deciso – 553 voti a favore e 14 no – di tagliare il numero di seggi, ecco, da quel momento è stato chiaro che ne avremmo viste di tutti i colori. E così è stato: mai la compilazione delle liste è stata così penosa.

Rese dei conti, imboscate e addii. Ma non è questo il problema. Che la politica fosse “sangue e merda”, lo aveva chiarito decenni fa Rino Formica. Il punto piuttosto è un altro: è il vuoto politico che attraversa i partiti, tutti i partiti. Ora, qui occorre dire che le ragioni di questo vuoto sono tante: c’è una crisi di sistema, una smarrimento dei partiti magistralmente raccontata da Sabino Cassese sul Corsera di ieri che non può essere certo risolta entro il 25 di settembre. Ma noi ci saremmo accontentati di molto meno: della narrazione, del benedetto storytelling, di quel raccontino superficiale – il minimo sindacale per un partito – che almeno avrebbe aiutato gli elettori a capire che razza di Paese abbiano in mente.

E dire che, in questi anni di fluttuazioni vorticose del voto, abbiamo ascoltato “narrazioni” di ogni tipo: prima c’è stata la “rottamazione” renziana; poi il vaffa dei grillini, infine la “belva securitaria” di Salvini. Tre racconti per tre leader, tutti e tre arrivati tra il 35 e il 40% e poi crollati miseramente. Adesso è il turno del “pronti” di Meloni: pronti a far governare una donna e pronti a mettere la faccia di una ex missina. La contronarrazione dem è inesistente, incagliata nell’eterno spauracchio della destra post fascista ed “eversiva” che, peraltro, non ha mai funzionato. La verità è che i democrat semplicemente non hanno una storia da raccontare al Paese. O almeno non ancora…

Fuori gli adulti. Dopo tante promesse, i partiti candidano i soliti noti e le vecchie glorie. Mario Lavia su L'Inkiesta il 23 Agosto 2022.

Il coinvolgimento dei migliori nomi in circolazione del Paese è mancato anche stavolta, a parte qualche caso isolato. Il Pd ha fatto una gran confusione, Fratelli d’Italia è andata a ripescare vecchie glorie di 20 anni fa e anche il Terzo Polo ha mancato di fare il colpo

Le liste elettorali dei partiti suggeriscono l’idea di una chiusura alla società, di un irrigidimento della politica rispetto all’Italia “vera”. Questa opinione – va subito chiarito – non discende affatto da quella visione mitica della società “buona” contrapposta alla politica “cattiva”, che è il nucleo della ideologia populista che ha infestato e infesta il Paese: piuttosto il problema che si pone è quello di una sempre minore compenetrazione tra la professione politica e le altre, il che determina non solo un crescente scadimento “tecnico” dei partiti ma soprattutto una preoccupante lontananza dalla società civile, intesa con Marx come «il vero focolare, il teatro di ogni storia». In altre parole, i canali di scorrimento tra politica e società appaiono sempre più ostruiti da una colata fatta di cooptazione, familismo, opportunismo. Tanto che alla fine il distacco tra gli onorevoli e i cittadini comuni si allarga sempre più.

È l’effetto, anche, dello sciagurato taglio casuale del numero dei parlamentari, voluto dai populisti di Conte e Di Maio e improvvidamente appoggiato dal Pd a direzione Zingaretti: meno parlamentari ci sono, meno possibilità per i non professionisti del Palazzo di accedere alle Camere.

C’era da aspettarselo. Ma le cose sono andate anche peggio delle previsioni. Oltre all’autodifesa dei gruppi dirigenti, si assiste ad un grande ritorno di vecchie glorie, personaggi che si credeva superati dalla inesorabilità del tempo e anche dalla loro progressiva marginalità e che invece, a sorpresa, riemergono alla faccia del rinnovamento (categoria a sua volta da maneggiare con cura, qualcuno lo spieghi a Enrico Letta che ha tirato fuori diversi gggiovani da mandare a un corso biennale alle Frattocchie, se ci fossero ancora). Dove sono dunque i giovani del volontariato, i docenti universitari, gli esperti di clima, tecnologie, medicina, mass media, politica internazionale? Dove sono i ricercatori del mondo della scienza, le persone di cultura, i famosi intellettuali?

I peggiori ci paiono i gran favoriti (vedremo) di Fratelli d’Italia che hanno incrociato l’ascissa dell’apparato, molto mediocre, con l’ordinata del vecchio personale di governo di 20 anni fa, dal redivivo Giulio Tremonti – il ministro del quasi-default – all’anziano filosofo Marcello Pera, già presidente del Senato decenni fa, a Giulio Terzi, ex ministro degli Esteri che si dimise per la vicenda dei marò in India senza averne informato l’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, che giustamente andò su tutte le furie.

Giorgia Meloni, che già inciampa vergognosamente – la pubblicazione del filmato dello stupro di una donna a Piacenza, il monito contro «le devianze» riferite a cose diversissime tra loro, mischiando vizi e malattie – non avendo una classe dirigente degna di questo nome, pensa di risolvere il problema tirando fuori dalla naftalina alcuni governanti dell’altroieri già poco credibili all’epoca. È il vecchio che avanza, altro che la retorica sulla giovane leader tanto abile e tanto poliglotta, è un mix di improvvisazione e vecchi merletti preoccupante per le sorti di un Paese che dovrà proseguire sulla strada delle riforme del Pnrr se vorrà continuare ad ottenere i fondi della perfida Europa.

Del Pd si è detto e scritto tantissimo, delle sue magagne, contraddizioni e gaffe, e della volontà epuratrice dell’area riformista, corretta da Letta in zona Cesarini dopo le rimostranze non solo su Twitter, come i puristi della politica vogliono far credere. Ma nel complesso un Cottarelli non fa primavera, specie se a cospetto dei “volti nuovi” di Furlan e Camusso. E c’è da dire che anche le liste del Terzo polo non scaldano il cuore.

Pur comprendendo che la truppa parlamentare non sarà enorme e che dunque bisogna garantire i big di due partiti c’è da chiedersi quale fosse il “colpo grosso” che veniva attribuito a Renzi; e come mai la novità-Calenda non abbia suscitato attrattive presso quei mondi produttivi e moderni cui quest’ultimo fa affidamento per una buon esordio della compagine.

Poca roba per quanto riguarda l’avvocato Conte: almeno è riuscito a arruolare Federico Cafiero De Raho, che molto difficilmente riuscirà a fare peggio di altri illustri magistrati, da Antonio Ingroia a Pietro Grasso, ma per il resto zero: com’è sempre stato per i populisti-mozzorecchi del M5s e tanto più oggi in pieno declino.

Fa eccezione il partito di Nicola Fratoianni che ha indicato, nelle liste del Pd, il sindacalista Aboubakar Soumahoro e Ilaria Cucchi.

Insomma prosegue e si accentua il fenomeno in atto da anni di un ceto politico che punta a perpetuare se stesso più che porsi il problema di portare in Parlamento e caso mai al governo la parte migliore del Paese, quella più colta, esperta, consapevole, rappresentativa. Anche per questo non è improbabile che, stando così le cose, per il governo si dovrà ricorrere ancora agli “adulti” che non siederanno in un Parlamento che già si preannuncia – chiunque vinca – al di sotto delle speranze e delle necessità.

Verso il voto. La giostra delle liste, che fatica la selezione della classe dirigente. Vittorio Ferla su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

La composizione delle liste elettorali è stata una giostra folle per tutti i partiti, chiamati a conciliare le aspettative di tutti, tra eletti uscenti e aspiranti candidati. Ne è emerso un film non proprio edificante che, salvo casi specifici, può approfondire il distacco tra i partiti e gli elettori, proprio in un momento in cui la tendenza all’astensione è in aumento.

La riduzione dei parlamentari, una legge elettorale di faticosa interpretazione e gestione, le procedure democratiche interne ormai inesistenti, la moltiplicazione di partiti personali e di liste d’occasione: tutti questi fattori indeboliscono sempre di più i partiti e li trasformano in fortini sempre più chiusi e spaventati delle conseguenze elettorali, ispirati da logiche di sopravvivenza di gruppi e correnti, con una difficoltà crescente di far maturare e selezionare una classe dirigente di qualità, degna di assumere poi incarichi di responsabilità. Sempre più forte è la tentazione di battere sentieri conosciuti e sicuri.

Riconfermando o promuovendo i propri fedelissimi, spesso stanchi ripetitori di luoghi comuni ascoltati in ambienti culturali sempre più asfittici. Oppure attingendo in modo maldestro e pasticciato alla cosiddetta società civile, con il rischio di imbarcare, insieme, personaggi di grande levatura professionale nel proprio specifico campo e soggetti del tutto improvvisati, accomunati tutti dalla inadeguatezza a gestire le dinamiche della politica parlamentare. Alla fine, la composizione delle liste permette così di valutare l’inefficacia della selezione del personale politico e i punti di debolezza specifici dei quattro principali schieramenti.

Esemplare il caso dei giovani candidati del Pd stigmatizzati e beffati dai loro stessi tweet, ispirati da posizioni filopalestinesi e antisioniste o inneggianti alla rivoluzione russa del 1917. Quei tweet infatti esprimono l’humus culturale e lo schematismo ideologico di fondo che la parte maggioritaria del Partito democratico, quella ancora ispirata ai valori postcomunisti, non riesce ad archiviare. Anzi, li perpetua, trasmettendoli alle sue nuove generazioni di dirigenti. Da una parte, c’è uno schema mentale tipico della sinistra arcaica: la distinzione, ormai angusta, tra oppressi e oppressori. Tra i primi ricadono i palestinesi e tra i secondi gli ebrei.

Con la conseguente negazione del diritto di Israele ad esistere e a difendersi. Senza comprendere che, così, si ridà fiato ai pregiudizi razziali più triti che nel novecento hanno costruito lo stereotipo negativo dell’ebreo ricco e capitalista, nemico del popolo e della nazione con le derive tragiche che ben conosciamo. Uno schema ideologico che è costato anche il fallimento del Labour guidato dall’antisemita Jeremy Corbyn. L’altro sottotesto fondamentale è quello evidenziato in questi giorni da Dror Eydar, l’ambasciatore di Israele in Italia (giunto a conclusione del suo mandato): Israele è l’avamposto del mondo occidentale nel Medio Oriente. Proprio qui scatta un altro tic ideologico della sinistra storica: la critica dell’Occidente, nutrita dal rifiuto del capitalismo economico e del libero mercato, rivolta prima di tutto contro l’America e, di riflesso, contro Israele.

A tutto ciò si aggiungono, poi, l’ammirazione e la nostalgia nei confronti della Rivoluzione d’ottobre che diede il via al primo – ma tragico e fallimentare – esempio di comunismo realizzato. Non è solo il tweet isolato di un giovane appassionato ma un po’ confuso. Basti ricordare che il manifesto politico della corrente Campo democratico di Goffredo Bettini – quella che ha vinto il congresso del 2019 del Pd con l’elezione di Nicola Zingaretti – si fonda proprio sulla esaltazione del “lampo del ’17” (cioè la rivoluzione russa) e sulla delusione per la “sconfitta” dell’89 (cioè il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Urss) che il resto del mondo occidentale salutò, viceversa, come un grande evento di liberazione dal totalitarismo novecentesco. Come può un grande partito come il Pd, che si candida a governare la settima potenza economica mondiale nelle sfide della modernità, affidarsi a una giovane classe dirigente ispirata a tale paccottiglia culturale?

Perfino peggio, sotto questo profilo, sta messo il partito di Giorgia Meloni. I quadri di Fratelli d’Italia sono notoriamente gli eredi della storia minore ma coriacea del postfascismo di fine 900. Sarebbe sciocco continuare a chiedere abiure di un passato lontanissimo e irripetibile, ma nelle scelte di consiglieri e candidati emerge plasticamente che la stessa Meloni sa di non potersi completamente affidare al suo partito. Un partito che – nonostante lo sdoganamento di Alleanza nazionale nel 1993-94 da parte di Berlusconi e la partecipazione ai diversi governi guidati dal Cavaliere fino al 2011 (nei quali Meloni è stata ministro) – non è mai riuscito a insediarsi nei gangli vitali del Deep State, il potere amministrativo reale (nei quali invece si è incistato con successo il Pd).

Ecco perché da tempo la leader sovranista, per godere di buoni consigli, si affida all’imprenditore ex Dc ed ex Fi Guido Crosetto, che è certamente un liberale illuminato. Le liste di Fratelli d’Italia rispecchiano questa debolezza. Per dare credibilità alle sue aspirazioni di premiership, Meloni ha dovuto rilanciare ex ministri di Forza Italia come Antonio Guidi e Giulio Tremonti, buoni per vantare capacità di governo. Ha recuperato il filosofo Marcello Pera e l’ex ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, in qualità di testimoni di liberalismo e atlantismo. Ha inserito nelle liste il magistrato Carlo Nordio e il prefetto Giuseppe Pecoraro, utili a tranquillizzare i poteri dello stato. Ma chissà se basterà.

Tutt’altra storia quella del M5s. Dopo aver fatto un giro completo di giostra di governo nella legislatura più folle della storia repubblicana, il movimento fondato da Beppe Grillo è tornato al socialpopulismo ecologista delle origini. In questa antica veste diventa necessario un gruppo dirigente molto più controllabile e coeso da affidare alla gestione di Giuseppe Conte. Via, dunque, gli eletti al secondo mandato e spazio ai fedelissimi dell’avvocato che hanno scalato le gerarchie di lista. Così, le parlamentarie farsesche sono servite solo a raccattare nuova e inesperta manovalanza parlamentare da mettere a disposizione di un leader intoccabile.

Infine, il Terzo Polo di Renzi e Calenda è ancora fortemente legato alla personalità dei leader e al gruppo ristretto di dirigenti che li ha seguiti. Le bocciature di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, e di Federico Pizzarotti, ex sindaco di Parma, sono la spia di quanto sia difficile – anche per le ‘nuove proposte’ – rispettare la promessa di allargare ai protagonisti delle esperienze amministrative locali quando c’è prima l’esigenza di salvaguardare le posizioni dei quadri nazionali, minacciate dal mix della legge elettorale e del taglio dei parlamentari.

E così, la stessa novità di Renew Europe in Italia, più che un totale inedito, resta, sul piano della classe dirigente, un segmento di gruppi dirigenti riformisti provenienti dal Pd (e, in parte minoritaria, da Forza Italia). Per tutti i protagonisti in corsa, insomma, resta aperta la questione della selezione della classe dirigente. Strettamente connessa all’eterno miraggio della riforma dei partiti: chissà se la prossima legislatura diventerà l’occasione giusta per farla.

Vittorio Ferla. Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient

Verso il 25 settembre. Gli italiani votano i leader, perché alle elezioni i singoli candidati (e i programmi) contano poco. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

Dopo lunghe discussioni, litigi e drammi personali, tutti i partiti hanno finalizzato le liste dei candidati per le elezioni politiche che si terranno in settembre. E, specialmente, hanno assegnato ad alcuni di essi i seggi considerati (sulla base del comportamento passato degli elettori e dei sondaggi svolti nell’ultimo periodo) “sicuri”, anche se, come dimostra l’esperienza, con le elezioni non si sa mai. Ciò ha comportato, com’era prevedibile, in tutte le forze politiche polemiche e molte delusioni.

Ma quanto conta davvero il candidato nel seggio uninominale (ma spesso, anche nel listino proporzionale) nella decisione di voto dell’elettore? Naturalmente dipende dai singoli casi. In certe circostanze la mancata riconferma di personaggi noti nel territorio suscita diffusi malumori e proteste. Ma, in generale, si può dire che, probabilmente, nella scelta dell’elettore, il candidato locale riveste, in una buona parte dei casi, un ruolo non decisivo. Certo, ci sono delle eccezioni, in cui il radicamento locale appare più importante, com’è il caso, ad esempio, di Stefano Ceccanti a Pisa, grande esperto di diritto costituzionale e deputato molto attivo nella passata legislatura, che il Pd aveva pensato di “sacrificare” (poi ripensandoci in extremis) per far posto a Nicola Fratoianni, leader di un partito alleato e non sempre gradito.

Resta il fatto, tuttavia che ciò che muove l’elettore– e che sta alla base dell’opzione esercitata nell’urna – sono soprattutto la figura del leader e il partito cui ci si sente più vicini. Quest’ultimo, specie in elezioni divisive come quelle che si annunciano a settembre, che sono caratterizzate dalla agguerrita contrapposizione di due campi uno contro l’altro, rappresenta spesso l’identità di area, il baluardo che si sceglie per difendersi – e possibilmente battere – il “nemico”, sovente considerato un pericolo per le sorti del paese. Si sceglie dunque spesso di votare il partito per cui ci si ritiene comunque più rappresentati, al di là delle critiche che gli si rivolgono e, talvolta, “turandosi il naso”, come hanno affermato molti elettori delusi dalle candidature.

Poi conta, specie in queste elezioni, la figura del leader. La sua reputazione (come abbiamo cercato di sottolineare in un articolo pubblicato qualche giorno fa su questo giornale) e la sua capacità di comunicazione, il suo appeal personale. Su quest’ultimo aspetto rivestono grande importanza le apparizioni televisive, gli interventi sui social media e i confronti che, auspicabilmente, si terranno nelle prossime settimane. Non a caso, sui “format” dei confronti finali che si terranno subito prima del voto è già in corso la polemica.

Infine, ovviamente, rivestono un ruolo importante – ma meno di quanto spesso si pensi – anche i contenuti: i programmi e più ancora le promesse pronunciate dal leader, benché, in molti casi, esse siano (come accade per certi slogan lanciati in questi giorni) assolutamente irrealizzabili a meno di scardinare definitivamente i nostri già precari conti pubblici. La figura del candidato è dunque così irrilevante? Certamente no, ma, molto probabilmente, riveste un ruolo meno importante di quanto non facciano la figura del leader e il posizionamento politico del partito: l’elettore finisce col decidere soprattutto in base a questi due ultimi elementi. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Pd ecologista a chiacchiere: "Quanti progetti ha bloccato Franceschini". Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 23 agosto 2022

Il programma del Pd è chiaro: «La transizione ecologica rappresenta una grandissima occasione per ammodernare l'Italia e reindirizzarne la traiettoria di sviluppo in uno scenario di sostenibilità». Qualcuno ritiene che le fonti pulite siano armi spuntate contro la gravissima crisi energetica che l'Europa, e soprattutto l'Italia, dovrà affrontare il prossimo inverno. Ma i dem su questo punto non sentono ragioni. Come ha spiegato più volte lo stesso segretario Enrico Letta, le rinnovabili sono il miglior antidoto al caro bollette. Al punto che l'unica proposta concreta contenuta nel programma per fronteggiare lo tsunami che secondo tutti gli esperti, a partire dal presidente dell'Autorità per l'energia, Stefano Besseghini, si sta per abbattere sul Paese è il contratto «luce sociale» per i redditi medio bassi.

Un contratto di fornitura energetica a prezzi agevolati (energia gratis fino a 1.350 KWh/anno per famiglia) prodotta totalmente da fonti rinnovabili e acquistata direttamente dalla società pubblica Acquirente Unico. E partendo dalla convinzione che «investire subito, da oggi, nell'energia pulita è tre volte strategico», i dem propongono anche «un piano nazionale per il risparmio energetico e interventi finalizzati ad aumentare drasticamente la quota di rinnovabili prodotte in Italia, anche attraverso lo sviluppo delle Comunità energetiche, con l'obiettivo di installare 85 GW di rinnovabili in più entro il 2030. Un obiettivo ambizioso ma realistico che porterà, secondo alcune stime, alla creazione di circa 500.000 nuovi posti di lavoro». Si può non essere d'accordo, e molti non lo sono, ma su questo terreno, anche per non creare attriti con i compagni di viaggio Bonelli e Fratoianni, il Nazareno ha scelto con determinazione il suo posizionamento.

RIGASSIFICATORI

Persino sui rigassificatori, tassello strategico del piano Draghi per la diversificazione energetica, i dem hanno cambiato idea. «Sono necessari», si legge sempre nel programma, «ma a condizione che costituiscano soluzioni-ponte, rimanendo attivi pochi anni». Insomma, se volete trovare i nemici della rivoluzione verde dovete cercare da un'altra parte. Attenti, però, a dove girate lo sguardo. Se vi capita di puntare gli occhi sul ministero della Cultura, infatti, potreste accorgervi che il titolare del dicastero, il super dirigente dem Dario Franceschini, capolista del Pd a Napoli per il Senato, sta sgambettando senza troppi problemi tutti i progetti per nuovi impianti di rinnovabili. Possibile? Che le Sovrintendenze locali, rappresentate dal ministero di Franceschini, siano spesso d'intralcio alla realizzazione di pale eoliche, impianti idroelettrici e campi fotovoltaici non è un mistero. Sembra, però, che nelle ultime settimane le opposizioni arrivate dai territori abbiano provocato una vera e propria falcidia. Il ministro Roberto Cingolani, quello lapidato per le sue aperture al nucleare pulito, sta infatti accelerando in questi giorni, in vista del passaggio di consegne, le pratiche autorizzative per smaltire l'arretrato. Secondo quanto riporta il Sole 24 Ore, le commissioni di valutazione del ministero della Transizione ecologica stanno liberando decine di progetti, puntando a dare il via libera entro fine agosto a nuove centrali rinnovabili per circa 1.200 megawatt.

PARERI NEGATIVI

Tuttavia tutte le pratiche devono anche passare sul tavolo di Franceschini, che deve dire l'ultima parola sulle questioni di carattere paesaggistico e culturale. Ebbene, stando ad una rilevazione congiunta dell'Osservatorio Regions2030 e di Public Affairs Advisor, su 76 pareri rilasciati, il ministro dem nell'87% dei casi ha espresso un giudizio negativo sulla realizzazione dei progetti già vistati dai colleghi della Transizione ecologica. Qui non stiamo parlando di qualche impuntatura o di una eccessiva puntigliosità, ma del blocco praticamente totale di tutti i nuovi impianti di quelle fonti pulite tanto care al partito. Certo, le rinnovabili, tanto amate dagli ambientalisti, hanno il difetto di essere ingombranti, invadenti e non discrete. L'energia di vento, sole e pioggia deve essere raccolta con immense pale, distese di moduli al cilicio, dighe di calcestruzzo che sbarrano intere vallate. Ma se gli ambientalisti che vogliono la transizione ecologica non si mettono d'accordo con quelli che non vogliono deturpare il territorio non se ne esce. Delle due l'una: o Franceschini spiega ai suoi colleghi del Pd che la rivoluzione verde è più complicata di quello che sembra oppure i dem la smettono di accusare il centrodestra di voler far saltare la transizione ecologica. L'alternativa è continuare a prendere in giro gli elettori: con la mano destra scrivere proclami a favore della lotta al cambiamento climatico e allarmi per la scarsa attenzione alle rinnovabili, con quella sinistra bocciare tutti i progetti per sviluppare le fonti pulite.

Duello Berlusconi-Letta sull'energia. Rigassificatori e nucleare, il Cav: stop ideologici della sinistra. Gaetano Mineo su Il Tempo il 23 agosto 2022

La vitale questione energia è sempre più protagonista in questa campagna elettorale. L'emergenza principale, il gas, continua a preoccupare i partiti ma soprattutto le famiglie italiane. E così, ieri, è andato in scena uno scontro a distanza, tra Silvio Berlusconi e Enrico Letta sul come affrontare il caro-energia.

Il presidente di Forza Italia ha sferrato un affondo contro «gli stop ideologici della sinistra» e questo mentre il prezzo del gas è salito ad Amsterdam a 283 euro al MWh dopo il nuovo stop del gasdotto Nord Stream annunciato venerdì scorso da Gazprom. E con previsioni che parlano di un ottobre di nuovi rincari, con aziende che saranno costrette a chiudere, se non si corre ai ripari.

Quindi, i due leader hanno presentato i rispettivi piani per affrontare la spinosa questione. Proposte profondamente diverse tra loro e che non toccano, al momento, il dilemma di fondo riguardante la transizione energetica e i piani che dovevano portare a una accelerazione sulle rinnovabili. «Mentre l'attenzione dei leader politici di questi giorni è tutta concentrata sulle liste e sulle candidature, sul nostro Paese si sta abbattendo un'emergenza molto grave: il costo dell'elettricità e del gas è cresciuto da 4 a 6 volte in un anno» ha detto Berlusconi nel corso della sua "pillola" quotidiana. Uno scenario, per il Cavaliere, che porta «molte famiglie a dover fare una scelta drammatica: o pagare le bollette o fare la spesa, molte imprese rischiano di non farcela, di chiudere o di dover ridurre il personale».

Da qui la ricetta: «Provvedimenti urgenti per sterilizzare gli aumenti e partendo immediatamente nella realizzazione di rigassificatori, dei termovalorizzatori, delle energie rinnovabili e anche con le ricerche sul nucleare pulito». In altri termini, «tutte cose che la miopia ideologica della sinistra ha bloccato per anni, portandoci a questa situazione», ha concluso Berlusconi.

Dall'altro schieramento, arriva la proposta di Letta in cinque punti. Il segretario Dem parte nel mettere a livello nazionale un tetto al prezzo dell'energia in Italia e questo «consentirà a imprese e famiglie di avere un prezzo calmierato e non soffrire per questi aumenti». Poi lancia un «nuovo contratto "luce sociale" per piccole e medie imprese e famiglie. Al terzo punto, colloca il «raddoppio dell'intensità del credito d'imposta per compensare gli extra costi per le imprese, i prezzi amministrati hanno effetto in futuro, il problema sono gli extra costi arrivati adesso». Poi snocciola un «piano nazionale per il risparmio energetico, perché arriva un inverno molto complicato». E chiude la cinquina con il «continuare con queste politiche per arrivare a un tetto europeo sul prezzo del gas e per l'incentivazione degli impianti di energie rinnovabili».

Tutti buoni propositi che dovranno fare i conti anche con le soluzioni europee, che sono lente e rischiano di arrivare troppo tardi e che a loro vole, vanno a sommarsi con le ipotesi nazionali ancora agli albori. Un puzzle di non facile soluzione perché i principali attori sono internazionali. Di certo, nella politica italiana c'è la consapevolezza condivisa che sia necessario fare i conti, subito, con un tema, quello dell'energia, che rischia di far saltare l'economia italiana e, di conseguenza, di compromettere la tenuta di imprese e famiglie. 

Letta si scaglia contro Meloni ma tace sulle gaffe dei suoi. Il dem tuona per il video che denuncia uno stupro, però tra i suoi candidati c'è chi inneggia al regime cinese. Pasquale Napolitano il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.

Si avvicina l'ora della disfatta e del possibile cambio al timone del Pd. Enrico Letta è in fase isterica. Attacca, insulta, entra a gamba tesa contro Giorgia Meloni. Inneggia alle devianze (alcol, droghe). E tace sulle gaffe dei suoi candidati di punta. Da cornice ha un partito lacerato e accompagnato da veleni per la chiusura delle liste. In Toscana lo stop a Luca Lotti crea malumori. In Campania il Pd è un pentolone a pressione. Nei collegi al proporzionale sono atterrati tutti big da fuori: Roberto Speranza, Dario Franceschini, Susanna Camusso. Le uniche concessioni di posti blindati sono per la dinastia De Luca. E intanto spunta un nuovo caso. Dopo i fan di Lenin e i nemici di Israele, tra i candidati under 35 non poteva mancare il filo cinese. Riecco che appare dal passato di Caterina Cerroni, capolista dem in Molise in quota giovani, un tweet di un viaggio a Pechino nel 2017 per partecipare al forum mondiale dei partiti ospitato dal Partito comunista Cinese, quello dell'esecuzioni e dei diritti negati a donne e lavoratori. Il messaggio è fantastico. La giovane dem individua nel «comunismo cinese il futuro della sinistra progressista». Appunto, un futuro fatto di violazioni e repressioni delle libertà. Il finale è da brividi: «la controversa distesa di piazza Tienanmen», scrive la candidata. Nulla di controverso: quella piazza è il simbolo della repressione nel sangue da parte del regime di Pechino delle proteste del popolo. Fucili puntati contro il popolo inerme. Ma per la candidata dem è qualcosa ancora di controverso. Letta si infuria e scarica la rabbia contro Meloni che denuncia uno stupro a Piacenza: «Il video su uno stupro è indecente e indecoroso. Faccio un appello a tutti per restare dentro i limiti della dignità e della decenza. Postando il video di quell'atto orribile ha dato l'idea del livello di cinismo a cui si arriva. Per noi la questione sicurezza è al primo posto, bisogna punire i crimini, difendere le vittime, ma c'è la necessità di rispettare le persone, uno dei punti essenziali della civiltà del nostro Paese, della civiltà giuridica e mediatica delle relazioni» - attacca il segretario Pd ai microfoni di Radio Popolare. Dura la replica. «Non consento a Enrico Letta di diffondere menzogne sul mio conto e fare bieca propaganda sul gravissimo stupro di Piacenza. Il video pubblicato sui miei social è oscurato in modo da non far riconoscere la vittima ed è preso dal sito di un importante quotidiano nazionale, a differenza di quanto da lui sostenuto. Questi metodi diffamatori e che distorcono la realtà sono ormai caratteristici di una sinistra allo sbando, lo sappiamo tutti da tempo, ma a tutto c'è un limite. Soprattutto quando si parla di stupri e violenza sulle donne. E mi vergogno francamente di leader politici che mentre usano uno stupro per attaccare me non spendono una parola di solidarietà per la vittima, evidentemente per paura di dover affrontare il tema dell'emergenza sicurezza aggravato dall'immigrazione illegale di massa. Che livello». La polemica si allarga. Meloni propone lo sport come antidoto alle devianze. Letta reagisce male e inneggia a droghe e alcool libero: «Due idee dell'Italia si confronteranno il 25 settembre: la nostra basata sulla libertà delle persone, una società che cerca di includere, crea lavoro e lotta contro le precarietà, l'altra è una società che va per le spicce, dove presunte maggioranze vogliono imporre regole a tutti» ribatte il segretario del Pd. Scatti che certificano il livello di nervosismo (altissimo) che si respira al Nazareno. E una nuova grana piomba in casa Letta: si divide l'alleanza Pd-Cinque stelle in Sicilia. L'ora buia sta per arrivare. Bonaccini e Franceschini preparano il funerale politico al segretario.

Maria Berlinguer per “la Stampa” il 23 agosto 2022.

Ho visto un post sui social di Fratelli d'Italia che dettagliava le cosiddette "devianze" di Giorgia Meloni in una serie di voci che non avevano niente a che vedere tra loro e che soprattutto non avevano niente a che vedere con la devianza: definire devianza l'autolesionismo, un fenomeno drammatico che dopo la pandemia ha colpito moltissimi adolescenti e tantissime famiglie, è un abominio». Filippo Sensi, ex portavoce di Renzi e Gentiloni, premette di parlare anche come promotore del bonus psicologo. 

In che senso?

«Non capisco come si possa definire l'obesità una devianza, quando a volte è legata a comportamenti alimentari e altre volte è invece un disturbo di salute. Non mi è sembrato solo uno scivolone ma qualcosa di più grave. 

Cosa significa parlare di italiani sani? Non voglio polemizzare con Giorgia Meloni. Non mi piace l'idea degli italiani sani contrapposti agli italiani devianti. Spesso queste devianze sono dei disturbi, delle malattie, non ci siamo proprio. 

Mi preoccupa molto l'idea di una presunta normalità contrapposta all'idea di devianza.

Nel post di Fratelli d'Italia si mettono obesità, anoressia e autolesionismo insieme a tabagismo e l'alcolismo, francamente mi sembra non solo intollerabile ma addirittura un insulto nei confronti di chi vive in prima persona, sulla propria pelle, una di queste condizioni».

Tutte questioni aggravate dalla pandemia.

«La parola devianza è profondamente inquietante. Secondo Fratelli d'Italia il deviante sarebbe uno che devia volontariamente non so rispetto a quale retta via, come se fosse una scelta deliberata il comportarsi in maniera rischiosa o in maniera da mettere a repentaglio il buon ordine sociale. 

Non capisco che cosa possa entrarci questo con un ragazzino che nasconde sotto la felpa il fatto di essersi tagliato con le forbici le braccia perché magari non ce la fa più o che ha tendenze suicide. 

Abbiamo fatto un lavoro molto serio su questo in Parlamento con il bonus psicologo, in particolare per dare una mano e sostenere l'aiuto alle famiglie e alle persone più esposte dopo questi anni di pandemia. Tutti i gruppi parlamentari lo hanno sostenuto, compreso Fratelli d'Italia. 

Pensare che siccome siamo in campagna elettorale quello sforzo unitario debba svanire e constatare che oggi non vale più la consapevolezza dell'importanza di affrontare la salute mentale come una priorità condivisa è una sconfessione del lavoro fatto insieme». 

Il bonus vale solo per gli adolescenti?

«Il sostegno non riguarda solo i ragazzi e il governo nel decreto aiuti lo ha esteso, perché disagi come ansia e depressione non riguardano solo i minori.

Si era trovata una coralità sul fatto che la salute mentale fosse una priorità». 

Considera questo solo uno scivolone?

«Qualcosa di più. Tutta la campagna di Meloni è stata finora rivolta a dire "Siamo pronti". Siamo affidabili, siamo una destra credibile, contemporanea, non siamo più quelli che descrivono gli avversari. Ma il punto è quali parole scegli, quali messaggi veicoli. Mi sembra che in queste ore i messaggi di Fratelli d'Italia contraddicano quella loro narrativa e rispondano a riflessi condizionati antichi, che sono quelli tradizionali della destra». 

Ferragni paladina delle fake news. Incita al voto contro il centrodestra. E rilancia un messaggio colmo di false accuse. Francesco Maria Del Vigo il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.

Chiara Ferragni torna sul luogo del delitto, cioè l'ultima delle sue passioni: la politica. E lo fa, come sempre, attraverso il suo seguitissimo account di Instagram e ripostando articoli scritti da altri. «Da leggere tutto, fate sentire la vostra voce il 25 settembre», suggerisce l'imprenditrice digitale. E il contenuto del quale caldeggia la lettura è una vera e propria chiamata alle armi in previsione della fine del mondo, dell'Amarmageddon: cioè la presunta vittoria del centrodestra. Tra lo smarchettamento di un outfit e qualche immagine di vita quotidiana, la regina delle influencer sgancia una bomba mediatica a dieci giorni dal voto. I toni dell'appello (pubblicato dalla pagina «Aprite il cervello» che, ovviamente, si definisce antifascista, antirazzista e Lgbt+ supporter) sono catastrofistici. Mitigati solo dall'inclusione di qualche ridicolo asterisco teoricamente inclusivissimo, quando invece il messaggio è un vero e proprio incitamento all'odio - che non va molto d'accordo con l'inclusione - nei confronti degli italiani che voteranno il centrodestra. «Per tantissime altre persone invece le elezioni saranno una carneficina (sic, ndr), rappresenteranno la nascita del governo più a destra della storia repubblicana». Tutto logico: gli alfieri del democraticissimo web, quello dell'uno vale uno (ricordiamo che Fedez firmò la prefazione a un libro di Casaleggio), non riescono ad accettare il probabile risultato di una tornata elettorale, cioè la massima rappresentazione della democrazia. Ma, esattamente, quali sarebbero le persone per le quali inizierebbe una carneficina? «I neri italiani o residenti che subiranno la portata dell'odio che si creerà dai toni accesissimi e brutali». E poi le persone Lgtb, le donne libere (le altre sono schiave?) che non potranno decidere del loro corpo, i giovani «che dovranno convivere con bigottismo e discriminazione». Chiariamoci: è legittimo e salutare esprimere le proprie posizioni. Ma propalare balle a milioni di follower è disinformazione. Regolamentare l'immigrazione non ha nulla a che vedere con la discriminazione, difendere la famiglia non significa perseguitare il popolo arcobaleno, nessuno ha mai parlato dell'abolizione della legge sull'aborto e l'unico vero asfissiante bigottismo è quello del politicamente corretto di buona parte della sinistra. Ma questo, gli influencer chic, fingono di non saperlo.

La rivincita delle bionde. Chiara Ferragni e Giorgia Ocasio-Cortez, il bipolarismo che ci meritiamo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Agosto 2022

Alla milionaria di Cremona è bastata una storia su Instagram per egemonizzare il dibattito pubblico. La nostra attenzione è equamente divisa tra una che di lavoro indossa cose che le regalano e la Meloni che dice di aver imparato più cose da cameriera che in Parlamento 

Quindi la classe dirigente di sinistra italiana, quella che non si fa condizionare la campagna elettorale da Giorgia Meloni, se la fa condizionare da Chiara Ferragni. E nessuno ha ancora titolato le cronache di questo agosto La rivincita delle bionde: cos’è, abbiamo paura d’essere didascalici?

(Mi perdonerete se vi costringo a uno sforzo di disabitudine, usando l’italiano «condizionare la campagna elettorale» invece del doppiaggese «dettare l’agenda»: la legge morale dentro di me mi vieta di utilizzare «agenda» come se in italiano volesse dire altro dalla Smythson. Oltretutto Ferragni le agende – quelle vere, con le pagine, dove segnare se t’interrogano in matematica o se devi comprare il Prostamol – le vende, come tutto, e quindi si creerebbe confusione).

Enrico Letta non aveva ancora finito di twittare «Viva le devianze» (segnalo l’assai precisa battuta dell’immunologa Antonella Viola: «È come se avesse detto “viva l’ipertensione”»), che tutti – opinionisti, politici, nani, ballerine – s’accorgevano della questione-Marche.

La questione-Marche non è che a Senigallia ci sono ottimi ristoranti stellati ma poi ti tocca fare il bagno nell’Adriatico e insomma possibile che se vuoi il mare della Sardegna ti tocchi mangiar male. La questione-Marche è che la regione, amministrata da Giorgia Meloni (dal suo partito, non da lei personalmente, ma questo articolo si rifiuta di uscire dalla contrapposizione tra bionde), si è opposta all’utilizzo della pillola abortiva, complicando quindi la vita alle marchigiane che vogliano abortire e, grazie all’illuminata 194, vedano il loro appuntamento in agenda ostacolato dai soliti obiettori e non possano cavarsela con la chimica.

Com’è successo? Chiara Ferragni ha forse letto “Mai dati”, il libro di Chiara Lalli e Sonia Montegiove sull’impossibilità non solo di abortire ma anche di sapere se puoi abortire giacché i dati sull’obiezione di coscienza nei singoli ospedali sono un mistero glorioso? Ha forse, oltre che un manager rapinato (da cui l’allarme-sicurezza da lei già lanciato come scorso tema di campagna elettorale), una cugina marchigiana indesideratamente gravida? Non so.

Quello che so – quello che sappiamo tutti – è che un giornale, The Vision, ha scritto un articolo sulla questione-Marche, e Chiara Ferragni ne ha pubblicato il titolo nelle proprie storie di Instagram. Tra una foto di lei con le amiche in barca, e una di lei a cavalcioni del marito (non sono due esempi ideali, sono proprio le foto subito prima e subito dopo), ha condiviso il post di The Vision con un suo commento.

Questo: «Ora è il nostro tempo di agire e far si [senza accento, nota di Soncini] che queste cose non accadano». Tutti sono corsi a interessarsi alle Marche come non avrebbero mai fatto (d’altra parte noialtri dei giornali sbagliamo altrettanti accenti e, diversamente dalla bionda milanese, non abbiamo ventotto milioni di follower: come possiamo mai egemonizzare il dibattito pubblico?).

Ma cos’aveva voluto dire, Chiara? Il doppiaggese della sintassi mi ha subito fatto pensare che, delle due interpretazioni possibili della frase, quella giusta fosse quella americana.

La divisione non è tra destra e sinistra: è tra le cose cui siamo abituati e quelle che ci destabilizzano: in America quasi nessuno fa un plissé per la gestazione per altri, che qui è la frontiera che neanche le più libertarie osano proporre; a noi d’altra parte pare inconcepibile non avere il servizio sanitario nazionale, e loro invece mettono in conto d’andare in bancarotta per una colica.

Quindi, in una nazione che si è abituata a non avere il congedo di maternità retribuito a meno di non lavorare per aziende eccezionalmente generose, l’idea di non poter però più abortire serenamente fino al sesto mese com’era finché l’aborto era tutelato dalla sentenza Roe v Wade ha destabilizzato gli americani. C’è stato, in risposta all’emergenza percepita, un affollamento di aziende che si precipitavano a dichiarare che avrebbero pagato la trasferta alle dipendenti che andavano ad abortire in Stati in cui era ancora concesso. I giornali hanno passato settimane ad aggiornare le liste, aspetta c’è anche Google, ecco pure H&M, Estée Lauder ci tiene a dire che l’aereo per il raschiamento è a carico del datore di lavoro.

Ecco, quando la bionda di Milano ha postato quell’intenzione, non l’ho presa come intenzione di voto (contro la bionda di Roma), ma come intenzione d’investimento: care follower marchigiane, il treno per andare ad abortire ve lo pago io, prima classe con tramezzino di Cracco.

Il treno per dove, visto che appunto non si può sapere come sia messo l’accesso all’aborto nei vari ospedali? Sonia Montegiove ieri ha twittato chiedendo a Roberto Speranza, che alle istanze sue e di Chiara Lalli non ha dato gran retta, se almeno alla Ferragni risponderà. Questo siamo: una nazione le cui priorità dipendono da quindici secondi di copertura ferragnica.

E per fortuna le liste elettorali sono chiuse: se questi quindici secondi di militanza alla Ferragni fossero scappati la settimana scorsa, ci sarebbero toccati giorni di speculazioni da parte di saperlalunghisti che ci spiegano che una multimilionaria ha intenzione di candidarsi, ché si sa che il potere sta in Parlamento, mica nell’egemonizzare il dibattito pubblico mentre vendi rossetti e sofficini.

Tutto questo mentre, al Meeting di Comunione e Liberazione, Giorgia Meloni diceva che la dignità viene dal lavoro, non dai sussidi, e che certo, i ragazzi vorrebbero un lavoro adeguato alla loro formazione, ma lei ritiene sia meglio un lavoro che non è quello per cui ha studiato che stare a casa col reddito di cittadinanza. Era già la cosa più di sinistra che avessi sentito da parecchio tempo, poi ha pure aggiunto che la insultano sempre perché ha fatto la cameriera, ma lei facendo la cameriera ha imparato tanto («più che stando in Parlamento», ha aggiunto, perché non diventi Giorgia Meloni se non ci metti sempre la chiusa populista, e perché le bionde lo sanno, che in Parlamento si perde tempo).

Finalmente abbiamo anche noi una donna di potere che abbia avuto un lavoro vero. Giorgia Ocasio-Cortez. Chissà come finirà lo scontro programmatico tra lei e una che, di lavoro, indossa delle cose che le regalano, inquadra i figli, decide di cosa dobbiamo discutere, vende diamanti e acrilico. Comunque vada, sarà il successo d’una bionda.

Considera l’impresentabile. Le devianze di Meloni, gli hashtag di Letta e le mie tre divagazioni di oggi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Agosto 2022

Nella campagna elettorale più pazza del mondo quando la destra fa (forse) una cazzata, la sinistra corre a raddoppiarla

Ciao, mi chiamo Guia e tanto per cambiare comincerò con una divagazione: non guardo gli snuff movie, quei filmati pornografici illegali in cui stupri e ammazzi qualcuna davanti alla macchina da presa per il diletto dei sadici. Ciao, mi chiamo Guia e non scriverò del video dello stupro di Piacenza, quel video messo on line per il diletto dei moralisti, che così possono indignarsi perché il video è on line, possono indignarsi dopo averlo guardato.

Non ne scriverò perché a quanto pare sono l’unica italiana che scriva sui giornali alla quale non passi per l’anticamera del cervello di guardarlo. Tra le acrobazie dialettiche che ho visto, da parte dei pervertiti della morale scatenati in questi giorni, una menzione d’onore va a: maledetti, mi avete costretto a guardarlo per segnalarlo. Perché se non lo segnalavi tu non c’era abbastanza indignazione in merito, perché tu sei al centro della notizia, tu, tu, tu.

Tragicamente carente sul tema della pornografia del dolore e di chi se ne fa dosi massicce, vorrei ripiegare su una scemenza minore, nell’àmbito della campagna elettorale più imbarazzante che si ricordi (e la prossima sarà peggio: ormai ci sono i social, dal precipizio del commento istantaneo e dell’implacabile imbarazzo non si risale). E dunque: devianze.

Catalogo incompleto dell’ennesimo disastro comunicativo di destra che magicamente diventa un disastro comunicativo di sinistra. Giorgia Meloni fa un video in cui dice che punta sullo sport per combattere le devianze: se vi fate fare la giustifica per saltare l’ora di ginnastica diventate alcolizzati, come peraltro la mia vita (mia di Soncini, no mia di Meloni) plasticamente dimostra; poiché il video dura un minuto e 53 secondi, decisamente troppo per la soglia d’attenzione dei polemisti dell’internet, la sintesi diventa: Meloni ce l’ha con le devianze, Meloni vuole impedirci d’essere culattoni; a quel punto Enrico Letta, che mai mai mai si fa dettare i temi da Meloni (egemone come solo Silvio lo fu prima di lei), e sempre sempre sempre se ne esce con risposte molto efficaci, twitta: Viva le devianze. Non la figa o la pappa col pomodoro: le devianze. (Lui l’ha scritto col cancelletto, ma non ho cuore d’infierire).

Seconda parte della divagazione: ma com’è che – nella campagna elettorale più pazza del mondo – quando la destra fa (forse) una cazzata, la sinistra corre a raddoppiarla? Quando Giorgia Meloni rilancia lo snuff movie pubblicato dal sito d’un giornale, Carlo Calenda va in tv a dirle che deve vergognarsi (e già vale la regola di Antonio Ricci: «vergogna» può dirlo solo il Gabibbo, che è un pupazzo), e poi aggiunge che «abbiamo entrambi delle figlie» e insomma vorremmo proteggerle, se le stuprassero, dalla diffusione delle immagini. Carlo Calenda ha 49 anni, Giorgia Meloni ne ha 45, la vittima del reato in oggetto ne ha 55. Fine divagazione sul paternalismo elettorale e l’infantilizzazione delle vittime, torniamo al momento in cui Letta cancelletta «Viva le devianze».

A quel punto l’elettorato razionale è perlopiù morto d’imbarazzo, i pochissimi sopravvissuti chiedono rantolando dove stia lo scandalo nel fatto che una di destra abbia come orizzonte di equilibrio sociale amore e ginnastica, i giornalisti sportivi che da decenni campano della mistica dello sport come riscatto sociale si fingono morti terrorizzati d’essere presi per meloniani. Enrico Letta è quindi solo col suo cancelletto? Macché. La militanza dell’internet ti soccorre sempre, quando una causa è proprio persa.

Intellettuali senza senso del ridicolo (un ossimoro se mai ce n’è stato uno) si precipitano a rivendicare che, delle dieci devianze elencate da Meloni nella sua card (abbiamo già detto che la soglia d’attenzione dell’elettorato sono ormai le tre righe d’una card?), loro ne hanno sette. Sette? Cioè sei sia anoressica sia bulimica sia facente parte d’una baby gang? Accipicchia, forse invece di commentare la campagna elettorale dovresti chiuderti in una clinica psichiatrica.

Il giorno dopo – ieri – arrivano i giornali, a far scrivere i difensori delle devianze, a intervistare quelli fieri d’essere grassi. «Il tossico o l’alcolista non è razionalmente categorizzabile con chi abbia un disturbo alimentare», leggo. Ah no? In Intolerant (è su Netflix), Jim Jefferies dice che viene da una famiglia di obesi, si tiene in forma solo perché deve salire su un palco e sennò poi gli danno del ciccione (il body shaming ha una sua utilità, Giorgia potrebbe farci una card, chissà poi come le risponde Letta), ha visto sua madre ammazzarsi di cibo, e non capisce perché si possa insultare, svergognare, umiliare qualunque dipendenza ma non quella da cibo: a nessuno viene in mente di dire a un cocainomane o a un fumatore «sei bello così come sei, sii te stesso».

Sempre su Netflix, in Live at Red Rocks, Bill Burr dice che l’hanno inventata le mediocri, la body positivity (l’ideologia del sii te stessa e sei bella così come sei, grazie alla quale parliamo solo e ossessivamente di corpi e di quanto pesa la gente, mai per dirle di mettersi a dieta ma comunque dieci volte quanto ne parlavamo prima, quando il mondo era autorizzato a pensare che noi culone dovessimo dimagrire). Se una mediamente cessa convince le aziende che nelle pubblicità sia bene mettere le deformi e le obese, non le toccherà più vedere delle bellone. Forse ha ragione Chris Rock: i comici sono i nuovi filosofi, alla prossima polemica chiamate loro a scrivere sui giornali (ma pure a fare i tweet di sinistra).

Me la vedo, una risposta sulle devianze concepita da qualcuno col senso del ridicolo: Keith Richards camperà più a lungo di noi, come fate a dire che la droga faccia peggio dello sport? Mica la natura è equa. «Sono un alcolizzato, sono un ex fumatore, e sono stato un consumatore di cocaina; e ho una pelle splendida» (sempre Jim Jefferies).

Terza e ultima divagazione. Tutti i giornalisti presentabili hanno polemizzato a proposito del video della stuprata e della sua irricevibilità. Tutti i politici presentabili hanno polemizzato a proposito del video della stuprata e della sua irricevibilità. Tutti gli italiani presentabili hanno polemizzato a proposito del video della stuprata e della sua irricevibilità, tutti prendendosela con Giorgia Meloni. Che però il video non l’ha ricevuto in omaggio da un elettore: l’ha preso dal sito d’un quotidiano, cui nessuno ha detto di vergognarsi per averlo pubblicato.

Quando c’è da prendersela con l’impresentabile hanno tutti la schiena drittissima, poi si distraggono quando ci sarebbe da parlare dell’etica dell’informazione, metti che in campagna elettorale quel quotidiano m’intervista, metti che un domani mi fa un contrattino, ma soprattutto metti che si redime davvero e non mi pubblica più i video che corro a guardare in privato per scandalizzarmene in pubblico.

Devianze, Meloni pubblica foto con la madre obesa: "Posso odiare chi amo di più al mondo?" La leader di Fratelli d'Italia pubblica su Facebook una foto con la madre e risponde a chi l'accusa: "I miei avversari senza argomenti. Mie parole mistificate per gettarmi odio addosso". Orlando Sacchelli il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

Finita nel tritacarne mediatico per una frase, la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni passa al contrattacco, postando una foto che la ritrae assieme alla madre. "Questa è Anna, la mia mamma, la persona alla quale devo tutto. Soffre di obesità da quando, più giovane, ebbe una depressione perché era rimasta senza lavoro a crescere sola due figlie. A monte c’è un problema di metabolismo molto lento, che ha portato anche me a essere obesa da ragazza, come ho avuto modo di raccontare in passato. Come l’ho combattuto io? Con lo sport".

"Da giorni mi sento dire - prosegue Meloni - che considero deviati gli obesi. Qualcuno pensa davvero, in coscienza, che io possa considerare deviata mia madre, una delle persone che amo di più al mondo, o me stessa, che con questo problema ho combattuto una vita e ne conosco perfettamente le difficoltà e i rischi? Il tema che ho cercato di porre è: i disturbi del comportamento alimentare vanno favoriti o prevenuti? Affrontati o ignorati? E come?".

La Meloni si rivolge poi ai propri avversari: "Rispondano su questo, invece di continuare a mistificare le mie parole e i miei intenti per gettarmi odio addosso, perché non hanno argomenti. Vediamo se ne sono capaci".

La polemica

La bufera era scoppiata dopo la pubblicazione di un post con cui Fratelli d'Italia elencava, sui social, alcune "devianze giovanili" come droga, alcolismo, tabagismo. A scatenare il putiferio sono stati i termini "anoressia e obesità", facendo a onor del vero un po' di confusione tra malattia e devianza. Ad accendere la miccia è stato Enrico Letta, che ha approfittato della svista per attaccare a testa bassa la Meloni, lanciando l'hashtag #VivaLeDevianze. Ma le precisazioni della Meloni non sono bastate, ormai la polemica era servita. A uso e consumo dei social e dei titoloni sui giornali.

Quelle furbe "devianze" a sinistra. Luigi Mascheroni il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.

Che sarebbe stata una campagna elettorale difficile, si intuiva. E ogni giorno di più ne abbiamo conferma.

Che sarebbe stata una campagna elettorale difficile, si intuiva. E ogni giorno di più ne abbiamo conferma. Ieri ha iniziato Giorgia Meloni nel video quotidiano che pubblica su Facebook, parlando di investimenti a favore dei giovani e dello sport come strumento «per combattere le droghe e le devianze, e crescere generazioni di nuovi italiani sani e determinati», facendo l'esempio dell'Islanda che in pochi anni, puntando sullo sport, ha visto crollare il consumo di droghe, alcol e tabacco fra i ragazzi. Di per sé, un tema come un altro da giocare sul tavolo del confronto politico. Poi però ci si mette un post di Fratelli d'Italia, in cui si elencano una serie di «devianze giovanili» come «droga, alcolismo, tabagismo», e fino a qui niente da dire, e vanno bene anche bullismo e baby gang; poi però si aggiunge «anoressia e obesità», confondendo pericolosamente la malattia e con la devianza. A questo punto arriva Enrico Letta, che fa finta di non capire, e perfidamente a sua volta confonde «devianza» con «diversità», facendo entrare nella polemica l'omosessualità, mai citata. Da qui all'hashtag #VivaLeDevianze il passo è breve, e falso. Poi arriva il web a spruzzarci sopra altro veleno ed ecco che la Meloni diventa il mostro che propone l'idea «intimamente razzista» dello sport per il «miglioramento della razza». E non basta che la leader di Fratelli d'Italia in serata replichi a Letta ricordandogli il significato della parola «devianza», cioè «comportamento che viola le norme, come appunto l'uso e l'abuso di sostanze stupefacenti, vandalismo e violenza contro la persona». Giornata difficile insomma per la Meloni, per Letta e anche per la comprensione della lingua italiana.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 22 agosto 2022.  

La profonda crisi della sinistra italiana di oggi, ben lontana da quel che era la sinistra di ieri, si evince anche da come, in assenza di argomenti validi, cercano ogni appiglio per strumentalizzare i loro avversari politici. 

Non pensano a cosa poter fare per l'Italia ma a come delegittimare la coalizione opposta, spesso con fake news inventate di sana pianta. In uno degli ultimi video condivisi sui social da Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d'Italia sottolinea l'esigenza di dare ai giovani delle alternative allo stile di vita malsano, che li avvicina alla criminalità e alle "devianze", come alcolismo e stupefacenti. Alternative che, FdI, ha trovato nello sport. Un discorso di buon senso quello di Giorgia Meloni, strumentalizzato e interpretato a uo e consumo dalla sinistra.

Le parole di Giorgia Meloni

Nel suo discorso, Giorgia Meloni fa l'esempio dell'Islanda, che "negli anni '90 era la Nazione europea che aveva con il più alto tasso di consumo di droghe, alcol e tabacco tra i giovani e i giovanissimi". Con un lavoro fatto dalla base, che ha messo come suo perno lo sport, l'Islanda è riuscita "ribaltare completamente la classifica, diventando la Nazione in assoluta più virtuosa. 

Come hanno fatto? Semplicemente hanno deciso di investire sui giovani, istituendo una specie di diritto allo sport". Sulla base di quell'impronta, Giorgia Meloni vorrebbe fare lo stesso in Italia, dove sempre più giovani, per esempio, si avvicinano alla criminalità attraverso le baby gang, o si perdono tra consumo eccessivo di alcol, sigarette e droghe. 

"Lo sport sarà anche per noi un centro di investimento strategico. Istituendo il "diritto allo sport" garantiremo la possibilità a tutti i ragazzi di mettere a frutto il loro talento sportivo. Istituiremo borse di studio per meriti sportivi", ha spiegato Giorgia Meloni, che ha aggiunto: "Quanti nuovi Francesco Totti, quanti piccoli Yuri Chechi, quanti fratelli Abbagnale ci siamo persi in questi anni semplicemente perché non abbiamo dato loro la possibilità di fare sport?".

Molti giovani di quelle generazioni "sono finiti per essere inghiottiti dalle devianze che affliggono i nostri ragazzi quando vengono lasciati soli". Intervenire sulle nuove generazioni significa restituire al Paese una gioventù più sana, "investire sui giovani significa investire sul futuro, coltivare il talento, combattere le droghe e le devianze, crescere generazioni di nuovi italiani sani e determinati, carichi di quei valori che solo lo sport può dare". 

La strumentalizzazione di Enrico Letta

Il discorso di Giorgia Meloni è stato mistificato ad arte dalla compagine politica avversaria, al punto che Enrico Letta, probabilmente senza aver ascoltato il video, o capito che le devianze alle quali si riferisce la leader di Fratelli d'Italia sono la droga, l'alcol e il tabacco, ha dichiarato: "Evviva le devianze, la forza delle società è data dalla ricchezza delle diversità". 

È evidente che Enrico Letta abbia utilizzato la parola "devianze" per lasciar intendere che Giorgia Meloni voglia sradicare le diversità dei giovani e, non, com'è chiaro dal video, sradicare l'illegalità e gli eccessi. Sono parole da brividi quelle di Enrico Letta: "Lo dico con grande forza: evviva le devianze, la ricchezza della diversità che rende la nostra società creativa, geniale e moderna". Viene davvero da sperare che Enrico Letta non abbia visto il video o gli abbiano riferito il discorso della Meloni solo a metà, perché nel caso contrario, che lui inneggi alle "devianze" come le ha intese la leader di Fratelli d'Italia, appare piuttosto grave.

Tommaso Coluzzi per fanpage.it il 22 agosto 2022.  

I progetti della destra italiana per i giovani fanno paura. La narrazione è sempre più distorta, di giorno in giorno, di ora in ora. Man mano che ci si avvicina alle elezioni del 25 settembre i protagonisti rilanciano, dal servizio militare di Salvini – che è tornato alla carica col suo cavallo di battaglia per insegnare l'educazione ai giovani – alle ultime dichiarazioni di Giorgia Meloni, che vuole "combattere le devianze e crescere nuove generazioni di italiani sani e determinati" con lo sport. È quella parola – devianza – che fa paura.

Chi sono adesso i giovani deviati? Chi lo stabilisce? Cosa significa per Meloni? La leader di Fratelli d'Italia nel video integrale diffuso sui suoi social parla di alcol, tabacco e droghe. E di una sana educazione sportiva. Ricorda qualcosa, sì.

Ma ciò che fa più paura è che il concetto di devianza si presta a moltissime interpretazioni, soprattutto da parte di chi continua a parlare di ideologia gender e di lobby Lgbt – con quel comizio furioso davanti all'estrema destra spagnola che è ancora negli occhi di tutti – e sa bene come scegliere le parole che pronuncia. In una card diffusa sui social del partito, poi, spuntano persino patologie come l'obesità e l'anoressia nella lista delle devianze giovanili. 

Combattere le devianze dei giovani, rieducarli, costringerli a lavorare – così come prevedono gli appunti di programma pubblicati lo scorso maggio al termine della convention di Fratelli d'Italia – sono concetti che richiamano un immaginario più che noto. Meloni sta portando avanti due campagne parallele: mentre cerca di istituzionalizzarsi nutre la sua base richiamando i valori degli italiani "sani e determinati".

Flavia Amabile per “La Stampa” il 22 agosto 2022.

Una campagna elettorale brutta, noiosa, debole. Con manifesti elettorali di parole senza volti o di slogan generici. Una campagna elettorale che qualcuno crede scontata come un campionato di calcio di cui si sa già chi vincerà lo scudetto, dove si gioca cercando di tirarla lunga per arrivare a fine partita. Lo dice Silvio Berlusconi, lo dicono i politologi, lo dicono i social. Ma lo dicevano anche nel 2018 e nel 2013, per la verità. 

«Non è solo brutta - precisa il politologo Roberto D'Alimonte -. È tutto surreale in questa campagna che non avrebbe dovuto esserci. I partiti? Si stanno muovendo male, finora protagonista è il debito. Si lanciano promesse elettorali che non potranno essere mantenute e non hanno nemmeno il pregio della novità. Si propone come sempre la riduzione delle tasse, si parla di reddito di cittadinanza e di aumento delle pensioni.

Vedremo se qualcuno tirerà fuori delle idee come fece Berlusconi in passato. Per il momento mi sembra che manchi un elemento essenziale per scatenare l'interesse. Gli elettori hanno bisogno di qualcuno che sia in grado di suscitare la speranza di cambiamento perché ci sia una reale mobilitazione e spostamento di voti. È accaduto con Berlusconi, con Renzi, con i Cinque Stelle. In queste elezioni, invece, è tutto vecchio, senza elementi dinamici, senza figure carismatiche».

Brutta è l'aggettivo che usa anche il politologo Giovanni Orsina. «Brutta e in tono minore. Agosto è stato un mese perso, non si è spostato nemmeno un voto. Clima fiacco, messaggi deboli, poco entusiasmo, inseguendo temi vecchi che non coinvolgono le persone. Vedremo se a settembre la campagna elettorale entrerà nel vivo. Di sicuro non aiuta il periodo né la sensazione che il risultato sia predestinato».

Attenzione al risultato però, è il messaggio del politologo Giovanni Diamanti. «Per ora abbiamo assistito alla prima fase, il posizionamento dei partiti. Seguirà la seconda in cui verrà lanciato un messaggio forte, infine l'ultima con la mobilitazione finale degli elettori». Non bisogna pensare che la partita abbia già il suo vincitore, avverte.

«Questo è un Paese in grado di sorprendere e di punire i candidati che si comportano come vincitori designati rischiando di non mobilitare i propri elettori. È accaduto a Bersani nel 2013, potrebbe accadere di nuovo». 

I partiti finora hanno sbagliato i temi su cui hanno avviato la campagna, spiega ancora il politologo Salvatore Vassallo. «Posizioni già note con l'aggiunta di qualche tentativo di promesse grossolane e non tanto credibili. Puntare sul passato oppure sul presidenzialismo non sposta alcun voto e non ha alcuna presa sugli elettori. L'unica cosa che potrebbe dare vitalità alla campagna e arrivare agli elettori è una polarizzazione del confronto».

La strategia che nel Pd hanno scelto di seguire. Ad agosto hanno avviato la campagna con grandi manifesti senza volto, con lo slogan «Vincono le idee». Un modo per caratterizzare il partito su ambiente, lavoro e diritti civili, fanno sapere dal partito. 

Da settembre, invece, si partirà con uno slogan diverso, tanti volti, da Elly Schlein a Carlo Cottarelli, Roberto Speranza, i giovani. E sarà il momento della polarizzazione, con una netta contrapposizione tra il modo di concepire il mondo e le relazioni economiche e sociali del Pd e del suo principale avversario, la destra.

La novità della campagna del Pd è nell'uso delle rilevazioni effettuate dagli analisti dei dati. Permetteranno di fornire messaggi mirati per luogo e fasce di età. I manifesti che saranno affissi a Roma non è detto che si troveranno anche in un piccolo centro. 

Sul versante opposto Giorgia Meloni ha messo a segno già la principale novità finora emersa durante la campagna elettorale, il video in tre lingue. «Per la prima volta il target non erano gli elettori ma i poteri forti internazionali. È una campagna da vincitore annunciato, non sempre porta bene», ripete Giovanni Diamanti.

Affermazioni che Fratelli d'Italia respinge. Dal partito fanno sapere che la loro è una campagna elettorale identica alle altre. Entrerà nel vivo questa settimana, Meloni non interverrà troppo, non eccederà nelle interviste, farà comizi, parlerà in modo equilibrato. «Pronti» afferma la leader di FdI nei manifesti già affissi. 

Chi è entrato subito a gamba tesa nella campagna elettorale è Berlusconi. I suoi video con il programma elettorale in pillole sono seguitissimi. E poi sta rilasciando molte interviste alle radio locali e nazionali. Meno comizi, quindi, e tanti social. Lo slogan («Ancora oggi una scelta di campo») - come denunciano i politologi - non è nuovo e nemmeno i temi. Ma nel frattempo è già stato lanciato un secondo slogan e lui - come sempre - ci mette la faccia.

Per Alessio De Giorgi, capo della comunicazione di Italia Viva, la differenza rispetto alle campagne del passato è la velocità. «Questo può rendere più superficiale l'approccio di una parte degli elettori ma non deve impedire a chi ha voglia di approfondire di avere i mezzi per farlo. A gennaio abbiamo dato il via a Radio Leopolda dove chi vuole può trovare il materiale per andare al cuore dei problemi». 

La loro campagna è in stretto coordinamento con quella di Azione che per il momento è tutta realizzata in casa. Se ne occupa Calenda in persona che ne discute poi con la sua squadra che si occupa della comunicazione, otto persone in tutto, età media 25 anni.

«Dalla parte giusta» è lo slogan del M5S. «Perché a differenza di chi ha sempre fatto annunci, noi ci presentiamo come quelli che hanno mantenuto le promesse, reddito di cittadinanza, taglio dei parlamentari, leggi contro la corruzione», fanno sapere dallo staff della comunicazione. 

Il posizionamento è chiaro, sottolineare di essere diversi da tutti per non rimanere schiacciati dalla polarizzazione. La brevità della campagna li obbliga a limitare le tappe del tour elettorale di Conte. Poche e ben mirate, assicurano. Settembre sarà vivace e scoppiettante, promettono. Da questa settimana, concluso l'estenuante lavoro sulla composizione delle liste, i partiti si dedicheranno in modo totale alla campagna elettorale, gli italiani inizieranno a rientrare dalle vacanze e il tono fiacco di questi primi giorni potrebbe iniziare a scomparire.

«Chi vuole provare a spostare voti deve scegliere temi in grado di catturare l'attenzione - ribadisce Vassallo - come la gestione della pandemia, la redistribuzione del carico fiscale, gli investimenti sull'istruzione o la riconversione in senso ecologico dell'economia. Per capire se qualcuno ci riuscirà bisogna ricordare quattro cifre: 6% del blocco Italia Viva-Azione, 10% dei Cinque Stelle, 30% del Pd e 46% del centrodestra. Chi riuscirà a variare a suo vantaggio queste cifre avrà condotto una campagna elettorale usando temi, toni e strumenti efficaci».

Tesseramento impossibile. Risulto inadatto a tutti i partiti, eppure seguo tutti i loro slogan. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 22 agosto 2022

Dal Partito Democratico alla coalizione di centrodestra, ogni forza in campo presenta contraddizioni e tratti di impresentabilità che è difficile saper dribblare. Quanto al Terzo Polo…

Non mi vuole nessuno. Non c’è un partito politico, dico nemmeno uno, che accetti di darmi la tessera. Ho bussato ovunque, ma niente da fare.

Al Partito democratico mi ero presentato col mio curriculum progressista e con l’elenco di impegni cui si sarebbe ispirata la mia militanza, ma non ne ho avuto meglio che una porta sbattuta in faccia. Gli avevo detto che avrei difeso senza esitazioni il diritto acquisito dei finti invalidi, dei pensionati d’adolescenza, degli imboscati nei ministeri, delle foreste di forestali, dell’eternità Atac, dei deportati dell’istruzione, delle banche too democratic to fail e delle cooperative stilnoviste in monopolio glocal, della magistratura finalmente supportata nella sua lotta anti-impunitista, dei frombolieri del 25 aprile contro la Brigata Ebraica, dei capilista democratici con passato, presente e futuro antifascista in versione Settembre Nero, dei reduci dell’affascinante avventura che ha abolito un buon terzo delle inutilità parlamentari inopinatamente ancora incistato nella Costituzione più bella del mondo, del marito della moglie di Fratoianni chiamato a difenderla, la medesima Costituzione suscettibile di riforma o invece no secondo che sia affidata alle cure del populismo gentile o minacciata dalla destra antimeritocratica perché non mette nei collegi sicuri nessun sostenitore di Hamas…

Nisba. Non mi hanno voluto, nemmeno quando ho dato prova delle mie capacità competitive a destra compitando la marmorea sentenza progressista sulla correlazione evidente tra immigrazione e Covid (dice che l’han tolta dal programma, ma io che ne sapevo?).

Speranzoso, chiedo dunque udienza a Capitan Ruspa e Doña Giorgia. Spiego che sarò il punto di riferimento fortissimo di tutti i balneari sotto schiaffo degli usurai di Bruxelles, di tutti i taxisti ghettizzati dallo Stato Imperialista dell’autonoleggio, di tutti i piloti e di tutti gli assistenti di volo dell’aviazione italica che resiste alla perfidia concorrenziale estera e combatte senza se e senza ma l’odiosa regola del bilancio in pari, di tutte le mamme e di tutti i papà bianchi e cristiani di tutte le famiglie tradizionali vittime dei programmi per sostituire etnicamente i napoletani che non puzzano più con i ragazzoni muscolosi in pacchia pagata da noi, di tutti i bimbi sottratti all’assedio ateista e gender fluid e assicurati alle tranquillizzanti sicurezze (ehm…) dell’oratorio, di tutte le stuprate battezzate e di tutti i borseggiati con rosario previa certificazione del pigmento dell’assalitore, di tutti i cioccolatai gloriosamente ottemperanti all’autarchia della nocciola, de todas las cruces universales contra todos los paganos comunistas y todas las maricas relativistas.

Bocciato pure lì. Pure quando gli ho detto che gli immigrati portano le malattie (dice che ormai lo dice anche la sinistra, ma io che ne sapevo?).

Rimaneva il Terzo Polo libberal-soscialista di Calenda, co’ du b e co’ l’esse-ci. Ma non conosco la lingua. 

In quattro puntate i programmi dei partiti (e anche solo un motivo per andare a votare). Barbara Stefanelli su La Repubblica il 19 Agosto 2022.  

Siamo già a metà strada lungo il rettilineo che, tagliando le vacanze, ci porterà alle urne: su 7 in settembre proveremo a proporvi una sintesi dei contenuti che fanno capo a chi ci chiede il voto. Nella speranza di combattere le tentazioni dell’astensionismo.

È trascorso poco meno di un mese da quando, con le dimissioni di Mario Draghi, è partita la breve corsa estiva verso il 25 settembre, la nostra prossima domenica elettorale affacciata sulla soglia dell’autunno. Superato il lungo weekend di Ferragosto, in questo venerdì 19 abbiamo la sensazione di aver varcato un confine, di essere passati dall’altra parte. Siamo infatti (già) a metà strada lungo il rettilineo che, tagliando le vacanze, ci porterà alle urne. L’agenda Draghi, a riprenderla in mano ora, comincia a farci l’effetto del diario dell’anno scolastico finito. I voti erano da record. Crescita prevista al 3,4 per cento, più alta di quella dei vicini di banco, tra cui alcuni noti secchioni europei. Occupazione oltre il 60 per cento, che era la materia tradizionalmente più a rischio. Un’ultima eredità di 434 decreti attuativi (su 1200 che erano da smaltire, come ha scritto Il Sole24Ore, compresi quelli dell’esecutivo Conte I e II), necessari a rendere operativi i provvedimenti legislativi varati: un sacco di compiti per le non-vacanze che si sommano al lavoro previsto per centrare entro dicembre i 55 obiettivi del Pnrr e sbloccare la terza rata dei fondi europei (19 miliardi).

«IN QUESTO MOMENTO SOLO IL 58 PER CENTO DEGLI AVENTI DIRITTO SI DICE DETERMINATO A RECUPERARE LA SCHEDA PER RECARSI AL SEGGIO, PERCENTUALE CHE SCENDE AL 48 SE CONSIDERIAMO GLI UNDER 34»

Quale confine abbiamo dunque varcato? Quello che segna la fine dei giochi per la composizione di coalizioni, liste, collegi. E chiama i partiti alla presentazione dei rispettivi programmi a un corpo elettorale che ai sondaggisti appare definitivamente spiaggiato dagli infiniti, irregolari, insopportabili moti ondosi della politica tricolore. In questo momento solo il 58 per cento degli aventi diritto si dice determinato a recuperare la propria scheda per recarsi al seggio, percentuale che scende al 48 se consideriamo gli under 34, che più avrebbero da reclamare davanti alle classi dirigenti in nome del proprio futuro. Come scrive Lilli Gruber nella sua rubrica, a pagina 11 del numero di 7 in edicola il 19 agosto, l’astensione non è una risposta sensata in democrazia, rappresenta una fuga davanti a quel segmento di responsabilità che ci unisce e insieme ci rende uno Stato.

PENSANDO ANCHE ALL’IRONICA LEZIONE DI GIORGIO GABER

In nome di tutto questo, noi di 7 — nei quattro numeri in edicola a settembre, fino a venerdì 23 — proveremo a proporvi una sintesi dei contenuti che fanno capo a chi ci chiede il voto. Non un piano completo, per il quale immaginiamo che sarà comunque possibile navigare i siti di partiti e candidati: il nostro desiderio è quello di offrirvi un’informazione essenziale da cui possa scaturire anche una sola buona ragione per imbracciare la matita che in altri tempi, gli Anni 70, emozionava Giorgio Gaber. Tasse e costo del lavoro. Pnrr, Europa, relazioni internazionali. Generazioni più giovani tra scuola e occupazione. Diritti civili, temi etici e culturali. «È proprio vero che fa bene/ un po’ di partecipazione/ con cura piego le due schede/ e guardo ancora la matita/ così perfetta e temperata/ io quasi quasi me la porto via/ Democrazia...» Con tutte le sue imperfezioni, che sono anche le nostre, non esiste sistema migliore.

Verso il 25 settembre. Candidature di facciata e di vetrina: virologi, pm e attrici 95enne, che delusione questa politica. Maria Luisa Iavarone su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Sono stanca, siamo tutti stanchi di questa frettolosa fase pre-elettorale. Stiamo assistendo all’imbarazzante corsa alle candidature in cui non si capisce chi corre e chi rincorre, uno scapicollarsi a riempire liste sotto la scure del rapido conto alla rovescia del 21 agosto, giorno in cui scadranno la presentazione delle liste e intanto piovono candidature di facciata o “di servizio” (come si diceva un tempo) con nomi messi lì in posizioni inutili e ineleggibili. E di questa ineleggibilità ne saranno particolarmente vittime le donne visto che le candidature multiple sono degli uomini mentre alle donne sono riservate chissà perché collegi singoli.

Tutto in realtà si sta giocando a Roma, tra riunioni movimentate e accordi presi a notte fonda, dopo estenuanti trattative nella consapevolezza che, neanche i partiti maggiori possono garantire una candidatura anche solo per la metà degli uscenti, come dire un’abbondanza di deretani e una carenza di poltrone. Nel frattempo la gente comune è più che mai indifferente al dibattito politico, si parla poco di programmi e prospettive, tutti in fuga dalla politica con l’alibi della stanchezza, delle ferie agostane nel disinteresse generale per la macchina democratica. Eppure, in questi giorni, stiamo assistendo all’ostentazione dei cavalli vincenti, dei “pezzi migliori” da esibire mediaticamente, definiti da Letta i “front-runners” degli schieramenti e, come prevedibile, spunta il virologo (diventato popolare con la pandemia), il procuratore nazionale (perché di un magistrato c’è sempre bisogno) e persino l’attrice 95enne.

Mi chiedo, allora, se la politica fa “queste scelte” è perché ritiene di aver bisogno di “questo tipo di competenze”? Personalmente io vorrei votare qualcuno non perché è un buon medico o un buon magistrato (mi augurerei di trovarne negli ospedali e nei tribunali) ma semplicemente perché è un “buon politico” che sa fare appunto quel mestiere in maniera competente. Mi rendo conto che sto sollevando una vecchia guerra di religione, se per il buon governo di un paese servano più tecnici o più politici io vorrei semplicemente più “tecnici della politica” esperti nell’arte del mediare, del decidere, del legiferare e del proporre soluzioni. Ma per decidere se un politico ha competenze per esserlo c’è bisogno di evidenze oggettive, di risultati conseguiti in base ai quali valutare anche una sua eventuale ricandidatura. Volendo fare un esempio se un medico aspira a diventare primario bisogna che abbia una comprovata esperienza, un certo numero di pubblicazioni scientifiche e certamente una casistica clinica a lui favorevole.

Così è per i professori universitari e persino per i magistrati. Nelle maggior parte delle professioni di “servizio pubblico” si procede in carriera sulla base di una produttività professionale misurata in base ad obiettivi raggiunti. In politica non sembra essere così, i listini bloccati sono riservati non certo a chi ha dimostrato doti politiche ma ad un ristretto gota di fedelissimi del leader che indica questi nomi in autonomia. Intanto i giorni corrono e la scadenza delle candidature si avvicina. Si è costretti a riempire le liste all’ultimo momento tra ostentati rifiuti e sdegnate defezioni da parte di quelli disposti a correre ma solo se “garantiti”. E’ emergenza democratica? Non è una semplicemente una terribile brutta figura per la politica e per la sinistra in particolare. Per anni abbiamo assistito a candidature ricorrenti di politici nostalgici, sconfitti ma sempre disposti a misurarsi.

Oggi il PD ci consegna una pantomima davvero degna di “Ecce bombo”: mi si nota di più se non vengo o se mi metto in un angolo?, In un momento di crisi internazionale dove è necessario avere personalità politiche all’altezza, prevale il particolare sul generale, la convenienza sulla convinzione, l’opportunismo sull’opportunità. L’unica consolazione è che fra poco più di un mese tutto questo sarà finito, avremo un nuovo parlamento e che importa se con un astensionismo al 70% ed una emorragia di democrazia incausticabile. Maria Luisa Iavarone

Sono le elezioni del 2022 ma le facce sono quelle del 1994: da Bossi a Berlusconi, da Tremonti a La Russa. Stessi volti e qualche ritorno, nessun rinnovamento e molto vintage. E anche la campagna elettorale sembra quella di trent’anni fa. A partire dai protagonisti e dai contenuti. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 19 Agosto 2022.

Nella campagna elettorale del nostro scontento stanno ritornando tutti i volti del passato berlusconiano che sembravano ormai andati via. Molti in verità non erano mai usciti di scena veramente, soprattutto dal Parlamento e dalla politica, ma come un deja vù che dura da trent’anni in questa tornata elettorale ambiscono a ruoli di primo piano e non più solo da macchiette e urlatori in fondo innocui perché fuori dai governi. 

La schiatta lombarda. I primi, veri, colpevoli dello svacco istituzionale di oggi sono Berlusconi e Bossi. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 19 Agosto 2022.

Hanno portato in Parlamento sfaccendati e disadattati, liberalesse della mèche, bifolchi e belle figliole da cene eleganti. Hanno elevato a sistema quella che, nella Prima Repubblica, era una quota fisiologica di impresentabili, preparando il terreno per l’analfabetismo al potere (anche nella parte avversa)

Il degrado plebeo delle assemblee legislative e, in generale, dell’ambito pubblico si deve all’opera di due principali, se non esclusivi, responsabili: Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Gli altri, pressoché tutti e con esperimenti di legittimazione non meno desolanti, hanno preso a seguirli senza perplessità, ma furono quelli, il Cavaliere e il finto medico di Cassano Magnago, a portare in Parlamento stormi di liberalesse della mèche, plotoni di addetti alle televendite e manipoli di sfaccendati vaccamadonna e puttanaeva distolti dall’interlocuzione col bianchino nei meglio bar della Padania irredenta a Roma ladrona.

Quel che è venuto dopo in campo avverso, dal mezzo coglione da centro sociale al coglione intero da sagra sindacal-pacifista, l’uno e l’altro sottratti al tremendo precariato da quarantaquattrenni presso papà e mammà, e sino al vento del vaffanculo impetuoso nelle vele del vascello dei venditori di lupini, dei fuori corso sempiterni, dei cancellieri di tribunale in carriera statica perché inetti anche a far fotocopie, dei giureconsulti con curriculum disco dance, dei disadattati, degli sgherri, dei teppistelli, degli ignoranti abbestia messi a presidente di commissione, a sottosegretario, dio santo, a ministro, tutto questo era preconizzato nelle liste elettorali di Forza Italia e della Lega di Bossi, ripiene secondo la specialità di ciascuna di bei giovanotti e care figliole uniformati in dress code da cena elegante e allegri bifolchi in impavida crociata da Pontida a Montecitorio: tutti, ovviamente, splendidamente refrattari alla pericolosissima esperienza di leggere qualcosa, studiare qualcosa, imparare qualcosa.

Non che la fedina culturale dei predecessori democristiani, comunisti, socialisti e insomma primo-repubblichini fosse sempre illustre, anzi, perché una quota di rappresentanza era pur concessa anche allora, perlopiù in funzione di interfaccia corruttiva o per irresistibile esigenza familista e clientelare, a qualche campione che non sfigurerebbe nell’odierna sentina dell’uno vale uno che ha perfezionato e diffuso la pratica berlusconian-bossiana. Ma si trattava, appunto, tra i ranghi di quei partiti tradizionali, di presenze testimoniali ed episodiche, non della regola, e in ogni caso non si assisteva all’elevazione a modello del villano rifatto, delle “signore”, come le chiama Berlusconi, che “sono bravissime e parlano anche l’inglese”, dei venditori di spazi pubblicitari istruiti a cantare meno male che Silvio c’è e del comunista padano che si preparava a manovrare le ruspe organizzando i cori contro i napoletani puzzolenti.

Il terreno del primo analfabetismo al potere l’han preparato loro, Bossi e Berlusconi. Le prime schiatte della canaglia parlamentare sono generate dai lombi di quella leadership lombarda. E viene da quella primogenitura il successivo e ormai irrimediabile svacco politico e istituzionale del Paese.

Non è vera democrazia se i capi partito decidono chi siederà in Parlamento. Il voto dei cittadini deciderà la vittoria di questo o quel partito, ma chi saranno i futuri senatori e i futuri deputati lo decideranno i capi. Claudio Martelli su la Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Agosto 2022

Litigano su tutto, su fascismo e antifascismo, su ridurre le tasse ai ricchi o ai lavoratori, sull’elezione diretta del capo dello Stato, su chi sono gli amici e i nemici del’Italia in Europa e nel mondo. Su una sola cosa centrodestra e centrosinistra vanno perfettamente d’accordo: il potere, il loro potere, il potere dei capi partito di scegliere i candidati e di conseguenza gli eletti in Parlamento. Il voto dei cittadini deciderà la vittoria di questo o quel partito, di questa o quella alleanza ma chi saranno i futuri senatori e i futuri deputati lo decideranno i capi.

Segretari, presidenti, leaders dei partiti – grandi o piccoli, di destra o di sinistra o di centro non fa differenza – saranno loro a staccare i biglietti di ingresso in Parlamento. Non sono previste procedure democratiche o, se erano previste, sono state disattese così che alla fine, ovunque regna l’arbitrio. Il caso più noto è quello di Forza Italia, ma qui il nepotismo è consustanziale con la natura monarchica del partito. Casi di nepotismo si registrano anche nei luoghi della Lega – per esempio la Toscana – in cui Salvini detta legge. Non è da meno la sinistra di Fratoianni che candida la moglie e alla legge bronzea del nepotismo non sfugge nemmeno Meloni che riporta in Parlamento il cognato Lollobrigida.

Il caso estremo di disordine e di arbitrio resta quello dei 5 Stelle: dopo liti furibonde mentre il movimento perdeva pezzi da tutte le parti lo statuto scritto da Conte gli ha consentito di piazzare i suoi fedeli nei pochi collegi sicuri e di escludere Virginia Raggi, l’unica che avesse ottenuto un buon risultato alle amministrative. Persino il Partito Democratico che per scegliere i candidati aveva importato in Italia il modello americano delle «primarie» se ne è stancato ed è regredito ai riti del tempo che fu. La regola che impone il 40 per cento di candidate donne viene disattesa se così vogliono i governatori delle regioni del Sud. La regola del limite di non più di tre mandati completi - ovvero il numero di volte in cui si può essere candidati - è diventata un optional: vale per alcuni ma ne sono esentati altri come l’eterno ministro Franceschini che, giunto alla sesta legislatura, anziché uno stop ha ottenuto che anche la moglie sia candidata.

Nessuno eguaglia l’intramontabile Ferdinando Casini che doppierà l’undicesima legislatura per garantire la difesa della Costituzione dalle riforme di Giorgia Meloni. Curioso: una riforma presidenzialista Casini l’aveva già votata nel 2005 quand’era alleato di Berlusconi. Si potrebbe continuare a lungo con l’elenco dei penosi misfatti e delle pietose bugie con cui i maggiorenti di oggi cercano di coprire le loro piccole o grandi vergogne, ma il punto cruciale è un altro e in questo consiste, che di elezione in elezione è stato eroso e poi sovvertito il fondamento della democrazia. In ogni vera democrazia è la base a eleggere liberamente i suoi vertici, sono i cittadini, a scegliere deputati e senatori. Viceversa in Italia, da gran tempo, una ristretta cerchia di capi politici ha sequestrato questo potere e potendo scegliere chi candidare e chi no di fatto decide chi saranno i rappresentanti del popolo. Così ancora una volta il prossimo 25 settembre avremo un Parlamento non di eletti ma di cooptati, cioè di nominati dai rispettivi capi partito. La differenza è abissale: un conto è un senatore o un deputato che attraverso una procedura democratica ha ottenuto la candidatura della sua parte e poi il voto degli elettori naturali, cioè dei suoi concittadini che lo conoscono e ai quali deve rispondere dei suoi atti. Tutt’altro accade quando si viene cooptati da un capo politico all’interno di una lista bloccata e i cittadini sono privi della possibilità di scegliere chi li rappresenterà. Questo corrompimento della democrazia è causa primaria della disaffezione e dell’astensione di milioni di elettori e spiega anche il successo nel recente passato dei partiti populisti. Se oggi, come dicono i sondaggi, un’ampia maggioranza di elettori si dichiara favorevole all’elezione diretta del presidente della Repubblica è perché crede in tal modo di riappropriarsi del potere di scegliere da chi farsi rappresentare e guidare. Ma neppure un capo eletto dal popolo può curare l’assenza di democrazia, rischia anzi di darle il colpo di grazia.

Così la “teledestra” ha spianato la strada ai partiti e ai leader reazionari. L’allarmismo su immigrazione e sicurezza ha creato l’humus per i sovranisti di casa nostra. E mentre la sinistra (da Santoro a Lerner) scompariva, i format dei Paragone, Del Debbio, Giordano e Porro hanno influenzato pesantemente la nostra politica. Giandomenico Crapis su L'Espresso il 17 Agosto 2022.

Ora che è già cominciata una campagna elettorale che si annuncia al calor bianco viene da chiedersi cosa ne sarà della sinistra (più o meno alleata col centro) orfana di quella che una volta era la sua componente, diciamo, “televisiva”: intendiamo quel mondo di personaggi dello spettacolo e dell’informazione, star e conduttori del piccolo schermo che spesso in passato hanno avuto una funzione quasi di supplenza rispetto al vuoto politico lasciato dalle forze progressiste. Quella “sinistra televisiva” adesso non c’è più: sono scomparsi, da un lato, programmi come quelli condotti da Santoro o da Lerner, vittime della più generale crisi dei talk politici dopo il 2014, ma non sono nemmeno rintracciabili quelle trasmissioni di satira i cui divi, dai fratelli Guzzanti, alla Dandini, dal Chiambretti prima maniera a Paolo Rossi, sono stati pure essi per lunghi anni, a partire dalla fine del secolo scorso, parte essenziale di questa “sinistra del video”. 

Il fenomeno, oltre che nelle scelte della Rai, che di questi programmi era stata la fucina (come non ricordare il compianto Angelo Guglielmi), trova magari una spiegazione nel tramonto definitivo di Berlusconi, che per vent’anni ha alimentato le performance di conduttori e comici. E tra questi ultimi rappresenta davvero un caso quello di Benigni, che fu l’irrinunciabile punto di riferimento dell’antiberlusconismo d’antan, ma che con l’avvento del nuovo secolo ha finito per abbandonare completamente i tratti politici irriverenti, “maleducati” e sovversivi della sua comicità, che lo avevano consacrato vero idolo delle folle progressiste.

Oggi, insomma, la “sinistra televisiva” appare difficilmente reperibile, salvo qualche evanescente epigono in alcuni dei salotti tv, vedi Berlinguer e Formigli o a volte Gruber e Floris. E a far satira resta solo Crozza. Quel che è scomparso del tutto, però, è il ruolo mobilitante che un tempo fu dei talk politici o dei programmi comici, un declino cui ha corrisposto l’emergere, dopo il 2015, di una “destra del video” sempre più agguerrita e strillante con i suoi divi e i suoi conduttori (Paragone, Del Debbio, Giordano, Porro). Una neonata “destra televisiva” che in alcuni casi ha riesumato, avvalendosi non di rado di fasulle messe in scena, i modelli di rappresentazione della tv militante degli anni ’90: i collegamenti esterni, la piazza, la gente.

Ma più che dare la parola alla gente, questa la differenza, essa ha amplificato le parole d’ordine delle forze conservatrici e reazionarie del Paese, accentuando spesso le componenti teatrali o addirittura buffonesche della rappresentazione mediatica della politica.

Il percorso di avvicinamento della destra al video in cerca di propri conduttori non è stato semplice: lo dimostrò la fallimentare esperienza di Socci, chiamato con Excalibur in Rai a sostituire nel 2002 Santoro dopo la cacciata, programma meteora interrotto dopo alcune puntate. Né su Mediaset, dopo il blitz propagandistico elettorale del ’94, si erano consolidate qualificate esperienze di giornalismo partizan destrorso: quasi un’incapacità ad esprimere professionalità autorevoli e autonome, come accadeva invece per l’altra parte politica.

Questo almeno fino a tutto il primo decennio dei Duemila, al termine del quale qualcosa si muove, a cominciare da Gianluigi Paragone, che dà vita a L’Ultima parola dal 2010 su Rai2 con percentuali d’ascolto anche del 15 per cento. Il giornalista replicava a La7 l’esperienza (ma non gli ascolti) con La Gabbia, per poi nel 2018, fulminato dal grillismo, diventare senatore del Movimento 5 stelle. Accanto a Paragone sono comparsi via via altri conduttori come Porro, già vice del Giornale, (In Onda, La7, 2011; Virus, Rai2, 2013; Matrix, Canale 5, 2016).

Oggi Porro conduce Quarta Repubblica su Rete4, la rete berlusconiana che più di altre ha ampliato l’offerta informativa arruolando anche altri giornalisti tra i quali, ai fini del nostro discorso, soprattutto Giordano e Del Debbio, che oggi, il primo con Fuori dal coro, il secondo con Dritto e Rovescio e prima con Quinta colonna, costituiscono il cuore di questa “destra televisiva”, che ha puntato sempre con insistenza sui temi di immigrazione e sicurezza, almeno prima del Covid-19 e della guerra; regalando inoltre (si guardino i dati Agcom) un quasi monopolio di spazio e di parola a Salvini e Meloni, vere superstar dei loro programmi.

L’impostazione antipolitica e la rilevanza riservata ai contenuti filoleghisti creavano sì qualche fugace imbarazzo alla stessa Mediaset e all’entourage berlusconiano dopo il risultato elettorale del 2018 (del resto il balzo in avanti della Lega di oltre 10 punti e il tracollo di Forza Italia forse qualche rapporto con questo tipo di informazione ce l’avevano), ma il tentativo di rinnovare il giornalismo di Rete4 all’indomani del voto, sostituendo Giordano e Del Debbio durava davvero poco. Tanto che i due rientravano più belli e più forti che pria, sempre assecondando supinamente gli argomenti cari alle destre, senza mai un distinguo, una critica, un giudizio contrastante.

A volere fare un paragone potremmo dire che la sicurezza e l’immigrazione stanno ai programmi di questa giovane “destra televisiva” come il Sud, la mafia o la corruzione stavano a quelli di Santoro e Lerner: ne hanno in fondo sostanziato l’humus mediatico che ha fatto da fertilizzante alla destra sovranista. Con la differenza, però, che mentre il giornalista salernitano portava sulla scena delle sue trasmissioni realtà del Mezzogiorno e del Paese nascoste o sottorappresentate nei media rispetto alla loro rilevanza, i programmi della “teledestra” hanno fatto l’esatto contrario, sovra-rappresentando una realtà di furti e delitti, più o meno legati all’immigrazione, del tutto sproporzionata rispetto all’incidenza vera dei fatti.

Nata dunque con vent’anni di ritardo rispetto alla “sinistra televisiva”, la “teledestra” si presenta dunque però molto meno dotata di capacità di argomentazione critica e di autonomia dalle forze di riferimento, le cui issues supporta, ricostruisce e rappresenta in maniera del tutto subalterna. Mentre la prima si era caratterizzata spesso come una spina nel fianco per la parte politica ad essa più vicina, pungolo critico capace di scatenare polemiche e conflitti anche feroci con la sinistra, la nuova “destra del video” non si arroga mai questo ruolo: piuttosto si accontenta di fare da megafono, da vero e proprio house organ, al centrodestra e ai suoi leader. Anche per questi aspetti potremmo concludere che se la Rai si è caratterizzata storicamente per la lottizzazione tra i partiti, viceversa Mediaset è sembrata nel tempo, tranne alcune pur presenti eccezioni, un inattaccabile latifondo nella piena disponibilità della destra.

P.S.: la vedremo presto all’opera, questa “destra del video”, in campagna elettorale e nonostante la par condicio. La tecnica è sempre quella: ai leader della destra che spadroneggiano contrapporre qualche giornalista non omogeneo o qualche politico di seconda linea dello schieramento avverso, così fingendo di pareggiare i conti. 

L’Italia del 25 settembre.  La campagna elettorale più novecentesca di sempre (ma senza popolo e senza cuore) Mario Lavia su L'Inkiesta il 15 Agosto 2022

Lo scontro si gioca sull’eredità del fascismo o su promesse mirabolanti e irrealizzabili. Di tutto si parla, tranne che delle grandi emergenze del pianeta e del Paese 

Sono elezioni molto novecentesche, queste. «Tutto già visto, catalogato», cantava Edoardo Bennato. La campagna elettorale finora verte sull’eredità del fascismo e sull’eterno conflitto tra massimalisti e riformisti; su alleanze, candidature, polemicucce e sgambetti tra i leader della stessa coalizione.

A differenza delle campagne elettorali del Novecento queste sono senza popolo: si dirà che ora il popolo è al mare ma no, il popolo assiste e assisterà con distacco se non con fastidio alla tombola del 25 settembre, magari gli ultimi giorni si vedranno un po’ di militanti in piazza – che comunque non sono esattamente popolo ma avanguardie, ceto politico allargato. Persino la tv per adesso non cattura, e il pensiero che per un mese dovremo vedere quelli che in realtà vediamo da anni tutte le sere, qualunque sia l’argomento, certo deprime un po’.

Di tutto si parla tranne che delle grandi emergenze del pianeta e del nostro Paese: diciamo la verità, è sempre un po’ così ma stavolta di più. Clima, lavoro, tecnologia, energia, ricerca: temi che nessuno riesce a declinare in modo popolare, eppure la politica dovrebbe fare proprio questo, ma il problema è che i gruppi dirigenti dei partiti sono vecchi, d’età media e soprattutto di testa, conoscono poco o nulla delle inquietudini contemporanee, anche i più giovani sono stati allevati a far carriera dentro le categorie del secolo scorso e dunque sanno di tutto un po’ ma niente di specifico. Come e peggio dei giornalisti (ecco, così abbiamo già risposto all’obiezione).

Il Partito democratico, alleato con un po’ di gente irrilevante, prova a mettere un po’ di pepe sui diritti – ma veramente Enrico Letta crede sia la chiave giusta? – mentre sul resto dice un po’ le solite cose. Mima la Meloni, lei parla in tre lingue e lui parla in tre lingue: appunto, irrompe il Novecento di quando noi eravamo giovani, contro i comunisti o contro la Democrazia Cristiana, e oggi contro il Pd o contro la Meloni.

Nulla di nuovo nemmeno nelle strategie di comunicazione, Letta userà il minibus elettrico laddove Romano Prodi e Walter Veltroni usarono il pullman, i programmi che non legge nessuno, la leader dell’estrema destra orgogliosa della fiamma e che annuncia il governo dei Patrioti, una dizione che fa rabbrividire, il vecchio Silvio Berlusconi dietro la scrivania di «Questo è il Paese che amo» e che si ricandida al Parlamento con il messaggio subliminale di voler ascendere al Colle come «coronamento», ma coronamento de che?

Dall’altra parte si litiga tra una sinistra in versione Front Populaire (Francia 1936) e il Terzo Polo, che arriva al voto con la lingua di fuori dopo aver perso anni a polemizzare al suo interno invece di porre le basi per costruire un serio partito nuovo – ma in effetti se ci metteranno un po’ di ciccia potrà essere l’unica novità. C’è poi Renato Schifani, che corre per la presidenza della Sicilia, e ci sono Susanna Camusso e Annamaria Furlan, pensionate del sindacato, a rappresentare i lavoratori.

Eh già, con tutto il rispetto, le candidature non si annunciano esaltanti: 99% di ceto politico. Nessuno immaginerebbe oggi un Alberto Moravia o un Altiero Spinelli nelle liste della sinistra, ma il Pd sembra diventato un’agenzia di collocamento per dirigenti, speriamo per i dem che arrivi qualche intellettuale, qualche esperto, un pochino di società civile, magari operai.

E ovviamente si gioca a chi offre di più, sulla flat tax, sui soldi agli insegnanti, sul reddito minimo e quant’altro: ne vedremo delle belle con Berlusconi che annuncerà le sue pillole di programma e lo stesso farà Letta.

L’impressione dunque è quella di un castello incantato come il sanatorio di Thomas Mann che alza i ponti levatoi nei confronti della società e della modernità per giocarsi la vita a testa o croce nel bailamme autoreferenziale di una mortale lotta di potere. Nel Novecento almeno c’era più cuore.

Politici che prima si insultano e poi si alleano, perché è normale. Giampiero Casoni il 13/08/2022 su Notizie.it.

Sul web viene messa alla berlina l'incoerenza di questi politici che prima si insultano ma poi si alleano, ecco perché non possono fare altrimenti

La “somma imperfetta” di idee

I social, che della vita reale non danno mai la cifra ma l’iperbole, stanno esplodendo in questi giorni per un video in cui nel novembre 2021 Carlo Calenda silurava Matteo Renzi definendo “horror” il suo modo di fare politica.

Prima coltelli, poi “fratelli”

Per sardonico contrappasso oggi i due sono alleati, sodali e limonanti per le elezioni politiche del 25 settembre in cui correranno nel nome di un “centro razionale’ che a loro dire non si è mai accasato nella mistica degli avversari. E che dire di un sulfureo Matteo Salvini che nel 2014 accusava il Pd di essersi messo in comparaggio di governo con il ‘pregiudicato” Berlusconi? Oggi Cav e Capitano sono intruppati sul fronte unico di un centrodestra che mai come oggi ha presunzioni alte di omogeneità.

E la circostanza ormai totem di un Letta severo censore dei Cinquestelle ieri ettaro sostanziale del campo largo che fu ed oggi inaffidabile oggetto di fatwa politica?

Di Maio e il mai con quelli di Bibbiano”

La chiosa è d’obbligo ed ha il perentorio piglio di un Luigi Di Maio che sparò a palle incatenate: “Mai col PD di Bibbiano”. Ecco, questo di solito è un climax che sui social tende a trovare lo sbocco al curaro di milioni di post in cui viene messa alla berlina l’incoerenza di questi personaggi e, a traino di essa, la generale inaffidabilità della politica.

Non è così o meglio, non è solo così e vanno chiarite (ribadite) alcune faccende. Sono robe che noi italiani tendiamo o a non considerare pur conoscendole per ovvia ed un po’ rasoterra partigianeria, o che non conosciamo proprio per una altrettanto ovvia, e deprecabile, ignoranza. Ed è un’ignoranza che i social si limitano ad evidenziare in maniera massiva e sistemica, non certo a determinare. Quello che proprio con noi italiani non passa è il concetto per cui si criticano i giocatori dimenticando le regole del gioco e il gioco, qui da noi ed oggi, si chiama Rosatellum, soave modo per dire che da soli non si vince.

E se non si vince in fiero soliloquio di enunciazione di ideali ortodossi allora fare bisboccia temporanea e strategica con chi non è proprio dei tuoi è necessario e in un certo senso legittimo.

Perché diventiamo “minatori dell’ovvio”

Ma noi pelosi fustigatori no, questo concetto proprio non riusciamo a superarlo, perciò come minatori dell’ovvio un tanto al chilo piconiamo le time-line di Facebook, Twitter e annessi nella certezza di trovare il filone che ci permetterà di sentenziare che tizio è un incoerente patentato perché oggi arruffa i capelli e sbaciucchia chi prima cazziava. Partendo da questo principio manicheo e con queste regole ogni uomo di partito italiano dovrebbe bandire l’interazione dalla sua esistenza pubblica e rifuggire come la peste ogni domanda, pena la possibilità che un giorno non troppo lontano quella gli ritorni sul grugno come un boomerang.

La “somma imperfetta” di idee

Lo riusciamo a capire che così non può funzionare e che la democrazia parlamentare così come funziona oggi da noi è una somma imperfetta di idee, una crasi in cui lo scopo prevale sulla purezza etica del metodo? Se dovessimo intuire è fare nostra questa scomoda (e deprecabile) verità forse avremmo meno occasioni social e più occasioni di cambiare le cose. Ciascuno secondo la sua personale e sacrosanta sensibilità. Sacrosanta e magari senziente.

Bipolarismo e politica, Italian style. Alessandro Plateroti il 22/07/2022 su Notizie.it.

Il vero pericolo del bipolarismo che ha portato alla crisi non è solo l’incoerenza dei comportamenti e degli impegni presi con gli elettori, ma il divario sempre più profondo tra i bisogni dei cittadini italiani e i comportamenti delle forze parlamentari. 

Ormai da molti anni, si discute in Italia di riforme elettorali e soprattutto della necessità di ridurre il numero dei partiti: obiettivo di ogni riforma, sostengono anche in questa fase di grave crisi politica tutti i grandi schieramenti parlamentari, deve essere quello di favorire la nascita di un “bipolarismo” che consenta di rendere finalmente governabile il Paese almeno per la durata di una legislatura.

Come dargli torto?

Il naufragio (insensato) del governo di Mario Draghi, affondato dal “fuoco amico” (ma non troppo) del Movimento 5 Stelle, sembra confermare perfettamente l’analisi: il bipolarismo appare come l’unica risposta possibile all’instabilità politica che paralizza l’efficacia e la coerenza dell’azione di governo. Solo per chiarezza, si definisce bipolare un sistema politico che vede la contrapposizione di due blocchi distinti; a livello nazionale essi sono rappresentati, di solito, da due coalizioni o raggruppamenti di partiti e/o movimenti, che si contendono la conquista del potere.

Proprio quello che manca al Paese.

La lezione della crisi e delle dimissioni del governo Draghi potrebbe essere proprio questa: per gestire l’Italia, ma soprattutto per restituire agli italiani un minimo di fiducia sul processo elettorale, serve una classe politica in grado di competere con coerenza, onestà e trasparenza. Lo spettacolo offerto negli ultimi mesi da maggioranza e opposizione, al contrario, fa persino sorgere altri dubbi: il bipolarismo, in Parlamento, è già arrivato sotto forma di malattia: il caso-Draghi, non sembra forse un vero e proprio disturbo bipolare? Psichiatri e psicologi lo chiamavano in passato “sindrome maniaco depressiva” o depressione bipolare: è un disturbo dell’umore caratterizzato da anomali cambiamenti dell’umore, dell’energia e del livello di attività svolta nell’arco della giornata.

Chi presenta questo disturbo manifesta, in modo alternato, episodi di eccitamento (elevazione del tono dell’umore) seguiti da episodi depressivi. Con tutto il dovuto rispetto (per chi soffre davvero), sembra l’idenkit dei partiti italiani di governo e opposizione di questa disgraziata legislatura. Non solo.

Il vero pericolo del bipolarismo che ha portato alla crisi non è solo l’incoerenza dei comportamenti e degli impegni presi con gli elettori, ma il divario sempre più profondo tra i bisogni dei cittadini italiani e i comportamenti delle forze parlamentari: mentre la società civile si è apertamente schierata sulla fiducia a Mario Draghi (anche a prescindere dalla qualità dei suoi ministri), il Parlamento ha preso di fatto la direzione opposta: più bipolare di così, c’è solo la pila elettrica.

Il problema del voto a settembre, insomma, è più grande di quanto temuto dagli italiani: votare senza prima “curare”, non salva l’Italia dal bipolarismo tra chi vota e chi è eletto. Senza una riforma elettorale che riporti il “bipolarismo” nella sua corretta definizione, il Paese resterà schiavo dei ricatti e dei tradimenti di chi vuole governare, senza avere i numeri e l’affidabilita’ che servono al Paese. Che succederà, dunque?

Adesso è arrivata la crisi di governo, e di fronte al test delle elezioni anticipate si assiste a un gran fermento di alleanze e coalizioni. Il Centro destra si presenta già unito, ma la credibilità di una futura compagine di governo guidata dai Fratelli d’Italia, è come quella dei Cugini di Campagna che rimpiazzano la filarmonica di Berlino.

Per quanto riguarda Pd e M5s, il quadro non è migliore. Uniti fanno ridere, ma divisi non possono nemmeno sperare di competere con il Centro destra. L’unica soluzione, per logica, sarebbe quella di una vera scissione dei Cinque Stelle “illuminati” dalla vechia tribù guidata da Conte.

Il M5s non è più, sul piano elettorale, quello del 2013 e del 2018. La fase del Movimento come partito-pigliatutti è finita per sempre. Ma a livello di elettorati, la distanza tra Pd e M5s sembra diminuita. Resta il lascito di una ostilità maturata nel tempo, forse più antropologica che politica. E resta un problema di credibilità. L’impressione è che adesso sia troppo tardi, ma il bisogno di creare un secondo polo del sistema che possa essere una credibile alternativa di governo non sparirà con il voto a settembre: semmai, sembra fatto apposta perché tutto resti come prima. Ma se continueremo a restare dentro un assetto tripolare che è persino asimmetrico, con un polo dominante e due attori irrilevanti, non ci resta che attendere la prossima crisi di governo e altre elezioni anticipate: sempre che non siano i mercati finanziari, o l’Europa, a decidere per gli italiani. Staremo a vedere.

Comunque finirà, la speranza è che prima o poi si apra una fase nuova, un cantiere delle idee che porti a un riassetto bipolare del nostro sistema. Per chi crede alla virtù della democrazia maggioritaria, sarebbe una buona notizia. Si fa fatica però a pensare che un processo del genere possa essere portato a termine in tempi brevi.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 30 luglio 2022.

Basta, basta, basta! L'ho già detto nell'appelluccio firmato qualche giorno fa con la mia amica Christillin, con risultati disastrosi: a momenti poteva arrivare personalmente Putin per mettere in ceppi il premier che volevamo sostenere. Adesso mi prendo da sola la responsabilità di dire di nuovo "basta, basta, basta!". 

E già vedo una folla armata di bastone, composta soprattutto da giovani accademici (e accademiche, toh, ma lo metto tra parentesi) che negli atenei, nei Comuni, nelle aziende, sono impegnati a sostituire la lettera finale delle parole con il famoso asterisco che promuoverà le donne e gli uomini e ogni sorta di non binarietà ad essere intercambiabili, uguali, dicono anche nel cervello, e si spera nello stipendio.

Ci ho pensato a lungo, so di rischiare molto ma, ripeto, adesso basta e del resto la Guia Soncini, che avendo la metà dei miei anni dovrebbe essermi allieva ed invece mi è maestra, mi ha liberato da ogni "chi me lo fa fare". Basta paura di dire pane al pane, di usare l'ironia, di non essere plumbei e noiosissimi, di non essere capiti, non usare le parole che da sempre fanno parte della bella storia della nostra bella lingua, per sostituirle con scemenze (sì, scemenze, che soddisfazione finalmente dirlo!) americane, un tempo dette appunto americanate.

La mia indifferenza travestita da pazienza è andata in tilt quando una signora di pensiero come Concita De Gregorio, indignata come tutti i pensanti per l'allegra sarabanda di un Parlamento rincitrullito (oso, oso!) che si è liberato di un premier considerato ostile in quanto gentiluomo di talento, ha paragonato il passaggio di Draghi tra i nostri urlanti onorevoli a quello di un professore della università di Harvard mandato come supplente all'istituto turistico di Massa Lubrense. 

Ora, per essere precisi, da Harvard sono passati Hearst, Gates, Zuckerberg, dal turistico certamente specialisti di grande prestigio in ambito internazionale: ma non vedo dove è l'offesa se si immagina che un docente di Massima Finanza per soli Miliardari possa trovarsi a disagio a sostituire, lontano dagli Stati Uniti, un suo collega italiano di cui non conosce la materia d'insegnamento, per esempio l'organizzazione di escursioni alla ricerca di piante rare. 

Lo stesso sperdimento lo proverebbe un insegnante del nostro alberghiero se fosse chiamato ad Harvard a sostituire un professor di gender dove ce ne sono anche troppi. Per l'oltraggio "percepito", perché ormai la ragionevolezza e il buon umore sono tabù, o anche perché si fa troppa fatica a leggere tutta una frase, il Meridione tutto e i social "scatenavano durissime reazioni" per queste "gravissime affermazioni". 

E intanto anche la caduta del governo "scatenava durissime reazioni" però contro Draghi e le sue "gravissime affermazioni" con cui salutava l'inclito pubblico degli scranni, lui che il giorno prima era obbligato a salvare la patria e il giorno dopo meno male che ce ne siamo liberati.  

Compiacere tutti, non dire cose ovvie ma che gli stupidi (ripeto gli stupidi, purtroppo sia di destra che di sinistra) ritengono chissà perché offensive, considerata finita la Storia tutta da riscrivere sin dal tempo dell'Homo Sapiens che probabilmente era una signora come l'antenata Lucy e il patriarcato già da allora voleva fregarci: basta! 

Del resto, a cosa è servito adattarsi al pensiero medio, far finta di non essere snob essendolo, di non essere chic essendolo, di amare Orietta Berti se non la si ama, di essere come tutti per non farsi aggredire, di stare attenti alle parole che non si possono più dire come "frocio", oggi un insulto che ai primi Pride era detto con orgoglio, ridendo, gettandolo come un vanto contro la mediocrità moralista e spaventata.  

Ditemi voi, giovani amici, amabilmente soddisfatti della vostra unione civile, posso consigliarvi di leggere Quando eravamo froci di Andrea Pini pubblicato dal Saggiatore nel 2011, quando si era liberi senza paura, libro rivelatore e entusiasmante, o lo farete solo quando cambieranno il titolo in "Quando fluttuavamo". 

In ogni caso, a cosa è servito tentare di cambiare il linguaggio rendendolo sterile, cancellando tutte le diseguaglianze che diventano creatività, ribellione, progresso, conquiste, per poi avere come risultato politico e sociale la Meloni?

Alberto Mattioli per “La Stampa” il 9 agosto 2022.

“Macché aprile, è agosto il più crudele dei mesi. Ma come? Io me ne stavo tranquillo al mare, e il Churchill dei Parioli dà il calcio sui maccheroni del centrosinistra e rinnega l’accordo? Aho’, sarà l’estate, ma a me sembra che le sinapsi di tutti stiano girando al contrario…». 

Le sue invece funzionano benissimo. Con Roberto D’Agostino il problema non è farlo parlare: è farlo smettere. Alluvionale, divagante, divertente, certo: ma sempre benissimo informato e molto lucido. Del resto, i politici italiani si dividono in due categorie: quelli che ammettono di leggere Dagospia e quelli che mentono (anzi, ce n’è anche una terza: quelli che a Dagospia telefonano pure...).

Dunque, dicevamo del Churchill dei Parioli.

«No, da adesso Carlo Calenda è Bullo da solo. Per carità, nel suo pieno diritto di fare tutti gli strappi, strappetti e strapponi che vuole. Però sembra quel signore che vedeva arrivare il diluvio universale ed era indeciso se uscire con l’ombrello…». 

Ma alla fine è lui che ha rotto con Letta o Letta con lui?

«Ah, qui Freud ci avrebbe scritto quattro libri, che so, una Psicopatologia della politica quotidiana. Calenda mi sembra un bipolare con qualche disturbo di personalità. O forse non ha capito che quella che Letta gli offriva non era un’alleanza politica, ma sui numeri. Un Fronte repubblicano, come lo chiama Marcello Sorgi. In Francia lo si fa al secondo turno, quando tutti si uniscono per impedire che vinca Le Pen. In Italia, dove il secondo turno non c’è, prima del primo, per impedire che stravinca Meloni». 

Circostanza che pare scontata.

«Sì. Però io dei sondaggi non mi fido troppo. Sono cento telefonate, fatte oltretutto a numeri fissi, tipo telefono della nonna. Infatti a ogni elezione escono gli articoli sui sondaggisti che non avevano previsto questo o quello…». 

Non divaghiamo. Letta avrà qualche responsabilità pure lui…

«Il Sotti-Letta? Poverino, ci ha provato. Ha tanti difetti, il primo dei quali è che non ha capito che in tivù o sullo schermo di un telefonino bisogna parlare per slogan. Un articolo è troppo complesso, bisogna limitarsi a occhiello, titolo e catenaccio, e forse è troppo anche così. L’alleanza gli è esplosa in mano perché hanno tutti degli ego sovradimensionati. Anche la Dc erano almeno cinque partiti in uno, ma composti da gente con le rotelle a posto. E invece qui Italia Calenda est». 

E Renzi?

«Renzi mi ricorda uno che vince alla lotteria e perde il biglietto. Ma come? Porta il Pd al 40 per cento e poi lo distrugge? Ha talento, dicono. Vero: ma in politica più del talento conta il carattere. E il suo è quello di un provinciale frustrato, che vorrebbe farsi accettare, non ci riesce (a Firenze, poi, la città più classista d’Italia, dove Renzi resta quello che viene dal contado) e allora fa lo spaccone. Alla fine, farà l’alleanza con Calenda e poi naturalmente litigheranno». 

Resta Conte.

«Poverino, non si è reso conto che Grillo gli sta resettando il Movimento. Infatti Grillo sta zitto, non fa campagna, si gode le vacanze a Porto Cervo e sulla riva della Costa Smeralda aspetta che dopo la disfatta passi il cadavere del Ciuffo catramato. Conte finirà come senatore semplice a raccontare a tutti di quando contava qualcosa e parlava con Merkel… Lo fa già». 

Davvero?

«Sì. È stato l’unico italiano beneficiato dalla pandemia, altrimenti mai sarebbe finito a Palazzo Chigi. Fra un po’ inizierà a rivedere i filmini di quando andava al G8, come le dive sul viale del tramonto. Del resto, da anni propongo l’istituzione di una specie di San Patrignano per i celebro-lesi caduti».

Avanti a destra, allora: Giorgia Meloni.

«Su di lei c’è un mistero». 

Quale?

«Perché non dica chiaro e tondo: io sono antifascista. Ha già detto che è atlantista, europeista, pro Ucraina. Quando le chiedono dell’antifascismo, parte sempre con la supercazzola del passato consegnato alla storia e così via. Ma dilla, ‘sta frase, no? Perché non la dice?». 

Perché mezzo partito non gradirebbe.

«E allora è vero che con una classe dirigente di La Russa e Santanché assortiti non va da nessuna parte. Crosetto ha detto proprio a La Stampa che gli uomini per governare li hanno ma non sono noti. Sarà. Però ricordo che, alle amministrative a Roma, Meloni ha candidato un impresentabile tribuno radiofonico, oltretutto laziale. Ve lo ricordate Michetti? Vero che, nella stessa tornata, a Milano Salvini ha candidato Bernardo, il pediatra con la pistola caro a Ronzulli. Roba da matti». 

Salvini e Berlusconi?

«Il Truce e il Banana? Gli unici due veri antifascisti d’Italia, nel senso che come detestano loro Giorgia non la detesta nessuno. Salvini in privato la chiama “Rita Pavone”».

Però sono loro ad avere provocato le elezioni e il probabile ingresso di Meloni a Palazzo Chigi.

«A Salvini qualcuno ha fatto presente che, continuando così, era tutt’altro che certo che nel 2023 sarebbe stato ancora il segretario della Lega. A Berlusconi le badanti Ronzulli e Fascina hanno fatto balenare la possibilità di prendersi una rivincita, anche perché nel frattempo Gianni Letta non viene più ascoltato, è stato estromesso dai consiglieri. Ma il suo vero pensiero sugli alleati Silvio l’ha detto un anno fa in un momento di residua lucidità: Meloni o Salvini a Palazzo Chigi? Ma che scherziamo?». 

Invece ci andranno. Ma un governo Meloni quanto durerebbe?

«Mah. La destra vincerà per forza, con tutto l’aiuto che le sta dando la sinistra… Ma questi non hanno capito che l’Italia è un Paese a sovranità limitata. Dove si decide davvero, a Bruxelles o a Washington, l’idea che vadano al potere a Roma due amiconi di Putin come Salvini e Berlusconi non piace tanto. Mai le elezioni italiane saranno osservate dall’intelligence di tutto il mondo come queste. Meloni ha sbagliato a dare l’intervista alla Fox: è la tivù più vicina a Trump, invece di rassicurare ha ulteriormente preoccupato i poteri forti. Ma basta che Lagarde smetta di comprare Bot italiani e finiamo tutti con il sedere per terra». 

Ecco perché il diritto è sparito dalla campagna elettorale. Alberto Cisterna su Il Riformista l'11 Agosto 2022

È una campagna elettorale bislacca. La confusione che regna tra le forze politiche e la volatilità delle coalizioni – di entrambe le coalizioni, vedrete – ha messo praticamente in disparte i temi della contesa per il voto. Sarà colpa dell’estate, sarà che l’esperienza Draghi ha scompaginato l’idea stessa di premiership in un paese praticamente a corto di veri leader, ma di programmi si parla poco o nulla e un paio di settimane a settembre non sbroglieranno la matassa. Su ogni punto cruciale per la vita del paese (politica estera, energia, guerra, economia, occupazione, welfare, scuola) circola qualche slogan stantio e logoro e, mai come questa volta, il voto sarà l’equivalente di una cambiale in bianco che le forze politiche incasseranno da un elettorato sfiduciato e stanco che minaccia un astensionismo senza precedenti, al limite del collasso istituzionale. In questo vuoto assoluto di proposte e di progetti, c’è da lamentarsi anche della mancata considerazione del tema giustizia che, certo, si inserisce a buon diritto tra le emergenze del paese non foss’altro che per gli impegni assunti con il Pnrr. Qualcuno pensa che la totale esclusione della questione dall’agenda elettorale sia il frutto di una scelta calcolata in vista dell’accaparramento delle sconfinate praterie di voti a matrice giustizialista messi in libera uscita dalla liquefazione del M5s. La tesi è che in Italia spiri un forte, e soprattutto ben organizzato, sentimento giustizialista che, in genere, spinge per partecipazione al voto, e tutti i partiti sarebbero alla caccia di quei consensi che non intendono inimicarsi con improvvide polemiche sul garantismo. Può essere. Può essere che alla base di questo silenzio pre-voto sui temi della giustizia stiano prevalendo tattiche attendiste e gattopardesche da parte di tutte le forze politiche. Il fatto che il silenzio regni sovrano anche tra le fila del M5s che quella visione del pianeta giustizia hanno ampiamente propagandato e alimentato, pone – tuttavia – un primo dubbio. C’è da chiedersi: se esiste, come probabilmente esiste, una parte dell’elettorato sensibile alle istanze coercitive e giustizialiste, come mai il partito che ne ha fatto per anni una bandiera non l’agita in vista del voto? E, ancora, perché mai – per converso – le fazioni garantiste tacciono, a urne quasi aperte, su vicende come quelle dell’Eni a Milano o del processo Trattativa a Palermo o sulla Loggia Ungheria o sull’affaire Palamara che pur sarebbero argomenti facilmente commestibili in una campagna elettorale da combattere voto per voto?

Si possono tentare un paio di risposte. Quanto avvenuto negli ultimi due anni in Italia e nel mondo ha probabilmente posto le basi per una profonda revisione del patto costituzionale su cui si fonda la coesione sociale e politica del paese. La nazione scricchiola in più punti ed è del tutto evidente che le regole di funzionamento delle istituzioni non sono in grado di ridurre la forbice delle disparità, di ampliare il range delle opportunità per i meno abbienti, di assicurare una equa distribuzione delle risorse. Il fatto stesso che, nei momenti di vera crisi (2011-2021) si sia dovuto far ricorso a risorse estranee alla politica (Monti-Draghi) per mettere in sicurezza il paese è il segno evidente che alle regole costituzionali occorre por mano con estrema urgenza. In questo complesso scenario di mutamenti la giustizia ha, inevitabilmente, un ruolo marginale, vicario, subalterno. Le riforme Cartabia sono il massimo che ci si poteva attendere sino a quando una nuova Repubblica non verrà ridisegnata o la vecchia sarà sensibilmente revisionata. Solo quando si saranno tracciati i nuovi assetti dello Stato sarà effettivamente possibile aver chiari i contorni entro cui inserire il tassello giustizia e immaginarne sostanziali modifiche. Per ora è il tempo dei pannicelli caldi e del silenzio, quasi imbarazzato. La politica percepisce che non è il momento di occuparsi di processi e di magistrati o di avvocati, e che bisogna rinviare il tutto a un tempo futuro, in un orizzonte ancora incerto e nebuloso in cui occorre navigare a vista e oltre il quale nessuno ha mai tracciato una rotta. Occorrerà sopportare per qualche tempo ancora una giustizia acciaccata e inefficiente, come si deve tollerare una scuola, una sanità, una burocrazia, un fisco, un’economia, un’ecologia malferme e scricchiolanti. Quando le caselle prenderanno il loro posto lo scenario sarà più chiaro. Per ora ci si deve accontentare di una novità non di poco momento della campagna elettorale 2022 che vede compattarsi, da una parte, sotto lo slogan della cosiddetta “agenda Draghi” coloro che ritengono irreversibile la novità impressa da quell’esperienza in cui il merito è condizione indefettibile per il consenso e, dall’altra, quanti ripropongono il meccanismo tradizionale dell’esperienza democratica secondo cui è il migliore colui che prende più voti. Il paese sceglierà liberamente a chi affidarsi, ma è chiaro che di processi e forche e garanzie interessi a tutti molto poco di questi tempi e per i molti a venire, forse. 

Alberto Cisterna

La minaccia di carcere e repressione porta voti, i partiti se ne fregano della giustizia. Paolo Liguori su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

Si va velocemente alla vigilia di Ferragosto alla formazione delle liste e degli schieramenti che si affronteranno nella campagna elettorale fino al voto del 25 settembre. Un tema finora non è stato ancora affrontato o meglio è rimasto dietro le quinte volutamente: il tema della giustizia.

Ci sono stati episodi anche gravi su questioni di giustizia che riguardano le carceri. Ma i partiti tutti sostanzialmente hanno taciuto. Non potrebbero rispondere a questa domanda di giustizia perché si sono resi conto che l’elettorato italiano è profondamente giustizialista. È poco garantista. Prende più voti chi minaccia con più carcere, repressione e tutte queste cose che spesso avvengono sommariamente, che i politici assecondano ma non dirigono perché nelle mani di una magistratura che ha dato una pessima prova di sé.

Fino a dopo le elezioni non se ne parlerà. Allora aspettiamo il dopo e presentiamo il conto a una classe politica vecchia o nuova che ha questo in comune: in questi ultimi 25 anni si è tenuta ben lontana dalle questioni della giustizia. Paolo Liguori

Carceri e diritti civili, la politica e il vergognoso gioco del silenzio. Francesca Sabella su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

“Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura. Noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, ma la pena di morte che ammanniscono, goccia a goccia, le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice”. No, non l’hanno detto in Parlamento o in un comizio elettorale in vista delle prossime elezioni politiche Matteo Salvini, Luigi Di Maio o Enrico Letta. Tantomeno l’ha solo lontanamente pensato Giorgia Meloni. Scordatevelo. Lo disse al Parlamento italiano Filippo Turati nel 1904. Sono passati più di cento anni e le prigioni sono ancora così, sono ancora luoghi dove vige la pena di morte, viviamo ancora nell’illusione raccontata da uno tra i primi e più importanti leader del socialismo italiano e tra i fondatori, a Genova nel 1892, dell’allora Partito dei Lavoratori Italiani. “Non mi batto per il detenuto eccellente, ma per la tutela della vita del diritto nei confronti del detenuto ignoto, alla vita del diritto per il diritto alla vita”. No, non illudetevi, non l’ha detto Silvio Berlusconi, Giuseppe Conte o Mara Carfagna. Lo diceva Marco Pannella, quanto manca a questo mondo…

Sembra incredibile, ma prima la politica parlava anche di carceri e diritti civili. Di diritti in generale. Immaginate oggi Turati, Pannella o Enrico Berlinguer seduti in Parlamento a parlare con i nostri attuali politici. Lo spettacolo indecoroso al quale per fortuna non dovranno assistere, sarebbe più o meno questo. Meno tasse, più lavoro, i giovani saranno soldatini disciplinati e colti, reddito di cittadinanza sì, anzi no: basta, andate a lavorare. Salario minimo per chi non lavora, anzi no: pensioni tagliate perché avete lavorato troppo e ora volete troppi soldi. Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana. E poi Salvini che si fa un viaggetto in Polonia, salvo essere cacciato a calci nel sedere dal sindaco polacco, ora si è tagliato la barba ed è in cerca di un posticino in paradiso, cioè… in parlamento. I grillini che un po’ si dedicano i loro amati “vaffa” e quando non sono impegnati negli addii al M5S in pompa magna, invocano pene più dure e nuovi istituti penitenziari, insomma sventolano le manette luccicanti. Parlano di tutto e non parlano di niente e questa non è una novità. Non è neanche una novità che nessuno di loro parli di carcere e di diritti civili. Eh sì, il carcere. Nessuno di loro lo menziona nei discorsi o scrive nero su bianco quella parola nei programmi da presentare agli elettori. Hanno quasi paura di pronunciare la parola carcere, perché viviamo in una società impregnata di giustizialismo e perché perderebbero gran parte dei loro voti. Immaginatevi un politico che prende la parola per dire: aboliamo le carceri, sono un inferno, luogo di tortura e di morte. Rimarrebbe in un batter d’occhio solo in una piazza deserta. E non parlano neanche di diritti civili, di giustizia sociale, di come rendere migliore questo Stato che di fatto non esiste.

Un po’ come i Cinque Stelle: è inesistente. Nessuno parla di povertà e disperazione, di aiuti concreti per le fasce più deboli, di aiuti a lungo termine, di strategie per costruire una società più giusta. Nessuno parla delle carceri, sono morte 49 persone dall’inizio dell’anno. Vi rendete conto? Quarantanove e qui nessuno dice niente. Silenzio. Un gioco del silenzio vergognoso. E quando parlano, forse, fanno anche peggio: invocano nuove carceri, calpestando i diritti e sputando sulla nostra Costituzione. Solo i Radicali continuano a portare avanti la politica di Pannella, vera, vicina alla gente, dalla parte degli ultimi. Gli unici che visitano le carceri, suscitando l’indignazione di Giorgia Meloni e del Fatto Quotidiano. Ora c’è una speranza con la creazione del terzo polo Renzi-Calenda che dovrebbe ispirarsi al garantismo puro. Ma per il resto qui tutto tace. E allora, una domanda la poniamo noi: Salvini, Meloni, Conte, Di Maio, Letta, Calenda, Renzi, Berlusconi, la battaglia per carceri quantomeno più umane e per i diritti civili come intendete farla? Ci spiegate il vostro programma? Ci indicate la pagina esatta nella quale parlate di questo? Grazie. 

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

«Cari partiti, se volete il nostro voto dovete darci candidati competenti. Non avete più scuse». La legge elettorale impone che siano i partiti a fare una prima selezione. Ecco 4 cose da fare ora per convincere i cittadini ad andare alle urne. Fabrizio Barca (Forum Disuguaglianze e Diversità), Mattia Diletti (TiCandido), Candidate e candidati di Facciamo Eleggere su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

Se volete convincere milioni di noi a esprimere un voto per il Parlamento dovete convincerci che le candidature che proporrete sapranno rappresentare le nostre ansie e aspirazioni. E questo dipende dalla vostra visione e da come selezionerete quelle candidature. Non diteci che per fretta non si può fare. Si può. Ecco come.

Il sistema con cui torneremo al voto dà a tutti noi ben poco spazio per scegliere chi votare. Eppure è dalla capacità di chi sarà eletta/o di aderire a precise missioni strategiche, dalla sua capacità di interpretare, territorio per territorio, le nostre paure e speranze, che dipende la possibilità di avere un Parlamento forte. Un Parlamento che costruisca accordi, dialoghi in modo continuo all’interno e con i cittadini, combini saperi tecnici e saperi dei territori e concorra a restituire una strategia politica alla guida del paese, magari una strategia che muova verso la giustizia sociale e ambientale - scelte radicali richieste da sfide radicali. E allora, che fare?

Allora, a legge elettorale disgraziatamente data, c’è una sola strada. Che voi partiti selezioniate candidate e candidati in modo da garantire due cose: primo, che le persone competenti e con un senso di missione che con “lucida follia” sentono di volersi e potersi candidare non trovino le porte sbarrate, lasciando in gara solo chi gode di posizioni di rendita o chi emerge da trattative opache fra cosiddetti “rappresentanti della società civile” e partiti; secondo, che noi elettori ed elettrici si sappia chi sono. Si, “chi sono”, cioè se vale la pena di votarle/i e di votare di conseguenza il partito che le/li candida.

Come ottenere questi due risultati? Lo sapete, forse. Ma è bene scandirlo a chiare lettere oggi, affinché nessuno possa dire di non sapere o che non si può fare. Lo facciamo usando l’esperienza fatta in tanti territori con il progetto “Facciamo eleggere” che ha selezionato con successo candidate e candidati – di diversi partiti e liste – da appoggiare nelle più recenti elezioni amministrative.

Ecco che fare, in quattro mosse:

Lanciare “oggi” una chiamata aperta a candidarsi, fondata sull’adesione a quattro-cinque missioni strategiche che il partito o lista ha scritto nella pietra – perché è ciò che state preparando, giusto?

Chiedere a chi risponde alla chiamata di indicare in modo verificabile le principali esperienze di lotta/amministrazione/guida/mediazione in cui si è distinta/o, a livello nazionale o territoriale e nell’ambito di quelle missioni strategiche, con particolare attenzione alla capacità di costruire dialogo sociale, combinare saperi e interessi diversi, trovare un punto di caduta.

Chiedere, ancora, di descrivere come intenda attuare la “rappresentanza della Nazione” (Cost. art. 67) assicurando la propria autonomia da ogni condizionamento, specie da parte di poteri forti.

Chiedere, infine, di descrivere come concretamente, durante il mandato, pensi di realizzare un dialogo continuo con il proprio territorio di elezione: quanti giorni/ore settimanali dedicherà? In quali “spazi di democrazia”? Con quale modalità darà conto ai propri elettori delle scelte compiute?

Le risposte ottenute siano la base per selezionare le candidature fra chi ha risposto alla chiamata. Assicurate trasparenza a questa valutazione e rendetela verificabile da tutti noi. E alla fine, per le persone selezionate, rendete note le risposte ottenute, le loro motivazioni, i loro impegni.

Non conta il dettaglio. Il nostro messaggio è chiaro. Selezionate candidate e candidate convincendoci che credano in qualcosa e in cosa, che sappiano perseguirlo perché hanno già dimostrato di saperlo fare, che non siano la longa manus di altri poteri e che abbiano l’intenzione e il metodo per recuperare una relazione continuativa con le persone nei luoghi.

Se ci convincerete, votare una persona e una lista tornerà a essere addirittura una gioia e comunque ne sentiremo il dovere. C’è ancora tanta rabbia e tanta frustrazione diretta verso i partiti politici: mai come oggi è forte la sirena della scheda bianca, da parte di tanti e tante. Convinceteci con progetti e persone che li incarnano.

Forum Disuguaglianze Diversità – TiCandido – Candidate e Candidati di Facciamo Eleggere

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni. 

E se un Parlamento è composto da coglioni, si sforneranno Leggi del cazzo.

La generazione Z ai partiti: «Le priorità sono crisi climatica e problemi sociali. Cominciate ad ascoltarci». «Siamo arrabbiati e sconcertati dal negazionismo di alcuni e dalle finte soluzioni di altri. Bene la rottura con Calenda, ma non basta» Da Fridays For Future a Ultima generazione l’appello alla coalizione. Simone Alliva su L'Espresso il 9 Agosto 2022

«Siamo sollevati. Ma adesso qualcuno ci vuole ascoltare veramente?» La questione è tutta qui, nel vicolo cieco delle domande che non trovano risposta. La generazione Z mentre riempie le piazze e prova a rimettere al centro quello di cui la politica dei proclami, delle convenienze elettorali non si occupa più (diritti, ambiente, futuro), segue questa campagna elettorale fatta di stracci e tweet al veleno. Perplessa. Distante. La sensazione, dicono, è quella di sentirsi più che elettori, spettatori. Proprio loro che per la prima volta saranno chiamati al voto anche per il rinnovo dei componenti del Senato. «A chi stanno parlando, esattamente, quando parlano di futuro - cioè di noi?».

La rottura dell'accordo tra Azione e la coalizione di centro-sinistra è un passo, spiegano. Il problema è verso chi e dove. «Avremmo potuto forse commentare più nel dettaglio se la causa di questa divisione fosse stata principalmente legata ai nostri temi, ma il vero problema è che le reali soluzioni, ad esempio alla crisi climatica, non sono al centro del dibattito pubblico» dice Martina Comparelli, portavoce di Fridays for Future Italia «La nostra lente per valutare i politici ora è la serietà delle proposte per permettere una transizione ecologica che sia giusta e reale. Siamo arrabbiati e sconcertati dal negazionismo di alcuni e dalle finte soluzioni di altri»

Arrabbiati e sconcertati. Non è bastato che Enrico Letta, segretario del Partito Democratico li citasse durante la Direzione nazionale e non sono convinti che il Pd sia «il partito ambientalista più grande d'Europa», come ripete il segretario. «Non vogliamo che i partiti dicano di “stare dalla nostra parte”- sottolinea Comparelli- vogliamo che adottino proposte concrete, affrontino la crisi climatica e i problemi reali delle persone»

Fare, non dire e basta. «Se vogliono siamo qui, siamo pronti a confrontarci», aggiunge Filippo Sotgiu, anche lui portavoce di Fridays For Future, illumina la strada da percorrere:

«Il programma di coalizione annunciato dopo l'accordo PD-Azione era totalmente inadeguato ad affrontare la crisi climatica. Siamo felici che non sia più sul tavolo, le proposte necessarie devono essere molto più ambiziose. Le energie vanno concentrate su politiche che affrontino crisi climatica e i problemi sociali, peraltro da questa esacerbati, e che rendano la transizione ecologica giusta ed accettabile. D’altra parte, nei governi passati questa ambizione non c'è mai stata. Noi abbiamo un'idea chiara delle misure necessarie - come, ad esempio, trasporto pubblico accessibile per tutti, tassa sugli extra-profitti delle aziende energetiche inquinanti, restauro della rete idrica - e siamo a disposizione per confrontarci su di esse, anche pubblicamente. La stessa comunità scientifica italiana ha offerto il suo contributo per elaborarle. Rimane da vedere se i partiti avranno la volontà di accettare questa sfida»

Michele Giuli dice parlare a titolo «assolutamente personale». Da mesi anima insieme a molti altri giovanissimi le manifestazioni di Ultima generazione, il collettivo che ha organizzato una protesta pacifica incollandosi al vetro della Primavera del Botticelli e bloccato il GRA in protesta contro gas e carbone: «Sono doppiamente sconcertato dalle notizie degli ultimi giorni- e non parla solo di Calenda che lascia la coalizione con PD, Europa Verde (EV) e SI- No, io sono perplesso anche dal fatto che EV abbia accettato in prima battuta di restare in una coalizione con Calenda e non abbia chiesto pubblicamente la vera posizione del PD sui rigassificatori e perché i programmi parlano molto di aumento di rinnovabili (indubbiamente necessario) ma quasi per niente di taglio delle emissioni (doppiamente necessario).

La guerra alle élite per salvare il futuro delle prossime 10.000 generazioni non è di destra o sinistra. È scandaloso che i nostri politici si dividono per questioni ideologiche e non hanno la stessa passione per la scienza e per la verità. Qui la questione è bianca o nera: o tagli immediatamente le emissioni o sei complice della morte di centinaia di milioni di essere umani nei prossimi 30 anni».

Le proposte sono a disposizione di tutti, dice Giuli, basta volersi mettere in ascolto. La voglia di farsi sentire c’è, per fortuna e finalmente. Farsi sentire e capire, avverte. A breve, altrimenti, inizieranno azioni di disobbedienza civile.

«Chiediamo a qualsiasi partito di inserire immediatamente le nostre richieste nel proprio programma  e di produrre immediatamente un piano di attuazione che dimostri come realizzarle nel minor tempo possibile. Altrimenti, a breve inizieranno azioni di disobbedienza civile presso le loro sedi».

Francesco Saita e Cristina Livoli per adnkronos.it il 19 settembre 2022.

"Se Mattarella lo decidesse, sarebbe un onore fare il premier". Non si nasconde sul palco di Pontida Matteo Salvini, l'investitura del capo dello Stato dopo il voto del 25 resta la sua ambizione - Meloni permettendo - come dice chiaro alle migliaia di leghisti accorsi ad ascoltarlo sul pratone di Pontida. La bella giornata di sole mette di buon umore il leghista, che apre il suo intervento dopo le 13, scusandosi per il ritardo "perché ci sono chilometri di fila sulle strade, le persone stanno arrivando, sono tantissimi, ma ora iniziamo lo stesso...".

Poco dopo fonti del partito parleranno di 100mila presenti, una cifra un po' gonfiata, visto che gli spazi vuoti sul piazzale resteranno visibili e che nel 2019, l'ultima Pontida vide circa 75mila presenze, su un pratone che oggi ha visto pure una maggiore delimitazione degli spazi disponibili per il pubblico. Salvini insiste: "E' la più grande manifestazione di questa strana campagna elettorale".

La folla si fa sentire, qualche coro 'Matteo-Matteo' lo scalda e lui allora lancia la proposta. "Se anche la Rai tirasse un po' la cinghia - dice - potremmo abolire quel canone che è finito in bolletta, come fanno tante televisioni pubbliche". Una proposta che nessuno aveva mai sentito dal leghista e che qualcuno scambia quasi per la promessa sorpresa, annunciata nelle scorse ore.

Poco prima però aveva rivelato di aver preparato un patto con i suoi uomini di governo. "Questo è l'impegno dei ministri e governatori a firmare i sei punti per prendere per mano questo Paese e cioè stop bollette, autonomia, flat tax, Quota 41, decreti sicurezza e giustizia giusta. Questo è il sacro impegno della Lega a cambiare questo Paese", una sorta di mini-programma che vincola i suoi ai temi cari alla Lega. L'attesa novità, che si aspettava è questo patto messo nero su bianco.

Prima si deve risolvere il problema che rischia di schiacciare il tessuto economico e sociale del paese, quello delle bollette. Ma poi arrivano in fila le bandiere leghiste. A partire dall'autonomia, che resterà a Pontida 2022 la parola più usata. A rivendicarla come una clava è Luca Zaia, che parla di necessità inderogabile, spiegando che "l'autonomia vale anche la messa in discussione del governo. Chi è contro l'autonomia è contro la Costituzione, chiunque vada a governare non avrà scelte".

Salvini che interverrà dopo cavalca il tema, toni più soft, spostando il tiro sui dem De Luca e Emiliano. "L'autonomia premia e aiuta i cittadini. Toglierà le maschere, gli alibi, ai De Luca, agli Emiliano, ai chiacchieroni che lasciano la gente in emergenza dicendo che è sempre colpa degli altri". 

Con il segretario del Pd Enrico Letta continuano le schermaglie, dopo la sfida portata dal dem a Monza, dove riunisce i suoi, non distante da Pontida. "Mi dicono che c'è Enrico Letta molto nervoso perché sta vedendo 100mila persone, gli mandiamo il bacione di Pontida, siamo gente per bene e accogliente", dice a un certo punto. Poi avvisato del fatto che il leader del Pd ha definito Pontida una provincia ungherese replica: "Quelli di sinistra hanno una passione per la geografia, oggi è l'Ungheria, ieri la Russia, o la Finlandia....".

"Con Giorgia e Silvio non ci saranno problemi, la vediamo praticamente allo stesso modo su tutto, governeremo assieme 5 anni", dice quasi smussando le parole del governatore veneto, rivolte a tutte le forze politiche, compresi gli alleati. "Sul governo spiega che farà fede il programma "ma poi qualche indizio lo fornisce pure sui possibili nomi del nuovo esecutivo. Di certo "Giulia Bongiorno sarebbe un grandissimo ministro per la giustizia", mentre agli Esteri "ci andrà un diplomatico, così come la Salute tocca a un medico".

Per Salvini questa Pontida deve essere un momento di festa, di ritrovata unità. Quasi un ritorno in famiglia, come testimonia la quasi esibizione sul palco della piccola figlia Mirta ("i miei ragazzi sono qui per sentirmi", dice fiero). Ad accompagnarlo sotto il palco la fidanzata Francesca Verdini che lo bacia prima di lasciarlo salire. Neanche il forfait all'ultimo di Umberto Bossi, che preferisce restare a casa, a Gemonio, lo mette di cattivo umore.

"Per me è una giornata di festa, non di comizio. C'è un grande uomo grazie al quale siamo qua, perché chi non ha memoria non ha futuro, chi dimentica le sue radici non ha futuro. Oggi non è qua perché sta festeggiando il suo compleanno, che sarà domani, in famiglia. Sempre grazie, onore e forza a Umberto Bossi. Umberto siamo qua grazie a te, per te, e andremo molto lontano sul tuo esempio".

Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 19 settembre 2022.

«Certo, dall'opposizione siamo bravi tutti...». Probabile che a Giorgia Meloni ieri mattina siano fischiate le orecchie. Sul pratone del raduno di Pontida, il convitato di pietra è lei, lei è al centro dei discorsi di molti, ed è il suo successo annunciato a gettare preoccupazione sulla convinzione da tutti condivisa che «si torna a governare».

Causa Covid, l'ultimo raduno si è svolto nel 2019 e il pratone è cambiato. Il verde dell'Insubria, delle Orobie e della Carnia è quasi scomparso, sostituito quasi totalmente dal più salvinianamente connotato azzurro. Tra le eccezioni, il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, con polo verdina e scarpe in tinta. Del resto, i governatori il loro segnale lo danno. Luca Zaia non rinuncia affatto all'identità veneta, i suoi consiglieri sono tutti con maglietta amaranto e Leone di San Marco e lui ricorda che «questo governo non ha scelte: chiunque va a governare, non avrà scelta».

E indica la scritta «autonomia subito» esposta da alcuni dei suoi. Attenzione: «L'autonomia - dice il presidente veneto - vale anche la messa in discussione di un governo». Lo stesso Fedriga non suona il violino quando dice che la «Lega è una e unita» ma «deve rispondere agli impegni che prende con il suo popolo e con la sua gente». Con un'aggiunta: «Non basta vincere, ma bisogna portare risposte a questo Paese».

Vincere, certo. Ma il vincere perdendo voti a vantaggio dell'alleato fa paura. Il pratone è pieno, ma per alcuni insofferenti vuol dire poco: «Pontida la riempivamo anche quando eravamo al 4%». Perché il voto è mobile, e lo si coglie anche sul prato che fu del giuramento. Lorenzo fa l'ultimo anno delle superiori e lo ammette: «Avevo pensato di passare a Fratelli d'Italia, ma da noi a Firenze le loro giovanili sono troppo di destra».

Lui e la sua famiglia, fino al lockdown erano tutti renziani: «Ora stiamo con la Lega, ma attenzione: a Firenze il Terzo polo potrebbe prendere parecchi voti». E lo stesso pensa il veneto Alessandro, di pochi anni maggiore. Ma le sorprese non finiscono, anzi.

Valeria, 72 anni, Pozzo d'Adda, ha votato Lega fin da quando esiste: «Ma ora non seguo più come prima. E ci sono cose nuove. Mi piace Italia sovrana e popolare, Marco Rizzo dice cose interessanti». 

La famiglia di Paola, da San Benedetto del Tronto, vive di pesca: «Ma da noi l'hanno distrutta, a San Benedetto son rimaste tre lampare. Tre... Si devono tutti dare una svegliata». 

Brizio Maggiore risponde indirettamente ai tanti che sul pratone sbuffano dicendo che l'avanzata della Lega al Sud sarà ancora da rimandare dopo il 25 settembre. Lui, classe 1991, assessore a Calimera e consigliere provinciale a Lecce è convinto del contrario: «La Lega anche da noi non è più considerata un partito di altrove, è un partito nazionale come gli altri. Giorgia? Ben venga. L'importante è che vinca il centrodestra».

Senza però regalare nulla. Giulio Centenaro ha la maglietta con il «Leon» dei consiglieri regionali. E avvisa i naviganti, anche se alleati: «Il presidenzialismo non è scritto nella Costituzione, l'autonomia sì». Questo per dire che cosa? «Che si deve fare prima l'autonomia che il presidenzialismo, anche perché cambiare la Costituzione è più lunga». Guido Crosetto è servito.

Il partito della bistecca e l’abolizione delle tasse. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022 

Non sono mai mancati gli aspiranti parlamentari che promettevano «tutto a tutti». Tra questi Corrado Tedeschi, fondatore nel 1953 del Partito Nettista

Corrado Tedeschi mostra il programma del Partitolnettista italiano, nel 1953

Programma: «1) Svaghi, poco lavoro e molto guadagno per tutti. Le macchine devono sostituire l’uomo nella sofferenza del lavoro. La caratteristica della specie umana è l’intelligenza ed è sfruttando questa che deve campare. 2) Assistenza medica e medicine (comprese le specialità) gratuite per tutti. 3) Tre mesi di villeggiatura assicurata ad ogni cittadino. 4) Grammi 450 di bistecca assicurata giornalmente al popolo, frutta, dolce e caffè (è ora di finirla con le limitazioni!)».

Prima ancora delle promesse strabilianti di certi partiti oggi in corsa per conquistare i voti degli italiani il prossimo 25 settembre e prima ancora dello strepitoso manifesto elettorale dell’aspirante parlamentare bolzanino Oscar Ferrari che anni fa puntò al Senato con lo slogan «Prometto tutto a tutti!», il più fenomenale cacciaballe di tutti i tempi deciso a conquistare il Parlamento per farne il collodiano Paese degli Acchiappacitrulli (capitolo 19° de Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino) fu certamente il fiorentino Corrado Tedeschi, giornalista, editore, fondatore nel 1953 del Partito Nettista Italiano, meglio conosciuto come «Il partito della bistecca».

E chi se lo dimentica? Oltre ai solenni impegni già ricordati, garantiva: «5) Massimo incremento a tutti i giochi: arti, letteratura, musica e ballo» giacché «la cosa più seria della vita è il gioco». «6) Continue tombole e lotterie che rallegreranno i cittadini... 7) Compagnie di varietà e pagliacci di Stato che saranno sommamente onorati e ricompensati nella Repubblica Universale. È ora di finirla coi sacrifici e le missioni da compiere! Cerchiamo di ridere e di stare in buona salute». E via così, con la promessa di «referendum estesi a tutti i cittadini che decideranno volta per volta delle più importanti questioni locali ed universali al posto degli antiquati e sorpassati Parlamenti» (altro che Beppe Grillo e Casaleggio!), e ancora «impiegati dello Stato inviati in pensione e in villeggiatura con stipendio doppio», «orari scolastici ridotti a trenta ore l’anno» e istruzione affidata all’enigmistica, alla radio, alla televisione, ai cinema e agli spettacoli vari che «istruiranno il popolo sovrano».

Ma, «siori e siore!», il bello doveva ancora venire. Come spiegava il leader anche in un irresistibile filmato girato su un pulmino elettorale (motto trionfante: «W la pacchia!») oggi visibile online nell’Archivio Istituto Luce, l’aspirante capo del governo prometteva anche l’«Abolizione di tutte le tasse!» Tutte! Altro che la Flat tax al 15 per cento! Ricorda la cronaca che la lista della bistecca raccolse in totale, ahinoi, 4.305 voti. Pochini, per chi voleva cambiare la storia...

Paolo Baroni per “la Stampa” il 9 agosto 2022.  

Quindici o ventitré per cento? Ha senso introdurre in Italia una flat tax? E ancora: è incostituzionale oppure no? E, nel caso, meglio la proposta di Matteo Salvini o quella di Silvio Berlusconi? In ballo ci sono 8 punti di Irpef di differenza, mica poco. Se questo fosse un processo la flat tax, a detta di esperti ed economisti, non ne uscirebbe molto bene.

Chi spara a zero è Tito Boeri: «Sono tutte proposte insostenibili perché hanno un costo altissimo - spiega l'economista della Bocconi -. Bisognerebbe rifare i calcoli, ma in base alle vecchie stime siamo attorno agli 80 miliardi, e quella di Forza Italia costa addirittura ancora di più. E quindi, se Lega e Forza Italia devono seguire il consiglio del loro candidato premier Giorgia Meloni, che ha detto di avanzare solo proposte che fattibili, è meglio che la ritirino immediatamente. Perché è una presa in giro. Voglio capire dove trovano 80 miliardi per una operazione di questo tipo».

«Quella di Salvini o non è una flat tax oppure è una misura non realizzabile. Quella proposta da Berlusconi ha invece discrete possibilità di essere realizzata. A patto, però, di prevedere anche un disboscamento radicale degli sconti fiscali», sostiene Nicola Rossi, docente di Economia a Tor Vergata e tra i fautori (non da oggi) con l'Istituto Bruno Leoni di una riforma radicale del nostro sistema fiscale a partire, appunto, dall'introduzione di una tassa piatta.

«L'aliquota del 15% che propone Salvini è certamente troppo bassa. Una simile riforma costerebbe moltissimo, diverse decine di miliardi», commenta a sua volta Carlo Cottarelli. Che tre giorni fa su Twitter ha scritto: «La flat tax non mi piace. Non va demonizzata, ma va presentata per quello che è: un sistema di tassazione che redistribuisce meno di quello attuale e che (al 23%) ha un alto costo per le finanze pubbliche che dovrà essere colmato con altre tasse o tagli di spesa (oggi o domani)».

Questo di partenza, poi - come spiega lo stesso direttore dell'Osservatorio conti pubblici - tutto dipende da come la riforma viene messa in atto. Con l'eliminazione delle deduzioni fiscali, ad esempio potrebbero essere previsti meccanismi utili a recuperare risorse. Mercati ed agenzie di rating potrebbero anche prenderla male, ma di certo «non ci sarebbero problemi dal punto di vista costituzionale. Anche perché sicuramente sarebbe prevista una no-tax area, dato che altrimenti le circa 10 milioni di persone che attualmente non pagano le tasse dovrebbero iniziare a farlo, e per loro sarebbe un aumento gigante di costi». 

Della stessa opinione anche Boeri: «Chi dice che la flat tax non è progressiva e quindi anticostituzionale dice una stupidaggine: perché è progressiva, semmai è poco progressiva e senza dubbio premia i redditi più alti».

Per Giovanni Tria, ex ministro dell'Economia nel governo Conte 1, oggi come oggi «si sta parlando di una cosa che non c'è. La flat tax - spiega - è una cosa complessa, occorre saperla immaginare e scrivere. In passato si sono lette cose che non stavano né in cielo né in terra. Affermazioni come quelle di Salvini e Berlusconi sono solo propaganda - aggiunge l'economista - mentre la questione è molto seria perché si tratta di rivedere il sistema fiscale e anche la spesa. Oggi gran parte degli italiani paga meno del 15% di tasse, cosa significa estendere a tutti la flat tax: si fa pagare di più a chi paga di meno?».

Solo slogan da campagna elettorale destinati a non produrre nulla? «Per adesso non si capisce bene cosa vogliano proporre i partiti - spiega Rossi - però c'è un pregresso che può aiutare a capire di cosa stiamo parlando. Quando la Lega parla di flat tax al 15% e di estensione del limite di reddito verso i 100 mila euro si riferisce essenzialmente ad un trattamento di favore per gli autonomi che con la flat tax non ha però niente a che fare. 

Se invece si intende estendere una aliquota unica del 15% a tutti i contribuenti è una cosa impossibile, innanzitutto dal punto di vista dei conti. E non avrebbe nemmeno senso come struttura del sistema tributario. La Lega purtroppo si è impiccata a questo 15%, che anni fa è stato fatto in maniera molto improvvida senza far bene i conti, ma è una proposta che non ha molto senso».

Diverso, invece, il giudizio sulla proposta di Forza Italia che punta ad una aliquota del 23% che Rossi definisce «centrata, anche se sarebbe meglio indicare il 25%. Però, per arrivare a quel risultato, occorre disboscare in maniera molto significativa tutta la giungla delle spese fiscali e dei trattamenti di favore. In linea di principio questa sarebbe un'operazione benvenuta di pulizia del sistema fiscale che libererebbe risorse aprendo la strada ad una flat tax con una aliquota più bassa. 

È ovvio poi che rispetto a questi obiettivi ci sono poi tante soluzioni intermedie, che in linea di principio potrebbero prevalere come il passaggio non a una ma a due aliquote o la possibilità di equilibrare diversamente il carico fiscale tra imposte dirette e indirette». Detto questo, conclude Rossi, «visto che la legge delega muore con questa legislatura, credo che si dovrà rimettere mano al più presto alla riforma del sistema fiscale, perché così com' è proprio non va».  

Flat tax: cos’è e come funziona. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 09 agosto 2022

Proposta da Matteo Salvini e Silvio Berlusconi prevede di introdurre un’unica aliquota per le imposte sul reddito. Con la sua introduzione, chi guadagna 1.500 euro al mese e chi ne guadagna 50mila pagherebbero la stessa percentuale di tasse

La flat tax è la principale proposta economica presentata fino a questo momento dalla coalizione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Consiste nel sostituire le attuali imposte sul reddito, che sono più alte mano a mano che si sale nella scala dei guadagni, con un’imposta unica che abbia un’aliquota valida per tutti. Chi guadagna duemila euro al mese e chi ne guadagna 500mila pagherebbe quindi la stessa percentuale.  

LE PROPOSTE

Il leader della Lega Matteo Salvini ha parlato di una flat tax al 15 per cento da implementare entro cinque anni. Silvio Berlusconi ha proposto invece un’aliquota al 23 per cento. Giorgia Meloni non ha ancora formulato il suo piano e, in generale, appare un po’ più prudente sul tema.

Né Lega né Forza Italia hanno ancora messo nero su bianco le loro proposte, che per ora sono solo di annunci da parte dei leader. Di flat tax però si parla da oltre cinque anni e varie proposte sono state avanzate nel tempo. Si possono quindi già fare delle ipotesi sui meccanismi di questo nuovo regime fiscale.

Il primo: la proposta dovrà includere esenzioni per chi ha guadagni più bassi. Entrambe le aliquote proposte da Lega e Forza Italia sono più alte di quanto pagano attualmente. Secondo le principali stime, chi guadagna fino a 23mila euro l’anno, si troverebbe a pagare di più con il sistema proposto da Berlusconi.

Per questa ragione, la proposta di flat tax sarà probabilmente accompagnata dall’estensione della cosiddetta “no tax area” e di altri strumenti per evitare che sia tramuti in un aumento di imposte per i più poveri. 

PUÒ FUNZIONARE?

Da anni tutti i principali economisti avvertono che la flat tax si può fare solo in due modi, entrambi molto complicati. Il primo è quello “a costo zero”, o quasi, che si tradurrebbe nel far pagare molte meno tasse ai più ricchi, finanziando questi sconti alzando le imposte ai più poveri. In sostanza, si tratterebbe di lasciare che tutti paghino la stessa percentuale, senza correggere il fatto che oggi chi guadagna meno paga un’aliquota più bassa del 15 per cento. Non serve specificare che questo sistema sarebbe molto impopolare.

Il secondo modo di implementare la flat tax, e quello preferito almeno a parole dai leader del centrodestra, è quello di introdurre abbastanza correttivi da far sì che nessuno si trovi a pagare più tasse di prima. In questo scenario, secondo stime di qualche anno fa, la flat tax potrebbe arrivare a costare fino a 80 miliardi di euro l’anno.

Una cifra enorme, per intendersi: superiore al costo di tutti gli interessi che l’Italia paga ogni anno sul debito pubblico. Per affrontare questa riforma ci sarebbe quindi bisogno di dolorosi tagli ai capitoli più costosi della spesa pubblica: pensioni, sanità o scuola, ad esempio. 

E LA COSTITUZIONE?

Non ci sono solo i costi, l’altro ostacolo alla flat tax è la costituzione italiana che all’articolo 53 specifica che il sistema italiano «è informato a criteri di progressività». La progressività fiscale è esattamente l’opposto della flat tax. Significa che al crescere del reddito, i contribuenti devono pagare le imposte in modo più che proporzionale. Per questa ragione, l’Irpef, la principale imposta sul reddito, ha una serie di aliquote che crescono al crescere del reddito e che vanno dal 23 al 43 per cento.

Ma le proposte di flat tax che circolano non sono automaticamente anti costituzionali. L’articolo 53 infatti precisa che il sistema fiscale, nel suo complesso, deve essere «informato» a criteri progressivi. Cioè complessivamente il contribuente che guadagna di più deve pagare imposte in modo più che proporzionale, ma non viene stabilito in maniera assoluta che l’imposta sul reddito deve essere progressiva.

Negli scorsi anni, i sostenitori della flat tax hanno proposto vari meccanismi per rendere leggermente più progressiva la loro proposta e quindi ridurre i rischi di bocciatura costituzionale. In ogni caso, questo è un secondo problema a cui andrebbe incontro la flat tax, anche se si dovesse risolvere quello ancor più pressante di trovare i soldi per finanziarla.

IN QUALI PAESI È PREVISTA UNA FLAT TAX?

Le difficoltà economiche di implementare una flat tax e il suo fondamentale squilibrio (ricchissimi che pagano la stessa percentuale dei più poveri) fanno sì che questo tipo di imposta non sia molto diffusa. Nessuno dei paesi del G7 utilizza una flat tax come principale imposta sul reddito, né lo fa alcuno dei principali paesi industrializzati.

La lista di chi ha adotta questa forma di imposizione dipende da quanto si restringe la definizione, ma in generale si può dire che la flat tax è tipica dei paesi ex comunisti che l’hanno adottata subito dopo la caduta dell’Unione sovietica. Si tratta di paesi come Armenia, Georgia, Romania e Kazakistan.

Cesare Treccarichi per today.it il 3 agosto 2022.

Silvio Berlusconi si è preso il merito di aver ottenuto i fondi del Pnrr. "Il prossimo governo avrà la possibilità di investire ingenti risorse con soldi che io ho ottenuto in Europa per il nostro Pnrr", ha detto il presidente di Forza Italia in un video promozionale pubblicato su Facebook in vista delle prossime elezioni politiche del 25 settembre 2022. Berlusconi esagera, prendendosi meriti che non ha. 

Nel video Berlusconi sottolinea che queste elezioni saranno diverse dalle precedenti, perché "il prossimo governo avrà la possibilità di investire ingenti risorse con soldi che io ho ottenuto in Europa per il nostro Pnrr- dice Berlusconi - Per ricostruire la nostra economia dopo i danni causati dalla pandemia. L'Italia non sarà più la stessa se il 25 settembre vinceremo noi o la sinistra. La nostra Italia crederà nel suo futuro, con tasse più basse, meno vincoli burocratici, una giustizia imparziale che tutelerà i cittadini e che si prende cura dei più deboli, dando un futuro ai nostri giovani. 

L'Italia della sinistra sarà peggiore, tasserà le nostre case e i nostri risparmi, bloccata da una infinità di veti, che hanno frenato le infrastrutture [...] Non saranno due Italie uguali, scegliere il nostro modello significherà scegliere l'Italia davvero migliore, più prospera, più libera, più giusta. Per queste ragioni, ancora una volta, dopo 28 anni ho sentito di nuovo il dovere di restare in campo" l'appello di Berlusconi per Forza Italia. Sul passaggio del Pnrr però, Berlusconi esagera. 

Berlusconi c'entra poco o nulla con la stesura del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il 5 maggio 2021, sotto il governo Draghi, è stato pubblicato sul sito della Presidenza del Consiglio il testo del Pnrr trasmesso dal governo italiano alla Commissione europea dal titolo “Italia domani”, dal valore complessivo di 235 miliardi di euro tra risorse europee e nazionali.

La stesura del piano è nata sotto il governo Conte: nel settembre 2020, il Comitato interministeriale per gli Affari Europei (CIAE) ha approvato una proposta di linee guida per la redazione del Pnrr che è stata poi approvata dalle Camere il 13 e 14 ottobre 2020, con un atto di indirizzo che invitava il governo a proseguire. Nei mesi successivi ci sono stati diversi incontri tra il governo Conte e la Commissione europea, per poi arrivare il 12 gennaio 2021 una proposta di Pnrr sulla quale il Parlamento ha svolto un approfondito esame, approvandola il 31 marzo 2021. 

Il Governo guidato da Mario Draghi ha poi riscritto il Piano, anche alla luce delle osservazioni di Parlamento, enti territoriali, forze politiche e parti sociali. Il 26 e 27 aprile 2021 il presidente del consiglio Draghi ha dato comunicazione a Camera e Senato sul nuovo testo del Pnrr, che a loro volta hanno approvato. Successivamente, il 30 aprile 2021 il Pnrr dell’Italia è stato ufficialmente trasmesso dal Governo alla Commissione europea. 

Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi non ha avuto un ruolo attivo nella stesura e nell'implementazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che, com'è evidente, ha riguardato i governi Conte e Draghi. Il suo partito ha appoggiato la stesura del piano, ma come tanti altri. Ad esempio nella risoluzione del 27 aprile 2021, sia alla Camera che al Senato Forza Italia era sì tra i co-firmatari, ma insieme a una larga maggioranza di partiti, che andava da Lega a Liberi e Uguali. 

Da “Rtl 102.5” il 4 agosto 2022.

Il leader azzurro parla del Governo di centrodestra. "Uomini di alto profilo, un governo temibile in Europa e nel mondo", dice in radiovisione. Poi i primi nomi dei ministri: Tajani, Bernini e Ronzulli. E a Renzi: “Non rappresenta nulla, il centro lo dovrebbe costruire con noi”  

Il Presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, è stato ospite in Non stop news su RTL 102.5 con Enrico Galletti, Giusi Legrenzi, Luigi Santarelli e Massimo Lonigro. Il leader azzurro tocca tutti i principali temi della politica in vista delle prossime elezioni del 25 settembre.

Quali sono i punti cardine del programma di Forza Italia che contraddistinguono la campagna elettorale?

“Forza Italia rappresenta la parte liberale, cristiana europeista del centrodestra italiano. Le priorità sono quelle per cui ci siamo sempre battuti: la lotta contro oppressione fiscale, da realizzare con la flat tax al 23% al massimo uguale per famiglie e imprese, la lotta contro l’oppressione burocratica, abolendo il regime delle autorizzazioni preventive, cosicché per costruire una casa o per avviare un’attività basti inviare una raccomandata al comune di residenza, prevedendo controlli e multe salate per chi non è in regola.

Infine la lotta contro l’oppressione giudiziaria, realizzando la separazione delle carriere, in modo che accusa e difesa siano davvero sullo stesso piano. Vogliamo anche aiuti ai giovani, che non hanno bisogno di sussidi ma di opportunità. 

E poi attenzione ai più deboli, per anziani e disabili, a loro vogliamo garantire una vita serena con una pensione minima di mille euro al mese per tredici mensilità, compresa quella categoria che non ha mai pagato contributi perché ha lavorato in casa per mantenere i figli: parlo delle nostre mamme e delle nostre nonne.

Infine l’ambiente: un milione di alberi all’anno per realizzare boschi nelle città, solo un aspetto di un progetto molto più vasto che va dalle energie rinnovabili alle ricerche per un nucleare politico, come ci è stato indicato dall’Europa”. 

Che idea si è fatto delle manovre del centrosinistra: Calenda che va con Letta?

“Non crea alcuna difficoltà per FI e centrodestra. Carlo Calenda è stato ministro di due governi di sinistra ed è europarlamentare eletto nelle liste del PD, si è definito più volte di centrosinistra, quello è il suo approdo naturale. Non è importante occuparsi di Calenda. 

Tutta questa operazione è servita a loro per ingannare gli elettori moderati per portarli nel campo della sinistra. Hanno fatto un accordo per impedire alle destre di Governare. Ovviamente non ci riusciranno. Trovo molto triste che tanti leader politici si mettano insieme (dall’estrema sinistra - gli ex grillini – dai cattolici ai radicali, fino a certi cosiddetti liberali) non per realizzare un progetto per l’Italia, ma per mettersi contro qualcosa e contro qualcuno.

E ‘ un vecchio vizio della sinistra, che essendo divisa e povera di idee, per stare insieme deve trovare un avversario da combattere. Per loro è fondamentale” 

Quindi ha ragione Matteo Renzi che corre da solo?

“E’ un intelligente giocatore di scacchi nei palazzi della politica, ma nel Paese non rappresenta nulla. Se davvero volesse costruire un centro e non soltanto disperdere dei voti lo farebbe con noi. Il nostro è l’unico centro possibile in Italia” 

Ha sentito Renzi?

"Non ci siamo sentiti” 

Si continua a dire che nella coalizione a trionfare sarà Giorgia Meloni. Non ha fatto parte del governo Draghi. Questo ha pagato, come strategia? Oppure quali sono i veri meriti di Meloni?

“La scelta di non partecipare al governo Draghi appartiene al passato. Noi abbiamo preferito essere protagonisti di una azione di Governo che ha fatto ripartire il Paese e contenuto la pandemia. Ora dobbiamo guardare al futuro. Giorgia è stata una brava ministra di un mio governo, non manca di tenacia e di coraggio, ha ridato prospettiva a una comunità politica di destra che è da sempre una parte importante dell’elettorato italiano. Contro di lei è in atto una demonizzazione vergognosa, come è stata fatta di volta in volta contro tutti i leader del centrodestra che hanno avuto successo nei sondaggi. È accaduto anche nel 2009 quando il mio governo e io, dopo la meravigliosa gestione dell’emergenza legata al terremoto, è partita la campagna demolitrice che due anni dopo ha portato alla caduta del mio governo, l’ultimo governo scelto dagli italiani. Da quel governo ad oggi, tutti i governi che si sono susseguiti sono stati oggetto di compromesso e mai del voto degli italiani”.

La Lega cala nei sondaggi rispetto al 2018. Ci sono stati errori imputabili a Matteo Salvini?

“Non credo. Se la Lega ha pagato prezzo elettorale ad un atteggiamento responsabile verso il governo, quello che può sembrare insuccesso numerico è un successo politico. Noi e la Lega abbiamo molte cose in comune, ma il linguaggio e gli atteggiamenti di Salvini non sono i nostri, così come diversa è la nostra storia”.

Qual è la sua squadra di governo ideale, ad oggi?

"Un governo di alto profilo, che sia credibile in Europa e nel mondo, anche grazie alla presenza di eccellenti individualità dell’economia, cultura, scienza e anche dell’amministrazione al fianco di esponenti dei partiti che ne faranno parte. La ripartenza dell’Italia è appena cominciata, dobbiamo implementarla e consolidarla. Mi auguro si possano rendere noti i nomi prima delle elezioni, così da consentire agli elettori di orientarsi”. 

Ministri: in queste ore si parla di Tajani, Bernini e Ronzulli.

Sono tutti di alto profilo. Penso che potranno essere tra i ministri indicati dai partiti 

L’hanno segnata le uscite da Forza Italia in un momento così cruciale per il Paese? Dalla Gelmini a Brunetta. Che pensa? 

“Ne ho preso atto con amarezza e con una delusione personale. Mi chiedo: verso i loro elettori come si sentono? Dopo essersi battuti contro la sinistra per tutta la vita ora sono dalla parte della sinistra, dalla parte dei nostri storici avversari, gli autori degli insulti verso me, loro e verso i nostri elettori. E’ davvero una cosa che non capisco, neppure come calcolo di convenienza, perché se hanno pensato di spostare i nostri voti verso Calenda, dopo l’accordo con la sinistra è chiaro che quei voti serviranno solo a lasciare il governo nelle mani del Pd. Chi è soddisfatto di come sono andate le cose negli ultimi dieci anni, delle tasse che paga, della pensione che prende, di come è gestita l’immigrazione, può votare per loro o per il Pd, che in fondo sono la stessa cosa”.

Si candiderà?

“Non ho ancora deciso, ma le notizie su una mia ambizione alla Presidenza del Senato sono totalmente e assolutamente infondate. Forse mi candiderò per il Senato. In Italia ci sarà un governo di centrodestra. In Europa, insieme al mio partito, credo di poter svolgere un ruolo importante”. 

Silvio Berlusconi presidente del Consiglio? 

No. L’ho fatto per quasi dieci anni, nessuno come noi ha fatto un Governo che ha realizzato tante cose. L’università di Siena ha detto che abbiamo fatto più e meglio di 50 governi messi insieme. Adesso bisogna lasciare che ci sia qualcun’altro che può fare ancora delle buone cose”.

Avrà successo Forza Italia?

“Sin passato sono partito dal 10% e sono arrivato al 21%. Adesso mi sono messo ancora in campagna elettorale e penso che non dobbiamo chiudere a meno del 20%”. 

C’è stata una forza politica, il M5S, che nel 2018 ha preso il 33% dei voti. Oggi che cos’è?

“Un movimento in assoluto disfacimento, c’era già qualcosa che diceva chi fossero questi parlamentari: l’87% di loro non aveva mai lavorato in vita sua. Nel 2018 con il 33% credo abbiano interpretato bene la voglia di novità e di cambiamento di molti elettori italiani” 

Pagherà la scelta fatta da Luigi Di Maio, di svincolarsi dal Movimento?

“Non credo proprio. Adesso, anche i loro elettori credo che si siano accorti la vera sostanza del M5S. Lui, Di Maio, ha una serie di dichiarazioni di prima in assoluto contrasto con quelle che fa ora. Non voglio dare giudizi, ma gli elettori credo li daranno” 

Ha più sentito Mario Draghi dopo la caduta del governo?

“Non l’ho sentito. Non c’è stata occasione per sentirlo, io sono sempre stato dalla parte del Governo. Gli abbiamo dato 55 volte la fiducia, il suo governo poteva andare avanti fino a fine legislatura senza il Movimento 5 Stelle che aveva abbandonato la maggioranza mettendola in crisi, ma sono subentrate altre logiche, ma non per nostra responsabilità. Voglio escludere in maniera assoluta ogni nostra responsabilità nella fine del governo Draghi”. 

Qualcuno insinua che a far cadere il governo siano stati gli amici di Putin. Ci sono amici di Putin, in italia, tra le forze politiche?

“I miei rapporti personali con Putin erano in un contesto assolutamente diverso, hanno portato alla firma del trattato di Pratica di Mare che ha messo fine a oltre 50 anni di guerra fredda. Credo che i miei rapporti con Putin siano da giudicare in passato come assolutamente divisi. Adesso sono deluso della situazione in Ucraina”. 

Ciò che salta all'occhio è che lei parla come nel 94, facendo riferimento al miracolo italiano. Vuole ritornare quel Berlusconi?

Nessuno può tornare indietro ed essere quello che è stato 28 anni fa. Credo di rappresentare da sempre una persona capace che ha dimostrato nella sua vita di saper fare molte cose. Qualcuno ha detto ieri che nessun imprenditore italiano può essere paragonato a me, mi ha fatto molto piacere. 

Quando sono stato al governo credo di aver fatto molto bene. Siamo stati i soli, in oltre 50 governi della storia della Repubblica, a non aumentare le tasse, anzi: ad abbassare la pressione fiscale portandola sotto il 40%, al 39%, ora siamo al 43,6. Siamo stati i soli a mantenere la disoccupazione sotto la media europea, abbiamo abolito il servizio militare obbligatorio e abbiamo azzerato lo sbarco dei clandestini, prima che la sinistra permettesse l’invasione incontrollata. Nel 2010, con il nostro Governo, sono stati solo 4.200 i clandestini sbarcati in Italia. Con la nostra straordinaria politica estera abbiamo messo d’accordo Usa e Nato a mettere fine alla Guerra Fredda. Possiamo essere orgogliosi di quello che siamo riusciti a fare in quasi dieci anni di responsabilità a Palazzo Chigi”. 

- Com'è lo stato di salute dell'economia in Italia in questo periodo?

“Non stiamo male. Abbiamo buone notizie per l’aumento della Borsa e discesa dello spread, l’aumento del numero dei lavoratori. Però, bisogna vedere come vanno le cose da qui in avanti, perché siamo in mezzo a pandemia, guerra, inflazione e ora anche alla siccità. Il nuovo governo dovrà lavorare molto, dovrà subito tirarsi su le maniche. Quindi, auguri”. 

Emozionato per l’inizio del campionato di calcio con il suo Monza in Serie A?

“Un traguardo storico, che doveva arrivare un anno prima, poi abbiamo trovato un certo arbitro che ci ha negato un gol. Monza è una piccola città, lo stadio lo abbiamo portato ad avere 16mila posti, sempre pochi, e questo non ci dà la possibilità di pensare a grandissimi risultati. Speriamo, anche grazie alla campagna acquisti che abbiamo fatto, di non sfigurare, e di restare certamente in Serie A”. 

Anche perché il traguardo successivo è la Champions. 

“Queste sono solo battute che faccio…” 

Quell'eterno dibattito alimentato di ipocrisia che la sinistra (vuota) non riesce ad archiviare neanche dopo cent'anni. Alessandro Gnocchi il 3 Settembre 2022 su Il Giornale.

Già negli anni Settanta, Sciascia e Pasolini avevano chiarito i limiti del tema (o, peggio, la sua malafede). Eppure la campagna elettorale si gioca ancora su categorie ormai consunte

«I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Questa geniale battuta di Mino Maccari, resa però famosa da Ennio Flaiano, era da intendersi alla lettera. Sia Maccari sia Flaiano avevano visto i propri amici intellettuali transitare senza alcuna contrizione dalla camicia nera a quella rossa. Un processo descritto magnificamente dal liberale Antonio Delfini nei suoi Diari appena ristampati da Einaudi e nella Introduzione ai Racconti appena ristampati da Garzanti. Sono pagine impietose sul mondo dei letterati e degli imboscati, degli ex amici Mario Pannunzio ed Eugenio Scalfari, ma anche dei mitici intellettuali delle Giubbe Rosse, tutta gente che aspettava la caduta del regime, rigorosamente in silenzio, per impadronirsi poi del potere culturale. Nei Diari, troviamo appunti come quello del 15 marzo 1937: «C'è troppa affinità letteraria tra intellettuali fascisti e intellettuali avversari, perché si possa credere nella nascita di qualcosa di grande da quelli». Gli scrittori di regime sono cortigiani ma non sono molto differenti da «quelli che sono, o stanno, fuori del fascismo, indifferenti ma... illuminatissimi; oscuri ermetici, ma chiari probanti coscienziosi nel loro... mestiere di letterato». Ecco poche righe in cui c'è la storia d'Italia: «Dopo il 25 luglio venni a sapere, con mia meraviglia, che tutti quegli Antifascisti (ma fascisti o fascistizzati) avevano lavorato loro, soltanto loro, per far cadere il fascismo. Io temo di intuire che essi si erano organizzati per l'eventuale caduta del fascismo; e non per far cadere il fascismo. Siamo giusti. Il fascismo l'hanno fatto cadere gli Inglesi (filo-fascisti fino al 1935), gli Americani, i Russi e i Fascisti meno stupidi e meno delinquenti». Conclusione sarcastica: «Quanto alla massa degli Antifascisti - via, siamo franchi: apriamo il nostro cuore! - la loro innocenza per la caduta del fascismo è quasi completa».

Sono considerazioni da tenere a mente in questa campagna elettorale nella quale non si dibatte di nulla che non sia un ricordo del XX secolo. Dunque, il centrosinistra ha impostato tutta la propaganda sull'allarme fascismo, ponendo l'accento sulla continuità (tutta da dimostrare) tra M e M, Meloni e Mussolini. C'è chi lo fa rozzamente e chi lo fa con maggiore intelligenza, archiviando il fascismo storico ma tirando fuori un «nuovo autoritarismo» che si intuisce essere parente stretto, forse il gemello, del fascismo. Ci sono poi gli «impressionisti» del fascismo, quelli che il fascismo è uno stato d'animo, un'emozione, un accento nero tra le parole «t'odio».

Intorno alla metà degli anni Settanta, alcuni intellettuali rigorosamente di sinistra, avevano già archiviato la questione. Erano spiriti liberi, stupefatti davanti all'ondata di conformismo e alla trasformazione dell'autore impegnato in autore impiegato, burocrate del Partito comunista che a tutto e tutti provvede. Nella sua evoluzione, Pier Paolo Pasolini incominciò a interrogarsi su quali fossero i frutti dell'ortodossia di sinistra. In una intervista del 1974, rilasciata a Massimo Fini, il poeta non usava mezzi termini: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più». Pasolini affondava il coltello nella ferita: «Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo... Io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi».

Il totalitarismo della società dei consumi è peggio del fascismo storico. Il fascismo poteva chiedere e imporre obbedienza ma non poteva impadronirsi delle coscienze. Il consumismo, al contrario, colonizza i nostri desideri e le nostre fantasie. Ci rende tutti uguali attraverso una finta tolleranza. Vuole abbattere ogni confine e travolgere ogni tradizione perché ha come unico scopo l'efficienza del mercato globale, che richiede consumatori uno identico all'altro. La sinistra progressista, incluso il movimento sessantottino, ha assecondato in pieno la nascita del nuovo totalitarismo, contestando e scardinando le «vecchie» istituzioni e le tradizioni millenarie.

Pasolini ci sta parlando di globalizzazione, mercato falsamente libero, pensiero unico, pigrizia culturale, difesa della differenze. Tutti temi interessanti, senz'altro più complessi da elaborare rispetto a usurati paragoni tra la destra di oggi e quella di un tempo ormai superato (da qualcosa di peggio, nella visione di Pasolini).

Anche Leonardo Sciascia, altro uomo di sinistra, e come Pasolini vicino al Partito radicale, aveva le idee chiare. Nel suo diario, Nero su nero, edito da Einaudi nel 1979, scrive pensieri come questo: «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è». Il più bello esemplare di fascista era un caso particolare di una legge storica, l'ascesa del cretino di sinistra: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l'evento non ha trovato registrazione». In quanto al «movimento» studentesco, ecco un micro-racconto che si direbbe una pietra tombale: «Era un fascista dice di Dubcek una ragazza molto rivoluzionaria che ha sposato un uomo molto ricco ed è entrata ora a far parte da assistente a un professore molto fascista». Sciascia aveva visto anche il sorgere della doppia morale: «A me, uomo di sinistra, è permesso, è lecito, è da approvare quel che non è permesso, è illecito, è riprovevole a un uomo di destra. Pericolosissimo principio, se si considera la facilità, e a volte la comodità, con cui si può essere uomo di sinistra, oggi».

Sciascia credeva che il fascismo, in una forma o nell'altra, fosse sempre possibile in Italia. Ma non era all'ordine del giorno. Lo scrittore siciliano insisteva su altri temi: la separazione dei poteri, l'eguaglianza davanti alla legge, il corretto funzionamento della giustizia. E proprio la giustizia, con i suoi tempi e la sua a volte dubbia indipendenza, è uno degli eterni problemi italiani. Nonostante ciò, non è fino a qui entrata nella campagna elettorale di alcun partito, se non in modo marginale.

Il dibattito sul fascismo ha fatto, negli ultimi decenni, marcia indietro. Era più interessante in passato, quando uscivano libri fondamentali sulla questione, a sinistra e anche a destra. Il dibattito che invece non è mai cominciato è quello su antifascismo e anticomunismo. Per appartenere alla famiglia democratico-liberale non è sufficiente l'antifascismo. È necessario anche l'anticomunismo. Si finge di non saperlo, ci si nasconde dietro all'illusione che il Partito comunista italiano fosse diverso. È ipocrita vedere sempre il fascio littorio nell'occhio altrui e non vedere la falce e martello nel proprio.

Non basta gridare: «Allarme fascismo». Bisognerebbe anche provare che la democrazia è in pericolo ma in questa disamina nessuno si avventura perché il risultato potrebbe rivelarsi un clamoroso buco nell'acqua. Delegittimare l'avversario, soprattutto quando si parte condannati alla sconfitta, è una tentazione alla quale la sinistra non è capace di rinunciare. Così parte la manganellata progressista, verbale ma non innocua: la destra e i suoi elettori sono fascisti e dunque indegni di prendere parte alla vita pubblica.

Nessuno, a sinistra, capisce la mediocrità (e il fascio-comunismo) di questo atteggiamento?

I sovranisti hanno accompagnato i voti contrari a critiche aspre all'Unione e alla moneta unica. La Repubblica il 3 Agosto 2022.

Tenete a mente queste cinque date: 13 ottobre 2020, 15 dicembre 2020, 10 febbraio 2021, 24 marzo 2021 e 27 aprile 2021. Cosa sono? I giorni in cui Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, nelle aule di Camera e Senato e in quella del Parlamento europeo, ha evitato con cura di votare a favore del Recovery Fund.

Claudio Tito per “la Repubblica” il 4 agosto 2022.

Tenete a mente queste cinque date: 13 ottobre 2020, 15 dicembre 2020, 10 febbraio 2021, 24 marzo 2021 e 27 aprile 2021. Cosa sono? I giorni in cui Fratelli d'Italia, il partito di Giorgia Meloni, nelle aule di Camera e Senato e in quella del Parlamento europeo, ha evitato con cura di votare a favore del Recovery Fund. 

E del Pnrr predisposto dal governo Draghi. Voti di astensione accompagnati da critiche asperrime nel merito del progetto, nei confronti dell'Ue e della moneta unica, l'euro. Una visione del mondo e del Vecchio Continente che non risale a qualche nostalgico decennio fa, ma agli ultimi 21 mesi. Spesso in compagnia della Lega. 

Le perplessità, i dubbi e il pesante scetticismo della Commissione e della gran parte del Consiglio europeo si fondano su quei voti e non su pregiudizi. Perché ogni singolo atto ufficiale a Bruxelles e a Strasburgo pesa molto di più che nel catino di Montecitorio o Palazzo Madama. Nella politica italiana la memoria è sovente labile. Nei Palazzi europei si dimentica molto meno. 

Tutto, quindi, inizia il 13 ottobre del 2020. In carica ancora il secondo governo Conte. A Montecitorio e Palazzo Madama si compie il primo atto per ufficializzare il Recovery Fund. Dibattito e poi una risoluzione sulle linee programmatiche del NextGenerationEu e quindi sugli oltre 200 miliardi messi a disposizione dell'Italia. Alla Camera 276 favorevoli, 3 contrari e 219 astenuti. Al Senato 148 favorevoli, 122 astenuti e 2 contrari.

Tra gli astenuti tutto il centrodestra (Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia) che dunque in quel momento era compatto contro gli aiuti europei. E Andrea De Bertoldi, incaricato di parlare al Senato a nome del gruppo "meloniano", diceva: «Non arriverà un grande aiuto dall'Ue» e questo Recovery è «un manuale delle banalità». 

Dello stesso tenore le dichiarazioni di forzisti e leghisti che pochi mesi dopo, però, hanno ingranato la marcia indietro. Massimo Garavaglia, poi diventato ministro con Draghi, ironizzava: «È solo poesia ». Mentre un altro leghista, il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, preconizzava: «Un cavallo di Troia per andare a mettere becco nella nostra politica di sicurezza ».

Due mesi dopo la scena si ripete. Ma il teatro non è più quello di Roma, bensì Strasburgo. Non si tratta esattamente del Recovery e del connesso Pnrr, ma del cosiddetto "React Eu", il primo provvedimento europeo per provare a porre argine agli effetti della pandemia. È il 15 dicembre del 2020. E niente. Anche in quell'occasione, sotto l'albero di Natale, Fratelli d'Italia impacchetta un voto di astensione. A quel punto il gioco si fa duro. 

Nel nostro Paese si apre la crisi di governo. L'esecutivo giallorosso di Conte se ne va ed entra in scena l'unità nazionale guidata da Mario Draghi. Primo obiettivo: redigere un Piano di Ripresa e Resilienza credibile e metterlo in pratica. Nel frattempo il Recovery approda all'Europarlamento. Il 10 febbraio 2021 all'ordine del giorno il Regolamento che rende effettivo il Fondo. Viene approvato con 582 sì. La destra si spacca. La Lega, presente adesso nel Gabinetto Draghi, deve cambiare rotta e vota sì.

Il partito di Giorgia Meloni insiste: non vota a favore. Ancora astensione. È Carlo Fidanza, allora capodelegazione di FdI poi indagato per corruzione, ad annunciare la decisione. Accompagnata da una serie di giudizi pesantissimi sul Recovery. Più che un'astensione sembrava un voto contrario: questo provvedimento, avvertiva con veemenza, porterà «un diluvio di tasse» e imporrà di nuovo «le regole dell'austerità».

Passa un mese e mezzo. È il 24 marzo 2021. A Palazzo Europa, sede del Parlamento europeo a Bruxelles, il ritornello non cambia. Stavolta si vota sulle cosiddette "risorse proprie", ossia il meccanismo che finanzia anche il NextGenerationEu. Pure in quell'occasione il gruppo di Meloni si astiene. Ma, con una piccola giravolta, anche la Lega segue. La scusa di Salvini: il timore di nuove tasse.

Che non ci sono mai state. Ma la prova del 9 risale a poco più di un anno fa. Nel Parlamento italiano si discute del Pnrr rivisto e messo a punto dal governo Draghi. Entro la fine del mese, infatti, scadeva il termine per consegnarlo alla Commissione europea. Data fondamentale per accedere ai soldi. Il premier interviene nelle assemblee di Montecitorio e Palazzo Madama. Vengono presentate le risoluzioni. 

Tra questa una di maggioranza e una di FdI, firmata dal capogruppo Francesco Lollobrigida. È il giorno dei "big". E così alla Camera prende la parola la leader del partito. «Se votassimo questo documento si potrebbe dire che siamo seri? - chiede rivolgendosi al presidente del Consiglio lamentando il fatto che non c'è stato il tempo sufficiente per esaminare il Piano - Io francamente penso di no». E poi ancora con tono costantemente antieuropeista: «La bassa crescita in Italia non è stata colpa delle aziende italiane, ma della gestione di una moneta unica pessima». 

La risoluzione di Lollobrigida, poi, smaschera le intenzioni: «Il voto che il Parlamento si appresta a esprimere sarà riferito alle comunicazioni rese dal presidente del Consiglio e non al contenuto del Piano». Risultato: ancora astensione. Ma soprattutto un giudizio negativo sul Pnrr. Proprio quel programma di riforme che invece l'Ue si aspetta dall'Italia. In caso di vittoria del centrodestra, dopo il 25 settembre che fine farà allora il Pnrr? E gli altri 150 miliardi che Bruxelles dovrebbe erogare fino al 2026?

Il Bestiario, il Sedivendolo. Giovanni Zola il 5 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il Sedivendolo è un leggendario animale con la testa da politico e sei gambe, due sue e quattro della poltrona.

Il Sedivendolo è un leggendario animale con la testa da politico e sei gambe, due sue e quattro della poltrona.

Il Sedivendolo è un mitico essere che abita tutti gli emicicli del globo terrestre, a destra a sinistra e al centro, l’importante è che ci sia una poltrona di cui il nostro si nutre avidamente.

Il Sedivendolo esiste da sempre, addirittura ne abbiamo testimonianza in alcuni disegni rupestri in cui è ritratto aggrappato a uno scranno che colpisce sul muso con una verga delle fiere feroci che cercano di mordicchiarli la seduta.

Nel V secolo a.C., Zenone di Elea lo cita nel suo famoso paradosso di “Achille e il Sedivendolo” per difendere la tesi che il movimento sia un’illusione. Nel paradosso il Sedivendolo rimane fermo alla partenza, mentre Achille vince la corsa a mani basse. In questo modo Zenone dimostra che il Sedivendolo non ha nessuna intenzione di muoversi dalla sua posizione privilegiata pur avendo pagato l’iscrizione alla corsa.

Vivendo seduto, il Sedivendolo per spostarsi saltella nervosamente sulla sua sedia facendo forza sui braccioli percorrendo brevi distanze per evitare di allontanarsi troppo dal suo centro del potere. In questo modo, come le tartarughe, se si ribalta, ha grossissime difficoltà a rigirarsi, ma piuttosto che distaccarsi dalla poltrona per tornare in posizione eretta, è disposto a rimanere a faccia a terra continuando a discutere del cuneo fiscale come se nulla fosse successo.

Come le code delle lucertole, se per caso una gamba della sua poltrona gli viene strappata in uno scontro per la sopravvivenza con un altro Sedivendolo, essa ricresce in poco tempo andando a sostituire l’arto mancante, aggiungendo all’estremità un feltrino.

Gli scontri tra Sedivendoli, di una violenza inaudita e senza esclusione di colpi (utilizzando anche giornali e magistratura), sono all’ordine del giorno. Normalmente vince il Sedivendolo che si coalizza con altri animali della sua specie anche se si sono scannati fino al giorno prima se inviare o meno armi all’Ucraina.

Il paradosso del Sedivendolo è che quando viene alla luce critica aspramente coloro che si comportano come Sedivendoli, ma inevitabilmente, dopo poco tempo, e sicuramente prima della pensione parlamentare, esso si trasforma in un ferocissimo Sedivendolo cancellando dal suo vocabolario le parole “dignità” e “coerenza”.

Per concludere, Darwin, nella sua teoria evoluzionistica, ritiene che il viso del Sedivendolo, con il passare degli anni, diverrà superfluo e si trasformerà nel suo sedere.

Politica, le parole «teatrino» e «circo» offendono gli artisti. In campagna elettorale vorremmo toni meno scadenti. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Luglio 2022.

«Prestatemi orecchio» dice il nobile Antonio appressandosi al cadavere di Cesare ai Rostri per cominciare ad arringare la folla ondivaga dei Quiriti nel tentativo (riuscito) di capovolgere le sorti della Repubblica e vanificare la congiura di Bruto e Cassio. La celeberrima orazione, cavallo di battaglia dei provini e delle audizioni degli attori debuttanti, resta un esempio di grande teatro e di oratoria politica.

Shakespeare conosceva i dettami della scuola di eloquenza alessandrina? Si direbbe di sì. Ma quel che importa è la magnificenza della prosa e la qualità della tecnica oratoria. Rinvio i politici contendenti in questa frettolosa e sgangherata campagna elettorale ad una «full immersion» (così accontentiamo quelli che hanno viaggiato) nella perorazione di Marcantonio. Eh sì, perché i litigi parlamentari forniscono un campionario pittoresco di orribile maltrattamento dell’Italiano. E poi ci si lamenta se in ambito diplomatico europeo lo cancellano dalle procedure.

Ho sentito praticare con disprezzo la locuzione «il teatrino della politica». Il tentativo è di screditare la politica comparandola al teatro. Ora va ricordato a quei tangheri che il teatro, anche quello piccolo delle marionette o dei burattini, è una cosa bella e serissima e che, se mai, si potrebbe tra noi, gente orgogliosissima di teatro, usare per offenderci a vicenda la parola politico o politica. Il caso somiglia all’uso del termine buffone per insultare. I buffoni sono gente buona e generosa, lavoratori benemeriti che si prodigano per ingentilire il corruccio degli adulti e far sorridere i bambini, non sono imbroglioni in mala fede e, se vestono la giubba, lo fanno per tirare a campare onestamente non per ingannare alcuno tra l’onorevole pubblico.

Ricordo che un tale, durante una trasmissione interessante in televisione, stretto nell’angolo di sue responsabilità truffaldine in ordine a soperchierie di pittoresca varietà a danno d’ingenui cittadini, accusò il bravo conduttore di «fare un circo equestre», volendo intendere che aveva messo su un imbroglio mediatico ai suoi danni. I circensi dovrebbero aggiungere la loro alle denunce che già pendono sulla testa di quel tale. Per di più, mi parve di udire in uno delle sue reiterate accuse, «ciclo» equestre. E qui il litigio con le parole divenne esilarante per il pasticcio che convocava innocenti e fisiologiche fatiche femminili insieme ad acrobati, cavallerizzi e clown. Io arrivo a diffidare, addirittura, di che osteggia i congiuntivi e litiga con grammatica e sintassi.

Temo l’azione di colui che si fa vanto di «essere di poche parole» e dimentica di aggiungere che molte non ne conosce. Dubito della condotta di chi parla a vanvera o di chi incatena parole a casaccio al ceppo della propria opinione.

«Chi non perdona al linguaggio non perdona alla cosa». La sentenza è di Karl Kraus, corrosivo scrittore austriaco che lamentò in un memorabile dramma (“Gli ultimi giorni dell’umanità”, 1919) la decadenza del mondo austroungarico. Osservatore caustico e appassionato del suo tempo insieme sfavillante e corrucciato, Kraus individuò nella lingua l’evidenza del mutare dei caratteri, dei costumi e del faticoso convivere degli uomini, il complesso eloquente ed espressivo d’informazioni che segnalano benefici e contraddizioni del racconto che chiamiamo Storia sin dai primi, esitanti passi della civiltà. E alla lingua e alle parole dedicò un saggio (“Die Sprache”, 1937) ancora interessante. Fate caso alle date: 1919 e 1937. Subito dopo e subito prima di due incendi che avrebbero cambiato per sempre l’occidente e il mondo. La guerra in corso particolarmente odiosa mossa dalla Russia all’Ucraina, lascerà atterrita anche la lingua dei popoli e diverrà inevitabile spartiacque tra la seconda aggressiva cortina di ferro e la civiltà umana che le parole tramandano.

E, quindi, facciamo caso a quelle che possono fiammeggiare ed esplodere come bombe. Qualche volta si arrangiano a scoppiettare come allarmanti petardi. Soprattutto in bocca a certi politici. Troppi.

Si dice, con stanco luogo comune, di preferire i fatti alle parole credendo, così, di dimostrare concretezza (È sempre una virtù? Ne siamo sicuri?) e operosa volontà. Sin dal 1578 un filologo fiammingo, Meurier, scrisse una castroneria conviviale che denunciava un assortimento di pregiudizi epocale: «I fatti sono maschi, femmine sono le parole». A me piace molto che siano femmine. Seneca sosteneva che i fatti devono provare la bontà delle parole (Verba rebus proba). Perché, e i Latini si sono affannati, spesso inutilmente, a trasmettercelo, le parole sono importanti.

Ce n’accorgiamo quando vengono malintese e maltrattate. Ecco perché Kraus era intransigente con i persecutori della lingua. Disse: «Una città dove gli uomini, parlando di una vergine che non lo è più, usano l’espressione “averla data via”, merita di essere rasa al suolo».

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” domenica 24 Luglio 2022. 

Dal suo primo giorno da «eletto» nelle istituzioni sono passati quarantadue anni e un mese. E la data è di quelle rimaste scolpite nella storia italiana, quantomeno quella musicale: 27 giugno 1980, il giorno dell'unico concerto italiano di Bob Marley, allo stadio San Siro di Milano. «Con tutte le date che c'erano, proprio quel giorno doveva capitare l'insediamento del consiglio regionale dell'Emilia-Romagna?», si lamenta ancora oggi Pier Luigi Bersani, che aveva comprato mesi prima il biglietto per il concerto di Marley e che riuscì «a raggiungere San Siro solo perché mi infilai in extremis in un pullman di smandrappati in partenza da Bologna, e io ero l'unico in giacca e cravatta».

Quasi mezzo secolo dopo, anche se gli amici gli chiederanno di ripensarci, Bersani si prepara a dire addio alla sua carriera nelle istituzioni, anche se passione e militanza in pensione non vanno mai. A meno di colpi di scena, il suo è uno di quei volti celebri che non si rivedranno in Parlamento dopo le elezioni del 25 settembre. Esce di scena volontariamente e non sarà presente nelle liste elettorali. Come capiterà a un altro cavallo di razza che con lui ha spesso (politicamente s' intende) incrociato le lame: Roberto Giachetti, oggi deputato di Italia Viva, pedigree radicale al cento per cento, già vicepresidente della Camera e mago dei regolamenti parlamentari.

Bersani e Giachetti non sono gli unici due ad aver comunicato ai compagni di partito l'intenzione di lasciare spazio ad altri. Anche Adriano Galliani, che quest' anno riabbraccia un ruolo da prim' attore nel campionato di calcio di Serie A col Monza berlusconiano, si preparerebbe a lasciare il suo seggio a Palazzo Madama e a rinunciare al suo posto blindato nelle liste di Forza Italia.

Le regole Due mandati per il M5S, come ha ribadito ancora ieri Beppe Grillo; tre per il Pd; quattro per Forza Italia: deroghe a parte, che per i pentastellati non sono all'orizzonte, sono questi i tetti fissati dalle forze politiche ne hanno uno come limite massimo alla carriera dei singoli in Parlamento. E in più c'è, per quasi tutti, il nodo della riduzione del numero dei parlamentari.

I nomi celebri del Pd Dalle liste del Pd rischiano di scomparire nomi celebri come Piero Fassino (sei legislature), ex ministre del calibro Barbara Pollastrini (idem), Roberta Pinotti (cinque) e Marianna Madia (tre), pronta a impegnarsi alle elezioni regionali del Lazio. Superano il tetto dei mandati, tra gli altri, Luigi Zanda (cinque), Andrea Marcucci (quattro, di cui uno nella Prima repubblica col Partito liberale) e Francesco Verducci (tre), anche se quest' ultimo aveva cominciato la sua prima legislatura quando di fatto era già finita (era subentrato nell'autunno 2012, a pochi mesi dalle elezioni del 2013).

Il restyling azzurro L'album di figurine di Forza Italia subirà il più clamoroso restyling dalla fondazione del partito ai giorni nostri. Dopo l'addio volontario dei ministri uscenti Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, con l'altra ministra Mara Carfagna con un piede e mezzo fuori (scontate invece le ricandidature dei sottosegretari, da Giorgio Mulè a Giuseppe Moles), rischiano di uscire dal Parlamento altri nomi che rimandano ai tempi d'oro del berlusconismo di governo: a meno che non vengano concesse ulteriori deroghe, saluteranno l'ex ministra Stefania Prestigiacomo (sette legislature) e l'ex presidente del Senato Renato Schifani (sei).

Un altro volto celebre del berlusconismo d'annata, Elio Vito, s' è dimesso da parlamentare qualche settimana fa e ha stracciato la tessera del partito. In bilico, secondo le malelingue, anche il prosieguo delle carriere parlamentari di Simone Baldelli, Catia Polidori, Elvira Savino e Renata Polverini, quest' ultima rientrata in Forza Italia dopo un «arrivederci» durato il tempo della fiducia votata al governo Conte bis.

Curioso il caso del deputato ligure Roberto Bagnasco: al suo posto potrebbe candidarsi il figlio Carlo, sindaco di Rapallo, molto apprezzato ad Arcore.

Di successione si parla anche in casa Cesaro: dove il senatore Luigi detto «Giggino 'a purpetta», ex presidente della provincia di Napoli, spinge per il figlio Armando, ex consigliere regionale campano e recordman di preferenze.

I big dei cinquestelle «Il senatore Berlusconi è solo il passato. Buona galoppata verso casa, Cavaliere! Non potremo dire che ci mancherà», tuonava nell'Aula del Senato Paola Taverna nel dibattito sulla decadenza di Berlusconi da senatore a seguito della condanna definitiva per frode fiscale. Era il 2 ottobre 2013.

Beffardo il destino: dieci anni dopo, il 2 ottobre 2023, Berlusconi con tutta probabilità siederà tra i banchi del Senato (secondo qualcuno, correrà addirittura per presiederlo) mentre Taverna non più. La senatrice romana è una delle «vittime» (virgolette ovviamente d'obbligo) della storica tagliola dei due mandati che da sempre è il primo, vero, cavallo di battaglia dei grillini. A fine corsa, tra gli altri, anche big come Roberto Fico, Danilo Toninelli, Carlo Sibilia, Vito Crimi, Alfonso Bonafede.

Il caso Bossi Se Fratelli d'Italia ha il problema delle caselle da riempire, perché verosimilmente porterà in Parlamento più eletti dell'ultima volta, anche nella Lega si aprirà la riflessione sui posti da tagliare. Il caso più spinoso riguarderà il fondatore del partito, Umberto Bossi, che nonostante gli acciacchi ha partecipato all'ultima votazione del presidente della Repubblica. Anche simbolicamente il Senatur sarà ancora in lista oppure no? Un indizio: tra coloro che vanno spesso a trovarlo a casa, a Gemonio, c'è un uomo considerato «centrale» nella costruzione del centrodestra che verrà: il professor Giulio Tremonti.

La politica e lo specchio rotto di Dorian Gray. Marco Follini su Il Corriere del Giorno il 9 Agosto 2022 

Dovevamo arrivare a questa campagna per vedere forse -forse- le cose da un altro punto di vista. Offrendo al paese l’occasione per confrontarsi con quella parte di sé che la politica ha quasi sempre cercato di occultare. E cioè la conservazione di qualcosa - da una parte e dall’altra.

Il centrodestra, per voce di Giorgia Meloni, si proclama “conservatore“. Non è un rovesciamento da poco. Agli albori, sotto l’egida di Berlusconi, quello stesso schieramento faceva del suo meglio per proclamarsi nuovo, inedito, quasi fresco di giornata. Un’armata di innovatori a cui era affidato finalmente il compito di rovesciare le tradizioni politiche che avevano tenuto banco fino a pochi anni prima. L’improvvisazione era il marchio di fabbrica di quel centrodestra e al tempo stesso il suo punto debole.

Si dirà che il conservatorismo di Fdi somiglia semmai all’eterno “Dio-patria-famiglia” tipico delle destre di tutti i tempi e di quelle fuori dal tempo. Più De Maistre che Prezzolini, per citare due dei suoi profeti. Ma è una paradossale novità che quella parola, conservatore appunto, assurga ora a nuovi fasti. 

Dall’altra parte della barricata infatti c’è un’alleanza che ha anch’essa, a sua volta, più di molti tratti che richiamano antichi codici politici. Anche dalle parti del centrosinistra infatti si vuole mettere al riparo quel che resta delle più blasonate tradizioni politiche del dopoguerra, il quadro delle nostre alleanze internazionali, le preziose regole costituzionali che fissano l’equilibrio dei nostri poteri, e molti altri dei nostri usi e costumi. In una parola, tutto quello che il nostro passato collettivo ha saputo presidiare e per l’appunto conservare.

Così ancora una volta si potrebbe dire, prendendo in prestito Carlo Levi, che il nostro futuro ha un cuore antico. A patto di sapere che si dice ora quel che si è troppo spesso taciuto.

Il fatto è che nel gioco degli specchi di tutti questi anni l’enfasi sul progressismo, il rinnovamento, l’innovazione aveva spesso un che di forzato. Era un lessico diffuso, reiterato, qualche volta dogmatico. Eppure come tutti i dogmi poteva richiamare un’obiezione. Come a rivelare una diffusa scontentezza per se stessi, oltre che per l’ordine delle cose. Solo Berlinguer, nei tempi andati, ebbe il coraggio di definirsi “conservatore e rivoluzionario”. Ma forse anche nel suo caso era il secondo carattere che aveva la meglio sul primo.

Così, dovevamo arrivare a questa campagna per vedere forse -forse- le cose da un altro punto di vista. Offrendo al paese l’occasione per confrontarsi con quella parte di sé che la politica ha quasi sempre cercato di occultare. E cioè la conservazione di qualcosa – da una parte e dall’altra.

Naturalmente non è detto che le parole debbano essere prese alla lettera. Tantomeno in una campagna tra le più brutte che si siano viste fin qui (a detta innanzitutto da coloro che la conducono). Ma quelle parole svelano pur sempre qualcosa, anche quando vorrebbero nasconderlo. Come se stesse affiorando un sottinteso che per anni e anni abbiamo fatto del nostro meglio per non rivelare a noi stessi.

Il fatto è che noi siamo un paese conservatore. Che però non ama raccontarsi come tale, ed è sempre suggestionato da chi gli offre lo specchio di Dorian Gray per potersi vedere più giovane e attraente. Peccato che lo specchio si sia rotto, da una parte e dall’altra. editoriale tratto dal quotidiano LA STAMPA

Così i partiti alla Camera cercano di favorire i loro dipendenti. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 27 luglio 2022

Tanti ordini del giorno al bilancio della camera puntano a dare un aiutino a chi, in questi anni, ha lavorato a Montecitorio da dipendente dei gruppi o da “decretati”. Il pericolo è di creare un circolo chiuso che favorisce poche persone

La chiusura anticipata della legislatura stuzzica gli appetiti per blindare i dipendenti dei gruppi in parlamento. In un clima da “si salvi chi può”, l’operazione è stata messa in cantiere nel bilancio della Camera, che sarà discusso dall’Aula nelle prossime ore, sotto forma degli ordini del giorno depositati.

GRUPPI PARLAMENTARI

Tra questi spicca il progetto della deputata del Movimento 5 stelle, Celeste D’Arrando, che ha messo nero su bianco la proposta di tutelare la «competenza e l’esperienza professionale del personale dipendente dei gruppi parlamentari», prevedendo un «intervento finalizzato a garantire la continuità lavorativa di tale personale». L’obiettivo è di indicare una corsia preferenziale a dispetto di tutti gli altri candidati.

La motivazione è, sulla carta, sacrosanta: la volontà di valorizzazione dei titoli e dell’anzianità acquisita rispetto a quel lavoro. Peccato che la dinamica, nei fatti, rischia di favorire la creazione di un circuito chiuso, senza possibilità di ingressi dall’esterno.

Una proposta simile è stata presentata con l’ordine del giorno di Mauro D’Attis di FI. E sempre sulla stessa falsariga si muove l’iniziativa della deputata di Alternativa, Leda Volpi, che chiede un confronto con il Ministero del lavoro per riconoscere una cornice contrattuale specifica a questi lavoratori.

UFFICIO DI PRESIDENZA

Se in questi casi si tenta la stabilizzazione dei dipendenti dei gruppi, c’è anche chi spinge per provare a ricollocare i cosiddetti “decretati”, le figure assunte dai componenti dell’ufficio di presidenza di Montecitorio e dei presidenti delle commissioni. Si definiscono decretati perché assunti con decreto presidenziale, con la busta paga garantita però dagli uffici della camera. Il colpaccio è stato orchestrato da Andrea De Maria, deputato del Partito democratico.

L’obiettivo, nel caso specifico, è di arrivare a un «incremento del plafond massimo di spesa utilizzabile per il personale di segreteria», in modo da riassorbire chi ha lavorato con l’ufficio di presidenza (udp) nelle due legislature precedenti.

Dunque, chi assumerà l’incarico nell’organismo della camera, avrà la possibilità di una spesa aggiuntiva, a patto di far rientrare chi ha già avuto un contratto in precedenza con l'ufficio di presidenza. Peraltro De Maria avanza questa idea dalla posizione proprio di segretario di presidenza. Un progetto che suona come una garanzia a chi lo ha accompagnato nel corso di questi anni a Montecitorio.

L’ex deputato del Movimento 5 stelle, passato con Insieme per il futuro di Luigi Di Maio, Alessandro Amitrano, è segretario di presidenza come De Maria, sarà per questo che si occupa della stessa questione.

L’idea di Amitrano, tuttavia, è molto più prudente: non propone nessuna misura specifica per garantire il rientro dei collaboratori dell’ufficio di presidenza, ma la possibilità di caricare sul sito internet della camera il curriculum vitae in un elenco denominato «personale in decreto nelle scorse legislature». Nessun intento particolare, sottolinea Amitrano, se non quello di rispondere esclusivamente agli «obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni».

Nonostante la minimizzazione è comunque un modo come un altro per rendere note le competenze di quei professionisti. E magari consentire una posizione di vantaggio in confronto a possibili new entry.

MENO DEPUTATI STESSI SALARI

Come se non bastasse la preoccupazione per il futuro riguarda anche chi ha la certezza di tornare in pista dopo le elezioni del 25 settembre e con l’insediamento delle nuove camere, previsto per il 13 ottobre. È il caso dei dipendenti della camera dell’allegato A, una categoria creata 30 anni fa, che a ogni legislatura facilita la riassunzione di questi lavoratori, attraverso un sostegno economico alla loro contrattualizzazione. Ma la sicurezza del posto non è considerata sufficiente per essere soddisfatti. Nei giorni scorsi, infatti, l’associazione, che raccoglie i 70 lavoratori del cosiddetto allegato A, ha minacciato di avviare una causa nei confronti dell’istituzione in caso di mancate risposte.

Tra le istanze poste ci sono quelle del salario da mantenere allo stesso livello, indipendentemente dal taglio del numero dei parlamentari, e di evitare casi di demansionamento. Arrivando finanche a citare casi di mobbing.

I COLLABORATORI

In mezzo al fiume di richieste in arrivo da ogni parte, i collaboratori parlamentari invece non chiedono alcuna stabilizzazione.

L’Aicp, l’associazione che rappresenta i loro interessi, chiede semplicemente una regolamentazione per scongiurare gli abusi contrattuali che si sono susseguiti negli anni.

E aggiunge un’altra clausola: serve maggiore trasparenza nel conferimento di questi incarichi per limitare i casi di assegnazione a compagni di partito o politici non eletti, che con i numeri del nuovo parlamento di certo non mancheranno. 

STEFANO IANNACCONE. Giornalista professionista, è nato ad Avellino, nel 1981. Oggi vive a Roma, collaborando con varie testate nazionali tra cui Huffington Post, La Notizia, Panorama e Tpi. Si occupa principalmente di politica e attualità. Ha scritto cinque libri, l'ultimo è il romanzo Piovono Bombe.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 4 agosto 2022.  

Il centrodestra procede all'insegna del "prima si vince poi si vede", il centrosinistra in affanno prova la strada del "prima non facciamoli vincere poi vedremo", come ha ben riassunto Davide Giacalone ieri su "La Ragione". Ma per "non farli vincere" a Letta e soci non bastano le alchimie politiche, servirà ben altro in questa già calda estate 2022. Non che l'armamentario sia inedito, è che va ripescato dalla cantina e oliato. 

Qualcosa già si vede nelle trasmissioni televisive targate Rai e nei talk su La7 messi su in tutta fretta infrangendo la classica pausa ferragostana e richiamando pure i riservisti. Così, se vogliono apparire sul piccolo schermo, gli esponenti di centrodestra devono subire il linciaggio di conduttori di parte, essere zittiti e continuamente interrotti a differenza di quanto accade con i loro colleghi di sinistra trattati in guanti bianchi.

Se La7 è una rete privata che giustamente fa ciò che meglio crede, la Rai fino a prova contraria dovrebbe essere equidistante tra i contendenti ma i trucchi per sembrarlo e non esserlo sono vecchi come il mestiere del giornalista, mestiere che fior di letteratura avvicina non a caso a quello della prostituta anche se ci spacciamo come gran dame. Ma per "non farli vincere" ancora non basta. No, ci vuole il botto, che come tutti i botti va maneggiato con cura e ben confezionato altrimenti rischi che ti scoppi in mano.

Essendo noi per l'appunto prostitute frequentiamo gentaglia dei bassifondi nei quali l'olezzo è insopportabile ma c'è vita vera e nulla sfugge. Ecco, da quelle parti si dà per certo che si stanno preparando un paio di botti giudiziari - scoppio previsto fine agosto - di quelli tosti, qualcuno azzarda anche i nomi di figure politiche di primo piano nell'area di centrodestra. 

Si parla, nei bassifondi, di dossier già pronti tolti dai cassetti e messi sul tavolo pronti perla firma. Certo, anche i tribunali chiudono per ferie e le procure sono aperte solo per le emergenze. Ma cosa c'è di più emergenziale che impedire al centrodestra di vincere le elezioni? Nulla, e infatti il "Sistema" - Palamara l'ha ben raccontato: magistrati-giornalisti-politici e il gioco è fatto - come già ora si evince non andrà in vacanza. 

Da liberoquotidiano.it il 4 agosto 2022.

Paolo Mieli mette in guardia i partiti. In vista delle elezioni del 25 settembre, il giornalista non esclude colpi di scena. "Mi aspetto sorprese nell’ultima fase… - confessa ospite di Coffee Break su La7 - C’è sempre una sorpresona finale, spesso di natura giudiziaria. E la seconda sorpresa è che clamorosamente ci sarà qualcosa che non coincide con i sondaggi fermi a 15 giorni prima. Sono costanti di tutte le elezioni, soprattutto dal 1994 a oggi".

Un fulmine a ciel sereno quello di Mieli che, nella puntata in onda giovedì 4 agosto, fa eco a quanto già sostenuto da Alessandro Sallusti. Il direttore di Libero ha detto chiaro e tondo che in diversi ambienti "si dà per certo che si stanno preparando un paio di botti giudiziari - scoppio previsto fine agosto - di quelli tosti". Secondo quanto riportato da Sallusti "qualcuno azzarda anche i nomi di figure politiche di primo piano nell'area di centrodestra. Si parla, nei bassifondi, di dossier già pronti tolti dai cassetti e messi sul tavolo pronti per la firma".

Ma non è tutto, perché Mieli si lascia andare a un'altra osservazione. Questa riguardante Pd e compagni: "Mi sembra che la sinistra abbia rinunciato a usare, anche in virtù dell’accordo con Calenda e Della Vedova (Azione e +Europa), un’arma tradizionale di questi 30 anni cioè ‘attenti, attenti che arriva il fascismo’. Non è cosa da poco e io ci avrei giurato che non ne avrebbero fatto cenno". 

E a chi gli ricorda che molti giornali non mettono da parte il "pericolo fascista", lui replica: "Ovvio che su alcuni giornali ci saranno ancora intellettuali che agiteranno lo spauracchio del fascismo, ma conta che non lo facciano il capo del partito di maggioranza relativa a sinistra (Enrico Letta, nda) e il suo gruppo dirigente, Bonino, Calenda e Della Vedova, insomma i big. Se ci fosse stata una minaccia fascista si sarebbero comportati in maniera diversa, si sarebbero alleati con chiunque, con Toti, Conte, con chiunque passasse per strada. Questo si fa quando c’è un vero pericolo fascista".

Lucio Fero per blitzquotidiano.it il 4 agosto 2022.

Spesso ci si interroga sulla statura culturale e civile e sullo spessore intellettuale (talvolta semplicemente…intellettivo) del ceto politico. E ci si pone la domanda come propedeutica ad altra e conseguente domanda: sono in grado di governare? E’ in grado di governare un ceto politico specializzato nella recita, isterica e monotona al tempo stesso, dell’immediato? Una risposta franca e sincera nel suo piccolo la fornisce la vicenda minima legata ad una chiacchiera minima in Rai nella quale si è parlato anche di Giorgia Meloni. 

Laziale e/o romanista?

Una questione a dire il vero miserella è stata innaffiata oltre misura dall’attenzione della stampa: Giorgia Meloni che da giovanissima si dice fosse “aquilotta” è poi diventata giallorossa? Dilemma da sorridere, ma qualcuno arriva a far sul serio e va a scrivere che come fai a fidarti di chi muta l’appartenenza ad oggi meno mutabile in una vita? 

Si cambia il partner, il lavoro, la città, le convinzioni e convenienze politiche, perfino la fede religiosa…Ma la squadra no, quella non si cambia! Di questo, su questo una fraserella minima in una trasmissione della Rai. “Se è un peccato cambiar squadra…”. “Non sarebbe certo l’unico”. Frase innocua, applicabile a qualunque essere umano. Scambio di battute che oltretutto ridimensiona il ridicolo scandalo inaffidabilità tifosa e non solo della Meloni. Ma… 

Non nominare Giorgia invano

Ma c’è appunto lo spessore culturale e c’è la statura intellettiva del ceto politico. Quello di Destra (ma quello di Sinistra avrebbe fatto lo stesso nel caso si fosse nominato invano un nome di sinistra) reagisce appunto invocando la sacra legge del non nominare Giorgia invano. Giorgia che sta andando alle elezioni. Giorgia che sta andando a vincerle le elezioni. Giorgia che sta andando a governare. Giorgia che nominarla senza ossequio è già sacrilego, anzi è già boicottaggio. Giorgia che è: donna, mamma, italiana. E che è guida e che forse sarà premier o giù di lì. Non si scherza con i santi e Giorgia è per il ceto politico di appartenenza già una santa. E quindi: punire la blasfemia, sospendere giornalista, conduttori, trasmissione! 

Questo lo spessore e questa la cultura e, in fondo, anche questo il mestiere ormai quasi esclusivo del ceto politico: quello del commediante capace di incrociare le tecniche della sceneggiata con quelle del talk-show. I sacerdoti del culto di Giorgia celebrano ed esigono riti purificatori per sanare l’oltraggio. Per fortuna lei, Giorgia, sembra l’unica, purtroppo, a mantenere la misura in questa vicenda che non meriterebbe neanche di essere tale. 

Michela Tamburrino per “La Stampa” il 4 agosto 2022.

È iniziata la campagna elettorale e non esiste tribuna più adatta della tribuna Rai. Così anche una battuta detta male crea un vortice da bicchiere d'acqua che poi, ben alimentato, diventa tempesta perfetta. Per ricostruire fedelmente i fatti nel loro primigenio ordine di banalità, bisogna ripartire dalla madre di tutte le scoperte eclatanti da campagna elettorale, quella che riguarda il credo sportivo di Giorgia Meloni, leader di FdI, che avrebbe tradito la sua fede calcistica laziale per passare alla tifoseria romanista. A parte la bizzarria della scelta, perché è noto che è la destra a ingrossare le fila degli "aquilotti", altro non dovrebbe esserci a parte il mistero che sottende a questo cambio di casacca. 

Così, per celia Elisa Anzaldo, anchor woman del Tg1 della sera, nel corso della sua rassegna stampa mattutina, ha invitato Alessandro Barbano, condirettore del Corriere dello Sport, che descrivendo il fatto e autodenunciando un episodio simile del quale è stato protagonista, ha poi detto: «Se peccato è, non è il peggior peccato di Giorgia Meloni». E qui arriva la frase incriminata della giornalista che ridendo ha chiosato: «Ce ne sono tanti altri», intendendo peccati. Apriti cielo. 

L'ira funesta di FdI e della Lega non si fa attendere e subito s' abbatte con una minaccia, «La pagherà caro?» lanciata da Niccolò Fabbri. E poi accuse al direttore Monica Maggioni e alla Rai tutta che, prima ancora delle scuse di Anzaldo - che si appella al fatto che stesse ancora parlando di sport - invia un richiamo alla sua redazione circa l'importanza di essere sempre molto attenti e soprattutto sobri. 

La bufera si consuma a pochi giorni dall'entrata in vigore della par condicio varata ieri da Agcom e Commissione di Vigilanza. Così non vuole entrare nello specifico caso il presidente della Vigilanza Alberto Barachini, Forza Italia, che si limita a ricordare: «È stata approvata la delibera per la par condicio che entra in vigore a 45 giorni dal voto. Io ho chiesto che i criteri guida vengano applicati il più presto possibile. Soprattutto nel settore intrattenimento il giornalista è diventato personaggio, e alcuni hanno pensato di poter dire e fare ciò che non dovrebbero. Auspico un ritorno alla sobrietà». Il regolamento prevede, per la prima volta per le politiche, dopo l'esordio nella campagna per le europee del 2019, che le piattaforme per la condivisione dei video siano tenute ad assumere ogni utile iniziativa volta ad assicurare il rispetto dei principi di tutela del pluralismo, della libertà di espressione, dell'imparzialità, indipendenza e obiettività dell'informazione e ad adottare misure di contrasto ai fenomeni di disinformazione.

Michele Anzaldi, parlamentare di Iv in Vigilanza, nello specifico ci entra e ci ragiona a voce alta: «A me non è parsa neppure una battuta infelice. Io leggo questo polverone come la strategia per fare pressione sul direttore del Tg1. Da qualche giorno il suo telegiornale è sotto accusa in modo pretestuoso e non penso che sia solo il direttore del Tg2 Sangiuliano a soffiare sul fuoco. In Vigilanza il parlamentare Federico Mollicone di FdI è venuto da me per dirmi che nulla andava bene e che non si garantisce il pluralismo. Io gli ho risposto che per ora ad essere balzato agli onori delle cronache è stato solo il direttore del Tg2, che se esiste qualche abuso va denunciato all'Agcom, e che se esistesse ancora un Ordine dei giornalisti dovrebbe intervenire sulla frase "la pagherà caro?" che il punto interrogativo non mitiga». La Lega e FdI con Santanché in testa chiedono l'immediata sospensione di Anzaldo dalla partecipazione ai programmi «dopo lo spettacolo indecente visto stamane». Anche Forza Italia parla di «un inizio di campagna elettorale decisamente non equilibrato». Nel mirino nel centrodestra anche le possibili nomine dei vicedirettori dei tg, anche del Tg1, dopo i job posting aziendali, che sarebbero, a suo dire, troppo orientate a sinistra. «La destra di Salvini-Meloni-Berlusconi torna ad agitare il manganello contro il servizio pubblico e la sua autonomia» è la replica Andrea Romano del Pd.

Makkox e le solite accuse alla destra. Alessandro Gnocchi l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

Sotto le elezioni, accusare di ignoranza la destra (e i suoi elettori) è un grande classico del quale faremmo volentieri a meno. 

Sotto le elezioni, accusare di ignoranza la destra (e i suoi elettori) è un grande classico del quale faremmo volentieri a meno. Questa volta, è toccato a Makkox, vignettista del Foglio e di Propaganda Live su La7, spolverare i più usurati luoghi comuni sulla questione. Leggiamo da una intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica: «Siamo un popolo di ignoranti, e l'ignoranza è concime per la destra». La frase sembra fatta apposta per suscitare le polemiche su Twitter, il social network utile soprattutto a rimpiazzare i vecchi Bar dello Sport. Missione compiuta. Le tifoserie contrapposte hanno avuto modo di sfogarsi. Naturalmente è pura commedia. La destra ha una gigantesca tradizione culturale e oggi è un'area decisamente più vitale della sinistra, basta guardare quali sono gli editori più avventurosi e disposti al rischio. Ah già, ma raramente i conformisti, ce ne sono parecchi a sinistra, escono dalla confortevole zona in cui vedono sempre confermati i propri pregiudizi, dunque leggono poco o tanto però male in ogni caso. Manca loro una metà abbondante del mondo, ma non lo sanno, si accontentano dell'usato sicuro. Eviteremo di scomodare per l'ennesima volta il poeta Giovanni Raboni, che nel 2002 aprì e chiuse la discussione in un celebre articolo per il Corriere della sera, appena ristampato da De Piante editore con il titolo I grandi scrittori? Tutti di destra. Raboni forniva un elenco sterminato di autori non solo di destra ma anche di sinistra (però non comunisti, quindi nascosti o ignorati). Notiamo due cose. A proposito di propaganda: quella del Partito comunista è riuscita appunto a far credere a molti cittadini che la cultura coincidesse col comunismo. Sarebbe anche ora di andare oltre, a oltre vent'anni dalla caduta del Muro. A proposito di concime: pochi giorni fa, la vignetta di Makkox, in prima pagina sul Foglio, era superata in comicità dall'articolo nel quale si trovava incastrata a mo' di corredo. Ecco un estratto: «Diceva Giuseppe Prezzolini, giornalista formidabile, allievo di Leo Longanesi...». Ahi, non ci siamo. Prezzolini aveva già inventato la Voce quando Longanesi era troppo giovane per andare all'asilo. Makkox si sarà accorto di aver contribuito alla vittoria elettorale della destra?

"Destra? Popolo ignorante", "Serve il Maalox". Scontro tra Makkox e Salvini. Il vignettista di Propaganda Live preannuncia (con disprezzo) la vittoria del centrodestra alle elezionI. Il leader della Lega lo demolisce: “Da Makkox a Maalox è un attimo, bacioni”. Massimo Balsamo il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Manca sempre meno alle elezioni del 25 settembre e da sinistra si moltiplicano offese e insulti nei confronti del centrodestra. Come al solito, chi non vota dalla “parte giusta” è ignorante. Questa è la tesi portata avanti ormai da anni da molti (presunti) intellettuali. Makkox, vignettista di Propaganda live, Espresso e Foglio, ha ribadito la tesi, preannunciando la vittoria del centrodestra.

Che vinca la destra "sembra pacifico, il Paese vuole così. Siamo un popolo di ignoranti, e l'ignoranza è concime per la destra". Questo il pensiero di Makkox in un’intervista rilasciata a Repubblica. Un attacco pesante, un’offesa a tutti gli italiani che non votano i movimenti cari al vignettista. Senza troppi misteri, compagni schierati tutti a sinistra. Nel corso dell’intervista, inoltre, Makkox ha denunciato il pericolo oscurantismo, citando per iniziare il leghista Pillon. Zero ottimismo in caso di vittoria del centrodestra alle elezioni, dunque, ma non poteva mancare una insinuazione sulla Russia, ormai un cavallo di battaglia di Pd & Co.: “Però magari ce conviene. Vuoi vedere che Putin poi ci regala il gas?”.

L’armata Brancaleone attaccata con lo scotch

Le stoccate di Makkox non sono passate inosservate. Matteo Salvini ha deciso di replicare su Twitter alle affermazioni del volto di Propaganda Live: “Un 'artista’ di sinistra, educato e democratico, dice che Italiani sono "popolo di ignoranti" se votano per Lega e destra. Gli rispondiamo con un sorriso, con lavoro e idee per far tornare grande l'Italia. Bacioni…”. Ma non è tutto, il leader della Lega chiude la replica con un calembour: “Che poi da Makkox a Maalox è un attimo”.

Non è finita qui. Makkox, infatti, ha cavalcato l’ondata di polemiche e ha colto l’occasione per replicare all’ex vicepremier. Anche in questo caso, regna l’ironia (forse): “Dopo la lettera di complimenti di Mattarella è la seconda più grande soddisfazione della mia vita: la card di Salvini che stamperò e mi farò firmare in uno dei suoi futuri comizi da ministro in tour per l'Italia, se non mi si caricherà prima la digos)”.

L'accozzaglia unita solo dall'odio. Ammucchiata doveva essere e, alla fine, ammucchiata è stata. Francesco Maria Del Vigo il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Ammucchiata doveva essere e, alla fine, ammucchiata è stata. A tutti i costi. Anche se il prezzo da pagare è quello di perdere la faccia o, quantomeno, farla diventare di bronzo. Che è quello che ha fatto Enrico Letta, giocando su tre tavoli con un solo scopo: cercare di fermare il centrodestra.

A oggi il Pd ha stretto un accordo con il sedicente liberale Carlo Calenda, ma ne ha anche stretto uno con i post comunisti di Sinistra Italiana e con i fondamentalisti ecologisti di Bonelli e un altro con gli inqualificabili (per evidente mancanza di programma e idee) Luigi Di Maio e Bruno Tabacci. Ci mancano solo gli ultimi reduci contiani dei Cinque Stelle, ma non escludiamo che il leader del Pd, prima o poi, spalanchi le porte della sua coalizione anche a loro.

Non è necessario essere raffinati politologi per capire che questi signori non hanno nulla in comune tra loro, se non l'odio nei confronti di Berlusconi, Meloni e Salvini. Unico collante che, tuttavia, non basta a tenere insieme una accozzaglia che va dal centro alla sinistra più radicale. Molti di loro, nel corso degli anni, si sono più o meno cordialmente detestati. Non più tardi della settimana scorsa il leader di Azione chiedeva a Letta di non candidare Fratoianni («ha votato 55 volte la sfiducia a Draghi»), Bonelli («non vuole il termovalorizzatore») e il leader di Impegno Civico («che ha distrutto tutto il lavoro che abbiamo fatto al Mise»).

Noi siamo d'accordo con lui, ma è lui a non essere più d'accordo con se stesso. A meno che - ce lo auguriamo - non decida di togliere il disturbo, salutare Letta e compagni e tornare in quel centro che almeno in teoria, doveva essere la sua collocazione politica naturale. Recuperando almeno una parte della dignità perduta. Anche perché la riedizione della gioiosa macchina da guerra è solo una tristissima macchina da disfatta, una pagliacciata alla quale - lo dimostrano tutte le rilevazioni statistiche - gli italiani non credono.

La «mostrificazione» del centrodestra è un trucco comunicativo che fa acqua già in campagna elettorale e non è certo un programma di governo. Non siamo così romantici da pensare che le coalizioni politiche debbano essere animate unicamente da sentimento, ma non siamo neppure così cinici da non renderci conto che quelle fondate solo sul risentimento non vanno da nessuna parte.

Quando il "no" di Bonelli fu un assist per la Xylella. Infettati 8 milioni di ulivi per il veto dei Verdi che non eliminarono le piante malate. Annarita Digiorgio il 15 agosto 2022 su Il Giornale.  

Angelo Bonelli (nel tondo) e la federazione dei Verdi da lui guidata, hanno deciso in questa campagna elettorale di schierarsi contro «le destre», essendo ormai da tempo impegnati più nelle battaglie pacifiste che a difesa della natura.

È il caso della loro contrarietà ai termovalorizzatori, rigassificatori, nucleare, tecnologie moderne e pulite a sostegno della decarbonizzazione e dell'ambiente. Ma c'è un caso emblematico che dimostra come il pseudoambientalismo massimalista e demagogico abbia causato la distruzione un intero territorio: il Salento. Una terra un tempo sterminata di ulivi, ora tutti definitivamente rinsecchiti per colpa della Xylella. Fino a oggi ha infettato oltre 8mila chilometri quadrati con oltre 21 milioni di ulivi. Da quando sono stati scoperti i primi alberi infetti a Gallipoli ormai 10 anni fa, gli scienziati dissero che l'unica iniziativa possibile per bloccarne la diffusione era l'eradicazione. E invece si creò subito un movimento che in nome di una sedicente difesa degli alberi, avviò una campagna contro l'abbattimento. Ne facevano parte anche i Verdi. I post e i comunicati di Bonelli e il suo partito sono ancora presenti online: «L'utilità delle eradicazioni degli ulivi del Salento non è scientificamente provata come non è provata che la causa del rinsecchimento degli ulivi sia provocata dalla Xylella. Fanno bene i cittadini e gli olivicoltori a difendere le piante da questa folle volontà di eradicare. I tagli degli ulivi rappresentano un attacco alla storia, all'economia e al paesaggio del Salento» scrivevano i Verdi nel 2016. Solo tre anni fa, dopo che l'Europa ha imposto l'eradicazione, i Verdi ancora definivano la xylella «una frode: che il batterio della xylella non fosse il responsabile del disseccamento degli olivi e di altre specie arboree in Salento era già evidente grazie agli alberi dichiarati infetti che sono sopravvissuti ai tagli che a distanza di 4 anni sono ancora vivi, vegeti e produttivi». Ovviamente di quegli alberi non c'è più traccia. Oggi Bonelli si giustifica dicendo che in quelli anni, quando diceva che la Xylella era una frode e chiedeva di non abbattere gli ulivi infetti, lui non era al governo e quindi non ha responsabilità sulla diffusione della Xylella. Al governo però oggi vorrebbe portarcelo il Pd. «I danni provocati all'agricoltura pugliese dai fanatici e pseudo ambientalisti sono stati incalcolabili - ci dice Raffaele Fitto, tra i sei autori del programma della coalizione di centrodestra per le politiche - Cinque anni fa, di fronte alla scienza che ordinava di eradicare gli ulivi malati di xylella, i Verdi insieme ai grillini, sostenuti da Emiliano, si sono incatenati agli alberi rallentando un'attività preziosa per prevenire l'avanzata del batterio. Quando provavamo a dire cose di buon senso eravamo insultati . Fra Xylella e Tap abbiamo vissuto anni bui nel Salento, con la conseguenza che oggi la xylella è alle porte di Bari e Melendugno approdo del Tap è Bandiera Blu.Come possa il Pd di Letta allearsi con chi ha sostenuto e sostiene queste posizioni dà l'idea della totale mancanza di credibilità della loro alleanza».

Rosicate a Repubblica: “Calenda ci consegna alla destra da Venezuela”. Dopo lo strappo col Pd, il leader di Azione è già mal visto dagli ideologi del Fronte anti-destre.  Claudio Romiti su Nicolaporro.it l'8 Agosto 2022.

Personalmente non mi sono affatto stupito della decisione di Carlo Calenda di rompere l’intesa elettorale col Pd, un partito quest’ultimo che pure in momento così delicato resta saldamente ancorato a metà del guado politico, al pari del suo antenato comunista. La spiegazione fornita dal leader di Azione, la quale in radice andrebbe probabilmente integrata da altre inconfessabili ragioni, mi è parsa ineccepibile.

Perché Calenda ha detto no

L’accordo stipulato con Enrico Letta presupponeva di dar vita ad una alleanza di lungo respiro fondata su un orientamento politico di massima – che è poi ciò che veramente conta sul piano elettorale – di natura liberal-progressista. L’allargamento della coalizione alla sinistra massimalista, ai residuati bellici dei grillini fuoriusciti e agli ecologisti del no a prescindere avrebbe costretto Azione a convivere all’interno di un rinnovato fronte di liberazione nazionale contro le destre. Un surreale fronte per liberare l’Italia da un più che immaginario pericolo fascista il quale, tuttavia, avrebbe condannato il partito di Calenda a svolgere un ruolo di semplice portatore d’acqua ad un Pd che in questo modo, pur destinato comunque a perdere le elezioni del 25 settembre, avrebbe mantenuto il ruolo di forza egemone del centro-sinistra. Ruolo che, con l’accordo a due appena saltato, avrebbe consentito allo stesso Calenda, all’indomani del voto, di lanciare un’Opa ostile per prendere lui le redini di una coalizione profondamente rinnovata.

Ma al di là di altre possibili spiegazioni sui motivi di questo ennesimo sconquasso del centro-sinistra, nelle analisi dei fatti e delle scelte politiche si dovrebbe sempre cercare di comprenderne le logiche che le hanno determinate, evitando di sconfinare nella propaganda di bassa macelleria.

Cosa che, al contrario, sembra perfettamente riuscita a Concetto Vecchio, quirinalista di la Repubblica, in un articolo dal titolo che è già tutto un programma “Ecco perché Calenda l'”anarchico” ha stracciato l’accordo col Pd”

Avvalorando in pieno la tesi del pericolo nero, così si esprime il giornalista: “Alla fine è prevalso l’istinto anarchico in Carlo Calenda, il ‘ghe pensi mi’ che è in lui. Non è mai stato il tipo che gioca per la squadra, ma uno che balla da solo, più manager che politico. In fondo la spiegazione della clamorosa rottura di oggi è tutta qui. Appena cinque giorni dopo avere sottoscritto l’accordo col Pd, e averlo spiegato agli italiani, Calenda lo straccia, butta a mare ogni promessa di responsabilità di battersi contro la destra ‘che ci farà fare la fine del Venezuela‘ e corre in solitaria. Raramente si era visto un voltafaccia così repentino nello scombinato teatrone della politica italiana”.

Dunque, per quest’altro genio dell’opinionismo nostrano Calenda sarebbe un soggetto irresponsabile per non aver voluto contribuire a salvare il Paese dalla deriva venezuelana in cui lo condannerà la destra sporca, brutta e cattiva.

Il vero obiettivo di Calenda

Ma probabilmente il capo di Azione, secondo una legge non scritta della politica, la quale sembra del tutto sconosciuta a Vecchio, avrà considerato sconveniente la sommatoria di soggetti politici del tutto antitetici. Sommatoria che, come è sempre accaduto in Italia, avrebbe avuto una risultante numerica del tutto negativa. Pertanto, fatti due conti, egli avrà considerato più conveniente dar vita ad un inevitabile terzo polo centrista insieme a Italia viva di Matteo Renzi. Almeno così le stesse logiche politiche del momento porterebbero a concludere.

In un caso o nell’altro, la scelta di Enrico Letta di impostare la campagna elettorale in chiave antifascista è da considerare più che insensata, soprattutto per un uomo che non viene dalla tradizione comunista. Una scelta politica assolutamente tossica e che per un soggetto dialogante come Calenda, o almeno in tale veste egli cerca da tempo di accreditarsi, rappresenta un veleno puro. Altro che istinto anarchico. Claudio Romiti, 8 agosto 2022

Via dal Pd? Diventi fascista. Segnatevi bene un numero, non si sa mai che vi possa servire nel corso della vita, qualora doveste malauguratamente litigare con qualcuno di sinistra: 23 ore e 40 minuti. Francesco Maria Del Vigo il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.

Segnatevi bene un numero, non si sa mai che vi possa servire nel corso della vita, qualora doveste malauguratamente litigare con qualcuno di sinistra: 23 ore e 40 minuti. Poco meno di una giornata. È il tempo in cui un essere umano normalmente democratico - anzi di centrosinistra -, si fascistizza. Probabilmente se è anche vagamente di centrodestra il tempo di fascistizzazione diminuisce, ma di questo non abbiamo ancora le prove. Invece sul timing della metamorfosi littoria di chi osa anche solo allontanarsi dalla grande chiesa del Pd non abbiamo dubbi e siamo lieti di mostrarvi, probabilmente in esclusiva, le prove empiriche. Domenica 7 agosto 2022, Carlo Calenda - in una torrida controra capitolina - è ospite di Lucia Annunziata. Sembra tranquillo, sembra sempre lui: stessi occhiali, stessa espressione placidamente altezzosa, stesso abbigliamento all'insegna dell'understatement borghese. Niente lascia presagire che stia per crescergli in testa un fez. Alle 14:45 l'Agi batte la notizia che, almeno per qualche giorno, terremoterà la politica italiana: il leader di Azione molla il Pd di Letta e se ne torna al centro, disgustato dalla sinistra compagnia di Fratoianni e Bonelli. Col senno di poi potremmo solennemente dire che per Calenda è l'ora delle decisioni irrevocabili. Ma, come vedrete a breve, ci penserà qualcun altro a fare allusioni di questo genere.

Purtroppo non sappiamo cosa sia successo precisamente nelle successive 23 ore e 40 minuti, perché Calenda, dopo aver sganciato la bomba sul centrosinistra, è scomparso dai radar. O forse ha pensato, jungherianamente, di passare al bosco. Ma di certo qualcosa deve essere accaduto. Probabilmente ha sostituito la sua collezione di camicie button down azzurre con delle più virili camicie nere, avrà cercato sotto la canicola agostana, un barbiere che gli rasasse il cranio, avrà cercato stivali marziali nei quali riporre i suoi piedi pariolini, lenzuolate di orbace con la quale cingere i suoi lombi radical chic o - forse - come Marlon Brando nel Padrino - avrà provato a riempirsi le guance di ovatta per aumentare la sua dimensione mascellare. Non lo sapremo mai. Sappiamo solo che alle 14:25, come cantava Piero Pelù, probabilmente il suo corpo era già cambiato nella forma e nel colore. Almeno stando alle parole di Angelo Bonelli (Europa Verde) che rispondendo alla proposta del leader di Azione di fare i rigassificatori e se necessario militarizzarli, se ne esce con un tweet delicatissimo: «Calenda è drammaticamente fascista». Bonelli, ma come? Calenda fascista, lui che fino a tre giorni fa era con te in una coalizione messa insieme con il solo scopo di fermare la marcia dei «fascisti» di centrodestra?

Praticamente sono tutti fascisti e se non lo sono - perché non ne esistono più - lo diventano appena si allontanano dal Partito Democratico e dalla sua sbilenca accozzaglia, come dimostra il caso Calenda: basta meno di una giornata, per finire nella lista nerissima dei presunti nemici della democrazia. E la cosa veramente drammatica è proprio questa.

Perché la sinistra deve fare sempre di tutta l'erba un fascio. E in effetti le parole di Bonelli dimostrano che da quella parti sono veramente ossessionati dai fasci e viene anche il dubbio che fumino un sacco di erba.

Ps. Occhio all'orologio, ci vuole un attimo, per la precisione 23 ore e 40 minuti, per ritrovarsi nel Ventennio.  

Da corriere.it l'8 Agosto 2022.

«Ho scritto personalmente a Giorgia Meloni le mie critiche pesanti al programma del suo partito. Ho letto per caso quel programma e ho fatto le mie contestazioni via WhatsApp, dicendole che il vocabolario usato è fondamentale e che i "manganelli verbali" non pagano. Adesso la finirete di dire stronz...?». Il cantautore Morgan chiarisce il contenuto e i motivi del suo scambio di messaggi telefonici con la leader di Fratelli d'Italia, attraverso una dichiarazione rilasciata all'Adnkronos.

«Non voterò per la Meloni, sono un anarchico», aggiunge Morgan, spiegando però che lo scambio di vedute è avvenuto proprio con Meloni perché «è molto meno snob degli altri leader politici e se la tira di meno». Poi cita Franco Battiato: «Ricordate quando Battiato suonò per Alleanza Nazionale e tutti gli diedero del fascista? Ve lo ricordo io. Disse così: "Io fascista? No, io musicista", e il musicista è uno che cura l'anima, è un chirurgo, e il chirurgo in sala operatoria non chiede il tesserino di partito al paziente a cuore aperto». 

«Ogni tanto ci messaggiamo, mi ha detto giorni fa “attenti al linguaggio” e da lì è diventato: “Morgan scrive il programma di FdI”», aveva detto questa mattina, in collegamento con Rtl 102,5 la leader di Fratelli d'Italia. «Lui stesso mi ha detto che i giornalisti sono una cosa pazzesca, e io da giornalista non posso dargli torto...».

Quando il gusto dell’ideologia prevale su tutto. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 7 agosto 2022.

Da quando Nanni Moretti esplicitò l’eterno dilemma di Ecce Bombo («mi si nota di più se non vengo, o se vengo e me ne sto in disparte?»), Calenda non è il primo leader politico che si sia arrovellato sulla scelta migliore. Stavolta ha concluso che lo si nota di più se non va, e ha rotto l’alleanza appena siglata con Letta. Si potrebbe dire, e qualcuno lo dirà, che è un po’ nella cifra dell’uomo: incapace di stare in disparte anche da se stesso, più adatto alla battaglia solitaria che alla solidarietà dell’alleanza. Ma sarebbe sbagliato attribuire tutto e solo alla personalità di Calenda. Dal punto di vista politico questo colpo di scena è infatti anche la prova del nove di una più antica impossibilità di ritrovarsi tra centro e sinistra, tra moderati e riformisti, tra liberali e laburisti, che affligge da tempo le coalizioni progressiste (due governi Prodi sono caduti su questo, e la parabola di Renzi ne è stata da molti punti di vista un emblema). Letta aveva provato a metterci una pezza costruendo un’impalcatura elettorale al limite del barocco portoghese, basato su una forzatura del sistema elettorale, per tenere insieme tre coalizioni diverse: una moderata (e alquanto generosa in termini di collegi) con Calenda, una «de sinistra» con Fratoianni e Bonelli, una più di convenienza con Di Maio.

Ma si sa: se una cosa può andare male, di solito va male. E che questa sarebbe andata male si è capito quando qualche giorno fa Nicola Fratoianni, mentre cercava un accordo con il Pd, votava a Montecitorio contro l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, riportando l’orologio della sinistra a prima di Berlinguer. L’alleanza assumeva così i caratteri di un’intesa «à la carte», dove ognuno era autorizzato a pensare di potersi scegliere il programma che preferiva e poi andare comunque insieme per «fermare le destre». Queste «unioni sacre» contro il nemico di solito non funzionano. E neanche stavolta. Mentre infatti dalle parti di Meloni, Salvini e Berlusconi le intese per il potere, o almeno per la vittoria, vengono sempre prima delle divergenze programmatiche o delle differenze di cultura politica, a sinistra il gusto dell’ideologia prevale perfino sul vantaggio elettorale. È storia antica, da Bertinotti a Turigliatto. E ha sempre prodotto un unico risultato: il successo dell’avversario, che pure viene demonizzato come il Male assoluto e un pericolo per la democrazia. Quello che non è chiaro nell’atteggiamento di Calenda è piuttosto perché mai qualche giorno prima avesse accettato che il Pd stringesse anche altre alleanze con soggetti con cui lui rifiutava di fare accordi diretti, e ieri invece questa disponibilità sia venuta meno. Al punto che la cosa ha sconcertato anche gli alleati di +Europa, con la Bonino che intende tener fede al patto con Letta.

Dal punto di vista elettorale ci sono pochi dubbi che si tratti di un grande favore fatto al centrodestra. Per quanto un Calenda «di centro», non alleato del Pd, abbia più possibilità di pescare nell’elettorato in uscita da Forza Italia (teorica però a questo punto, dopo tante incertezze e ripensamenti), è davvero difficile che riesca a intaccare seriamente la forza del centrodestra nei collegi uninominali, dove vince solo chi arriva primo, e più si è divisi più si perde. Anzi, sembra quasi che questa frattura sancisca uno scetticismo sulla possibilità reale di togliere a Meloni, Salvini e Berlusconi la vittoria, e privilegi la speranza di essere più forti un domani all’opposizione, piuttosto che più deboli oggi in coalizione. Naturalmente dal punto di vista strettamente aritmetico qualcuno che potrebbe portare più voti di Calenda a un’alleanza con il Pd c’è, ed è Conte. Per quanto in caduta nei sondaggi, la sua lista è pur sempre accreditata di un risultato intorno al 10% o poco sotto, sufficiente a rendere una eventuale coalizione più competitiva nei collegi. Non possiamo neanche escludere che chi ha messo i bastoni tra le ruote a Letta per l’accordo con Calenda, nel Pd e fuori, puntasse proprio a questo. Ma una giravolta di tale genere, e cioè un ritorno al forno grillino, sarebbe davvero una smentita troppo clamorosa della divaricazione politica che la caduta del governo Draghi ha aperto tra Pd e M5S. Letta l’ha perciò nettamente esclusa: perderebbe la sua faccia riformista. E Conte la sua faccia con Di Battista.

Nella politica italiana comunque, soprattutto di questi tempi, «mai dire mai». Le prossime ore potrebbero regalarci altri colpi di scena. Nessuno dei quali sembra però destinato ad accrescere la credibilità del fronte che si era richiamato all’Agenda Draghi. Doveva diventare il grande spartiacque tra chi ha fatto cadere il governo e chi l’ha sostenuto fino all’ultimo, ed è invece già finita strappata in tre pezzi dagli interessi elettorali dei partiti: un brandello a sinistra con Letta, uno al centro con Calenda, uno a destra con Toti. Ed è un peccato, perché dopo il voto non pochi punti di quell’agenda torneranno di estrema e drammatica attualità.

DAGONEWS l'8 agosto 2022.

Dietro alla caduta del governo Draghi c’è la manona di Putin? È quello che si chiede anche il Financial Times, in un articolo di Amy Kazmin che analizza lo “spettro” delle interferenze russe sulle elezioni in Italia. 

Scrive Kazmin:  “Da quando il governo di Draghi è imploso il mese scorso, gli italiani hanno speculato sul fatto che Vladimir Putin abbia contribuito a preparare la cacciata del primo ministro come vendetta per la sua dura posizione sull'invasione dell'Ucraina da parte della Russia.

Il trio di politici che hanno staccato la spina a Draghi - l'anti-establishment Giuseppe Conte del Movimento Cinque Stelle, Matteo Salvini della Lega, di destra e lo stesso Berlusconi - sono noti per i loro rapporti storicamente amichevoli con Putin e il suo partito Russia Unita. 

Sebbene gli analisti sostengano che tutti e tre i leader avessero motivazioni politiche interne convincenti per le loro decisioni, ciò non ha placato le speculazioni secondo cui Mosca avrebbe colluso con i membri scontenti della coalizione di Draghi per far cadere il primo ministro. 

Nel suo ultimo discorso al Parlamento prima delle dimissioni, lo stesso Draghi ha avvertito che l'Italia deve "intensificare gli sforzi per combattere le interferenze della Russia e di altre autocrazie nella nostra politica, nella nostra società", anche se non ha fornito dettagli - né ha esplicitamente suggerito un complotto straniero contro di lui. 

Eppure questa idea è ora al centro della retorica della campagna elettorale per le elezioni lampo di settembre. [...] 

Conte era agitato da una recente scissione del partito e desideroso di rafforzare le sue credenziali da ribelle anti-establishment. Salvini e Berlusconi stavano tenendo d'occhio i sondaggi che li davano entrambi in perdita di consensi a vantaggio del sempre più popolare Fratelli d'Italia di estrema destra di Giorgia Meloni, ma anche in bilico per una vittoria elettorale decisiva se si fossero alleati con la Meloni. 

Ma secondo gli analisti italiani, in mezzo ai calcoli di politica interna, incombevano  anche fattori geopolitici.

"È un dato di fatto che Draghi sia stato fatto fuori dai tre partiti che hanno i legami più stretti con il Cremlino", sostiene Nathalie Tocci, direttore dell'Istituto Affari Internazionali di Roma. "È anche un fatto che Draghi non era esattamente amato dal Cremlino", ha aggiunto. 

Dopo l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, Draghi ha voltato le spalle ai legami tradizionalmente stretti dell'Italia con Mosca. È stato in prima linea nella dura risposta dell'UE al Cremlino, spingendo le sanzioni contro la banca centrale russa e sostenendo l'Ucraina come paese candidato a entrare nell'UE, una posizione che ha scontentato i membri del suo governo di unità nazionale. 

"Politici importanti come Salvini e Berlusconi hanno chiaramente sentimenti di amicizia e legami con la Russia, soprattutto con la Russia di Putin", dice Stefano Stefanini, ex ambasciatore italiano alla Nato. "Il loro sostegno alla posizione italiana, europea e della NATO sull'Ucraina è stato, nel migliore dei casi, debole". 

A maggio, Salvini aveva annunciato un suo "viaggio di pace" a Mosca organizzato dall'ambasciata russa a Roma, che aveva confermato di aver acquistato i biglietti aerei del politico. Il viaggio è stato annullato tra la rabbia dell'opinione pubblica e le proteste di altri membri del governo. Ma la scorsa settimana La Stampa, un importante quotidiano italiano, ha riportato che le discussioni della Lega con Mosca non si sono fermate lì. 

In un articolo in prima pagina, La Stampa ha citato documenti di intelligence che sostengono che il diplomatico russo con sede a Roma Oleg Kostyukov abbia chiesto a maggio a un alto rappresentante della Lega se il partito avrebbe ritirato i ministri dal gabinetto di Draghi. 

"Ciò che è strano è che a maggio nessuno - nessun osservatore - in Italia parlava della caduta del gabinetto Draghi - non così rapidamente almeno", ha dichiarato al Financial Times Jacopo Iacoboni, autore dell'articolo.

Iacoboni, autore di “Oligarchi. Come gli amici di Putin stanno comprando l'Italia”, ha aggiunto: "Non credo che i russi abbiano da soli il potere di far cadere Draghi, ma di sicuro hanno la capacità di amplificare, di seminare zizzania e di usare utili idioti". 

Salvini ha liquidato il servizio de La Stampa come "fake news". Anche Mosca ha respinto la notizia. "Non è vero. La Russia non ha nulla a che fare con i processi di politica interna in Italia", ha dichiarato al Financial Times il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Ma diversi partiti rivali italiani e analisti indipendenti hanno chiesto che si indaghi sulla questione. 

Le probabilità di un'inchiesta sulle presunte interferenze russe sono scarse. Il comitato parlamentare italiano per la sicurezza nazionale è presieduto da un deputato di Fratelli d'Italia (Adolfo Urso) che ha già escluso un'indagine sulla Lega, che ora è un suo alleato elettorale.

"Penso che questo meriti un'indagine adeguata", ha detto Tocci. In che misura questi ministri sono stati incoraggiati dal Cremlino a votare contro il governo o a far dimettere i loro ministri...". È in corso una guerra contro l'Europa e c'è uno Stato nemico che cerca di intromettersi nel vostro processo democratico. Che abbiano successo o meno, dovreste essere preoccupati".

Se ne andranno in Russia i «putinetti» d’Italia? Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.  

 L’invito diffuso dall’ambasciata di Mosca in Spagna è in rete. Magnifica donne, cibo e economia del Paese, ma è poco probabile che convinca qualcuno a trasferirsi 

Uno scorcio di Mosca

Mio nonno Paolo e mio zio Mauro — entrambi medici condotti — erano rilegatori compulsivi ed ecumenici. Per cinquant’anni, prima l’uno e poi l’altro, hanno conservato riviste e rotocalchi, senza preclusioni sociali o politiche. «Il Borghese» e «Oggi», «Panorama» e «Grazia», «Vie d’Italia» e «Il Tempo», «La Domenica del Corriere» e «La Difesa della Razza». C’è anche la rivista «Unione Sovietica», tra tutte la più recente.

    Sfogliare oggi «Unione Sovietica» — «Pubblicata in 22 lingue!», informa lo strillo in copertina — fa tenerezza. Annate 1989 e 1990: l’ultimo, disperato tentativo dell’Urss di dare un senso alla propria esistenza. C’è lo sforzo, quasi commovente, di dipingere i successi di un regime in liquidazione. Nel 1991 ho vissuto a Mosca, e ho assistito al gran finale. Le bandiere rosse venivano vendute in saldo, e i ragazzi ci facevano i jeans.

    Per quale motivo sono andato a riprendere la raccolta «Unione Sovietica», che riposava dentro la sua rilegatura scarlatta? Perché mi sono imbattuto nello spot diffuso dall’ambasciata russa in Spagna, nel quale s’invitano gli europei a trasferirsi in Russia. Il video fa tenerezza: come quella rivista di trent’anni fa.

    Forse qualcuno di voi l’ha intercettato in rete. Una voce maschile fuori campo esclama, in inglese: «Cucina deliziosa! Donne meravigliose! Gas a buon mercato! Letteratura di livello mondiale! Balletto! Suolo fertile! Acqua ed elettricità in abbondanza! Taxi e consegne a basso costo! Valori tradizionali, cristianità, no cancel culture! Vodka! Un’economia in grado di sopportare migliaia di sanzioni! È tempo di trasferirsi in Russia. Non aspettate, l’inverno sta arrivando».

    La Russia, in effetti, è affascinante. E i propagandisti hanno tralasciato altre eccellenze (la metropolitana di Mosca, i cetrioli in salamoia, il gelato alla crema, i treni della notte). Ma possiamo dirlo? Ascoltando lo spot di regime vengono in mente slogan alternativi, più realistici: «Una guerra in corso! Inflazione e recessione! Censura ubiqua! Oppositori arrestati o soppressi! Religione al servizio del potere! Alcolismo diffuso, la più bassa aspettativa di vita in Europa! Corruzione endemica! Arricchimenti strabilianti dei leader!».

    Comunque: lo spot è in rete, l’invito in Russia è aperto. Lo accetteranno i putinetti d’Italia, quelli che hanno aggiunto la bandierina russa sul profilo social e applaudono lo stupro dell’Ucraina? Sarebbe coerente, ma non accadrà. Resteranno qui. Continueranno a scrivere stupidaggini e crudeltà dalle loro pensioni sul mare, mentre digeriscono gli spaghetti con le vongole.

Da la7.it il 30 Agosto 2022. 

PD. Elly Schlein: "Non è con le armi che si risolve il conflitto. Ho visto il protagonismo di Usa e Cina, vorrei vedere un ruolo più forte dell'Unione europea. Rapporti tra Lega e Putin? Sono preoccupata, anche delle interferenze nella campagna elettorale"

Ora Salvini querela sulle "ombre russe". Pd e Di Maio insistono. Replica alle "insinuazioni" dell'ex Cia. Ma la sinistra vuole una commissione. Francesco Boezi l'8 Settembre 2022 su Il Giornale.

Matteo Salvini e la Lega continuano a non avere intenzione di far passare le accuse di filo-putinismo senza reagire: il Carroccio annuncia la difesa «in ogni sede opportuna contro le parole di Julia Friedlander e il quotidiano che le ha pubblicate». «Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente», ha detto l'ex analista Cia, attraverso un'intervista rilasciata a Repubblica. «Ci sono connessioni ideologiche, ma anche obiettivi economici», ha aggiunto la Friedlander, che si è occupata anche del Vecchio continente per la Casa Bianca ai tempi della gestione Trump.

La nota del partito guidato dall'ex ministro dell'Interno è incisiva: «Ennesime insinuazioni, zeppe di dubbi e condizionali, contro la Lega e Matteo Salvini che si difenderanno in ogni sede opportuna contro le parole di Julia Friedlander e il quotidiano che le ha pubblicate. A differenza del gruppo editoriale che per anni ha diffuso in allegato Russia Oggi - osservano da via Bellerio - , la Lega non ha ricevuto finanziamenti da Mosca».

La narrativa della sinistra è ormai monolitica: la ricerca di argomenti reali in grado di mettere in crisi la coalizione di centrodestra non è andata a buon fine. La narrativa impostata per provare a battere l'avversario, compresa questo topos delle «ombre russe», è fallimentare ma ormai bisogna seguirla. Tant'è che dal Pd insistono: «I rapporti tra Salvini e Putin sono pieni di ombre inquietanti. La sicurezza nazionale non è uno scherzo. Se sarò eletto ripresenterò subito, opportunamente aggiornato, il ddl 1587 a mia prima firma volto a istituire su questo tema una commissione bicamerale d'inchiesta», ha twittato il senatore Dem Dario Parrini, allegando proprio l'intervista dell'ex analista Cia al quotidiano diretto da Maurizio Molinari. In gergo si direbbe un tentativo di crocifissione, peraltro basata sul nulla.

L'eco alla richiesta della formazione di Enrico Letta proviene dalla fonte più scontata: Luigi Di Maio, che non è neppure certo di riconquistare un seggio in Parlamento. «Io chiedo l'istituzione di una commissione di inchiesta parlamentare che accerti legami tra partiti e russi. La Lega ha un accordo con Russia unita, il partito di Putin. Queste cose vanno accertate, nel nostro paese ci sono più ombre che luci», dichiara il ministro degli Esteri e leader del neo-partitino Impegno civico a Radio 24. La coalizione di centrosinistra parla all'unisono. E non potrebbe essere altrimenti, se non altro perché è lo stesso Letta a usare le medesime tonalità. «Le parole di Putin oggi confermano che le sanzioni sono la strada giusta e funzionano. Questo distrugge la retorica di Salvini che difende il suo amico Putin. Mi chiedo che interessi difenda Salvini, se quelli della Russia o dell'Europa» annota a Cagliari il segretario, durante una conferenza stampa. Per la replica il Carroccio schiera l'artiglieria pesante, ossia i tre ministri del governo d'unità nazionale: «Letta è troppo nervoso, si dia una calmata. Farebbe meglio a parlare di problemi concreti della gente e non di sceneggiature di fantasia. Le elezioni si vincono con le proprie idee e non sperando in qualche aiutino esterno», si legge in una nota firmata da Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia.

«Da lui, alleato in Europa di Schroeder, principale lobbista del Cremlino, non accettiamo alcuna lezione: il partito che in Ue più volte ha votato a favore di Mosca è il Pd, come certificato da studi indipendenti», chiosa Marco Zanni, europarlamentare e presidente del gruppo Id.

Estratto dall'articolo di Luciano Capone per “Il Foglio” l'8 settembre 2022.

Non è possibile stabilire se ci sia un coordinamento a livello europeo, ma di sicuro c’è una coincidenza. Negli ultimi giorni Matteo Salvini ha intensificato le sue critiche alle sanzioni occidentali contro il regime di Vladimir Putin: “Non stanno facendo male alla Russia, che sta guadagnando centinaia di migliaia di miliardi in più. Stanno facendo male a noi, per cui è evidente che ci sia qualcosa da ripensare”, ha dichiarato.

Le uscite del leader della Lega non sono un caso isolato, ma si inseriscono in un fenomeno europeo che si è intensificato praticamente in simultanea tra i partiti del gruppo europeo “Identità e Democrazia”, quello di cui fa parte la Lega. Il gruppo euroscettico di estrema destra, attualmente presieduto dal leghista Marco Zanni, è quello che storicamente in Europa ha manifestato più vicinanza alla Russia di Putin. […] 

In simultanea. Pochi giorni prima che il leader della Lega partisse con le sue dichiarazioni a raffica contro le sanzioni, si era mossa in Germania Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra che esprime il vicepresidente del gruppo ID. Tino Chrupalla, il leader di AfD, ha invitato i membri del proprio partito a prendere parte alle manifestazioni antigovernative – la più importante si terrà l’8 ottobre a Berlino – per chiedere la rimozione delle sanzioni alla Russia (“Prima gli interessi tedeschi della guerra economica”) e l’apertura del gasdotto Nord Stream 2, che è stata sospesa a causa dell’invasione dell’Ucraina.

Proprio ieri, dal forum economico di Vladivostok, Putin ha dichiarato che “c’è solo un modo” per l’Europa per avere il gas: “In Germania ci sono manifestazioni che chiedono l’attivazione del Nord Stream 2. Siamo pronti a farlo domani, basta premere un pulsante. Ma non siamo stati noi a imporre le sanzioni a Nord Stream 2”. 

Sulla stessa linea di pensiero c’è Marine Le Pen, l’altra grande leader della destra filorussa europea. Qualche settimana fa, in una conferenza stampa, la presidente del Rassemblement National ha detto che le sanzioni “sono un fallimento”, “fanno soffrire gli europei” e pertanto vanno tolte.

Gli alleati austriaci della Fpö, il partito che come la Lega aveva siglato un accordo con il partito di Putin, a fine agosto hanno chiesto un referendum contro le sanzioni: “Non hanno alcun effetto sulla guerra, ma stanno alimentando l’inflazione e danneggiano l’economia nazionale”. 

Il 3 settembre, a Praga c’è stata un’importante manifestazione contro le sanzioni alla Russia a piazza San Venceslao, la stessa invasa dai carri armati sovietici nel 1968, organizzata dal partito di estrema destra Spd, alleato della Lega in Europa, contro il governo di Petr Fiala, che a Bruxelles è alleato di Giorgia Meloni.  […]

Ma in questo scenario l’Italia è un’anomalia. Perché se nel resto d’Europa i partiti della destra filorussa sono ovunque all’opposizione, la Lega di Salvini è l’unico che molto probabilmente andrà al governo. Il posizionamento rispetto alla Russia è diventato una discriminante in Europa, ed è anche ciò che divide, da un lato, la destra conservatrice guidata da Meloni e dai polacchi del Pis, e dall’altro la destra filorussa di Salvini e Le Pen. Per l’Italia avere al governo un partito che sostiene l’agenda Putin sarebbe un problema di credibilità internazionale, e quindi di interesse nazionale. 

Estratto dell'articolo di Valerio Valentini per “Il Foglio” l'8 settembre 2022.

(...) “Lascio la Lega dopo trenta anni”. Raffaele Volpi. Fuori dal Carroccio. Si stenta a crederlo. “Lo faccio ora perché nell’esaurirsi dell’impegno parlamentare finisce il vincolo più sacro della democrazia ovvero quello con gli elettori che mi hanno votato. E ancora lo faccio ora perché voglio togliere qualsiasi equivoco su mie eventuali aspettative derivanti dal voto del 25 settembre”. 

Leghista di lunghissimo corso, ma di estrazione democristiana. E’ stato sottosegretario alla Difesa nel Conte I, quello di marca gialloverde: il primo leghista nella storia a varcare coi galloni di uomo di governo Palazzo Baracchini. Poi presidente del Copasir nel Conte II. “In entrambi i miei incarichi ho cercato di dare autorevolezza e credibilità alle istituzioni che rappresentavo e sempre nell’interesse dell’Italia. Da presidente ho guidato il Copasir in uno dei momenti più bui della nostra storia, quello della pandemia, portando il Comitato a essere centrale tra i presìdi democratici del paese”.

Una stagione, quella dei lockdown, che Volpi ha trascorso con un certo disagio, nel suo partito. “Da bresciano ho vissuto il Covid nel suo epicentro perdendo anche alcuni amici. Ho sostenuto i provvedimenti difficili e a volte impopolari ma che ho ritenuto utili per arginare il virus. Proprio in quel frangente non ho potuto apprezzare le posizioni, a volte opache, del mio partito, che non ha mai voluto arginare alcune voci interne, minoritarie ma rumorose, che ammiccavano a No vax e negazionisti fino al punto di partecipare alle loro manifestazioni”. Poi il precipizio della guerra in Ucraina, il suo sforzo nel cercare di tenere dritta la barra del Carroccio sul terreno della geopolitica. Anche qui con molta fatica, anche qui con la sensazione che tutto fosse un po’ inutile.

“Dall’osservatorio privilegiato del Copasir ho cercato di trasferire ai vertici del partito, sempre nel perimetro del lecito, valutazioni di scenario, dalla Libia al Mediterraneo, dai rapporti con gli alleati alla guerra in Ucraina, fornendo elementi per analisi di geopolitica. Purtroppo nelle poche brevi occasioni in cui ho potuto avanzare le mie tesi, sempre con spirito di servizio, ho percepito solo un distaccato disinteresse”. Che poi forse sta qui, l’elemento politico più rilevante, alla base delle scelte di Salvini.

Al di là delle riconoscenze tradite, delle promesse non rispettate, degli sgarbi che sempre s’accompagnano alla definizione delle liste elettorali, è difficile non notare come dagli elenchi delle candidature della Lega siano stati sacrificati molti degli atlantisti del partito. Quelli, per capirci, che le dichiarazioni di stima a Putin, o i viaggi a Mosca con Antonio Capuano e Sergej Razov, non li hanno mai graditi. “Io non posso che confermare la mia convinta visione atlantista. Una visione che non si limita, come pensa qualcuno, all’acronimo Nato, ma investe una ampia condivisione di valori che sono l’essenza stessa dello spirito dell’occidente e che non possono essere negoziabili. Sulla feroce aggressione della Russia all’Ucraina non ho quindi potuto apprezzare certe ambiguità e certi distinguo, a partire da quelli sugli aiuti militari da inviare a Kyiv. Tentennamenti incomprensibili, essendo convinto che lì vi sia una frontiera di valori, di libertà e di legalità che vada difesa”.

Inutile chiedere un giudizio, allora, sulla decisione di sfiduciare Draghi da parte di Salvini. “Ho sostenuto l’ingresso della Lega nel governo Draghi convinto che oltre a essere una necessità per l’Italia fosse anche una occasione per dimostrare che il partito avesse raggiunto una spendibile autorevolezza nazionale ed internazionale. Ma mai mi sarei immaginato che fin da subito si sarebbe palesato, in modo più o meno evidente, un atteggiamento dicotomico tra segreteria e delegazione al governo: sino al punto di non pubblicizzare quasi le attività e i corposi provvedimenti varati dai nostri ministri..." (...)

Stefano Iannaccone per tpi.it l'8 settembre 2022.

L’Enit parla ancora russo. L’agenzia nazionale del turismo, che agisce sotto l’egida del Ministero del leghista Massimo Garavaglia, continua a pagare in rubli, perché non potrebbe essere altrimenti: la sede di Mosca risulta tuttora aperta. Nel secondo trimestre 2022 risultano varie operazioni economiche, portate ovviamente a termine con la moneta russa. 

In particolare ci sono tre diversi pagamenti effettuati alla GlavUpDK pri MID Rossii, sigla di una società di proprietà statale che gestisce, con il controllo del ministero degli Esteri, le proprietà pubbliche. Secondo quanto riferisce il sito ufficiale, nel dettaglio fornisce «una serie di servizi molto ricercati alla comunità diplomatica, ai clienti aziendali e privati».

Il primo bonifico di 94.500 rubli è datato 22 aprile, il secondo è del 17 maggio e ammonta invece a 123.480 rubli, mentre a giugno il saldo è stato di 82.320 rubli. Il totale della spesa, alla voce «servizi generali» è di 300mila rubli. 

Inevitabilmente poi, proseguono i pagamenti dei canoni per la società che fornisce il servizio di telecomunicazione, la moscovita Pao Mts, che da marzo a giugno sono stati di oltre 60mila euro. L’Enit, interpellata da TPI, spiega che «nel secondo trimestre non sono stati effettuati pagamenti dall’Italia in Russia» in quanto «la sede ha funzionato con i residui dall’inizio dell’anno».

E sulla decisione di non chiudere la struttura a Mosca, l’agenzia ribadisce che «l’area di competenza di Enit Mosca comprende 15 Paesi dell’area post-sovietica tra cui l’Azerbaijan, l’Armenia, la Georgia, l’Uzbekistan, il Kazakistan e Paesi Baltici». Quindi a Mosca ci si occupa di altro. E si va avanti così, anche perché lo stesso fanno gli altri Paesi competitor. Mal comune, mezzo gaudio.

Il ventre molle. Vittorio Macioce su Il Giornale il 7 settembre 2022.

La realtà è che Putin non sta vincendo questa guerra senza senso. Nulla è andato come davvero sperava. L'Ucraina doveva essere il suo capolavoro strategico, una mossa intravista dietro le debolezze dell'impero americano, spaccato dalla variabile Trump e dall'incapacità di non riconoscersi più come uno, pure nelle sue mille diversità. È da lì che un po' viene l'azzardo di Mosca, solo che adesso non solo la Russia ha un presente di miseria, ma ogni giorno che passa perde pezzi del suo futuro, perché le sanzioni qualcosa hanno fatto. La Russia è fuori dal mondo e deve raccattare la carità cinese. È un prezzo più alto di quanto si pensi. È chiaro che la discussione pubblica guarda invece ai costi occidentali della guerra. La controffensiva di Putin ha incrementato l'inflazione in Europa e ci pone davanti a una crisi energetica che evoca l'austerità del 1973. Da lì però l'Italia è riemersa, la grande Russia invece rischia un inverno molto più lungo. Le difficoltà di Putin non si vedono solo sul campo militare ed economico. Si leggono anche nella smania, ormai smaccata, della propaganda spicciola per destabilizzare le odiate democrazie europee. Putin è convinto che in questo momento il ventre molle sia l'Italia. È lì che vede il fronte politico e sociale più instabile. Le parole via Telegram di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, assomigliano al lancio di biglietti aerei sulle città alla fine delle due grandi guerre mondiali. Il tema come sempre è quello del complotto. «Quando la laboriosa economia italiana crollerà, gli yankees la compreranno a buon mercato». Vi state sacrificando per nulla. È un pensiero che punta alle viscere e serve a creare paura e sospetti. Ora l'Italia sembra il terreno adatto per questo genere di cose. Siamo un Paese che deve comprare energia e siamo nel pieno di una campagna elettorale dove già si evoca la paura di una sorta di apocalisse ideologica. La propaganda spicciola è merce di tutti i giorni. Non è difficile spacciarne altra. Di chi è la colpa di un inverno a bassa energia? La Russia può giocare su un sentimento anti americano che ha radici profonde e su chi da anni predica contro il capitalismo e sogna un passo indietro: l'etica della decrescita. È un sentimento che si respira nella sinistra nostalgica, in una certa destra e che per anni è stato la bandiera del grillismo. Non è un caso che Giuseppe Conte, che in realtà non viene da questa cultura, negli ultimi tempi stia cercando di incarnarla, mettendoci di suo una spolverata di vecchio assistenzialismo. Trump, che sta giocando una partita tutta sua, lo indica da lontano come un punto di riferimento. Putin lo vede come una speranza. Conte, peraltro, si affretta a smarcarsi: se fossi capo del governo chiederei sanzioni più pesanti. Putin, però, non si aspetta una risposta strettamente politica, ma sociale e di piazza. Quello che invece non sa è che Conte ha molte facce, sa come promuoverle, ma di certo non è, al di là delle sue stesse parole, un avvocato del popolo.

I finti atlantisti rossi anti Nato. Dal dopoguerra in avanti la politica estera è stata uno dei temi principali delle campagne elettorali italiane. Francesco Giubilei il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Dal dopoguerra in avanti la politica estera è stata uno dei temi principali delle campagne elettorali italiane. Già dalle elezioni del 48, la Democrazia Cristiana sottolineava il pericolo di votare per il Partito Comunista per i suoi legami con l'Unione Sovietica («nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no»). Un argomento che ha tenuto banco fino alla caduta del muro di Berlino contrapponendo le forze politiche garanti del collocamento occidentale e atlantista dell'Italia a chi invece non solo intratteneva rapporti con l'Urss ma riceveva finanziamenti. Anche in questa campagna elettorale la politica estera, complice il conflitto in Ucraina, è entrata a pieno titolo nel dibattito, non tanto per parlare di proposte e idee utili al ruolo internazionale dell'Italia, quanto per avanzare critiche ai propri avversari. Una tendenza iniziata, ca va sans dire, dalla sinistra che si è fatta promotrice di una serie di virulenti attacchi nei confronti del centrodestra (peraltro senza risparmiare nessuno dei partiti, da Forza Italia alla Lega passando per Fratelli d'Italia) colpevole di essere filo russo, putinista, nemico dell'Europa.

A ciò si aggiunge il mantra del centrodestra isolato in Europa e a livello internazionale nato da un equivoco di fondo: per la sinistra italiana essere attaccati da giornali e leader internazionali progressisti equivale a non avere relazioni e rapporti europei e occidentali.

La realtà è ben diversa e, a giudicare dai partiti che compongono le coalizioni, chi può garantire una maggiore affidabilità internazionale dell'Italia è proprio la destra, non solo a parole ma anche a fatti a partire dai voti parlamentari e dal posizionamento atlantista avuto durante gli ultimi governi di centrodestra.

Al contrario, il Pd si è alleato con Sinistra italiana e Fratoianni che, proprio pochi giorni fa, ha votato contro l'adesione di Svezia e Finlandia alla NATO. Come si concilia questa posizione con la tanto sbandierata agenda Draghi è un mistero ma lo stesso si può dire sui temi economici, energetici e sociali della sinistra radicale del no a tutto.

Non vanno meglio le cose in casa Movimento Cinque Stelle la cui linea in politica estera garantisce tutt'altro che affidabilità, non a caso fu Giuseppe Conte a firmare il memorandum d'intesa sulla via della seta con la Cina durante il suo governo. Il pericolo di uno sbandamento filo-cinese dell'Italia sembra per il momento scongiurato ma non sono ancora ben chiari i rapporti tra molti esponenti di spicco della sinistra e il governo di Xi Jinping.

Invece di puntare il dito contro i propri avversari, bisognerebbe parlare di temi concreti e su questo dovrebbe concentrarsi il centrodestra realizzando un programma basato sul perseguimento dell'interesse nazionale e su tre aree d'azione prioritarie: Mediterraneo, Balcani e Nord Africa. Un programma da portare avanti avendo ben chiaro il nostro collocamento internazionale: in Europa e Occidente.

Appello agli influencer: guai agli ignavi, ora è tempo di schierarsi. È inoltre indubbio che in una società come la nostra, sempre più liquida e digitale, i giornali, la televisione e le feste di partiti (circoli compresi) rappresentino lo strumento d’informazione privilegiato solo per alcune fasce d’età. Francesco Caroli su La Gazzetta del Mezzogiorno ed il Riformista il 09 Agosto 2022

Dante li metteva nell’Antiferno. Coloro che in vita non si schierarono né col bene né col male. Per lui questi peccatori sono coloro che durante la loro vita hanno vissuto senza mai osare avere un’idea propria, ma limitandosi ad adeguarsi sempre a quella del più forte o nella migliore delle ipotesi al silenzio. Ma chi sono gli ignavi di oggi? Quanti sono e, soprattutto in questa fase storica, l’Italia può permetterseli.

Peccatori «che mai non fur vivi». La loro pena è quella di correre dietro a un’insegna, punti da mosconi e vespe, e il loro sangue è raccolto a terra da numerosissimi vermi. Inoltre, per la legge del contrappasso, poiché non furono attivi in vita, ora, sono costretti a correre ininterrottamente. Perché gli Ignavi non sono degni di meritare le gioie del Paradiso, ma a loro non possono essere destinate neanche le pene dell’inferno proprio per il fatto che, durante la loro vita, non si sono mai esposti, né schierati verso direzione alcuna. Fondamentalmente, Dante disprezza tantissimo gli ignavi perché per il poeta, dal punto di vista teologico, l’uomo deve per forza scegliere fra Bene e Male e il richiamo era già all’epoca alla vita sociale, alla scelta politica. E mai come oggi è evidente che al di la dei personalismi e delle piccole questioni, la vera sfida per le prossime politiche è tra due campi. Se ad alcuni può risultare troppo soggettivo leggere le elezioni come una contrapposizione tra buoni e cattivi, è perlomeno oggettivo che la sfida di oggi vede da una parte i sostenitori del mondo libero e dell’altra quelli legati (o peggio ancora affascinati) dall’autoritarismo russo. Non avremo mai la certezza assoluta che dietro la caduta dell’ottimo (basta vedere numeri economici) Governo Draghi ci sia direttamente la mano russa ma di certo è evidente la dinamica che ha portato a questa, ed è facile risalire alle posizioni che nei mesi hanno assunto le varie forze anche e soprattutto prima della guerra in Ucraina. Sta di fatto che in questa situazione occorre che tutti prendano una posizione chiara: o di qua o di là. Ma chi sono gli ignavi di oggi? Sono coloro che pur avendone la possibilità non prendono posizione per non rischiare.

Se questo atteggiamento può strappare l’umana comprensione verso «chi tiene famiglia», di certo la giustificazione non può valere per coloro che, per meriti e fortuna hanno assunto un ruolo di opinion leader, come gli influencer, grazie alle loro abilità lavorative o artistiche.

Bene ha fatto Elodie che è stata tra le pochissime che oltre a schierarsi contro il razzismo e l’omofobia, facendo anche i nomi e i cognomi dei politici che non le piacciono (e non è cosa da poco). La cantante di Tribale nei mesi scorsi si è schierata accanto alla comunità LGBTQ ed ha attaccato pubblicamente Matteo Salvini e Giorgia Meloni. A fianco a lei anche il cantante Ghali, che si è espresso per preservare l’umanità dei salvataggi in mare dei poveri migranti. Tutti gli artisti o opinionisti dovrebbero fare altrettanto e prendere parte, facendo nomi e cognomi.

Dopo tutto in America l’endorsment di personaggi famosi ed influenti è un fenomeno consolidato ed ha accompagnato anche l’elezione di Joe Biden, il quale ha potuto contare sull’appoggio di Leonardo di Caprio, Selena Gomez, Beyoncé, Taylor Swift, Billie Eilish e moltissimi altri volti noti al grande pubblico.

È inoltre indubbio che in una società come la nostra, sempre più liquida e digitale, i giornali, la televisione e le feste di partiti (circoli compresi) rappresentino lo strumento d’informazione privilegiato solo per alcune fasce d’età, quelle più agé, mentre ve ne sono molte altre che ormai si affidano a chi ha fatto della comunicazione a mezzo smartphone il proprio lavoro e life style. I millennials e la generazione Z sono tra di loro. Entrambe queste generazioni si informano oggi quasi esclusivamente grazie ai social e ai siti d’informazione presenti sul web, e, elemento fondamentale in vista del 25 settembre, si tratta di elettori sensibili ai temi progressisti, dal salario minimo alla lotta per la cannabis e la parità di genere, qualunque genere, non solo quelli cari a Pillon e Meloni.

Quello del gap generazionale è inoltre un tema che coinvolge anche gli artisti. Ho potuto notare, infatti, più coraggio nei giovani artisti rispetto a quelli con più di carriera alle spalle, forse perché le nuove generazioni sanno e hanno la consapevolezza che non si può più sbagliare nello scegliere i propri rappresentati, mentre molti boomer continuano a ragionare di pancia, guardando spesso solo ai propri interessi immediati o, peggio ancora, scegliendo la via degli ignavi.

In una campagna elettorale insolita per gli standard italiani e alla luce della forza di propaganda endogena ed esogena (dalla Russia & Co.) è però fondamentale prendere posizione e fare ciascuno la sua parte. Già, perché ora che Super Mario non c’è più la credibilità dell’Italia è appesa a un filo e lo sono anche le riforme da cui dipende l’accesso ai fondi europei.

Il mio è quindi un appello a chi sa di poter convincere grazie alla sua storia, credibilità, arte, professionalità altre persone ad una scelta consapevole. La democrazia è in crisi ovunque e penso sia compito di chi, grazie ad essa, ha potuto esprimere il meglio di sé lottare affinché sopravviva alla deriva in cui versa da almeno tre decadi. Il nostro è un modello di società libero che premia i meriti e che garantisce a tutti la libertà di essere se stessi e occorre l’impegno di tutti affinché continui a restare tale. Mi rivolgo dunque agli influencer: prendete posizione non a favore delle personalità in campo, ma per difendere il nostro modello di vita. Quello che ci permette di seguirvi e amarvi. Quello che vi ha portato a vivere una vita in paradiso. Il paradiso appunto, e non l’antinferno in cui vivono gli ignavi.

Da repubblica.it il 9 agosto 2022.

Ancora un corto circuito tra il mondo Rai e la campagna elettorale. Questa volta il post sui social, Twitter, è del condirettore della Tgr. Contro Carlo Calenda. Scrive il sindacato Usigrai: "Non è tollerabile che chi lavora nel servizio pubblico utilizzi social, dibattiti pubblici o qualsiasi altro mezzo per colpire o al contrario spalleggiare questo o quel politico". Il condirettore della Tgr è Carlo Fontana e su Twitter ha scritto: "Indovinello: come si chiamava il famoso regista nonno di Carlo Calenda? Luigi Comencini. Che sceneggiato diresse per la tv? 'Le avventure di Pinocchio'. Ecco: tutto torna". I giornalisti Rai, sottolinea Usigrai, "a maggior ragione se dirigenti, devono tenere un comportamento consono, equidistante, rispettoso dei cittadini".

Giornalisti ultras, è l’ora di tacere. Nautilus su Il Riformista il 9 Agosto 2022. 

Negli ultimi giorni alcune “spie” luminose si sono accese per segnalare un rischio sempre vivo ma che in campagna elettorale diventa insopportabile: il giornalismo partigiano. In Italia, si sa, i giornalisti spesso si “dimenticano” di fare il proprio mestiere, sconfinando dove non dovrebbero: nel terreno dei fiancheggiatori o, peggio, dei tifosi di questo o quel leader.

Da noi la tradizione di un giornalismo distinto e distante dalla politica è stata sempre debole. Per tante ragioni ha sempre prevalso il modello di un giornalismo che stimola, consiglia, fiancheggia ma non ha l’orgoglio della propria indipendenza. Mai letto un editoriale di un grande direttore di giornale invocare il quarto potere come modello ideale? Mai.

In vista della campagna elettorale si sono moltiplicati piccoli, significativi segnali. Nella rassegna stampa del Tg1 la giornalista incaricata si è lasciata sfuggire un’affermazione non argomentata su Giorgia Meloni: si discuteva se cambiare squadra del cuore fosse un peccato e lei ha chiosato: «Ce ne sono tanti altri». Hanno chiesto di rimuoverla. Esagerati, ma quella “licenza” è esemplare. E d’altra parte sono passate inosservate altre piccole “stecche”. Su una rete Mediaset, collegamento con Matteo Salvini che fa il suo («La gente è stanca delle liti Letta-Calenda») e la giornalista in studio: «Ha ragione!». E Corrado Formigli? Si è detto orgoglioso di essere un «giornalista di parte».

Anche da noi si è fatto, e si farà, buon giornalismo. Ma la faziosità è una anomalia ciclica che può diventare molesta in campagna elettorale. Sulle reti Rai si può immaginare non ci saranno cadute. Come sempre saranno i giornalisti “indipendenti” che saliranno sulle “curve” e tiferanno con quella foga che di anno in anno sta facendo cadere la credibilità del sistema dei media. Nautilus

Se per un minuto di gloria i vip insultano Salvini e Meloni. Da Tommaso Zorzi a La rappresentante di lista, passando per Elodie, sono iniziati gli insulti a Giorgia Meloni e Matteo Salvini in campagna elettorale. Francesca Galici  il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

Che molti artisti italiani siano esterofili non è una novità. Solo che l'effetto è quello degli eterni "wanna be" che non sono nemmeno in grado di copiare. A differenza di quanto fanno oltreoceano, dove i volti noti che scendono legittimamente in campo a sostegno dei loro politici preferiti portando per lo più contenuti e motivi per votarli, in Italia si limitano a una campagna d'odio degna di una scaramuccia da quinta elementare. "Lui è brutto, lei è cattiva", questo è il tenore degli ultimi messaggi social pubblicati, per esempio, da Tommaso Zorzi e da Elodie. Ci sono poi La rappresentante di lista, che nel loro mondo ideale vorrebbero impedire di trasmettere le loro canzoni, lanciando addirittura maledizioni.

"La nostra maledizione su Salvini": il delirio de La Rappresentante di Lista

La cantante pochi giorni fa ha voluto lanciare strali contro Giorgia Meloni, suo bersaglio preferito insieme a Matteo Salvini, forse allo scopo di raccogliere qualche like in più. E così, dal nulla, ha pubblicato un tweet: "A me sinceramente fa paura". Il riferimento di Elodie era a quello che lei pensava fosse il nuovo programma elettorale di Giorgia Meloni, senza accorgersi che, però, si stava aggrappando a un programma vecchio di 6 anni. Per altro, solo pochi giorni prima ospite in tv di Peter Gomez aveva parlato di fascismo in una discussione incentrata sul leader di Fratelli d'Italia.

"Idiota", "Rispondiamo col sorriso". E ora Zorzi insulta Salvini

Altro giro, altra corsa. È il turno di Tommaso Zorzi che dal nulla dà dell'idiota a Matteo Salvini su Twitter. Davanti all'insulto, il leader della Lega ha replicato senza colpo ferire, evitando di entrare il polemica con l'influencer, che però non ha gradito la replica. Magari pensava che Salvini stesse zitto mentre lui faceva il bello e il cattivo tempo, giocando all'influencer impegnato per avere un po' di like sui social. E davanti alla replica del leader della Lega, si è incattivito ancora di più e ha pubblicato un nuovo tweet: "Hai collezionato più figure barbine in politica tu che chiunque altro". Contenuti: zero.

Però, ci sono i campioni della settimana, il duo de La rappresentante di lista, che si è lamentato per l'utilizzo della loro canzone Ciao ciao da parte di un dj durante un comizio di Salvini. "La nostra maledizione sta per abbattersi su di te, becero abusatore di hit", si legge nel loro profilo ufficiale. Niente meno? Addirittura le maledizioni? Magari, prima di fare figuracce simili e di rendere gli esponenti di sinistra più vuoti di contenuti di quello che già sono, sarebbe meglio pensarci due o tre volte prima di fare tap per pubblicare un post.

   Elezioni 2022, Giorgia Meloni smaschera l'autocensura degli artisti: chi la pensa come noi non parla. Il Tempo il 07 settembre 2022

Negli ultimi tempi molti artisti e cantanti hanno fatto dichiarazioni contro Giorgia Meloni e il centrodestra. Tra quelle che hanno fatto più scalpore ci sono Elodie, Loredana Bertè e Levante. Senza contare lo scontro con Chiara Ferragni sulla delicata questione dell'aborto. «Tutti questi artisti li avete visti, secondo voi è possibile che in tutto il mondo dello spettacolo non ce ne sia uno che la pensa come noi, se c’è allora perché non parla - si è chiesta Giorgia Meloni parlando sul palco dell’Aquila - Forse perché sa che, se parla, le sue possibilità di crescita in quel mondo potrebbero ridursi. È questa la democrazia dei democratici ma non è la mia".

Poi un'altra frecciata rivolta direttamente a Enrico Letta e alla sua presunta patente di democrazia. «Nella vita ho altri problemi rispetto a farmi dare le patenti di democrazia da Enrico Letta - ha detto Meloni - Ho sentito in questa campagna elettorale una serie di cose surreali". 

"La Meloni? Violenta e poco donna": Elodie non perde il vizio di insultare. Giorgia Meloni parla "come un uomo del 1922", è "violenta" e "poco donna": così Elodie definisce la leader di FdI. E se queste parole fossero state rivolte a una donna di sinistra? Francesca Galici il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

Ormai, non è più una novità. Sono ormai mesi che Elodie, quasi a ogni occasione disponibile, non manca occasione di attaccare Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che lei risponde alle domande che le vengono poste dai giornalisti. Ed è vero. Ma se lei non avesse in passato parlato in un certo modo di politica, esponendosi con prese di posizione nette, oggi i giornalisti la intervisterebbero sulla sua musica e non capiterebbe che, a ogni intervista, le venissero fatte domande sui leader di centrodestra. Anche durante la Mostra del cinema di Venezia, Elodie ha trovato il modo di attaccare Giorgia Meloni, in quello che per lei sembra essere diventato uno scontro personale.

Stavolta, Giorgia Meloni è stata paragonata a "un uomo del 1922" dalla cantante, che l'ha definita "poco donna", rispondendo a un giornalista che le chiedeva un suo parere sulle parole di Hillary Clinton pochi giorni fa, rilasciate proprio dalla città lagunare. Se c'è una cosa che di Hillary Clinton non si può dire è che l'ex segretario di Stato americano sia vicino alle posizioni di Fratelli d'Italia. Hillary Clinton è uno dei più importanti esponenti del Partito democratico americano ma, nonostante questo, si è espressa positivamente nei confronti di Giorgia Meloni, senza alimentare il clima d'odio con argomentazioni banali e, da un certo punto di vista, anche offensive. "L'elezione della prima premier in un Paese rappresenta sempre una rottura col passato, ed è sicuramente una buona cosa. Però poi, come per ogni leader, donna o uomo, deve essere giudicata per quello che fa. Non sono mai stata d'accordo con Margaret Thatcher, ma ho ammirato la sua determinazione. Chiaramente poi si votano le idee", ha detto l'ex segretario di Stato.

Quell'ossessione per la Meloni. La calda estate dei radical chic da Scurati a Elodie

Un discorso maturo quello di Hillary Clinton, soprattutto democratico e rispettoso del politico. Il rispetto dell'avversario politico, invece, sembra essersi completamente annebbiato nel nostro Paese, non solo tra i gli artisti che vorrebbero essere considerati come dei maitre a penser politici, ma dagli stessi politici. Quel che è ancora più grave è che l'avvelenamento dei pozzi di questa campagna elettorale da parte degli esponenti della sinistra probabilmente nasce proprio dalla volontà dei politici di imitare gli artisti che, con le loro invettive, raccolgono consensi sul web. "È incredibile che una donna parli come un uomo del 1922, questo è il problema. Una donna, una madre, dovrebbe avere un'attenzione per i diritti e dovrebbe capire che ci sono da sempre situazioni complesse dal punto di vista femminile. È incredibile come sia violenta e come sia poco donna", ha detto Elodie. Tralasciando ogni altra considerazione, superflua davanti al fatto che la leader di Fratelli d'Italia venga definita "poco donna", è evidente che Elodie non conosca la storia, se dice che la leader di Fratelli d'Italia "parla come un uomo del 1922". Domanda retorica: cosa sarebbe accaduto se a essere definita così fosse stata un'esponente politica della sinistra?

La sede Dem divisa con i 5 stelle. Politiche, gran confusione sotto il cielo di Avetrana. La Redazione de La Voce di Manduria mercoledì 7 settembre 2022.

“Scegli” Enrico Letta ed il PD o “dalla parte giusta” di Conte (il Giuseppe di Volturana Appula e non il Luigi di Avetrana) ed i 5 Stelle? Ad Avetrana sembra che questo dilemma della prossima campagna elettorale non sia stato risolto e, nel dubbio, dalla centralissima sede del Partito Democratico di piazza Giovanni XXIII, si invita tramite i manifesti (che potete vedere in foto allegata all’articolo) a votare o per l’uno o per l’altro, come se non facesse differenza alcuna, come se “uno valesse l’altro”.

Peccato, però, che Partito Democratico e Movimento 5 Stelle siano impegnati in campagna elettorale in liste (e relative posizioni politiche) nettamente separate, anzi su molti temi (sull’agenda Draghi o sulla guerra in Ucrania ad esempio) addirittura agli antipodi. Una situazione alquanto bizzarra che sta creando, ovviamente, estrema confusione negli elettori avetranesi, specialmente quelli poco avvezzi ai movimenti “intestini” (è il caso di dire…) di una certa politica locale che, come in questo caso, rischia sovente di sfociare nel ridicolo se non proprio nel comico.

E chissà invece cosa ne penseranno ai piani alti del PD, dove forse sperano che la candidata manduriana al Senato, Maria Grazia Cascarano, possa realmente giocarsi l’elezione nel collegio tarantino dove il centrodestra le ha contrapposto una candidata cooptata dalla provincia di Bari (ovviamente sconosciuta agli avetranesi): in una partita nella quale forse a fare la differenza potrebbero essere una manciata di preferenze. Quegli stessi voti preziosi che potrebbero disperdersi a causa di questi comici siparietti di paese ai quali Avetrana ci sta ormai abituando negli ultimi anni. ”Grande è la confusione sotto il cielo”, affermava Mao Zedong, “quindi la situazione è eccellente!”. Per qualcuno, almeno. Gabrio Distratis

Il discorso di saluto di Draghi, ai giornalisti: “avete svolto un servizio straordinario ai cittadini”.  Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Ottobre 2022 

Un servizio straordinario reso "alla democrazia italiana perché «siete una stampa libera ed avete avuto dal presidente del Consiglio — ha voluto evidenziare Mario Draghi — il rispetto che si deve ad una stampa libera, rispondendo alle vostre domande al meglio possibile, con la massima sincerità e chiarezza. Questo è anche un segno di profondo rispetto nei confronti della stampa".

Nel suo discorso di saluto il presidente del Consiglio uscente Mario Draghi ha voluto rivolgere “due parole di ringraziamento veramente sentito” ai giornalisti accreditati presso Palazzo Chigi, incontrati a pochi giorni dalla fine del suo mandato. “Voi — ha detto il presidente Draghi — in questi 20 mesi, con tutte le difficoltà che ci sono state, dalla pandemia alla guerra, avete svolto un servizio straordinario ai cittadini, aiutandoli a seguire e comprendere quanto avviene nel palazzo, che spesso viene visto come misterioso“. 

Un servizio straordinario reso “alla democrazia italiana perché «siete una stampa libera ed avete avuto dal presidente del Consiglio — ha voluto evidenziare Mario Draghi — il rispetto che si deve ad una stampa libera, rispondendo alle vostre domande al meglio possibile, con la massima sincerità e chiarezza. Questo è anche un segno di profondo rispetto nei confronti della stampa“. In questi mesi, ha poi concluso il presidente, vi è stata “una collaborazione piacevole anche dal punto di vista umano“.

Draghi ha ammesso pubblicamente di “aver imparato molte cose, è stata una esperienza straordinaria di cui sono molto contento. Finisce in modo molto soddisfacente, con la buona coscienza del lavoro fatto, che è la cosa più importante. Sono stati mesi straordinari”. 

E aggiunto ancora: “È stata una collaborazione piacevole anche dal punto di vista umano. Nessuno si aspettava che avremmo fatto tante conferenze stampa che duravano ore indefinite. Poi io venivo rimproverato perché non riuscivo a dire basta alle domande. Ringrazio anche tutto lo staff della comunicazione di Palazzo Chigi, anche per la campagna di comunicazione sul Pnrr, che è stata e sarà molto importante“.

Ora arriverà un nuovo presidente del Consiglio, che forse – ha fatto notare un cronista – non avrà la stessa sana abitudine dell’uscente di lasciare il palazzo il venerdì pomeriggio e rientrare il lunedì mattina. “Insomma, eravate contenti quando non c’ero”, ha scherzato Draghi.

Negli scatoloni finisce anche quella scattata ieri con lo staff del piano nobile di Palazzo Chigi: la portavoce Paola Ansuini, il capo di Gabinetto Antonio Funiciello, il sottosegretario Roberto Garofoli, il «media adviser» Ferdinando Giugliano, il segretario generale Roberto Chieppa, il consigliere diplomatico Luigi Mattiolo. 

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in vista del prossimo Consiglio Europeo di Bruxelles, ha ricevuto al Quirinale, nel corso della tradizionale colazione di lavoro, il Presidente del Consiglio dei Ministri, Mario Draghi, il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Di Maio, il Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, il Ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, il Ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roberto Garofoli. Saluti e abbracci, poi Draghi vola a Bruxelles per l’ultimo Consiglio europeo.

Game over Super Mario. Adolfo Spezzaferro su L'Identità il 21 Ottobre 2022.

L’ultimo atto di Mario Draghi presidente del Consiglio si consuma all’estero, dove lui è quasi più di casa che da noi: il Consiglio Ue sulla crisi del gas. Mentre la premier in pectore Giorgia Meloni deve ancora ricevere l’incarico dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il capo del governo uscente è con gli altri leader dei Paesi Ue al tavolo della trattativa sul price cap dinamico e sulle altre misure per arginare il carobollette e tamponare i danni causati all’economia dell’eurozona. Ma Super Mario, come tanti chiamano l’ex presidente della Banca centrale europea, è anche il signor Draghi, per l’appunto. Un signore che ha mostrato – persino lui, Mr. Whatever It Takes – limiti e debolezze.

Si congeda dalla politica (per adesso o forse definitivamente, dipende da dove andrà e se l’incarico sarà di suo gradimento) tra alti e bassi, dopo aver guidato un governo effettivamente in emergenza continua. Sostenuto dalla più ampia maggioranza possibile, con il compito di provare a salvare l’Italia dai danni causati da restrizioni, chiusure e lockdown anti-Covid. Il tutto però nel pedissequo rispetto dei vincoli Ue sul bilancio. Con un occhio sempre rivolto ai conti pubblici, attento a non fare debito. Anche se servivano (e servono) decine di miliardi per proteggere famiglie e imprese dalla crisi (di cui ancora abbiamo visto soltanto i prodromi).

Celebrato come una sorta di uomo della Provvidenza, investito dell’onore-onere di salvare l’Italia da una politica inconcludente dopo aver salvato l’euro (e quindi l’Italia) da banchiere centrale, Draghi è stato l’uomo del deus ex machina Mattarella che doveva da super tecnico rimediare agli errori dei governi-pastrocchio Conte e Conte bis. Sappiamo come è andata. Sappiamo che ha fatto tutto bene, ma niente fuori dai paletti di Bruxelles. Non ha rischiato, non ha osato. E appena la più ampia maggioranza possibile ha vacillato non ha esitato ad abbandonare l’Italia al suo destino. Che poi è stato un bene per la democrazia: siamo tornati al voto e dopo oltre 10 anni gli italiani hanno espresso una chiara indicazione elettorale, facendo vincere la Meloni, primo premier donna della storia repubblicana.

Da banchiere ed economista Super Mario è al top da decenni, non ha quasi eguali. Ha un curriculum pazzesco e competenze a livelli siderali. Stimato e ascoltato per la sua autorità ed autorevolezza a livello globale, è tuttavia anche un uomo come tutti, con limiti e difetti. Un limite su tutti, quello di aver sottovalutato la politica parlamentare, i meccanismi dell’Aula, dando per scontato che la sua missione fosse più importante degli equilibri tra i partiti. Primo grave errore. Secondo errore, quasi fatale, è stato quello di voler andare a tutti i costi al Quirinale. Oggi possiamo dire che dopo la mancata elezione, Draghi si è indurito, mostrando sempre più palesemente un’insofferenza verso il Parlamento e la maggioranza che lo sosteneva.

Fino all’ultimo errore, che ha mostrato il limite più grande di tutti. Quando ha parlato a nome degli italiani, affermando in Aula che lui era premier anche e soprattutto perché sostenuto dai cittadini e che il suo compito era difendere il bene del Paese e che quindi il Parlamento doveva adeguarsi e continuare a sostenerlo senza se e senza ma. A quel punto la sua maggioranza ha staccato la spina al governo e ha ridimensionato il ruolo del “nonno al servizio delle istituzioni”. I toni duri, quasi arroganti, dell’ultimo discorso prima della mancata fiducia sembravano quelli del banchiere che impartisce ordini. Ma il Super Mario ome numero uno della Bce, in Parlamento era “soltanto” il premier. Il signor Draghi.

WHATEVER IT GAS. Alessio Gallicola su L'Identità il 21 Ottobre 2022. 

I suoi colleghi, capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, gli hanno dedicato un omaggio autentico, di quelli che si riservano a chi ha contribuito a scrivere un pezzo di storia. E lui, Mario Draghi, se n’è compiaciuto alla sua maniera, stringendo ancor di più il labbro che lo fa assomigliare a CGB Spender, l’uomo che fuma di X Files. Si è limitato a dire: “Dobbiamo portare avanti le nostre idee, perché hanno a cuore l’interesse europeo oltre che quello nazionale. La credibilità che abbiamo acquisito in questi anni è lo strumento migliore per ottenere i risultati a cui aspiriamo. E le alleanze che abbiamo stretto e che continuiamo a stringere ci convincono che siamo dalla parte giusta”. Nulla più, nessuna concessione alle emozioni, banchiere fino al midollo. D’altronde, lo dice la storia, è questo il ruolo che più gli si addice. E tutti, dalla von der Leyen in giù, glielo riconoscono, al di là delle postazioni che occupano al tavolo europeo, sempre più drammaticamente diviso sulle decisioni da prendere per fronteggiare la crisi del gas.

Anche perché, quando il gioco si fa economico, gli economisti cominciano a giocare. E lui nel settore è un punto di riferimento, da sempre, soprattutto da quando, era il 26 luglio 2012, da presidente della Bce pronunciò quella famosa locuzione, “whatever it takes”, tradotta in “tutto ciò che è necessario”, oppure “costi quel che costi”, che diede il “la” alla battaglia, poi vinta, contro la crisi del debito sovrano.

Pure quella in corso è una battaglia, per alcuni la madre di tutte le battaglie per la sopravvivenza dell’idea di Unione Europea, minata alle fondamenta da una crisi sempre più complessa e dalle conseguenti divisioni dei Paesi membri. Per risolverla, occorre abbassare la tensione ma soprattutto far scendere di parecchio il prezzo del gas, minaccia per famiglie e imprese europee. La soluzione? Il price cap europeo. Un tetto al prezzo stabilito dall’Europa. Draghi lo ha proposto mesi fa, da allora ne parlano tutti, con accenti diversi, dal primo dei capi di Stato all’ultimo dei taxisti di Bruxelles. Ma di decisioni neanche l’ombra.

Oggi, però, è il momento. Ora o mai più. Il Consiglio Europeo è stato convocato appositamente, bisogna uscire con una decisione pratica, che aiuti davvero cittadini e imprese in difficoltà, ma anche politica, che lanci una scialuppa di salvataggio a chi è ancora intenzionato a credere nell’Unione. Le premesse sono tutt’altro che rosee, Orbàn è solo la punta dell’iceberg che marcia compatto verso il “no” al price cap, con l’altro capitano Scholz, il cancelliere tedesco, che appena arrivato ha confermato la sua preoccupazione: un tetto concordato potrebbe provocare come effetto che i produttori si rivolgano altrove per vendere il loro gas e l’Europa resti a secco.

DUE PAROLE

E allora, che si fa? Due parole: price cap. E non perché sia la panacea di tutti i mali, ma per un motivo legato più alla percezione che alla realtà. Con i mercati funziona così: basta evocare una scelta per capire come tira il vento. Esattamente ciò che è successo con il tetto: appena l’Ue ha lanciato messaggi di unità sul tema, i mercati si sono placati. Risultato? Ieri il famigerato Ttf, la Borsa di Amsterdam, quotava il gas a 118 euro al megawattora, meno di metà del picco raggiunto il 26 agosto, quando era arrivato a sfiorare i 350 euro. Esattamente come era successo con il Next Generation Eu, quando la speculazione era stata costretta a fare marcia indietro di fronte alla compattezza di Bruxelles.

LA STRATEGIA

Ecco perché il gruppo dei favorevoli, guidato da Draghi, spinge per l’applicazione del tetto. “Abbiamo visto un calo dei prezzi, quindi alla fine dei conti un tetto potrebbe anche non essere necessario”, dicono. Finalmente si dirada la nebbia sulla strategia Draghi: per orientare i mercati, basta la parola. Poi, anche se i fatti non seguono, pazienza. D’altronde, ha spiegato l’ex Supermario ai colleghi leader europei, avevo fatto lo stesso col “whatever it takes”. Allora bastò pronunciare quell’espressione per scoraggiare la speculazione. I mercati mostrarono di credere alle parole del presidente della Bce e il famoso “bazooka” non fu mai usato. Pochi lo ricordano ma purtroppo la memoria, tecnicamente “la capacità del cervello di conservare informazioni”, non è patrimonio di tutti. In ogni caso, la mediazione si giocherà ancora una volta sulle parole. In inglese si chiama “wording”. Sedici Paesi, tra cui l’Italia, vorrebbero che le conclusioni di oggi si basassero su un documento più assertivo sul tetto. L’attuale formulazione è che il Consiglio Europeo ha concordato di “esaminare un tetto temporaneo e dinamico ai prezzi del gas naturale”. La prima bozza, invece di “esaminare”, riportava il termine “esplorare”. E già il cambio di verbo è bastato a dimezzare il prezzo. Se ora, si ragiona, potessimo usare addirittura “proporre”, che significa dare un mandato forte alla Commissione affinché si muova, chissà cosa potrebbe succedere. Magari il miracolo di un prezzo del gas che continua a rotolare all’ingiù. E di un’Europa che riprende a credere in se stessa.

Il saluto commosso dell’Europa. Draghi saluta Palazzo Chigi con l’ultimo colpo sul gas: “Arrivederci ragazzi”. Claudia Fusani su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

Non ci poteva essere un passaggio di consegne più “dolce” e rassicurante tra Mario Draghi e Giorgia Meloni: lasciare in eredità la soluzione politica e il pacchetto di norme per calmierare, finalmente, dopo otto mesi di battaglie, il prezzo del gas. L’ultimo atto di Draghi premier è stato un altro “whatever it takes”: prima ha minacciato di far saltare il tavolo del Consiglio europeo sul capitolo energia, poi ha spiegato per l’ennesima volta perché non potevano più esserci più rinvii e quale fosse l’unica strada da seguire.

Lo ha fatto nell’ultima notte del suo ultimo Consiglio europeo. Non perché temesse un fallimento personale (e lo sarebbe stato) ma perché temeva il fallimento dell’Europa proprio adesso che deve fronteggiare la “minaccia” russa e del “nuovo ordine geopolitico” immaginato da Putin. Alla fine è stato ascoltato. Il cancelliere Scholz, che ha guidato in questi mesi il fronte del no con Olanda, Austria e Irlanda, gli ha riconosciuto “la costanza con cui hai portato avanti le tue ragioni, Mario. Hai vinto”. I 27 avranno un prezzo calmierato del gas, avranno anche aiuti (con un nuovo fondo Sure oppure usando altri fondi non spesi) per pagare la differenza tra prezzo concordato e quello di mercato. Dovranno fare acquisti comuni almeno per il 15% del fabbisogno.

È un pacchetto di misure che Draghi può permettersi di consegnare nelle mani del nuovo governo. “Io non do consigli al futuro premier” ha detto poi ai giornalisti italiani in quella che è stata la sua ultima conferenza stampa da premier in una sala affollata e anche amareggiata di perdere questo premier. “Preferisco – ha aggiunto – offrire la testimonianza di ciò che ho fatto”. Fatti e non parole, secondo il tradizionale pragmatismo. “Da settimane tutti i ministri stanno curando un dossier non solo con le cose fatte ma, soprattutto, con quelle che devono essere fatte per raggiungere gli obiettivi. Sarà una transizione serena ed informata”. Tra questo il pacchetto di norme per calmierare il prezzo del gas che ieri, solo per l’annuncio dell’accordo raggiunto, ha perso il 10%, siamo a 116 quando in agosto aveva toccato 350 euro per mgw.

“La dimostrazione di quanta speculazione c’è stata su questo fronte” ha sottolineato il premier ricordando di aver sollecitato le stesse misure ottenute nella notte per la prima volte a marzo scorso. “Mi dissero allora che non era previsto, che era impossibile. Avevano ragione noi. È stato duro, faticoso, a volte frustante, devo ringraziare tutto il governo per questo e il personale diplomatico. Avete visto? Ce l’abbiamo fatta”. Sorride Draghi, sorride molto. Sembra disteso. Poi chissà se sia un modo per camuffare le emozioni. Ce ne sono state tante in queste ultime 36 ore. Il rischio di fallire è stato altissimo. E non sarebbe stato sopportabile. Glissa sui momenti più duri della trattativa notturna.

La mette così: “C’è stata una presa di coscienza collettiva che doveva essere cambiato atteggiamento”. Fino alla cena c’erano tante proposte ma “solo in una direzione”: la condivisione degli stoccaggi e degli acquisti. È stato allora che ha picchiato i pugni sul tavolo: “Per molti paesi il problema non è avere il gas, l’Italia ad esempio lo ha. E come noi tanti altri (circa venti paesi erano schierati con l’Italia; contro Germania, Olanda, Irlanda, ndr). Quello che serve adesso senza perdere un minuto in più è la solidarietà rispetto ai prezzi”. Il pacchetto, precisa Draghi rispetto a qualche scetticismo che serpeggia nei resoconti di altre delegazioni, comprende “tutte le proposte fatte dall’Italia”: il corridoio per una fascia di prezzo rispetto alla quale non è possibile far oscillare il gas; il disaccoppiamento tra gas ed elettricità; il fondo comune europeo per mitigare i rincari su famiglie ed imprese.

“È scritto chiaro nelle conclusioni del documento finale, non c’è modo di equivocare, sono attese decisioni operative” insiste. È la decisione politica rincorsa da otto mesi. Adesso i tecnici devono fare la loro parte. Starà al nuovo governo seguire i lavori perché nulla si perda per strada. È convinto, Draghi, che le bollette “saranno molto presto più basse”. Mette tutto questo in quell’agenda sociale che rivendica di fronte a chi, spesso, lo ha accusato di “non fare nulla per i poveri”. Ogni riferimento a Conte e ai 5 Stelle non è casuale. “Siamo il paese che ha diversificato di più riducendo di 2/3 la dipendenza dalla Russia, abbiamo fatto un’ottima accelerazione sulle rinnovabili. Dato 66 miliardi a famiglie ed imprese senza fare debito né cambiare obiettivi di finanza pubblica. Con queste risorse, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, abbiamo dimezzato i rincari sui bilanci famigliari. Per le famiglie più povere, il peso dei rincari è stato ridotto del 90%”.

Lascia a Meloni e al nuovo governo anche “un’Europa più unità rispetto a quella che ho trovato”. Segue raccomandazione: la Ue unita è “fondamentale per la sicurezza e la prosperità degli stati membri. Nessuno può cambiare questo meno che mai l’Italia che deve restare al centro del processo europeo”. L’Italia perde Draghi. I mercati finanziari sentiranno la mancanza di Draghi? La domanda gli arriva in inglese, inaspettata. Ma gli fa piacere. “Non mi piacciono queste cose di nostalgia – premette – sono esagerate”. Giusto.

Sempre meglio guardare al futuro. Il video di saluti confezionato apposta per lui dal presidente Charles Michel, comincia con “whatever it takes” e finisce con “Arrivederci Mario”. Gli Stati Uniti lo vorrebbero alla guida della Nato. L’Europa lo vorrebbe alla guida della Commissione tra circa un anno quando scadrà il mandato di Ursula von der Leyen. Un bel pezzo di Italia lo vorrebbe al Quirinale. Mario Draghi ha saluto con la mano dicendo semplicemente “Arrivederci ragazzi e grazie a tutti”.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

SuperMario esce di scena in punta di piedi: è standing ovation. L'ultimo successo a Bruxelles sul price cap e prima di cedere il timone alla Meloni. L'emozione del saluto al picchetto d'onore e mistero sul futuro: "Chiedo a mia moglie". Stefano Zurlo il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Il picchetto d'onore. Le braccia alzate al cielo, nel saluto finale. E poi il lungo applauso che sigilla il suo congedo. Forma, ma pure molta sostanza per l'addio di Draghi a Palazzo Chigi. Si può dire anche così: Draghi fa Draghi fino all'ultimo secondo. Prima l'exploit, l'ultimo giorno utile, a Bruxelles: il premier convince Scholz e porta a casa il price cap sul gas, almeno a livello di intesa politica. Ci sarà da lavorare sul piano tecnico, ma la svolta c'è.

Poi l'avvicendamento con Giorgia Meloni: nessuno strappo, non c'è spazio per personalismi, non ci sono attimi di gelo e nemmeno momenti di tensione. Anzi, SuperMario accoglie lei con garbo: «Benvenuta». Poi i due si chiudono a colloquio per circa novanta minuti. Un record.

Molto si è fatto, ma c'è molto da fare. Questo il mantra di un periodo difficile, carico di problemi e di incognite. E proprio per questo la cerimonia dà l'idea di una continuità che non si era mai vista a queste latitudini. Il premier uscente consegna alla Meloni non solo la campanella, che lei riceve compunta, ma pure le carte. I dossier in progress, le pratiche in sospeso.

Una transizione ordinata, minuziosa, consapevole della mole di problemi che aleggia sull'Italia. Non a caso al meeting partecipano i due sottosegretari alla Presidenza del consiglio: Roberto Garofoli e Alfredo Mantovano, appena insediatosi. Poche parole. I fatti. Draghi lascia il posto ad una Meloni neodraghiana, almeno sul versante dell'impegno e della dedizione.

Se pensiamo ad altre staffette, vocabolo che qui assume un senso preciso, viene da sorridere: Enrico Letta che porge la campanella a Matteo Renzi voltandosi dall'altra parte è il paradigma di un atteggiamento che per fortuna è storia passata.

Oggi prevale l'Italia e bisogna dare atto a Draghi di aver interpretato la sua uscita di scena, sempre un momento complicato, con un'umiltà degna di una standing ovation.

Lui se ne va e parte il solito gioco sul domani dell'ormai ex capo del governo. Il protagonista ironizza: «Chiederò a mia moglie». Per ora, quello che si capisce è un no ad alcuni incarichi internazionali prestigiosi che sono stati accostati al suo nome: no al Consiglio europeo, no alla Commissione, no alla Nato. Draghi è candidato, almeno virtuale, ad una selva di poltrone, naturalmente di prima fila, un po' ovunque.

Ma al momento ogni decisione pare prematura: certo a 75 anni non andrà in pensione. Farà il nonno, ma solo part time, e si prenderà tutto il tempo necessario per scegliere al meglio. Non si può neppure escludere che il suo percorso incroci ancora quello delle istituzioni repubblicane: potrebbe essere, quando sarà, il successore di Sergio Mattarella.

Chissà. E si può ipotizzare che venga acclamato senatore a vita, vista la caratura della sua figura, davvero unica nel panorama europeo. Certo, con un esecutivo così forte, almeno sulla carta, non tornerà sulla prima linea della bagarre di Palazzo. «Si vedrà», glissano dal suo staff. La sua portavoce Paola Ansuini torna alla Banca d'Italia, Super Mario si dividerà fra Roma e Città della Pieve, dove ha trascorso tanti week end sommerso da pile di faldoni. Avrà, almeno per ora, più tempo per passeggiare.

In una domenica d'autunno lascia Palazzo Chigi salutato in modo smart dalla prima premier donna: «Ciao Mario». Poi scende le scale, seguendo una guida rossa: ecco gli onori militari e i battimani dei collaboratori affacciati alle finestre. Lui li ringrazia, con le braccia protese, quasi una benedizione laica e rapida, alla sua maniera. Prima di sparire, dopo venti mesi passati in prima pagina.

Il saluto commosso dell’Europa. Draghi saluta Palazzo Chigi con l’ultimo colpo sul gas: “Arrivederci ragazzi”. Claudia Fusani su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

Non ci poteva essere un passaggio di consegne più “dolce” e rassicurante tra Mario Draghi e Giorgia Meloni: lasciare in eredità la soluzione politica e il pacchetto di norme per calmierare, finalmente, dopo otto mesi di battaglie, il prezzo del gas. L’ultimo atto di Draghi premier è stato un altro “whatever it takes”: prima ha minacciato di far saltare il tavolo del Consiglio europeo sul capitolo energia, poi ha spiegato per l’ennesima volta perché non potevano più esserci più rinvii e quale fosse l’unica strada da seguire.

Lo ha fatto nell’ultima notte del suo ultimo Consiglio europeo. Non perché temesse un fallimento personale (e lo sarebbe stato) ma perché temeva il fallimento dell’Europa proprio adesso che deve fronteggiare la “minaccia” russa e del “nuovo ordine geopolitico” immaginato da Putin. Alla fine è stato ascoltato. Il cancelliere Scholz, che ha guidato in questi mesi il fronte del no con Olanda, Austria e Irlanda, gli ha riconosciuto “la costanza con cui hai portato avanti le tue ragioni, Mario. Hai vinto”. I 27 avranno un prezzo calmierato del gas, avranno anche aiuti (con un nuovo fondo Sure oppure usando altri fondi non spesi) per pagare la differenza tra prezzo concordato e quello di mercato. Dovranno fare acquisti comuni almeno per il 15% del fabbisogno.

È un pacchetto di misure che Draghi può permettersi di consegnare nella mani del nuovo governo. “Io non do consigli al futuro premier” ha detto poi ai giornalisti italiani in quella che è stata la sua ultima conferenza stampa da premier in una sala affollata e anche amareggiata di perdere questo premier. “Preferisco – ha aggiunto – offrire la testimonianza di ciò che ho fatto”. Fatti e non parole, secondo il tradizionale pragmatismo. “Da settimane tutti i ministri stanno curando un dossier non solo con le cose fatte ma, soprattutto, con quelle che devono essere fatte per raggiungere gli obiettivi. Sarà una transizione serena ed informata”. Tra questo il pacchetto di norme per calmierare il prezzo del gas che ieri, solo per l’annuncio dell’accordo raggiunto, ha perso il 10%, siamo a 116 quando in agosto aveva toccato 350 euro per mgw.

“La dimostrazione di quanta speculazione c’è stata su questo fronte” ha sottolineato il premier ricordando di aver sollecitato le stesse misure ottenute nella notte per la prima volte a marzo scorso. “Mi dissero allora che non era previsto, che era impossibile. Avevano ragione noi. È stato duro, faticoso, a volte frustante, devo ringraziare tutto il governo per questo e il personale diplomatico. Avete visto? Ce l’abbiamo fatta”. Sorride Draghi, sorride molto. Sembra disteso. Poi chissà se sia un modo per camuffare le emozioni. Ce ne sono state tante in queste ultime 36 ore. Il rischio di fallire è stato altissimo. E non sarebbe stato sopportabile. Glissa sui momenti più duri della trattativa notturna.

La mette così: “C’è stata una presa di coscienza collettiva che doveva essere cambiato atteggiamento”. Fino alla cena c’erano tante proposte ma “solo in una direzione”: la condivisione degli stoccaggi e degli acquisti. È stato allora che ha picchiato i pugni sul tavolo: “Per molti paesi il problema non è avere il gas, l’Italia ad esempio lo ha. E come noi tanti altri (circa venti paesi erano schierati con l’Italia; contro Germania, Olanda, Irlanda, ndr). Quello che serve adesso senza perdere un minuto in più è la solidarietà rispetto ai prezzi”. Il pacchetto, precisa Draghi rispetto a qualche scetticismo che serpeggia nei resoconti di altre delegazioni, comprende “tutte le proposte fatte dall’Italia”: il corridoio per una fascia di prezzo rispetto alla quale non è possibile far oscillare il gas; il disaccoppiamento tra gas ed elettricità; il fondo comune europeo per mitigare i rincari su famiglie ed imprese.

“È scritto chiaro nelle conclusioni del documento finale, non c’è modo di equivocare, sono attese decisioni operative” insiste. È la decisione politica rincorsa da otto mesi. Adesso i tecnici devono fare la loro parte. Starà al nuovo governo seguire i lavori perché nulla si perda per strada. È convinto, Draghi, che le bollette “saranno molto presto più basse”. Mette tutto questo in quell’agenda sociale che rivendica di fronte a chi, spesso, lo ha accusato di “non fare nulla per i poveri”. Ogni riferimento a Conte e ai 5 Stelle non è casuale. “Siamo il paese che ha diversificato di più riducendo di 2/3 la dipendenza dalla Russia, abbiamo fatto un’ottima accelerazione sulle rinnovabili. Dato 66 miliardi a famiglie ed imprese senza fare debito né cambiare obiettivi di finanza pubblica. Con queste risorse, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, abbiamo dimezzato i rincari sui bilanci famigliari. Per le famiglie più povere, il peso dei rincari è stato ridotto del 90%”.

Lascia a Meloni e al nuovo governo anche “un’Europa più unità rispetto a quella che ho trovato”. Segue raccomandazione: la Ue unita è “fondamentale per la sicurezza e la prosperità degli stati membri. Nessuno può cambiare questo meno che mai l’Italia che deve restare al centro del processo europeo”. L’Italia perde Draghi. I mercati finanziari sentiranno la mancanza di Draghi? La domanda gli arriva in inglese, inaspettata. Ma gli fa piacere. “Non mi piacciono queste cose di nostalgia – premette – sono esagerate”. Giusto.

Sempre meglio guardare al futuro. Il video di saluti confezionato apposta per lui dal presidente Charles Michel, comincia con “whatever it takes” e finisce con “Arrivederci Mario”. Gli Stati Uniti lo vorrebbero alla guida della Nato. L’Europa lo vorrebbe alla guida della Commissione tra circa un anno quando scadrà il mandato di Ursula von der Leyen. Un bel pezzo di Italia lo vorrebbe al Quirinale. Mario Draghi ha saluto con la mano dicendo semplicemente “Arrivederci ragazzi e grazie a tutti”.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'U

Da leggo.it il 28 novembre 2022.  

Cos'è successo davvero il 20 luglio scorso, quando il governo Draghi ha perso il sostegno della sua maggioranza e l'ormai ex premier è salito al Quirinale per dimettersi? La verità su quello che in tanti si sono chiesti negli ultimi mesi, per ciò che è stato definito "draghicidio", emerge ora dal nuovo libro di Roberto Napoletano, Riscatti e ricatti, in cui il giornalista - ex direttore di Messaggero e Il Sole 24 Ore - racconta le ultime ore del governo dell'ex governatore della Bce e le sfide che il nuovo governo, guidato da Giorgia Meloni, dovrà affrontare.

La realtà descritta da Napoletano, di quel caldo giorno di luglio, sembra una puntata di un serial tv: più vicino a Game of Thrones che House of Cards. 

Decisivo un pranzo a Villa Grande tra Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi, senza uno dei fedelissimi del Cavaliere, Gianni Letta, suo storico consigliere e per anni sottosegretario a Palazzo Chigi negli anni dei suoi governi. Letta era contrario alla crisi, e la sua assenza è emblematica di quello che sta succedendo.

«C'è un'assenza vistosa che stranamente non viene segnalata dai cronisti della politica italiana, così ghiotti di ogni fantasioso retroscena, ma evidentemente incapaci di guardare e raccontare la scena neppure quando parla da sola», scrive Napoletano nel suo libro, si legge in un estratto pubblicato oggi dal Corriere della Sera. 

 «L'assenza davvero vistosa è quella di Gianni Letta, l'ombra di Berlusconi ovunque, suo storico sottosegretario a Palazzo Chigi in tutti i suoi governi, l'amico fidato e l'uomo che non è mai mancato nelle decisioni politiche e personali che contano del Cavaliere. 

Una fonte autorevole ben addentro alle vicende del centrodestra mi ha chiamato mentre la tv continuava a riprendere Villa Grande e la folla di partecipanti riunita attorno a Berlusconi. "Hai capito che cade il governo, vero? Hai visto che Letta non c'è, non è stato convocato, e questo vuol dire che la decisione di Berlusconi è stata presa"».

Un'assenza decisiva dunque. I motivi, al giornalista, li spiega proprio Letta: «Ci eravamo già visti tante volte, l'ultima la sera prima. Di discussioni ne avevamo fatte tante e mi era parso chiaro che non tutti gravidano le mie osservazioni, le ragioni e i dubbi che prospettavo, e allora ho detto a Silvio: la mia posizione la conosci. Sai che sono contrario, contrarissimo alla crisi, e sai anche perché. Riflettici, riflettici seriamente».

Il resto è storia: Letta non va a quel pranzo, Forza Italia, M5S e Lega tolgono il sostegno a Draghi, il governo cade e si va alle elezioni, con la vittoria del centrodestra dello scorso 25 settembre. «Il prezzo che pagheranno l'Italia e gli italiani dei calcoli, che potrebbero rivelarsi sbagliati, di Conte, Salvini e Berlusconi è alto e lo si capirà bene non subito - scrive Napoletano - L'assurdo è che tutto ciò avviene quando siamo all'apice della ripresa economica, quando siamo in presenza di un picco massimo di crescita e di credibilità, per cui il mondo comincia a pensare che stiamo diventando un paese serio».

Da “La Stampa” il 29 novembre 2022. 

Pubblichiamo un brano dell’ultimo capitolo de “L’inquilino” (Feltrinelli) di Lucia Annunziata, in cui si racconta la mancata elezione di Mario Draghi al Quirinale e la caduta del governo. 

Chi parla fa parte del gruppo di uomini che l’allora presidente del Consiglio Draghi si era portato a Palazzo Chigi 

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E il caso Belloni come lo hai valutato? «Mi mancano dei pezzi. Lei è bravissima, io sono molto di parte con lei. Lo ammetto perché sono molto affezionato a Elisabetta. Penso sia tra le cinque persone migliori di questo Paese». Forse è stato un errore metterla lì? «Elisabetta Belloni al Dis è stata una delle migliori scelte del governo Draghi: Elisabetta sarà la grande riformatrice e modernizzatrice dei Servizi e risolverà uno dei nodi più complessi del sistema-Paese.

Se fosse rimasta alla Farnesina, avrebbe forse dato meno pretesti ai suoi avversari per non volerla al Quirinale, ma comunque non sarebbe bastato, e al Colle lei non sarebbe ascesa: l’odio che alcuni hanno verso di lei precede il suo arrivo al Dis. Noi l’accettavamo volentieri, eh. Ma era una candidatura fragile. Forza Italia non la voleva». 

Come viene fuori il nome? «Viene fuori sull’asse Salvini-Conte, più Conte che Salvini. Essendo questo l’ennesimo paradosso di questo personaggio incredibile. Perché quando noi togliamo Vecchione e mettiamo la Belloni, io mi ricordo le urla di Conte al telefono. Le urla».

«Comunque lasciamo perdere, quella roba lì nasce male, la roba di Elisabetta è subito fragile. Poi Renzi come al solito… Renzi avrebbe voluto eleggere Casini, lui era straconvinto di eleggere Casini». Sì, e il venerdì ci vanno molto vicini. 

«Sabato mattina fanno le riunioni per eleggerlo, quando Draghi e Mattarella si sono già parlati. C’è un momento che è divertente. Draghi torna qui sabato mattina e chiama i leader per dirgli che bisogna salvare la maggioranza, il Paese, e bisogna votare Mattarella. 

Nel frattempo Renzi faceva le riunioni con Franceschini per votare Casini. Sono due esplorazioni simultanee. Volevano votare Casini la mattina, portava 200 voti, e lanciarlo in quella del pomeriggio. A quel punto tutto un pezzo di destra disordinata dice: “Noi mettiamo Draghi”, così fra Draghi e Casini alla fine vince Draghi. 

Pero Draghi aveva già capito. Di quella settimana complicata, in cui noi usciamo sconfitti, la coda la gestiamo però molto bene. Perché non cadiamo nell’illusione di poter rientrare in gioco e gestiamo un’uscita ordinata, che è quella che ci consente di rimanere qua». 

Quindi martedì Draghi era ancora in ballo, mercoledì capite che è finita. «Tra martedì e mercoledì. Già martedì sera era come se già lo sapessimo. Perché dopo due giorni Salvini non dice nulla. Mercoledì è chiaro che questa roba non sta più in piedi. Due giorni da incubo. Perché incubo? Perché vediamo che c’è un tentativo di distruggere Draghi, cioè di fare una cosa contro Draghi. Quindi iniziano due giorni pesanti da mercoledì pomeriggio».

Voi non ve lo aspettavate? «Alcune cose non le avevamo viste. Primo, l’asse Salvini-Conte, che sapevamo esistere ma non sapevamo che fosse uno degli assi prevalenti. Questo è uno. Secondo, il comitato Casini. Il comitato Casini è stato affascinante, devo dire, perché è stato l’unico barlume di politica di questa settimana. 

Casini era il vero attacco a Draghi. E sono stati bravissimi. Mentre in Parlamento non è mai stato così forte, Casini a un certo punto è cresciuto moltissimo sui giornali, in televisione. Alla fine poteva spuntarla, e sarebbe stata una cosa contro Draghi. Quello era lo sfondamento, il commissariamento di Draghi. Era la vecchia politica, la Prima Repubblica. Insomma, tra mercoledì pomeriggio e venerdì mattina c’è il timore di prendere una sberla…».

Lui di che umore era su questo? «Cattivo. I giorni immediati sono stati brutti». Invece quando è cominciata l’uscita? «Venerdì, venerdì pomeriggio». Infatti lui venerdì andò a casa abbastanza presto. Mi pare venerdì pomeriggio. Si era capito che ci si poteva salvare. Lui è stato bravo perché non ha ceduto alla tentazione di rientrare in gioco, perché non sarebbe rientrato in gioco». 

Avete poi fatto una riunione su questo risultato? «No, chiacchiere. Parlavamo tantissimo. Quello è stato il punto di svolta in cui ci siamo trovati. Poi vediamo se andremo avanti in questo governo bizzarro. Pero quello è stato il momento della svolta. Ci siamo sentiti tutti i giorni».

Game over. Torniamo a quel momento. «A un certo punto, venerdì già in mattinata, ma fu chiarissimo il pomeriggio, abbiamo avuto la prova che Salvini non è che stava fregando noi, Salvini stava fregando se stesso. Non riusciva. Sai quando comincia a dire Cassese, Massolo, era evidente che non c’era più nessuno che dava le carte. Il mazziere aveva perso il mazzo». 

E Letta si è comportato abbastanza bene? «Sì, si è comportato bene perché non ha mai detto no. Letta era per tutti i nomi fuorché la Casellati. Tutti. Cioè Amato, Casini, Belloni. Tutti. Cassese. Tutti. Tutti i nomi che uscivano, lui diceva di sì. A parte la Casellati. Tant’è che sulla Belloni lui è rimasto spiazzato perché a un certo punto gli si è scatenato il partito contro». Stiamo parlando di Letta Letta? «Sì. In questa partita c’è stato solo un Letta, perché all’altro Letta, Gianni, non hanno fatto toccare palla».

Sottrarre Gianni Letta al negoziato ha significato nei fatti eliminare la possibilità di costruire davvero un confronto fra parti, se non una mediazione. Il mio interlocutore non risponde direttamente. Ma risponde, non evita la questione. «Gli è stata inibita la possibilità di parlare con Berlusconi. Gianni Letta non ha parlato con Berlusconi in quei giorni ed è uscito completamente fuori dai giochi. Per Forza Italia hanno giocato Tajani e Ronzulli». 

Silenzio. Pesa la domanda. Sul futuro. La domanda sulla fine.

«Io non sono ottimista, ma il voi non è ancora maturo qua. Io non ho ancora capito bene il presidente che cosa vede. Il presidente non vuole essere logorato e non vuole intestarsi una sconfitta sul Pnrr. Io sono manifestamente pessimista perché mi pare che questi signori… i gruppi dirigenti dei partiti sono convinti che quale che sia lo sviluppo della situazione, si salveranno. È la pulsione di morte freudiana, proprio quella al di là del principio di piacere, che li anima fortissimo. L’istinto. Cioè a loro non gliene frega niente del Pnrr. Loro non sopportano di non poter gestire il potere. Loro sono stati estromessi quest’anno dalla gestione del potere. L’idea di non toccare palla su Fincantieri, Invitalia, Snam ecc.». 

Adesso comincia la stagione delle nomine… «È cominciata. A fine marzo. Li fa impazzire».

«Sai, dopo le elezioni ci sarà l’Eni, l’Enel, Leonardo, Poste e tante altre. Quindi sarà un problema capire quando piazzi le elezioni. Perché ammesso e non concesso che questo governo vada avanti e non si voti prima, se voti l’anno prossimo… Io sono pessimista, non vedo le condizioni affinché questi ci vengano dietro. Su certe cose non possiamo non chiudere tassativamente perché verremmo meno a degli impegni presi sul Piano. Faccio l’esempio del Pnrr, se a giugno non soddisfa gli accordi presi, invece di darti tot miliardi, te ne danno il 20 per cento in meno». 

Ma Draghi ha davvero intenzione di lavorare ora un po’ più con il Parlamento e i leader politici? 

«Lui secondo me è sincero in questo. Questo lo abbiamo fatto. Il governo è andato sotto sull’Ilva, ma quella è una questione parlamentare. E una questione politica».

Il draghicidio. Gianni Letta rivela che Berlusconi aveva deciso di far cadere il governo Draghi prima di Conte. Linkiesta il 28 Novembre 2022

Nel libro “Riscatti e ricatti” (La Nave di Teseo), lo storico consigliere del Cavaliere racconta a Roberto Napoletano che prima del vertice a Villa Grande del 20 luglio il leader di Forza Italia aveva già scelto di non votare la fiducia al presidente del Consiglio

LaPresse

Silvio Berlusconi aveva deciso di far cadere il governo Draghi prima del pranzo a Villa Grande del 20 luglio in cui fu dato l’ordine ai parlamentari di Forza Italia di astenersi al voto di mozione su cui il presidente del Consiglio aveva posto la questione di fiducia. Di fatto, causando la crisi di governo ben prima del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte. Berlusconi aveva in mente l’idea da giorni, se non settimane, e l’unico tra i suoi fedelissimi che ha provato a convincerlo dell’irresponsabilità di questa decisione è stato Gianni Letta.

A rivelarlo è il giornalista Roberto Napoletano che nel suo libro "Riscati e ricatti” (La Nave di Teseo) racconta nel dettaglio cosa successe questa estate: “Una fonte autorevole ben addentro alle vicende del centrodestra mi ha chiamato mentre la tv continuava a riprendere Villa Grande e la folla di partecipanti riunita attorno a Berlusconi. «Hai capito che cade il governo, vero? Hai visto che Letta non c’è, non è stato convocato, e questo vuol dire che la decisione di Berlusconi è stata presa». 

In quel pranzo c’erano tutti i fedelissimi del Cavaliere, da Antonio Tajani a Marta Fascina, compresi gli alleati del centrodestra di governo: Matteo Salvini, Maurizio Lupi e Lorenzo Cesa. Tutti, tranne il consigliere più fidato di Berlusconi.

Come si legge nel libro, il Cavaliere non ascoltò il consiglio di Letta e decise invece di cogliere l’attimo, approfittando dell’errore politico di Giuseppe Conte che il 14 luglio aveva fatto astenere i parlamentari grillini sul voto al “decreto legge Aiuti”, innervosendo Draghi. Invece di sostenere il Governo, il leader di Forza Italia ha affondato il colpo, approfittando dell’errore politico di Conte, e innescando la crisi che portò il giorno dopo le dimissioni del presidente del Consiglio.

"Ho sentito Gianni Letta e mi ha chiarito subito il giallo. Anzi, mi ha detto che non c’è nessun giallo – si legge nel libro di Napoletano – «Ci eravamo già visti tante volte, l’ultima la sera prima. Di discussioni ne avevamo fatte tante e mi era parso chiaro che non tutti gradivano le mie osservazioni, le ragioni e i dubbi che prospettavo, e allora ho detto a Silvio: la mia posizione la conosci. Sai che sono contrario, contrarissimo alla crisi, e sai anche perché. Riflettici, riflettici seriamente. Pensaci ancora questa notte, e poi, se non ritieni che le mie valutazioni siano convincenti, e neppure i dubbi e i pericoli che ti ho prospettato, allora è inutile che venga». Non ci sono stati ripensamenti, perché il dado era tratto".

Roberto Napoletano, Riscatti e ricatti (La Nave di Teseo)